Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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(pagine) GIANGRANDE LIBRI
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
L’ACCOGLIENZA
PRIMA PARTE
GLI AMERICANI
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
I Muri.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come i belgi.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
Quei razzisti come i cechi.
Quei razzisti come gli ungheresi.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i maltesi.
Quei razzisti come i greci.
Quei razzisti come i serbi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i libici.
Quei razzisti come i congolesi.
Quei razzisti come gli ugandesi.
Quei razzisti come i nigeriani.
Quei razzisti come i ruandesi.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come gli israeliani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i sudafricani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come i qatarioti.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli iracheni.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i singalesi.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i sud coreani.
Quei razzisti come i filippini.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Kennedy: Le Morti Democratiche.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come gli haitiani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i cileni.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come gli argentini.
Quei razzisti come gli australiani.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Fredda.
La Variante Russo-Cinese-Statunitense.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.
I LADRI DI NAZIONI.
CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.
I SIMBOLI.
LE PROFEZIE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. PRIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SECONDO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TERZO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUARTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SESTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SETTIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. OTTAVO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. NONO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DECIMO MESE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE MOTIVAZIONI.
NAZISTA…A CHI?
IL DONBASS DELI ALTRI.
L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.
TUTTE LE COLPE DI…
LE TRATTATIVE.
ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.
LA RUSSIFICAZIONE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.
IL FREDDO ED IL PANTANO.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE VITTIME.
I PATRIOTI.
LE DONNE.
LE FEMMINISTE.
GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.
LE SPIE.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.
LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.
LA GUERRA ENERGETICA.
LA GUERRA DEL LUSSO.
LA GUERRA FINANZIARIA.
LA GUERRA CIBERNETICA.
LE ARMI.
INDICE NONA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA DETERRENZA NUCLEARE.
DICHIARAZIONI DI STATO.
LE REAZIONI.
MINACCE ALL’ITALIA.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
IL COSTO.
L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.
PSICOSI E SPECULAZIONI.
I CORRIDOI UMANITARI.
I PROFUGHI.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
I PACIFISTI.
I GUERRAFONDAI.
RESA O CARNEFICINA?
LO SPORT.
LA MODA.
L’ARTE.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
PATRIA BIELORUSSIA.
PATRIA GEORGIA.
PATRIA UCRAINA.
VOLODYMYR ZELENSKY.
INDICE TREDICESIMA PARTE
La Guerra Calda.
L’ODIO.
I FIGLI DI PUTIN.
INDICE QUATTORDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’INFORMAZIONE.
TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA.
INDICE QUINDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA PROPAGANDA.
LA CENSURA.
LE FAKE NEWS.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.
LA RUSSOFOBIA.
LA PATRIA RUSSIA.
IL NAZIONALISMO.
GLI OLIGARCHI.
LE GUERRE RUSSE.
INDICE DICIASSETTESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CHI E’ PUTIN.
INDICE DICIOTTESIMA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che…le Foibe.
Lo sterminio comunista degli Ucraini.
L’Olocausto.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Affari dei Buonisti.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli che…Porti Chiusi.
Il Caso dei Marò.
Che succede in Africa?
Che succede in Libia?
Che succede in Tunisia?
Cosa succede in Siria?
L’ACCOGLIENZA
PRIMA PARTE
GLI AMERICANI
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Quei razzisti come gli statunitensi.
Libertà vigilata per Anna Sorkin. "Ho imparato tanto quando ero in prigione…" Una svolta al caso della truffatrice di New York. Anna Sorkin è ora in libertà vigilata e pensa a un podcadst e un libro sulla sua esperienza in galera. Carlo Lanna il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Di professione era una party girl e una donna influente che si muoveva con agilità all’interno della borghesia di New York. In realtà Anna Sorkin non era proprio nessuno. Ha truffato tutti lì nella Grande Mela e, una volta finita in prigione, il suo caso è rimbalzato sul web come una scheggia impazzita. Tanto è vero che nel 2021, proprio sulla vicenda di Anna Sorkin, Shonda Rhimes ha costruito e realizzato una serie per Netflix (ispirata a un articolo di giornale) che è diventata un successo di pubblico. Inventing Anna, questo il titolo dello show, ha raccontato nei minimi dettagli l’ascesa e la discesa della Sorkin – da tutti conosciuta come Anna Delvey -. Un fatto di cronaca è diventa una fiction, ma le vicende giudiziarie non si sono ancora concluse per l’ex truffatrice.
"Inventing Anna", la serie Netflix su una geniale truffatrice
Come ha riportato il New York Times in un articolo pubblicato a inizio di ottobre, Anna Sorkin è uscita di prigione ma è in libertà vigilata. Il giudice per l’immigrazione Charles Conroy ne ha autorizzato il rilascio (agli arresti domiciliari) in quanto la validità del suo visto negli Usa è scaduta, e deve quindi essere rimpatriata in Germania. Nell’intervista al magazine americano si è lasciata andare ad alcune rivelazioni sia sulla condanna che sulla vita in prigione. Ad oggi non ha ancora pagato i 275 milioni di debiti ma crede che per lei sia giunto il momento di un nuovo inizio. "Sono entusiasta di uscire e di potersi concentrare sull’appello contro la mia ingiusta condanna – esordisce -. È impossibile dimenticare senza cambiare ciò che ho vissuto dietro le sbarre. Ho imparato davvero tanto. In prigione ho provato a vedere la mia esperienza come qualcosa su cui migliorare – aggiunge -. La persona che sono oggi deriva dalle decisioni che ho preso in passato". E tra le righe si continua a professare innocente, nonostante le prove a suo carico. Nelle rivelazioni, poi, ammette che è pronta a dare una svolta alla sua vita.
Inventing Anna è la nuova serie politicamente corretta
"Sto lavorando su tanti progetti. L’arte è uno di questi. Ad esempio, sto lavorando sul mio podcast con tanti ospiti in ogni episodio – afferma -. È stato difficile registrare in cella. E poi c’è il mio libro. Vorrei scrivere qualcosa in merito alla riforma della giustizia criminale per far capire quanto può essere difficile la galera per noi donne. Rincorrere la celebrità? Ora è l’ultimo dei miei pensieri, specialmente ora che sono a casa senza accesso ai social". Ma non è tutto. La Sorkin è convinta che tutti questi buoni propositi aiuteranno a non "ripetere gli errori del passato".
Chiamate il terrore col suo nome. Fiamma Nirenstein su Il Giornale l'11 settembre 2022.
Molto è cambiato da quel giorno di orrore in cui attoniti, precisamente 21 anni fa, e sembra ieri, guardammo alla tv morire tremila persone a New York City, Washington DC e a Shanksville, Pennsylvania. Fu l'11/9. Ma ancora siamo preda dell'incubo terrorista e della sua astutissima costruzione teoretica, inchiodati davanti agli schermi tv a seguirne le gesta in tutto il mondo, con qualsiasi sigla si presenti; siamo avviluppati con le sedi di decisione internazionale, specie l'Onu, le Corti internazionali, le Ong e i suoi derivati, nell'adottare una concettualizzazione dubitosa e timida della parola stessa «terrorismo» e dei suoi feroci perpetratori, preferendo spesso immaginare squilibrati e disadattati miserevoli, per timore che siano alla fine «combattenti delle libertà». Questo ha anche indotto il giudiziario alla cautela estrema per timore di ferire la libertà religiosa ed epitome della vicenda, dopo tanti anni di combattimento, ha spinto l'America l'anno scorso a fuggire nella vergogna dall'Afghanistan, nido in cui Bin Laden aveva trovato rifugio e conforto. Si è ripetuta la storia irachena che ha generato l'Isis; dopo che tante vite di soldati americani vi erano state perdute.
Al Qaida però e l'Isis non somigliano a ciò che erano. Bin Laden è morto, e anche tutti gli altri capi delle due organizzazioni non esistono più. Ma esistono un numero pari a quattro volte i gruppi salafisti-jihadisti che esistevano 21 anni fa. Al Qaida è molto cresciuta in Africa, si è installata e poi rarefatta in Siria, è presente in molte province afghane e il suo rapporto coi talebani risulta fiorente. Nel frattempo è vivo anche lo Stato Islamico, per abbattere il quale (e non definitivamente) ci sono voluti cinque anni e una coalizione di 83 Paesi. L'Isis ha agito con grossi attacchi in tante città importanti, Parigi, Bruxelles, Nizza, New York. Al Qaida si è rifatta viva con il volo Egitto Russia (29 vittime). Ma l'Isis è stata nel 2021 il gruppo terrorista più letale, con gli attacchi nel Niger.
Oggi la vera epidemia è nelle zone di conflitto; lo sforzo dei Paesi Occidentali dall'11/9 ha fatto diminuire gli attacchi dell'82%. E tuttavia, la pulsione terrorista è sempre micidiale e anche la guerra in Ucraina influenzerà probabilmente la crescita del terrore in Europa, mentre il cyberterrore russo avanza, dice il «Global Terrorism Index» del 2022.
Chi scrive ha visto morire a marzo, aprile e maggio nelle città israeliane per mano terrorista di Hamas, della Jihad Islamica e di appartenenti ad al Fatah, giovani genitori, donne ai caffè, ragazzini che passeggiavano. Ciò che alimenta il terrore è la incessante ripetizione propagandistica di slogan che sporcano dalla più tenera infanzia le scuole e i mezzi di comunicazione talebani, o iraniani, o palestinesi, che incitano all'odio e alla violenza contro immaginari aggressori della vera fede, la loro.
La guerra contro il terrorismo può avvenire solo con una autentica rivoluzione culturale e di deterrenza che superi le pure ottime forme di organizzazione e l'alleanza internazionale. Occorre una cultura che sappia con fermezza chiamare il terrorismo col suo nome, che fermi chi lo alimenta sotto mentite spoglie (sono miliardi quelli che finiscono nelle casse terroriste sotto forma di aiuti a organizzazioni umanitarie) e controlli l'uso mortale dei social media.
Alberto Simoni per “La Stampa” il 12 settembre 2022.
Lui non si affibbierebbe mai l'etichetta, ma per gli americani Mark Lewis è "un eroe" dell'11 settembre. Di quelli silenziosi, trovatosi in una mattina di sole di 21 anni fa a raccogliere le vite degli altri, travolte, tramortite e recise nell'attacco al Pentagono da parte di Al Qaeda.
Quando ieri, parlando alla cerimonia al Pentagono, il segretario della Difesa Lloyd Austin ha citato i colleghi che hanno portato sulle spalle gli altri, che si sono sostenuti in quel giorno, pensava anche a Lewis. E sugli eroi che «hanno protetto l'America» ha puntato pure Biden sottolineando che «continueremo a difendere gli Usa dal terrorismo» e che quel giorno se «ha cambiato la Storia Usa», non ne ha però alterato il carattere.
Veterano della 82esima divisione aviotrasportata, missioni a Granada e in altre zone di crisi, grado di colonnello nel 2001, Mark Lewis siede a capotavola di un tavolo di legno nel suo ufficio nell'E-Ring del Pentagono. Per arrivare nella zona più esclusiva del palazzo-fortezza, si cammina quasi dieci minuti. Sempre scortati.
In quest' angolo dell'edificio ci sono gli uffici della leadership della super potenza. Da qui, la mattina dell'11 settembre del 2001, l'allora segretario della Difesa, Donald Rumsfeld se ne uscì impolverato, gli occhiali storti sul naso e si mise nel piazzale antistante a muovere soccorsi e aiutare i feriti.
Ma prima di lui, lungo i corridoi del secondo piano della facciata occidentale nel cuneo 5, Mark Lewis aveva trasformato l'istinto alla sopravvivenza del soldato in una spinta irrefrenabile all'aiuto degli altri. Ricorda due cose di quel giorno. «Sono freschi nella mia mente il fumo e il fuoco». Il racconto del colonnello tornato al Pentagono con un incarico nella catena di comando civile, però si ferma dopo pochi minuti.
Serve la scenografia, serve vedere, immaginare quel che fu. «Dove siamo seduti io e lei si conficcò il corpaccione del volo 77». Lewis si alza e si accosta alla finestra, l'aereo passò sopra una collinetta e si buttò dentro il Pentagono. «Sono appena cinque piani, colpirlo così... » sospira lasciando capire quanto quei kamikaze fossero preparati per la missione. Quel giorno Lewis aveva una riunione con il generale Maude, il più alto ufficiale in grado morto l'11 settembre.
Era lui ad occupare l'ufficio dove oggi c'è quello dell'ex colonnello, quello di Lewis distava qualche decina di metri. Mentre camminava nel corridoio verso l'appuntamento, arrivò il botto poi il buio e il fuoco.«C'era puzza di cherosene, fiamme e fumo ovunque. Un silenzio spettrale, le porte antincendio si erano chiuse come da procedura». Una trappola per chi era dentro. «L'unico riferimento era il pavimento, si poteva toccare, sentire», ricorda Lewis.
Andò a ritroso, recuperò le persone negli uffici, la t-shirt sulla bocca per non inalare fumo. Per aggirare le porte sbarrate, Lewis condusse alla cieca i superstiti, feriti e terrorizzati, lungo un corridoio che portava a una piccola porticina sconosciuta ai più. È diventata la porta per la salvezza. L'aereo si schiantò alle 9,37; 40 minuti dopo Lewis era sul prato del Pentagono fra il frastuono delle sirene, il via vai dei soccorritori.
L'angoscia però era per chi era rimasto indietro. «Quanti? E Chi? Quale ufficio è vuoto». Prese - e con lui altri - ogni telefono possibile, compose ogni numero per rintracciare dispersi. All'appello non tutti risposero. Durò fino alle due di notte questo straziante rito. Allora Lewis tornò a casa: 125 persone al Pentagono erano morte, 184 in totale contando quelle sull'aereo proiettile.
Inutile chiedere se dormì, l'America si era già messa in modalità guerra, le unità operative dovevano avviarsi. «E così si fece, bisogna andare avanti». Per cinque mesi fu così, avanti a far girare la macchina già protesa sull'Afghanistan.
Gli occhi di Lewis diventano lucidi. «Accadde a San Francisco, in hotel, qualche mese dopo. La famiglia a fare shopping, io in camera a guardare la Cnn. Un lungo servizio sugli attentati del 11 settembre». E lì lo strazio, il dolore, la presa di coscienza di quel che era successo scoppiarono fragorosi. Il ricordo degli amici.
Lewis cammina lungo il corridoio dell'E-Ring. Fuori dal suo nuovo ufficio c'è una mappa del piano e vi è disegnata la traiettoria dell'aereo. A fianco le foto delle vittime di quella sezione. Lewis li conosce quasi tutti: la soldatessa che doveva sposarsi a giorni; l'amico generale e Max Beilke, fu l'ultimo soldato a lasciare il Vietnam. «Great and honest men», brave persone. Qualcuno anche un eroe americano.
Il particolare 11 settembre a un anno dal ritorno dei talebani a Kabul. Mauro Indelicato l'11 settembre 2022 su Inside Over.
Oggi a Manhattan suona di nuovo quella campana che ricorda i minuti in cui, oramai 21 anni fa, si è consumata la tragedia dell’11 settembre. Un suono riprodotto lì dove oggi sorge il memoriale dedicato alle vittime della strage del 2001, a pochi passi da dove sorgevano le Torri Gemelle. Vengono letti i nomi di tutti coloro che qui hanno perso la vita, un elenco di quasi tremila persone cadute mentre erano a lavoro oppure perché ritrovatesi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.
Quest’anno la commemorazione ha un sapore diverso. Nel 2021 a pesare maggiormente sul cerimoniale è stato il raggiungimento del ventennale dalla strage. Adesso invece pesa il fatto che mentre oltreoceano si commemorano le vittime, lì da dove è partito l’ordine dell’attacco terroristico la situazione è tornata uguale a com’era l’11 settembre 2001. A Kabul, bersagliata il mese successivo l’attentato per via della presenza dei talebani accusati di dare ospitalità a Bin Laden, gli studenti coranici sono di nuovo al potere. E nel centro della capitale afghana appena un mese fa è stato ucciso il braccio destro di Bin Laden, ossia quell’Ayman Al Zawayri ritenuto tra gli ideatori dell’11 settembre.
I minuti che hanno cambiato gli Stati Uniti
Una chiamata per una fuga di gas in una strada del quartiere sud di Manhattan, in un normale martedì mattina. Poi il rumore di un aereo, lo sguardo che istintivamente si alza verso il cielo e quindi il boato. Sono le ore 8:46 dell’11 settembre 2001, la scena è ripresa da un cameraman che segue una squadra dei Vigili del Fuoco. E si vede per l’appunto un pompiere che abbandona le sue attività per girarsi verso il luogo dell’esplosione. L’immagine diventa una delle più iconiche della giornata. Segna il passaggio dalla normale quotidianità di New York e degli Stati Uniti a uno dei momenti più tragici della storia recente. Il boato è prodotto dallo schianto di un aereo su una delle due torri gemelle di Manhattan. Sembra un incidente, uno dei più clamorosi. E subito la Cnn e gli altri network portano sul posto altri cameraman e degli elicotteri per riprendere la scena dall’alto.
A questo punto i riflettori sono tutti puntati sulle torri gemelle. E alle 9:01 l’arrivo di un altro aereo sull’altra delle due torri gemelle è ripreso in diretta. Appare chiaro ormai che non si tratta di un incidente, ma di un’azione terroristica. Non solo gli Usa, ma tutto il mondo guarda verso New York.
Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, in quel momento si trova a Sarasota, in Florida. Sta parlando in una scuola, quando il consigliere Andy Card lo avvicina per sussurrargli qualcosa all’orecchio. Anche questa scena è ripresa dalle telecamere e diventa anch’essa emblema della giornata. Ore che ancora non sono finite, perché alle 9:37 c’è un terzo aereo a cadere. Non a New York, bensì davanti il Pentagono a Washington, sede della Difesa Usa. Il Paese è sotto attacco e scattano tutte le misure di emergenza, sia a livello locale che federale. Lo spazio aereo viene chiuso, tutti i soccorsi vengono puntati sulle due città colpite e nella capitale tutti gli uffici più importanti vengono evacuati.
C’è poi un altro velivolo che cade, anche se in campagna. A Shanksville, in Pennsylvania, altre persone muoiono in quello che, pochi giorni dopo, risulta essere un altro dei mezzi dirottati per portare a termine l’azione terroristica. Il terrore quindi passa dai cieli. Il primo aereo a schiantarsi sulle torri gemelle è il volo Boston-Los Angeles dell’American Airlines, il secondo aereo invece serve la stessa rotta ma per la United Airlines. L’aereo che si schianta sul Pentagono è invece decollato da Washington con destinazione California ed è dell’American Airlines. Il quarto aereo, questa volta della United Airlines, è partito da Newark e secondo le indagini non riesce a raggiungere uno degli obiettivi prefissati dai dirottatori per via di una ribellione interna dei passeggeri.
Il terrore però non si esaurisce con lo schianto degli aerei. Alle 9:59 crolla infatti la torre sud delle torri gemelle, la seconda ad essere stata colpita in precedenza. Alle 10:28 cede la torre nord. Le “twin towers” di Manhattan non ci sono più e, con esse, vengono trascinate giù verso la morte migliaia di persone in quel momento intrappolate. Il bilancio ufficiale parla ancora oggi di dispersi: a distanza di 21 anni ci sono 24 cittadini di cui non si sa più nulla. Sono 2.996 le vittime ufficiali, compresi i 19 dirottatori kamikaze.
L’avvio della “guerra al terrore”
Le conseguenze politiche di quell’attentato non si fanno attendere. Il dito viene subito puntato contro Al Qaeda, il gruppo terroristico fondato da Osama Bin Laden già protagonista negli anni precedenti di altri attacchi islamisti contro obiettivi Usa, pur se all’estero. La formazione jihadista ha la propria base in Afghanistan. Qui governano i talebani dal 1996, anche se per la verità Bin Laden è nel Paese da prima dell’avvento a Kabul degli studenti coranici. I talebani predicano un’ideologia estremista, un’interpretazione radicale della visione islamica. Le donne devono girare con il burqa e non vanno a scuola, i maschi devono portare la barba lunga. Hanno già isolato l’Afghanistan da quasi tutto il resto del mondo, ma ad ogni modo soldi e sostegno al gruppo non mancano. Dal Pakistan in primis, in passato dagli stessi Usa quando i gruppi islamisti servono negli anni ’80 ad ostacolare la presenza sovietica nel Paese.
Dopo l’11 settembre i talebani diventano il principale bersaglio di Washington. Sono accusati di dare ospitalità a Bin Laden. E il 7 ottobre, dopo aver incassato il sostegno di Islamabad, Bush fa partire le operazioni militari volte a spodestare gli studenti coranici. Gli Stati Uniti bombardano Kabul, Jalalabad, Kandahar e le principali città afghane. Spianano così la strada all’Alleanza del Nord, l’opposizione ai talebani. I miliziani avanzano e nel giro di poche settimane entrano a Kabul ponendo fine all’emirato.
Secondo Bush questo è solo il primo atto della cosiddetta “guerra al terrore”. Una dottrina però che negli anni è destinata a mostrare ampie lacune. In Afghanistan si pensa a insediare un nuovo Stato e a organizzare, nel giro di pochi anni, delle elezioni. Due anni dopo l’11 settembre la guerra al terrore è combattuta contro l’Iraq di Saddam Hussein. Deposto quest’ultimo, in medio oriente si apre un vaso di pandora che in realtà fa uscire fuori una miriade di gruppi terroristici che nel decennio successivo sconvolgo l’intero medio oriente. Nello stesso Afghanistan la situazione è tutt’altro che rosea: viene inviata una missione Nato, a cui partecipa l’Italia, per dare manforte alle nuove istituzioni di Kabul. Soldi, vite umane perse, soldati caduti, un bilancio cruento che però serve a poco se non addirittura a nulla.
Afghanistan, un anno dopo
Mentre infatti a New York si commemorano le vittime dell’11 settembre 2001, a Kabul i padroni di oggi sono quelli di allora. I talebani il 15 agosto 2021 riconquistano la capitale afghana e ridanno vita all’emirato. Ritornano i burqa, ritornano le barbe, ritornano i divieti e ritornano le scuole precluse alle donne. Possibile che da quell’11 settembre non è cambiato nulla? Una domanda a cui rispondere è difficile. Solo stando nel nuovo-vecchio Afghanistan si può realmente trovare risposta. Il quesito è di quelli in grado di scuotere dalle fondamenta le dottrine occidentali delle ultime due decadi: per davvero l’11 settembre è una data destinata a rimanere unicamente nel novero degli annali e delle cerimonie di commemorazione, ma senza lasciare tracce evidenti nella storia nonostante quanto accaduto dopo le tremila vittime di quella giornata?
A 20 anni dall'11 settembre confermata la profezia della Fallaci. Riccardo Mazzoni Libero Quotidiano il 11 settembre 2021
Il ventesimo anniversario delle Torri Gemelle si incrocia col quindicesimo della morte di Oriana Fallaci, che cade il 15 settembre, e le due date sono legate a filo doppio, perché fu dopo l’attentato di New York che la più grande scrittrice italiana smise di curare il suo cancro – l’Alieno - per dedicarsi, anima e corpo, a contrastare quello cosmico del fondamentalismo islamico. Dopo la sua morte Franco Zeffirelli scrisse: «Noi non potremo né dovremo seppellirti nell’oblio, cara Oriana, perché tu avevi visto prima il pericolo che ci sovrastava e l’avevi urlato con tutta la tua forza a un mondo di sordi, di ciechi, di vigliacchi».
Oggi che l’Afghanistan è di nuovo in mano ai talebani, col rischio di ridiventare un santuario del terrorismo, il messaggio della Fallaci riacquista una terribile attualità. Già, perché anche solo ipotizzare un abbozzo di dialogo con un premier iscritto nella lista Onu dei terroristi più pericolosi e col ministro dell’Interno ricercato dall’Fbi, pare più un sogno da anime belle che un trattato di Realpolitik. Per Oriana, l’Islam è un’unica immensa palude: «Continua la fandonia dell’Islam moderato, la commedia dell’intolleranza, la bugia dell’integrazione» – scrisse dopo la strage di Londra. Un monito a non illudersi che ci sia un jihadismo “buono” e uno “cattivo”, come invece sembrano credere (ancora!) certi commentatori che, dopo l’attentato dell’Isis all’aeroporto di Kabul, si sono cimentati in una distinzione secondo cui, in fondo, i talebani sarebbero diventati “moderati”, e che la vera minaccia per l’Afghanistan sia ora da individuare nei loro nemici interni, più estremisti di loro. Ma è solo una folle illusione».
Lo scomposto ritiro dell’Occidente, in realtà, ha messo in moto un Risiko che, oltre a sfregiare in modo irreparabile l’immagine e la credibilità degli Stati Uniti, avrà inevitabilmente ricadute anche in un’Europa disorientata e divisa. L’Occidente ha bandito da tempo la parola «guerra», ormai imperversa la dottrina politicamente corretta secondo cui esportare la democrazia con le armi è stato solo un tragico abbaglio storico. Come se la libertà non fosse una conquista da difendere ogni giorno con le unghie e con i denti, anche in patria, ma una quieta eredità, un diritto immutabile delle nuove generazioni. Come se il «Risveglio islamico» nato con la rivoluzione khomeinista del ’79 non si proponesse di risvegliare la moltitudine islamica nel mondo da un letargo lungo trecento anni per affrancarla dalle imitazioni contaminanti dell’Occidente secolarizzato e decadente. L’unico strumento per la rinascita sarebbe dunque il ritorno alla fede e alla disciplina originaria del primo Islam.
La lunga consuetudine col socialismo arabo ha insegnato agli ideologi del terrore l’arte dell’organizzazione attraverso cellule segrete altamente disciplinate e ben addestrate. Ebbene, Oriana Fallaci conosceva profondamente l’Islam fondamentalista, le sue regole, la sua insopprimibile voglia di morte, e sapeva che troppe moschee vengono trasformate «in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi». Fino alla morte, non si è mai stancata di ripeterlo, incurante dell’isolamento culturale e del disprezzo dell’intellighenzia occidentale.
Eppure apparve subito evidente, dopo la spaventosa carneficina dell’11 settembre che nulla sarebbe più stato come prima. Invece ha prevalso il giustificazionismo, il pentitismo storico di un’Europa arcobaleno e senza più identità, secondo cui il terrorismo sarebbe solo il frutto avvelenato degli inevitabili risentimenti nei confronti dell’Occidente sopraffattore. Nulla importava se l’Internazionale del terrore era guidata da un club di miliardari che avevano studiato nei college, o se chi organizzò l’attacco alle Torri Gemelle proveniva da una famiglia facoltosa di Amburgo. La colpa era solo della fame e della povertà a cui erano stati condannati i Paesi arabi, del Satana amerikano e di Israele che difende il suo diritto ad esistere. Quella dei terroristi è invece solo una colpa riflessa e dunque attenuata. Da questa narrazione nasce il mito imperituro del «dialogo». Lo vogliono i pacifisti e lo pretende la sinistra, senza rendersi conto che il dialogo a senso unico significa solo la resa.
Un manuale di addestramento di Al Qaeda trovato a Londra nel ’93 diceva testualmente: «Il confronto che si vuol aprire con i regimi apostati non è fatto di dibattiti socratici, né di dialoghi platonici o di diplomazia aristotelica. Conosce solo il dialogo delle pallottole, gli ideali dell’assassinio, delle bombe e della distruzione e la diplomazia delle mitragliatrici e del cannone».
Ecco: la parola d’ordine della vittoria talebana in Afghanistan «Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo» è solo il sinistro complemento del motto di tanti terroristi islamici: «Voi amate la vita e noi amiamo la morte». Una dichiarazione di guerra all’Occidente in ritirata.
Università e ranking, lo scandalo della Columbia: ha fornito dati «ingannevoli». Ora è scesa dal secondo al 18esimo posto. Orsola Riva su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.
Il New York Times porta alla luce il caso del prestigioso ateneo newyorkese che ha costretto Us News a rifare la classifica, declassandolo. L’ammissione dei responsabili.
La notizia non è tanto che i ranking universitari siano facilmente scalabili - questo lo avevamo capito da tempo - ma che anche le teste di serie non disdegnino il ricorso a operazioni di «maquillage» a dir poco disinvolte pur di piazzarsi in cima a queste classifiche. Che, nate con l’intento di orientare genitori e figli nella scelta di quello che soprattutto in America è l’investimento economico più importante di una famiglia - si sono trasformate in una gara senza esclusione di colpi, da cui le istituzioni accademiche escono sempre più acciaccate. Questa volta a «truccare» le carte è stata niente meno che la Columbia University, colpevole - per sua stessa ammissione - di avere inserito dei dati imprecisi nella classifica pubblicata ogni anno da U.S. News, una delle più consultate insieme a quella del Wall Street Journal, di Forbes e del Washington Monthly. Come ha raccontato il New York Times, lo scandalo era esploso a febbraio quando Michael Taddeus, un professore di matematica di quella che è e resta una delle più antiche e autorevoli università dell’Ivy League americana, ha denunciato sul suo blog che le statistiche fornite dalla sua università erano «inaccurate, discutibili e ingannevoli». Dopo mesi di polemiche, lunedì 12 settembre U.S News ha pubblicato una nuova classifica in cui in base ai nuovi dati forniti dalla stessa Columbia, il piazzamento dell’università newyorchese - seconda solo a Harvard per numero di premi Nobel (più di cento!) - è precipitato dalla seconda alla 18esima posizione. In testa come già l’anno scorso resta Princeton, seguita dall’Mit di Boston e da Harvard, Yale e Stanford arrivate terze a parimerito. Possibile? Certo perché nel mix di criteri che determinano il punteggio finale, oltre alla reputazione generale, alla selettività in entrata e alla capacità di rimborsare i debiti contratti per laurearsi da parte di chi ne è già uscito (indicatore che serve a misurare la spendibilità del titolo stesso sul mercato), c’è anche - come in quasi tutti i ranking internazionali - il rapporto fra studenti e docenti, che era stato pesantemente manipolato l’anno scorso.
I criteri
Le aule poco affollate sono universalmente considerate un indicatore molto attendibile della qualità dell’insegnamento. E sono anche una delle ragioni principali - insieme alla scarsa attrattività per docenti e studenti internazionali - per cui nelle più importanti classifiche internazionali nessuna nostra università riesce a piazzarsi nemmeno fra le prime cento al mondo. L’unica classifica in cui gli atenei italiani riescono a raggiungere posizioni di vertice è quella redatta ogni anno dal QS in base ai singoli corsi, in cui per esempio la Sapienza da anni ormai occupa la prima posizione al mondo in Studi classici e il Politecnico di Milano si piazza nella top ten mondiale sia in Architettura e Design che in diversi corsi di Ingegneria (dove pure la competizione è fortissima). Ma nemmeno il QS ranking è immune da critiche, soprattutto per il peso enorme dato agli aspetti reputazionali (cioè ai pareri espressi da altri docenti e anche dai datori di lavoro) a scapito di dati più obiettivi e per il presunto conflitto di interessi rappresentato dal fatto che oltre a stilare la classifica delle università, offre anche un servizio di consulenza pensato per aiutarle a migliorare il proprio piazzamento.
Il business
In un mondo dove l’istruzione universitaria è diventata un business capace di far tremare l’economia di un Paese (vedi la bolla dei debiti universitari negli Usa e in Uk), i ranking sono diventati un’arma potentissima capace di spostare miliardi di euro, dollari o sterline. Di piccoli e grandi incidenti nelle classifiche universitarie ce ne sono stati tanti in questi anni: dal caso di un politecnico indiano di non primissima fila (la Vel Tech University di Chennai) che era riuscito a scalare un altro ranking- quello di Times Higher Education - drogando l’impatto delle ricerche di un singolo docente che pubblicava i suoi lavori su una rivista di cui era anche il direttore, alle polemiche nostrane sull’Anvur, l’agenzia governativa incaricata di valutare la qualità della ricerca degli atenei italiani da cui dipende una fetta importante dell’assegnazione dei fondi ai nostri atenei. Nella penultima edizione della cosiddetta VQR a tenere banco era stato il caso dell’università Kore di Enna il cui dipartimento di fisica batteva anche la Normale di Pisa. Mentre nell’ultima edizione - in cui i discutibili indici bibliometrici delle tornate precedenti sono stati integrati da un sistema di valutazione fra pari che solleva anch’esso parecchi dubbi - ha suscitato più di qualche sorpresa il piazzamento della altrimenti poco nota università sportiva Roma Foro italico al secondo posto fra i piccoli atenei.
Tra noi e gli States le strade iniziano a dividersi. Gli Stati Uniti d’America e il mito appannato della libertà: tra armi, aborto e guerra si allontana dall’Europa. Alberto Cisterna su Il Riformista il 30 Giugno 2022
Tra pochi giorni sarà il 4 luglio, l’Indipendence day. Una sorta di seconda festa nazionale per molti italiani e da molti decenni ormai. Intere generazioni sono cresciute con il mito degli Stati uniti, della sua cultura, delle sue libertà. Quando Bruce Springsteen intona “Born in Usa” tanti sognano a occhi chiusi e immaginano una vita diversa in quella sconfinata Land of opportunities, lontano dalla grigia monotonia di una nazione vecchia, stanca, disillusa. Per decenni – parafrasando Benedetto Croce – abbiano snocciolato a memoria le tante ragioni per cui non possiamo non dirci americani. Certo, odio e amore, affezione e critica, ma alla fine nessuna discussione politica o economica o sociale ha mai potuto prescindere dalla madrepatria americana. Dopo l’11 settembre quel legame è apparso ancora più indissolubile, intimo, profondo; abbiamo imbracciato le armi per i fratelli d’oltreoceano e ci siamo dati leggi speciali.
Ma lentamente qualcosa sta cambiando e la sentenza della Corte suprema sul diritto d’aborto non è che l’ultimo campanello d’allarme di una divaricazione che tende a diventare distanza. Tre questioni stanno sul tappeto a tutta evidenza: l’accesso indiscriminato alle armi, le politiche conservatrici dominanti nella pancia profonda degli States, l’opzione bellica. Il Terzo millennio, come sappiamo, è iniziato in modo tragico per gli Usa e i suoi alleati. L’attentato alle Torri gemelle ha innescato in porzioni maggioritarie della popolazione americana la convinzione di essere sotto attacco, di trovarsi al centro di una vera e propria guerra dichiarata da una parte non marginale del mondo contro quella nazione con il fine dichiarato di distruggerla. Cosa ne è seguito dall’Afghanistan, all’Iraq, dalla Libia alla Siria, è sotto gli occhi di tutti; si è passati, a fine secolo scorso, dai bombardamenti su Belgrado a quelli su Baghdad. Un passaggio del testimone tragico, in cui la guerra ha definitivamente conquistato il rango di prima opzione politica, di prima risposta contro gli avversari.
In una nazione in guerra, pressoché ininterrottamente, dal dicembre del 1941 a oggi, con guerre fredde o conflitti ad alta e media intensità, è inevitabile che si debba alimentare e sostenere in ogni strato della popolazione una forte propensione alle armi e alla violenza. Come Sparta o come Roma repubblicana, gli Usa sono, innanzitutto, una straordinaria potenza militare che ha necessità di migliaia e migliaia di uomini da impiegare nelle proprie forze armate; ha l’urgenza di uno spirito patriottico quasi fanatico; ha bisogno di inglobare le minoranze etniche discriminate nei propri contingenti d’élite per dare loro la dignità di cittadini, proprio come l’Impero romano. E quanto accade in Russia, con la difficoltà di vincere una guerra per la scarsità di soldati a disposizione, non farà che incrementare ancora di più questa opzione. Sarà una delle lezioni militari più importanti di questa guerra in Ucraina: per vincere servono uomini in mimetica e anche motivati, l’opzione chirurgica delle armi intelligenti è un mito infranto nell’assalto fallito a Kiev.
Questa gigantesca locomotiva armata non può rinunciare alla circolazione di fucili d’assalto e pistole, non può mettere da parte l’educazione militare che le famiglie dispensano ai propri figli in tutte le zone dell’America profonda dove sentimenti nazionalisti e patriottismo si sviluppano e si alimentano lontano dalle promiscuità molli delle capitali dell’Est e dell’Ovest. Ritenere che tutto il problema stia nella forza politica della NRA (National Rifle Association), nel condizionamento della lobby delle armi, nel controverso testo del Secondo emendamento («Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto») vuol dire porsi il fine di trascurare che – man mano, poco a poco – si è creata una sottile linea di frattura ideologica, morale, politica tra gli Usa e i paesi alleati in Europa soprattutto. Una discontinuità con cui non vogliamo fare i conti – tanto radicato è il mito americano in ciascuno di noi – per cui affrontiamo la sconsolata lettura di quelle stragi quasi quotidiane con la tesi comoda e illusoria che si tratti di episodi di follia, di disperati fuori controllo, di esaltati che bisogna tenere lontani dalle armerie.
Ma si può davvero immaginare che una democrazia non sia in grado di affrontare una lobby e di metterla a tacere? In realtà gli Usa non possono deflettere dal fine dell’essere una democrazia in armi, dalla necessità di alimentare il mito della propria potenza militare, dal bisogno di entrare in sintonia con una popolazione in gran parte disponibile a indossare una divisa per difendere la bandiera a stelle e strisce che sventola ovunque in quel paese. Mentre Germania, Francia e Italia (e altri) scoprono in queste settimane tutta la fragilità del proprio sistema di difesa militare; mentre si discute del budget da destinare al riarmo nei prossimi anni; mentre l’Europa coglie tutta la difficoltà di entusiasmare la propria opinione pubblica, pacifista e pacifica, verso la prospettiva di un conflitto con la Russia, negli States si coglie la prospettiva di una vittoria insperata, non verso il vecchio avversario della Guerra fredda, ma su quanti concepivano il sogno di una Europa post-atlantista, equidistante, tollerante e dialogante.
L’ombrello protettivo degli Usa è tornato, in modo inaspettato anche per Washington, a essere indispensabile per le democrazie europee. In fondo l’idea degli ultimi presidenti americani, secondo cui gli alleati europei avrebbero dovuto più massicciamente contribuire alla difesa Nato, si è pienamente realizzata e grazie a Putin. Intanto la Corte suprema abolisce il diritto costituzionale all’aborto e ne affida le sorti ai singoli Stati dell’unione. E la linea di frattura cresce, la distanza aumenta, il mito si appanna, coperto (per ora) dal rombo dei cannoni russi che devastano l’Ucraina.
Alberto Cisterna
Costanza Rizzacasa d’Orsogna, in un saggio la guerra (in)civile negli Usa che tradisce la cultura. ANTONIO CARIOTI su Il Corriere della Sera l'11 Luglio 2022.
In «Scorrettissimi» (Laterza) l’autrice esamina gli esiti della polarizzazione identitaria.
Gli Stati Uniti ribollono di faziosità. Non c’è solo la questione quanto mai scottante dell’aborto. A destra c’è chi preme con forza perché vengano messi al bando dalle scuole «libri sugli eroi dei diritti civili, sui nativi americani, sulla guerra civile, e anche libri di scienza». A sinistra avanza un’ideologia, sedicente antirazzista, «secondo la quale il privilegio bianco è il peccato originale, motivo per cui tutti i bianchi sono colpevoli per il solo fatto di essere tali». Insomma le «guerre culturali» non accennano a placarsi e rischiano di destabilizzare le stesse istituzioni democratiche.
Misura come un sofisticato termometro il livello di questa pericolosa febbre il saggio di Costanza Rizzacasa d’Orsogna Scorrettissimi (Laterza), ricco di particolari sui casi più eclatanti di cancel culture e impreziosito da interviste con esperti che manifestano la loro preoccupazione per la deriva in corso.
La questione più grave è di natura politica e riguarda la crescente polarizzazione dell’elettorato americano. L’accordo sulle regole del gioco, fondamento di ogni assetto rappresentativo in salute, sembra venuto meno, perché nei due partiti prevalgono le spinte estremiste, con la connessa delegittimazione degli avversari.
Si arriva al punto di contestare i risultati elettorali con l’azione diretta su istigazione di un presidente in carica, come è successo il 6 gennaio 2021. Continuando di questo passo, il rischio è che le guerre culturali degenerino in un conflitto cruento. E i sintomi non mancano: «Il sistema politico — si legge nel libro di Rizzacasa d’Orsogna — è così travolto dall’odio che anche le più semplici funzioni di governo diventano impossibili. La fiducia nel Congresso è ai minimi storici. Chi dovrebbe tutelare l’ordine a livello locale si ribella all’autorità federale».
La conflittualità sul terreno del costume è un dato fisiologico in ogni società pluralista, tanto più se multiculturale e multirazziale. Ma la politica dovrebbe servire a mediare le istanze di segno opposto, mentre oggi, osserva Rizzacasa d’Orsogna, ne è colonizzata. La posta in gioco non è più una legislazione orientata in una direzione o nell’altra, ma l’anima stessa della nazione. E quando a scontrarsi sono valori identitari esistenziali, «qualsiasi compromesso è impossibile».
Attorno al problema principale ne ruotano poi altri, di natura più strettamente culturale. Si può immaginare un insegnamento da cui sia espunto ogni testo che possa urtare la sensibilità di qualche studente? Ha senso condannare il romanzo di Mark Twain Huckleberry Finn — in tutta evidenza antirazzista, oltre che stupendo — perché vi appare di continuo la parola nigger, brutalmente offensiva per gli afroamericani, ma all’epoca di uso comune? Davvero i capolavori dell’antichità classica recano il marchio della supremazia bianca? È plausibile negare diritto di cittadinanza a un’opera sulla base del comportamento privato deplorevole, o anche criminale, del suo autore?
Immensa è senza dubbio la confusione sotto il cielo degli Usa, se l’attrice Whoopi Goldberg è arrivata a dire che la Shoah non riguardava la razza in quanto vittime e carnefici erano tutti bianchi. Ma al di là di questi eccessi aberranti, non è facile trovare la giusta misura tra la dannazione anacronistica del passato e i giudizi che su di esso resta comunque legittimo esprimere. Autori come William Faulkner ed Ernest Hemingway possono apparirci criticabili. Ma per criticarli bisogna leggerli, non censurarli. In fondo questo è l’invito sotteso a tutto il lavoro di Costanza Rizzacasa d’Orsogna.
La sbandata USA. America in crisi, dal razzismo all’Fbi contro Trump: la corsa al disfacimento a stelle e strisce. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Agosto 2022
Che gli Stati Uniti d’America siano in crisi lo sanno per primi gli americani, i quali attraversano uno dei momenti di peggiore instabilità. Sono abituati: periodicamente sia loro che i loro giornali e siti affermano che l’America è in disfacimento e che il loro Paese, quello del “sogno americano”, è morto e sepolto. Non è la prima, né la seconda e la terza volta che assistiamo a una tale sensazione di disfatta cui seguono segnali di crisi economica come sta accadendo con un’inflazione al nove per cento.
L’America è irritata dal presidente Joe Biden. Joe Biden è tuttavia il male minore perché non potrà affrontare due turni consecutivi, ma ha al suo fianco una vice che si dichiara nera benché figlia di un funzionario dell’impero inglese, Kamala Harris, e gli americani tremano all’idea che possa subentrare a Joe Biden. Poi c’è il caso di Donald Trump, la cui politica è incomprensibile in Europa perché tradizionalmente americana, fatta di isolazionismo e diffidenza per gli europei, aggressiva nel dichiarato tentativo-desiderio di proteggere aziende e lavoratori americani dall’ingiusta concorrenza dei lavoratori europei che non pagano tasse per la difesa.
L’America è inoltre percorsa da nuove correnti di odio non destinate a rimarginarsi. Quella razziale tra bianchi e neri è la più nota e gli amici mi dicono che è finita da tempo la moda della finta fraternità interrazziale, perché i giovani preferiscono stare fra i loro simili. Ma a questo aspetto razziale primario c’è da aggiungere il moltiplicarsi delle scalate sociali delle etnie asiatiche nelle scuole e nei posti di lavoro. Gli asiatici costringono i figli a studiare a quattordici ore al giorno vincendo quindi tutte le borse delle scuole pubbliche e private, raggiungendo da soli le vette della eccellenza universitaria e umiliando o mettendo in grave affanno tutti gli altri. Molti adolescenti americani si sono suicidati per la perdita delle borse di studio, specialmente in New Jersey.
E poi c’è l’affare Salman Rushdie. Questo scrittore indiano naturalizzato inglese è una delle glorie letterarie del mondo ma poco amato nei paesi, Italia compresa, attenti alle sensibilità islamiche. Rushdie è un uomo di frontiera e fu condannato a morte con l’emissione dei una Fatwa religiosa sostenuta da una taglia sostanziosa iraniana. Se Rushdie pensava che la sua condanna fosse stata dimenticata, non erano autorizzati a pensarlo coloro che avevano il dovere di proteggerlo specialmente negli Stati Uniti. L’attentato a Salman Rushdie non è stato soltanto una conferma dell’esistenza della stessa barbarie che ispirò la strage nella redazione di Charlie Hebdo, ma dimostra l’inettitudine dei servizi di sicurezza americani, come accade in tempi di crisi quando si interrompono le catene delle responsabilità.
La vicenda di Trump fermenta: l’irruzione nella casa privata di un ex presidente che fino a pochi mesi fa abitava alla Casa Bianca ha provocato una forte irritazione non contro Trump ma contro l’FBI e il procuratore che ha fornito il mandato con i reati su cui si svolgeva l’indagine. L’opinione pubblica non soltanto di destra trova incomprensibile un’accusa di spionaggio nei confronti di un ex presidente americano che ha sempre avuto sotto gli occhi le carte che sono state trovare nella sua magione. Accusare di spionaggio un uomo che è stato il protagonista degli eventi cui si riferiscono i documenti trovati a casa sua è piuttosto ridicolo. E in casa repubblicana la prendono molto male perché è evidente l’aspetto persecutorio nei confronti di un possibile candidato che costituisce una minaccia per l’attuale establishment. Infatti, l’attuale establishment democratico ha ripreso il comando di tutte le agenzie di spionaggio e controspionaggio a partire dalla FBI.
Cresce intanto nella società la nuova tendenza – analizzata dal filosofo britannico Douglas Murray – che spinge tutti i giovani sotto i quarant’anni a cercare una nicchia da cui si possa dichiarare vittima storica, razziale, di genere, religiosa e reclamare diritti perduti o mai avuti. Ognuna di queste nicchie suscita reazioni di ripulsa violenta di altri gruppi ed episodi di follia come le sparatorie in cui vengono immolate vittime innocenti a crisi di apparente follia, che però non è individuale ma ha radici collettive. La società americana appare di giorno in giorno fratturata non più soltanto fra ricchi e poveri o bianchi e neri, ma fra asiatici e non asiatici, tra minoranze nemiche provenienti da tutti i rivoli dei molti generi di “latinos” in conflitto fra discendenti di nativi e discendenti dei colonialisti spagnoli, benché si esprimano nella stessa lingua. Queste fratture si dilatano nella politica perché i politici assecondano le divisioni per potersene proclamare i rappresentanti.
Gli Stati Uniti rimangono un paese diverso da tutti gli altri di lingua inglese, come i canadesi, gli australiani, i neozelandesi. Tutti in apparenza figli di una stessa madre, ma nessuno con una storia travagliata e fragile come quella degli americani. La guerra d’indipendenza americana fu una rivoluzione più sanguinaria di quella francese vinta con l’uso spietato di eserciti contro eserciti regolari visto che le Tredici colonie originarie erano dotate anche di un esercito guidato dal generale George Washington, coperto di gloria per aver inflitto pesanti sconfitte ai francesi durante la guerra dei Sette Anni: una guerra di una violenza ancora poco conosciuta in Europa, seguita dopo il primo ciclo di storia dalla Guerra di secessione tra unionisti e confederati, sempre di violenza implacabile tra gente dello stesso sangue.
Nel ciclo successivo di crisi venne la segregazione razziale con le cosiddette “Leggi di Jim Crow” – poi adottate dal nascente nazismo per segregare gli ebrei in Germania – come conseguenza della sconfitta confederata per mantenere fuori dalla vita civile gli americani di colore che soltanto con John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Johnson cominciarono a rivedere la luce. Infine venne la grande crisi esistenziale della guerra nel Vietnam, un trauma ideologico e morale, e quindi l’apparente fine della guerra fredda vissuta come un trionfo dell’occidente e subito messa in secondo piano dal trauma delle Torri Gemelle dell’undici settembre 2001 a New York e le conseguenti guerre antislamiche In Iraq e in Afghanistan. Oggi negli USA si è persa la cognizione ideologica della differenza tra conservatorismo e progressismo sicché politicamente nessuno sa più bene chi è e che cosa è.
A questo panorama si aggiunge il modo maldestro – come ha osservato pochi giorni fa il quasi centenario Henry Kissinger – con cui l’attuale amministrazione intende provocare la Cina su Taiwan anziché restare fermi e non creare situazioni belliche costose e di incero esito. Il risultato finale è la coesione, anche non ancora alleanza militare tra Russia, Cina, Pakistan, Iran, Sud Africa, Brasile e altri Paesi dell’America Latina. Tutto ciò accade senza una regia o una leadership in grado di analizzare e guidare il corso degli eventi, cosa che l’America aveva sempre creduto di saper fare, ma per cui oggi sembra paralizzata e confusa.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Ocasio-Cortez e gli altri: l'ala socialista che rischia di costare cara a Biden. Alberto Bellotto il 19 Agosto 2022 su Il Giornale
Inflazione, criminalità, il ritorno di Donald Trump e pure la fronda socialista. I guai per Joe Biden non mancano. In vista delle midterm dell'8 novembre, il presidente si trova a fronteggiare in modo costante la spina nel fianco che arriva dalla corrente progressista, causa più di grattacapi che di soluzioni. Dal 2018, anno dell'arrivo al Congresso della prima pattuglia liberal capitanata dalla pasionaria Alexandria Ocasio-Cortez, i «socialisti» ispirati da Bernie Sanders si sono insinuati nei meccanismi del partito democratico complicandone i movimenti. Tra di loro, ribattezzati The Squad, c'è tutto il sottobosco che l'attivismo Usa può offrire. Due esempi su tutti: le prime deputate musulmane Rashida Tlaib e Ilhan Omar. In più nel 2022 potrebbe anche arrivare il grande salto liberal al Senato, con sfide competitive in Pennsylvania e Wisconsin.
I cavalli di battaglia dei socialisti non fanno dormire sonni tranquilli a Biden. È il caso ad esempio delle grandi proposte per aumentare la spesa pubblica, come programmi per il clima e l'estensione della riforma sanitaria. A questo si aggiunge anche la grande retorica del «tax the rich», tassate i ricchi. Vedi il vestito-manifesto della Ocasio al Set Gala 2021. Un tema delicato in un Paese affezionato ai grandi tagli fiscali di Reagan e Trump.
Ma il piatto forte dei progressisti resta la sicurezza. O meglio la polizia. Tutta la squad si è unita al grande movimento di Black Lives Matter per chiedere lo smantellamento dei distretti, il famoso defund the police. Una mossa che alla fine si è ritorta contro i socialisti e lo stesso partito democratico. Tra il 2020 e il 2022 il Paese è stato travolto da un'ondata di criminalità. Negli ultimi mesi ci sono lievi segni di calo, ma quest'anno si conferma difficile: solo gli omicidi hanno fatto segnare un +39 per cento rispetto al 2019.
Insistere sulla riforma della polizia costa voti, fanno notare i moderati dem. Voti soprattutto nei sobborghi, dove Biden ha costruito parte del suo successo elettorale e che sono sempre sensibili a due cose: l'economia (vedi alla voce inflazione) e la sicurezza. Persino sull'immigrazione la sinistra complica i piani del partito. Ne sa qualcosa il sindaco afroamericano di New York, linciato dalla Squad per aver sottolineato che un'immigrazione massiccia manda in tilt il sistema di accoglienza. Tutti temi su cui il Gop farà una campagna feroce nei prossimi mesi. Altri membri della squad come Ayanna Pressley e Jamaal Bowman hanno fatto scandalo nel marzo scorso per aver difeso lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock sul palco degli Oscar, con buona pace della liberà di parola.
Persino sul fronte internazionale i progressisti creano problemi. È il caso di Ilhan Omar, unica deputata col velo di origini somale, che spesso ha attaccato Israele, alleato chiave degli Stati Uniti. Non stupisce quindi che Omar abbia faticato alle primarie, imponendosi per pochi voti. A Minneapolis, dove c'è il suo distretto, in molti non hanno apprezzato la campagna contro la polizia e già nel novembre scorso gli elettori l'avevano «punita» respingendo la proposta di riformare le forze dell'ordine.
Il caso Omar mette in luce i segni di cedimento del fronte socialista. Dopo l'elezione di Biden i progressisti hanno ingaggiato una battaglia feroce con il partito ma hanno portato a casa molto poco. I provvedimenti del Congresso votati negli ultimi mesi sono il frutto di una pesante mediazione interna tra l'ala moderata e i democratici più conservatori come Joe Manchin. «I socialisti perdono ovunque», ha notato Patrick Maloney, moderato dem che corre a New York, «gli elettori non vogliono né la rivoluzione, né la purezza ideologica, ma soprattutto non vogliono che qualcuno gli faccia la lezione su Twitter». Un avvertimento per Biden: occhio alle sbandate a sinistra perché regalano al Gop la vittoria.
Le due Americhe. Perché gli Stati Uniti sono la terra delle contraddizioni. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'1 Luglio 2022.
Quel che in genere i critici dell’America come nazione e storia di una nazione non capiscono quasi mai è la natura dell’American Exceptionalism: per quale accidente di motivo gli Stati Uniti d’America sono un Paese che non può essere confrontato con qualsiasi altro. I grandi Paesi di lingua inglese figli della madrepatria britannica sono tanti: dal Canada all’Australia alla Nuova Zelanda e in parte anche il Sud Africa che adesso va coi Brics, cioè con i cinesi e i russi in salsa carioca. Ma il punto è un altro: gli Stati Uniti d’America sono un inimitabile Paese perché sono instabili. In perenne crisi identitaria, lacerati da un proprio antiamericanismo interno che minaccia da sempre e per sempre una guerra civile.
Oggi come ieri, le Americhe sono due: quella dei democrats e quella della mitragliatrice in giardino sulla cui canna fumante arrostire il bacon, come mostrava in un video il senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz. L’America è un Paese vitale perché affetto da auto-odio, auto-disprezzo, furia antiamericana. Noi non ne abbiamo la più pallida idea. In genere gli italiani non capiscono l’America neanche se la abitano o se la confondono con Manhattan. Era l’estate del 1999 e mi trovavo davanti all’oceano a Long Island in compagnia di Arnold Beichman, firma storica del Washington Time (da non confondere col Post). Arnold è morto un anno fa e ha lasciato un’eredità di articoli micidiali sui luoghi comuni antiamericani, con il suo temperamento di figlio di emigrati ebrei ucraini. Mi regalò una copia del suo Anti-American Myths, i miti antiamericani, con una geniale prefazione di Tom Wolfe, quello che descrisse i radical-chic nel Bonfire of The Vanities. Ci sarà una ragione per cui i canadesi sono canadesi e somigliano molto più ai belgi, pur vivendo in America e parlando inglese (quasi) come gli americani? Perché nessun altro Paese di lingua inglese ha fatto un pieno maggiore di diversità incomponibili, ma legate tutte insieme da una Costituzione geniale.
L’America di oggi, di questi anni, mesi e ore, è una polveriera con sotto una miccia corta, e lo è sempre stata. La Rivoluzione Americana che precedette quella francese fu molto più feroce e spietata di quella bolscevica e fu talmente ideologica che un terzo dei coloni scapparono a gambe levate in Canada per farsi proteggere dal re di Londra inseguiti dalle truppe rivoluzionarie così come accadde nella Vandea francese. Fu per un motivo ideologico che l’America tentò di prendersi il Canada e mettere al muro i traditori della rivoluzione se il governo di Sua Maestà non avesse mandato una flotta a bombardare Washington con la stessa violenza con cui i russi hanno devastato Mariupol. E chi pensa che la Guerra Civile americana fosse una vicenda post-coloniale non ha idea del carattere ideologico di un conflitto di posizioni etiche e non solo economiche in cui letteralmente i fratelli uccidevano i fratelli, con quasi un milione di morti e mutilati. Mai vista una strage del genere prima della Grande Guerra europea alla quale gli americani mandarono anche i vecchi generali che avevano combattuto in uniforme confederata, cioè sudista. La guerra civile scoppiò dalla secessione proclamata contro l’elezione del primo Presidente Repubblicano Abraham Lincoln.
Eterni fautori della pena di morte perché costretti a vivere e cavarsela nella frontiera e oltre la frontiera. Tutto il gruppo che aveva complottato per assassinare Lincoln fu impiccato in una grande cerimonia pubblica in cui l’esecuzione più orrenda fu quella della sorella dell’assassino che possedeva la taverna in cui era stato ordito il complotto e che fu appesa per il collo legata alla sedia da cui non riusciva ad alzarsi per una dolorosissima dismenorrea e che penzolò per quaranta minuti prima di morire. E non era affatto un’America figlia di galeotti e deportati come invece fu l’Australia: le tredici colonie erano perfettamente regolate in senso democratico ancor prima di gettare a mare il tè destinato agli inglesi in nome del principio secondo cui chi paga le tasse ha diritto a controllare come si spendono i suoi soldi. Funzionavano corti e scuole, università e anche un ben organizzato Continental Army agli ordini del generale Georges Washington, in uniforme blu.
E quando gli americani decisero nel 1918 di venire in Europa per capovolgere le sorti del conflitto che vedeva i tedeschi a un passo dalla vittoria, si misero con pazienza metodica ad addestrare rozzi agricoltori del Kentucky che arrivarono già malati della tremenda “influenza” poi detta “Spagnola” e vinsero la guerra per tutti gli europei snob e teste coronate che si spartivano il mondo. Fu allora che l’America rivoluzionaria e idealista si piazzò in Europa e combinò tutti i disastri che portavano la firma del presidente Woodrow Wilson che voleva raddrizzare i maledetti europei e cominciò a fare a pezzi l’Europa in combutta col presidente francese Georges Clemenceau creando le condizioni dell’inevitabile seconda guerra mondiale: fu allora che un giovane genio che faceva parte della delegazione britannica alla conferenza di Versailles se ne tornò sdegnato a Londra perché vedeva nell’idealismo autoritario degli americani il seme della catastrofe.
Ed è questo che anche oggi l’Europa e gli europei non capiscono, non riescono a ficcarsi nella mente: gli americani sono prima di tutto idealisti di molti ideali comuni ai nostri – milioni di americani si dichiarano oggi marxisti convinti e soltanto nelle università americane esistono e prosperano cattedre di marxismo – e poi coltivano in modi controversi e spesso opposti l’idealismo americano della libertà di movimento, di scambio, d’amore libero che ha visto le donne americane viaggiare da sole col loro pick-up con un fucile, un plaid e un sogno da realizzare. George Friedman il “forecaster”, da non confondere con tutti gli altri Friedman, è uno dei migliori analisti d’America e autore di una quantità di saggi sulla società americana ed è stato il primo a mettere in colonna gli elementi che identificano la diversità americana e il motivo per cui l’America è contemporaneamente fraintesa e odiata, scambiata per i simboli di Hollywood e ignorata. Friedman cominciò con le previsioni del tempo, poi parlò dei raccolti, infine delle correnti economiche, politiche e delle idee rilevanti.
L’America è sempre stata il bollitore di un caos magmatico di fronte al quale gli osservatori europei e italiani in particolare non sanno che dire e balbettano luoghi comuni sulle diaboliche multinazionali. Gli americani di oggi sono prima di tutto dei feroci antiamericani e la divisione delle razze e dei generi ha moltiplicato le diversità e le prerogative gelose di ogni gruppo etnico o di identità sessuale: prima di tutto un giovane americano oggi che non sia un bianco di lingua inglese, cerca di inserirsi in un gruppo che possa definire sé stesso come la patria degli oppressi. L’unico elemento che unisce gli americani è il desiderio di vivere come vogliono lontani dallo Stato e dalle sue regole, facendo profitti quanti ne bastano per decidere di sé stessi.
Ciò che Trump aveva intercettato, e che in Europa quasi nessuno ha capito, è il formidabile desiderio americano di mandare a quel Paese tutti e pensare solo a sé stessi.
Ma i criteri fondamentali che reggono questa amministrazione come qualsiasi altra, consistono nel cercare di dare agli elettori quel che non sanno ancora di volere. Ha un senso tutto ciò? Probabilmente no, ma l’America ha avito da quando esiste un unico senso: quello di un pianeta staccato dalla Terra, abitato da evasi e da fuggiaschi e da pionieri alla ricerca di una terra lontana da ogni radice e possibilmente in cui ognuno possa stare da solo o in gruppi sempre più ristretti. Tutti i discorsi che cominciano con “l’America è” o “gli americani sono”, è quasi sempre falsa in partenza. Una previsione? Gli americani sono stufi di un’Europa imbelle e sono tentati di venderla alla Russia così come un giorno la Russia vendette agli americani l’Alaska.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Il generale Lee e il fuoco della Guerra di Secessione americana. Matteo Muzio il 26 Settembre 2022 su Inside Over.
Lo storico Emory Thomas ha scritto nella sua biografia di Robert Lee pubblicata nel 1995 che la decisione di dimettersi dall’esercito americano e di unirsi alla nascente repubblica confederata era una scelta “che Lee doveva prendere per non cadere nell’infamia”. Nonostante il carattere post-revisionista di quel testo, Thomas in questo assunto si allineò a tutti i suoi predecessori: James McPherson scrisse nel suo Battle Cry of Freedom che la scelta era “predestinata dal suo sangue e dalle sue radici familiari”. Anche il giornalista Douglas Southall Freeman, il primo autore che si cimentò con la scrittura della vicenda umana di quello che sarebbe diventato l’eroe della Virginia per i secoli a venire, disse che Lee “era nato per compiere quella scelta”. Fu però veramente così?
Lee e i Confederati
Davvero Lee era ardentemente convinto della causa confederata? Le cose non stanno affatto così. Sappiamo che l’ultima promozione ricevuta nell’esercito degli Stati Uniti, quella a colonnello, venne approvata dal presidente Abraham Lincoln perché convinto delle sue credenziali unioniste. Non abbiamo nemmeno traccia di sue simpatie verso la fazione dei “mangiafuoco”, quei politici e intellettuali del Sud che prima della vittoria di Abraham Lincoln chiedevano la secessione degli Stati del Sud per formare una nuova entità politica, oligarchica e antidemocratica, basata un voto pesato delle élite di proprietari terrieri.
In una lettera al figlio primogenito inviata il 23 gennaio 1861 si esprimeva con toni molto duri sulla possibile secessione del Sud: “[…] Percepisco l’aggressività del Nord e farò di tutto per rintuzzarla […] Come cittadino americano, sono molto orgoglioso del mio Paese, della sua prosperità e delle sue istituzioni e difenderò qualunque Stato venisse attaccato. Però non riesco a vedere una catastrofe maggiore della dissoluzione dell’Unione. Sarebbe un cumulo di tutti i mali e sono pronto a sacrificare tutto fuorché l’onore pur di difenderla. Spero, quindi, che si esauriscano tutti i mezzi costituzionali prima che ci sia un ricorso all’uso della forza. La secessione non è nient’altro che rivoluzione”. Ciò non toglie che Lee concordasse con molte delle posizioni dei secessionisti: ad esempio, pur trovando dannosa la schiavitù, soprattutto per il carattere del padrone bianco, non fece mai nulla di più, se non commentare con un “Solo Dio sa quanto lunga può essere il loro soggiogamento” sulla questione.
Gli schieramenti
Trovava dannosi e provocatori gli abolizionisti e ai suoi occhi l’assalto di John Brown all’armeria di Harper’s Ferry nel 1859 rientrava perfettamente in questa lunga catena di provocazioni. Non solo: riteneva ingiusto il limite posto dagli stati abolizionisti al possesso di schiavi. Anche nonostante questo, in Virginia la situazione era estremamente frastagliata: il superiore di Lee, il generale Winfield Scott, era virginiano ma decise di rimanere fedele all’Unione, così come l’ammiraglio David Farragut. Dall’altro lato della barricata, invece, c’era Edmund Ruffin, ex senatore, agrario, innovatore tecnologico (sua l’intuizione che il suolo richiedesse concimazione minerale per evitare l’esaurimento delle colture) e soprattutto uno dei capi dei Mangiafuoco, radicalmente ostile al “dominio yankee” e favorevole a costituire un nuovo stato ben da prima di Abraham Lincoln. Lee non sa quale posizione prendere e anche la sua famiglia è divisa: la sorella Anne è un unionista convinta e i suoi figli si arruoleranno nell’Unione. Dopo la guerra non si parleranno mai più. Lee deluse molto Scott che gli disse con molta delusione “che questa era la peggior scelta della sua vita”.
La scelta del colonnello
A quel punto però l’incerto Lee aveva compiuto la sua scelta. Del resto, il suo legame con l’Unione era solo legato al suo essere profondamente conservatore in senso pieno. Come lui anche la pensava anche il vicepresidente confederato Alexander Stephens, che durante la convenzione costituzionale della Georgia sedeva tra i banchi unionisti, dove affermò che l’Unione era “una barca fallata che si poteva ancora riparare”. Se però a Washington sedeva un amico degli abolizionisti, aderire alla Confederazione era una scelta conservatrice. Del resto, anche Thomas Jefferson Randolph, nipote del presidente Jefferson, autore della Dichiarazione d’indipendenza, aveva deciso di aderire alla causa confederata sedendo nella convenzione costituzionale della Virginia. Il nuovo Stato era autentico depositario della tradizione di Washington e Jefferson. Questa teoria ci porta però troppo lontano. Dobbiamo raggiungere Lee che assume il comando delle forze armate della Virginia, il nocciolo di quello che poi diventerà l’Armata della Virginia Settentrionale. La sua priorità era una: difendere la capitale Richmond dall’assalto dell’esercito unionista. La confederazione, a parte l’alto numero di ufficiali formatisi a West Point, disponeva di poco altro. Una rete di strade e ferrovie assolutamente insufficienti, queste ultime venivano costruite specialmente per il trasporto di cotone verso i porti.
Le prime fasi della guerra civile americana
Una rete propriamente detta quindi non era presente. Inoltre, l’unico impianto siderurgico di una certa rilevanza era la Tredegar Iron Works, sito proprio nella capitale virginiana. Proprio per questo ci si trasferì l’intero governo confederato il 29 maggio 1861, rendendola la nuova Capitale. Appare evidente quindi che data la breve distanza da Washington D.C. (circa 175 km), rendeva un colpo di mano dei nordisti su Richmond estremamente probabile. Per questo Lee l’ingegnere iniziò a costruire una vasta rete di trincee intorno alla Capitale, che potesse bloccare un assalto improvviso. Una strategia che incontrò la derisione della stampa confederata, che lo definì “Lee la nonnina” per questa sua cautela ritenuta eccessiva. Per di più il suo primo impegno sul campo di battaglia, una scaramuccia con gli unionisti nella località di Cheat Mountain il 12 settembre 1861, non finì bene perché non ricevette informazioni adeguate, così non lanciò l’attacco. Lee era un comandante troppo timido. Così i giornali criticarono molto la decisione di nominarlo alla guida dell’Armata della Virginia Settentrionale quasi un anno più tardi, quando il generale Joseph Johnston venne ferito a una spalla nella battaglia di Seven Pines il 1° giugno 1862 contro l’esercito nordista comandato dal generale George McClellan.
Quest’ultimo guidava un esercito grande il doppio di quello confederato e la strategia difensiva di Johnston aveva portato McClellan a poco meno di 10 km dalla capitale. Il governo del presidente sudista Jefferson Davis stava prendendo in considerazione l’evacuazione, ma Lee nominato come nuovo comandante affermò con forza che Richmond non doveva cadere per nessun motivo. A sorpresa, una volta raggiunto il campo di battaglia il 25 giugno, Lee colpì i nemici con una serie di attacchi rapidi e coraggiosi, tanto da costringerli ad abbandonare il loro obiettivo di conquistare la capitale, battendo McClellan in sette giorni. Il nuovo comandante sudista però non si limitò a godersi la vittoria. Anzi, capì che la chiave della vittoria per i confederati non era la disfatta totale dell’avversario, impossibile data la disparità di forze, ma doveva puntare a fiaccare il morale del Nord con una sconfitta militare decisiva che li convincesse della necessità di una separazione tra quelli che un tempo erano gli Stati Uniti.
Le battaglie di Lee e la fine della guerra
Sarebbe troppo lungo per questa sede descrivere le battaglie combattute da Lee. Basti ricordare che tentò due volte di invadere il Nord: la prima volta in Maryland nel settembre 1862 per rifornire di armi e cibo i suoi uomini e la seconda volta nel luglio 1863 arrivando addirittura in Pennsylvania tentando di intrappolare l’armata del Potomac. In entrambi i casi Lee mostrò la sua eccellenza come tattico ma la sua inconsistenza come stratega. Fuori dal territorio della Virginia, che lui ben conosceva, perse in ogni caso, persino contro l’indeciso George McClellan.
Negli ultimi mesi di guerra il suo sistema difensivo tenne bloccate le forze unioniste a partire dal giugno 1864, quando ormai le sorti della guerra erano segnate: la Confederazione aveva già perso il controllo del fiume Mississippi e si avviava a perdere anche il nodo ferroviario di Atlanta, in Georgia. Lee a quel punto propose di rompere un tabù: armare gli schiavi in cambio della loro liberazione, ovviamente con il consenso del loro padrone. La proposta venne accolta eufemisticamente in modo freddo: il generale Howell Cobb affermò che “se gli schiavi possono essere dei buoni soldati, allora le nostre teorie sono tutte sbagliate”. La proposta venne approvata dal Congresso confederato molto tardi, il 13 marzo 1865, quando le sorti della guerra erano segnate.
Qualche giorno prima, il 28 febbraio, era arrivata la nomina di Lee a comandante generale degli eserciti confederati. La resa dell’armata della Virginia Settentrionale avvenne il 9 aprile 1865. Lee disobbedì agli ordini di Davis, che aveva chiesto una resistenza a oltranza, capendo che ormai le sorti della Confederazione erano segnate. Come disse il comandante unionista Ulysses Grant, ormai c’era nuovamente un Paese solo. Lee aveva perso la sua scommessa e la dimora di Arlington, dove viveva prima della guerra. Davanti a lui c’era l’ignoto. Se il Nord avesse preso sul serio quanto da lui affermato in quella lettera del gennaio 1861, era da considerare un rivoluzionario. E quindi un traditore. Sapeva di poter pagare molto caro. Come aveva temuto anni prima, ero solo di fronte al suo destino.
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Usa, si amplia il divario nel mondo del lavoro: un Ceo guadagna 670 volte lo stipendio di un dipendente. La Repubblica l'8 giugno 2022.
Si amplia ancora negli Usa la forbice tra lo stipendio degli amministratori delegati e quello dei loro dipendenti. È quanto mette in evidenza uno studio dell'Institute for Policy Studies, secondo cui un ceo guadagna in media 670 volte in più di un suo dipendente, in aumento rispetto alle 640 volte del 2020. Lo studio rileva che il compenso di un ceo è in media di 10,6 milioni di dollari mentre quello di un lavoratore è di 23.968 dollari.
L'indagine ha riguardato 300 aziende e in 47 di queste la differenza di paga ha superato il rapporto di 1 a 1000. Rispetto allo scorso anno la media di stipendio dei Ceo è cresciuta di 2.5 milioni mentre quella dei dipendenti è salita di 3.556 dollari. Inoltre in un'azienda su tre tra quelle monitorate la crescita dei salari è stata inferiore all'inflazione. Sempre in queste, 106 su 300, nel 67% dei casi ha speso risorse per buyback azionari, a tutto vantaggio di piani di remunerazione dei ceo basati anche sui pacchetti azionari.
Con una beffa ulteriore messa in evidenza dallo studio: in sostanza i contribuenti Usa starebbe ampiamente finanziando proprio le aziende con un ampio gap di retribuzione tra ceo e dipendenti. Tra le 300 società monitorate, il 40% è stato titolare di contratti federali nell'arco temporale tra il primo ottobre 2019 e il primo maggio 2022, cioè ha ricevuto fondi pubblici. Il valore totale di questi contratti è stato di 37,2 miliardi di dollari.
Lo studio isola poi i casi di alcuni ceo. Il numero uno di Amazon Andy Jassy con i suoi 212,7 milioni di dollari ha incassato uno stipendio 6500 volte più alto del salario medio di un dipendente Amazon (32.855 dollari). Fabrizio Freda, ceo di Estee Lauder, azienda che lo scorso anno ha ridotto il proprio organico da 75 mila a 62 mila lavoratori, ha visto la propria busta paga salire nel 2021 a 66 milioni di dollari, 1965 volte i 33.586 dollari di un impiegato tipico. Jay Snowden, ceo di Penn National Gaming, forte dei suoi 65,9 milioni di dollari vanta uno stipendio 1942 superiore alla media. Ampie disuguaglianze in un'azienda dove solo il 20% risulta organizzato in sindacati.
Da Focus.it. Storia. Chi è lo Zio Sam, il simbolo degli Stati Uniti?
Il mitico zio Sam è una persona realmente esistita. Ecco la storia di come è diventato il personaggio simbolo che, ancora oggi, rappresenta gli Stati Uniti.
Lo Zio Sam è stato ufficialmente riconosciuto dal Congresso americano come simbolo Usa nel 1961, ma la sua storia risale a quasi due secoli fa.
Tutto cominciò durante la guerra del 1812 contro l'Inghilterra, il governo scelse come fornitore di carne per l'esercito un tale Samuel Wilson, un macellaio di New York. Wilson inviava la sua merce in barili di legno su cui spiccava la scritta US, United States. Le truppe al fronte, sapendo che la carne proveniva da Samuel Wilson, cominciarono a interpretare la sigla come Uncle Sam (Zio Sam), commentando l'arrivo delle vettovaglie con frasi come "Sono arrivati i pacchi dello Zio Sam!".
ALTRA FACCIA. Negli anni successivi, vignette e caricature hanno stravolto i tratti del personaggio originale, e oggi lo Zio Sam è conosciuto in tutto il mondo per il manifesto di reclutamento del 1917 di James Montgomery Flagg, ma la faccia del macellaio è tuttora riconoscibile nella statua allo Zio Sam eretta ad Arlington, Massachusetts, paese natale di Sam Wilson.
I Nativi. Da lastampa.it il 16 agosto 2022.
E' diventata famosa in tutto il mondo per essere salita sul palco degli Oscar nel 1973 a rifiutare, per conto di Marlon Brando, la statuetta vinta dal divo americano per Il Padrino. Littlefeather, nativa americana allora 26enne mandata in scena da Brando per leggere un discorso proprio a difesa dei nativi fu fischiata da parte della platea, e oggi, quasi 50 anni dopo, sono arrivate le scuse degli Oscar.
L'Academy ha sottolineato che Littlefeather ha subito abusi «ingiustificati e ingiustificati» dopo il suo breve discorso. «Non avrei mai pensato di vivere abbastanza per vedere il giorno in cui avrei ascoltato tutto questo», ha detto con ironia Littlefeather all'Hollywood Reporter. Presentandosi a nome di Brando - che aveva scritto «un lunghissimo discorso» - Littlefeather aveva detto brevemente al pubblico «che lui con grande dispiacere non può accettare questo premio molto generoso».
«E le ragioni di ciò sono il trattamento riservato agli indiani d'America oggi dall'industria cinematografica e televisiva, e anche dai recenti avvenimenti a Wounded Knee», ha detto - in riferimento a un violento scontro con gli agenti federali in un sito di notevole importanza per il popolo Sioux. Venendo accolta da fischi e pochi applausi del pubblico. Successivamente sono circolate malignità secondo cui la donna fosse solo un'attrice arrivista, o addirittura l'amante di Brando.
«L'abuso che hai subito... è stato ingiustificato e ancora ingiustificato», ha scritto David Rubin, ex presidente dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, in una lettera a Littlefeather resa pubblica oggi. Rubin ha affermato che il discorso alla 45a edizione degli Academy Awards «continua a ricordarci la necessità del rispetto e l'importanza della dignità umana».
L'Academy Museum of Motion Pictures ospiterà un evento a settembre , in cui Littlefeather parlerà della sua apparizione agli Oscar del 1973 e del futuro della rappresentazione indigena sullo schermo. In risposta alle scuse, ha chiosato: «Noi indiani siamo persone molto pazienti - sono passati solo 50 anni!», aggiungendo che mantenere il senso dell'umorismo è «il nostro metodo di sopravvivenza».
Le scuse (tardive) di Hollywood: «Piccola Piuma, non dovevamo trattarti così». Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 16 agosto 2022.
Le critiche arrivano, fortissime, quando Piccola Piuma, 26 anni, dice: «Sono qui perché me lo ha chiesto che rifiuta l’Oscar come migliore attore: lui non può accettare il modo in cui il cinema rappresenta i nativi americani». A quel punto, fischi terribili, «buuu» trascinati, urlati da signore e signori vestiti di tutto punto, seduti nella platea del Dorothy Chandler Pavilion, investono di disapprovazione la giovane attrice, modella e attivista nativa americana che, in piedi sul palco più famoso d’America, abbassa lo sguardo e finisce il suo discorso di soli 60 secondi davanti a un pubblico tutt’altro che amico.
Quarantanove anni dopo quella notte, l’ex presidente dell’Academy, David Rubin, le ha scritto una lettera di scuse per gli abusi «ingiustificati e ingiustificabili» subiti, ed è stato annunciato che a settembre le verrà dedicata una programmazione speciale in suo sostegno. «Il carico emotivo che hai vissuto e il costo che hai pagato per la tua carriera sono irreparabili. Per troppo tempo il coraggio che hai mostrato non è stato riconosciuto. Per questo, ti offriamo sia le nostre più profonde scuse che la nostra sincera ammirazione», ha scritto Rubin.
«Meglio tardi che mai, noi nativi siamo gente molto paziente», ha commentato Piccola Piuma che oggi ha 75 anni e che dopo quel discorso, in effetti, oltre a ricevere minacce di morte, è stata tagliata fuori dall’industria cinematografica americana, storia che è riuscita a raccontare solo nel 2021 nel documentario «Sacheen rompe il silenzio».
Era il 1973, la 45° edizione degli Oscar. Brando vinceva la sua statuetta per l’intepretazione di Don Vito Corleone nel di Francis Ford Coppola, girato nel 1972. Chiese a Piccola Piuma di solcare il palco più famoso d’America perché indignato per come Hollywood rappresentava nei film western i nativi americani e per attirare l’attenzione sulla situazione di stallo tra gli attivisti dell’American Indian Movement (AIM) e il governo degli Stati Uniti a Wounded Knee, nella riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota, dove circa duecento membri della sottotribù Oglala Lakota avevano occupato la città in protesta contro il presidente degli Oglala Lakota, Richard Wilson, e il mancato rispetto dei trattati con i nativi americani da parte delle autorità americane. Era la prima volta che si faceva un discorso politico agli Academy Awards . Era anche la prima volta che si ospitava una nativa americana che, con fierezza, pronunciava parole potentissime, come: «Salve, io sono Sacheen Piccola Piuma, sono un’Apache e sono la presidentessa del National Native American Affirmative Image Committee».
A guardare adesso quel video, sembra impossibile che un’attrice, una donna, potesse subire un’umiliazione così feroce davanti a milioni di persone, oltretutto, per la prima volta in diretta mondiale. Si racconta che durante il discorso, l’attore iperconservatore e star del genere western, John Wayne, seduto tra gli ospiti, sia stato fermato con la forza da sei uomini della sicurezza mentre provava a raggiungere Piccola Piuma e tirarla giù dal palco.
In un’intervista, la donna ha dichiarato: «Sapevo di dover pagare il prezzo per quello che ho raccontato in modo che altri potessero fare altrettanto. Sapevo di essere stata la prima a fare una dichiarazione politica agli Academy. La prima nativa, donna, indiana d’America. Dicevo la verità su come stavano le cose. Non la seconda, non la terza, non la quarta, ma la prima, e questo sarà sempre storicamente vero». Tra quel pubblico, non c’era nessuno che le assomigliasse, ricorda Piccola Piuma: «Guardavo in platea, ed erano tutti bianchi».
Piccola Piuma, morta l'attivista che rifiutò l'Oscar per conto di Marlon Brando. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 03 ottobre 2022.
Il 17 settembre scorso aveva preso parte a un evento in suo sostegno, organizzato dopo la lettera ufficiale di scuse firmata dall'ex presidente di Academy David Rubin
Piccola Piuma, l'attivista per i nativi americani che rifiutò l'Oscar per conto di Marlon Brando per «Il Padrino» alla cerimonia del 1973, è morta ieri, domenica 2 ottobre, a 75 anni. Era stata colpita da un cancro al seno. A giugno, l'Academy of Motion Pictures Arts and Sciences si era scusata con lei per il trattamento riservatole la notte della premiazione: le erano stati concessi solo 60 secondi per leggere il suo discorso sui diritti dei nativi americani. Poi l'attivista, allora 26enne, era stata scortata fuori dal palco tra fischi e insulti razzisti del pubblico presente in sala. Il 17 settembre scorso, Piccola Piuma aveva preso parte a un evento speciale in suo sostegno all'Academy Museum durante cui le erano state presentate le scuse (tardive) di Hollywood .
«Con grande rammarico, Brando non può accettare questo premio molto generoso — aveva detto rivolta al pubblico della Notte degli Oscar —. E le ragioni di questo sono il trattamento riservato agli indiani d'America oggi dall'industria cinematografica... e in televisione nelle repliche di film, e anche con i recenti avvenimenti a Wounded Knee». Le era stato permesso di leggere il suo discorso completo in una conferenza stampa successiva, discorso poi stampato sul «New York Times». Raquel Welch, Clint Eastwood e il co-conduttore della serata degli Oscar Michael Caine erano stati tra coloro che l'avevano criticata davanti alle telecamere per aver interrotto la cerimonia.
Piccola Piuma, nata Marie Louise Cruz a Salinas, in California, aveva cominciato a interessarsi alle questioni dei nativi americani al college, partecipando poi all'occupazione dell'isola di Alcatraz nel 1970, e adottando il suo nome proprio in quel periodo. Dopo il college, era entrata a far parte dell'associazione Screen Actors Guild Award dove, secondo quanto riferito, aveva incontrato Brando, interessato alle vicende degli indiani d'America tramite il regista Francis Ford Coppola che, come Piccola Piuma, viveva a San Francisco. In una recente intervista, l'attivista aveva raccontato a «Variety» com'era stato partecipare agli Oscar per conto di Brando.
«Era la mia prima volta agli Academy Awards. Ho superato il mio primo ostacolo, promettendo a Marlon Brando che non avrei toccato quell'Oscar. Ma, mentre uscivo da quel palco, l'ho fatto nei modi del coraggio, dell'onore, della grazia, della dignità e della sincerità. L'ho fatto nei modi dei miei antenati e nei modi delle donne indigene». E ancora: «Ho continuato a camminare dritto con un paio di guardie armate al mio fianco, e ho tenuto la testa alta ed ero orgogliosa di essere la prima donna indigena nella storia degli Academy Awards a fare quella dichiarazione politica».
A quel tempo, nel 1973 «c'era un blackout mediatico su Wounded Knee e contro l'American Indian Movement che lo stava occupando. Marlon li aveva chiamati in anticipo e aveva chiesto loro di assistere agli Academy Awards, cosa che hanno fatto. Quando mi hanno visto, sul palco, rifiutare quell'Oscar per gli stereotipi all'interno dell'industria cinematografica e menzionare Wounded Knee in South Dakota, hanno capito che si sarebbe interrotto il boicottaggio dei media».
Di recente, Piccola Piuma aveva condiviso, sempre con «Variety», alcune riflessioni sulla morte: «Quando moriamo, sappiamo che i nostri antenati stanno venendo a prenderci. Sappiamo che andremo in quel mondo spirituale da dove siamo venuti. Accettiamo ciò come un guerriero, con orgoglio e non con un senso di sconfitta, non vediamo l'ora di unirci ai nostri antenati che saranno lì con noi al nostro ultimo respiro e ci accoglieranno in quel mondo dall'altra parte e faranno una grande festa per noi».
Dagospia il 4 ottobre 2022. IL DISCORSO DI MARLON BRANDON PUBBLICATO DAL NEW YORK TIMES.
Da 200 anni diciamo al popolo indiano che lotta per la sua terra, la sua vita, le sue famiglie e il suo diritto alla libertà: «Deponete le armi, amici miei, e poi rimarremo uniti. Solo se deponete le armi, amici miei, possiamo parlare di pace e raggiungere un accordo che vi farà bene».
Quando hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Gli abbiamo mentito. Li abbiamo derubati delle loro terre. Li abbiamo costretti a firmare accordi fraudolenti che abbiamo chiamato trattati che non abbiamo mai rispettato. Li abbiamo trasformati in mendicanti. E da qualsiasi interpretazione della storia, per quanto contorta, non abbiamo fatto bene. Non eravamo nella legalità né eravamo giusti in quello che facevamo. Non dobbiamo restaurare queste persone, non dobbiamo essere all'altezza di alcun accordo, perché ci è dato in virtù del nostro potere di attaccare i diritti degli altri, di prendere le loro proprietà, di togliere loro la vita quando cercano di difendere la loro terra e libertà, e di fare delle loro virtù un crimine e dei nostri vizi virtù.
Ma c'è una cosa che è al di là della portata di questa perversione ed è il tremendo verdetto della storia. E la storia ci giudicherà sicuramente. Ma ci interessa? Che tipo di schizofrenia morale è quella che ci permette di gridare affinché tutto il mondo senta che siamo all'altezza del nostro impegno quando ogni pagina della storia e quando tutti i giorni e le notti degli ultimi 100 anni nella vita degli indiani d'America contraddicono quella voce?
Sembrerebbe che il rispetto dei principi e l'amore verso il prossimo siano diventati disfunzionali in questo nostro paese, e che tutto ciò che abbiamo fatto, tutto ciò che siamo riusciti a realizzare con il nostro potere sia semplicemente annientare le speranze dei paesi appena nati, così come amici e nemici allo stesso modo, non siamo umani e non rispettiamo i nostri accordi.
Forse in questo momento ti stai chiedendo che diavolo ha a che fare tutto questo con gli Academy Awards? Perché questa donna è qui in piedi, a rovinarci la serata, a invadere le nostre vite con cose che non ci riguardano e di cui non ci interessa? Sprecare tempo e denaro e intromettersi nelle nostre case.
Penso che la risposta a queste domande inespresse sia che la comunità cinematografica è stata responsabile quanto qualsiasi altra di aver degradato gli indiani e di averli presi in giro, descrivendoli come selvaggi, ostili e malvagi. È già abbastanza difficile per i bambini crescere in questo mondo. Quando i bambini indiani guardano la televisione e guardano i film, e quando vedono la loro razza rappresentata nei film, le loro menti vengono ferite in modi che non possiamo mai sapere.
Di recente ci sono stati alcuni passi vacillanti per correggere questa situazione, ma troppo vacillanti e troppo pochi, quindi io, come membro di questa professione, non sento di poter, come cittadino degli Stati Uniti, accettare un premio qui stasera. Penso che i premi in questo paese in questo momento non siano appropriati per essere ricevuti o assegnati fino a quando le condizioni degli indiani d'America non saranno drasticamente modificate. Se non siamo i custodi del nostro fratello, facciamo almeno in modo di non essere il loro carnefice.
Sarei stato qui stasera per parlarvi direttamente, ma ho sentito che forse avrei potuto essere più utile se fossi andato a Wounded Knee.
Mi auguro che coloro che stanno ascoltando non considerino questo come un'intrusione rude, ma come uno sforzo serio per concentrare l'attenzione su una questione che potrebbe benissimo determinare se questo paese ha o meno il diritto di dire da questo punto in poi crediamo nei diritti inalienabili di tutte le persone a rimanere libere e indipendenti su terre che hanno sostenuto la loro vita oltre la memoria vivente.
Grazie per la vostra gentilezza e cortesia a Miss Littlefeather. Grazie e buona notte.
La morte di Piccola Piuma, che disse no a Hollywood nel nome di Brando. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2022.
Il 27 marzo 1973, alla cerimonia degli Oscar, tutti aspettavano il più grande attore del mondo, Marlon Brando, favoritissimo per l’interpretazione di don Vito Corleone nel Padrino. I presentatori, Liv Ullmann e Roger Moore, elencarono i candidati. Poi Ullmann aprì la busta e disse: «Il vincitore è Marlon Brando». Il quale, però, era rimasto a casa. Allergico alle regole di Hollywood, alleato di Martin Luther King negli anni ’60 (alla famosa marcia del 1963 a Washington c’era anche lui), aveva deciso di boicottare la cerimonia per protestare contro il modo in cui i nativi americani venivano rappresentati sullo schermo e per attirare l’attenzione dell’America sull’occupazione allora in corso nella cittadina di Wounded Knee (200 attivisti nativi americani, due dei quali finirono uccisi, affrontarono per 71 giorni gli agenti federali in South Dakota).
Il discorso
Fu così che il mondo conobbe Sacheen Littlefeather, scomparsa l’altro giorno all’età di 75 anni per un tumore che l’aveva colpita nel 2018. Littlefeather, in abito tradizionale Apache, attraversò quella platea di dame di Beverly Hills vestite da sera e di signori in smoking salì sul palco del Dorothy Chandler Pavilion, rifiutò educatamente la statuetta (che rimase nelle mani di Moore) e disse agli ospiti e al pubblico di 85 milioni di telespettatori che Brando «con grande rammarico non può accettare questo premio così generoso». L’attore le aveva affidato un discorso da leggere, ma gli organizzatori le dissero che aveva solo sessanta secondi. Improvvisò, spiegando tra i fischi i motivi del rifiuto e concludendo così: «Spero di non aver rovinato questa serata e che in futuro i nostri cuori e la nostra compassione si incontreranno con amore e generosità». John Wayne, tra il pubblico, s’imbizzarrì — proprio lui che aveva ucciso sullo schermo più indiani del generale Custer — e secondo la leggenda — falsa, ma fa sorridere — fu trattenuto a fatica dalla security. Hollywood tagliò fuori Brando, e il suo genio, dal cinema che contava, per aver detto una verità poco gradevole in anticipo di qualche decennio sui tempi.
Bandita dall’’Academy
La ragazza timida che aveva osato rovinare la festa nella quale ogni anno Hollywood celebra golosamente sé stessa venne portata davanti ai giornalisti e protetta fisicamente da Moore — ignoto eroe di quella sera — con uno stratagemma, eludendo le guardie che volevano cacciarla perché tecnicamente non era una vincitrice e non aveva diritto di fare una conferenza stampa. Littlefeather riuscì infine a leggere la lettera di Brando — molto pacata, il New York Times la pubblicò integralmente — in difesa dei nativi americani, e fu per questo bandita dall’Academy. Academy che, poche settimane fa, si scusò, versò qualche lacrima di coccodrillo dedicandole un evento antirazzista. «È un sogno che si avvera — commentò lei —. Noi indiani siamo persone molto pazienti: sono passati solo 50 anni… Ma dobbiamo mantenere il nostro senso dell’umorismo, in ogni momento. È il nostro metodo per sopravvivere».
Piccola piuma, morta l'attivista che rifiutò l'Oscar per conto di Marlon Brando e scosse l'America. La Repubblica il 3 ottobre 2022.
È stata la prima nativa a salire sul palco del prestigioso premio. Il suo discorso di condanna per i maltrattamento subiti dagli indiani d'America fu una doccia fredda. Quasi 50 anni dopo l'istituzione di Hollywood si è scusata per l'atteggiamento ostile dei vertici dell'Academy
È morta all'età di 75 anni Sacheen Littlefeather (Piccola Piuma), l'attrice e attivista nativa americana che ha fatto la storia degli Oscar nel 1973, rifiutando il premio per conto di Marlon Brando come miglior attore per il film Il Padrino (dove vestiva i panni del boss mafioso Don Vito Corleone), scuotendo l'Academy - e circa 85 milioni di telespettatori - con il suo discorso che condannò il maltrattamento degli indiani d'America.
Nata come Marie Louise Cruz, soprannominata Piccola Piuma, a Salinas, in California, il 14 novembre 1946, è morta domenica 2 ottobre nella sua casa di Novato, nella contea di Marin, in California, in seguito ad un tumore al seno e al polmone destro che le era stato diagnosticato nel 2018.
Il discorso sul palco degli Oscar
Il 23 marzo 1973 salì sul palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles a nome di Brando rifiutando di ritirare il premio. Per l'occasione il grande attore scrisse un discorso di otto pagine, ma il produttore Howard Koch impedì di leggerlo per intero, informando che Littlefeather avrebbe avuto solamente un minuto. Nel suo discorso si presentò come Apache, criticando la rappresentazione dei nativi americani da parte di Hollywood.
In abiti tradizionali
Con un abito di pelle di cervo, mocassini e lunghi capelli neri raccolti in due codini, la 26enne sconosciuta, si rivolse così al pubblico dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences: "Buonasera. Mi chiamo Sacheen Littlefeather. Sono Apache e presiedo il Comitato Nazionale per l'Immagine Affermativa dei Nativi Americani. Rappresento Marlon Brando a questo evento. È con rammarico che Marlon Brando non può accettare questo premio così generoso, a causa del modo in cui i nativi americani sono trattati oggi dagli Stati Uniti. È con rammarico che non può accettare questo generosissimo premio, a causa del modo in cui i nativi americani sono trattati oggi dall'industria cinematografica, in televisione e nelle repliche dei film, e a causa di Wounded Knee".
L'ostracismo dell'Academy
Il suo discorso fu accolto da un mix di applausi, fischi ed anche insulti e privò l'attrice di una carriera cinematografica e le valse l'ira dei vertici dell'Academy Awards. Quasi 50 anni dopo l'istituzione di Hollywood si è scusata con Sacheen Littlefather, organizzando in onore della cultura dei nativi americani il 17 settembre scorso un evento che ha celebrato il contributo delle popolazioni indigene alla Settima Arte.
Prima di acquisire la controversa notorietà durante la notte degli Oscar, Littlefather aveva posato come modella per la rivista Playboy. Negli anni 80 ha partecipato a campagne per la lotta all'Aids, causa di morte del fratello e ha lavorato in un ospizio fondato da Madre Teresa in California. Riscoprendo la fede cattolica della sua infanzia, ha anche guidato un circolo di preghiera di San Francisco intitolato alla religiosa Kateri Tekakwitha, una donna Algonquin e Mohawk del XVII secolo, prima nativa nordamericana ad essere proclamata santa da papa Benedetto XVI.
Da movieplayer.it il 3 ottobre 2022.
Sacheen Littlefeather, l'attrice e attivista nativa americana che è salita sul palco agli Academy Awards nel 1973 per rivelare che Marlon Brando non avrebbe accettato il suo Oscar per Il Padrino, è morta il 2 ottobre 2022 in California. Aveva 75 anni.
Sacheen Littlefeather è morta domenica a mezzogiorno nella sua casa nella città di Novato, nel nord della California, circondata dai suoi cari, secondo una dichiarazione inviata dalla sua badante. L'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che si è riconciliata con Littlefeather a giugno e ha tenuto una celebrazione in suo onore solo due settimane fa, ha rivelato la notizia sui social media domenica sera. Littlefeather aveva rivelato nel marzo 2018 di essere stata colpita da un tumore al seno.
Nel marzo 1973 Marlon Brando decise di boicottare la cerimonia degli Oscar per protestare contro il trattamento riservato ai nativi americani e contro la loro rappresentazione fornita sul grande schermo e per onorare l'occupazione di Wounded Knee, in cui 200 membri dell'American Indian Movement (AIM) affrontarono migliaia di poliziotti statunitensi e agenti federali nella città del South Dakota.
Dopo che i presentatori Liv Ullmann e Roger Moore elencarono i candidati come miglior attore e Ullmann annunciò Marlon Brando come vincitore, la trasmissione televisiva staccò su Littlefeather, allora 26enne e con indosso un abito tradizionale Apache, che salì sul palco mentre veniva annunciato, "A ritirare il premio per conto di Marlon Brando e de Il padrino, Miss Sacheen Littlefeather".
Littlefeather, tuttavia, alzò la mano destra per rifiutare la statuetta offerta da Moore quando raggiunse il podio e annunciò al pubblico in sala e agli 85 milioni di telespettatori che seguivano da casa che Brando "con grande rammarico non può accettare questo premio molto generoso". Parlando con toni misurati, ma a braccio - Brando, che le aveva detto di non toccare la statuetta, le aveva preparato un discorso dattiloscritto di otto pagine, ma il produttore televisivo Howard Koch l'ha informata che non aveva più di 60 secondi - spiegò, "E le ragioni di questo sono il trattamento riservato agli indiani d'America oggi dall'industria cinematografica... e in televisione nelle repliche di film, e anche con i recenti avvenimenti a Wounded Knee".
Durante l'intervento di Littlefeather, John Wayne, che si trovava tra il pubblico, minacciò di alzarsi per tirarla giù dal palco e venne fermato dalle guardie presenti in sala. Quasi 50 anni dopo, l'Academy ha presentato ufficialmente le sue scuse alla nativa.
"L'abuso che hai subito a causa del tuo discorso era ingiustificato", le ha scritto l'allora presidente dell'AMPAS David Rubin in una lettera del 18 giugno. "Il carico emotivo che hai vissuto e il costo per la tua carriera nel nostro settore sono irreparabili. Per troppo tempo il coraggio che hai mostrato è stato ignorato. Per questo, porgiamo le nostre più profonde scuse e la nostra sincera ammirazione".
"Sono rimasta sbalordita. Non avrei mai pensato che sarei sopravvissuta tanto da poter vedere il giorno in cui avrei sentito queste parole", ha detto Littlefeather a The Hollywood Reporter. "Quando ero sul palco nel 1973, ero lì da sola".
E' morta a 76 anni l'apache ribelle. Chi era Sacheen Littlefeather, l’apache ribelle che John Wayne voleva picchiare. David Romoli su Il Riformista il 4 Ottobre 2022
Dicono (ma alcuni biografi lo negano) che ci siano voluti sei ragazzoni ben piantati per impedire all’imbufalito John Wayne di lanciarsi sul palco per trascinare via Sacheen Littlefeather, giovane apache allora di 27 anni, dal palco del Dorothy Chandler Pavillon di Los Angeles. Era la Notte degli Oscar, 27 marzo 1973, e quella ragazza nata da padre apache e madre bianca la stava rovinando. Il vero guastafeste era in realtà un intoccabile assente sia dal palco che dalla sala: Marlon Brando, considerato il più grade attore della sua generazione, vincitore dell’Oscar per Il Padrino. Non si presentò per ricevere l’ambita statuetta. Al suo posto mandò quella ragazza bellissima in costume tradizionale dei nativi americani.
Sacheen Littlefeather, ovvero Piccola Piuma, avrebbe dovuto leggere una lunga dichiarazione firmata da Brando. L’organizzazione non lo permise. Potè pronunciare solo poche parole coperte dal rumore dei fischi, ma per la verità anche da qualche sonoro applauso. Disse che Brando non poteva accettare “il molto generoso premio” per via di come l’industria del cinema trattava gli indiani d’America in film che continuavano a essere trasmessi a ripetizione in tv. Lo shock fu immenso, difficilmente comprensibile oggi, dopo che il palco degli Academy Awards è stato usato più volte per comizi e dichiarazioni politiche. Allora però non era mai successo.
Per trovare un precedente bisogna tornare indietro di 5 anni, a quella premiazione per la gara dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico nel corso della quale senza una parola Tommy Smith e John Carlos, neri, vincitori rispettivamente dell’oro e del bronzo, alzarono il pugno chiuso guantato di nero. Quell’immagine fu di una potenza incredibile, fece il giro del mondo, è rimasta scolpita nel tempo. Da allora nulla del genere si era più ripetuto. Marlon e Sacheen osarono e aprirono la strada. Erano molti, in quegli anni, i nomi d’oro della cultura e dello spettacolo americani che fiancheggiavano i movimenti rivoluzionari, in particolare il Black Panther Party. Feroce e sarcastico, il principe del new journalism Tom Wolfe li inchiodò con un articolo che li scuoiava vivi raccontando il party pieno di bellissima gente organizzato in casa Bernstein nel 1970 per raccogliere fondi a favore del Bpp.
La definizione coniata allora da Wolfe è ancora merce corrente: Radical Chic. Però nessuno ha mai sospettato Marlon Brando di sciccheria radical. Il grande attore si faceva vedere poco, evitava di esporsi non per viltà ma per evitare di rendere il suo impegno, anche involontariamente, materiale da pubblicità facile. Oggi sappiamo che i suoi finanziamenti ai movimenti delle minoranze sono stati silenziosi ma continui e molto corposi. Marlon Brando aveva trasgredito a quella regola di discrezione una sola volta, partecipando in silenzio al funerale di Bobby Hutton, uno dei primi militanti delle Pantere Nere ucciso a dalla polizia a 18 anni. Al termine della cerimonia aveva anche preso la parola al raduno in onore di Lil’ Bobby ma anche in quell’occasione aveva parlato poco: «Non farò un discorso: i bianchi li ascoltate già da 400 anni».
Michael Caine, uno dei presentatori della cerimonia fu molto duro con il collega. Lo accusò di “aver lasciato che una povera ragazza indiana si prendesse i fischi invece di farlo lui stesso”. Aveva torto. Se su quel palco ci fosse stato il grande Marlon, fresco di trionfo nella parte di don Vito Corleone, l’attenzione, gli articoli, il gossip sarebbero stati tutti per lui. I nativi sarebbero stati considerati un particolare secondario. Più tardi, partecipando al Dick Cavett Show, Brando non si dichiarò pentito. C’era una opportunità e andava colta. Il pubblico invece di fischiare e battere i piedi, “avrebbe dovuto avere almeno la cortesia di ascoltare Sacheen”.
Non ci furono solo critiche. Coretta King, moglie del leader dei diritti civili ucciso cinque anni prima, elogiò l’attore. Molti anni dopo Jada Pinkett Smith, al termine di un discorso molto critico nella Notte degli oscar 2016, ammise che era stata ispirata proprio da Piccola Piuma. Hollywood non perdonò. Quella notte degli Oscar non era una delle tante. La crescita dei movimenti aveva messo in crisi Hollywood, incalzata da registi ribelli e indipendenti come il Peter Fonda di Easy Rider. Stretta d’assedio dall’ingordigia del piccolo schermo da un lato e dalla rivolta di una generazione di autori e attori che rifiutava in toto le regole dello studio system, Hollywood se l’era vista brutta. Nel 1973, con il trionfo del Padrino, celebrava la sua rinascita.
Il giorno dopo la protesta Saacheen andò a trovare Brando e qualcuno, da una macchina in corsa, sparò qualche colpo contro l’appartamento. Una fiammata: l’ostracismo dell’industria del cinema fu molto più longevo e fatale. Littlefeather, nata Marie Louise Cruz, era un’attrice. Nel 1969 aveva partecipato all’occupazione dell’isola di Alcatraz da parte dei Nativi Americani e in quell’occasione aveva cambiato il suo nome. Da quel momento, e per tutta la vita, avrebbe cercato di coniugare l’impegno per i diritti degli Indiani d’America e delle minoranze con la carriera d’attrice.
Solo che non ebbe più nessuna carriera. Sull’onda del clamore fu chiamata a ripetizione per interviste, spot pubblicitari, servizi fotografici. Poi fu soffocata col silenzio. Nel giugno scorso Hollywood ha chiesto formalmente e pubblicamente scusa con una lettera firmata dal presidente dell’Academy Award di allora David Rubin: «Gli abusi che hai subito per quella dichiarazione erano ingiusti e ingiustificati. Il peso emotivo che hai dovuto sopportare negli anni e il prezzo pagato dalla tua carriera nella nostra industria sono irreparabili. Troppo a lungo il coraggio di cui hai dato prova non è stato riconosciuto. Per questo presentiamo le nostre scuse più profonde insieme alla nostra più sincera ammirazione». «È come un sogno diventato realtà», commentò Sacheen Littlefeather: «Ci sono voluti appena 50 anni ma noi indiani siamo molto pazienti e dobbiamo mantenere il nostro senso dell’humour. È il nostro modo di sopravvivere». Sacheen è morta ieri a 75 anni. Almeno alcuni dei sogni per cui ha sempre combattuto li ha visti realizzati. David Romoli
La lotta dei nativi americani per salvare le Black Hills dalla caccia al litio. Dopo aver subito l’esproprio delle terre ai tempi della corsa all’oro, le tribù sono ora impegnate in difesa delle colline sacre del Dakota contro lo sfruttamento dei giacimenti minerari. «Per voi è terra da sfruttare; per noi le colline rappresentano invece l’anima che alimenta la nostra spiritualità». Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni da Pine Ridge (South Dakota) su L’Espresso il 4 luglio 2022.
Quella che da quasi centocinquant’anni ribolle nelle arterie scure di questi boschi è la più lunga e caparbia battaglia del popolo nativo contro il governo americano, la lotta di resistenza per il riscatto delle Black Hills, le colline nere, rubate dai coloni.
Questi clivi ricoperti di conifere e irrorati da bacini di acque dolci, non sono un appezzamento di terreno come tanti nel Dakota del Sud; sono le He Sapa, le terre sacre degli Oceti Sakowin, (che i rivali bollarono Sioux, i piccoli serpenti), la confederazione di tribù alleate Lakota, Dakota e Nakota. Qui, nacque il leggendario guerriero Cavallo Pazzo; qui cavalcarono Toro Seduto e Nuvola Rossa. La terra che ha alimentato la fierezza di un popolo che non si è piegato neppure all’offerta di centocinque milioni di dollari, il prezzo che la Corte Suprema nel 1980 aveva stabilito per compensare l’espropriazione illegittima, consumata nella seconda metà dell’Ottocento, quando i bianchi si lanciarono nella corsa all’oro. Un fondo mai riscosso, oggi lievitato oltre il miliardo.
Dopo decenni di lotte, i nativi, recintati nella riserva di Pine Ridge, avevano posto grandi speranze nell’“amico” Biden; ma il recente attacco russo all’Ucraina gli ha sbattuto davanti il timore di una seconda calata. «Dobbiamo adottare tutti gli strumenti e le tecnologie che possono liberarci dalla dipendenza dai combustibili fossili (...) Dobbiamo porre fine alla dipendenza dalla Cina e da altri Paesi», ha detto il presidente lo scorso marzo, invocando il Defense production act, una legge risalente alla Guerra Fredda, per incoraggiare le estrazioni di litio e altri materiali per motivi di sicurezza nazionale. Aumentare le miniere, dunque.
«Le macchine elettriche hanno bisogno di litio, le bombe di uranio», spiega Carla Rae Marshall, attivista della Black Hills clean water alliance, la principale associazione che monitora le attività minerarie sulle colline sacre del Dakota del Sud. La incontriamo nel suo ufficio a Rapid City. «Questa energia sarà verde per gli altri, ma per noi avrà un prezzo devastante perché le Black Hills, con tutte le riserve minerali, sono sotto tiro ancora una volta. Siamo pronti a combattere di nuovo».
Di nuovo, appunto. Perché i Lakota Sioux lottano per la sopravvivenza da quando i bianchi “scoprirono” l’America e iniziarono ad accaparrarsi ogni centimetro. Fino a quel momento erano gli unici abitanti delle Grandi pianure del West, poi romanzate in decine di film hollywoodiani. Vivevano grazie alla caccia al bisonte, nucleo essenziale del loro sostentamento. Dal maestoso «buffalo» si ricavava cibo, pelli per le tende, grasso da conservare, ossa per costruire utensili.
«Noi Lakota diciamo che le Black Hills sono il cuore di tutto ciò che esiste», racconta Monique Mousseau, l’attivista locale con cui viaggiamo. Lunga oltre duecento chilometri, con vette che arrivano a duemila metri, questa catena montuosa deve il nome alla fitta vegetazione che la fa apparire tenebrosa da lontano, ma bellissima e ricca di sfumature quando la si attraversa. «Per voi è terra da sfruttare; per noi le colline rappresentano invece l’anima che alimenta la nostra spiritualità, la connessione con la Madre Terra. Un Lakota cercherà sempre di tornare qui, dove può sentirle e vederle», dice Mousseau, mentre le indica, dopo essere scese dall’auto, appena entrate nella riserva di Pine Ridge, una delle aree più economicamente depresse degli Stati Uniti in cui vivono quarantaseimila Lakota della banda Oglala. «I colonizzatori ce le lasciarono pensando che non servissero a nulla, salvo cambiare idea quando scoprirono che erano ricche d’oro».
Avevano provato a fidarsi, i nativi, quando nel 1851 prima e poi nel 1868, al forte di Laramie, il governo americano siglò con loro un trattato promettendo che nessuno avrebbe toccato le Black Hills. Le buone intenzioni dei visi pallidi durarono poco, giusto il tempo di scoprire l’oro custodito nel ventre della terra, dopo una esplorazione del generale George Armstrong Custer nel 1874. Le colline nere furono invase da minatori e coloni, in barba a tutti i trattati, tanto che il governo li annullò nel 1877. Fu allora che iniziò la lotta instancabile dei Lakota per riavere indietro il territorio «rubato».
Lo sfruttamento però è continuato negli anni Cinquanta, stavolta per estrarre uranio. Negli anni Settanta, l’opposizione locale, ma soprattutto il crollo dei prezzi, fecero fermare le pompe. Oggi l’unica attiva è la miniera d’oro Wharf. «Sono andati via lasciando centinaia di siti minerari abbandonati, alcuni a cielo aperto, senza bonificare le acque contaminate con materiale radioattivo o i terreni», denuncia Marshall.
A metà degli anni Duemila, l’aumento dei prezzi dell’uranio ha riacceso le torce degli «esploratori». La Black Hills clean water alliance fiata sul collo di tutte le compagnie che hanno richiesto i permessi pubblici necessari. Ce ne sono diverse in corsa per estrarre uranio, litio, oro e terre rare. Clean water alliance punta il dito in particolare contro i progetti di estrazione della multinazionale canadese-cinese Azarga/Powertech Uranium. «Utilizzerebbero enormi quantità di acqua, oltre trentamila litri al minuto, completamente gratis». In ballo ci sono miliardi di dollari. «Cinquant’anni fa nessuno fu ritenuto responsabile del danno ecologico. Non permetteremo che accada ancora», promette l’ambientalista.
Una lotta tra Davide e Golia, perché le compagnie già da anni scaldano i motori. Non vede l’ora la canadese United Lithium, impegnata in un progetto di scavo che, se approvato, occuperà una quarantina di chilometri quadrati nelle Black Hills. «Le miniere degli anni ’70 non impiegavano i nostri metodi moderni. Siamo entusiasti, ci aspettiamo scoperte capaci di sostenere la domanda crescente di litio per rifornire i mercati nordamericani», ha dichiarato Michael Dehn, il presidente.
Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, le colline nere furono una fonte importantissima di «oro bianco». Oggi, nonostante le sostanziose riserve negli Stati Uniti, esiste solo una miniera attiva e si trova in Nevada, anche in questo caso su terra sacra.
L’America, che ha ceduto il passo a Cina, Australia, Argentina, sente di non poter più rimandare la corsa. Il litio è necessario per la produzione di telefoni, computer, prodotti farmaceutici. E per i veicoli elettrici, ovviamente, che nel 2030 si stima utilizzeranno il 90 per cento del litio a disposizione.
Certo, resta difficile un’opposizione tout court. «Ci sono pro e contro», riflette il professor Jim Stone, direttore del dipartimento di ingegneria ambientale della School of mines and technology di Rapid City: «Se ci fosse più integrazione degli stakeholder e se i minerali venissero utilizzati per uso nazionale, questo sarebbe un luogo ideale per produrre energia sostenibile. Innanzitutto non c’è una popolazione numerosa nei dintorni, ma capisco che per i Lakota il problema non sia solo legato all’inquinamento, ma anche alla sacralità del territorio».
Le politiche energetiche di Biden sono un guanto di sfida imposto dai tempi. Non certamente dettato da poca considerazione delle esigenze delle popolazioni indigene. Anzi, fin dal primo giorno alla Casa Bianca, con un ordine esecutivo, il presidente ha imposto il blocco dei lavori dell’oleodotto Keystone, come aveva fatto Obama, mentre Trump aveva ridato poi il via libera. A parole e nei fatti, con la nomina ad esempio agli Interni della prima ministra nativa americana Deb Haaland, Biden ha messo in chiaro che il rispetto dell’autogoverno dei popoli tribali è una priorità della sua amministrazione. Ha poi stanziato miliardi per aiutare le riserve ad affrontare la siccità, bonificare le miniere e tamponare le conseguenze della pandemia, tremende per gli indiani. Insomma, una inversione di tendenza quella del democratico rispetto al predecessore repubblicano.
A Trump, i Lakota non perdoneranno mai lo sgarro di aver voluto celebrare nel 2020 la festa dell’indipendenza ai piedi del monte Rushmore, l’attrazione turistica più famosa delle Black Hills, con i faccioni incisi nella roccia dei presidenti Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln (ognuno a suo modo coinvolto nell’oppressione). Il marketing americano lo promuove come il santuario della democrazia. Per gli indigeni è il simbolo dell’oppressione bianca. Due anni fa, i manifestanti indiani, arrivati per dire a Trump che non era il benvenuto, si sono sentiti urlare, ironia della sorte: «Tornatevene a casa vostra».
Ad organizzare le proteste c’era Nick Tilsen, anima del collettivo Ndn, arrestato durante una dimostrazione. È il volto della campagna di restituzione delle He Sapa, che ha visto un risveglio anche a seguito della stagione Black lives matter. «C’è un movimento globale per il ritorno delle terre nelle mani dei nativi. L’intero sistema economico degli Stati Uniti è stato fondato sull’olocausto delle nostre popolazioni e sul lavoro degli schiavi. Hanno cercato di finirci, ma siamo ancora qui. Lo spirito di resistenza scorre nel sangue del nostro popolo, è lo stesso di Cavallo Pazzo», dice Tilsen. Il collettivo punta alla creazione di un trust che gli permetterebbe di lavorare con il dipartimento degli Interni alla gestione del territorio, oggi per la maggior parte di proprietà federale. Ricorda Nick: «Abbiamo sempre rifiutato il denaro del governo per le colline nere è tempo che le restituiscano». La relazione viscerale con questi luoghi non si può monetizzare: «Le Black Hills non sono in vendita e non lo è neppure il popolo Lakota».
Wounded Knee, un oscuro episodio della storia americana. Lorenzo Vita il 30 Dicembre 2021 su Il Giornale. Nel 1890 i soldati del Settimo Cavalleggeri circondarono una carovana di Lakota. La mattina successiva, dopo l'ordine di disarmo, avvenne un massacro in cui non furono risparmiati nemmeno donne e bambini. Il 29 dicembre del 1890 la valle di Wounded Knee è coperta solo di neve. Un gruppo di Lakota Sioux, i Miniconjoudi, marcia al comando di Piede Grosso, un capo tribù che aveva deciso di recarsi Pine Ridge per riunirsi alle forze di Nuvola Rossa. La morte di Toro Seduto, avvenuta pochi giorni prima durante un concitato arresto da parte di alcuni agenti federali, aveva allarmato tutti i capi pellirosse. Il pericolo, per molti capi tribù, era che il governo degli Stati Uniti, terrorizzato da quella strana "danza degli spiriti" che serpeggiava tra la popolazione nativa, iniziasse ad arrestare e uccidere le personalità più importanti delle riserve.
La vita è difficile per gli "indiani d'America". Le guerre con le truppe degli Stati Uniti stanno ormai terminando con la vittoria dell'esercito "bianco". Le tribù indigene, che prima avevano combattuto i coloni e poi le forze regolari degli Imperi e dopo degli Stati Uniti, si sono ormai concentrate nelle riserve. Ma le condizioni imposte dal governo sono molto diverse da quelle che i più illusi si aspettavano. Privati dei loro territori di caccia, dei bisonti, e di tutto quello con cui erano vissuti per millenni, i nativi sopravvivono a stento in quei territori. E in tanti iniziano a sperare in una rivolta che ponga fine a quella miseria a cui erano condannati da Washington.
Così, tra "indiani" convertiti e non, tra chi parla l'inglese e chi ancora fieramente utilizza solo la lingua degli antenati, inizia a circolare un nuovo movimento religioso: la Ghost Dance, la Danza degli spiriti. Inventata da Wovoka, un santone pellerossa noto anche con l'appellativo anglofono di Jack Wilson, è una danza rituale che promette il ritorno dei nativi alle proprie terre e la scomparsa dell'uomo bianco. Qualcuno pensa addirittura che quella danza, insieme ad alcuni speciali indumenti, rende gli uomini invulnerabili ai proiettili. Molti seguaci credono che gli spirti dei defunti torneranno con loro e cavalcheranno di nuovo su quelle praterie una volta strappate ai "bianchi". Sta di fatto però che quel nuovo strano culto che unisce animismo e qualche elemento cristiano, preoccupa gli statunitensi. Al punto che questi iniziano a punire violentemente chiunque si avvicini a questi rituali e a disarmare le tribù dove avvengono queste danze incomprensibili e selvagge per le milizie americane.
La morte di Toro Seduto, avvenuta in strane circostanze proprio mentre sul suo campo ci sono seguaci di questa danza, è il segnale d'allarme. Piede Grosso, che con il suo gruppo Lakota è stato stato investito dalla Danza degli spiriti, si sente braccato. Sa che una volta morto Toro Seduto (e con lui suo figlio, Piede di Corvo), è solo questione di tempo e decide di unirsi a Nuvola Rossa, nella riserva di Pine Ridge. Parte insieme a centinaia di uomini, vecchi, donne e bambini dalla zona del torrente Cherry, dove vive la sua comunità, iniziando una lunga marcia in un inverno che non lascia scampo. Il freddo colpisce direttamente anche la sua salute. E il capo "indiano", durante la marcia per unirsi all'altra tribù, contrae la polmonite. Una forma gravissima, tanto che ormai le sue vesti sono ricoperte di sangue e il condottiero è costretto a muoversi disteso su un carro.
Il 28 dicembre, però i Minneconjou di Piede Grosso fanno però una terrificante sorpresa: non sono più soli. Durante il loro percorso, mentre costeggiano Porcupine Butte, il gruppo di Lakota è intercettato dal 7° cavalleggeri del maggiore Samuel Whitside. Piede Grosso sa che non può combattere e sventola una bandiera bianca. La sua carovana è fatta di tanti civili, vecchie, bambini, donne, lui sente che potrebbe morire da un momento all'altro e solo poche decine di combattenti sono armati di fucile. Non resta altro da fare che sperar e che quegli squadroni a cavallo che li circondano siano rassicurati da quel drappo candido che sventola dal carro del capo tribù. Forsyth appare in un primo momento accettare, ma indica al gruppo di nativi di spostarsi più a ovest, a Wounded Knee. Li costringe a mettere lì le tende, sulle rive del torrente dove qualcuno pensa sia stato sepolto nella pelle di un bisonte il mitico Cavallo Pazzo.
I pellerossa accettano sotto la minaccia di squadroni di cavalleria e di quei pezzi d'artiglieria montati intorno a loro e pronte a fare fuoco su quel fazzoletto di terra. Impossibile fuggire da Wounded Knee; mentre combattere significa morire nel giro di pochi minuti. La notte cala sull'accampamento mentre una fitta neve non abbandona mai quel luogo. Arriva l'alba e il colonnello James W. Forsyth, che ha appena preso il comando delle operazioni, ordina il disarmo. Si vocifera che saranno tutti spediti in un campo di prigionia e non arriveranno mai nelle riserve.
La tensione è altissima. I cavalieri del Settimo reggimento si avvicinano ai combattenti Minneconjou ma qualcosa va storto. Qualcuno dice che alcuni combattenti Lakota hanno iniziato a cantare le canzoni della Danza degli spiriti, innervosendo i militari dell'esercito Usa che temono un'imminente battaglia. Altri raccontano che uno dei nativi, Coyote Nero, non ha risposto all'ordine di lasciare le armi e dal suo fucile Winchester è partito un colpo accidentale. C'è chi dice sia sordo, chi non capisce l'inglese, chi invece un traditore, che non ha rispettato i patti con l'esercito americano. Ma quel colpo è l'inizio della fine. Prima si sente un altro sparo, poi altri dieci, infine, come racconteranno i testimoni sia tra i superstiti nativi che tra gli americani, partono colpi all'impazzata fino a quelli dell'artiglieria. In pochi minuti, il fumo si innalza da tutti i fucili del reggimento mentre i nativi, ormai disarmati sono tutti falciati dai proiettili americani. A quel punto, molti storici ritengono che i soldati sono ormai in preda a una furia omicida, senza alcun tipo di controllo da parte dei comandanti. Sparano su donne, madri con i figli tra le braccia, vecchi, giovani disarmati, cavalli, cani. Un massacro che lascia sul campo centinaia di vittime, alcune delle quali rincorse al solo scopo di trucidarle. Quando il fuoco dei fucili e dell'artiglieria cessa, la neve inizia a coprire con il suo gelido silenzio i corpi delle vittime, che per giorni, insieme ai feriti, rimarranno a congelare sotto un tappeto bianco e sporco di sangue.
Lo storico Dee Brown, autore del libro "Seppellite il mio cuore a Wounded Knee" stima che i morti sono stati 300 tra i nativi e circa 25 tra i "visi pallidi", molti dei quali morti per fuoco amico. Due giorni dopo la carneficina, il generale Nelson A. Miles scrive alla moglie una lettera in cui definisce quanto avvenuto a Wounded Knee come "il più terrificante e criminale errore militare e un orribile massacro di donne e bambini". I cadaveri verranno poi sepolti in una fossa comune mentre i pochi sopravvissuti sono trasportati a Pine Ridge. Il comandante Forsyth verrà prima condannato per quel massacro e poi riabilitato, mentre alcuni dei soldati saranno premiati con medaglie che ancora oggi dividono la politica americana. Per molto tempo, quella di Wounded Knee è stata considerata dalla storiografia ufficiale come una battaglia. Uno scontro tra due forze avversarie, esercito degli Stati Uniti e nativi Sioux, all'interno del più vasto conflitto passato alla storia come "guerre indiane". Nel tempo, tuttavia, gli studiosi hanno cambiato parere, fino a tramutare quella che era la battaglia di Wounded Knee nel "massacro". Un eccidio che è stato l'ultimo grande scontro tra l'esercito degli Stati Uniti e un gruppo di nativi.
Lorenzo Vita. Classe 1991, laurea in Giurisprudenza, master in geopolitica e corsi su terrorismo e guerra ibrida. Amo la storia, il mare, sogno viaggi incredibili e ho nostalgia del grande calcio e degli stadi pieni. Una passione mi ha cambiato la vita: raccontare quello che succede nel mondo. E l'ho
Lo Sport. Alberto Cantu per ultimouomo.it il 3 febbraio 2022.
«Giungemmo. È il Fine» sospirava l’Alessandro Magno di Pascoli mentre contemplava malinconicamente la fine delle sua epopea. Arrivato all’estremo confine orientale del mondo, il macedone si trovava costretto ad ammettere che non c’erano altre terre da conquistare, altri popoli da soggiogare, altre imprese da aggiungere alla sua già sterminata leggenda.
Nel pomeriggio italiano di martedì anche Tom Brady ha annunciato di essere giunto al suo “Fine”. Possiamo solo immaginare il groviglio di emozioni che lo hanno assalito nel momento in cui ha deciso di comunicare al mondo che la sua carriera era giunta al termine.
Indiscutibilmente il più grande quarterback della storia del gioco, uno dei pochi ad aver travalicato le barriere autarchiche del football americano per diventare un’icona globale. Tom Brady è associato a un’immagine di vittoria e grandezza che lo pone al pari dei GOAT degli altri sport.
In 22 anni spesi principalmente ai New England Patriots Brady ha fatto razzia di trofei personali e di squadra – 7 Super Bowl e 8 MVP tra regular season e finali, 15 selezioni al Pro Bowl – in uno sport normalmente refrattario al concetto di longevità.
Quel che è ancora più assurdo è che una carriera così esageratamente memorabile avrebbe potuto ancora proseguire ad alti livelli.
Il “Fine” di Tom Brady non sono state le acque dell’Oceano e nemmeno l’ultimo avversario rimastogli da affrontare, il tempo che scorre per tutti e tanto più per un quarterback quarantaquattrenne. Brady non era assolutamente in declino fisico o tecnico, anzi: ha scelto di ritirarsi in un momento in cui stava ancora giocando a livelli celestiali, non lontani dal prime assoluto della sua carriera.
Se lo avesse voluto, avrebbe potuto prolungare il suo personale match di pugilato contro Father Time di una, forse addirittura due riprese. L’ultimo touchdown della sua carriera, una bomba di 55 yard lanciata sopra la testa del miglior cornerback della lega, non sembra certo mostrarci un giocatore che ha finito la birra.
In quella partita di playoff contro i Los Angeles Rams sono racchiuse sia le ragioni del suo addio, che quelle che avrebbero potuto portarlo a inseguire l’ottavo anello nel 2022. A tre minuti dalla fine del terzo quarto i Buccaneers di Brady erano sotto di 24 punti – un’enormità visto il poco tempo a disposizione – e sembravano condannati a una triste uscita di scena.
Affaticato e sanguinante dal labbro inferiore per i colpi ricevuti, Brady ha comunque saputo orchestrare l’ennesima rimonta leggendaria della sua carriera, portando i Bucs a pareggiare con una manciata di secondi sul cronometro una partita poi comunque persa crudelmente nel finale.
A posteriori, è come se prima di uscire di scena Brady ci tenesse a ricordare una volta di più chi è lo sceriffo in città. A mancargli non era il talento da spremere dal suo braccio destro, ma la voglia di sottoporsi ai sacrifici necessari per continuare a farlo. Se stiamo alle sue parole, gli è mancata la forza di proseguire il “competitive commitmentt”, di continuare a dare il 100% di sé stesso allo sport che ha dominato così a lungo.
Forse è davvero così, forse Brady non aveva più la forza mentale di alzarsi all’alba, trangugiare frullati proteici e passare le serate davanti a uno schermo per studiare la prossima difesa da affrontare. Qualcosa però non torna. A giudicare dal suo sguardo spiritato mentre implorava gli arbitri di lanciare una flag per pass interference, o da come si è rialzato dopo ogni colpo infertogli da Aaron Donald e Von Miller, sembra assurdo vedergli scrivere parole di resa mentale.
Forse un’altra chiave sta proprio nell’effetto dei colpi che ha subito quella domenica a Tampa. Non tanto l’effetto su di lui che li ha subiti, ma su chi li stava osservando dalla tribuna VIP del Raymond James Stadium.
Qualche giorno dopo la sconfitta con i Rams, Tom Brady si è aperto sul rapporto di sua moglie Gisele Bündchen con la carriera del marito: «La addolora molto vedermi colpito in campo».
Fosse stato per lei, che ha sacrificato la sua carriera da super model per accudire i figli e permettere a Brady di concentrarsi sul football, Tom si sarebbe dovuto ritirare lo scorso anno, subito dopo aver vinto il suo settimo Super Bowl. Poco prima della premiazione gli ha sussurrato all’orecchio «What more do you have to prove?», cos’hai ancora da dimostrare?
Tom non aveva effettivamente niente da dimostrare, ha deciso di tornare per la stagione 2021 principalmente perché il piacere di giocare, competere e vincere è sempre stato il carburante emotivo della sua stessa esistenza, ciò che lo ha reso Tom Brady. Ma è anche un padre che sa di essersi perso tanti momenti con i figli e che ha sentito sul serio la paura di perderne altri.
Messa sul piatto della bilancia opposto a quello della passione per il football, l’importanza della famiglia ha finalmente pesato di più: «Gisele merita di ricevere da me quello di cui ha bisogno come marito e miei figli meritano di ricevere quello di cui hanno bisogno da me come padre. Passerò più tempo con loro per dargli ciò di cui hanno bisogno, perché loro mi hanno dato quello di cui avevo bisogno per fare quello che amo sei mesi all’anno».
Nei versi finali della poesia di Pascoli, Alexandros si struggeva per il ricordo della famiglia che aveva abbandonato per saziare la sua sete di conquiste. Brady forse è arrivato vicino a fare altrettanto, ma ha scelto la famiglia prima di allontanarvisi troppo. Come diceva Gisele, Tom non aveva nient’altro da dimostrare a fine 2020 e lo stesso discorso vale ora, alla fine della stagione 2021.
Un anno in più avrebbe semplicemente ritardato di dodici mesi le riflessioni e i tributi che stanno piovendo da tutto il mondo dello sport americano e dei suoi appassionati. Qualunque sia il motivo, ora che il Fine è davvero giunto è arrivato il momento di chiederci cos’è stato il football per Brady e cosa Brady ha rappresentato per il football.
Tra le dichiarazioni rilasciate negli anni da Tom, le più impressionanti sono senza dubbio quelle sull’amore per il football. Nel 2015, quando si iniziava timidamente a parlare di piano di pensionamento per l’allora trentottenne, Brady dichiarò: «Quando la gente mi chiede “Cosa farai dopo il football?” io rispondo “cosa intendi per ‘dopo il football?’ non c’è niente dopo il football”».
Qualche anno dopo avrebbe detto: «Se vuoi competere con me ti conviene rinunciare alla tua vita, perché io ho rinunciato alla mia». Uscite come queste emanano un fascino sinistro. È impossibile non ammirare una dedizione che arriva al punto di «rinunciare alla vita», ma allo stesso tempo sentire un atleta affermare che dopo il football mette in mostra quanto possa essere salato il conto per il successo sportivo.
Questo tipo di etica del lavoro sconfina al di là della dedizione fino ad addentrarsi nel campo dell’ascetismo. Tom Brady ha amato il football come i monaci mistici amavano Dio, un amore ustionante al punto dall’essere a volte indistinguibile dal sacrificio e dalla mortificazione dei bisogni terreni.
Dedicarsi anima e corpo alla sua arte è stato un piacere ma anche una necessità. Brady ha sempre saputo che senza dare tutto al football non avrebbe ottenuto in cambio nulla. Senza quel tipo di abnegazione estrema non solo non sarebbe diventato il più grande di sempre, ma forse non sarebbe stato a lungo un quarterback NFL.
Tra i grandissimi dello sport è quello che è partito da un talento di base meno scintillante. Non sarebbe arrivato dov’è ora se avesse fatto affidamento sul suo atletismo da pensionato e su un braccio buono ma comunque non eccezionale. Brady ha dovuto studiare per migliaia di ore e dedicarne altrettante ad allenarsi per limare ogni difetto del suo gioco ed essere sempre un passo avanti rispetto a chi lo affrontava.
Solo respirando football senza sosta ha potuto trascendere i limiti del suo corpo e dominare lo sport attraverso un controllo mentale sul campo che non ha precedenti nella storia del gioco. Di tutte le cose che sono state dette su Brady e a Brady, una delle più significative è anche la più semplice: «Stop throwing the ball so fast, Tom!». Smettila di lanciare così in fretta, Tom.
Siamo abituati a parlare di Brady come di un assassino spietato, gelido e implacabile, e in effetti in tanti dei suoi game winning drive si può indovinare la metodicità di un serial killer. In quelle situazioni le ore di studio e allenamento pagavano i loro dividendi, permettendogli di avanzare spietatamente per il campo. La passione smisurata di Brady per il football è emersa anche in modalità decisamente più focose.
In campo Brady è stato anche è stato Psycho Tom, un maniaco capace di infiammarsi di passione e strillare a pieni polmoni il suo iconico «LET’S GO!». Il suo football è un misto di ascesi ed estasi mistica, è stato la compostezza apollinea di drive dall’eleganza neoclassica e il furore dionisiaco sprigionato nelle esultanze, nei discorsi motivazionali e persino nei litigi in sideline.
Non è difficile capire perché per Brady il football abbia significato tutto: è stato la forma di espressione più alta del suo talento ma soprattutto della sua indole competitiva. È altrettanto facile capire perché ha faticato così tanto a dirgli addio. Per un uomo che ha sempre vissuto di sfide, non sarà facile reinventarsi al di fuori della dimensione competitiva che lo sport gli ha sempre garantito.
Lo ha sempre saputo anche suo padre Tom Sr, che da anni temeva il momento in cui il figlio avrebbe dovuto dire addio al football. Tom si è preparato fondando un brand di fitness e una linea d’abbigliamento, ma trovare un sostituto dell’adrenalina da game day sarà altrettanto difficile che recuperare 25 punti nel finale di un Super Bowl.
È impossibile quantificare l’impatto di un giocatore che ha preso parte al 18% di tutti i Super Bowl disputati dal 1967 ad oggi, è superfluo aggiungere che è impossibile raccontare la storia del football senza di lui. Ovviamente la NFL è la lega che è oggi grazie a Brady. Forse possiamo spingerci un po’ più in là. Come ha scritto Kevin Clark su The Ringer, in ventidue anni di carriera Brady ha plasmato la NFL a sua immagine e somiglianza.
Ha ridefinito il concetti di dinastia e vittoria, ha incarnato il prototipo del quarterback vincente, ha ricalibrato il peso e il valore di un’infinità di record, ha rimodellato il volto tattico della lega aprendola in modo decisivo alle novità della spread offense, ha indotto una buona metà delle squadre della NFL a modellare, fallendo quasi sempre, il loro franchise attorno all’immagine dell’infallibile macchina da guerra che furono i suoi Patriots.
Per Brady non sarà facile dire addio alla NFL, ma anche per il mondo del football salutare la sua icona sarà tutt’altro che una passeggiata. Brady si ritira dal football con un tale vantaggio sugli altri pretendenti al titolo di migliore di tutti i tempi da aver sostanzialmente chiuso la partita. Nessun quarterback ha lanciato più touchdown, yard e completi o vinto più partite, partite di playoff e Super Bowl.
Ovviamente non lo ha fatto da solo, ed è certo che senza l’organizzazione metodica dei Patriots alcuni record sarebbero meno impressionanti e irraggiungibili, ma il palmarès di Brady resta spaventoso, forse addirittura eccessivo, nel senso che mentre ammiriamo le sue imprese non può non farsi strada il pensiero che una cosa del genere non la vedremo più. Molti hanno anche esultato, perché Brady è stato tutt’altro che un personaggio universalmente amato.
Da qualche parte si è festeggiato parecchio, soprattutto sugli account social delle squadre a cui Brady ha strappato il cuore con più crudeltà, ma forse proprio i tifosi delle sue vittime predilette sono quelli più legati a Brady al di fuori di Tampa Bay e Boston. Scrivo con cognizione di causa, visto che se Brady fosse finito a fare l’assicuratore (come aveva considerato sul serio quando sembrava che nessuna squadra lo avrebbe draftato) la squadra che tifo non si sarebbe fatta strappare dalle mani un Super Bowl già vinto.
Tom Brady è stato tutto quello che potessimo chiedere, nel senso che ha saputo elevare al massimo l’esperienza di seguire la NFL, accentuando le gioie e i dolori che questa lega sa regalare e infliggere. Per i tifosi di Bucs e Patriots Brady è stato il miglior idolo da sostenere, per quasi tutte le altre franchigie, compresa la mia, il nemico perfetto da odiare. Nel bene e nel male è stato protagonista di quasi tutti i momenti più significativi dell’ultimo ventennio.
Ha trafitto gli Atlanta Falcons, impedito a due delle migliori squadre della storia di completare il repeat, ha funestato anni della carriera di Peyton Manning con sconfitte brucianti ai playoff. Non è mai stato banale neanche nelle sconfitte: su due dei tre Super Bowl che ha perso – 2007 con i Giants e 2017 con gli Eagles – si potrebbero girare film da Oscar. Chi è stato al centro delle controversie più scottanti, dalla tuck rule al defilate Gate? Sempre e solo lui.
Non dev’essere stato facile regnare dopo Luigi XIV, o dipingere dopo Picasso, o comporre versi dopo Dante. Nessuno vorrebbe essere nei panni di coloro che dovranno raccogliere la torcia dalle mani di Tom Brady. Fortunatamente la lega non è in deficit di quarterback fenomenali, anzi, a dire vero il talento nella posizione non è mai stato così abbondante. Eppure per tutti i QB in attività non sarà facile riempire il vuoto lasciato da un personaggio del genere.
Per noi che la seguiamo, la NFL continuerà ad essere la lega più esaltante al mondo, ma il vuoto lasciato da Tom Brady continuerà a farsi sentire. Ci sarà tempo per constatare quanto sarà strano non vederlo in campo, non cerchiare più sul calendario i suoi scontri con Aaron Rodgers o Patrick Mahomes, non sentire più quell’”adesso ci pensa lui” che abbiamo provato, chi con speranza e chi con timore, quando è sceso in campo con due minuti sul cronometro e un touchdown da segnare.
Prima di pensare a come sarà la vita senza di lui, in questi primi giorni dell’anno o dopo Brady faremmo bene ad apprezzare a pieno cosa sono stati i ventidue precedenti. Brady ha dato a tutti noi il privilegio di poter amare, rispettare, temere e odiare il più grande di tutti i tempi. Per questo non possiamo far altro che ringraziarlo.
La Sicurezza. Sparatoria in un Walmart a Chesapeake, in Virginia: morti e feriti. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 23 Novembre 2022.
Secondo le prime informazioni, a sparare sarebbe stato il direttore del supermercato, che poi ha rivolto l’arma contro se stesso e si è tolto la vita
Ancora una sparatoria negli Stati Uniti. Secondo le prime frammentarie notizie arrivate da Chesapeake, in Virginia, un uomo ha aperto il fuoco con un’arma automatica in un negozio Walmart contro le persone presenti. Secondo quanto confermato dalla polizia su Twitter, ci sarebbero fino a «dieci morti» e diversi feriti. L'assalto è avvenuto alle 10.15 di sera (ora locale) a Sam Circle, una zona commerciale molto frequentata dai giovani. Sempre secondo le prime informazioni, a sparare sarebbe stato il direttore del supermercato, che poi ha rivolto l’arma contro se stesso e si è tolto la vita. Un agente di polizia ha parlato di non più di 10 morti e diversi feriti.
Virginia, le paranoie del killer del Walmart: nel cellulare i target e un manifesto, «sapranno chi sono». Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2022.
L’uomo che ha ucciso sei colleghi nel Walmart di Chesapeake era convinto che lo Stato lo spiasse e aveva già minacciato ritorsioni nel caso in cui l'azienda l’avesse punito. I precedenti in Virginia e a Colorado Springs.
La sequenza di morte si è ripetuta, come centinaia di altre volte in America. Un uomo è entrato nel suo posto di lavoro ed ha sparato uccidendo 6 persone, compreso un sedicenne. La strage questa volta è avvenuta in un supermercato Walmart di Chesapeake, in Virginia. Erano le 22.12 di martedì e mancavano meno di un’ora alla chiusura quando il supervisor del turno di notte, Andre Bing, armato di pistola, ha scatenato la sua rabbia verso un gruppo di dipendenti. Compiuta la sua «missione» si è tolto – come altri stragisti – la vita. I sopravvissuti raccontano che avesse avuto dei contrasti, temevano che potesse compiere qualche gesto pericoloso. Timori diventati realtà nello spazio di pochi istanti, tragedia accompagnata dalla condanna del presidente Joe Biden, dal dolore della comunità, dall’angoscia di chi ha perso amici e congiunti. L’omicida aveva lasciato trapelare in passato segnali inquietanti.
Aggressivo, sempre brusco quando impartiva ordini, soffriva di paranoie. Era convinto che «lo stato lo spiasse», per questo aveva coperto la telecamera del telefonino con nastro adesivo e non gradiva se qualcuno registrava dei video. Solitario, senza amici, aveva minacciato ritorsioni nel caso lo avessero punito o fosse stato licenziato: così sapranno chi sono, aveva detto. Nel suo telefonino sarebbe stata trovata una lista di target e un “manifesto”, cosa frequente da parte degli stragisti statunitensi. Nel documento descrive un presunto mobbing, accusa l’amministrazione per un cambio di mansioni, conferma i rapporti difficili.
La storia arriva dopo eventi simili, in un arco di tempo ridotto, quasi a confermare la tesi di alcuni esperti che parlano di effetto «contagio» e non solo di emulazione. Un attacco è spesso seguito da altri, come se l’omicida prendesse ispirazione. Appena pochi giorni fa c’è stato un episodio che ha coinvolto alcuni giocatori di un ateneo della Virginia – 3 le vittime – e poi l’incursione contro un night club gay a Colorado Springs, altri 5 morti. Un crimine d’odio compiuto da un ventenne dall’esistenza difficile e precedenti che non gli hanno impedito di dotarsi di un fucile tipo Ar 15, con il corredo di munizioni.
Negli anni ’80 i casi come questo era definiti con l’espressione «going postal», un riferimento ad una serie di sparatorie in uffici postali, con gli autori innescati da questioni personali o di lavoro. Chissà se non sarà creata una nuova categoria, «going market». Tre anni fa a El Paso un assassino ha colpito all’ingresso di un negozio Walmart: l’omicida xenofobo voleva uccidere i «messicani». In settembre, un uomo a bordo di un piccolo aereo aveva minacciato di schiantarsi sempre su un supermarket della medesima catena. Più di recente atti di violenza hanno avuto come teatro gli spazi di ambienti commerciali. In alcune situazioni era pura casualità, in altre rappresentano punti affollati che ospitano servizi utili al cittadino. Dunque per gli assassini sono i luoghi dove cercare le «prede».
Colorado, spari in una discoteca Lgbt: almeno 5 morti. Biden: "Non dobbiamo tollerare l'odio". La Repubblica il 20 Novembre 2022.
Fermato un sospetto, anche lui tra i 18 feriti. Non si conoscono le cause dell'attacco
Cinque persone sono state uccise in una sparatoria in un discoteca gay, Club Q, a Colorado Springs. Lo ha annunciato la polizia, secondo quanto riferisce la Cnn. Altre 18 persone sono rimaste ferite. Fermato un sospetto, anche lui rimasto ferito.
"La violenza delle armi da fuoco continua ad avere un impatto devastante sulle comunità Lgbtqi+ nel nostro Paese e le minacce di violenza stanno aumentando. Dobbiamo eliminare le ineguaglianze che contribuiscono alla violenza contro le persone Lgbtqi+", ha detto il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, dopo la strage in Colorado, rilanciando la necessità di bandire le armi d'assalto. "Non possiamo e non dobbiamo tollerare l'odio", ha aggiunto.
In una dichiarazione pubblicata sui social media i responsabili del locale Club Q hanno reso noto che l'aggressore è stato fermato dagli stessi avventori del locale: "Ringraziamo la veloce reazione di clienti eroici che hanno immobilizzato l'uomo armato e messo fine a questo attacco d'odio", si legge nella dichiarazione in cui i proprietari della discoteca si dicono "devastati da questo attacco senza senso contro la nostra comunità" e offrono le condoglianze ai familiari delle vittime.
La pista del crimine d'odio è quella su cui sta indagando la polizia in cerca di un movente. Intanto l'aggressore, che con un fucile ha sparato e ha ucciso 5 persone, è stato identificato nel 22enne Anderson Lee Aldrich, ora in arresto e ricoverato in ospedale per curare le ferite riportate durante l'assalto. Due avventori del locale, infatti, lo hanno affrontato e immobilizzato, fermando la sparatoria.
Il nonno del 22enne è un ex rappresentante repubblicano dell'Assemblea della California, Randy Voepel. La notizia è circolata sui media, che hanno scandagliato la vita del giovane. Randy Voepel si fece conoscere nel 2021 quando paragonò l'assalto del 6 gennaio a Capitol Hill da parte di sostenitori di Donald Trump alla battaglia di Lexington, considerata l'inizio ufficiale della guerra d'indipendenza americana tra la Gran Bretagna e le colonie. Per questo, alcuni ne chiesero l'espulsione dall'Assemblea della California.
Non è la prima volta che il giovane Aldrich viene accusato di un crimine: era già stato arrestato con l'accusa di aver minacciato la madre, Laura Voepel, con una bomba artigiale, ma la polizia non ha voluto commentare il fatto durante la conferenza stampa dopo l'assalto alla discoteca.
Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 22 Novembre 2022.
La strage di Colorado Springs è il caso «perfetto». In senso tragico. Un gesto terroristico dove emergono tutti i parametri degli omicidi di massa americani: la preparazione, i segnali premonitori, il target specifico, le armi. Anderson Lee Aldrich, 22 anni, per compiere l'azione ha emulato altri sparatori. Ha indossato un corpetto di foggia militare con caricatori e una pistola, ha impugnato un fucile tipo AR 15, è entrato nel locale dove ha poi aperto il fuoco.
Cinque morti, una ventina di feriti. Un raid che poteva avere molte più vittime: l'assassino è stato infatti disarmato da un paio di clienti, uno dei quali l'ha colpito con il calcio della pistola dopo avergliela sottratta. L'equipaggiamento del giovane è la prova della pianificazione, una costante per episodi come questo.
E lo è anche un altro elemento. Nel 2021 un individuo con lo stesso nome era stato fermato dalla polizia dopo che aveva minacciato di morte la madre alludendo all'uso di una bomba rudimentale. Le autorità non hanno confermato se si tratta della stessa persona anche se è probabile che lo sia. Una vicenda conclusasi senza conseguenze serie - nessuna denuncia - ma che doveva indurre a sorvegliare un giovane con evidenti problemi.
Invece è accaduto esattamente l'opposto perché è rimasto in possesso del fucile: la legge prevede il sequestro nel caso vi siano precedenti inquietanti. È la «red flag» - bandierina rossa - che dovrebbe far scattare il divieto d'acquisto o la confisca. Essendo, però, all'inizio delle indagini dobbiamo aspettare ulteriori dettagli. I report di esperti e Fbi dedicati ai mass shooters statunitensi ripetono all'infinito che spesso i protagonisti lasciano trapelare le loro intenzioni in modo diretto oppure con comportamenti che dovrebbero richiamare l'attenzione.
È avvenuto per il massacro simbolo - quello di Columbine, sempre in Colorado, nel 1999 - si è ripetuto in seguito decine di volte. Anche la violenza tra le pareti di casa è un «lato» ricorrente di chi poi è autore di assalti.
In queste ore gli agenti scandagliano il passato del killer alla ricerca di spunti che possano definire meglio il profilo. Modus operandi e obiettivo trasformano il gesto in un atto di terrore. E, infatti, la procura ha deciso di accusarlo di «crimine d'odio», passo giudiziario che indirizza l'inchiesta in una direzione precisa. Intanto i media hanno scritto che il nonno di Anderson è un ex parlamentare repubblicano della California. Randy Voepel - questo il nome - si fece notare un anno fa quando paragonò l'assalto al Congresso all'inizio della rivolta contro i britannici. Qualcuno ne chiese per questo l'espulsione.
DAGONEWS il 24 novembre 2022.
Il pornostar Aaron Brink ha dichiarato di essere sollevato dalla notizia che suo figlio, Anderson Lee Aldrich, non è gay, dopo aver scoperto che il 22enne è stato accusato di aver massacrato cinque persone e ferito altre 18 in una sparatoria di massa al Club Q, un locale gay in Colorado.
Il padre di Aldrich, come prima cosa, si è preoccupato di accertarsi che il figlio non fosse gay, in quanto l'essere omosessuale "non era in linea con i loro valori religiosi".
Nei documenti del tribunale depositati martedì, gli avvocati di Aldrich, che ha cambiato il suo nome da Nicholas Franklin Brink nel 2016 per sfuggire al passato del padre, hanno detto che il ragazzo si identifica come non-binario.
Aldrich ha aperto il fuoco al Club Q poco prima della mezzanotte del 19 novembre, prima di essere atterrato da due passanti. È stato inizialmente ricoverato in ospedale, ma martedì è stato trasferito al carcere della contea di El Paso. I parenti di Aldrich, che desiderano rimanere anonimi hanno dichiarato al Daily Beast di essere "totalmente disgustati".
Allo stesso tempo, Brink, che si sta disintossicando dalla metanfetamina, ha "elogiato il comportamento violento del figlio". L'anno scorso, Aldrich era stato arrestato per aver minacciato di far esplodere la casa di Colorado Springs dove viveva sua madre.
Le accuse sono state poi ritirate.
Ciò significa che non sono scattate le "red flag" che avrebbero permesso alle autorità di sequestrare le armi di Aldrich. Si ritiene, infatti, che il fucile utilizzato durante la sparatoria al Club Q sia stato acquistato legalmente, secondo quanto riportato da Good Morning America. Brink, che alla fine degli anni Novanta ha scontato una pena detentiva federale per importazione di marijuana, ha dichiarato di amare ancora suo figlio nonostante le accuse.
Vendicarsi ovunque: la nuova strategia Usa contro il terrore. Lorenzo Vita il 14 agosto 2022 su Inside Over.
Da gendarmi del mondo a “esecutori” del mondo, gli Stati Uniti hanno da tempo varato una precisa politica strategica che si basa sul colpire i nemici decapitando le organizzazioni terroristiche. L’ultimo colpo, quello che ha portato all’uccisione di Ayman al-Zawahiri, è un segnale preciso. L’intelligence americana, nonostante il ritiro dall’Afghanistan avvenuto l’anno scorso, hanno seguito le tracce, hanno individuato l’obiettivo e hanno colpito non in un’area remota del Paese, ma addirittura a Kabul, nel cuore dell’Emirato islamico a guida talebana. Un’uccisione che dice almeno due cose. La prima, che Al-Zawahiri era nella capitale afghana e si sentiva protetto dalla leadership dell’Emirato, considerato che la casa era di un uomo legato alla rete Haqqani. La seconda, che gli Stati Uniti possiedono ancora una rete di intelligence adeguata alle mutate esigenze Usa nel Paese, al punto da riuscire a colpire l’ideologo di al-Qaeda con un drone.
È proprio da questo secondo punto che bisogna partire per comprendere come l’azione di Washington abbia un significato ben più profondo rispetto a quello della “sola” decapitazione dell’organizzazione terroristica. Perché seguire, localizzare e infine uccidere un avversario circondato per anni da un fitto alone di mistero indica che l’intelligence statunitense ha svolto un lavoro complesso che si è basato anche su una rete di infiltrati e collaboratori all’interno dell’Afghanistan, e probabilmente della stessa rete più vicina al medico egiziano. Qualcuno sospetta che dietro l’ordine finale di dare il via all’operazione vi sia stato un tradimento. Forse un gioco di faide, vendette trasversali, regolamenti di conti tra vecchi nemici accomunati solo dall’odio nei confronti dell’America ma ben divisi sull’equilibrio di potere interno all’Emirato islamico. Washington probabilmente ha saputo sfruttare al meglio queste divisioni per infliggere il colpo: forse, come spiega Guido Olimpio sul Corriere, anche all’interno di un negoziato con gli stessi talebani e alcuni segmenti del potere degli studenti coranici desiderosi di “vendere” l’uomo di Al Qaeda per ottenere qualcosa in cambio. Quello che in ogni caso è certo è che la Cia, e con essa tutto l’apparato Usa che ha contribuito all’eliminazione di Al-Zawahiri, ha centrato l’obiettivo non solo fisico, ma anche politico: far capire che quanto accade a Kabul non è estraneo alle logiche americane. E che i nemici di Washington, prima o poi, saldano il conto.
La metodologia è la stessa applicata con altri nemici giurati del governo americano. Accomunando in questo senso tutte le amministrazioni Usa, siano esse democratiche che repubblicane. Barack Obama portò come trofeo di caccia la morte di Osama bin Laden. Donald Trump fece uccidere il generale iraniano Qasem Soleimani mentre era in Iraq e del califfo dello Stato islamico Abu Bakr al-Baghdadi in Siria. Poi, con l’avvento di Joe Biden, sono arrivate la morte Abu Ibrahim al-Hashemi al-Qurashi, di Abu Hamzah al Yemeni, leader del gruppo Hurras al Din (legato ad Al-Qaeda), e la cattura di Ahmed al-Kurdi, noto come Salim, altro uomo-chiave del terrorismo islamico in Siria. Segnali non diversi sono arrivati anche dopo il ritiro Usa da Kabul, quando il presidente dem annunciò che Washington si sarebbe vendicata dell’Is-K in Afghanistan dopo l’attentato all’aeroporto della capitale. Dopo quell’annuncio, un drone Usa uccide uno dei pianificatori dell’attacco scovandolo nella provincia di Nangarhar, a est del Paese. Dalla Siria all’Afghanistan, dunque, l’avvertimento Usa è quello che la capacità di colpire non viene mai rimossa. Washington sa dove colpire, utilizzando una rete di intelligence che appare ancora adeguata alle proprie aspettative. Ed è un segnale anche per chi ritiene che il ritiro dalle “guerre infinite” si traduca in un disimpegno totale rispetto al Paese coinvolto da quei conflitti.
Stati Uniti, capitano dell’Air Force ricompare dopo 35 anni: non sopportava la divisa. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 18 Agosto 2022.
William Hughes era un capitano dell’Air Force che trattava dossier secretati. Scomparve nel 1983 e alcuni pensarono che fosse una spia sovietica. Invece è ricomparso in California: aveva solo cambiato nome
Daly City, California. I vicini di casa descrivono Barry O’Beirne come un uomo tranquillo, gioviale, lesto nel rispondere al saluto. I colleghi di lavoro suonano la stessa musica: un tipo in gamba, pronto alla battuta. Nessuno di loro ha mai immaginato che il simpatico Barry nascondesse una storia intrigante, il cui primo capitolo parte durante la Guerra Fredda nell’estate dell’83.
Barry, all’epoca, non è ancora Barry, bensì William Hughes, nato nel 1950, capitano dell’Air Force, esperto di missili, autorizzato a trattare programmi Nato al più alto livello di segretezza. È distaccato nella base di Kirtland, zona di Albuquerque, in New Messico, e qui deve rientrare l’1 agosto dopo una missione tecnica in Olanda. Attendono invano perché non si presenta al comando. Lasciano passare alcuni giorni, poi danno l’allarme. Vanno a casa sua e trovano solo una lista di cose da fare, qualche libro, scoprono che ha lasciato l’auto all’aeroporto. Dalle verifiche in banca risulta che ha ritirato dal conto circa 29 mila dollari. I parenti sono sorpresi quanto i commilitoni: non è da lui, giurano.
Il Pentagono, seguendo le disposizioni, lo dichiara disertore. Le indagini guardano vicino e lontano, cercano appigli. Visti i suoi compiti e considerata l’epoca spunta l’ipotesi dello spionaggio. L’ufficiale sa molto, è stato impegnato in progetti riservati, potrebbe aver deciso di passare dall’altra parte, ovvero con i sovietici. Non sarebbe il primo e neppure l’ultimo.
Il silenzio su questo caso misterioso è spaccato da un articolo nel 1986 dove accostano il fuggitivo ad una serie di incidenti, esplosioni a bordo di vettori, compreso lo shuttle. Fonti anonime insinuano azioni di sabotaggio con un possibile ruolo dell’ufficiale. Ma in che modo? Come avrebbe fatto a portare avanti il piano? La teoria non va oltre, al tempo stesso le sparizioni strane di militari o di aerei sono il terreno fertile per far crescere qualsiasi ipotesi. Il Sud Ovest dell’America, con i suoi spazi senza confini, è lo scenario perfetto. C’è chi cerca miniere «perdute», bottini di pistoleri, lingotti d’oro sepolti in un vecchio accampamento nel deserto, relitti di velivoli. Ma nella vicenda del capitano Hughes non ci sono mappe con la X e neppure codici da decifrare, non esiste alcuna pista concreta. E non sarebbe emersa se non avesse deciso lui di uscire allo scoperto. Una mossa che apre il secondo capitolo del «romanzo» ben raccontato dal Sfgate.com che ha deciso di rilanciare la vecchia storia con una inchiesta.
Nei primi giorni di giugno del 2018 i servizi di sicurezza del Dipartimento di Stato indagano su una richiesta anomala di passaporto fatta da un cittadino residente a Daly City, vicino a San Francisco. I dati forniti non tornano, gli agenti interrogano l’uomo che si è presentato con l’identità di Barry O’Obeirne. Non resiste, confessa di essere il disertore e spiega il suo gesto: era depresso, non resisteva alla pressione della vita in divisa. Ha sempre abitato in località della California, comportandosi da buon cittadino e si è sposato. Non ha neppure cercato di cambiare aspetto, la pettinatura è identica. Ma non è la «fine» che uno si aspetta. Se era stanco dell’Air Force – notano – poteva dare le dimissioni senza rischiare una condanna e lasciare la famiglia nell’angoscia. È questo ciò che è accaduto? Esiste altro nel suo passato? I giornali non speculano, si pongono delle domande riprese da siti specializzati. Vorrebbero capire di più, indecisi tra scetticismo e l’ammissione che a volte la conclusione può essere normale. Con una coda triste. La moglie ha presentato una richiesta di divorzio dopo l’arresto, come se si fosse sentita tradita. Probabile che neppure lei sapesse chi fosse Barry.
Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2022.
Leonard il grasso è scappato. Ma più che una fuga è sembrato un trasloco. Perché i vicini di casa hanno notato nei giorni precedenti un via vai di camion di una ditta di trasporti. Accade a San Diego e al centro c'è una figura ingombrante, in tutti i sensi.
Il suo nome completo è Leonard Glenn Francis, fisico massiccio, intraprendente uomo d'affari malese, capace di fare milioni corrompendo ammiragli e ufficiali dell'Us Navy nel Pacifico. Se li è comprati per ottenere informazioni riservate, favori, dritte necessarie ad alimentare la sua occupazione di fornitore della Marina americana.
Doveva provvedere a cibo, acqua, scorte, carburante per sottomarini e navi che gettavano l'ancora in una regione strategica. Già così era un affare, la società basata a Singapore aveva buoni guadagni, però non gli bastavano e ha messo in piedi un vero sistema.
Per ingraziarsi gli alti gradi non ha badato a spese, molto sfrontato, con la passione per gli eccessi e generoso con chi gli serviva. Borse di Gucci alle consorti, biglietti per i concerti di Lady Gaga, feste e festini, viaggi, sigari cubani e naturalmente prostitute con le quali ammorbidire i «clienti». Lui ha ammesso di aver offerto 500 mila dollari a un ufficiale, ma in realtà il giro della storia ammonta a 35 milioni di dollari, grazie a sovraprezzi e altre «scorciatoie».
Tanto il conto lo pagava il Pentagono. Leonard è stato beccato dopo che la moglie di un comandante, amico dell'imprenditore, sospettando che il marito la tradisse lo ha messo alle strette. Ne è nata una lite coniugale furiosa seguita da un'inchiesta interna della Navy che ha aperto la breccia.
Carte, email, documenti hanno rappresentato le prove. Era il 2013. A quel punto Leonard, che aveva buone fonti ed è stato informato della tempesta in arrivo, ha provato a manovrare. Ormai era troppo tardi.
Lo hanno inchiodato con una trappola scattata a San Diego. L'uomo che ha sedotto la Settima Flotta - titolo del Washington Post - ha fatto l'ennesima virata accettando di collaborare con la Giustizia e ha fornito spunti investigativi che hanno avuto conseguenze sulla gerarchia marinara.
Anche se non mancano i sospetti di trattamenti di favore. Francis, dopo essersi riconosciuto colpevole, doveva affrontare la sentenza fissata per il 22 settembre. Per questo indossava il braccialetto elettronico con GPS e aspettava il giorno del giudizio nella sua abitazione californiana. Situazione facile, visto che non c'era alcuna sorveglianza esterna. Eppure la magistratura aveva espresso preoccupazioni ritenendo che fosse concreto il rischio di un allontanamento. Gli inquirenti non si fidavano degli avvocati che parlavano di condizioni di salute precarie.
Leonard è stato però paziente e così, come spesso ha fatto nella sua vita, ha colto l'attimo. Si è liberato dell'apparato elettronico, se ne è andato lesto. Ipotizzano che abbia varcato il confine sud, distante appena 40 minuti, per raggiungere un nascondiglio messicano e per questo hanno passato la segnalazione alle autorità. Ma non escludono altre mete, più lontane, dove è difficile rintracciarlo. Leonard il grasso è uomo di risorse, avrà di sicuro pensato a tutto. La logistica, del resto, è il suo mestiere.
Dagotraduzione dal Washington Post il 31 maggio 2022.
Quando era piccola, nel giorno del Memorial Day Deana Martorella Orellana viaggiava fino al Muro dell'Onore nel centro della sua città natale, dove i nomi dei soldati morti sui campi di battaglia nel mondo vengono nel granito nero.
Quest’anno la sua famiglia farà quel viaggio senza di lei.
È morta con alcune citazioni infilate nelle sue tasche. Quella mattina di marzo del 2016, era andata al Veterans Affairs e aveva chiesto un consulto.
Non poteva parlare con la sua famiglia di come la sua missione in Afghanistan l’avesse cambiata - e sì, l'ha cambiata, hanno detto tutti - servendo in una squadra femminile laggiù.
«Ne ha parlato con una delle sue sorelle e ha detto che poteva sopportare tutto tranne i bambini», ha raccontato Laurie Martorella, la mamma di Deana. «Qualcosa nei bambini l'ha davvero colpita».
E tenere tutto dentro la faceva stare male.
«Nessuno parla di salute mentale», ha detto Laurie. «Se lo fai, sei debole, stai assumendo farmaci, potresti influenzare i guadagni futuri, potrebbe esserci uno stigma».
Deana si è sparata all'età di 28 anni con una pistola calibro .45, aggiungendosi al numero crescente di donne militari che si tolgono la vita.
Anche il Memorial Day parla di queste guerriere.
Dal giorno degli attentati alle Torri Gemelle, il suicidio è diventato il principale motivo di morte del personale statunitense. La Brown University ha calcolato che da allora si sono ammazzate più di 30.000 militari. Nello stesso periodo, sono morti 7.000 soldati in combattimento o in esercitazione.
Il suicidio nella comunità militare ha raggiunto il tasso più alto dal 1938, secondo un rapporto del Dipartimento della Difesa pubblicato il mese scorso.
Le vittime sono sempre più donne.
Secondo i dati del Dipartimento della Difesa, nel 2020 le donne hanno rappresentato il 7% dei suicidi militari, rispetto al 4% di un decennio prima. Circa un membro del servizio su sei è di sesso femminile.
I rapporti suddividono i decessi per sesso, età e ramo, ma difficilmente affrontano il drammatico aumento tra le donne.
La storia di Deana è stata descritta in 22 Too Many, un progetto in onore dei circa 22 suicidi militari che accadono ogni giorno.
Il mese scorso, tre marinai della portaerei USS George Washington di stanza a Norfolk si sono suicidati in meno di una settimana. Uno di loro era l'elettricista Natasha Huffman.
La natura stessa del business della guerra fa ben poco per scoraggiare questa calamità per la salute mentale.
«Le donne che si trovano in questi ambienti dominati dagli uomini nell'esercito sono addestrate per essere forti, per farcela», ha detto Melissa Dichter, professoressa associata alla School of Social Work della Temple University che quest'anno ha pubblicato un rapporto sul suicidio delle donne tra i militari.
Quando le donne entrano in crisi con la salute mentale, in particolare con il disturbo da stress post-traumatico, lavorano di più.
Quando le donne veterane cercano di trovare sostegno nel mondo civile, le loro storie di guerra, corpi e bombe non sono materia di legame, ha scoperto Dichter. I gruppi di supporto, dagli incontri ufficiali al VA a quelli non ufficiali al VFW, sono feste del testosterone.
Dichter ha analizzato più di un milione di chiamate anonime alla Veteran Crisis Line per il suo rapporto. Secondo il suo studio, circa il 53% delle donne che hanno chiamato la linea erano a rischio di suicidio, rispetto al 41% degli uomini.
Molte hanno avuto storie di disturbo da stress post-traumatico e traumi da combattimento. Ma Dichter ha trovato una differenza fondamentale: mentre gli uomini avevano maggiori probabilità di lottare con l'abuso di sostanze e la dipendenza, la maggior parte delle donne chiamava per problemi con il partner intimo o per violenza sessuale.
Questo è stato ciò che alla fine ha spinto Taniki Richard a tentare di uccidersi: il trauma del combattimento e un'aggressione sessuale che non ha mai denunciato.
«Quando sono tornato dall'Iraq, ho iniziato ad avere incubi di essere violentata, e poi di essere sull'aereo», hanno detto la mamma e il marine in pensione di Chesapeake, Virginia, in un video su Yahoo.
«Un giorno, è diventato semplicemente troppo. Ero sottoposta a così tanto stress e dolore estremi che volevo solo che finisse», ha detto, quindi si è schiantata l'auto contro un palo della luce fuori da una stazione aerea del Corpo dei Marines nella Carolina del Nord, «nel tentativo di porre fine alla mia vita».
Taniki è sopravvissuta. E andata in terapia, e ha compreso che i suoi incubi non riguardavano solo la notte in Iraq quando il suo elicottero era sotto tiro. Si è resa conto che tra i suoi compagni guerrieri - la famiglia che i militari erano diventati per lei - c'era il suo stupratore. Ora lavora con il Wounded Warrior Project e racconta la sua storia in discorsi e podcast per aiutare altre donne sopravvissute all'aggressione.
Le donne nell'esercito hanno a che fare con PTSD, isolamento e un'esperienza così comune da avere un proprio acronimo militare: MST, Military Sexual Trauma.
È una forma di abuso straordinariamente sinistra. Non è come un'aggressione da parte di uno sconosciuto o un appuntamento malvagio. I compagni guerrieri dovrebbero essere quelli che ti danno le spalle in battaglia. L'unità consiste nel sostenersi a vicenda. Immagina il pericolo e l'insicurezza che proverebbe qualsiasi soldato quando viene attaccato dai propri compagni. È un tema comune tra le donne che chiedono aiuto.
«Nelle violenze sessuali del partner intimo le donne spesso si sentono bloccate, è difficile trovare una via d'uscita, vedere una via d'uscita», ha affermato Dichter, la cui ricerca ha incluso l'intervista a sopravvissuti ad aggressioni sessuali nell'esercito che lottano con la dualità degli aggressori come colleghi.
Il suo lavoro sta mostrando ai militari quanto sia vasta e sfregiata la loro epidemia di aggressioni sessuali. E quanto sia importante per le donne che lasciano l'esercito trovare supporto nel mondo civile, che si tratti di MTA, PTSD o entrambi.
Dopo aver tolto la corona, Barber ha continuato il suo lavoro come CEO del Service Women's Action Network, un potente gruppo con sede a Washington che fa lobby per conto delle donne militari e le collega a gruppi di supporto.
La famiglia di Deana vuole continuare a raccontare la sua storia, per far sentire meno sole le donne che hanno vissuto la storia della figlia. Raccontano la sua storia, dicono il suo nome, hanno creato una borsa di studio in suo onore.
E questa settimana andranno su quel muro di granito nero nella sua città natale in Pennsylvania. Il nome del nonno di Deana è lì. Ora, c’è anche il suo.
Armi fantasma e ondata di violenze: cosa succede nell’America di Biden. Matteo Muzio su Insdei over il 18 aprile 2022.
Le scorgiamo tra gli ultimi aggiornamenti, distrattamente. Le notizie sulle sparatorie statunitensi ormai raramente rimangono impresse nell’immaginario collettivo. L’ultima, avvenuta nella metropolitana di New York, è rimasta per qualche ora. Del resto, una sparatoria nella metropolitana, con tanto di fumogeni, faceva presagire il peggio. Per fortuna ci sono stati soltanto dei feriti e nessuna vittima. Proprio a New York però, qualche giorno prima, una vittima c’è stata. Sarebbe banale e riduttivo dire che è stata colpa delle permissive leggi sulle armi, che per inciso nello Stato e ancor di più nella città di New York sono piuttosto restrittive. La pistola utilizzata dal diciassettenne Jeremiah Ryan per uccidere la sedicenne Angellyh Yambo non sarebbe dovuta esistere. Perché è una cosiddetta “ghost gun”, un’arma fabbricata con una stampante 3S, senza il numero di matricola, irrintracciabile dalle forze dell’ordine. E non si è trattato di un caso isolato.
L’aumento dell’insicurezza
Anzi, dall’inizio dell’anno sono aumentate le violenze: 290 sparatorie contro le 236 dello scorso anno nel primo trimestre del 2022. Un brusco rialzo, in parte dettato anche dall’affievolirsi della pandemia. Non dimentichiamo che negli Stati Uniti il 2020 è stato l’anno della morte di George Floyd, ucciso da un agente a Minneapolis nel maggio 2020 e della conseguente demonizzazione delle forze dell’ordine da parte della sinistra democratica con lo slogan elettoralmente nefasto “Defund the Police”, prontamente respinto dall’allora candidato Joe Biden.
Successivamente a quell’evento, c’è stato un aumento dei crimini che ha portato a un diffuso senso di insicurezza culminato con l’aumento del 30% del numero di omicidi, che hanno avuto il loro epicentro nelle grandi città. A New York nel 2021 il tasso di criminalità era aumentato del 5% rispetto all’anno precedente mentre nel 2022 il primo trimestre ha visto un impressionante aumento del 38,5% del numero complessivo dei reati. Questo clima di spavento, dove si ipotizza che New York sia nuovamente pericolosa come negli anni ’70, spiega così anche la piattaforma securitaria con la quale è stato eletto il sindaco Eric Adams. Quest’ultimo ha lanciato un piano per la sicurezza per combattere quest’ondata il 5 marzo scorso: prematuro dire se questo ha avuto già degli effetti. Nel frattemo resta centrale il tema delle armi fantasma. Cosa sono queste strane pistole componibili chiamate ghost guns? Sono delle armi componibili costituite con materiale plastico. Basta fare un giro su Google e si trovano siti che le vendono con estrema facilità. Provare per credere.
Il problema delle pistole fantasma
Secondo la policy dell’Ufficio Federale dell’Alcool, Tabacco, Armi da Fuoco ed Esplosivi (ATF), non è illegale costruirsi un’arma. Tutto questo però potrebbe cambiare rapidamente: i dati sono impietosi. Nel 2021 sono state sequestrate ben 21mila armi di questo tipo, un aumento di dieci volte rispetto al 2016, quando vennero raccolte circa 2 mila pistole. Non solo: negli ultimi 18 mesi sulle scene del crimine si sono spesso rinvenute proprio questo tipo di pistola.
L’11 aprile scorso Joe Biden ha chiesto di cambiare quella singola regola, dopo che sia il sindaco Adams sia il senatore Chuck Schumer, leader democratico al Senato, hanno chiesto alla Casa Bianca di intervenire su questo cavillo che, nel 2013 consentì a John Zawahri di aprire il fuoco con un fac simile del fucile d’assalto AR 15 in California, al Santa Monica College, uccidendo sei persone, dopo che un negozio d’armi gli aveva rifiutato la vendita per i suoi precedenti.
Biden nel corso del suo annuncio ha spiegato che il dipartimento di Giustizia starebbe cercando finalmente di inserire i componenti tra l’elenco delle armi propriamente dette e che al vertice dell’Atf andrà un ex procuratore federale, Steve Dettelbach, dopo che la prima scelta, l’ex agente dell’Atf David Chipman è stato ritirato da Biden a causa dei voti insufficienti al Senato.
Le insidie per Biden
Ci sono però diversi scettici sull’efficacia di questa azione. Intanto perché anche l’approvazione di Dettelbach è a rischio. Il blogger conservatore Erick Erickson lo ha definito “un complottista elettorale” per aver affermato che le elezioni presidenziali del 2016 in Ohio sono state “non corrette”. In più un’associazione conservatrice, la Gun Owners of America, ha annunciato battaglia.
In un momento di ampia sfiducia dei confronti della Casa Bianca di Joe Biden ogni azione della presidenza presenta dei rischi. Se ad esempio l’ex vice di Obama dovesse fallire nell’intento di frenare quella che è stata definita “un’epidemia” di morti dovute a queste armi artigianali, rischierebbe di perdere una fetta del sostegno garantito dai progressisti, che da anni chiedono maggiore regolamentazione. In più a rendere tutto ancora più complesso sono le decine si “sconfitte” giuridiche maturate dai liberal nelle Corti Federali in mano a una maggioranza di giuristi conservatori.
Non da ultimo bisogna ricordare che uno degli argomenti che sicuramente verranno utilizzati dai repubblicani per la campagna elettorale delle elezioni di metà mandato del prossimo 8 novembre saà: “Dove governano i democratici non c’è sicurezza”. E i casi succitati, avvenuti nella New York governata per otto anni dal democratico progressista Bill De Blasio, sicuramente fanno gioco alla narrativa dei conservatori.
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Luca Benedetti per “il Messaggero” l'8 marzo 2022.
A Chicago la vita può valere appena un pacchetto di sigarette. Quelle che Keante McShan, 18 anni, ha comprato con la carta di credito di Diego Damis, 41 anni, barista perugino, che il ragazzino di colore aveva ammazzato per strada da neanche mezz' ora. L'omicidio, per scopo di rapina, il 25 febbraio.
L'altro giorno l'arresto da parte della polizia di Chicago del ragazzino che va in giro con la felpa dei New York Yankees (baseball) e che si è tenuto in casa il coltello con cui ha ucciso Diego e il portafoglio dell'italiano partito da Perugia sette anni fa per l'Illinois.
McShan è stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza di una stazione di servizio della Bp, ha usato la carta di credito di Diego a S. Lake Park Avenue, qualche isolato di distanza da Kenwood, il quartier bene dove vivono gli Obama e dove Diego è stato ucciso.
Lì il ragazzino di colore stava cercando di scassinare qualche auto di lusso quando, per caso, ha incrociato l'italiano. Niente bottino dalle auto, il suo obiettivo, allora, è subito diventato Diego che aveva appena finito il suo turno al The Cove Lounge, nella zona di Hyde Park. È l'alba di venerdì 25 febbraio, Diego percorre il blocco 4900 di South Greenwood Avenue e incrocia lo sguardo con il suo assassino. Preso com' è da una partita a scacchi al telefonino con un amico non ci fa caso, non si preoccupa.
Non si è accorto che l'altro aveva puntato alle auto. Il racconto lo fa via Whatsapp da Chicago, Laura, una delle sorelle di Diego, partita da Perugia subito dopo l'omicidio: «Mio fratello si è trovato nel momento sbagliato nel posto sbagliatissimo. Quello è un quartiere ricco. Quello stava cercando di rubare sulle auto.
Ma evidentemente non ha trovato nulla di valore. È tornato indietro e ha aggredito Diego accoltellandolo più volte. Gli ha preso il portafoglio. Diego aveva indosso il passaporto. Nel portafoglio c'era una carta di credito che quel ragazzo ha usato per comprare le sigarette mezz' ora dopo in una stazione di servizio. Le immagini lo fanno vedere bene, non aveva la mascherina e c'era una buona illuminazione che ha aiutato le riprese. Poi ha usato anche la tessera della metro. È andato a casa si è cambiato. Una volta che lo hanno individuato con le telecamere, i poliziotti hanno ricostruito tutto, dall'aggressione fino all'acquisto delle sigarette. A quel punto la polizia ha avuto il mandato per entrare in casa.
Lì hanno trovato tutto. I vestiti che indossava quel giorno all'alba, il portafoglio e il coltello dell'aggressione. Ecco come lo hanno preso. Ha 18 anni, un padre, e viene considerato un tipo molto pericoloso». Diego è morto al Chicago Medical Center un'ora dopo l'agguato. Il ragazzino che uccide per niente ama il football americano, il baseball, ha frequentato la Paul Robeson High School e ora è in carcere con l'accusa più pesante, quella di omicidio di primo grado a cui l'ha inchiodato il giudice Kelly Marie McCarthy.
Keante McShan quella mattina portava una borsa a tracolla. Simile a quella che la fidanzata portava quando è rincasata e ha trovato la polizia che stava arrestando Keante poco dopo l'ora di pranzo nell'isolato 6700 del Sud Ridgeland Ave. Un altro pezzo di prova pesante. Diego è stato ucciso a due isolati da casa. Sette anni fa aveva lasciato Bagnaia, piccola frazione perugina, per inseguire il sogno americano. Ieri a Chicago, la Comunità degli italiani all'estero ha ricordato Diego.
C'erano i fratelli, c'era la mamma. E vicino alla bandiera dell'Italia e degli Stati Uniti, c'era anche quella della Regione Umbria. «È stata una cerimonia bellissima - racconta la sorella Laura con accanto l'altro fratello, Andrea- toccante. Hanno voluto mettere una foto di Diego con quella delle Frecce Tricolori. Non ci hanno lasciati soli un attimo. Sempre presenti, sempre accanto a noi. Abbiamo trovato un'altra famiglia».
Laura torna indietro di qualche ora, quando la polizia li ha chiamati per dire che avevano preso l'assassino di Diego: «Il primo pensiero che ho avuto, quando ho saputo di Diego, è stato quello di dare una faccia a chi era stato. Che sia un ragazzino di 18 anni non ci cambia nulla perché è un assassino e basta. Per fortuna, il fatto che sia maggiorenne ci ha facilitato le cose, visto che qui, ci ha detto la polizia, la maggior parte dei delitti, li compiono ragazzi dai 16 ai 18 anni. Certo a noi non cambia nulla».
Le Armi. Costa il 2,6% del Pil. Quanto costano le armi agli americani: ogni anno in fumo 557 miliardi di dollari. Sergio D'Elia su Il Riformista il 7 Ottobre 2022
Radio radicale è un pozzo di conoscenza. Cercare nel suo archivio, ascoltare le sue rubriche e le sue dirette integrali, è come andare a scuola, un’alta scuola popolare di formazione politica e civile. Così l’ha pensata e fondata Marco Pannella. L’ultima Rassegna di Geopolitica di Lorenzo Rendi ha dato un contributo straordinario al sapere quel che può accadere quando scopi giusti sono perseguiti con mezzi sbagliati. L’eterogenesi dei fini non è un mero incidente, è spesso un destino del nostro modo di agire. Le conseguenze e gli effetti secondari possono essere tali da modificare tragicamente gli scopi originari delle nostre azioni.
Lorenzo Rendi ha dato conto di uno studio di Everytown for Gun Safety Support Fund sui “costi economici della violenza armata negli Stati Uniti”. Secondo questa grande organizzazione americana di prevenzione della violenza armata che unisce anche i sopravvissuti e le famiglie delle vittime, ogni anno, le armi da fuoco uccidono in media 40.000 persone, ne feriscono il doppio con una conseguenza economica per la nazione di 557 miliardi di dollari, pari al 2,6 per cento del prodotto interno lordo. Questo problema miliardario della violenza armata per le casse degli Stati e per i contribuenti americani include: i costi immediati che iniziano sulla scena di una sparatoria, come indagini di polizia e cure mediche; i costi successivi, come cure, assistenza sanitaria fisica e mentale a lungo termine, guadagni persi a causa di invalidità o morte e spese di giustizia penale; le stime dei costi della qualità della vita persa nel corso del tempo per il dolore e la sofferenza delle vittime e delle loro famiglie.
L’analisi evidenzia che Stati con leggi severe sulla sicurezza delle armi hanno un costo annuale inferiore per la violenza armata rispetto agli Stati con leggi permissive sulle armi. La storia americana è iniziata con la Bibbia e il fucile. L’antico testo ha ispirato l’idea di giustizia: occhio per occhio. L’arma da fuoco ha ispirato l’idea di sicurezza: un cittadino, un’arma. Le “armi legittime” dello Stato, pene di morte e pene fino alla morte, non hanno fatto diminuire i reati. Le armi costituzionali di prevenzione e tutela personale non hanno garantito la sicurezza. Anzi, prevenire è stato peggio che punire. La libera circolazione delle armi ha minato l’ordine, la sicurezza e la pace sociali negli Stati Uniti. La società “legge e ordine”, il potere politico nato dalla canna del fucile per neutralizzare i delitti di sangue, per tragico paradosso, ha conosciuto la realtà dell’omicidio come crimine praticato con frequenza maggiore rispetto al resto del mondo.
È sempre una questione di cattivi pensieri. Il pensiero maligno della giustizia biblica ha generato la realtà maligna della “striscia della Bibbia” che coincide con quella della pena di morte. L’ossessione della sicurezza ha alimentato quel complesso militare-industriale che il generale Ike Eisenhower, Presidente degli Stati Uniti, già nel 1961, denunciava come un pericolo mortale per l’umanità, e per la stessa America. È la maledizione dei mezzi che prefigurano i fini. Sul viatico manicheo di pena capitale e di “legge e ordine” anche uno Stato democratico può generare Caini o diventare esso stesso Caino! È ora di cambiare paradigma, di adottare un modo di pensare, di sentire e di agire radicalmente nonviolento.
Fare leva sulla forza della parola e del dialogo, della speranza e, innanzitutto, dell’amore che è il principio attivo della nonviolenza. Perché la vittoria decisiva non consiste nell’abbattere fisicamente o umiliare moralmente il nemico, ma nel con-vincere, vincere con, trasferire al potere assassino e all’ordine costituito sul delitto, la forza dello Stato di Diritto e l’amore per lo stato della vita. Il paradigma meccanicistico secondo il quale “al male, si risponde con il male”, a ben vedere, non corrisponde alla realtà dell’universo e all’ordine naturale delle cose, il quale non tollera confini chiusi, separazioni; al contrario, ama le relazioni, le interdipendenze, l’armonia di una vita eraclitea nella quale «tutto scorre come un fiume e non ci si bagna mai nella stessa acqua».
Quale spreco di energia nell’essere “diabolici”, nel separare, nel porre in mezzo ostacoli! Ascoltiamo la voce di fondo dell’universo, assecondiamo il principio d’ordine da cui tutto origina e a cui tutto tende. È un ordine “religioso”, che unisce, tiene insieme cose e vite diverse. Parlare al male con il linguaggio del bene, all’odio con il linguaggio dell’amore, alla forza bruta della violenza con la forza gentile della nonviolenza. Questo vuol dire “Nessuno tocchi Caino”! E non riguarda solo la pena di morte, la pena fino alla morte o la morte per pena. La missione è politica, ecologica, universale. Riguarda la vita del diritto e il diritto alla vita. Vuol dire vivere nel modo e nel senso in cui vuoi vadano le cose. Essere speranza contro ogni speranza. Sergio D'Elia
Azienda di armi Remington risarcisce vittime strage di Sandy Hook. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.
È la prima volta che accade: l’azienda verserà 73 milioni di dollari. Nella strage morirono 26 persone. Il commento di Biden: «I produttori siano responsabili»
Joe Biden ha parlato di accordo storico e probabilmente non ha torto. La Remington ha accettato di versare 73 milioni di dollari a 9 famiglie dei bimbi uccisi nella scuola di Sandy Hook, nel 2012. Il 12 dicembre di quell’anno, Adam Lanza, un ventenne con seri problemi mentali, uccide la madre Nancy e poi si introduce nell’istituto che aveva frequentato. In pochi istanti falcia 26 persone, in gran parte studenti delle elementari, quindi si toglie la vita. In cinque minuti spara 154 colpi. Un’azione letale dove il killer usa un fucile Bushmaster prodotto dalla Remington. Un modus operandi visto decine di volte nei licei e nelle università statunitensi trasformate in gallerie di tiro da persone instabili o folli.
I parenti dei bambini hanno accusato la Remington di aver fatto pubblicità e messo in vendita un prodotto che aveva le caratteristiche di un’arma da guerra, un «pezzo» che non doveva essere offerto sul mercato civile. Una tesi respinta dalla difesa della compagnia che però alla fine ha dovuto arrendersi. Una conclusione salutata positivamente dalle associazioni che si battono per maggiori controlli e dalla stessa Casa Bianca.
La tragedia di Sandy Hook, a Newtown, nel Connecticut racchiude tutti gli aspetti di una minaccia a volte più seria del terrorismo: quella rappresentata dagli sparatori su ampia scala, i mass shooter. Adam, nonostante i guai personali, ha sempre rifiutato le cure e la madre ha assecondato la passione per le armi. Lei stessa, per paura di perderlo, ha evitato di assumere una linea decisa in favore di un ricovero coatto. Pensava di poterlo assistere da sola e meditava di cambiare città. Il giovane, in uno stato di autoreclusione, passava ore ai videogiochi e spesso rimaneva chiuso nella sua stanza al buio, rifiutando contatti diretti.
In quell’ambiente ristretto conduceva ricerche su altri responsabili di massacri, teneva il conto delle vittime, aveva messo a punto un suo archivio su una lunga serie di episodi violenti. E, purtroppo, aveva accesso ad un piccolo arsenale, con un paio di pistole, un fucile a pompa, un altro con calibro 22 e molte munizioni. Una deriva progressiva che lo ha portato a trasformarsi in carnefice di piccoli innocenti.
Al dolore delle famiglie si è aggiunta anche la disperazione per le folli teorie cospirative, sostenute da ambienti dell’estrema destra, tendenti a negare l’esistenza dell’eccidio. Per alcuni era un «piano» dell’amministrazione Obama per porre restrizioni al possesso e alla vendita di armi. Non è chiaro cosa abbia innescato Adam Lanza, la polizia non ha individuato un movente preciso e lui ha distrutto in modo meticoloso il suo computer in modo che non potessero ricavarne dati. Una delle ipotesi è che il progetto di Nancy — divorziata da tempo dal padre dell’assassino — di lasciare Newtown per trasferirsi all’Ovest possa aver scatenato l’esplosione finale.
C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA. Quel fratello di Al Capone che sparì, cambiò nome e diventò agente federale. Vincenzo si faceva chiamare Richard Hart. Sbarcò in Nebraska. E diventò un tutore della legge modello nella lotta al contrabbando. Ma non ruppe del tutto i ponti con i malavitosi di famiglia. Luciana Grosso su L'Espresso il 14 febbraio 2022.
Al Capone, il gangster più gangster di sempre, probabilmente, neppure sapeva dell’esistenza di Homer, una minuscola e sperduta città di meno di 500 abitanti, tutti contadini e tutti poveri, in Nebraska.
Eppure per raccontare questa storia, che si intreccia come poche altre con quella del boss più famoso e famigerato del Novecento, è da Homer che bisogna partire. Da Homer, dai suoi abitanti vestiti di stracci, e dalla sua minuscola stazione ferroviaria.
Dagotraduzione da Reason.com il 10 febbraio 2022.
Si è appena conclusa in Ohio la vicenda legale che ha visto un residente della contea di Clark, Michael Wood, uscire vittorioso da una battaglia per i suoi diritti civili contro lo sceriffo e i suoi uomini. La storia è del luglio del 2016: Michael Wood stava partecipando a una fiera alla Clark County Fair e, per via di spiacevoli incidenti del passato con l’ufficio dello sceriffo, indossava una maglietta provocatoria, con la scritta: “Fanculo la polizia”.
Secondo quanto raccontato in tribunale, un mecenate si è andato a lamentare dell’abbigliamento di Wood con gli uomini dello sceriffo, i quali sono intervenuti insieme al direttore della fiera ordinando a Wood di lasciare l’evento. Mentre si dirigeva verso l’uscita, Wood ha poi inveito contro gli uomini: «Uno, due, tre, quattro, cinque, sei figli di puttana. Sei maiali stronzi». «Fottuti teppisti con pistole che non rispettano la Costituzione degli Stati Uniti. Fanculo a tutti voi. Sporchi bastardi topi». E quelli hanno deciso di arrestarlo e lo hanno accusato di condotta disordinata e ostruzione, accuse poi respinte dai pubblici ministeri.
Wood a questo punto ha fatto causa ai sei funzionari dello sceriffo, sostenendo di essere stato arrestato senza motivo e in violazione dei suoi diritti civili sanciti da Primo Emendamento.
I sei hanno sostenuto che l'arresto di Wood era legittimo per la dottrina delle «parole di combattimento» stabilita dalla sentenza della Corte Suprema del 1942 in Chaplinsky v. New Hampshire. Quella dottrina sopravvive ancora, ma la sua applicazione è stata notevolmente limitata nel corso dei decenni.
Ma la Corte d’Appello ha stabilito che non avevano nessun motivo per arrestare l’uomo. Anzi, per il tribunale Michael Wood aveva diritto, sancito dal Primo Emendamento, di maledire gli uomini che lo avevano rimosso da una fiera della contea nel 2016 dopo che qualcuno aveva chiamato i servizi di emergenza sanitaria per lamentarsi della sua maglietta. Inoltre, i sei non avevano diritto a un'immunità per la causa di Wood perché il diritto di Wood a essere libero dall'arresto è stato chiaramente stabilito da una lunga serie di opinioni dei tribunali che proteggono un linguaggio osceno diretto alle autorità.
«Il tribunale ha avuto ragione e siamo molto soddisfatti del risultato», afferma David Carey, vicedirettore legale dell'American Civil Liberties Union of Ohio. «La sentenza toglie ogni dubbio sul fatto che le critiche alla polizia e alle loro azioni, anche grossolane e profane, rientrino nelle principali protezioni del Primo Emendamento e non possono essere di per sé una base legale per un arresto».
Un tribunale distrettuale degli Stati Uniti aveva concesso un giudizio sommario a favore dei sei uomini dello sceriffo della contea di Clark, stabilendo che il discorso di Woods non era protetto dalla lettura più ampia di Chaplinsky da parte dei tribunali statali dell'Ohio.
La Corte d’Appello, tuttavia, ha invertito quell'ordine, trovando l'interpretazione dell'Ohio della dottrina delle parole di combattimento incongruente con il precedente federale e osservando che, sebbene il discorso di Wood fosse profano, non creava una ricetta per la violenza immediata.
Il caso di Wood torna ora a un tribunale distrettuale degli Stati Uniti per ulteriori procedimenti.
Paolo Mastrolilli per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 6 febbraio 2022.
Correva l'anno 1873, per la precisione il 21 luglio, quando Jesse James immaginò questo audace piano. Una volta saputo l'orario esatto in cui il treno con la cassaforte della U.S. Express Company sarebbe transitato per Adair, in Iowa, con i suoi complici allentò il binario della Chicago, Rock Island and Pacific Railway.
Quando la locomotiva arrivò alla curva cieca dietro cui i banditi si erano nascosti, Jesse ordinò di tirare con forza la corda a cui lo avevano legato. Il binario si spostò, facendo deragliare i vagoni.
Il macchinista morì sul colpo nell'incidente, ma il resto del treno si fermò senza grossi danni lungo le rotaie. Allora James e suo fratello Frank salirono sopra per aprire la cassaforte.
Dentro però ci trovarono solo duemila dollari, e quindi per rifarsi della delusione rapinarono tutti gli impauriti passeggeri, portando via soldi e qualunque altro oggetto di valore.
Questa rapina contribuì a creare il mito di Jesse James e aprì l'epopea degli assalti ai treni, assai più allettanti e profittevoli di quelli alle diligenze. Nel 1899, ad esempio, Butch Cassidy fece saltare con la dinamite un intero ponte del Wyoming, in modo da bloccare e isolare un convoglio.
Così poté rubare i 30.000 dollari della famigerata Wilcox Train Robbery, a cui poi nel 1903 si sarebbe anche ispirato il film muto "The Great Train Robbery". Quei vagoni correvano sui binari della Union Pacific Railroad, fondata 160 anni fa ad Omaha, in Nebraska. Oltre un secolo dopo, la compagnia sperava di essersi messa alle spalle queste storie da Far West. Ma l'America evidentemente non è cambiata, o almeno non fino al punto di lasciare in pace i treni.
Dal dicembre del 2020 ad oggi, infatti, i furti ai danni dei vagoni proprio della Union Pacific sono aumentati del 160%, con una media di 90 container compromessi ogni giorno. Gli assalti però si sono moltiplicati durante l'epidemia di Covid, e in particolare da quando gli imbuti creati dal virus nella catena di approvvigionamento hanno paralizzato i trasporti.
Soprattutto nella zona di Los Angeles, dove al porto di Long Beach arriva circa il 40% delle importazioni che raggiungono gli Stati Uniti via mare. Da qui, quando finalmente riescono a scaricarli dalle navi, i container vengono trasferiti con i camion. In larga parte vanno al centro di smistamento di Hollenbeck a Lincoln Heights, dove vengono caricati sui treni che poi li portano nel resto del paese, partendo dalle 275 miglia di binari che si intrecciano nella contea di Los Angeles.
E appunto qui vengono rapinati, perché gli intoppi provocati dal blocco della supply chain obbligano i vagoni a restare fermi anche per giorni sulle rotaie, rimanendo così esposti agli assalti dei ladri.
Il capo della polizia della città, Michael Moore, ha lanciato l'allarme perché tra le merci rubate ci sono anche armi, «decine di fucili e pistole, che minacciano di aggravare le violenze nelle nostre strade».
Per capire le dimensioni del problema, secondo il Los Angeles Times nell'ottobre scorso i furti ai danni della Union Pacific sono aumentati del 356% rispetto allo stesso mese dell'anno prima.
La compagnia, che ha un valore complessivo di mercato di 155 miliardi e nel quarto trimestre del 2021 ha incassato profitti per 1,7 miliardi, ha anche subito perdite per 5 milioni di dollari durante l'anno passato a causa dei furti.
E questa cifra non tiene conto dei soldi persi dai clienti, a causa della scomparsa dei beni spediti e mai consegnati, inclusi i pacchi di Amazon, United Parcel Service o FedEx. Le immagini scattate sui luoghi dei furti, che ormai sono diventate virali, descrivono una realtà che il governatore della California Newsom ha definito senza mezzi termini «da paese del terzo mondo».
Perché i ladri aprono i vagoni, prendono gli oggetti di maggior valore, e poi buttano per terra i cartoni in cui sono imballati o la merce che non li interessa. In qualche caso dei testimoni oculari hanno raccontato al Los Angeles Times di averli visti bivaccare tra i binari, perché tanto non correvano alcun rischio.
Nei giorni scorsi Newsom si è vestito in maniche di maglietta ed è andato a ripulire le rotaie, approfittando dell'occasione per promuovere la sua riforma che darebbe 255 milioni di dollari alle forze dell'ordine nei prossimi tre anni, proprio allo scopo di combattere i furti sui treni, nei negozi, e quelli delle auto.
Ma di chi è la colpa di questa emergenza? Il primo responsabile è il Covid, che ha creato gli intoppi nella supply chain, lasciando i vagoni alla mercè dei criminali. Nel frattempo, secondo il Wall Street Journal, a causa dell'epidemia circa 2.000 agenti si sono dimessi dal dipartimento di Polizia di Los Angeles (LAPD), lasciandolo senza gli uomini necessari per garantire l'ordine.
A sua volta Union Pacific, che ha circa 200 guardie private per proteggere i propri treni lungo migliaia di chilometri di ferrovia, ha ridotto il personale. Così è rimasta con soli sei agenti a pattugliare i binari da Yuma, in Arizona, fino alla costa del Pacifico.
Risultato: dal febbraio al dicembre dell'anno scorso LAPD ha arrestato 122 ladri sui treni. Eppure restano troppo pochi, per fermare le razzie. I casi presentati alla procura di Los Angeles sono scesi da 78 nel 2019 a 47 nel 2021, e solo nel 55% delle occasioni è seguita l'incriminazione. L'unica speranza, in altre parole, sembra essere che il Covid vada via, mettendo così fine alla resurrezione del Far West.
Era 'armato' di sigaretta elettronica. Il video dell’omicidio di Donovan Lewis, l’afroamericano ucciso nel suo letto dalla polizia durante blitz. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'1 Settembre 2022.
Ucciso dalla polizia a colpi d’arma da fuoco mentre era nel suo letto, innocuo e ‘armato’ di una sigaretta elettronica. E’ la cronaca dell’ennesimo omicidio di un afroamericano negli Stati Uniti. L’ultima vittima si chiamava Donovan Lewis, aveva 20 anni. Il blitz della polizia è avvenuto intorno alle due di notte del 31 agosto in un’abitazione nella città di Columbus, in Ohio. A riprendere le azioni degli agenti è stata una body camera che uno di loro indossava.
I poliziotti hanno spiegato in una conferenza stampa che stavano eseguendo un mandato di arresto per violenza domestica, aggressione e manipolazione impropria di un’arma da fuoco. A sparare un solo colpo è stato il poliziotto Ricky Anderson, da 30 anni nel dipartimento di Columbus, assegnato all’unità cinofila. Pochi istanti prima gli agenti che hanno condotto il blitz avevano fermato e portato via due uomini che si trovavano all’interno dell’appartamento. La polizia ha precisato che Lewis sembrava avere un oggetto in mano nel momento in cui l’agente ha sparato. Ma sul letto è stata trovata solo la sigaretta elettronica
“Gli agenti hanno bussato alla porta per diversi minuti… qualificandosi come poliziotti di Columbus”, ha detto il capo del dipartimento, Elaine Bryant. Il video della body camera li mostra mentre bussano e chiamano ripetutamente gli inquilini per otto-dieci minuti, urlando anche più volte il nome “Donovan”. A quel punto un uomo ha aperto la porta e gli agenti lo hanno fermato insieme ad un’altra persona.
Poi hanno ispezionato l’appartamento aprendo pian piano tutte le porte interne fino a quando sono arrivati alla camera da letto. Ad aprire la porta è stato lo stesso Anderson che ha immediatamente sparato mentre il 20enne era seduto al centro del letto. “Ci impegniamo per la piena trasparenza e ci impegniamo a ritenere gli agenti responsabili in caso di illeciti – ha detto il capo della polizia Bryant – E’ mio compito fare il modo che gli agenti rispondano del loro operato, ma è anche mio compito offrire loro supporto durante tutto il processo”.
In questo momento è fondamentale che il video delle riprese e tutti i fatti disponibili siano condivisi per motivi di completa trasparenza”, ha affermato il presidente del Consiglio comunale di Columbus Shannon Hardin in un tweet che includeva il video. Il Bureau of Criminal Investigation dello stato sta conducendo un’indagine indipendente sull’accaduto.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Da blitzquotidiano.it il 20 luglio 2022.
Un 23enne afroamericano, Robert Adams, è stato ucciso dalla polizia in un parcheggio di San Bernardino, in California. Il video, pubblicato in queste ore, ha già fatto il giro del mondo. E in molti stanno già paragonando l’episodio all’uccisione di George Floyd.
Cosa si vede nel video
Nel filmato si vede il 23enne prima avvicinarsi alla macchina della polizia poi scappare. Dalla macchina scendono due agenti che prima puntano le pistole e poi sparano.
Cosa dice la polizia
La polizia sostiene che Robert Adams fosse armato e che i due agenti, riconoscibili dall’uniforme, abbiano cercato di impartire ordini al ragazzo prima che iniziasse a scappare. Jennifer Kohrell, portavoce del dipartimento, ha aggiunto che il 23enne corrispondeva “alla descrizione” di un soggetto su cui stavano indagando.
Le parole dell’avvocato di George Floyd
“È incredibile che un’altra famiglia di colore debba seppellire il proprio figlio a causa della sparatoria della polizia prima e delle domande in seguito”, ha detto Benjamin Crump, avvocato difensore della famiglia di George Floyd, in una dichiarazione. “Sembrava che Robert stesse semplicemente camminando intorno al parcheggio quando gli agenti sono usciti dal loro veicolo senza contrassegni sparandogli immediatamente”.
Le parole del papà della vittima
“Il mondo intero ha visto il video – ha detto il papà della vittima -, è ora che quell’ufficiale si dimetta. Mio figlio non era un membro di una gang. Hanno ucciso un ragazzo innocente”.
Michigan, afroamericano faccia a terra ucciso da agente di polizia con colpi di pistola alla nuca. Ripreso dalla bodycam dell'agente, Patrick Lyoya blocca il taser. La Repubblica il 14 Aprile 2022.
Si chiamava Patrick Lyoya, 26enne originario della Repubblica Democratica del Congo, arrivato negli Usa come rifugiato. Fermato il 4 aprile per una verifica sulla targa del suo mezzo, ha tentato la fuga, finendo con l'essere ucciso al termine di una colluttazione. Il capo della polizia vuole trasparenza e autorizza la diffusione dei video sull'accaduto. E nelle strade è protesta
La polizia di Grand Rapids, nel Michigan, rischia di essere travolta da una tempesta simile a quella che investì i colleghi di Minneapolis dopo il caso George Floyd. Anche questa volta c'è di mezzo la morte di un nero, il 26enne Patrick Lyoya, ucciso il 4 aprile da un agente dopo essere stato fermato per un controllo stradale.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 marzo 2022.
Meno di due mesi prima che George Floyd venisse ucciso dalla polizia in Minnesota, un altro uomo, Edward Bronstein, 38 anni, moriva soffocato sotto il peso degli agenti. I suoi ultimi momenti sono stati resi pubblici martedì: la California Highway Patrol si era opposta alla pubblicazione del nastro, ma il giudice ha dato ragione alla famiglia e la corte federale ne ha ordinato il rilascio.
Nel video si vedono gli ultimi strazianti momenti dell’uomo. Fermato per guida in stato di ebbrezza, era stato portato alla stazione della polizia per fornire un campione di sangue. Ma, a quanto dicono i familiari, Bronstein era terrorizzato dagli aghi.
Il video, che dura 18 minuti e che è stato girato da un sergente della California Highway Patrol a Pasadena, mostra Bronstein ammanettato che litiga con la polizia mentre gli agenti lo costringono ad inginoccharsi per effettuare il prelievo che si rifiutava di fornire. All’inizio Borntein discute, ma poi gli agenti lo buttano a terra a faccia in giù e lui inizia a urlare di paura. «Lo farò volentieri» dice mentre due ufficiali gli si stanno addosso e un altro lo avverto di non resistere.
«Troppo tardi» gli dice l’ufficiale. «Non ti stiamo prendendo in giro. Hai bisogno di rilassarti». Su di lui sono inginocchiati cinque uomini, e Bronstein inizia a implorare: «Non riesco a respirare, non riesco a respirare!». Poi smette di muoversi e a quel punto gli agenti prelevano il sangue dal suo corpo inerme.
Un secondo filmato mostra i tentativi, inutili, di rianimare l’uomo. Agenti e paramedici lo schiaffeggiano e lo chiamano per nome, gli fanno un massaggio cardiaco e gli danno ossigeno. Un ufficiale confessa ai paramedici che l’uomo si era lamentato di «non riuscire a respirare». «Quando l’abbiamo fatto rotolare, stava diventando blu», dice.
Subito dopo, qualcuno ricorda al gruppo che ci sono le telecamere accese. Per l’ufficio del coroner della contea di Los Angeles le cause della morte di Bronstein sono «intossicazione acuta da metanfetamine durante la contenzione da parte delle forze dell’ordine». La famiglia chiede condanne penali per gli agenti.
Massimo Basile per “la Repubblica” il 15 aprile 2022.
Patrick Lyoya era arrivato negli Stati Uniti con genitori, fratelli e sorelle, in fuga dalle violenze della Repubblica democratica del Congo. Era il 2014, aveva diciotto anni. Dopo aver lasciato la terra dei grandi laghi, era finito vicino al grande lago Michigan e questo sembrava un segno propizio del destino.
Un anno dopo un uomo bianco si era presentato al dipartimento di polizia di Grand Rapids per trovare lavoro. Lì è cominciato il conto alla rovescia che ha portato un africano di 26 anni a ritrovarsi con il viso a pochi centimetri dall'erba di un giardino e un poliziotto incollato alle spalle mentre gli urlava «lascia il Taser».
Meno di tre secondi dopo, l'agente gli ha sparato un colpo di pistola dietro alla testa, uccidendolo. Tra l'ultimo secondo di vita di un rifugiato e un nuovo caso George Floyd c'è il dettaglio decisivo delle immagini: quelle riprese con il cellulare dall'amico della vittima, quelle girate da un residente della strada, e i video registrati dalla telecamera installata nell'auto di servizio e dalla bodycam indossata dal poliziotto, al momento senza nome.
La morte è avvenuta la mattina del 4 aprile, ma per nove giorni nessuno in America sapeva, tranne a Grand Rapids, dove la madre ha pianto, invocando dio in Swahili, il padre si è sentito male e la gente è scesa in piazza. Sui giornali la notizia più importante era l'adesione del birrificio locale a una raccolta fondi per ucraini, rifugiati come lo sono i Lyoya. Poi la polizia ha rilasciato i video.
Alle 8,11 l'auto guidata dal giovane africano - con targa forse non legale - accosta lungo una strada residenziale fatta di case con giardino, dopo aver ricevuto l'ordine del poliziotto. Lyoya apre la portiera, esce, ha l'aria confusa. «Mostrami la patente ». «Cosa ho fatto di male?».
«Parli inglese?». «Sì». «Mostrami la patente». Spaventato, Lyoya tenta la fuga, ma viene raggiunto. Nasce una colluttazione che dura circa due minuti. Il congolese prova a strappare dalle mani del poliziotto il Taser. Le immagini della bodycam si bloccano per motivi non chiari, ma sufficienti a gettare ombre.
Quello che succede dopo viene documentato dal passeggero dell'auto. Dopo averlo messo faccia a terra, e essergli montato sulla schiena, il poliziotto urla a Lyoya di lasciare il taser, poi gli spara alla testa come in un'esecuzione. Poi l'agente si rialza e dice al testimone: «Stai indietro».
Sull'erba resta un corpo seminudo, maglione tirato, braccio sinistro ricurvo sotto la pancia. Il poliziotto è stato sospeso ma con stipendio. Il procuratore della contea ha avviato un'inchiesta, la governatrice del Michigan ha invitato alla calma.
Ben Crump, avvocato del caso Floyd, l'afroamericano ucciso nel 2020 dalla polizia a Minneapolis, si occuperà anche di questo, e non vede differenze: «Le immagini mostrano chiaramente che c'è stato un uso eccessivo, non necessario e fatale della forza contro un uomo nero, disarmato, confuso e terrorizzato».
La sequenza Tre momenti del tentativo di arresto e dell'uccisione di Patrick Lyoya, 26 anni. I primi due fotogrammi sono presi dal video della bodycam del poliziotto. Il terzo è il momento in cui l'agente estrae la pistola.
Da blitzquotidiano.it il 14 aprile 2022.
Un poliziotto Usa spara e uccide un afroamericano mentre era terra: un nuovo video shock torna ad accendere il dibattito sull’uso eccessivo della forza da parte della polizia. Il fatto è avvenuto il 4 aprile a Grand Rapids, in Michigan, ma la polizia ha diffuso il filmato solo ora.
Le immagini, riprese da diverse telecamere, mostrano il 26enne Patrick Lyoya a terra e un poliziotto bianco che lo bracca con la gamba sulla schiena. I due si stanno scontrando sul taser estratto dall’agente.
Il poliziotto che spara e uccide l’afroamericano
“Lascialo”, si sente urlare il poliziotto. “Lascia il taser”, ripete l’agente prima di estrarre la pistola e colpire il 26enne alla testa. Il ragazzo era stato fermato per un controllo stradale. “Durante lo scontro l’agente ha sparato.
Sarà trattato come chiunque altro”, afferma il capo della polizia Eric Winstrom senza rilasciare il nome dell’agente. “Se sarà incriminato riveleremo il nome”, aggiunge. La diffusione del video è stata preceduta da una manifestazione davanti al commissariato della polizia. Centinaia di persone sono infatti scese in piazza per chiedere giustizia per Loyola cantando ‘Black Lives Matter’ e ‘No justice, no peace’.
Nei giorni scorsi Winstorm ha incontrato la famiglia di Loyola, che si è trasferita negli Stati Uniti dal Congo nel 2014. Di fronte alle immagini scioccanti, che gli sono state mostrate prima di renderle pubbliche, il padre di Loyola è rimasto gelato, “quasi svenuto” di fronte a suo figlio “sdraiato a terra con un agente sopra di lui che ha tirato fuori la pistola e gli ha sparato alla testa”, ha raccontato il pastore Israel Siku che ha accompagnato il papà del ragazzo alla polizia.
Il dolore della famiglia
“E’ stata un’esecuzione”, ha commentato la famiglia. “Ancora una volta ci viene ricordato quanto velocemente l’interazione con la polizia può rivelarsi fatale per un afroamericano negli Stati Uniti”, afferma il legale dei diritti civili Benjamin Crump, l’avvocato che si è occupato del caso di George Floyd, il volto del movimento Black Lives Matter.
Afromericano ucciso dalla polizia. Video messo in rete, scoppia la protesta. Valeria Robecco il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.
L'uomo bloccato a terra dopo un controllo stradale e un tentativo di fuga. L'agente ha sparato. Cortei e rischio di scontri.
New York. La questione razziale e le polemiche contro la violenza della polizia tornano a travolgere l'America, che teme di trovarsi ancora alle prese con una stagione di proteste e rivolte come in seguito all'uccisione di George Floyd nel 2020. A riaccendere il dibattito sono nuovi video shock in cui un agente spara e uccide un giovane afroamericano mentre si trovava a terra. Le immagini dell'incidente - avvenuto il 4 aprile a Grand Rapids, in Michigan - riprese da diverse telecamere, inquadrano il 26enne Patrick Loyola a terra e un poliziotto bianco che gli preme una gamba sulla schiena.
Uno dei filmati è quello della body-cam del poliziotto, che mostra il momento in cui il giovane viene fermato per un controllo stradale ed esce dalla sua auto, nonostante la polizia gli avesse gridato di restare dentro. L'agente si avvicina, tra i due inizia una discussione, il giovane scappa, il poliziotto lo insegue. Gli altri tre filmati, i più cruenti, sono stati ripresi da un passeggero nell'auto di Patrick e dalle telecamere di sicurezza del quartiere residenziale dove è avvenuta la tragedia. All'inizio si vedono i due lottare per il taser del poliziotto. «Lascialo», grida l'agente, «ti dico di lasciarlo», insiste. Il 26enne non lo molla, ha il fiato corto e sembra agitato. A quel punto le immagini si fanno confuse fino a quando non si vede il giovane faccia a terra, le mani bloccate. Il poliziotto è sopra di lui e gli preme la schiena, poi estrae la pistola dalla fondina e gli spara un colpo secco alla testa. Il rumore dello sparo è l'ultima cosa che si sente.
Dopo che le forze dell'ordine hanno diffuso il filmato decine di persone si sono radunate nel centro di Grand Rapids per protestare, spostandosi poi davanti al quartier generale della polizia. Molti, con in mano cartelli con scritto «Black Lives Matter» e «No justice, no peace», scandivano il motto del movimento per i diritti dei neri di cui Floyd - soffocato a morte da un agente a Minneapolis - è diventato il simbolo. Per ora, quando i manifestanti hanno visto gli agenti in tenuta anti-sommossa fuori dal quartier generale hanno espresso la loro rabbia in modo pacifico. Intanto la famiglia di Loyola ha definito la sua morte una «esecuzione», mentre il capo della polizia di Grand Rapids, Eric Winstrom, ha detto: «Durante lo scontro l'agente ha sparato. Sarà trattato come chiunque altro. Se sarà incriminato riveleremo il nome». «È una tragedia, un susseguirsi di sofferenza e dolore per me, ha aggiunto. Nei giorni scorsi Winstorm ha incontrato la famiglia del 26enne, che si è trasferita negli Stati Uniti dal Congo nel 2014. Di fronte alle immagini scioccanti che gli sono state mostrate prima di renderle pubbliche, il padre del ragazzo è rimasto sconvolto ed è «quasi svenuto» di fronte a suo figlio «sdraiato a terra con un agente sopra di lui che ha tirato fuori la pistola e gli ha sparato alla testa», come ha raccontato il pastore Israel Siku, che ha accompagnato l'uomo alla polizia.
«Ancora una volta - ha detto da parte sua l'avvocato per i diritti civili Benjamin Crump, che si è occupato del caso di Floyd - ci viene ricordato quanto velocemente l'interazione con la polizia può rivelarsi fatale per un afroamericano negli Stati Uniti».
Stati Uniti: un nuovo caso Floyd, un altro uomo morì soffocato dai poliziotti. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 18 Marzo 2022.
La vittima si chiamava Edward Bronstein: in un video si vede l’uomo immobilizzato esattamente come Floyd morire soffocato. L’episodio risale al 2020.
Spunta un altro video shock in Usa sulla brutalità della polizia,un caso analogo a quello di George Floyd (l’uomo morto nel maggio 2020 in seguito al violento arresto operato da alcuni agenti), ma anteriore di due mesi. Come ricostruito dall’agenzia giornalistica Ansa, la vittima è Edward Bronstein, 38 anni, fermato per un controllo stradale in California. Nella clip di 18 minuti si vedono gli agenti stendere a terra l’uomo ammanettato e premere con le ginocchia sulla sua schiena per un prelievo di sangue mentre lui grida che è pronto a farlo volontariamente. Poi continua a ripetere le stesse parole di Floyd, «I cant’ breathe» (non riesco a respirare) prima di perdere conoscenza per 3 minuti e morire.
L’uomo ripete «I cant’ breathe» (non riesco a respirare) e «Let me breathe» (lasciatemi respirare) per almeno 12 volte in 30 secondi e quando perde conoscenza i poliziotti continuano ad aspirare il sangue. Poi gli agenti si accorgono che non c’è più battito, che non sembra respirare e solo dopo oltre 11 minuti dagli ultimi gemiti di Bronstein tentano inutilmente il massaggio cardiaco. La famiglia della vittima ha fatto causa ad una decina di poliziotti per uso eccessivo della forza e violazione dei diritti civili, contestando anche l’autopsia, secondo cui l’uomo sarebbe morto per «intossicazione acuta di metanfetamine durante l’arresto». A distanza di quasi due anni dalla tragedia, un giudice ha ordinato la diffusione del video, registrato da uno degli agenti.
Omicidio George Floyd, tre ex poliziotti condannati per non aver fermato il loro collega. Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2022.
Erano in "prima fila" e "non fecero niente" per evitare la morte di un uomo. Tre ex poliziotti sono stati dichiarati colpevoli per aver violato i diritti civili di George Floyd, l'afroamericano rimasto ucciso nel 2020, durante un'operazione di polizia a Minneapolis, Minnesota. Il verdetto arriva a dieci mesi di distanza da quello di condanna del principale imputato, Derek Chauvin, l'uomo ripreso da un video mentre premeva con il ginocchio sul collo di Floyd, tenuto a terra con le mani dietro la schiena.
L'afroamericano aveva supplicato di poter respirare, ma sia Chauvin sia i suoi colleghi non avevano fatto niente per alleviare la sua sofferenza. Floyd era poi morto per arresto cardiaco. Gli ex agenti Alexander Kueng, Thomas Lane e Tou Thao sono stati dichiarati colpevoli non solo di aver violato i diritti civili di Floyd, ma di non essere intervenuti per fermare il loro collega.
A giugno il giudice emetterà la sentenza con cui verranno quantificati gli anni da scontare: i tre rischiano fino all'ergastolo anche se, in base alla statistica, sembra un'ipotesi difficile.
Il giovane non era neanche destinatario della perquisizione. Nuovo caso George Floyd, 22enne afroamericano freddato sul divano dalla polizia: proteste per la morte di Amir Locke. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Febbraio 2022.
Minneapolis rischia di andare di nuovo a ferro e fuoco: oltre mille persone sono scesa in piazza nella città del Minnesota per protestare contro l’uccisione di Amir Locke. L’episodio, risalente a tre giorni fa, nella stessa città dove si consumò l’efferato omicidio di George Floyd: l’afroamericano ucciso dalla polizia in strada – soffocato con un ginocchio – nel maggio 2020. Le immagini riprese in diretta dell’omicidio fecero diventare quel caso virale e mondiale, con manifestazioni in tutto il mondo, anche violente.
Amir Locke aveva 22 anni. Era afroamericano anche lui e incensurato. È stato ucciso a sangue freddo dalla polizia mentre era assopito sul divano di casa. Gli agenti hanno fatto irruzione nel suo appartamento in centro città per una perquisizione domiciliare, senza preavviso. E hanno aperto il fuoco. Tre colpi al torace e al polso non hanno lasciato scampo al 22enne. Le immagini girate dalla bodycam e diffuse dalla polizia sono terribili: si vede l’irruzione nell’abitazione, le urla degli agenti, il ragazzo su un divano avvolto in una coperta che si alza di colpo, almeno tre gli spari esplosi dagli agenti.
Locke avrebbe impugnato una pistola quando si è accorto dell’irruzione. Gli avvocati della famiglia hanno fatto sapere che l’arma era detenuta regolarmente. Alcuni familiari hanno dichiarato che il giovane stava dormendo e che avrebbe preso l’arma per difendersi. La polizia ha riferito che la perquisizione era collegata a un’indagine per omicidio ma che il nome della vittima non compariva nel mandato. Locke non era quindi il destinatario del mandato.
Il video è stato pubblicato per primo dalla Cnn. Un’avvocata per i diritti civili, Nekima Levy Armstrong, riferisce che la famiglia le ha raccontato che Locke non viveva nell’appartamento del blitz, dunque la polizia non stava cercando lui. La manifestazione che si è tenuta a Minneapolis è stata pacifica. Gli slogan “no justice, no peace” e “Black Lives Matter”. Il padre della vittima, Andrea Locke, è intervenuto alla manifestazione e ha chiesto 22 giorni di pace, tanti quanti gli anni del figlio. “Non siamo teppisti anti polizia”, ha spiegato.
Criticato il sindaco democratico Jacob Frey per non aver mantenuto la promessa di sospendere le cosiddette “no knock warrants”, ovvero le perquisizioni senza preavviso. La madre del 22enne ucciso ha chiesto che l’agenti (o l’agente) che hanno aperto il fuoco siano incriminati ed espulsi dalle forze dell’ordine. Il video orribile dell’accaduto è diventato virale in tutto il mondo in pochi minuti.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Estratto dell'articolo di Anna Lombardi per “la Repubblica” l'8 agosto 2022.
Li chiamano "rifugi sicuri": ma le "Safe Haven Baby Box" che negli ultimi tre anni un'organizzazione antiabortista ha collocato negli Stati più conservatori degli Stati Uniti sono solo il simbolo più estremo della disperazione di madri impossibilitate a crescere le loro creature. (...)
A Carmel, Indiana, per dire, ne era stata collocata una sul retro della locale stazione dei pompieri. In tre anni non era mai stata usata.
Ma da quando, pochi mesi fa, è iniziato il dibattito sull'aborto nello Stato che poi venerdì scorso lo ha vietato fin dal concepimento - una delle leggi più restrittive varate fino ad ora - la cassetta si è improvvisamente riempita: e per sei volte di seguito.
A rispolverare l'arcaico metodo è stata l'attivista pro-life Monica Kelsey, 46 anni e una storia difficile alle spalle: adottata dopo essere stata abbandonata da una mamma teenager che era stata stuprata. (...) Si tratta di contenitori in metallo con dentro una culla da ospedale a temperatura controllata. Una volta che il bambino è dentro non sono possibili ripensamenti: si blocca automaticamente e dall'esterno non si può più riaprire.
Viene invece attivato un allarme e il personale della struttura può accorrere e avere accesso alla culla. In contemporanea parte pure una chiamata al numero d'emergenza 911. (...)
A chi si occupa professionalmente di adozione, la Safe Box però proprio non piace. Innanzitutto, spiegano, molte donne non sanno che usare la "scatola" mette legalmente fine ai loro diritti di genitori. E già due sono in causa per riavere indietro i propri bambini. Poi perché quei neonati non hanno praticamente più nessuna possibilità di risalire alle loro origini.
E questo non riguarda tanto il nome dei genitori: ma, il diritto di essere al corrente di eventuali malattie ereditarie. Insomma: nell'estremo caso di un abbandono, meglio affidarsi a strutture ospedaliere. «Se un genitore usa le Safe Haven», dice in sintesi Ryan Hanlon, presidente del Consiglio nazionale per l'adozione parlandone al New York Times , «vuol dire che l'intero sistema ha fallito».
Dall'Indiana stretta radicale sull'aborto. È il primo stato Usa a vietarlo totalmente. Valeria Robecco il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.
Nuova legge: uniche eccezioni incesto, stupro e pericolo di vita della madre.
L'Indiana vara una stretta sull'aborto e diventa il primo stato americano ad approvare un divieto quasi totale dopo che la Corte Suprema ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade a giugno. Il Parlamento dello stato americano ha dato il via libera ad una misura, firmata dal governatore repubblicano Eric Holcomb, che impedisce l'interruzione di gravidanza dal concepimento fatta eccezione solo per i casi di incesto, stupro, quando la vita della donna è a rischio o per problemi gravi al feto. Le regole attuali, invece, consentono l'aborto sino alla 22esima settimana. È un'azione «devastante», un «altro passo radicale dei repubblicani per strappare alle donne i loro diritti e la loro libertà riproduttiva, mettendo le decisioni sull'assistenza sanitaria personale nelle mani dei politici piuttosto che in quelle delle donne e dei loro medici», ha commentato la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean Pierre. «Il Congresso - ha aggiunto - dovrebbe agire immediatamente e approvare una legge che ripristini i diritti previsti dalla Roe v. Wade, ma fino ad allora il presidente Joe Biden è impegnato a proteggere i diritti, le libertà delle donne e l'accesso alle cure che sono offerte dalla legge federale». L'approvazione della legge giunge solo tre giorni dopo che gli elettori del Kansas, un altro stato conservatore del Midwest, hanno respinto a stragrande maggioranza un emendamento che avrebbe eliminato le tutele dei diritti all'aborto dalla sua Costituzione. In Indiana, invece, le nuove restrizioni sono passate nonostante l'opposizione di parte dei repubblicani, alcuni dei quali le ritenevano troppo estreme, mentre altri erano contrari alle seppur limitatissime eccezioni. Ad esempio il deputato John Jacob, che sostiene il divieto totale all'interruzione di gravidanza, ha fatto sapere prima del voto che non avrebbe sostenuto il provvedimento perché «regola l'aborto, che è un omicidio di bambini» e ha invitato i suoi colleghi a pentirsi davanti a Dio. «Sono molto orgoglioso di tutti i cittadini dell'Indiana che si sono fatti avanti per condividere coraggiosamente le loro opinioni in un dibattito che difficilmente cesserà presto», ha dichiarato da parte sua il governatore Holcomb firmando il provvedimento, che entrerà in vigore il 15 settembre. Mentre la senatrice Sue Glick, che ha sponsorizzato il disegno di legge, ha detto che non pensa che «tutti gli stati arriveranno allo stesso punto», ma che la maggior parte dei residenti dell'Indiana sostiene alcuni aspetti della misura. Nelle prossime settimane California, Michigan, Nevada, e Vermont chiederanno ai loro cittadini di tutelare il diritto all'aborto, mentre in Kentucky si voterà per abolirlo. E in Florida, il governatore repubblicano Ron DeSantis ha sospeso il procuratore di Tampa Andrew Warren, un democratico che aveva annunciato che non avrebbe perseguito le donne che si fossero sottoposte all'aborto o i medici che lo avessero praticato. «Prendere una posizione contro le leggi dello stato è insostenibile», ha dichiarato DeSantis, che con tutta probabilità si candiderà alle primarie Gop per le presidenziali del 2024. Il Sunshine State ha una delle leggi più restrittive in materia, e al momento vieta l'interruzione di gravidanza dopo la quindicesima settimana, ma dopo la decisione della Corte Suprema di rovesciare la sentenza Roe v. Wade, i conservatori puntano a inasprire ulteriormente i limiti.
L’Aborto. Corte suprema Usa abolisce sentenza sul diritto all'aborto. Ora i singoli Stati liberi di applicare le loro leggi in materia
(ANSA il 24 giugno 2022) - La Corte suprema Usa ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade con cui nel 1973 la stessa Corte aveva legalizzato l'aborto negli Usa. Ora quindi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia.
La decisione e' stata presa nel caso "Dobbs v. Jackson Women's Health Organization", in cui i giudici hanno confermato la legge del Mississippi che proibisce l'interruzione di gravidanza dopo 15 settimane. A fare ricorso era stata l'unica clinica rimasta nello Stato ad offrire l'aborto. "L'aborto presenta una profonda questione morale. La costituzione non proibisce ai cittadini di ciascuno stato di regolare o proibire l'aborto", scrivono i giudici. Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei 'saggi' erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Su 50 Stati, 26 (tra cui Texas e Oklahoma) hanno leggi piu' restrittive in materia. Nove hanno dei limiti sull'aborto che precedono la sentenza 'Roe v. Wade', e che non sono ancora stati applicati ma che ora potrebbero diventare effettivi, mentre 13 hanno dei cosiddetti 'divieti dormienti' che dovrebbero entrare immediatamente in vigore.
Usa: abolizione aborto, proteste davanti a Corte Suprema.
(ANSA il 24 giugno 2022) Fuori dalla Corte Suprema degli Stati Uniti è scoppiata la protesta, pochi minuti dopo che i massimi giudici hanno abolito il diritto all'aborto dopo 50 anni. I manifestanti stanno aumentando ogni minuto che passa, c'è anche un contigente di anti-abortisti che si sono abbracciati e hanno esultato alla notizia che la Corte Suprema ha rovesciato la storica sentenza 'Roe v. Wade'.
Corte Suprema, Costituzione non conferisce diritto aborto
"La Costituzione non conferisce il diritto all'aborto". E' quanto si legge nella sentenza della Corte Suprema che abolisce la Roe v. Wade. La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore e 3 contrari.
Corte Suprema, Costituzione non conferisce diritto aborto
"La Costituzione non conferisce il diritto all'aborto". E' quanto si legge nella sentenza della Corte Suprema che abolisce la Roe v. Wade. La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore e 3 contrari.
Usa: leader repubblicani Camera plaude, salvate vite umane
Il leader dei repubblicani alla Camera, Kevin McCarthy, palude alla decisione della Corte Suprema di abolire la Roe v. Wade, la storica sentenza del 1973 che ha legalizzato l'aborto negli Stati Uniti. "Paludo a questa storica sentenza che salva vite umane", twitta McCarthy.
Usa: Obama accusa, attaccate libertà milioni americani
Barack Obama attacca la Corte Suprema sull'aborto, accusandola di aver "attaccato le libertà fondamentali di milioni di americani" con la sua decisione.
Giuseppe Sarcina e Alice Scaglioni per corriere.it il 24 giugno 2022.
La Corte Suprema cancella un pezzo di storia americana: oggi venerdì 24 giugno ha cancellato la sentenza Roe v.Wade che da cinquant’anni garantiva il diritto di aborto a tutte le donne del Paese.
La Corte ha deciso con una maggioranza netta: 6 giudici contro tre. Ha prevalso il blocco conservatore formato da Samuel Alito, che ha scritto il parere vincente, e poi Thomas Clarence, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh, Amy Coney Barrett. Le ultime tre toghe sono state nominate da Donald Trump. Ha votato a favore anche il presidente John G. Roberts, che ha aggiunto: «Avrei adottato un approccio più moderato». Si sono schierati contro i tre componenti di estrazione liberal: Sonia Sotomayor, Elena Kagan, Stephen Breyer (che uscirà a breve).
L’esame della Corte era partito lo scorso autunno dalla causa costituzionale intentata dalla Jackson Women’s Health Organization contro la legge varata nel 2018 dal parlamento del Mississippi, controllato dai repubblicani. La norma vieta il ricorso all’aborto dopo la quindicesima settimana di gravidanza. La sentenza Planned Parenthood v. Casey del 1972 stabilisce, invece, che l’aborto è praticabile fino a quando il feto non sia autosufficiente, cioè fino a circa sette mesi di gravidanza. Il parere di Alito, poi condiviso da altri cinque togati, è molto secco: «La sentenza Roe v.Wade è nata sbagliata».
Viene contestato il radicamento giuridico del diritto di scelta nel 14° Emendamento della Costituzione, che assicura ai cittadini le libertà politiche e civili. Quelle norma è stata introdotta in un’epoca (1868 ndr) <in cui neanche si discuteva di aborto». Non c’è, quindi, alcuna ragione per garantire su tutto il territorio federale il diritto di scelta in tema di gravidanza. La conseguenza immediata è che la materia «dovrà tornare ai singoli stati». Oggi sono già 22 gli Stati che hanno adottato legislazioni molto restrittive, come il Texas e più di recente l’Oklahoma . Altri quattro Stati sono pronti a seguire l’esempio. Le donne avrebbero ancora libertà di scelta negli Stati liberal delle due coste, dalla California a New York. Lo scenario più probabile, quindi, è quello di un Paese ancora più diviso.
Appena si è diffusa la notizia, centinaia di persone si sono radunate davanti all’edificio della Corte. Inizia una giornata di accese proteste. Da oggi il Paese è ancora più lacerato e come ha appena dichiarato la Speaker democratica Nancy Pelosi, il «tema dell’aborto diventerà centrale nelle elezioni di midterm a novembre».
Le reazioni
Il Dipartimento di Giustizia americano userà «tutti gli strumenti a sua disposizione per proteggere i diritti e la libertà alla riproduzione», ha fatto sapere.
Il presidente Usa Joe Biden, che ha parlato qualche ora dopo l’annuncio della decisione, ha detto che la Corte Suprema ha tolto il diritto agli americani. «Un giorno triste per l’America». «Questa decisione è la realizzazione di tentativi che vanno avanti da decenni per rovesciare le leggi, di un’ideologia estrema: la Corte ha fatto una cosa mai prima, togliere un diritto costituzionale fondamentale per milioni di americani. Non lo ha limitato, lo ha semplicemente eliminato». Per Biden ora la salute delle donne è «rischio», ma aggiunge «il mio governo resterà vigilante». Il presidente Usa ha poi aggiunto che farà di tutto per far garantire, grazie al Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani, che la contraccezione sia disponibile agli americani, anche se gli Stati cercano di limitarli.
«La Corte Suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ma ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno può prendere ai capricci di politici e ideologi: (sono state) attaccate le libertà fondamentali di milioni di americani»: ha twittato l'ex presidente Usa, Barack Obama. Anche l’ex first lady, Michelle Obama, è intervenuta sulla decisione della Corte Suprema: «Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate. Avrà delle conseguenze devastanti».
Per la portavoce della Camera Usa, la democratica Nancy Pelosi, è una decisione «crudele» e «scandalosa». Per Hillary Clinton è «un’infamia» e «un passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani». «Molti americani ritengono che la decisione di avere un figlio sia sacra e dovrebbe rimanere fra la donna e il suo medico», ha aggiunto.
L'ex vicepresidente e numero due di Trump Mike Pence ha detto che «la vita ha vinto» e ha esortato tutti a battersi per «la difesa del nascituro e il sostegno alle donne incinte in crisi». «Avendo avuto questa seconda possibilità per la vita, non dobbiamo riposare e non dobbiamo cedere finché la santità della vita non sarà ripristinata al centro della legge americana in ogni Stato del Paese». Anche l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato la decisione, lodando la Corte Suprema. La decisione vuol dire «seguire la Costituzione e restituire i diritti», dice l’ex presidente Usa a Fox. La decisione «funzionerà per tutti», ha detto.
Dopo la decisione della Corte Suprema, il Missouri ha deciso di proibire l’aborto, tranne che per le emergenze sanitarie. Il governatore repubblicano, Mike Parson, ha infatti firmato la legge che innesca il divieto di aborto nello Stato. «Nulla nel testo, nella storia o nella tradizione della Costituzione degli Stati Uniti ha dato ai giudici federali non eletti l’autorità di regolare l’aborto», ha aggiunto il governatore.
A ruota, anche il Texas ha fatto sapere che l’interruzione volontaria di gravidanza è ora illegale nello Stato, con effetto immediato. Il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha sottolineato che le strutture che offrono le interruzioni di gravidanza possono essere considerate «responsabili penalmente a partire da oggi».
Dall’altra parte, i governatori di California, Oregon e Washington hanno appena rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si impegnano a proteggere l’accesso all’aborto e ai contraccettivi e a difendere i pazienti e i medici dai divieti di aborto che verranno adottati negli altri Stati. Anche il governatore dello Stato di New York, Kathy Hochul, ci ha tenuto a rassicurare sul diritto all’aborto: «È un fondamentale diritto umano e resta sicuro, accessibile e legale a New York». A lei si unisce anche il sindaco della Grande Mela, Eric Adams. «A coloro che vogliono un aborto nel Paese, sappiate che qui siete le benvenute. Faremo ogni sforzo per assicurare che i servivi riproduttivi restino disponibili e accessibili per voi».
Biden: «Giudici nominati da Trump hanno rovesciato la legge sull'aborto». Aborto, negli Usa la Corte Suprema ha annullato la sentenza «Roe vs. Wade». Giuseppe Sarcina e Alice Scaglioni su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022
I giudici Usa hanno annullato la storica sentenza «Roe vs. Wade» che ha garantito il diritto all’interruzione di gravidanza nei vari Stati
La Corte suprema cancella un pezzo di storia americana: oggi venerdì 24 giugno ha cancellato la sentenza Roe vs. Wade che da cinquant’anni garantiva il diritto di aborto a tutte le donne del Paese.
La Corte ha deciso con una maggioranza netta: 6 giudici contro tre. Ha prevalso il blocco conservatore formato da Samuel Alito, che ha scritto il parere vincente, e poi Thomas Clarence, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh, Amy Coney Barrett. Le ultime tre toghe sono state nominate da Donald Trump. Ha votato a favore anche il presidente John G. Roberts, che ha aggiunto: «Avrei adottato un approccio più moderato». Si sono schierati contro i tre componenti di estrazione liberal: Sonia Sotomayor, Elena Kagan, Stephen Breyer (che uscirà a breve).
L’esame della Corte era partito lo scorso autunno dalla causa costituzionale intentata dalla Jackson Women’s Health Organization contro la legge varata nel 2018 dal parlamento del Mississippi, controllato dai repubblicani. La norma vieta il ricorso all’aborto dopo la quindicesima settimana di gravidanza. La sentenza Planned Parenthood v. Casey del 1972 stabilisce, invece, che l’aborto è praticabile fino a quando il feto non sia autosufficiente, cioè fino a circa sette mesi di gravidanza. Il parere di Alito, poi condiviso da altri cinque togati, è molto secco: «La sentenza Roe vs. Wade è nata sbagliata».
Viene contestato il radicamento giuridico del diritto di scelta nel 14° Emendamento della Costituzione, che assicura ai cittadini le libertà politiche e civili. Quella norma è stata introdotta in un’epoca (1868 ndr) <in cui neanche si discuteva di aborto». Non c’è, quindi, alcuna ragione per garantire su tutto il territorio federale il diritto di scelta in tema di gravidanza. La conseguenza immediata è che la materia «dovrà tornare ai singoli stati». Oggi sono già 22 gli Stati che hanno adottato legislazioni molto restrittive, come il Texas e più di recente l’Oklahoma . Altri quattro Stati sono pronti a seguire l’esempio. Le donne avrebbero ancora libertà di scelta negli Stati liberal delle due coste, dalla California a New York. Lo scenario più probabile, quindi, è quello di un Paese ancora più diviso.
Appena si è diffusa la notizia, centinaia di persone si sono radunate davanti all’edificio della Corte. Inizia una giornata di accese proteste. Da oggi il Paese è ancora più lacerato e come ha appena dichiarato la Speaker democratica Nancy Pelosi, il «tema dell’aborto diventerà centrale nelle elezioni di midterm a novembre».
Le reazioni
Il presidente Usa Joe Biden ha parlato qualche ora dopo l’annuncio della decisione, che lui stesso ha definito «un tragico errore»: «Oggi è un giorno triste per l’America». Ha addossato la responsabilità della decisione che annulla la sentenza del 1973 ai tre giudici nominati dal suo predecessore alla Casa Bianca, Donald Trump: «Sono stati tre giudici nominati da un presidente, Donald Trump, quelli al centro della decisione odierna (della Corte Suprema) di eliminare un diritto fondamentale delle donne in questo Paese», ha detto. «Questa decisione è la realizzazione di tentativi che vanno avanti da decenni per rovesciare le leggi, la realizzazione di un’ideologia estrema: la Corte ha fatto una cosa mai fatta prima, togliere un diritto costituzionale fondamentale per milioni di americani. Non lo ha limitato, lo ha semplicemente eliminato». Per Biden ora la salute delle donne è «rischio».
«Molte donne hanno perso una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo», affermano i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer, che hanno votato contro la decisione di capovolgere la storica sentenza.
Il presidente Usa Joe Biden
Il Dipartimento di Giustizia americano ha detto che userà «tutti gli strumenti a sua disposizione per proteggere i diritti e la libertà alla riproduzione».
«La Corte Suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ma ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno può prendere ai capricci di politici e ideologi: (sono state) attaccate le libertà fondamentali di milioni di americani»: ha twittato l'ex presidente Usa, Barack Obama. Anche l’ex first lady, Michelle Obama, è intervenuta sulla decisione della Corte Suprema: «Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate. Avrà delle conseguenze devastanti».
Per la portavoce della Camera Usa, la democratica Nancy Pelosi , è una decisione «crudele» e «scandalosa». Per Hillary Clinton è «un’infamia» e «un passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani». «Molti americani ritengono che la decisione di avere un figlio sia sacra e dovrebbe rimanere fra la donna e il suo medico», ha aggiunto.
L'ex vicepresidente e numero due di Trump Mike Pence ha invece accolto positivamente la sentenza: ha detto che «la vita ha vinto» e ha esortato tutti a battersi per «la difesa del nascituro e il sostegno alle donne incinte in crisi». «Avendo avuto questa seconda possibilità per la vita, non dobbiamo riposare e non dobbiamo cedere finché la santità della vita non sarà ripristinata al centro della legge americana in ogni Stato del Paese». Anche l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato la sentenza, lodando la Corte Suprema. La decisione «segue la Costituzione e restituisce i diritti», ha detto l’ex presidente Usa a Fox, che ha aggiunto: «Alla fine, questo sia qualcosa che funzionerà per tutti». Ma secondo quanto scrive il New York Times , l’ex inquilino della Casa Bianca non sarebbe così contento della decisione della Corte Suprema: Trump avrebbe ribadito a più persone che potrebbe trattarsi di un boomerang e potrebbe avere conseguenze negative per i Repubblicani, soprattutto in un’ottica che guarda alle prossime elezioni.
Anche il Vaticano ha commentato positivamente la decisione, dicendo che la sentenza sull’aborto «sfida il mondo intero» sui problemi della vita e lodando la Corte Suprema. L’Onu invece ha parlato di «un colpo terribile ai diritti umani delle donne». «È una grave battuta d’arresto dopo cinque decenni di protezione della salute sessuale e riproduttiva e dei diritti negli Stati Uniti attraverso Roe vs Wade», ha detto l’Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet.
Dopo la decisione della Corte Suprema, il Missouri ha deciso di proibire l’aborto, tranne che per le emergenze sanitarie. Il governatore repubblicano, Mike Parson, ha infatti firmato la legge che innesca il divieto di aborto nello Stato. «Nulla nel testo, nella storia o nella tradizione della Costituzione degli Stati Uniti ha dato ai giudici federali non eletti l’autorità di regolare l’aborto», ha aggiunto il governatore.
A ruota, anche il Texas ha fatto sapere che l’interruzione volontaria di gravidanza è ora illegale nello Stato, con effetto immediato. Il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha sottolineato che le strutture che offrono le interruzioni di gravidanza possono essere considerate «responsabili penalmente a partire da oggi».
Dall’altra parte, i governatori di California, Oregon e Washington hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si impegnano a proteggere l’accesso all’aborto e ai contraccettivi e a difendere i pazienti e i medici dai divieti di aborto che verranno adottati negli altri Stati. Anche il governatore dello Stato di New York, Kathy Hochul, ci ha tenuto a rassicurare sul diritto all’aborto: «È un fondamentale diritto umano e resta sicuro, accessibile e legale a New York». A lei si unisce anche il sindaco della Grande Mela, Eric Adams. «A coloro che vogliono un aborto nel Paese, sappiate che qui siete le benvenute. Faremo ogni sforzo per assicurare che i servivi riproduttivi restino disponibili e accessibili per voi».
Francesco Semprini per “la Stampa” il 26 giugno 2022.
È un'onda che si alza dai quattro angoli del Paese e passa attraverso i palazzi del potere di Washington, quella della protesta contro la sentenza della Corte Suprema che decreta il diritto a vietare l'aborto. Un'onda destinata inesorabilmente a tenere in scacco il dibattito in vista dell'appuntamento elettorale di novembre.
«La decisione presa dalla Corte Suprema è devastante e dolorosa, difenderemo i diritti delle donne», afferma Joe Biden, firmando la legge bipartisan sulla stretta delle armi, prima di partire per i vertici del G7 e della Nato. Con lui nella Roosevelt Room la First Lady Jill Biden. La norma su pistole e fucile arriva all'indomani di un'altra sentenza della Corte Suprema a trazione conservatrice che ha smontato una legge newyorkese vecchia più di un secolo che imponeva limiti alla detenzione di armi in pubblico.
«È il provvedimento più significativo degli ultimi 30 anni. Voglio ringraziare le famiglie delle vittime da Columbine a Sandy Hook a Uvalde. Niente potrà colmare il loro vuoto, ma hanno aperto la strada per arrivare a questo punto», ha aggiunto il Presidente, dimostrando come il potere legislativo, con la maggioranza democratica in entrambe le Camere, è determinato a contrastare quello giudiziario a colpi di norme.
Dopo le armi, sarà la volta dell'aborto, come lo stesso Biden ha auspicato dopo il ribaltamento della storica sentenza Roe vs Wade del 1973. La Casa Bianca, intanto, tiene alta la guardia in vista di altre battaglie sui valori che sembrano profilarsi all'orizzonte.
L'amministrazione Biden ha diffidato gli Stati antiabortisti dal vietare la vendita della pillola abortiva, col ministro della Giustizia Garland che ha fatto riferimento al principio dell'ubi maior, secondo il quale gli Stati non possono opporsi a una legge federale.
L'accesso alla pillola, approvata dalla Food&Drug Administration (l'autorità del settore farmaceutico) dopo il voto del Congresso, è il nuovo teatro della lotta per l'aborto. Oggi il 50% degli aborti in Usa avviene entro le prime 10 settimane, tramite il ricorso alla pillola.
Intanto la senatrice Susan Collins, repubblicana del Maine, punta il dito verso i giudici conservatori della Corte Suprema, Brett Kavanaugh e Neil Gorsuch, rei - a suo dire - di aver infranto un impegno fatto a Capitol Hill. «La decisione - tuona - non è coerente con ciò che i togati hanno affermato nella testimonianza e con me, entrambi avevano insistito sull'importanza di sostenere precedenti di lunga data».
Da segnalare il botta e risposta tra le due «pasionarie» dei poli opposti, Alexandria Ocasio Cortez e Marjorie Taylor Greene. La deputata liberal è scesa in piazza, esortando gli americani e le americane a fare lo stesso, «perché le elezioni non bastano, dobbiamo riempire le strade». Ha replicato su Twitter la collega ultraconservatrice: «Aoc ha appena lanciato un appello all'insurrezione. Se ci saranno violenze e sommosse saranno il risultato diretto degli ordini di squadra democratici».
Non ha avuto sosta anche ieri l'afflusso di manifestanti davanti alla Corte Suprema a Washington, mentre le proteste si sono allargate ad altre città, come Denver, Atlanta, Chicago, New York, Philadelphia, e Austin, in Texas, uno degli Stati in cui è già in vigore una legge iper-restrittiva sull'aborto e che si avvia a vietarlo del tutto nei prossimi giorni. Paura durante una manifestazione pro-aborto a Cedar Rapids, Iowa, quando un pick-up si è lanciato contro la folla, una donna è stata ricoverata in ospedale.
A Phoenix, Arizona, la polizia ha usato gas lacrimogeni per disperdere una protesta pro-aborto: secondo gli agenti, i manifestanti avevano «ripetutamente preso a pugni la porta di vetro dell'ingresso del Senato». A Seattle un'attivista antiabortista è stata aggredita da attivisti di Antifa che le hanno anche spruzzato spray urticante.
Anche il mondo dello spettacolo insorge con l'attrice di «Sex and the City», Cynthia Nixon, che è portavoce della comunità Lgbtqi+. «Inorridita perché in America le pistole hanno più diritti delle donne», è Kim Kardashian che, sebbene in passato si stata vicina a Trump sui temi della riforma penale, ha preso le distanze da un verdetto che per l'ex Presidente «è venuto da Dio». Mobilitato anche il basket, con la star Nba LeBron James che parla di «un abuso di potere», e la Corporate America con Google che concede ai dipendenti di chiedere il trasferimento in altro Stato «senza giustificazione».
Al momento sette Stati Usa hanno bandito l'aborto subito dopo la sentenza, altri sette lo faranno nei prossimi 30 giorni. Si tratta di Stati a guida repubblicana che avevano già varato restrizioni sull'interruzione di gravidanza, ma sono in tutto 26 quelli in cui l'aborto potrebbe essere bandito per sempre. L'onda delle proteste preoccupa la destra, a partire da Trump. Per quanto volubile, l'ex Presidente ha da tempo difficoltà nell'affrontare l'argomento dell'aborto, che ha sostenuto per anni come diritto, ma ha affermato di detestare personalmente. Ora però subentra il fattore politico: ha ammesso ad amici e consiglieri che la sentenza è «nociva per i repubblicani», in vista della riconquista di Camera e Senato su cui punta alle elezioni di novembre.
Alberto Simoni per “la Stampa” il 26 giugno 2022.
La decisione della Corte suprema Usa era scontata. Nessuno si era fatto illusioni che la Roe vs Wade superasse le forche caudine di un tribunale a forte trazione conservatrice, simbolo di un disequilibrio che non rappresenta il Paese e che è destinato a durare decenni.
Il giudice Samuel Alito ha evocato la Costituzione per sentenziare che, non essendoci riferimenti all'aborto, tutte le leggi e le sentenze che la richiamavano come base di un diritto erano impure.
E così via la Roe vs Wade. Alito ha anche spiegato che questo approccio vale solo per la questione dell'aborto.
Se guardate la foto dei nove togati, però, soffermatevi su Clarence Thomas, il veterano dei giudici - è in carica dal 1991 - ultraconservatore e secondo afroamericano a sedere fra i nove custodi delle leggi Usa. È il teorico della restaurazione e non condivide questa «timidezza» di Alito. Secondo Thomas, ora la Corte ha il dovere di «correggere l'errore - ha scritto nel parere associato - stabilito in alcuni precedenti».
Linguaggio oscuro, che significa che almeno tre sentenze del passato (Griswold, Lawrence, Obergefell) che proteggevano la contraccezione, il sesso consensuale fra gay e il matrimonio omosessuale possono venire spazzate via. La sua è una posizione estremista, gli altri giudici conservatori hanno preferito sposare la linea di Alito, ma è un indizio di dove una fetta di America vuole portare la nazione: a cancellare ogni diritto civile faticosamente conquistato.
Il miglior alleato di Thomas è in famiglia: la moglie Ginni è un'attivista e lobbysta, adepta dei Tea Party, sugli scudi contro l'Obamacare, e così intimamente trumpiana da aver inondato il capo dello staff di Donald, Mark Meadows, di email affinché trovasse il modo di ribaltare l'esito del voto del 2020. La Commissione 6 gennaio le ha inviato un mandato di comparizione.
Il giudice Thomas è stato sin dal suo esordio un falco, ma la sua posizione è spesso stata mitigata da un equilibrio della Corte a maggioranza conservatrice (5-4) da decenni, ma con un esponente - il moderato Anthony Kennedy, nominato da Reagan - a fare da bilanciere e sovente schierato con l'ala progressista sui sociali, come i diritti Lgbtq. Kennedy, nel 2018, ha rassegnato le dimissioni e Trump al suo posto ha nominato Brett Kavanaugh, conservatore anti-abortista.
E il piano restauratore di Thomas (e della moglie) qualche chance di andare in porto ce l'ha. I primi segnali di una svolta si ebbero quando il 13 febbraio del 2016 un infarto stroncò la vita del giudice conservatore Antonin Scalia. Barack Obama si trovò dinanzi la ghiotta opportunità di nominare un liberal: la sua scelta cadde su Merrick Garland, ma i repubblicani insorsero, dicendo che nomine così importanti nell'ultimo anno di Presidenza erano inopportune.
L'ostruzionismo che fecero fu così forte che la Presidenza arrivò al termine e il nuovo giudice lo scelse Donald Trump: Neil Gorsuch. Poi ne prese altri due, lo stesso Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett.
Quest' ultima venne nominata appena un mese prima delle elezioni del 2020, ma evidentemente i repubblicani avevano dimenticato le critiche che avevano fatto a Obama. La storia sarebbe andata diversamente se Obama fosse riuscito a portare un «suo» giudice alla Corte.
E sarebbe stata diversa se H Bader Ginsburg, morta nel 2020 a 87 anni, avesse rassegnato le dimissioni durante l'epoca di Obama. Invece Donald Trump si è trovato a nominare ben tre giudici e Thomas ha trovato alleati tanto che, paradossalmente in una Corte con sei conservatori, il giudizio del presidente, John Roberts, moderato nominato da Bush junior, è ininfluente.
Nessuno pensa che la Corte rispecchi la società americana in termini di pensiero, costumi, valori. Solo il 30% degli statunitensi è favorevole alla cancellazione del diritto dell'aborto. Ovviamente il lavoro dei giudici non è tenere conto dei sondaggi, stare sconnessi con la realtà però è un pericolo perché le conseguenze di scelte come quella sull'aborto investono il futuro della nazione.
E minano anche la credibilità delle istituzioni. Se anche il Tribunale supremo, per definizione super partes, entra nell'arena politica, di chi fidarsi? Oggi il tasso di approvazione della Corte scavalla appena il 20%. Eppure, è questa minoranza ad avere il potere: è una destra cristiana fondamentalista che ha trovato in Trump il guardiano di un modo di concepire l'America come un fortino assediato da un mondo volgare, debole e depravato.
Davanti al vortice Trump il partito repubblicano si è sgonfiato. Chi si espone - come Liz Cheney - vede in pericolo la rielezione; altri come il deputato Adam Kinzinger sono minacciati di morte (con la moglie e il figlio di 6 mesi) perché «traditori del giuramento». E in questo clima la restaurazione dei coniugi Thomas, una volta chimera, è un più vicina. E il paradosso è che il potere di fermarla è nelle mani degli altri giudici conservatori.
Anna Guaita per “il Messaggero” il 27 giugno 2022.
«Mi sono fidato del giudice Gorsuch e del giudice Kavanaugh quando hanno testimoniato sotto giuramento che credevano che Roe vs Wade fosse un precedente legale oramai stabilito».
Con queste parole il senatore democratico Joe Manchin ha di fatto accusato due giudici della Corte Suprema di aver mentito durante le udienze di conferma della loro nomina davanti al Senato. Manchin ha unito la sua voce a quella della collega repubblicana del Maine, Susan Collins, la quale ha puntato i suoi strali accusatori soprattutto contro Kavanaugh, con il quale aveva avuto lunghi colloqui a quattr'occhi.
Le televisioni, dal canto loro, ripropongono anche la testimonianza della giudice Amy Coney Barrett, terzo giudice voluto da Donald Trump e approvato a ridosso delle elezioni del 2020. Anche lei aveva ribadito di considerare «un precedente radicato» la sentenza "Roe Vs Wade" del 1973, che stabiliva che l'aborto era un diritto costituzionale.
Ora però il Paese si interroga se ci sia qualche punizione per i giudici che abbiano mentito sotto giuramento quando i senatori li interrogavano per decidere se approvare la loro nomina. Certo è che nel Paese la Corte ha perso molto del lustro di cui ha goduto per decenni. Secondo un sondaggio Gallup, solo il 25% degli americani continua ad avere «alta fiducia» nella Corte.
Se si pensa che nel 2020 si arrivava al 58%, si capisce quanto sia grave la caduta. Dall'inizio del Novecento i giudici supremi erano stati oggetto di stima e rispetto al pari delle forze armate. Sia gli uni che gli altri sono sempre stati visti come super partes e non piegati al volere dei politici.
Ma la situazione è cambiata proprio con Donald Trump, che sin dalla sua campagna elettorale aveva apertamente promesso di scegliere giudici che abolissero il diritto di aborto, e dopo averli scelti e averne ottenuto l'approvazione dal Senato si è vantato di aver fatto più di ogni altro presidente per la causa degli anti-abortisti.
La Corte di adesso, con una super maggioranza di sei conservatori a tre liberal è sbilanciata come non lo era da decenni. Tutti i presidenti hanno sempre cercato di mantenere un bilanciamento nella Corte, strategia abbandonata in pieno da Trump, che sta così ottenendo che le leggi del Paese si spostino più a destra di dove la maggioranza dell'opinione pubblica le vorrebbe.
E per bloccare l'attivismo con-servatore dei giudici non c'è nulla da fare: la Corte non risponde a nessuno, i giudici sono nominati a vita e possono essere sottoposti a impeachment solo per gravi reati criminali.
Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2022.
Clarence Thomas è un uomo di parola: «I progressisti mi hanno rovinato la vita per 43 anni; adesso io rovinerò la loro per i prossimi 43», disse nel 1993 ai suoi assistenti.
Arrivò alla Corte Suprema nel 1991, appena 43enne per l'appunto, e i giudici supremi restano in carica a vita: da allora la sua vendetta verdiana, da Rigoletto con la toga, si è articolata attraverso un'impressionante serie di sentenze allineate con le istanze della destra americana più estrema.
Strategia repubblicana
Thomas non è un'anomalia del sistema, è il frutto di una strategia lucidissima di interessi precisi: una proposta politica che indicasse nel 1787 il modello di Paese sarebbe improponibile in parlamento, ma non nel sistema giudiziario.
Allora è stata formata dal partito repubblicano una generazione di giudici-attivisti (ottimamente finanziata dall'opaca Federalist Society) decisi per statuto a riportare la Costituzione americana a quello che la destra vede essere il suo spirito originario, scevro cioè della maggior parte dei diritti che nei secoli successivi si sono aggiunti al nucleo di quelli del 1787 (in origine la Costituzione prevedeva, tra le altre cose, che votassero solo i proprietari terrieri maschi, che le donne stessero a casa e i neri in catene; niente Stato sociale, etc).
Thomas, «originalista», offre al partito garanzie assolute non soltanto in materia politica ma anche temperamentale: la sua sete di vendetta nei confronti dei progressisti che cercarono - goffamente, e invano - di affondarne la storica nomina alla Corte Suprema lo anima dal 1991.
Il pegno di Bush (padre)
George Bush padre, moderato nordista trapiantato in Texas, pagò pegno alla base più ideologizzata che gli aveva garantito l'elezione nel 1988, terzo mandato repubblicano dopo i due, storici, di Ronald Reagan.
Andava in pensione un'icona dei diritti civili, il giudice Thurgood Marshall protagonista dell'affrancamento degli afroamericani dalla segregazione razziale degli Stati del Sud, e Bush padre (che aveva già mandato alla Corte Suprema un moderato del nordest in sintonia con le sue idee e anche il suo stile, il centrista David Souter) decise di sostituirlo con un uomo che con Marshall aveva in comune soltanto il colore della pelle: Thomas.
Umilissime origini, un'istruzione di lusso ottenuta grazie alle corsie preferenziali per le minoranze (corsie che dal 1991 cerca appena può di chiudere), funzionario ministeriale reaganiano, giudice federale per soli 18 mesi finché non viene scelto per la Corte Suprema.
Il 43enne non appare agli analisti come un genio della giurisprudenza ma le audizioni davanti al Senato (a maggioranza democratica: la Storia ha un crudele senso dello humour) cominciano sotto discreti auspici finché una professoressa universitaria che aveva lavorato per lui lo accusa di averla ripetutamente molestata e bersagliata con battute grevi.
Le audizioni senatoriali diventano un circo e la professoressa Hill da testimone finisce imputata, l'impressione generale dei senatori (tutti maschi, bianchi) che la interrogano senza pietà è che si tratti dell'intemerata di un'ex amante assetata di vendetta (non è vero).
«È un linciaggio», grida Thomas, probabilmente la mossa vincente perché evoca linciaggi (non mediatici, veri) sui quali l'America bianca aveva allora come adesso molto da farsi perdonare.
Alcuni democratici (pochi, ma bastano) decidono che votare contro un nero pare brutto, e così anche grazie alla clamorosa debolezza del capo-commissione democratico, il senatore del Delaware Joe Biden (qui il crudele sense of humour della Storia ha fatto il bis), Hill viene derubricata a «un po' mattocchia e un po' zoccoletta» secondo un sicario giornalistico dei repubblicani poi pentito, David Brock. Thomas esce ammaccato ma vivo dalla commissione, il Senato al completo vota, e la nomina passa di pochissimo, 52 a 48, grazie all'aiuto democratico.
La moglie trumpiana
Da allora Thomas si scatena, duettando con la moglie Ginni, attivista e organizzatrice non pentita del fallito golpe del 6 gennaio 2021. Ora la sinistra democratica ne invoca l'impeachment della Camera ma è pura follia immaginare che due terzi dei senatori lo caccino dalla Corte. E Thomas continua così la lunga marcia dei suoi 43 anni di vendetta, «tremenda vendetta, di quest' anima è solo desio, di punirti già l'ora s' affretta», una sentenza dopo l'altra, con l'America del 1787 nel cuore.
Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2022.
«Quando avevo 22 o 23 anni sono stata violentata, qui a New York. Ero completamente sola, e feci un test di gravidanza in un bagno pubblico. Quando ero là seduta, tutto quello che mi restava da pensare era: grazie a Dio ho una scelta».
I manifestanti di Union Square, a Manhattan, ascoltano in silenzio mentre Alexandria Ocasio-Cortez, la parlamentare dem più giovane, diventa l'immagine della protesta. Giorni fa, dopo la pronuncia della Corte Suprema, aveva detto: «La gravidanza forzata è un crimine contro l'umanità». L'altra sera ci ha messo la faccia.
Non si fermano le proteste nemmeno nel resto degli Stati Uniti: in Colorado un centro pro-life è stato incendiato; Portland (Oregon) è stata teatro di scontri violenti. E il governo della California potrebbe approvare già oggi un emendamento alla Costituzione che blinderà il diritto all'aborto.
In attesa di statistiche, gli indizi che le donne corrano ai ripari informalmente si moltiplicano nelle cronache dai 22 Stati dove l'aborto è già di fatto impossibile. Nelle zone di confine programmano gli straordinari: alcune cliniche Planned Parenthood, per esempio, prevedranno due ore in più al giorno, e chiusura solo due domeniche al mese.
Il New York Times raccoglie testimonianze di donne che fanno scorte di pillole abortive e di contraccettivi: «Non si sa più cosa potrebbero vietare». Circolano, soprattutto, numerosi vademecum, sulla falsariga di quello, premonitore, pubblicato dal New York Magazine il 23 maggio: cosa fare se si vuole interrompere la gravidanza in uno Stato dove non si può.
L'ipotesi più sicura è l'aborto farmacologico. Cioè la combinazione di mifepristone e misoprostolo che in pandemia è già diventata il modo in cui metà delle americane abortiscono: a casa, seguite a distanza.
È «sicura nel 99% dei casi», spiega la divulgatrice Abigail Atkin, e non lascia tracce nell'organismo: chi l'ha presa e ha bisogno di cure può presentarsi in ospedale come «aborto spontaneo». La spediscono a casa, in pacchetti anonimi, reti come Just The Pill, Hey Jane, Mayday.
Gli sviluppatori di app che monitorano il ciclo - come Flo, Clue, Apple Health - sono al lavoro per rendere i dati che raccolgono totalmente anonimi, nell'ipotesi non remota che un giudice li richieda: i vademecum (così ad esempio il Nymag) consigliano, nel dubbio, di «distruggere le app» e segnarsi le mestruazioni sul diario.
«Non parlare a nessuno» dell'intenzione di abortire, se non a medici (vincolati dal segreto); «disabilitare il riconoscimento facciale dai cellulari» perché in tribunale ci si può rifiutare di fornire il pin ma non di accedere con la fotocamera; «spegnere lo smartphone» se si va a ritirare il pacco con la pillola, per non essere tracciate. E così via, in un crescendo che rimanda agli anni delle mammane, in versione tech.
Ieri un editoriale del sito Vatican News, firmato dal direttore delle comunicazioni della Santa Sede Andrea Tornielli, ha ribadito la posizione antiabortista della Chiesa ma enfatizzato che proteggere la vita significa, anche, occuparsi di congedi di paternità e «della minaccia delle armi da fuoco, crescente negli Usa».
Aborto, 9 stati Usa lo hanno già vietato. Altri 12 lo faranno a breve. Redazione Esteri su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.
Dopo il ribaltamento della storica sentenza «Roe v. Wade» da parte della Corte Suprema, tocca ai singoli stati decidere come regolamentare l’interruzione di gravidanza.
Con il ribaltamento della storica sentenza sul diritto all’aborto, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha di fatto demandato a ciascuno stato la competenza di decidere su come regolamentare l’interruzione di gravidanza. Molti stati governati dai Repubblicani avevano già preparato leggi, le «trigger laws», pensate proprio per entrare in vigore subito dopo la decisione dei giudici. Così già da venerdì, subito dopo la sentenza dei giudici supremi, nove stati americani hanno immediatamente vietato l’aborto nella gran parte dei casi e si prevede che nei prossimi giorni o nelle prossime settimane altri 12 stati faranno lo stesso.
Si tratta di Stati a guida repubblicana che avevano già varato restrizioni durissime sull’interruzione di gravidanza.
Divieti scattati subito
In Kentucky, Louisiana e South Dakota il divieto è entrato in vigore immediatamente dopo che la Corte Suprema ha emesso la sua sentenza, mentre in Arkansas, Missouri e Oklahoma qualche ora dopo a seguito della certificazione ufficiale da parte dei procuratori.
In Alabama, dopo la decisione dei massimi giudici, un tribunale ha dichiarato valido un divieto che era stato bloccato.
Il divieto è entrato in vigore anche in Wisconsin e in Nort Utah, ad eccezione che nei casi di stupro, incesto e se la vita della donna è in pericolo.
Prossimi divieti
Con il ribaltamento della sentenza «Roe v. Wade» è molto probabile che l’aborto verrà proibito o comunque fortemente limitato anche in altri dodici stati, secondo una ricostruzione del New York Times. Alcuni di questi avevano a loro volta pronta una «trigger law» che dovrebbe entrare in vigore a giorni, come nel caso del Mississippi, lo stato da cui era partita la causa esaminata dalla Corte Suprema. O entro un mese dalla decisione, come nel caso dell’Idaho, del North Dakota e del Texas, che già l’anno scorso aveva introdotto una legge estremamente restrittiva. In quest’ultimo stato le cliniche hanno già smesso di praticare aborti, come pure in Arizona, Alabama, Arkansas, Kentucky, Missouri, South Dakota, West Virginia e Wisconsin.
Stati incerti
Infine altri nove stati stanno discutendo della possibilità di vietare o comunque limitare il diritto all’interruzione di gravidanza, tra cui Pennsylvania, Kansas e Indiana: le loro scelte impatteranno sulla vita di 11 milioni di donne in età riproduttiva.
L’ex sindaco Giuliani aggredito
L’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani e’ stato aggredito e schiaffeggiato dal commesso di un supermercato di Staten Island. Secondo quanto riferito dal dipartimento di Polizia di New York, Giuliani è stato aggredito alle spalle e schiaffeggiato durante un evento a sostegno della campagna govenatoriale di suo figlio, Andrew Giuliani. L’aggressore, un commesso 39enne della catena di supermercati ShopRite, è stato arrestato dopo l’incidente, e verrà incriminato per aggressione di secondo grado, essendo Giuliani un ultra-65enne. Secondo la testimonianza dello stesso Giuliani, prima di aggredirlo l’uomo ha gridato più volte «ucciderete le donne»: un evidente riferimento alla sentenza della Corte Suprema che ha abolito la sentenza Roe v. Wade e restituito agli Stati Usa il potere decisionale in materia di aborto. Il pronunciamento della Corte, lo scorso venerdì 24 giugno, ha innescato durissime proteste da parte del fronte pro-aborto sull’intero territorio degli Stati Uniti.
Aborto, perché la Corte suprema ha sbagliato. Sabino Cassese su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.
Nel Paese in cui è stato maggiormente enfatizzato il ruolo creativo dei giudici, dove si insegna che il diritto è quello che stabiliscono i tribunali, piuttosto che quello che decidono i parlamenti, proprio i giudici supremi si sono spogliati del proprio potere e l’hanno delegato ai cinquanta parlamenti degli Stati.
La maggioranza dei giudici della Corte suprema americana ha «ridato il potere di regolare o proibire l’interruzione volontaria della gravidanza al popolo e ai suoi rappresentanti eletti», come ha scritto nella sua sentenza del 24 giugno scorso. Invece, la minoranza dissenziente ha osservato con amarezza che ora «uno Stato può forzare una donna a portare a termine la gravidanza anche se deve affrontare i più grandi costi personali e familiari, anche se il feto ha le più gravi anomalie o è il frutto di uno stupro o della violenza commessa da un padre su una giovane figlia».
Il presidente della Corte si è dissociato osservando che la maggioranza ha fatto un passo che non era necessario, mentre avrebbe dovuto autolimitarsi. La Corte suprema, contestando sé stessa, ha scritto una delle più brutte pagine della storia della giustizia costituzionale e ha messo in crisi il modello che essa ha rappresentato nel mondo.
La sentenza che aveva permesso l’aborto, riconosciuto come diritto della donna, era di cinquant’anni fa. Era stata confermata da un’altra sentenza del 1992. I 28 casi citati dalla maggioranza a sostegno della propria tesi, in cui la Corte ha radicalmente modificato il proprio orientamento, si fondavano su precedenti decisioni della Corte stessa.
La sentenza e le opinioni concorrenti e dissenzienti mostrano che la Corte americana è divenuta più simile a un Parlamento che a un tribunale: prevalgono gli schieramenti sui ragionamenti; le tesi sono sostenute con acredine e in modo apodittico, senza evitare contrapposizioni e cercare il compromesso (proposto dallo stesso presidente). I tribunali sono solitamente organi collegiali perché lì si deve esercitare l’arte di ascoltare, convincere, cercare accordi, ragionare, ponderare, mostrare l’equilibrio non i muscoli, decidere incrementalmente, aiutando il progresso civile, non opponendovisi o imponendosi ad esso.
Questa decisione ha mostrato tutti i difetti della Corte suprema (che hanno contribuito a ridurre della metà la fiducia della popolazione). I suoi giudici hanno solo una provenienza: sono nominati dal presidente, con il consenso del Senato. Una provenienza, quindi, eminentemente politica. Sono nominati a vita e lasciano la carica solo per morte o dimissione. Ma questo consente ai singoli giudici di stabilire quando lasciare libero il posto, in modo che il successore sia nominato da un presidente e da un Senato dello stesso orientamento. La nomina senza durata, che doveva servire ad assicurare l’indipendenza dei giudici, si è rovesciata, diventando un modo per consentire la continuità dell’influenza politica sulla Corte. Infatti, l’attuale presidente degli Stati Uniti ha nominato una commissione con l’incarico di riesaminare le norme sulla Corte.
Il terzo paradosso messo in luce da questa sentenza è più generale. Nel Paese in cui è stato maggiormente enfatizzato il ruolo creativo dei giudici, dove si insegna che il diritto è quello che stabiliscono i tribunali («judge – made law»), piuttosto che quello che decidono i parlamenti, proprio i giudici supremi si sono spogliati del proprio potere e l’hanno delegato ai cinquanta parlamenti degli Stati.
Questa decisione evidenzia la bontà della soluzione scelta dai costituenti italiani nel decidere come comporre la Corte costituzionale e di quella del sistema politico-costituzionale italiano nell’introdurre nel nostro Paese la disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza. Infatti, la Costituzione italiana prevede che i giudici abbiano tre diverse provenienze: siano per un terzo nominati dal presidente della Repubblica, per un altro terzo eletti dal Parlamento e per l’altro terzo dalle supreme magistrature. Quanto alla disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza, ad essa si è arrivati con un processo lento, che ha visto l’intervento prima, nel 1975, della Corte costituzionale; poi del Parlamento nel 1978, con la legge numero 194; poi del popolo con i due referendum del 1981, e, infine, nuovamente della Corte costituzionale con la sentenza numero 35 del 1997. L’«iter» ha coinvolto popolo, Parlamento e Corte costituzionale. L’errore delle forze politiche americane è stato quello di pensare che la disciplina di un tema così sensibile potesse essere lasciata per mezzo secolo soltanto alla decisione della Corte Suprema del 1973. In conclusione, la Corte suprema americana, con questo atto eversivo, rovesciando una sua decisione di mezzo secolo fa e contestando sé stessa, ha ammesso che i giudici non hanno quel ruolo supremo o finale che viene illustrato in tutte le «Law School» americane, perché esso spetta ai rappresentanti dei cinquanta Stati (creando così forti diseguaglianze tra i cittadini appartenenti alle diverse zone del Paese), ed ha anche contribuito alla disgregazione della federazione, stabilendo che una questione tanto importante, su un diritto fondamentale, non va presa a Washington.
Roe vs. Wade, la storia del giudice Thomas, che disse: «Rovinerò la vita ai progressisti». Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.
Il giudice della Corte Suprema Usa, repubblicano, che ha firmato il parere che ha cancellato Roe, fu accusato di molestie a ridosso della sua nomina. Passò per un pelo.
Clarence Thomas è un uomo di parola: «I progressisti mi hanno rovinato la vita per 43 anni; adesso io rovinerò la loro per i prossimi 43», disse nel 1993 ai suoi assistenti. Arrivò alla Corte Suprema nel 1991, appena 43enne per l’appunto, e i giudici supremi restano in carica a vita: da allora la sua vendetta verdiana, da Rigoletto con la toga, si è articolata attraverso un’impressionante serie di sentenze allineate con le istanze della destra americana più estrema.
Thomas — uno dei nove giudici che hanno annullato «Roe vs. Wade», la sentenza che garantiva il diritto all’interruzione di gravidanza nei vari Stati, ndr — non è un’anomalia del sistema, è il frutto di una strategia lucidissima di interessi precisi: una proposta politica che indicasse nel 1787 il modello di Paese sarebbe improponibile in parlamento, ma non nel sistema giudiziario. Allora è stata formata dal partito repubblicano una generazione di giudici-attivisti (ottimamente finanziata dall’opaca Federalist Society) decisi per statuto a riportare la Costituzione americana a quello che la destra vede essere il suo spirito originario, scevro cioè della maggior parte dei diritti che nei secoli successivi si sono aggiunti al nucleo di quelli del 1787 (in origine la Costituzione prevedeva, tra le altre cose, che votassero solo i proprietari terrieri maschi, che le donne stessero a casa e i neri in catene; niente Stato sociale, etc).
Thomas, «originalista», offre al partito garanzie assolute non soltanto in materia politica ma anche temperamentale: la sua sete di vendetta nei confronti dei progressisti che cercarono – goffamente, e invano – di affondarne la storica nomina alla Corte Suprema lo anima dal 1991.
George Bush padre, moderato nordista trapiantato in Texas, pagò pegno alla base più ideologizzata che gli aveva garantito l’elezione nel 1988, terzo mandato repubblicano dopo i due, storici, di Ronald Reagan. Andava in pensione un’icona dei diritti civili, il giudice Thurgood Marshall protagonista dell’affrancamento degli afroamericani dalla segregazione razziale degli Stati del Sud, e Bush padre (che aveva già mandato alla Corte Suprema un moderato del nordest in sintonia con le sue idee e anche il suo stile, il centrista David Souter) decise di sostituirlo con un uomo che con Marshall aveva in comune soltanto il colore della pelle: Thomas.
Umilissime origini, un’istruzione di lusso ottenuta grazie alle corsie preferenziali per le minoranze (corsie che dal 1991 cerca appena può di chiudere), funzionario ministeriale reaganiano, giudice federale per soli 18 mesi finché non viene scelto per la Corte Suprema.
Il 43enne non appare agli analisti come un genio della giurisprudenza ma le audizioni davanti al Senato (a maggioranza democratica: la Storia ha un crudele senso dello humour) cominciano sotto discreti auspici finché una professoressa universitaria che aveva lavorato per lui lo accusa di averla ripetutamente molestata e bersagliata con battute grevi.
Le audizioni senatoriali diventano un circo e la professoressa Hill da testimone finisce imputata, l’impressione generale dei senatori (tutti maschi, bianchi) che la interrogano senza pietà è che si tratti dell’intemerata di un’ex amante assetata di vendetta (non è vero). «È un linciaggio», grida Thomas, probabilmente la mossa vincente perché evoca linciaggi (non mediatici, veri) sui quali l’America bianca aveva allora come adesso molto da farsi perdonare.
Alcuni democratici (pochi, ma bastano) decidono che votare contro un nero pare brutto, e così anche grazie alla clamorosa debolezza del capo-commissione democratico, il senatore del Delaware Joe Biden (qui il crudele sense of humour della Storia ha fatto il bis), Hill viene derubricata a «un po’ mattocchia e un po’ zoccoletta» secondo un sicario giornalistico dei repubblicani poi pentito, David Brock. Thomas esce ammaccato ma vivo dalla commissione, il Senato al completo vota, e la nomina passa di pochissimo, 52 a 48, grazie all’aiuto democratico.
Da allora Thomas si scatena, duettando con la moglie Ginni, attivista e organizzatrice non pentita del fallito golpe del 6 gennaio 2021. Ora la sinistra democratica ne invoca l’impeachment della Camera ma è pura follia immaginare che due terzi dei senatori lo caccino dalla Corte. E Thomas continua così la lunga marcia dei suoi 43 anni di vendetta, «tremenda vendetta, di quest’anima è solo desio, di punirti già l’ora s’affretta», una sentenza dopo l’altra, con l’America del 1787 nel cuore.
La crociata del giudice Thomas: dopo l’aborto i matrimoni gay. Diritto alla contraccezione e unioni civili nel mirino della toga ultra conservatrice. In gioventù era un libertariano anti-razzista, oggi guida l’offensiva reazionaria. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 28 giugno 2022.
«Dobbiamo riformare tutta la giurisprudenza sui diritti, dobbiamo correggere gli errori», promette il giudice della Corte Suprema americana Clarence Thomas che non riesce a nascondere la soddisfazione dopo lo storico voto di venerdì scorso che ha annullato la Roe vs, Wade che, da 49 anni, stabiliva il diritto legale all’interruzione di gravidanza.
Poco importa che la decisione dell’alta corte abbia scatenato un’eccezionale ondata di proteste in tutto il Paese, o che lo stesso presidente Biden l’abbia definita «una sciagura», secondo il 74enne Thomas, che si fa forte della maggioranza di toghe conservatrici (Neil M. Gorsuch, Brett M. Kavanaugh, Amy Coney Barrett e Samuel A. Alito), la stagione dei diritti civili è finita. E non mostra remora ad andare allo scontro con il governo, I prossimi obiettivi del giudice sono d’altra parte molto chiari anche se per il momento rimangono opinioni personali.
Come ha ripetuto più volte ai media statunitensi vorrebbe annullare altre tre pietre miliari della giurisprudenza d’oltreoceano che negli ultimi decenni hanno contribuito a costruire plicata architettura dei diritti civili. Ovvero la Griswold v. Connecticut del 1965 che permette liberamente di ricorrere alla contraccezione, la Lawrence v. Texas (2003) che revoca il divieto a contrarre matrimoni tra persone dello stesso sesso, e la Obergefell v. Hodges (2015) che autorizza i matrimoni omosessuali su tutto il territorio federale da tempo bersaglio grosso della destra religiosa.
All’appello mancherebbe soltanto la Loving vs. Virginia, una sentenza del 1967 che abolisce il Racial Integrity Act del 1924, ponendo così fine al divieto di matrimonio inter- raziale. Ma sarebbe un paradosso anche per il tetragono Thomas, che è un afroamericano sposato con una donna bianca.
La consorte si chiama Virginia Thomas ed è un’avvocata d’affari molto influente (lo stesso Thomas è stato assunto come legale dalla multinazionale Monsanto per diversi anni; tra il novembre del 2020 e il gennaio 2021 si è dannata anima e corpo per raccogliere le “prove” che avrebbero dovuto invalidare l’elezione di Joe Biden.
Nell’entourage democratico in molti la sospettano di aver avuto un ruolo primario nell’organizzazione dell’assalto al palazzo del Congresso di Washington del 6 gennaio 2021, ma la commissione d’inchiesta del Senato non ha trovato indizi concreti di un suo coinvolgimento attivo. Naturalmente speciale è stato il feeling tra Thomas e l’ex presidente Donald Trump che ha difeso con fermezza nell’inchiesta sull’assalto a Capitol Hill, opponendosi alla procedura di incriminazione del tycoon.
Nominato da Bush padre nel 1991 dopo anni di servizio alla Corte d’appello del distretto di Columbia e poi al ministero dell’educazione, Thomas, che in gioventù aveva addirittura fondato un sindacato studentesco vicino alle black panther, proviene da una cultura politica libertariana. Da ragazzo era un sostenitore di Martin Luther King e un militante antirazzista, ma da fervente cattolico non amava i movimenti di sinistra. Poi ha preso una traiettoria tutta sua e nel corso degli anni si è progressivamente spostato su posizioni conservatrici se non apertamente reazionarie.
Pare che la prima svolta ideologica di Thomas sia avvenuta all’inizio degli anni 70, durante le violente contestazioni contro la guerra in Vietnam, che lo hanno avvicinato al partito repubblicano perché «disgustato» dalle proteste studentesche. Poi la laurea in diritto, le consulenze nel mondo degli affari, i ruoli istituzionali, insomma una folgorante carriera che lievita parallela ai 14 anni di presidenze Reagan- Bush fino al prestigioso approdo della Corte suprema. Probabilmente tra i suoi colleghi solo il giudice Kavanaugh è più a destra di lui, ma non possiede un’oncia della sua autorità e del suo carisma: sarà dunque Thomas a dettare i tempi delle prossime iniziative dell’alta corte. Con la prospettiva di un durissimo scontro con la Casa Bianca e con un pezzo di società americana.
Una Corte "orientata" che ribalta la Storia. La guerra ideologica colpisce l'Occidente. Paolo Guzzanti il 25 Giugno 2022 su Il Giornale.
Giudici conservatori decisivi. Il Paese lacerato, lo scontro sui diritti e le ricadute internazionali.
Le immagini che arrivano dall'America mostrano i riots, i tumulti nelle strade in tutte le grandi città con la polizia schierata poco convintamente contro una gran quantità di donne non soltanto nere che protestano contro una legge temutissima e dannatamente lacerante come quella emessa dalla Corte Suprema che ha abolito l'aborto come diritto federale lasciando così ai singoli Stati la possibilità di metterlo al bando o limitarlo secondo diversi criteri. Questa decisione della Corte suprema americana avrà un pessimo impatto sulla politica internazionale perché gli Usa avevano finora goduto anche del prestigio di Paese più liberale in materia di diritti civili, essendo l'aborto considerato dalla maggior parte delle donne del mondo come un diritto non alienabile. Tutti i Paesi emergenti hanno praticato politiche abortive per motivi anche economici (in Cina mancano all'appello 180 milioni di donne a causa degli aborti selettivi nell'epoca del maoismo).
Gli Stati più conservatori come già sta facendo il Texas - chiuderanno tutte le procedure per l'aborto libero e specialmente quelle su feti ormai maturi per nascere, ma si vedono in strada e su tutti gli schermi televisivi anche gli attivisti Pro Life, che si sono sempre battuti contro l'aborto che in America rappresenta una questione non soltanto di diritti ma investe anche la questione razziale. Negli Stati del Sud molti leader neri, specialmente donne, da tempo si sono levate contro l'aborto totalmente permissivo e di immediato accesso per - sostengono loro - distruggere la riproduzione degli afroamericani. La questione ha avuto sviluppi molto laceranti che da noi sarebbero incomprensibili e che hanno visto tra i protagonisti della contestazione all'aborto molti difensori della collettività nera, ma anche delle comunità latino-americane.
La decisione dipende dal fatto che sotto Trump e poi ancora più recentemente il numero dei componenti conservatori della Corte ha superato quello dei progressisti, benché la materia ha a che fare soprattutto con divisioni religiose ed etniche. Si contrappongono diversi modelli di cultura ebraica, come anche le diverse convinzioni delle comunità native in genere ostili alle pratiche abortive perché considerate genocide.
L'aspetto razziale della questione dell'aborto è in genere quello più incomprensibile per noi europei: non soltanto Negli Stati Uniti ma anche in Brasile e in molti paesi di cultura latina e indigena le cliniche abortive sono vissute come abominevoli centrali di compagnie farmaceutiche e di imprese a vario titolo biologiche, le quali hanno un dimostrato interesse ai lucrosi proventi dei materiali umani ricavabili dagli aborti di massa. Negli Stati del Sud le minoranze afroamericane accusano i bianchi di avere accoppiato due sistemi per impedire alla società nere di incrementarsi e strutturarsi. Il primo è quello di un aborto servito a domicilio con una catena di strutture installate nelle aree marginali delle periferie urbane. E la seconda consiste nella pratica di compensare ogni ragazza nera incinta dall'età di 14 anni con un sussidio per garantire la sua vita e quella di suo figlio, col risultato di avere un'intera popolazione di donne sole che hanno messo al mondo cinque o sei figli destinati alla marginalità senza alcuna possibilità di costruire una famiglia.
Ciò che separa l'America bianca dall'altra di colore è l'idea costante che i bianchi altro non vogliano che limitare o impedire la procreazione delle razze meno gradite. Ciò non vuol dire che le donne nere o latine siano contente di questa decisione che non nasce certamente da un desiderio filantropico ma da quello di dar ragione ai movimenti antiabortisti e Pro Life che nel corso degli anni si sono fatti sempre più violenti, arrivando ad attaccare le cliniche abortiste con le armi e in qualche caso uccidendo vittime innocenti.
Il paese è dunque spaccato. Fino a ora il diritto all'aborto era considerato comunque un traguardo raggiunto universalmente e un diritto di tutte le donne. Ora non è più così.
La svolta sull’aborto infiamma la guerra culturale negli Usa. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 24 giugno 2022.
La decisione della Corte Suprema Usa di cancellare la sentenza Roe vs Wade, che dal 1973 garantisce su scala federale la facoltà per le donne incinte di praticare l’aborto, riaccende la “guerra culturale” fra progressisti e conservatori che imperversa negli Stati Uniti. Una decisione storica che, inevitabilmente, polarizzerà più di quanto non lo sia ora il dibattito americano fra i due schieramenti, con tensioni ideologico-politiche che potrebbero sfociare anche in violenze. A testimoniarlo, le reazioni di queste ore. I media e gli organi di stampa conservatori non hanno nascosto la loro gioia per la notizia. “Lode a Dio”, ha twittato la caporedattrice del Federalist, Mollie Hemingway. “Il Paese ha un enorme debito verso tutti gli attivisti per i diritti umani pro-vita, studiosi, avvocati, politici, genitori, pastori, operatori sanitari, ecc., che hanno lavorato per 50 lunghi e duri anni per portare il Paese a questo momento di liberazione da Roe. Grazie”, ha aggiunto.
E i conservatori festeggiano
“Questo è un giorno straordinario per i diritti umani in America. È una vittoria per la gentilezza, la decenza e l’umanità, e una sconfitta per la crudeltà”, ha scritto Dan McLaughlin di National Review. “Un giorno glorioso assoluto per la vita in America! Lode a Dio!”, ha twittato il caporedattore di NewsBusters Curtis Houck.
“È un grande giorno per la vita. Un grande giorno per il ripristino della giurisprudenza costituzionale. È semplicemente un grande giorno”, ha detto l’ex procuratore americano Andrew McCarthy. Intervistato da Fox News, anche l’ex presidente Donald Trump ha elogiato la decisione della Corte Suprema. “Questo è seguire la Costituzione e restituire i diritti quando avrebbero dovuto essere dati molto tempo fa”, ha detto Trump a Fox News. “Dio ha preso la sua decisione” ha aggiunto, rimarcando il fatto che ora la palla passa agli stati federali. Trump gioisce perché è, di fatto, uno degli artefici di questa svolta storica: durante la sua presidenza ha infatti nominato alla Corte Suprema i giudici conservatori Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett.
Con quelle nomine, ricorda Fox News, la corte è diventata a maggioranza conservatrice, con il giudice capo John Roberts, il giudice Samuel Alito, il giudice Clarence Thomas, Gorsuch, Kavanaugh e Barrett. L’evangelista cristiano Franklin Graham, Ceo e presidente di Samaritan’s Purse, nonché Ceo e presidente della Billy Graham Evangelistic Association, ha dichiarato che la “sinistra radicale chiede una notte di rabbia, i centri per la gravidanza sono già stati vandalizzati e attaccati e i nostri giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti sono presi di mira con minacce e intimidazioni”. Ha poi aggiunto: “Roe v. Wade, approvata 49 anni fa, ha provocato la morte di oltre 63 milioni di bambini innocenti in questo paese. Purtroppo, questa decisione non pone fine all’aborto, ma riporta la battaglia negli Stati Uniti”.
Obama e i progressisti all’attacco
Anche l’ex presidente Barack Obama ha deciso di far sentire la sua voce. “Oggi, la Corte Suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di storia, ma ha relegato la decisione più personale che una persona possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di americani”, ha affermato Obama in una nota. “Da più di un mese sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato, ma questo non lo rende meno devastante”, ha continuato. La governatrice di New York Kathy Hochul ha commentato la decisione della Corte Suprema dichiarando il suo stato un “porto sicuro” per coloro che vogliono abortire, riaffermando il suo impegno per il diritto all’aborto e definendo la decisione dei giudici “ripugnante”. Per il New York Times, la democrazia americana è a rischio. “È attraente credere che i giudici possano elevarsi al di sopra della politica, interpretando la legge e nient’altro, e rimanere indifferenti alle conseguenze delle loro decisioni. Ma è chiaro che nel corso degli anni la Corte Suprema è diventata l’ennesima istituzione partigiana” si legge.
La svolta storica della Corte Suprema
Come ha spiegato Andrea Muratore su InsideOver, la Corte Suprema ha stabilito che non esiste alcun diritto costituzionalmente garantito all’aborto negli Stati Uniti, dove manca una legge ad hoc a quasi mezzo secolo dalla sentenza del 1973 che garantì una facoltà mai normata da una legge di carattere nazionale. La Roe vs Wade impediva a qualsiasi Stato federale di promuovere leggi capaci di abolire sul suo territorio l’interruzione di gravidenza, demandando ai singoli membri dell’Unione la decisione sulle leggi da promuovere in forma più o meno restrittiva.
La sentenza della corte è arrivata nel caso cruciale Dobbs vs Jackson Women’s Health Organization, in cui l’ultima clinica per aborti nel Mississippi si è opposta agli sforzi dello stato dell’America profonda di vietare l’interruzione delle gravidanze dopo 15 settimane e di rovesciare Roe, risultando sconfitta nel processo.
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Biden: “Un giorno triste per gli Usa. Sull’aborto un grave errore”. Francesca Salvatore su Inside Over il 24 giugno 2022.
In queste ore negli Stati Uniti si fa la storia, ma nel senso inverso. Dopo la fuga di notizie chiacchieratissima del maggio scorso, la decisione sembrava nell’aria ma non così imminente: quest’oggi, invece, la Corte Suprema ha definitivamente ribaltato la sentenza Roe vs Wade che dal 1973 è stata il baluardo dell’America pro-choice e che per quasi mezzo secolo ha consentito l’aborto entro le 24 settimane di gravidanza.
La decisione
Eliminata la garanzia della storica sentenza, e in assenza di una legge federale sul tema, quasi la metà degli Stati potrebbe mettere al bando o limitare severamente l’aborto a seguito della decisione. Altri Stati prevedono di mantenere regole più liberali nel regolare l’interruzione di gravidanza. “La Costituzione non conferisce il diritto all’aborto e l’autorità di regolamentare l’aborto viene restituita al popolo e ai suoi rappresentanti eletti”, si legge nel parere reso pubblico e scritto dal giudice Samuel Alito. I tre giudici liberal – Stephen Breyer, Sonia Sotomayor e Elena Kagan – hanno votato contro: “Con dispiacere – per questa Corte, ma soprattutto per i molti milioni di donne americane che oggi hanno perso una fondamentale protezione costituzionale – dissentiamo”.
Un colpo di scena che promette di gettare sale sulle ferite di un’America scollata e spaccata a metà, e che andrà esacerbando i toni e modi delle elezioni di mid term. Un altro duro colpo alla presidenza Biden e al mondo progressista.
“Un giorno triste”
Biden si presenta alla conferenza stampa abbattuto, con un filo di voce, ma stranamente fermo. Lo definisce un giorno triste per la Corte quello appena passato, e rispolverando il linguaggio tipico del costituzionalismo americano bolla la decisione della Corte come un “attentato alla privacy”: in effetti è proprio attorno al concetto di privacy che negli Stati Uniti è nato l’humus fertile ai diritti delle donne su temi come aborto e contraccezione. La privacy del corpo inteso come luogo sacro, come confine invalicabile tra noi e gli altri, tra la scelta personale e la norma o la morale.
Il presidente lancia un allarme: ora le donne americane sono a rischio, perché è a rischio non solo la loro scelta ma la loro salute. Ne fa una questione bipartisan: cita le tre grandi presidenze repubblicane (Nixon, Reagan, Bush) sotto le quali la Roe vs Wade ha prosperato come garanzia di legge. E indica un responsabile, a chiare lettere, di questo ribaltamento: Trump e il trumpismo, che aleggia come un fantasma nella composizione della Corte Suprema. Un’ideologia estrema la definisce Biden, poichè l’abolizione del diritto costituzionale all’aborto ha dimostrato quanto la maggioranza conservatrice all’interno della Corte suprema sia “estrema, e quanto le sue idee siano distaccate dalla realtà e dalla popolazione”. Questo ribaltamento costituzionale, secondo la Casa Bianca, costringerà le donne “a tenere i figli dei loro stupratori”, “renderà attive le leggi degli Stati che bandiscono l’aborto”. Stessa cosa dicasi per i casi di incesto. Biden allarga la visuale e la battaglia anche alla salute femminile intesa nel senso più ampio, passando per la tutela del diritto alla contraccezione e alle cure femminili.
Il presidente promette battaglia: “Roe is on the ballot!” ripete più volte, annunciando di fare qualsiasi cosa in suo potere per ripristinare un diritto riconosciuto federalmente. Ma ribadisce anche l’impossibilità per il presidente di agire da solo, rimandando a senatori e deputati la responsabilità e il potere di metterla ai voti una volta per tutte. “Tuttavia, la battaglia non è finita: la mia amministrazione farà tutto il possibile per difendere i diritti delle donne, ma un’azione del Congresso è fondamentale e con il voto alle prossime elezioni di medio termine i cittadini possono avere l’ultima parola”. Prima di congedare la stampa, il presidente ha ribadito due punti: il primo, rifiuto di qualsiasi forma di violenza, minaccia o intimidazione chiedendo che qualsiasi protesta si tenga pacificamente; con il secondo, prendendo posizione: “I stand with you!”, grida alle donne d’America.
Biden ha scelto davvero questa battaglia?
Il panorama giuridico adesso si complica. Se c’è chi preannuncia già uno scenario in stile Il racconto dell’ancella, quello che più facilmente accadrà nei prossimi mesi sarà una spaccatura netta tra Stati progressisti e Stati conservatori. Se i primi continueranno a garantire l’accesso all’aborto e a tutti i canali legati alla maternità e alla contraccezione consapevole, nelle aree dominate da Governi repubblicani e dalla forte impronte evangelica, il rischio è che non solo l’aborto venga vietato ma perfino l’accesso alla contraccezione, con grave pregiudizio della salute femminile. Si assisterà a veri e propri spostamenti in massa di donne che cercheranno di abortire oltre frontiera e un’impennata di aborti clandestini.
Biden sembra aver scelto la sua battaglia interna, optando per una simbologia interna che ancora sembrava assente. Eppure, non sono in molti a credere che il presidente abbraccerà questa lotta senza se e senza ma: numerosi osservatori notano che Biden stenti ad usare il termine “aborto” e che nel suo discorso ci sia stato, ad onor del vero, uno shift verso il tema ben più generale della salute della donna.
“È tempo che questo Presidente dichiari ciò che sta accadendo come un fallimento morale in questo paese e come una crisi della salute pubblica e dei diritti umani. È oltre il punto di fare politica. È tempo di pronunciare la parola aborto ad alta voce”, ha affermato la rappresentante dello stato del New Mexico, Michaela Lara Cadena. Il New Mexico, uno Stato senza alcun tipo di restrizioni all’aborto, è candidato a ricevere un alto afflusso di pazienti dagli stati vicini come il Texas.
Il presidente ora si trova sotto la pressione dell’ara radicale dei dem e del ondo dell’attivismo pro-choice. Nelle settimane precedenti la sentenza, discutendo con i lawmakers, a Biden sono state fornite diverse opzioni alternative per fronteggiare l’eventuale ribaltamento della Roe. Fra queste, ad esempio, consentire ai fornitori di aborti di lavorare dalla proprietà federale; oppure, fornire finanziamenti federali alle donne per viaggiare fuori dallo Stato, opzione che ha il potenziale di entrare in conflitto con l’emendamento Hyde, la legge che proibisce il finanziamento federale all’aborto in quasi tutti i casi. Altre opzioni sono apparse più fattibili, incluso rendere più facile per le donne ottenere pillole abortive per posta. Ma restano gli ostacoli legali.
Per gli Stati Uniti e per la Casa Bianca si prepara un autunno caldo: c’è da scommettere che l’aborto sarà protagonista del mid term e della corsa per il 2024.
Diane Derzis: «Le mani sull’aborto negli Usa? È spaventoso ed è solo l’inizio. Ora le donne ricominceranno a morire». «Tenete tutti alta la guardia. Se può accadere qui, può accadere ovunque» dice la proprietaria dell’unica clinica in Mississippi in cui si pratica l’interruzione di gravidanza. E che è al centro del caso su cui si è espressa la Corte Suprema. «Sono quarant’anni che ci minacciano in nome di Dio, ma non mi fermerò». Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni su L'Espresso il 6 maggio 24 giugno 2022.
AGGIORNAMENTO 24 GIUGNO 2022: La Corte Suprema Usa ha abolito la sentenza Roe v Wade che garantiva il diritto di interrompere la gravidanza a livello federale e in vigore da 50 anni. Ora ogni Stato potrà legiferare sul tema
«Ho sempre pensato che prima o poi sarebbe successo. Ora ci siamo e non so se sono pronta. È spaventoso». Diane Derzis scandisce bene l’aggettivo con la voce roca: «spaventoso». Vuole che afferriamo la portata del terremoto sociale che sta scuotendo gli Stati Uniti. «Se la Corte Suprema dovesse davvero confermare il ribaltamento della Roe contro Wade, in una nazione avanzata come l’America molte donne ricominceranno a morire perché non potranno accedere in sicurezza a una procedura medica che è stata disponibile negli ultimi cinquant’anni. Saranno costrette di nuovo agli aborti clandestini o dovranno fare le valige e viaggiare».
Derzis è proprietaria dell’unica clinica che in Mississippi - uno stato di tre milioni di abitanti – pratica l’interruzione volontaria di gravidanza. È lei la donna che da oltre quarant’anni, schivando picchetti di manifestanti imbufaliti e trappole legislative non meno rabbiose, accudisce l’autodeterminazione delle donne del sud conservatore. «È il 2022 e stiamo tornando indietro» sbotta sconfortata quando la raggiungiamo al telefono. È esausta, sono giornate di fuoco. Il suo ambulatorio, la Jackson Women’s Health Organization, è al centro del caso che la Corte Suprema sta esaminando, ovvero la costituzionalità di una legge del 2018 dello Stato del Mississippi che vieta l’aborto dopo 15 settimane di gestazione. La decisione è attesa tra la fine di giugno e l’inizio di luglio. È molto probabile che Derzis perderà. E questa sconfitta, dai confini del Mississippi si espanderà a tutta l’America. Nei giorni scorsi, infatti, il sito Politico ha reso pubblico un documento in bozza a firma del giudice conservatore Samuel Alito sul parere della maggioranza delle toghe che ripudia la Roe contro Wade. Se questa sentenza storica - che dal 1973 garantisce il diritto di aborto - dovesse veramente cadere, in assenza di una legge federale in merito, la decisione sarà completamente rimandata agli Stati.
Abbiamo davanti un’America spaccata: da una parte ci sono gli Stati democratici che proteggeranno l’aborto in tutti i modi; l’altra metà, quella più conservatrice, è pronta a vietarlo o a limitarlo pesantemente, incluso il Mississippi, ma anche ad esempio il Texas e l’Oklahoma. Che ne sarà della sua clinica?
«Ci trasferiremo. Ho comprato una struttura in Nuovo Messico dove questo diritto è protetto, stiamo allestendo l’ambulatorio. Di sicuro non mi fermerò. Bisognerà raccogliere fondi affinché le donne possano viaggiare in altri Stati. Tra queste ci sono tante persone che non hanno disponibilità economiche; le più vulnerabili, ovvero donne di colore in condizioni di povertà che di certo non possono permettersi un biglietto aereo per New York. È la parte più triste di questa storia. Dovremo lavorare sul fronte legale. Mi aspetto anche arresti, perché in alcuni Stati sarà proibito andare ad abortire fuori. Mi auguro solo che tutto ciò svegli la gente».
Cosa risponde a chi, come Alito, sostiene che nella Costituzione non ci sia cenno all’aborto come diritto?
«È un argomento ridicolo. Gioverebbe ricordare che le uniche persone menzionate nella Costituzione sono gli uomini. Non le donne, né i neri. La carta originale non permetteva agli afroamericani di votare. La verità è che puntano al controllo delle donne. Ci vogliono fuori dalla forza lavoro, sperano di tornare indietro a quando non avevamo scelta».
Cosa controbatte a chi ritiene di proteggere la vita?
«Non credo che gli importi dei bambini. Se fosse così, finanzierebbero programmi per prendersene cura. L’unica preoccupazione è quel che accade prima della nascita. Non c’è empatia, non capiscono che una parte dell’America non è come loro.
Pro-life contro pro-choice, in questo Paese il confronto non è sempre solo dialettico.
Le minacce non mancano. Nel 1998 hanno ucciso una delle guardie della mia clinica a Birmingham in Alabama. Ho visto in prima persona cosa sia capace di fare questa gente in nome di Dio. Ma Dio non ha niente a che vedere con questa violenza.»
A novembre ci saranno le elezioni di metà mandato. L’aborto è uno dei temi più divisivi in questo Paese, cosa si aspetta alle urne?
«Spero che lo sconvolgimento di queste settimane spingerà la gente ad andare a votare per blindare la maggioranza al senato e permettere l’approvazione del Women's Health Protection Act che garantisca l'accesso all'interruzione volontaria di gravidanza. Biden ha detto molto chiaramente che è pro-choice ma può fare poco da solo. Vorrei avere fiducia nel popolo americano, ma non ce l'ho».
Il 70% degli americani pensa che sia una scelta che andrebbe lasciata alla donna e al suo medico. Le proteste e l’opinione pubblica potrebbero portare la Corte a un ripensamento?
«No, credo che sia la posizione finale. Non vedrò mai l’aborto legalizzato in tutto il Paese ed è una cosa terrificante».
Cosa farà l’America progressista nelle prossime settimane?
«È bene che sia in allerta. Il timore più grosso è che questa lotta contro l'aborto sia parte di un movimento più ampio. È tutto legato insieme: diritti delle donne, delle minoranze. È solo l'inizio. Credo davvero che siano in pericolo anche la comunità Lgbtq, il matrimonio e le adozioni gay. Siamo a un bivio della nostra storia. Credo anche che tutte le nazioni progressiste debbano tenere alta la guardia. Se può accadere qui, può accadere ovunque».
"Sui diritti non si può mai rimanere fermi, altrimenti si torna indietro". Sentenza contro l’aborto, Italia tra timori e gioia: “Qui troppi obiettori”, “Grazie Trump”. Redazione su Il Riformista il 24 Giugno 2022
Come conseguenza della storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti di abolire il diritto costituzionale all’aborto, che da oggi verrà deciso dai singoli Stati americani, “c’è il rischio di morte per aborti clandestini“. La decisione (6 contro 3) dei giudici statunitensi scatena indignazione e timori in Italia, con i Radicali che riaccendono i riflettori su alcune mancanze che riguardano il rispetto della legge 194 in Italia (che riguarda appunto il diritto all’interruzione di gravidanza) e i rischi di un’inversione di tendenza anche nel nostro Paese.
Per Emma Bonino di Più Europa si tratta di una “sentenza politica” con “le associazioni sia antiabortiste che abortiste in agitazione da mesi. La sentenza della Corte Suprema dopo 50 anni cancella il diritto di aborto negli Usa a livello federale, perdendo così il livello di costituzionalità. Ora saranno i singoli Stati, un po’ come avviene in Europa, basti pensare a Polonia e Ungheria – osserva Bonino -, oltre ai rigurgiti antiabortisti anche nel nostro Paese, a disciplinare questa libertà”.
“È sicuramente un passo indietro e la mia solidarietà va alle donne americane che si ritrovano nella stessa situazione di decenni fa con una sentenza tutta intrisa di politica, visto che i giudici eletti erano stati nominati dall’amministrazione Trump”.
“Ma – ammonisce la leader di Più Europa – questa sentenza è un richiamo forte anche per noi, donne e uomini in Italia ed in Europa: sui diritti non si può mai rimanere fermi, se non si va avanti si rischia di andare indietro. Se non si conquistano maggiori spazi di libertà e responsabilità, il rischio è di perdere conquiste che sembravano immodificabili. Dobbiamo esserne tutte e tutti consapevoli, anche nelle battaglie politiche, perché non è vero che ‘sono tutti uguali’, specialmente sui diritti e delle donne in particolare”.
Sulla stessa lunghezza d’onda Giulia Crivellini, radicale e promotrice della campagna ‘Libera di Abortire’, secondo cui quanto avvenuto dimostra che “i diritti che sembrano acquisiti possono essere sottratti alle persone da un momento all’altro. Ci sono percentuali altissime di obiettori di coscienza e numerose giunte regionali, come quelle di Marche e Abruzzo, che sfruttano le zone grigie della legge per impedire nei fatti l’accesso all’aborto”.
Gioisce invece il senatore leghista Simone Pillon secondo il quale la “famosa sentenza Roe vs. Wade” era “fondata su un caso falso, che aveva autorizzato l’aborto negli Stati Uniti. L’aborto volontario non è un diritto. Nella sentenza, approvata 6 contro 3, si legge che ‘la costituzione non fa alcun riferimento all’aborto, né il nessun diritto del genere è implicitamente protetto da alcuna previsione costituzionale, incluse quelle su cui si basano i difensori di Roe e Casey'”. Poi rincara: “Ora portiamo anche in Europa e in Italia la brezza leggera del diritto alla vita di ogni bambino, che deve poter vedere questo bel cielo azzurro. Lavoreremo per questo, senza metterci contro nessuno ma restando dalla parte delle mamme, dei papà e dei loro bambini”. Infine Pillon ringrazia il “presidente Trump, che non ha mai fatto mistero di voler difendere la vita nascente, nominando giudici pro life alla Corte Suprema”.
Parole che vengono in parte smentite dal leader della Lega Matteo Salvini, scettico su quanto affermato dalla Corte Suprema degli Usa: “Credo nel valore della vita, dall’inizio alla fine, ma – dice – a proposito di gravidanza l’ultima parola spetta sempre alla donna”.
Usa, storica sentenza della Corte Suprema: annullato il diritto all’aborto. Biden parla alla nazione. Redazione venerdì 24 Giugno 2022 su Il Secolo d'Italia.
Come era stato anticipato a maggio, la Corte Suprema degli Stati Uniti con una sentenza storica ha di fatto annullato il diritto all’aborto fino a 24 settimane. L’annullamento riguarda la sentenza Roe vs Wade che da 50 anni garantisce alle donne il diritto ad interrompere la gravidanza. “La Costituzione non garantisce un diritto all’aborto”, si legge nella sentenza appoggiata dalla maggioranza conservatrice della Corte. Che ribadisce inoltre che “l’autorità di regolare l’aborto torna al popolo ed ai rappresentanti eletti”, vale a dire autorizza gli stati alla possibilità di vietarlo.
“La Roe è stata sbagliata in modo eclatante sin dall’inizio” ha scritto nell’opinione della maggioranza il giudice Samuel Alito riferendosi alla sentenza del 1973. “La sua argomentazione era eccezionalmente debole, ed ha avuto dannose conseguenze – ha scritto ancora – e piuttosto che portare ad un accordo nazionale sulla questione dell’aborto, ha infiammato il dibattito ed aumentato le divisioni”.
Con questa decisione, destinata a provocare un enorme terremoto politico e sociale negli Stati Uniti, i sei giudici conservatori hanno quindi confermato la legge approvata dal Mississippi che vieta l’aborto dopo le prime 15 settimane, che è in contrasto con quanto stabilito dalla Roe, che lo rende possibile fino a 24 settimane.
Sono oltre una ventina gli Stati, in maggioranza in stati del Sud e Mid West a guida repubblicana, che hanno approvato leggi restrittive sull’aborto, o veri e propri divieti. Leggi che sono state di fatto legittimate dalla decisione di oggi della Corte Suprema. Una sentenza che rappresenta una vittoria storica per il movimento conservatore e pro life americano che per anni ha lavorato in questa direzione.
Tra i primi a criticare la scelta è stato Barack Obama: “Oggi la Corte suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di persone”. Il presidente Joe Biden ha annunciato che terrà un discorso alla nazione in serata.
“Questo è un giorno monumentale per la sacralità della vita”, commenta invece su Twitter l’attorney generale del Missouri, Eric Schmitt, annunciando che “a seguito della decisione della Corte Suprema di annullare Roe vs Wade, il Missouri è il primo a mettere fine all’aborto”.
“Oggi è un giorno storico, ma noi ricordiamo i 60 milioni di vite innocenti perse – ha aggiunto Schmitt che ha postato la foto mentre firma la misura – c’e’ stato molto lavoro dietro le quinte per raggiungere questa incredibile vittoria”.
Oltre al Mississipi – ha scritto di recente Vanity fair – nel luglio 2021 ha suscitato molte proteste la legge del Texas, che, oltre a vietare l’aborto dal momento in cui è percepibile il battito fetale (intorno alle sei settimane), ha introdotto una ricompensa di 10 mila dollari a chiunque denunciasse un’interruzione di gravidanza illegale.
Attualmente la norma delle sei settimane è stata votata in Idaho, Georgia, Ohio, Kentucky e Louisiana. In Missouri sale a otto settimane. Alabama e in Oklahoma hanno approvato la legge più restrittiva: l’aborto è sempre vietato, anche in caso di stupro o incesto, tranne nei casi in cui sia a rischio la vita della gestante.
Giulia Mattioli per repubblica.it il 24 giugno 2022.
È un’esperienza che, purtroppo, vivono tantissime donne. Eppure è circondata da un assordante silenzio, che porta chi la subisce a sentirsi tremendamente sola, inadeguata, a soffrire in segreto, e a viverla come un fallimento, una colpa: commentando un post su Instagram Sharon Stone fa luce sul dramma dell’aborto spontaneo, e riassume in poche righe quello che pensano moltissime donne che lo hanno vissuto. L’attrice si apre sotto un post del magazine People che racconta l’esperienza dell'aborto vissuta da Peta Murgatroyd (ballerina di un programma televisivo americano), la quale confessa di aver provato, oltre ad un immenso dolore, un grande imbarazzo, un senso di vergogna.
Sharon Stone replica scrivendo: “Noi donne non abbiamo uno spazio per parlare della profondità di questa perdita. Ho perso 9 bambini a causa di aborti spontanei. Non è una cosa da nulla, fisicamente ed emotivamente, e nonostante questo rimane qualcosa che dobbiamo sopportare da sole e segretamente, e con un certo senso di fallimento”. Anche Meghan Markle aveva scelto di raccontare pubblicamente il suo aborto spontaneo, avvenuto nel 2020, per contribuire ad abbattere i tabù che ancora permeano questo evento.
“Per guarire avremmo bisogno di ricevere compassione ed empatia” prosegue Sharon Stone, “ma il sistema sanitario è nelle mani dell’ideologia maschile, che è negligente, nel migliore dei casi, o addirittura ignorante, o persino violentemente oppressiva in certi casi”. L’attrice aveva già raccontato in passato di aver vissuto il dramma dell’aborto spontaneo, e di aver fatto richiesta di adozione del primo dei suoi figli proprio di ritorno dall’ospedale dopo una di queste brutte esperienze. Attualmente Sharon Stone ha tre figli adottivi: Roan, Laird e Quinn.
Molti dei commenti che seguono quello di Sharon Stone sono dello stesso tenore (come spesso accade quando una donna si apre sui social rispetto a questo tema), e raccontano il dolore profondo, ben più profondo di quanto sia socialmente riconosciuto, oltre alla sensazione di solitudine, di fallimento. Il tema della salute riproduttiva femminile e delle ripercussioni che certi percorsi hanno sulla psiche delle donne in tempi recenti viene sollevato sempre più spesso da testimoni e attiviste stanche di trovarsi ad avere a che fare con un sistema sanitario pensato su misura per gli uomini.
Rossello Gesa per “Libero quotidiano” il 25 giugno 2022.
Il presidente del Paese più importante del mondo ha bisogno della badante. Non è una cattiveria, ma una confessione dello stesso Joe Biden. Giovedì, durante una riunione con alcuni vertici dell'industria dell'eolico, il presidente americano ha sfoggiato un papello predisposto dallo staff con istruzioni dettagliate. «Siediti al TUO posto», «Limita i commenti a due minuti», «Fai una domanda» a tizio, «Ringrazia i partecipanti», «Esci».
Ben più della prassi a scanso di equivoci. Parte dell'imbarazzo è il fatto che Biden abbia mostrato questa "road map per dummy", esponendosi al tiro a segno del ridicolo.
Ora, i presidenti americani sono noti per le gaffe. Da manuale di storia quelle di Richard M. Nixon, da "Rischiatutto" quelle di George W. Bush Jr. Ma questo non ha impedito mai di sfoderare leadership forti. Con Biden è diverso.
Che sia suonato è evidente da tempo, che spesso non sia all'altezza è lampante dall'insediamento. Ma che abbia bisogno della velina persino per trovare l'uscio di casa è inquietante.
Il rispetto dovuto alla sua età è fuori discussione e sta oltre ogni partigianeria. Ma il punto è: se Biden non è in grado, chi comanda alla Casa Bianca? Il ghost writer dei poveri che gli ha preparto la noticina? Sarebbe il minore dei mali. Il peggio è se Biden fosse un fantoccio degno del XXV Emendamento alla Costituzione (quello che permette di sollevare un presidente dall'incarico per incapacità) tenuto in vita politica artificiale per motivi opachi.
Niente incappucciati, complotti e "masserie" alla Checco Zalone: bastano le cronache. Che ricordano che, benché il vicepresidente federale non sia di per sé affatto carta da parati, Biden al fianco di Barack Obama lo fu eccome. Poi è tornato in auge quando media, Sinistre e sfascisti di ogni sorta si sono fusi per fare la forca a Donald Trump. Evidentemente mancava uno stallone più focoso. Oppure serviva un brocco sfiancato: non forse da sostituire al momento buono, quanto da manovrare.
Gli indici hanno puntato spesso sulla vice, Kamala Harris, vista come terminale di un mondo estremista incapace di conquistare la titolarità del potere, ma bravo a esercitarlo dietro la sagoma di cartone di Biden. Che infatti l'Amministrazione Biden sia tutt' altro che centrista lo dimostrano la foga con cui la Casa Bianca sostiene l'aborto a ogni costo, il radicalismo gender e persino un "burro e cannoni" che nemmeno i falchi di un tempo. E questo è evidente pur sostenendo la necessità di armare la resistenza ucraina, benché sia chiaro che i falchi liberal abbiano a cuore ben altro che il bene degli ucraini.
Epperò il pregresso di Biden al Senato ricorda un altro uomo. E quindi, o la sua vecchiaia va rispettata ma magari non messa in capo alle sorti del mondo, oppure altri agiscono dietro di lui. Il Pentagono? L'establishment del Partito Democratico deciso alla "guerra civile" dopo la cancellazione della sentenza «Roe w. Wade»? I loro potenti finanziatori, da Silicon Valley a Hollywood? Il difficile è soprattutto capire verso quale meta siano diretti ora. Sul bigliettino di Biden giovedì non c'era scritto.
Usa, mobilitazioni in ogni città contro la revoca del diritto all’aborto. Il Dubbio il 25 giugno 2022.
Stati Uniti attraversati da marce di proteste e di tensioni, dopo la decisione della Corte Suprema che ha revocato il diritto all’aborto, in vigore da quasi cinquant’anni. Da Washington a New York, da Los Angeles a Phoenix sono decine di migliaia i cittadini scesi in piazza.
A New York sono almeno venti le persone arrestate dopo la marcia di protesta organizzata ieri lungo le strade della città. Tensioni ci sono state vicino a Bryant Park, nel cuore di Manhattan. Al raduno organizzato a Lower Manhattan c’erano anche la comica Amy Schumer e la Procuratrice generale dello stato Letitia James, appena eletta nel consiglio comunale della Grande Mela. «Non torneremo indietro ai giorni in cui usavamo i ganci di filo metallico», ha urlato dal palco la donna, rivelando di aver abortito quasi due decenni fa. «Il diritto di controllare i propri corpi è un diritto fondamentale sancito dal 14esimo emendamento», ha aggiunto la politica democratica.
A Los Angeles i manifestanti pro-aborto hanno marciato lungo la 110 Freeway, una delle strade più importanti, bloccando il traffico. Nella capitale Washington centinaia di persone di entrambi gli schieramenti, pro e contro l’aborto, si erano radunate già dal mattino davanti alla Corte Suprema. Un attivista in favore dell’aborto, Guido Reichstadter, si è arrampicato sul Frederick Douglass Memorial Bridge, e ha postato video e foto sui social dalla sommità del ponte, dopo aver disteso un grande striscione verde. «Sono salito qui sopra – ha detto in una diretta su TikTok – perchè la Corte Suprema ha lanciato un attacco vigliacco e anticostituzionale ai diritti delle donne in questo Paese».
A Phoenix i manifestanti, che si erano radunati attorno al palazzo del Congresso statale, sono stati dispersi con i lacrimogeni dopo un tentativo di fare irruzione nell’edificio del Senato. In molte città le zone dove si trovano i palazzi governativi e le Corti supreme statali sono presidiate da polizia e soldati in assetto anti sommossa
A. Gua. Per “il Messaggero” il 25 giugno 2022.
Prima lo shock, poi il rimboccarsi le maniche. Nell'arco di poche ore le donne americane hanno cominciato a reagire pragmaticamente alla storica decisione della Corte Suprema che dopo 49 anni cancellava il diritto costituzionale all'aborto. Mentre gli antiabortisti cantavano vittoria e ringraziavano Iddio della vittoria, i pro-choice hanno cominciato a versare contributi e presentare offerte di volontariato alle associazioni che garantiranno aiuto alle donne intrappolate negli Stati repubblicani ed evangelici che da ieri hanno chiuso ogni accesso all'interruzione volontaria della gravidanza.
Fondi per finanziare il viaggio a chi abbia bisogno di interrompere una gravidanza erano già stati creati quando il documento era trapelato durante l'inverno, ma ieri sono stati inondati da contributi record. Numerose aziende di spicco hanno immediatamente confermato di aver incluso nei propri pacchetti di assicurazione medica anche la garanzia di pieno rimborso per un viaggio al fine di ottenere un aborto.
Impossibile elencare tutte quelle che compaiono nell'elenco, ma basti riassumerne alcune, da Netflix a LeviStrauss, da Disney a Sony, da Tesla a JPMorgan Chase. La metà dei lavoratori americani sono donne, in buona parte ancora in età fertile, e le aziende in questione hanno concordato che imporre loro una gravidanza non voluta andrebbe non solo contro i diritti della donna, ma sarebbe anche una scelta perdente per le stesse aziende.
Il presidente Biden ha detto ieri che darà ordine al Dipartimento di Giustizia di assicurarsi che i diritti delle donne che vogliano viaggiare in cerca di un aborto non vengano ostacolati, fatto peraltro possibile considerato che alcuni degli Stati più estremisti nella loro convinzione anti-abortista imporranno anche divieti di spostamento oltre i confini statali per cercare laborto altrove.
Per questo ci sono regioni del Paese, più liberal, che stanno organizzandosi, un po' come è successo all'inizio della pandemia. Stati del nord-est come New York, New Jersy, Connecticut, Massachusetts, promettono di accogliere e aiutare le donne che provengano da Stati repressivi, tutti raccolti nel sud e nel centro. All'altro capo dell'America i governatori della California, Oregon e Washington hanno firmato un impegno multi statale per la libertà riproduttiva, impegnandosi a proteggere le donne che cercheranno assistenza nei loro tre stati.
I tre governatori si impegnano a non collaborare con gli Stati repressivi se questi chiedessero l'arresto di donne sfuggite per cercare un aborto. In California si sta anche creando un fondo di sostegno pratico per aiutare a coprire i costi logistici del viaggio mentre associazioni di volontari si impegnano a offrire ospitalità e assistenza per le donne che arrivassero dagli Stati antiabortisti e repressivi come il Texas, l'Oklahoma, il Mississippi, il Missouri o l'Alabama.
Molte voci di leader femminili si sono incrociate ieri, fra lo sgomento e la rabbia: «Questa sentenza crudele è oltraggiosa e straziante. Ma non commettete errori: a novembre voteremo sui diritti delle donne e di tutti gli americani» ha reagito la speaker della Camera Nancy Pelosi. La ex first lady, Michelle Obama ha detto che la decisione è «orribile» e «deve essere una sveglia, specie per i giovani...Se cedete adesso, erediterete un Paese che non assomiglia a voi e a nessuno dei valori in cui credete».
Dal canto suo Hillary Clinton ha parlato di «un passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani». «Dobbiamo temere per tanti altri diritti ha detto la vicepresidente Kamala Harris -. Abbiamo sempre sognato di allargare i diritti nel nostro Paese, ora dobbiamo ergerci insieme per difenderli, a cominciare dal diritto alla libertà e al diritto di decidere per noi stessi». Anche nel mondo dello spettacolo e della cultura le reazioni sono state di preoccupazione: «Per tanti decenni abbiamo lottato per i diritti sul nostro corpo, la decisione di oggi ce ne ha private» ha scritto la popolare cantante Taylor Swift.
La senatrice dem liberal Elizabeth Warren ha dal canto suo lanciato una proposta al presidente Biden, che potrebbe tagliare le gambe agli Stati più restrittivi: concedere in quegli Stati l'apertura di cliniche per l'aborto in terreni o costruzioni federali. Poco dopo che Warren aveva avanzato questa proposta, altri senatori l'hanno sostenuta.
Aborto negli Usa, da Lizzo a Spielberg, star mobilitate: pioggia di dollari in difesa dell’interruzione di gravidanza. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.
Dopo la vittoria in Kansas dei «pro-choice» altri Stati chiamano gli elettori a scegliere sull’aborto
Il regista Steven Spielberg e la moglie, l’attrice Kate Capshaw, hanno donato 25mila dollari ciascuno al fronte per il diritto all’aborto, che ha stravinto (59% contro 41%) nel referendum in Kansas il 2 agosto. È stato il primo referendum statale sull’aborto da quando la Corte Suprema ha rovesciato la sentenza Roe v. Wade, che lo tutelava a livello federale. Ora che la responsabilità è passata agli Stati, molti altri prevedono di chiamare direttamente gli elettori a scegliere di proteggerlo o vietarlo nella loro Costituzione.
Chiamati ad approvare un emendamento che dichiarasse che la Costituzione del Kansas non protegge il diritto all’aborto (il che avrebbe consentito al parlamento statale di introdurre ulteriori restrizioni), gli elettori si sono rifiutati. Gli anti-abortisti hanno sostenuto che la loro causa è stata sconfitta dai soldi arrivati dalle élite liberal extra-statali. Ciascuno dei due fronti ha speso circa 11 milioni di dollari. L’aiuto di Spielberg non è l’unico da Hollywood.
Planned Parenthood, associazione che assiste le donne che vogliono abortire e che ha investito anche in questo referendum, ha ricevuto negli ultimi mesi un milione di dollari dalla cantante Lizzo , 250 mila da Ariana Grande e ogni mese Mila Kunis versa denaro a nome dell’ex vice di Trump, Mike Pence (solo per fare qualche esempio). Hanno contribuito anche l’ex sindaco di New York ed ex candidato alla presidenza Michael Bloomberg (1,25 milioni), l’associazione Sixty Thirty Fund che finanzia cause progressiste (1,5 milioni) e una trentina di gruppi e individui. Sul fronte opposto, la Chiesa cattolica ha versato 4,3 milioni di dollari.
I fondi sono cruciali in una battaglia Stato per Stato che si preannuncia lunga. Ma la vera sorpresa in Kansas è stata la scelta moderata sull’aborto in uno Stato che Donald Trump conquistò con 15 punti di vantaggio. Invece i sondaggi pre-referendum suggerivano che l’elettorato fosse spaccato, facendo presagire un testa a testa, osserva Nathan Cohn, l’esperto in analisi statistiche del New York Times. Quattro Stati del Sud — Louisiana nel 2020, Alabama e West Virginia nel 2018, Tennessee nel 2014 — avevano approvato emendamenti costituzionali, scegliendo in modo opposto al Kansas. Dunque, suggerisce il giornalista, la fine di Roe v. Wade ha energizzato l’elettorato democratico su un tema che normalmente motiva i repubblicani. Cohn calcola che se un referendum come quello del Kansas venisse proposto nel resto della nazione, oggi con l’eccezione di 7 Stati tutti gli altri voterebbero per tutelare il diritto all’aborto. Ma diversi esperti politici e costituzionali restano più cauti, nota il Pew Research Center. Quel che ha funzionato in Kansas potrebbe non valere in Stati dove ci sono già maggiori restrizioni all’aborto. Sarà importante vedere cosa succede in Kentucky, dove Trump ha vinto con 26 punti di vantaggio, e dove a novembre, alle elezioni di midterm, i cittadini saranno chiamati anche a votare sulla proposta di un emendamento costituzionale simile a quello del Kansas.
Sempre a novembre, California e Vermont approveranno invece quasi certamente di inserire nelle costituzioni statali il diritto all’aborto. In Michigan, la governatrice Gretchen Whitmer è riuscita a impedire l’entrata in vigore di una legge del 1931 che lo criminalizza senza eccezioni per stupro o incesto e che sarebbe stata attivata con l’abolizione di Roe; ma la decisione del giudice può essere rovesciata. Perciò una petizione forte di 750mila firme (il doppio del necessario) mira alla tutela nella Costituzione dello Stato. Non è certo che passi, ma i conservatori sembrano temerlo e cercano di bloccarla per un errore tipografico.
Un sondaggio mostra come per il 62% degli americani l’aborto debba essere legale nella maggior parte dei casi. Il Kansas mostra che la questione non segue nettamente l’affiliazione ai partiti. Bisognerà guardare caso per caso.
Ecco chi sono i giudici che hanno stoppato l'aborto in America. Francesca Galici il 25 Giugno 2022 su Il Giornale. Per anni hanno nascosto la loro posizione sull'aborto e ora sono al centro della polemica: chi sono i giudici della Corte suprema che hanno cambiato la storia
La discussione sulla decisione della Corte suprema americana di ribaltare la storica sentenza Roe contro Wade, che stabiliva fin dal 1973 il diritto costituzionale all'aborto negli Stati Uniti, ha sollevato un polverone di polemiche a livello mondiale. Definito da più parti un "terremoto costituzionale", è destinato a spaccare ulteriormente l'America, provocando rivolte e proteste che sono già cominciate il tutto il Paese e non solo. La sentenza conferisce ai singoli Stati il potere di stabilire le proprie leggi sull'aborto, senza più preoccuparsi di entrare in conflitto con la sentenza Roe contro Wade, che per quasi mezzo secolo aveva consentito l'aborto entro 24 settimane di gravidanza. Ora i riflettori sono puntati sui giudici che hanno ribaltato cinquant'anni di storia.
L'unica donna presente nel council responsabile della decisione è anche l'ultima arrivata. Si chiama Amy Coney Barrett, proviene dalla Louisiana, ha 50 anni ed è di religione cattolica. Ha 7 figli, di cui 2 adottati, ed è stata nominata nel 2020 da Donald Trump. Il legame tra il giudice e l'ex presidente degli Stati uniti appare molto forte, considerando che è stato lo stesso Trump a volere Coney Barrett alla Corte d'appello nel 2017.
Una Corte "orientata" che ribalta la Storia
Quello che in queste ore negli Stati uniti viene contestato al giudice è che durante le audizioni per la conferma, lei non ha mai rivelato la sua posizione in merito all'aborto. Anzi, si è allineata agli altri candidati sottolineando l'importanza del principio "stare decisis", che indica la fedeltà al precedente giurisprudenziale vincolante negli ordinamenti del common low. Coney Barrett ha preso il posto di Ruth Bader Ginsburg alla sua morte, quando il 57enne Brett Kavanaugh venne considerato il più progressista dei conservatori. Ex assistente di Ken Starr, Kanaugh veniva posizionato più spostato verso i conservatori anche rispetto a Neil Gorsuch, parte della Corte dal 2017. Anche loro in sede di conferma avevano dimostrato lealtà al principio "stare decisis".
La sentenza di ieri, però, dimostra che niente è solido e tutto può essere modificato. A spiegare bene questo orientamento è stato il giudice Samuel Alito, uno dei membri anziani arrivati alla Corte suprema nel 2006 sotto la gestione Bush. In base a quanto da lui dichiarato, quel principio ha "un ruolo considerevole ma non assoluto". Un passaggio fondamentale per capire come si possa essere arrivati alla decisione, ben noto anche all'altro membro anziano, Clarence Thomas, da 31 anni giudice della Corte suprema.
La decisione del 1973. Cos’è la sentenza Roe v. Wade, la storica decisione sull’aborto abolita dalla Corte Suprema USA. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Giugno 2022.
La Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade della stessa Corte che aveva legalizzato l’aborto nel 1973. “La Costituzione non conferisce il diritto all’aborto”, recita la decisione presa con sei voti favorevoli e tre contrari anticipata a inizio maggio da uno scoop di Politico. Da oggi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia.
Il diritto all’aborto era stato sancito con una storica sentenza quasi 50 anni fa. La Corte Suprema aveva riconosciuto il diritto della donna texana Norma Leah McCorvey di interrompere la gravidanza dopo che un gruppo di avvocati guidati da Sarah Weddington fu contattato dalla donna incinta del suo terzo figlio. A rappresentare lo Stato del Texas era l’avvocato Henry Menasco Wade.
La sentenza venne pronunciata il 22 gennaio del 1973 e rese legale a livello federale il diritto all’aborto per la donna come libera scelta personale. Prima di allora ogni Stato aveva una propria legislazione in materia. Almeno in trenta l’aborto era considerato un reato di common law, basato sui precedenti giurisprudenziali e non sui codici. In soli quattro Stati bastava la richiesta della donna.
Jane Roe era lo pseudonimo di McCorvey. Il nome venne scelto per tutelarne la privacy. Era nata nel 1947 in Louisiana ed era cresciuta a Houston, in Texas. Era scappata di casa a 18 anni, si era sposata e aveva avuto due figlie. Era incita del terzo figlio, di un uomo che lei definiva come molto violento, quando gli amici la convinsero a chiedere al tribunale di poter abortire. E di raccontare di essere stata vittima di stupro per ottenere l’aborto. Il Texas permetteva all’epoca l’aborto in caso di stupro e incesto. Non essendoci alcun rapporto della polizia sulle violenze la richiesta fu respinta.
Le legali fecero ricorso alla Corte Distrettuale dello Stato che diede ragione a Roe a partire dal IX Emendamento della Costituzione in cui si dichiara che l’elenco dei diritti individuali può essere integrato da altri diritti, non specificamente menzionati nella Costituzione. Wade fece ricorso a sua volta alla Corte Suprema. La decisione fu presa a maggioranza di sette giudici a due su un’interpretazione del XIV Emendamento che riguardava il diritto alla privacy inteso come diritto alla libera scelta per quanto riguarda le questioni della sfera intima di una persona.
“La corte ha dichiarato nullo lo statuto sull’aborto in quanto vago ed eccessivamente lesivo nei confronti di coloro che si appellano al Nono e al Quattordicesimo Emendamento”. Quella decisione rispondeva alla possibilità di abortire anche in assenza di problemi di salute della donna, del feto e di ogni altra circostanza che non fosse libera scelta della donna.
Secondo la sentenza l’aborto doveva essere possibile fino al momento in cui il feto non poteva sopravvivere al di fuori dell’utero materno, e quindi fino al terzo trimestre. Il termine sarebbe stato prorogato oltre tale limite in casi di pericolo per la salute della donna. McCorvey divenne dopo la sentenza simbolo e attivista del diritto d’aborto. Dopo la conversione alla Chiesa evangelica negli anni ’80 cambiò completamente posizione come quando qualche anno dopo si convertì al cattolicesimo. Prima di morire, a 69 anni nel 2017, disse di essere stata pagata da un’associazione religiosa per schierarsi attivamente contro l’aborto.
Il divieto di aborto è atteso entrare in vigore in 13 stati americani nei prossimi 30 giorni. I 13 stati possono vietare l’aborto in 30 giorni eccetto nei casi in cui la vita della madre è in pericolo. Il Missouri ha annunciato di essere il “primo” stato a vietare l’aborto, che ora è illegale anche in Texas con effetto immediato. È intanto esplosa la protesta all’esterno della Corte Suprema degli Stati Uniti. Un gruppo di anti-abortisti hanno accolto la sentenza con esultanze e abbracci. Tre dei sei giudici repubblicani che hanno votato contro la “Roe v. Wade” erano stati nominati dall’ex presidente Donald Trump. I tre nominati dal Partito Democratico hanno votato contro.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Paolo Giordano: «Aborto, il più fragile dei diritti che riguarda tutti noi». Paolo Giordano su Il Corriere della Sera il 26 Giugno 2022.
Sono nato e cresciuto in un momento in cui il diritto all’aborto era un pilastro, e la sua messa in discussione un tabù. Oggi però la corrente spinge in senso opposto. E anche qui - non solo negli Usa - non possiamo sentirci al sicuro.
Fra i diritti della modernità — quei diritti che ci fanno sentire fortunati di vivere in un presente per molti versi difficile —, il diritto all’aborto è il più fragile di tutti.
Lo è sempre stato.
E non tanto, come si ritiene comunemente, per la «delicatezza» del tema, per le aree di coscienza personale che investe e per quanto sia difficile stabilire scientificamente dove inizia la vita umana, quanto per la mole di pregiudizi — quasi tutti di matrice sessista — che attiva ancora in noi.
Il più odioso di tutti, sotteso a molte posizioni dei gruppi di destra e dei movimenti pro vita, è che l’aborto sia in fin dei conti una via comoda, quasi sempre la riparazione di una sbadataggine, e comunque evitabile.
A più di quarant’anni dall’approvazione della 194, l’aborto è ancora qualcosa di cui non si parla, mai, neppure in privato, con la sola eccezione degli ambienti femministi. È un rimosso obbligatorio non solo per le donne che lo affrontano da sole ma perfino per le coppie stabili.
Se la legge ne ha sancito ormai da tempo la possibilità, la cultura non è mai riuscita a cancellarne i corollari di vergogna, di sconfitta, anzi peggio, di colpa.
Per questo, ancora oggi, viene implicitamente accettato che l’aborto non debba essere del tutto indolore, almeno non psicologicamente, che qualsiasi forma di ripensamento debba essere indotta nella donna, anche quando sconfina nell’aggressione mentale.
Da qui, le contiguità con i reparti di ostetricia, le mini odissee e le piccole umiliazioni, e sempre da qui lo scontento mai smaltito di alcuni verso l’introduzione della pillola RU486.
Nel libro Mai dati, l’indagine di Chiara Lalli e Sonia Montegiove sullo stato dell’applicazione della 194 in Italia, le autrici ci ricordano che l’interruzione volontaria di gravidanza «è un servizio medico».
Ma illustrano anche come si stia trasformando sempre di più «in una questione di coscienza — del medico, ovviamente, perché la donna che abortisce forse la coscienza non ce l’ha».
Insomma, la 194 esiste ed è espletata, ma è anche avvolta in una nebbia. Una nebbiolina morale, appunto, che la tiene separata da ciò che è considerato davvero opportuno. Che rende la situazione difforme sul territorio nazionale e i dati reali inconoscibili. Una nebbia che non si sta affatto diradando, anzi.
E tuttavia, nel giorno buio in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rovesciato la sentenza Roe vs. Wade , ci siamo sentiti abbastanza al sicuro. Povera America, che sprofonda nel proprio oscurantismo. Noi, qui, abbiamo la 194, forse non è perfetta ma nessuno oserà mai toccarla, perché il progresso va avanti e non indietro, la consapevolezza cresce e non diminuisce, i diritti si conquistano e non si perdono. In fondo, troviamo confortante perfino l’estremismo di esponenti come il senatore Pillon: finché certe idee sono appannaggio di personaggi così, significa che sono relegate ai margini del dibattito pubblico, dove non fanno danni. Poco importa che, con quelle stesse opinioni, flirtino a diversi livelli i partiti di cui quegli esponenti fanno parte, e la destra tutta. Poco importa che la decisione della Corte Suprema sia una tappa eclatante di un percorso che va avanti da molti anni, anche in Europa, vicinissimo a noi. E poco importa che la Chiesa, che proprio ai margini del dibattito non è, l’abbia accolta, pur con tutte le cautele retoriche del caso, con la massima gioia. Come si dice in questi casi: la Chiesa fa la Chiesa, non possiamo mica pretendere.
Facendo qualche passo indietro per osservare il quadro nel suo complesso, la situazione è tutt’altro che rassicurante. E dovrebbe portarci a concludere che no, non siamo poi così al sicuro neppure qui. La tutela delle ragazze e delle donne nel nostro Paese non è così al sicuro. Non lo era giorni fa, e lo è meno che mai da venerdì scorso.
Non solo. È ingenuo pensare che la decisione della Corte negli Stati Uniti non abbia già innescato una serie di conseguenze a distanza. Da venerdì, l’idea dell’aborto è un po’ meno legittima anche nella mente di tutti noi, e quel senso subliminale d’illegittimità filtrerà rapidamente nella coscienza delle generazioni più giovani (generazioni alle quali sono già state sottratte molte forme di educazione alla sessualità, alla contraccezione, e la cui libertà di scelta è già in parte compromessa). Aumenteranno la confusione, la paura, il disprezzo di sé, la solitudine. Perché l’aborto è una delle esperienze di solitudine peggiore a cui si possa pensare. Una sentenza emessa al di là dell’Atlantico ha già aggravato il peso psicologico delle ragazze e delle donne che questa settimana, il prossimo mese o fra un anno decideranno di abortire qui. Sconteranno ancora più pesantemente una scelta che il nostro codice riconosce come legittima.
Il presidente Biden ha detto: «It’s not over», non è finita. Ci mancherebbe che lo fosse. Ma aggrapparsi al suo tenue spirito combattivo, così come alle immagini delle proteste a Washington, ha un sapore perdente. Sentenze come Roe vs. Wade, del 1973, e leggi come la nostra, del 1978, sono state possibili in un periodo storico molto specifico, trascinate da un flusso. Oggi non esiste nemmeno un briciolo della propulsione ideologica di quel tempo. Al contrario, tutto suggerisce che la corrente spinga in senso opposto. Da anni, in Italia, non c’è un avanzamento davvero significativo sul fronte delle libertà civili. E ciò che viene perso sembra essere perso e basta.
All’inizio, lo ammetto, avevo scritto «eroso»: «ciò che viene eroso», ma rileggendo mi sono accorto che anche quel termine denunciava un modo di ragionare obsoleto. È proprio questo il punto: siamo abituati a pensare che i nostri diritti fondamentali possano essere al più «erosi», ma questo non è più il tempo dell’erosione: oggi i pezzi della montagna si staccano e crollano al suolo. In un istante.
Sono nato e cresciuto in un momento in cui il diritto all’aborto era un pilastro, un assioma, e la sua messa in discussione un tabù. Che per alcuni si tratti di una visione estremista m’interessa poco: ho assorbito il principio per cui qualsiasi tentativo di limitare il diritto di scelta della donna in materia di interruzione della gravidanza non è davvero per la salvaguardia di un’altra vita, ma ha solo un intento punitivo e controllante. Il mio primo ostacolo — il mio e suppongo quello di molti e molte — è innanzitutto credere che qualcosa del genere stia capitando. Ma così è. Occorre imparare il più velocemente possibile come si vive su un piano inclinato al contrario, come ci si aggrega veramente e come si protesta mentre il mondo scivola. Un’indicazione semplice eppure non ovvia l’ha data la scrittrice Rebecca Solnit, reagendo alla sentenza della Corte: «Quelli di noi che non sono sotto attacco diretto devono stare dalla parte di coloro che lo sono». Semplice. Quelli che non sono sotto attacco diretto (o almeno non ci si sentono) sono tanto per cominciare la metà maschile della popolazione.
Fra i diritti della modernità, il diritto all’aborto è il più fragile di tutti. Lo è sempre stato. Proprio per questo è un diritto segnante della nostra civiltà. Togliamo quel diritto, indeboliamolo anche solo, e vedremo che no, tutto il resto non si regge comunque in piedi.
Mario Ajello per “il Messaggero” il 25 giugno 2022.
Emma Bonino si fa mandare dall'America i documenti della storica sentenza della Corte Suprema. «La notizia mi ha sconvolto, ma voglio capire bene di che cosa si tratta perché sembra davvero incredibile». Arrivano sulla sua mail i testi del pronunciamento dei giudici e a quel punto la storica leader dei Radicali - mentre guarda in tivvù le prime manifestazioni di protesta delle donne e dei movimenti abortisti - traccia il bilancio di questa «brutta storia».
Onorevole Bonino, si aspettava questa decisione?
«Non mi aspettavo il punteggio. Il 6 a 3, nel collegio dei giudici, è un risultato molto largo e per niente buono. Da mesi le associazioni abortiste erano molto agitate, evidentemente a ragione. Negli Stati Uniti l'aborto era un diritto federale. Questa sentenza demanda invece la questione ai vari Stati membri. Che è un po' la situazione che c'è in Europa. Dove ogni Paese Ue decide per sé sull'aborto. Per esempio la Polonia ha fatto una legge ultra-restrittiva».
Si azzera con la sentenza americana uno dei punti, che parevano fermi, ottenuti dalle lotte delle donne?
«Siamo certamente a un passo indietro nella protezione dell'aborto. Questo dimostra che i diritti non stabiliti una volta per sempre, non sono scritti nel marmo. Se non li difendi, non li curi, non li proteggi continuamente, ti svegli una mattina e non ci sono più. C'è un reportage molto bello del New York Times che spiega a questo punto che cosa potrà fare Biden per contrastare questa sentenza».
E che cosa può fare il presidente americano?
«Dal punto di vista legale, niente. È come da noi: così come la nostra Corte Costituzionale anche la Corte Suprema di Washington è il decisore di ultima istanza. Questo reportage però suggerisce a Biden vari accorgimenti per proteggere il diritto federale all'aborto. Il presidente può promuovere politiche che possono aiutare a superare il divieto. Per esempio quelle in favore dell'aborto farmacologico, con la pillola autorizzata dalla Food and Drug Administration. Ma non so davvero che cosa potrà fare l'amministrazione Biden e temo, sostanzialmente, non molto».
Il presidente ha l'occasione di mettersi alla testa di una nuova stagione di difesa e di estensione dei diritti.
«Io mi chiedo: ne avrà la forza? Comunque ci sono alcuni Stati che seguiranno la sentenza della Corte Suprema, e già il Missouri e il Texas si sono attivati, e altri che si comporteranno diversamente. Per esempio lo Stato di New York. O il Colorado: si sta attrezzando per accogliere le donne che potranno permettersi di passare il confine per abortire. Almeno nel campo dei diritti, è una grande delusione per me questa America che io sono spesso stata abituata a considerare all'avanguardia su certe battaglie. Evidentemente non è più l'America che ho in mente io. Il diritto all'aborto negli Stati Uniti non è in Costituzione ma è stato sancito da una storica sentenza 50 anni fa».
Si riferisce alla Roe vs Wade per cui interrompere la gravidanza è diventato legale nel 1973?
«Sì. Fu quando la Corte Suprema riconobbe il diritto all'aborto alla texana Norma McCorvey. E un gruppo di avvocate, guidato da Sarah Weddington, contattò la donna, incinta del terzo figlio avuto con il marito violento e con problemi di alcolismo. Si trattò di una esemplare pagina di libertà. Ora sono preoccupata. Si intensificherà negli Stati Uniti un fenomeno che noi conosciamo benissimo. Ed è quello del turismo sanitario. Come sempre, i ricchi viaggiano e i poveri emigrano.
Questo toccherà a un numero di donne sempre maggiore. Tra tutti i difetti della sentenza della Corte Suprema c'è anche quello che è classista. Anche prima in America l'aborto non era gratuito. Il bilancio federale si rifiutava di sovvenzionarlo. Ma adesso sarà tutto più complicato, penalizzante e dispendioso».
Questo è un colpo di coda o un nuovo inizio del trumpismo?
I giudici che si sono espressi contro l'aborto sono stati nominati da Trump. Questa comunque è una sentenza figlia di varie ideologie: alcune religiose, altre identitarie, altre di tipo culturale. Un mix di visioni oscurantiste e reazionarie che tolgono alle donne la libertà di scelta».
Quali conseguenze può avere la sentenza di Washington sull'Europa e in Italia?
«In Europa, penso alla Polonia ma anche all'Ungheria, questo tipo di impostazione purtroppo è già diffusa. Ma anche in Italia da tempo riscontro un rigurgito di posizioni contrarie ai diritti e alle libertà. Si pensi alla portata oscurantista della legge Pillon che, per fortuna, è stata stoppata. Il movimento per la vita, così si chiama, rappresenta un filone che, messo alla prova, per esempio nei referendum, ha sempre perso.
Però è sempre esistito e continua a prosperare. E come può immaginare, non mi è piaciuto il video della Meloni al congresso di Vox in Spagna. È importante però che in Italia sia in corso la campagna, da parte dell'Associazione Coscioni e di altri movimenti, per difendere la legge 194 sull'aborto. In certe parti d'Italia questa legge fondamentale non esiste più a causa dell'obiezione di coscienza. Più o meno il 90 per cento dei medici, in alcune zone del nostro Paese, si rifiutano di applicare il diritto a interrompere la gravidanza».
Celotto: “In Italia l’aborto è legge, la può cambiare solo il Parlamento. Nel 1981 un referendum ha affermato che non andava abrogata”. La Stampa il 24 giugno 2022.
In Italia la legge sull'aborto è a rischio? Una domanda che nasce da quanto stabilito oggi dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. Una svolta per certi versi storica che però al momento non sembra replicabile nei nostri confini dove, stando all'ultima Relazione al Parlamento sull'attuazione della legge 194/78, continuano a calare le interruzioni di gravidanza: nel 2020 sono state poco più di 66mila, il 9,3% in meno rispetto al 2019. «Parlando di aborto una premessa è fondamentale: il tema nel nostro Paese è disciplinato da una legge ordinaria e quindi per potere procedere ad una modifica è necessaria e sufficiente una altra legge. Cioè un intervento del Parlamento», spiega Alfonso Celotto, professore ordinario di diritto Costituzionale all'Università degli Studi Roma Tre, aggiungendo che «bisogna tenere presente che nel 1981 c'è stato un referendum con il quale il popolo italiano ha affermato che la legge sull'aborto non andava abrogata (come era accaduto dieci anni prima anche per la legge sul divorzio). Quando il popolo si pronuncia in sede di referendum la legge diventa 'non modificabile', ma soltanto per una legislatura, come ci ha ben spiegato nel 2012 la Corte costituzionale. Infatti, nel nostro sistema la democrazia diretta ha un plusvalore rispetto alla democrazia rappresentativa, ma soltanto a tempo». Per il costituzionalista su quest'ultimo aspetto «è emblematico quanto accaduto con l'energia nucleare: è stata abrogata per volontà popolare nel 1987, ma poi dopo vent'anni il Parlamento la aveva introdotta nuovamente, nella sua piena discrezionalità». Su un tema così delicato, come quello della interruzione volontaria della gravidanza, il Parlamento ad oggi è quindi libero. « libero di intervenire, nel complesso quadro dei valori costituzionali di tutela della madre, del nascituro e della salute - aggiunge Celotto -. Va comunque ricordato, in un'ottica liberale, che l'aborto, per quanto delicato, non può non essere disciplinato, per non lasciare un tema così sensibile ad un "mercato nero", come per decenni accaduto anche da noi». A detta del docente, comunque, la decisione presa oggi negli Usa «dimostra il grande dibattito che è in corso nelle democrazie occidentali in tema di diritti. Negli ultimi anni assistiamo a un processo sempre più delicato di bilanciamento dei valori con ripensamenti e specificazioni: in Italia ne abbiamo un esempio con il dibattito attualissimo sulla eutanasia».
La decisione della Corte Suprema: chiesa e conservatori in festa tra le polemiche. Aborto negato, gli Stati Uniti tornano indietro di 50 anni: cosa cambia dopo la sentenza “crudele e scandalosa”. Redazione su Il Riformista il 24 Giugno 2022
E’ bastata una sentenza della Corte Suprema per far tornare gli Stati Uniti indietro di 50 anni. Nel paese esportatore, almeno così si professano, di democrazia e libertà nel mondo, le donne non hanno più la libertà di abortire perché “l’aborto presenta una profonda questione morale. E la Costituzione non conferisce il diritto all’aborto”. E’ quanto deciso dai giudici che hanno ribaltato la sentenza Roe vs Wade con la quale la stessa Corte, nel 1973 aveva riconosciuto il diritto di interrompere la gravidanza. Una sentenza annunciata da settimane (‘grazie’ alla bozza redatta dal giudice conservatore Samuel Alito finita, non si sa ancora bene come, alla stampa) che ha visto la stessa Corte divisa con 6 voti a favore e 3 contrari.
Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei ‘saggi’ erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Alito che scrive nel dispositivo “La Roe vs Wade è stata sbagliata fin dall’inizio in modo eclatante. Il suo ragionamento – aggiunge – è stato eccezionalmente debole, e la decisione ha avuto conseguenze dannose”.
“Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo” commentano i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer. “Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo” aggiungono. I tre giudici nominati dall’ex presidente Donald Trump hanno invece votato per l’abolizione.
Adesso la decisione spetterà ai singoli Stati che saranno liberi di applicare le loro leggi in materia: in più della metà dei 50 Stati americani l’aborto era considerato reato, in oltre dieci invece era legale sono se costituiva pericolo per la donna, in caso di stupro, incesto o malformazioni fetali. Gli Stati guidati dai governatori repubblicani, e conservatori, sarebbero adesso intenzionati a salvaguardare il diritto alla vita. Quelli governati dai democratici hanno invece anticipato di voler mantenere le legislazioni attuali che consentono l’aborto.
Nello specifico l’aborto potrebbe essere vietato in 22 stati che hanno varato leggi, dette ‘trigger law’ (leggi grilletto) destinate ad entrare in vigore immediatamente dopo la sentenza della Corte Suprema. Per 13 stati – Arkansas, Idaho, Mississippi, Missouri, North Dakota, Kentucky, Louisiana, Oklahoma, South Dakota, Tennessee, Texas, Utah and Wyoming – le leggi prevedono che il divieto entri in vigore praticamente in modo immediato. C’è un altro gruppo di stati – Georgia, Idaho, Iowa, Michigan, South Carolina, Texas, West Virginia, Alabama e Ohio – che anche hanno leggi per mettere al bando l’aborto, ma non entrerebbero in vigore subito. Infine stati come Arkansas, Mississippi e Oklahoma hanno dei divieti sull’interruzione della gravidanza precedenti alla sentenza della Roe, che non vengono applicati da 50 anni.
Per la portavoce della Camera Usa, la democratica Nancy Pelosi, è una decisione “crudele” e “scandalosa“. Duro anche il cinguettio di Barack Obama: “La Corte Suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ma ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno può prendere ai capricci di politici e ideologi: (sono state) attaccate le libertà fondamentali di milioni di americani”.
Visione diversa invece quella dell’ex vicepresidente di Trump, Mike Pence, secondo il quale “la vita ha vinto” e ha esortato tutti a battersi per “la difesa del nascituro e il sostegno alle donne incinte in crisi”. Lo stesso Donald Trump commenta entusiasta. La decisione – secondo l’ex presidente – vuol dire “seguire la Costituzione e restituire i diritti”.
“Giornata storica” per i vescovi cattolici americani. “Questa è una giornata storica nella vita del nostro Paese, che suscita pensieri, emozioni e preghiere. Per quasi cinquant’anni l’America ha applicato una legge ingiusta che ha permesso ad alcuni di decidere se altri possono vivere o morire; questa politica ha provocato la morte di decine di milioni di bambini prenati, generazioni a cui è stato negato il diritto di nascere” commentano gli arcivescovi Josè H. Gomez di Los Angeles, presidente della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (Usccb), e William E. Lori di Baltimora , presidente del Comitato per le attività pro-life.
La “cultura della vita” delle destre è un attacco all’uguaglianza. GIORGIA SERUGHETTI, filosofa, su Il Domani il 28 giugno 2022
Cos’è la “cultura della vita” che le destre, da occidente a oriente, sostengono di difendere dalla minaccia del progressismo dei diritti? Si può parlare di “vita”, quando la sua portata semantica si riduce al tempo breve del principio e della fine, mentre tante “vite”, al plurale, sono rigettate nell’indifferenza?
Nella discussione sul destino del diritto all’aborto negli Stati Uniti, o in Italia, un tema cruciale è il sacrificio di vite di donne, in particolare povere, razzializzate, marginalizzate, che questo fondamentalismo è orientato a provocare.
Resta da chiedersi se il discorso delle destre che oggi teorizzano la personalità del feto, e attaccano per il suo tramite la salute delle donne, sia compatibile con i requisiti di uno stato di diritto democratico.
Cos’è questa cultura che le destre, da occidente a oriente, sostengono di difendere dalla minaccia del progressismo dei diritti? Si può parlare di “vita”, quando la sua portata semantica si riduce al tempo breve del principio e della fine, mentre tante “vite”, al plurale, sono rigettate nell’indifferenza?
Intorno a questo tema oggi si combatte una battaglia epocale. Da una parte ci sono le vite che “non contano” e chiedono di essere viste, ascoltate, protette.
Si pensi ai movimenti femministi contro il femminicidio, allo slogan Black Lives Matter contro la violenza della polizia, o alle molte iniziative di Ong che lavorano per mettere in salvo le vite dei migranti che sfidano la durezza delle frontiere.
Dall’altra, ci sono gli avversari di queste battaglie, che inneggiano alla sacralità della vita, al singolare.
Ora, nella discussione sul destino del diritto all’aborto negli Stati Uniti, o in Italia, è proprio di questo che dovremmo parlare.
VITE SACRIFICATE
Perché porre l’enfasi solo sulla dimensione della scelta individuale rischia di non essere sufficiente nello scenario che l’attivismo antiabortista sta disegnando.
Un tema cruciale è il sacrificio di vite, vite di donne, in particolare di donne povere, razzializzate, marginalizzate, che questo fondamentalismo è orientato a provocare.
A questo proposito la saggista Jia Tolentino, sul New Yorker, ha invitato a rovesciare il senso dello slogan femminista di resistenza «We won’t go back», non torneremo indietro.
È vero, scrive, il futuro non somiglierà al passato che precedette la sentenza Roe v. Wade, ma sarà peggio.
Perché nel frattempo l’accesso ai dati sanitari, i dispositivi di sorveglianza e le possibilità aperte dalle leggi antiabortiste hanno già trasformato la gravidanza in un’esperienza di cui le donne, e qualunque persona presti loro assistenza, rischiano di rispondere penalmente in tutti i casi in cui qualcosa non va per il verso giusto.
«Alcune delle donne che moriranno a causa del divieto di aborto sono incinte proprio adesso.
Le loro morti non saranno causate da procedure clandestine, ma da una silenziosa negazione delle cure: interventi ritardati, desideri disattesi.
Moriranno di infezioni, di pre-eclampsia, di emorragia, mentre saranno costrette a sottoporre i loro corpi a gravidanze che non hanno mai voluto portare avanti».
Al contempo, la paura delle conseguenze finirà per mettere in pericolo persone che vogliono portare a termine la gravidanza ma che incontrano problematiche mediche.
Tutto questo è già realtà in alcuni stati degli Usa. Anche in Italia un’interpretazione distorta dell’obiezione di coscienza mette a rischio la vita delle donne, non solo negando l’interruzione di gravidanza, ma anche negando le cure in casi di complicazioni.
Eppure, se dal 1978 abbiamo una legge, la legge 194, che tutela la facoltà delle donne di scegliere sul proprio corpo, è anche perché la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 27 del 1975, ha fissato un principio fondamentale: «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».
È in base a questa non equivalenza che è possibile difendere, sul piano giuridico e politico, l’interruzione di una gravidanza in circostanze in cui – recita la 194 – «la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica».
Resta da chiedersi quindi se il discorso delle destre politiche e religiose che oggi teorizzano la personalità del feto, e attaccano per il suo tramite la salute delle donne, sia compatibile con i requisiti di uno stato di diritto democratico.
Uno stato in cui sia rispettata e resa effettiva l’uguaglianza tra i generi, in cui tutte le “vite”, al plurale, siano considerate degne di protezione.
GIORGIA SERUGHETTI, filosofa. Giorgia Serughetti è ricercatrice in Filosofia Politica all’Università di Milano-Bicocca. Ha scritto saggi su questioni di genere e teoria politica, con particolare attenzione a fenomeni migratori, sessualità, violenza contro le donne e movimenti femministi.
Il feticismo e le eccezioni. Il dibattito sull’aborto che ignora l’esistenza dei contraccettivi (e dei cattolici). Guia Soncini su L'Inkiesta il 28 Giugno 2022
Va bene, la Corte Suprema americana è sporca, brutta e cattiva. Ma perché Biden non ha realizzato la promessa fatta nel 2019 di una legge federale per regolamentare l’interruzione di gravidanza? Evidentemente perché nessuno si vuole impantanare su questo tema, specialmente in una nazione che ha una Costituzione scritta quando non c’era l'acqua corrente.
Il 4 ottobre del 2019, il Washington Post scrive che la Corte Suprema si accinge a rivedere la legge che regolamenta l’aborto in Louisiana e la possibilità dei medici di spostarsi dall’ospedale in cui operano abitualmente per praticare aborti. Resterebbe a quel punto solo un medico che faccia aborti in tutto lo Stato (neanche fosse il Molise).
Joe Biden è in campagna elettorale (verrà eletto Presidente un mese dopo, il 5 novembre), e il giorno dopo linka l’articolo commentandolo con un tweet che fa così: «Roe v. Wade è una legge della nostra nazione, e dobbiamo combattere ogni tentativo di annullarla. Da Presidente, codificherò Roe in una legge e assicurerò che la scelta si compia tra una donna e il suo medico». Si capisce che è un tweet vecchio dall’uso di «donna», ma non divaghiamo.
Per chi non ha familiarità con l’assurda giurisprudenza statunitense, occorrerà precisare che il tweet non è contraddittorio come sembra. Roe versus Wade è una sentenza che riguarda l’inviolabilità della privacy; in un Paese di common law le sentenze che costituiscono precedente valgono quanto le leggi; senonché era un po’ forzato regolamentare l’aborto in base alla sacralità della privacy, e infatti un bel giorno la Corte Suprema ha detto: ma nella Costituzione mica si parla di aborto.
Il feticismo nei confronti delle costituzioni, se non sei Roberto Benigni, produce disastri. È per quell’inadeguata Costituzione che ci fu l’assalto a Capitol Hill: la Costituzione americana prevede che trascorrano più di due mesi tra l’elezione e l’insediamento del nuovo Presidente, perché nei secoli di carrozze a cavalli in cui è stata scritta quel tempo lì era necessario per raccogliere i voti, contarli, notificare tutto a tutti. E dalla Costituzione americana viene la convinzione che si debba avere il fucile sotto al cuscino, ma non viene una soluzione che sia una ai problemi della contemporaneità: come potrebbe mai fornire chiavi adatte al presente un documento scritto da gente che non aveva l’acqua corrente?
Ma, prima che qualche signorina Silvani sospiri «Ah, pure costituzionalista», vorrei tornare a Biden, che twittava che avrebbe fatto fare una legge federale che regolamentasse l’aborto, e poi nel suo primo anno e mezzo di presidenza neppure ci ha provato – come d’altra parte chiunque prima di lui.
Lui, però, ha una responsabilità in più. L’ha ricordato a quest’epoca senza memoria Maureen Dowd, nel suo editoriale di domenica: se Clarence Thomas divenne giudice della Corte Suprema nonostante le accuse di Anita Hill, è per l’inettitudine di Joe Biden, allora presidente della Commissione Giustizia al Senato degli Stati Uniti, nel condurre le audizioni.
Era trentuno anni fa, e temo che la lezione principale da trarne sia una certa qual mancanza di carattere di Biden, propenso ad assecondare lo spirito del tempo più che a indirizzarlo. Nel 1991 era considerato normale liquidare senza troppe storie le accuse d’una tizia secondo la quale Thomas sul lavoro aveva comportamenti molesti; in questo decennio è considerato normale che il 20 gennaio del 2020, subito dopo aver giurato, il Presidente Biden firmi come prima cosa un’ordinanza esecutiva non per dire che chi ha un utero deve poter abortire se ritiene di farlo, ma per dire che chi ha un pene che però percepisce vagina deve poter utilizzare gli spogliatoi femminili nelle scuole pubbliche.
Clarence Thomas – ve lo dico casomai, come Lilli Gruber l’altra sera quando ha letto l’agenzia che riportava una sua dichiarazione, leggeste il suo nome col tono di chi non l’abbia mai sentito e si chieda se sia un personaggio di Mandalorian – è professionalmente contrario all’applicabilità di Roe v. Wade all’aborto da trent’anni: la prima volta che mise a verbale il proprio dissenso fu in una sentenza del 1992. È una personcina dalle idee progredite che tre anni fa paragonò la contraccezione all’eugenetica, e secondo la quale gli unici diritti garantiti dalla Costituzione sono quelli che erano riconosciuti quando venne ratificata la Carta dei Diritti (cioè: nel 1869).
Insomma: rivuole il tempo di quando sua moglie non aveva diritto di voto (il suffragio femminile negli Stati Uniti esiste dal 1920).
Desiderio che peraltro lo accomuna a molta sinistra americana, giacché la moglie di Thomas mandava messaggi al capo dello staff di Trump incitandolo a non accettare il risultato delle elezioni e a organizzare una rivolta e insomma sarebbe tra le responsabili morali dell’assalto a Capitol Hill – ma non vorrei chiudere troppi cerchi rispetto alle colpe delle costituzioni né diventare di quelle per cui le colpe dei coniugi sono in comunione dei beni. Facciamo già troppe eccezioni alle nostre convinzioni, con gli impresentabili: sui social si portano molto gli insulti razzisti a Thomas, perché se sei nero e di destra i miei neuroni semplicisti non possono farsi una ragione del fatto che sia tuo diritto esistere.
Come in tutte le circostanze che generano isteria, è molto complicato capire cosa sia realistico e cosa sia paranoico, nelle previsioni delle conseguenze di questa decisione. I social – e i giornali che ne riportano le analisi senza alcuno spirito critico – non aiutano: se una tesi viene ripetuta cento volte è perché è fondata o solo perché nessuno l’ha verificata?
Davvero bisogna cancellare le app che tengono traccia dei giorni del ciclo, altrimenti qualche esponente di qualche Stato antiabortista potrebbe accorgersi che a un certo punto non ti venivano le mestruazioni ma non hai mai partorito e incriminarti per aborto clandestino o oltre confine? È un pericolo reale o è come quei picchiatelli convinti che scaricando Immuni sarebbe arrivato qualcuno a prendere nonna infetta per portarla in un lager alla Martesana?
Tutte quelle che scrivono che ora facciamo Lisistrata, ora fine della sessualità, ora voi uomini la patonza ve la scordate, perché noi senza aborto ci ritiriamo dal settore della lussuria, tutte queste militanti di buona volontà perché parlano come se i contraccettivi non esistessero? Ha senso un dibattito sull’aborto che affronta la questione come se la contraccezione fosse ferma a cent’anni fa e Thomas non avesse poi tutti i torti a rimarcare che la Carta dei Diritti non la prevedeva?
Alexandria Ocasio-Cortez, che chiede a Biden di costruire con fondi pubblici cliniche per l’aborto su territorio federale, non ce l’ha un assistente che le dica all’orecchio onorevole, esiste l’emendamento Hyde, è vietato usare fondi federali per l’aborto? O è che l’eccezione all’emendamento Hyde (stupro e incesto) rappresenta una percentuale infinitesimale nella realtà ma enorme nel dibattito: il gran ricatto di noialtri pro-choice è «E allora come la mettiamo con le bambine stuprate», mica evochiamo mai le trentenni che la danno in giro senza precauzioni.
Insomma, è un gran casino, e temo abbia ragione Jamelle Bouie quando scrive sul NYT che il Congresso avrebbe tutti gli strumenti per ridimensionare i poteri della Corte Suprema, ma non li userà perché ai democratici non va per niente di andare a impantanarsi sull’aborto: è pur sempre una cosa che secondo alcuni uccide bambini, e non è affatto detto che quegli alcuni non ci votino.
Non ho ancora letto da nessuna parte una spiegazione convincente di come possa mai, chiacchiere a parte, il cattolico Joe Biden essere a favore della libertà di scelta. Sì, lo so che viviamo nell’epoca in cui trasecoliamo che i cattolici siano cattolici e che il Papa non sia abortista; ma forse toccherà a noialtri recuperare lucidità e spiegarlo agli americani: a noialtri che abbiamo avuto parecchie occasioni per capire che i cattolici, anche se di sinistra, sono innanzitutto cattolici.
Corte Suprema, ora Ocasio-Cortez dà istruzioni su come abortire. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 28 giugno 2022.
La decisione della Corte Suprema Usa di cancellare la sentenza Roe vs Wade, che dal 1973 garantisce su scala federale la facoltà per le donne incinte di praticare l’aborto, ha scatenato la durissima reazione dei progressisti: dall’ex presidente Barack Obama a Hillary Clinton, passando per Planned Parenthood e MoveOn, tutta la galassia dem si è mobilitata. Nel mirino dei liberal sono finiti soprattutto i sei giudici conservatori che hanno votato a favore dell’abolizione della storica sentenza e, in particolare, quelli nominati dall’ex presidente Donald Trump: Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh ed Amy Coney Barrett. La beniamina dei liberal, Alexandria Ocasio-Cortez, è andata oltre, raccontando a un evento sul diritto all’aborto tenutosi venerdì scorso una storia personale incentrata su un’aggressione sessuale subita quando aveva 22 anni e spiegando ai suoi milioni di “follower” come abortire negli stati a guida repubblicana.
Alexandria Ocasio-Cortez all’attacco
La giovane deputata racconta un terribile episodio della sua vita che non era noto al grande pubblico. “Io stessa, quando avevo circa 22 o 23 anni, sono stata violentata mentre vivevo qui a New York City”, ha raccontato all’evento tenutosi presso il City Union Square Park di New York. “Ero completamente sola. Mi sentivo completamente sola. In effetti, mi sentivo così sola che ho dovuto fare un test di gravidanza in un bagno pubblico nel centro di Manhattan. Quando mi sono seduta lì, ad aspettare quale sarebbe stato il risultato, tutto ciò che potevo pensare era: grazie a Dio che ho almeno una scelta”, ha continuato. “Grazie a Dio potevo, almeno, avere la libertà di scegliere il mio destino”. Ha aggiunto: “Allora non sapevo, mentre stavo aspettando, che il risultato sarebbe stato negativo”. La deputata ha lanciato il guanto di sfida ai conservatori: “Dobbiamo iniziare subito a essere implacabili per ripristinare e garantire tutti i nostri diritti qui negli Stati Uniti d’America”, ha esortato durante il suo discorso di venerdì.
“Qui potete abortire”
Fin qui, nulla da eccepire, anzi: massimo rispetto e solidarietà per quello che AOC ha dovuto passare. Il problema arriva dopo, quando Ocasio-Cortez ha voluto spiegare ai suoi seguaci, questa volta sui social, come abortire e “aggirare” così le leggi in vigore negli stati repubblicani: un vero e proprio vademecum che spiega alle donne come abortire, anche se abitano negli stati dove l’aborto è vietato (al momento sono sette, tutti a guida repubblicana). “Io vivo in Texas e ho visto che posso ordinare la pillola online. È sicura”? chiede una follower, riferendosi alla pillola abortiva. “Sì, il mifepristone è un modo sicuro per interrompere una gravidanza prima delle 11 settimane” spiega la deputata, linkando anche il sito planpilss.org dove è possibile richiedere e ordinare la RU-486. Giusto per mettere un po’ di benzina sul fuoco, Ocasio Cortez accusa poi i movimenti pro vita americani di essere “violenti” e di avere una lunga serie di aggressioni alle spalle.
La deputata parla di omicidi, assalti, operazioni di stalking, “cresciuti solo nel 2021 del 128%”. E afferma: “I repubblicani impazziranno quando vedranno la condivisione di queste informazioni”, contribuendo così a infiammare la guerra culturale negli Usa.
E agita lo spettro dell’impeachment
Si può essere o meno d’accordo con la sentenza della Corte Suprema, ma l’atteggiamento della beniamina dei liberal sembra essere tutt’altro che politicamente responsabile. Massimo rispetto e solidarietà per quello che ha subito da giovane, ma dovrebbe ricordare ai suoi giovani follower che abortire, comunque la si pensi, non è certo una passeggiata di salute, in nessun caso. È una scelta drammatica, devastante per ogni donna, che non può essere presa a cuor leggero dopo aver letto un post su Instagram di una giovane politica che vive in maniera ossessiva e quasi ansiogena la popolarità sui social network. Irresponsabilità che si denota anche quando la stessa deputata agita lo spetto dell’impeachment contro i giudici della Corte Suprema solo perché questi ultimi hanno preso una decisione che a lei non piace, passando la palla ai singoli stati.
“Hanno mentito”, ha accusato AOC durante un’intervista rilasciata alla Nbc, aggiungendo che “devono esserci conseguenze per azioni profondamente destabilizzante e una presa di potere ostile delle nostre istituzioni democratiche”. Se queste parole, tutt’altro che accomodanti, le avesse pronunciate Donald Trump, sarebbe stato messo lui stesso sotto impeachment, per l’ennesima volta. Ma poiché a pronunciarle è la paladina dei “diritti” e delle copertine patinate più trendy, allora tutto è consentito.
Arrestata Ocasio Cortez: manifestava a favore dell’aborto. Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.
La parlamentare democratica è stata fermata assieme ad altre 34 persone, tra cui 17 deputate. L’iniziativa di «disobbedienza civile» contro la recente sentenza della Corte Suprema Usa.
La poliziotta ripete l’avvertimento per tre volte: «La vostra è una manifestazione non autorizzata; state bloccando la viabilità, spostatevi o verrete arrestate». L’idea non è dispiaciuta a 17 parlamentari democratiche, tra le quali Alexandria Ocasio-Cortez . Erano alla testa di un piccolo corteo diretto verso l’edificio della Corte Suprema degli Stati Uniti. Una manifestazione contro la decisione che il 24 giugno scorso ha cancellato la sentenza Roe v.Wade e quindi la tutela del diritto di scelta garantito a tutte le donne americane dal 1973.
Una una scossa alla politica americana. Ma la maggioranza democratica che controlla i due rami del Congresso non è in grado di rimediare con una legge. Non ci sono i numeri per scardinare l’ostruzionismo repubblicano al Senato. L’ala più radicale del partito, allora, ha deciso di dare visibilità alla protesta, fino ad arrivare alla provocazione. Ad animare l’iniziativa c’erano le quattro star della cosiddetta «Squad», la Squadra. Oltre a Ocasio-Cortez, ecco Ilhan Omar, Ayanna Pressley e Rashida Tlaib. Nel gruppo anche deputate di lungo corso, come la californiana Jackie Speier. Sono uscite a metà pomeriggio da Capitol Hill, marciando e gridando slogan con le attiviste: «Noi non ci tireremo indietro».
La polizia le ha seguite con discrezione, fino a quando il gruppone non si è fermato in un incrocio critico sul versante che porta alla Stazione. Ma dopo il richiamo a spostarsi, diverse manifestanti si sono sedute sull’asfalto. A quel punto sono scattati gli arresti. Al posto delle manette metalliche, sono state usate le fascette di plastica. Le immagini mostrano Ocasio-Cortez che saluta con il pugno chiuso, prima di essere bloccata con le mani dietro la schiena. Dovrebbero essere trattenute per poche ore. Prima di essere rilasciate, saranno però multate.
Usa, Alexandria Ocasio Cortez e altre 16 parlamentari democratiche arrestate durante protesta per l'aborto. La manifestazione era una delle tante iniziative in difesa del diritto costituzionale all'interruzione di gravidanza, negato dalla Corte suprema. La Repubblica il 20 Luglio 2022.
Diciassette parlamentari democratiche, fra le quali Alexandria Ocasio-Cortez e Ilhan Omar, sono state arrestate nel corso di una manifestazione in favore dell'aborto a Washington, non lontano dalla Corte suprema e da Capitol Hill.
"Abbiamo arrestato un totale di 35 persone, tra le quali 17 componenti del Congresso" perché dopo che era stato loro intimato tre volte di disperdersi "si sono rifiutate di sgomberare la strada", ha riferito la polizia.
Ilhan Omar, come Ocasio-Cortez esponente dell'ala radicale del Partito democratico, ha scritto sui social di essere stata fermata durante "un'azione di disobbedienza civile". "Farò tutto quello che posso per suonare l'allarme sull'attacco ai nostri diritti riproduttivi", ha aggiunto.
Ocasio-Cortez ha postato un video in cui si vede un poliziotto che la fa allontanare dalla strada di fronte alla Corte suprema. La stessa strada in cui decine di migliaia di persone si erano radunate nelle ore e nei giorni immediatamente successivi alla sentenza con cui il 24 giugno la Corte suprema statunitense ha negato il diritto costituzionale all'interruzione di gravidanza rimandando ai singoli Stati la regolamentazione della materia. Una decisione che ha scatenato uno scontro politico di grande portata, nei palazzi del potere e nelle piazze.
In questa situazione l'amministrazione Biden sta valutando di dichiarare un'emergenza sanitaria "limitata" per difendere l'aborto e in particolare l'accesso alle pillole abortive.
Aborto negli Usa: la battaglia si sposta negli Stati. Simona Iacobellis su Inside Over il 28 giugno 2022.
Dopo la decisione della Corte Suprema di annullare la sentenza Roe v. Wade, eliminando così il diritto all‘aborto a livello nazionale, i singoli Stati si sono armati per una battaglia a suon di leggi e cause legali. Da un lato i conservatori, che coinvolgono circa metà degli Stati, intenti a minare la libertà di aborto; dall’altro i liberali, pronti a contrastarli per preservare i diritti riproduttivi.
I sostenitori dei diritti all’aborto si sono scatenati in vari Stati, come Texas, Louisiana, Mississippi. I casi più interessanti sono quelli della Louisiana e dello Utah: lunedì i giudici hanno temporaneamente bloccato l’applicazione di leggi che avrebbero vietato l’aborto. La strategia per preservare i diritti in questione prevede la richiesta ai tribunali di ingiunzioni temporanee che diano la possibilità di praticare l’aborto nel breve termine.
Ma facciamo un passo indietro. Negli anni passati, in tredici Stati americani, tra cui i due appena citati, erano state approvate le cosiddette “trigger laws”. Si trattava di leggi che sarebbero entrate in scena proprio nel preciso istante in cui la Corte Suprema avesse preso l’azzardata decisione di eliminare il diritto all’aborto, vietandone quindi la pratica negli Stati che avevano aderito. Ed è ciò che è accaduto lo scorso venerdì. In molti di questi Stati le leggi sono così rigide da vietare l’aborto anche in caso di stupro o incesto. Per qualche Stato, l’eliminazione del diritto costituzionale ha addirittura riesumato leggi antiabortiste dei primi del Novecento, definite “zombie laws”.
La repentina applicazione delle “trigger laws” ha dato il via a battaglie legali per bloccarle. Il giudice Andrew Stone, del terzo distretto congressuale dello Stato dello Utah, ha accolto una richiesta presentata dall’organizzazione Planned Parenthood, sospendendo temporaneamente l’entrata in vigore di una legge per criminalizzare l’aborto. Il tribunale è riuscito a bloccare la legge per soli quattordici giorni, attendendo le argomentazioni delle parti. In questo breve periodo gli aborti possono essere temporaneamente praticati. Anche in Louisiana gli aborti saranno possibili nell’attesa di una sentenza, prevista per l’8 luglio.
“La sentenza della Corte Suprema è stata devastante e terrificante per i nostri pazienti e operatori sanitari, ma almeno per ora, gli Utah saranno in grado di ottenere le cure di cui hanno bisogno”, ha dichiarato Karrie Galloway, presidente della Planned Parenthood Association of Utah. “Oggi è una vittoria, ma è solo il primo passo di quella che sarà senza dubbio una lotta lunga e difficile”.
Un altro caso degno di menzione è quello della California. La super maggioranza, consistente nei due terzi dell’Assemblea dei legislatori statali (di cui molti democratici), ha approvato un emendamento costituzionale per proteggere il diritto all’aborto, nel tentativo di modificare la Costituzione dello Stato e rendere permanenti i diritti. L’emendamento verrà sottoposto al giudizio dei cittadini durante le votazioni di novembre per il rinnovo del Congresso. Gli elettori potranno così esporsi sui diritti alla contraccezione e all’aborto, senza che il diritto sia più basato sulla privacy. Toni Atkins, presidente pro tempore del Senato, ha spiegato che il testo stabilisce “in modo innegabilmente chiaro che in California l’aborto e la contraccezione sono una questione privata tra il paziente e il medico”, proteggendo anche da eventuali denunce donne e medici.
L’iniziativa elettorale prevede che lo Stato “non neghi o interferisca con la libertà riproduttiva di un individuo nelle sue decisioni più intime, che includono il suo diritto fondamentale di scegliere di abortire e il suo diritto fondamentale di scegliere o rifiutare i contraccettivi”.
I sostenitori invece…
La lotta ha preso piede anche in quegli Stati che cercano di vietare l’aborto. In Mississippi, ad esempio, il procuratore generale ha riconosciuto ufficialmente la sentenza della Corte Suprema, dando un margine di tempo di dieci giorni, trascorsi i quali quasi tutti gli aborti saranno vietati.
In Indiana, invece, il procuratore generale ha chiesto ai tribunali di approvare diverse leggi, tra cui quella che vieta gli aborti per motivi di razza, sesso o disabilità. Il procuratore Todd Rokita ha dichiarato: “Credo nella costruzione di una cultura della vita in Indiana. Questo significa proteggere la vita dei bambini non ancora nati e salvaguardare il benessere fisico, mentale ed emotivo delle loro madri”.
Nella giornata di lunedì i procuratori generali di ventuno Stati, tra cui New Messico, Nord Carolina e Minnesota, e del Distretto di Columbia hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che mirava a rassicurare le pazienti che si trovavano fuori dallo Stato, assicurando che avrebbero protetto il loro accesso all’aborto. È infatti previsto un maggior numero di pazienti provenienti dagli Stati vicini che vietano la pratica. La dichiarazione congiunta è stata una risposta alla richiesta al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di altri diciannove Stati, tra cui Florida, Ohio e Texas, di proteggere le organizzazioni anti-aborto dalla violenza.
Nel Sud Carolina un giudice federale si sta impegnando per far rispettare la sua legge, che vieta l’aborto dal momento in cui viene rilevato un battito cardiaco fetale. L’aborto è previsto solo in casi di stupro o incesto, a patto che il feto non abbia più di venti settimane, e nei casi in cui sia l’unico modo per salvare la vita della madre.
I divieti statali avviati da legislatori conservatori, come in Ohio dove l’aborto è stato vietato dopo sei settimane di gravidanza, sono stati contestati da città liberali come Cincinnati, che sta prendendo provvedimenti per cambiare il piano sanitario della città e rimborsare i viaggi per motivi legati all’aborto. E come ha twittato il sindaco Aftab Pureval, “non è mio compito rendere più facile per il legislatore e il governatore dello Stato trascinare le donne indietro negli anni Cinquanta e privarle dei loro diritti. Il mio compito è quello di renderlo più difficile”.
Le sfide giudiziarie ai divieti di aborto si sono poi focalizzate sulle costituzioni statali, soprattutto quelle in cui è incorporato il diritto alla privacy, come ad esempio in Arizona, California e Louisiana.
Nel ventunesimo secolo, solo Stati Uniti, Polonia e Nicaragua sono stati in grado di emanare leggi più restrittive degli altri paesi. Questo punto appena raggiunto, però, non può essere definito d’arrivo, poiché presumibilmente mette le basi per possibili ulteriori limitazioni di altri diritti, tra cui la protezione delle minoranze razziali ed etniche.
Come ha affermato Adam Serwer dell’Atlantic, “la Corte Suprema è diventata un’istituzione il cui ruolo principale è quello di imporre una visione di destra della società americana al resto del Paese”. Il punto, ora, è capire fin dove si spingerà.
C’è una chiesa in Texas che aiuta le donne che vogliono abortire. La “First Unitarian Church of Dallas” opera nello stato più conservatore degli Usa. Nel 73 è stata all’origine della celebre Roe vs Wade, oggi torna in prima linea. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 29 giugno 2022.
Uno pensa alle comunità religiose negli Stati Uniti e si immagina subito i cortei di fanatici pro life, le crociate contro i diritti civili, il fondamentalismo veterotestamentario delle chiese evangeliche con i loro accoliti born again Christian, il cuore pulsante della Bible belt che ancora oggi sembra incompatibile con i principi della laicità e della separazione tra Stato e religione, tra leggi terrene e valori trascendenti. E, naturalmente, pensa al lungo sodalizio con la destra politica che da Ronald Reagan a Donald Trump, passando per Bush padre e figlio, ha concesso loro visibilità e una grande influenza sulle questioni di società.
Se la Corte suprema ha deciso di abolire la Roe vs Wade calando un mantello proibizionista sulla libertà di abortire è perché ha piena cognizione di questa spinta popolare che forse non rappresenta la maggioranza cittadini statunitensi ma che legittima la brutale guerra ai diritti civili sferrata dai giudici conservatori. Giù sono pronte in tal senso le offensive contro la contraccezione e i matrimoni tra persone dello stesso sesso annunciate in un’intervista dal giudice Clarence Thomas. Ma i cristiani d’oltreoceano non sono certo tutti degli integralisti violenti e dei nemici delle libertà individuali. Questo anche a livello di confraternite.
Prendiamo, per esempio, la First Unitarian Church of Dallas che opera nello Stato senza dubbio più conservatore dell’Unione, storica roccaforte del partito repubblicano: il Texas. Da anni i suoi volontari aiutano materialmente le donne che non possono interrompere la gravidanza a causa delle leggi ultrarestrittive, spesso accompagnandole in altri Stati come il New Mexico. Lo fanno da oltre quarant’ anni, e non è un caso che la First Unitarian Church of Dallas sia all’origine della Roe vs Wade, avendo rappresentato nel 1973 i diritti di Jane Roe (il vero nome era Norma Leah McCorvey) nel suo ricorso all’alta Corte che poi diede luogo alla storica sentenza. Da qualche anno erano attivissimo nella rete Clergy Consultation Service on Abortion, fondata a New York nel 1967 dai pastori protestanti metodisti di Washington square e un gruppo di rabbini di cultura liberal. Una strana creatura, figlia della travolgente stagione dei diritti che ha squadernato la società americana anche nella variegata galassia religiosa partorendo sorprendenti sincretismi. Come il Religious Coalition for Reproductive Choice nato all’inizio degli anni 70 : «Cristo è vicino alle persone vulnerabili, in particolare agli emarginati dal sistema e dalle ineguaglianze, Cristo non è un giudice», spiega l’attuale direttrice Katey Zeh, pastora battista.
Per gli adepti della First Unitarian Church, che si ispira apertamente all’ “universalismo unitario” e appartiene a una congregazione fondata in Canada, il diritto di scelta della donna prevale sui moniti della Bibbia che considera l’aborto un omicidio, ma anche sui dilemmi etici che ne derivano, in quanto la donna è la prima vittima di un aborto e sarebbe assurdo paragonarla a un’assassina. Inoltre la possibilità di interrompere la gravidanza in sicurezza evita il barbaro mercato nero degli aborti clandestini una piaga che combatte dalla fine degli anni 60. Antiproibizionista e ovviamente contraria alla pena di morte.
È soprattutto una chiesa sociale, molto presente sul territorio, che offre assistenza concreta a tutti, che spesso sostituisce il welfare minimalista statunitense, fornendo ricoveri e cibo ai senza tetto, occasioni di lavoro ai disoccupati e, appunto, aiuto legale e sanitario alle donne delle classi popolari, quasi tutte afroamericane o ispaniche, molte di loro vittime di violenza sessuale. Riescono a farlo da decenni grazie a una fitta rete di donatori pro choice di diversa estrazione religiosa, l’unico requisito per ottenere servizi è essere al di sotto della soglia di povertà. «Noi facilitiamo solamente l’accesso a strutture mediche sicure a donne in gravi difficoltà, non incoraggiamo nessuno ad abortire e non facciamo propaganda, si tratta di una scelta individuale che appartiene solo alla donna», spiega il reverendo Daniel Kanter Senior minister della First Unitarian Church in un’intervista alla britannica Bbc. Venerdì notte, poche ore dopo la sentenza della Corte suprema centinaia di fedeli si sono riuniti a Dallas per pregare e per «trovare la forza di continuare la missione anche se nel prossimo futuro molti Stati vieteranno il diritto ad abortire o lo renderanno impossibile», racconta Kanter.
Ma l’attivismo della First Unitarian Church e la rete di cui fa parte rappresentano solo un piccolo segmento dei cristiani americani, in larga parte ostili ai diritti civili e alla separazione tra Stato e Chiesa. Secondo un recente sondaggio realizzato dal Pew Review Center tre protestanti bianchi su quattro considerano l’aborto un omicidio “in ogni caso” e vorrebbero che fosse illegale in tutto il territorio federale. Ma queste cifre cambiano in modo notevole se consideriamo i protestanti afroamericani (una comunità molto più colpita dal dramma delle gravidanze in giovanissima età) le proporzioni si ribaltano e persino tra i bianchi non evangelici la maggioranza è favorevole alla legge che autorizza l’interruzione di gravidanza.
Da billboard.it il 28 giugno 2022.
Madonna si è divertita molto a festeggiare il New York Pride lo scorso giovedì 23 giugno. Ma è rimasta inorridita il giorno dopo, quando ha visto la notizia che la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva annullato la sentenza Roe v. Wade.
«Mi sono svegliata con la terrificante notizia che la Roe v Wade è stata ribaltata e che la legislazione ha deciso che non abbiamo più diritti come donne sui nostri corpi». Questo quanto ha scritto l’icona pop in un post su Instagram domenica 26 giugno con alcune foto condivise. «Questa decisione ha gettato me e ogni altra donna in questo Paese in una profonda disperazione».
Madonna ha proseguito «ora la Corte Suprema ha deciso che i diritti delle donne non sono più diritti costituzionali. In realtà abbiamo meno diritti di una pistola».
«Ho paura per le mie figlie» ha detto la star. «Ho paura per tutte le donne d’America. Sono veramente spaventata».
«Credo che Dio abbia messo questo sulle nostre spalle proprio ora perché sapeva che eravamo abbastanza forti da sopportare il peso» ha scritto Madonna. «Abbastanza forti da lottare! Abbastanza forti da superare. E così noi supereremo! Troveremo un modo per far diventare legge federale la protezione dei diritti all’aborto! Signore siete pronte a combattere?».
Madonna fa parte di una lista di innumerevoli artisti che da venerdì hanno espresso sui social media la loro opinione sulla preoccupante decisione della Corte Suprema. Durante vari concerti, musicisti come Olivia Rodrigo, Megan Thee Stallion, Phoebe Bridgers, Billie Joe Armstrong e Billie Eilish si sono rivolti al pubblico nel fine settimana. Olivia Rodrigo ha dedicato il brano di Lily Allen F**k You alla Corte Suprema, mentre Billie Joe Armstrong ha dichiarato di voler rinunciare alla cittadinanza statunitense.
Spot vs. messa. Note paradossali per quelli che festeggiano la sentenza americana sull’aborto. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 27 Giugno 2022.La scelta dei giudici di Washington potrebbe contaminare campi contigui della moralità in decadenza, tra insegnamento bacchettone della Chiesa e pubblicità morbose in televisione (ma meglio di no!)
Siccome c’è caso che non si capisca immediatamente, chiarisco: sto scherzando.
Tanto premesso, così il direttore è tranquillo, dico che l’aria fresca che vien dagli Stati Uniti, quella che secondo l’immagine di qualche cristiano nazionale contribuirà qui da noi a far pulizia dell’impunitismo in materia di aborto, e che secondo l’antiabortismo cavilloso spira da un innocuo ripristino dell’originaria giuridicità nordamericana, potrebbe favorevolmente contaminare campi contigui della moralità in decadenza.
Mi riferisco al fenomeno, ormai quotidianamente pervasivo, degli spot pubblicitari – dal prodotto per spolverare casa allo strumento assicurativo, dal dessert al viaggio organizzato – che rammostrano, a volte persino in atteggiamenti d’intimità, coppie omosessuali. Si tratta di un pernicioso tentativo di delegittimazione della famiglia naturale, e della promozione di un modello sociale, di convivenza e delle relazioni personali che urta in modo plateale le fondamenta della civiltà cattolica. L’insegnamento della Chiesa, secondo cui l’omosessualità rappresenta alternativamente o cumulativamente una manifestazione morbosa o un segnale di grave disordine morale, e in ogni caso una degradazione peccaminosa meritevole di sanzione e correzione, è esposto a un gravissimo pericolo di diluizione se non è impugnato da chi di dovere per denunciare l’intollerabilità di questo andazzo di perversione.
Deve essere posto rimedio al disorientamento dei figli d’Italia, esposti in modo contraddittorio al messaggio parrocchiale che illustra i tratti patologici dell’omosessualità e a quello maleficamente suadente della pubblicità che invece la equipara al modello legittimo dell’accoppiamento. E a porvi rimedio deve essere la Chiesa in un ritrovato senso apostolare che la smetta una buona volta di esercitarsi nella ridotta della messa senza quorum e nelle ritualità stanche delle feste obbligate. Se pure fosse una battaglia perduta, la Chiesa dovrebbe intervenire con il vigore che a essa non manca per riaffermare in modo più netto, e ovunque abbia modo di farsi sentire, che la famiglia, cellula connettiva della nostra comunità valoriale, trova nella legittimazione pubblicitaria della patologia omosessuale il più grave motivo di affronto e la più efficiente causa di disgregazione.
Chi educa i propri figli all’insegnamento cattolico ha il diritto di pretendere che la Chiesa non si vergogni nel reclamare ciò su cui fa dottrina: e cioè la necessità di proteggere la società dal peccato e dalla turba omosessuale. E se il maligno è tanto ficcante da essersi insinuato nella réclame dei surgelati e delle offerte telefoniche, ebbene è anche da lì, o forse soprattutto da lì, che bisogna cominciare. E chissà, appunto, che la notizia statunitense non aiuti. Un po’ d’aria fresca a spazzar via la mistificazione mercatista, e finalmente un po’ di verità sul fatto che la donna che abortisce è un’assassina e il frocio è un malato.
E a questo punto tocca il P.S. per ripetere che no, non penso che gli omosessuali siano malati e non penso che le pubblicità con le coppie omosessuali attentino alla sacralità della famiglia fondata sul matrimonio. Così l’articolo è rovinato ma Rocca torna tranquillo.
Libertà va raschiando. Confessioni di un’abortista che si è stancata della narrazione dolente dell’aborto. Guia Soncini su L'Inkiesta il 29 Giugno 2022.
Gli editoriali sui quotidiani, la paura delle riviste femminili e un’intervista di Marina Abramovic sulle sue tre interruzioni di gravidanza. Gli appunti di un maschio mancato che ama il conflitto e della sua recente infedeltà pubblicistica all’ideologia del raschiamento
Niente racconta la mia parabola ideologica – dalla giovinezza alla pigrizia – come le (mie) reazioni alla pubblicistica sull’aborto. Oddio, «giovinezza»: all’altezza del primo aneddoto avevo trentasei anni.
Nell’autunno del 2008 smisi sdegnata di scrivere per un quotidiano col quale avevo iniziato da pochissimo a collaborare perché pubblicarono un articolo che esprimeva dei dubbi verso la libertà d’abortire. Un articolo altrui. Ero così invasata rispetto all’ideologia del raschiamento che m’importava perfino degli articoli altrui.
Nell’estate del 2016 avevo quarantatré anni, e Marina Abramović dichiarò d’aver abortito tre volte. Giacché, trascrivo dai miei appunti d’epoca, l’arte è una questione totalizzante e non lascia il tempo di cambiare i pannolini. Avevo una rubrica su un femminile – ho avuto rubriche sui giornali femminili per la più parte della mia vita lavorativa – e commentai quest’episodio.
Nel pezzo che inviai, all’inizio di agosto, a una vicedirettrice che voleva solo chiudere le pagine e andare al mare, c’era scritto: «Marina Abramović ha 68 anni e, in un’intervista a un giornale tedesco, ha detto di aver abortito tre volte (un numero abbastanza normale, in un’intera vita riproduttiva)».
A questo punto dobbiamo mettere in pausa l’illuminazione sul mio rammollimento ideologico per dare spazio a un’illuminazione sul perché le donne guadagnino meno degli uomini. Sì, il patriarcato, il lavoro di cura gratuito, le gravidanze, la rava, la fava: tutte ragioni minoritarie. Principalmente, le donne guadagnano meno perché sono terrorizzate dal conflitto.
Lo sa chiunque abbia avuto a che fare con le riviste femminili, scritte da donne, redatte da donne, dirette da donne; da donne che hanno figli o non ne hanno, si vestono bene o male, sanno l’italiano o più spesso non lo sanno, ma tutte inderogabilmente hanno una cosa in comune: paura della loro ombra.
Ho avuto parecchie direttrici e parecchie vicedirettrici, e tutte quando intravedevano il rischio del conflitto – conflitto rappresentato anche solo da una mail di protesta – ne erano terrorizzate (per fortuna i femminili tendenzialmente non fanno scoop, altrimenti alla prima smentita ci sarebbero attacchi di panico nelle redazioni); ma, poiché avevano paura della loro stessa ombra, il loro terrore non si limitava al conflitto col pubblico, ma anche a quello con la collaboratrice cui dovevano dire «questo lo tagli sennò le lettrici chi le sente». La soluzione era sempre un piano più su. Se parlavi con la vicedirettrice, ti diceva che lei te l’avrebbe lasciato scrivere, ma sai com’è la direttrice. Se a dirti di no era la direttrice, spiegava che fosse stato per lei liberissima, ma l’editore non vuole. Può gente che non sa dire a una collaboratrice di non rompere i coglioni saper ottenere un aumento?
L’estate del 2016 non fece eccezione. La vicedirettrice mi disse che le redattrici le avevano chiesto di farmi tagliare quella parentesi perché «sono tutte madri». Siccome le redattrici hanno dei figli, tu non puoi scrivere nella tua rubrica che abortire tre volte in una vita è normale. Da qualche parte i trattati di logica stavano piangendo.
Ne seguì un carteggio che, sei estati dopo, ho riletto strozzandomi dal ridere. Seguono stralci.
Soncini: «Di adulte che non abbiano abortito due o tre volte conosco solo cielline e lesbiche».
Vicedirettrice: «Che lo dica lei è un fatto, che lo avalliamo noi-tu è troppo».
Soncini: «“Dovete lasciarci l’aborto perché fa schifo anche a noi e lo useremo con moderazione”, l’aborto legale come i 70 grammi di pasta integrale, dai».
Vicedirettrice: «Le nostre lettrici non sono così avanti. E non ho tempo di rispondere a una valanga di lettere di protesta».
Soncini: «Prima o poi toccherà svelarti una sconvolgente verità, cioè che se non ti arrivano lettere di protesta vuol dire che non scrivi niente d’interessante e che nessuno ti legge».
A quel punto i social esistevano da quasi un decennio, tutti avevano la mail sul telefono, tutti smaniavano per notificarti la loro opinione, e valeva quel che vale adesso: se nessuno si offende, nessuno ti ha letto. Non sono mai riuscita a farlo capire a nessuna direttrice di femminile con cui abbia collaborato, e infatti sono andati tutti in rovina: hanno scambiato il silenzio per assenso invece che per disinteresse per giornali fatti con accurata assenza di personalità.
Ma non è di loro che stavamo parlando, bensì di me. Di me che a un certo punto di questo carteggio ho pensato che non me ne fregava più abbastanza dell’aborto da sbattermi a difendere l’esistenza di quella parentesi in un articolo che cominciava così: «Una volta Simone de Beauvoir, all’insinuazione che scrivesse libri perché non era riuscita ad avere figli, rispose con un’ovvietà: non sarà che fate dei figli perché non siete capaci di scriver dei libri? […] Simone de Beauvoir è morta nel 1986: ha quindi vissuto in quel lussuoso secolo in cui, se un’intellettuale diceva qualcosa sul mondo, poi al massimo doveva risponderne ad altri intellettuali, non a chiunque si annoi in ufficio e si metta a scrivere i propri pensierini su Facebook».
Della me quarantatreenne che pensò a quella povera crista in un open space periferico milanese invece che in coda per il mare, e disse ma sì, taglia la parentesi, senza neanche rompere troppo i coglioni sull’assurda idea d’affidare una rubrica d’opinione a qualcuna per poi sottoporre le sue opinioni a referendum confermativo redazionale (allora tanto valeva chiedere alle commentatrici di Facebook cosa ne pensassero).
Non stavamo parlando della sinistra italiana, che non si sbatte per migliorare la 194, una legge ostaggio d’una truffa quale l’obiezione di coscienza. Non stavamo parlando della sinistra americana, che non si sbatte per avere diritti sanitari (uno solo dei quali è quello all’aborto). Stavamo parlando di me – un maschio mancato al quale il conflitto è sempre piaciuto moltissimo – che molto prima della menopausa m’ero già stufata di dover litigare sull’aborto.
E di come passino quelle piccole vittorie che sono il racconto dolente dell’aborto, il racconto dell’aborto come eccezione, e tutto ciò che contribuisce a renderlo l’unico diritto della cui utilizzazione ci si scusa; insistendo implacabili per decenni, non tenendo conto d’obiezioni logiche o altro, col metodo che mia nonna attribuiva a me: tu la gente la pigli per stanchezza.
A Gilead, a Gilead! Anche sull’aborto noialtri intelligenti siamo molto stupidi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Giugno 2022
Pur pensando che essere incinte sia un’invalidità, e perfino dopo aver sbirciato un paio di talk show italiani sul tema, riesco ancora a capire che le donne americane che festeggiano la decisione della Corte Suprema non gioiscono perché viene negato loro un diritto, ma perché sono convinte che si metta fine a un crimine.
Riesco a immaginare solo un’invalidità più insopportabile, una tragedia più abissale, uno stato più atroce dell’essere incinta, ed è: essere incinta senza aver desiderato d’esserlo. È una delle ragioni per cui le sciatte militanti che in questi anni hanno scomodato Gilead per ogni fischio per strada sono imperdonabili: a che serve la potenza della letteratura che evoca donne incinte per imposizione se poi, quando arriva il momento in cui in alcuni degli Stati Uniti non si può più abortire per nessuna ragione, quei personaggi di fantasia non puoi più citarli perché “Il racconto dell’ancella” è consunto dalle similitudini a casaccio?
In cima alla pagina di The Cut, la sezione femminile del New York Magazine, c’è l’occhiello «Life after Roe», la vita dopo che la Corte Suprema ha deciso che la sentenza Roe vs. Wade non attiene all’aborto, non essendo l’aborto citato in una Costituzione scritta nel Settecento (ma tu pensa), e non tutelando quindi quella sentenza, come fin qui ritenuto, il diritto all’interruzione di gravidanza. Prima dell’articolo c’è un avviso. Fa così: abbiamo rimosso il paywall da questa e altre storie sulla possibilità di abortire. Certo che è importante dare informazioni sulle questioni urgenti (e se non lo è liberarti d’una gravidanza che non vuoi, non saprei che definizione dare di «urgenza»), ma magari un articolo che ti dice che non devi credere a TikTok, il bidet con la Coca Cola non fa abortire, dovremmo averlo superato a dodici anni, che è l’età alla quale leggevo le smentite di queste leggende su Cioè. Sto per compierne cinquanta, e la demolizione delle leggende abbiamo cominciato a chiamarla debunking, e non pensiamo si smetta d’averne bisogno dopo le scuole medie.
Lo so, questa cosa d’aver detto «sezione femminile» fa di me una retrograda. Anche le persone trans e non binarie possono aver bisogno d’un aborto, possono mestruare, possono amare: sono tali e quali a noi, noi normali. Ma cosa volete ne sappia io, che ogni volta che sento «non binario» ho il riempimento automatico di «triste e solitario».
Dunque è andata così: Barack Obama ha avuto una maggioranza mai vista e non l’ha usata per fare una legge federale che regolamentasse l’aborto; a seconda di chi siano tifosi, gli studiosi di leggi americane ti dicono che non l’ha fatto perché il precedente d’una sentenza che s’appoggia alla Costituzione è più forte d’una legge federale e non c’era ragione di pensare decadesse, o che non l’ha fatto come non ha fatto mille altre cose, tra cui i nuovi giudici della Corte Suprema. Le militanti strepitano perché Donald Trump ne ha fatti tre, e non s’accorgono mai mai mai che stanno dicendo: è stato più bravo. Chi vuol far vedere che ha spirito critico dice: eh, certo, è un po’ colpa di Ruth Bader Ginsburg che si sarebbe dovuta dimettere a Obama in forze, permettendogli di metterci un altro giudice abortista. Ma chi la doveva convincere a dimettersi, RBG, io? Se Obama fosse stato bravo a fare il presidente quanto a venire bene in foto, chissà dove saremmo.
L’altra sera alla tv italiana sono andati in onda quelli che mi sono sembrati i quaranta minuti di tv più incredibili di tutti i tempi, ma probabilmente è il livello medio dei talk show e sono io che non sono abituata a guardarli. A osservare senza neanche troppa attenzione, si vedeva in controluce la costruzione del disastro. Una puntata preparata con un parterre di ospiti televisivi abituali, di quelli ritenuti in grado di parlare di Ucraina e di PNRR, dell’afa e della pandemia. Poi, nel pomeriggio, la notizia: in America è saltato per aria il fragile escamotage su cui si basava la possibilità di abortire. Mica vorrai smontare il parterre. Aggiungiamo due donne, ché l’aborto è cosa di donne, due con utero e che sappiano anche quattro cose sul tema. Ma quaranta minuti cinque ospiti? Ma figuriamoci: alle due in quota competenza facciamo una domanda e poi le congediamo.
Quando la conduttrice, dopo averle fatte parlare trenta secondi l’una, manifestando una certa qual insofferenza per ventinove dei trenta secondi, dice «so che ci dovete lasciare», la regia si guarda bene dall’inquadrarle, acciocché non si veda il labiale «no veramente noi potremmo pure restare». Se inquadrassero le due che conoscono il tema mentre vengono congedate per proseguire la discussione sul tema con gente che di solito parla di scissione dei Cinque stelle, vedremmo probabilmente due emule di Valeria Parrella allo Strega, quando la congedarono per parlare di MeToo: «E lei ne vuole parlare con Augias? Auguri».
L’omaggio a quel grandissimo momento di televisione può quindi proseguire con gli abituali turnisti del circo, uno dei quali – d’un quotidiano di destra – dice delle cose ovvie per un conservatore ma le dice come le dicono le macchiette televisive italiane: risultando insopportabile. Perdipiù la conduttrice, che è in modalità in-quanto-donna e quindi deve dire che l’aborto è un diritto inalienabile, è così maldisposta nei suoi confronti che la regia non osa inquadrarlo, e quindi quello diventa una voce dall’indefinito del suo bravo collegamento mentre tengono fisso il primo piano della conduttrice che sbuffa. Quando ero giovane e fertile queste trasmissioni esistevano per diventare Blob, ora probabilmente per diventare meme.
La stessa sera, sulla Hbo andava in onda il talk migliore del mondo, quello di Bill Maher. Era ospite Andrew Sullivan, che esprimeva gli stessi concetti del conservatore italiano ma come li esprime uno alfabetizzato, e spiegava bene l’assurdità dell’Italia che si scalda sulla regolamentazione dell’aborto americano, pur senza nominarci mai.
La sinistra americana è scandalizzata perché i primi interventi di riduzione della possibilità di abortire (in Florida, per esempio) hanno abbassato il termine da sei mesi a meno di quattro (quindici settimane). Gli americani non sanno talmente mai niente che il primo che studia due schede da sussidiario su quel che accade fuori dagli Stati Uniti pare subito un genio. Sullivan (che è inglese, inserire qui la battuta di Hamilton sugli immigrati sui quali contare per un lavoro ben fatto) fa presente che in mezza Europa il termine è a dodici settimane (anche in Italia).
Una giornalista ospite interviene dicendo sì, ma lì hanno la sanità pubblica. Già, ragazza: qui in dodici settimane, non potendo per legge abortire nel privato, devi anche fare in tempo a trovare un non obiettore nel pubblico. Ha tentato di spiegarlo Chiara Lalli a Lilli Gruber, ma alla Gruber «Molise» sembrava meno chic di «Florida» e quindi l’ha interrotta come stesse andando fuori tema. (Dovendo scegliere un modello, suggerirei l’Inghilterra: sanità pubblica, e termine a sei mesi).
Ci sarebbe poi anche da parlare della questione «come osano parlarne gli uomini» o, come dicono quelli cui piace citare in inglese, «no uterus no opinion». La giornalista ospite da Bill Maher è lesbica: l’utero inutilizzato ha comunque diritto a opinioni? E, se pensi che quella che abortisce ammazzi qualcuno, non hai non solo il diritto ma forse pure il dovere d’intervenire, anche se un utero non ce l’hai?
Com’è possibile che da questo lato delle cose – quello in cui abortire pare non solo un diritto ma addirittura un dovere, e quella fuori legge dovrebbe essere la gravidanza portata a termine – non riusciamo ad avere argomentazioni adulte, e a capire che una questione etica che per qualcuno (anche per molti di quelli che cianciano di «dramma morale» sperando così diventi più accettabile) non è niente, e per altri è assassinio, non la risolvi fingendo che le donne siano tutte da questo lato della questione?
Certo che più o meno tutte le donne hanno l’handicap di rischiare di restare incinte a ogni rapporto sessuale per metà della loro vita, e che questa disgrazia richiederebbe una pensione d’invalidità universale, e che l’idea che se resti incinta tu debba tenertelo è distopica e inaccettabile per molte di noi. Ma ci sono pure quelle che pensano che farti aspirare un embrione o un feto sia un omicidio, e rispetto all’omicidio hanno problemi di coscienza: avere un utero non basta neanche ad avere tutte la stessa opinione sui diritti che abbiamo su quell’utero.
Com’è possibile che non capiamo che le donne americane che manifestavano felicità per la fine di Roe vs Wade non sono donne che gioiscono perché viene negato loro un diritto, sono donne convinte che si metta fine a un crimine? Com’è possibile che noialtri intelligenti siamo così stupidi?
Politica e Costituzione. Che cosa vuol dire la sentenza contro l’aborto per l’America (e per l’Italia). Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 25 Giugno 2022.
La decisione della Corte Suprema americana non riguarda solo il tema dell’autodeterminazione della donna, ma investe profili altrettanto delicati come l’equilibrio tra potere legislativo e intervento dei giudici
La Suprema Corte Federale degli Stati Uniti pone fine dopo mezzo secolo agli effetti di quella che era la sua pronuncia più famosa, la sentenza Roe v Wade con cui nel 1973 aveva ritenuto incostituzionale il divieto di abortire fino a quando il nascituro non avesse raggiunto una propria autonomia di vita ( 24/28 settimane).
La decisione (213 pagine di motivazione fittissima del tutto insolita per una cultura giuridica abituata a una tacitiana asciuttezza espressiva), ha scatenato durissime polemiche nonostante fosse stata anticipata da una bozza fatta circolare nel mese scorso che si è rivelata esatta.
Come buona abitudine, i commenti provengono da soggetti che palesemente non hanno letto una riga e in alcuni casi neanche hanno capito di che cosa esattamente si occupasse la sentenza.
Cominciamo col dire che la Corte non vieta l’aborto ma intervenendo sulla legislazione dello Stato del Mississippi si limita a dire che i vari Stati dell’Unione hanno diritto a porvi per via legislativa limiti e regolamentazione.
Questo è sembrato sufficiente a buona parte dell’opinione pubblica progressista per esprimere indignazione e spingere il presidente Joe Biden, con un’evidente forzatura del suo ruolo, a invocare l’intervento del Congresso per porre rimedio agli effetti di una sentenza emessa dall’organo custode della corretta applicazione della più antica delle carte costituzionali.
Un autorevole studioso ed esperto della legislazione statunitense come Stefano Ceccanti ha ipotizzato che la sentenza possa costituire la molla per una mobilitazione dell’opinione pubblica laica alle elezioni di midterm di novembre.
Eppure sia consentito dire che a una prima lettura il contestato provvedimento si presta a una riflessione più complessa che coinvolge anche temi delicati di democrazia istituzionale oltre che quelli più scontati della libertà personale.
Il punto più controverso è proprio quello che riguarda la tutela costituzionale dell’aborto come espressione della autonomia e della libertà personale. La Corte non ritiene che alcuno dei principi costituzionali contempli la tutela di un simile diritto.
Non mi avventuro in una simile materia, ma richiamo l’attenzione su un profilo che sembra di gran lunga più significativo che è quello che riguarda il potere del diritto di origine giurisprudenziale di limitare e condizionare la libertà del legislatore.
Se dovessimo enucleare il concetto più rivoluzionario che la sentenza esprime esso è contenuto nella sintesi introduttiva (syllabus) laddove la Corte, con riferimento alla sentenza Roe-Wade che costituiva il parametro fino a oggi vincolante in materia, scrive che lo «Stare Decisis» (vale a dire il precedente giurisprudenziale costituzionale) non è un «inesorabile comando» e non esiste la prevalenza del diritto delle sentenze e dei giudici su quello del legislatore.
Nel ragionamento dei giudici, l’inviolabilità del precedente giurisprudenziale costituirebbe un freno alla libertà dei cittadini di affermare le loro idee in sede legislativa e parlamentare.
A ben vedere, il tema è ben conosciuto anche nel nostro paese particolarmente segnato dal conflitto tra la politica e una sorta di impropria tutela etico-giudiziaria esercitata dalla magistratura.
Quello che sostiene la Corte Suprema è che i grandi temi etici sono materia estranea all’intervento del giudice e vanno regolati dal legislatore come espressione del libero e democratico confronto parlamentare.
Una sentenza non è per sempre e non può la decisione di un organo giurisdizionale limitare la libertà dell’elettore di contribuire a una diversa regolamentazione conforme all’evoluzione del costume e del pensiero.
È significativo che in un passaggio del commento introduttivo, la Corte evidenzi che «lo schema della sentenza Roe ha prodotto una para legislazione e la corte ha fornito una sorta di enunciazione simile a quella che ci si aspetterebbe da un corpo legislativo».
Un tema, come si vede, assai delicato e che non merita gli strilli isterici da talk show dei commentatori che palesemente non hanno letto nulla.
Chi scrive, ad esempio, ritiene che a certe condizioni l’interpretazione dei giudici (salvo eccessi creativi) possa fornire garanzie migliori rispetto a un potere di legislazione esercitato da una maggioranza illiberale e populista, ma il punto è che il profilo abbracciato (a maggioranza) dai giudici federali è invero assai meno rozzo e schematico di quanto lo si voglia rappresentare.
Quanto alla rivendicazione di una sorta di diritto costituzionale all’aborto ferve già il dibattito sulle possibili ricadute della sentenza statunitense sul destino della legge 194 e in generale sulle legislazioni europee a tutela dell’autonomia della donna in materia di gravidanza: ma le conclusioni affrettate sono destinate a possibili clamorose smentite.
La corte federale ha scritto che non esiste un diritto costituzionale all’aborto, cosa deciderebbe la Consulta qualora qualcuno volesse sollevare oggi il problema di legittimità costituzionale della legislazione sull’aborto in funzione della tutela dei nascituri quali soggetti deboli?
Ebbene conviene richiamare ciò che la nostra Corte Costituzionale ha scritto nella sentenza 242/ 19 nella drammatica vicenda di dj Fabo in materia altrettanto scottante quale il diritto alla autodeterminazione nel fine vita e la legittimità dell’eutanasia: «Dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». Ecco: il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo e l’implicito limite al concetto allargato di libertà personale («ordinata autoregolamentazione», secondo i giudici americani).
La Consulta ha per inciso escluso che la legge che puniva l’aiuto al suicidio, dichiarata parzialmente incostituzionale «si ponga, sempre e comunque sia, in contrasto con l’art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata: conclusione, questa, confermata dalla pertinente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo». È lo stesso argomento utilizzato dalla Corte Suprema americana per escludere un’espressa tutela costituzionale al diritto di aborto.
Certamente il dibattito è aperto e, come si vede, non può essere liquidato istericamente secondo gli schemi di buoni/cattivi e destra/sinistra.
C’è un interrogativo serio e politico sullo sfondo: il tema della vita e della morte (specie di quelle altrui), una materia complessa che esula dalle aule di tribunale come dal personale arbitrio.
Vaticano. Paglia: «La sentenza Usa sull'aborto sfida il mondo a riaprire il dibattito». Redazione Internet su Avvenire.it venerdì 24 giugno 2022
La Pontificia Accademia per la Vita esorta a «sviluppare scelte politiche che promuovano condizioni di esistenza favorevoli alla vita senza cadere in posizioni ideologiche a priori»
"Il fatto che un grande Paese con una lunga tradizione democratica abbia cambiato posizione su questo tema sfida anche il mondo intero". Lo sottolinea in una nota la Pontificia Accademia per la Vita presieduta da monsignor Vincenzo Paglia a proposito della sentenza della Suprema Corte Usa che ha annullato la sentenza del 1973 che legalizzò l'aborto.
"Di fronte alla società occidentale che sta perdendo la passione per la vita, questo atto è un forte invito a riflettere insieme sul tema serio e urgente della generatività umana e delle condizioni che la rendono possibile; scegliendo la vita, è in gioco la nostra responsabilità per il futuro dell'umanità" afferma Paglia.
"Il parere della Corte - osserva l'Accademia - mostra come la questione dell'aborto continui a suscitare un acceso dibattito. Il fatto che un grande Paese con una lunga tradizione democratica abbia cambiato posizione su questo tema sfida anche il mondo intero. Non è giusto che il problema venga accantonato senza un'adeguata considerazione complessiva".
"La protezione e la difesa della vita umana - prosegue - non è una questione che può rimanere confinata all'esercizio dei diritti individuali, ma è una questione di ampio significato sociale. Dopo 50 anni, è importante riaprire un dibattito non ideologico sul posto che la tutela della vita ha in una società civile per chiederci che tipo di convivenza e società vogliamo costruire".
"Si tratta di sviluppare scelte politiche che promuovano condizioni di esistenza favorevoli alla vita senza cadere in posizioni ideologiche a priori. Questo significa anche garantire un'adeguata educazione sessuale, garantire un'assistenza sanitaria accessibile a tutti e predisporre misure legislative a tutela della famiglia e della maternità, superando le disuguaglianze esistenti. Abbiamo bisogno di una solida assistenza alle madri, alle coppie e al nascituro che coinvolga l'intera comunità, favorendo la possibilità per le madri in difficoltà di portare avanti la gravidanza e di affidare il bambino a chi può garantire la crescita del bambino".
Cara Bernardini De Pace, sull’aborto sceglie l’uomo anche in caso di stupro?
La replica di Chiara all'articolo sulla Stampa di Annamaria Bernardini de Pace: l’unica a poter decidere è la donna. E le uniche alternative sarebbero il voto o l'obbligo. Chiara Lalli su Il Dubbio il 20 luglio 2022.
«Ho lottato per l’aborto, decida anche l’uomo» è il titolo di un commento di Annamaria Bernardini de Pace del 3 luglio sulla Stampa. Il solito titolo esagerato? No, è peggio, è il riassunto di alcuni errori comuni.
Parto dalla fine, dalla distrazione di riportare il 67% degli obiettori, verosimilmente il numero della penultima relazione ministeriale perché l’ultima dà un numero diverso (64,6 come media nazionale dei ginecologi). Poi per carità, non cambia molto nel difettoso ragionamento che precede, la disattenzione per i dati è preoccupante. Risalendo poi nella lettura verso il titolo ecco il condizionamento irriflesso dell’aborto come «sempre una decisione gravissima che sconvolge chiunque»: mi colpisce sempre il nominarsi portavoce di tutte, ignorando l’azzardo di ogni legge universale. No, non per tutte è una decisione gravissima e sconvolgente. No, non significa che «allora è un divertimento», perché questa è una falsa dicotomia. E lo sconvolgimento necessario e universale è una sciocchezza.
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E poi la domanda che ispira il titolo e che viene declinata in vari modi (decide anche l’uomo?) ma che è sempre abbastanza insensata se non condizionata alla volontà della donna, come peraltro stabilito dalla legge 194 (in una delle sue parti non paternalistiche). Sono poche parole e bastano a rispondere ai dubbi di Bernardini de Pace: «Ove la donna lo consenta» (articolo 5). E non può che essere così e non dovrebbe esserci bisogno di spiegare perché (chissà poi dove e come lo troviamo «il padre» se la donna non lo vuole coinvolgere). L’unica a poter decidere è la singola donna sulla propria gravidanza. E ricordiamo che le uniche alternative sarebbero mettere ai voti (gravidanza o aborto?, votate!) e imporre di portare avanti la gravidanza (oltre alla ripugnanza morale di questa possibilità, mi chiedo sempre come sarebbe possibile mettere in pratica questo obbligo).
Sebbene non mi piaccia l’abitudine (molto diffusa) di parlare di aborto volontario usando i casi estremi, vorrei chiedere a Bernardini de Pace se ha pensato di far decidere l’uomo anche in caso di violenza, di stupro o di abuso. E come fare in caso di conflitto: io voglio abortire, il padre dell’embrione (fa già ridere così) non vuole. Solo alla fine penso che una soluzione esiste e che ci avevano già pensato. Basta quindi recuperare il curatore del ventre e conferirgli anche tutti i poteri di un tutore e di un amministratore di sostegno, perché le donne non possono essere mica lasciate sole a decidere. Ovviamente è per il nostro bene.
E arriviamo alla premessa e al commento sulla decisione della Corte suprema riguardo a Roe vs Wade – che è una questione più generale e forse perfino più importante. Scrive Bernardini de Pace: «Si sono subito scatenati gli arrabbiati femministi di tutto il mondo, scandalizzandosi perché con questa decisione viene compresso il “diritto all’aborto”. Peraltro, raccontando che viene vietato l’aborto e che si torna indietro di 50 anni. Dimenticando che ciascuno dei 50 stati americani avrà una legge rispettosa del pensiero dei propri cittadini, pro o contro l’aborto. Ma un diritto all’aborto non c’è, non esiste. Non è possibile, infatti, parlare di un diritto laddove non vi sia un corrispondente dovere». A parte il disprezzo che sembra trapelare da «arrabbiati femministi», e a parte che questa è una questione che confinare nei femminismi (mi chiedo se “femministi” sia un refuso) è ingiusto e tipico del fronte più conservatore, vorrei sottolineare due cose.
La prima è che il diritto all’aborto rientra nel diritto all’autodeterminazione personale, che riguarda l’ambito sanitario e non solo (questo vale per la 194 e per Roe vs Wade). Per usare una espressione molto cara a Benjamin Constant, questo è lo spazio della cosiddetta libertà negativa, quello spazio in cui lo Stato non deve venirci a dire cosa fare (vale anche per l’articolo 29 della nostra Costituzione invocato a sproposito per dire no ai matrimoni ugualitari). Questo significa che lo Stato – ma pure tutti gli altri – hanno il dovere di rispettare questa libertà negativa. Ah, non si dovrebbe votare, perché nemmeno un plebiscito dovrebbe avere il potere di privarmi di alcuni diritti fondamentali. È vero che la Corte italiana ha ancorato l’interruzione volontaria della gravidanza alla salute, ma non è vero che non ci sia un dovere conseguente, che è quello di garantire l’accesso a un servizio medico sicuro (quando sono presenti determinati presupposti stabiliti dalla legge).
La seconda è che una volta stabilita una premessa poi non possiamo tenere solo quello che ci fa comodo e che volevamo dimostrare. Quindi se si usa l’assenza di un esplicito diritto all’aborto nella Costituzione per dire che è una specie di miraggio, allora lo stesso discorso vale per la obiezione di coscienza (aggiungiamo il diritto di voto per le donne, se vogliamo sembrare persone di mondo). Per fortuna le norme evolvono e non tutti interpretano in modo così letterale (e sbagliato) la Costituzione.
Controcorrente, “scelta clamorosa”. Cesara Buonamici sconvolta sull'aborto: delitto contro le donne. Il Tempo il 24 giugno 2022
Cesara Buonamici, giornalista e volto noto del Tg5, è tra gli ospiti presenti in studio nell’edizione del 24 giugno di Controcorrente, il talk show di Rete4 condotto da Veronica Gentili. Si discute della scelta dei giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti, che hanno stabilito che l’interruzione di gravidanza non è più da considerare un diritto costituzionale: “È - dice Buonamici - una decisione eccezionale e clamorosa. Ci sono state reazioni opposte tra Barack Obama e Donald Trump, che ha detto che è il volere di Dio. Come donna sono assolutamente contraria, trovo che sia un delitto non garantire questo diritto costituzionale alle donne americane. È una sentenza che non passa di certo inosservata, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. È una decisione molto grave”.
Controcorrente, “a favore dei deboli”. Mario Giordano si schiera contro l'aborto: “Viene tutelato il bambino”. Il Tempo il 24 giugno 2022
Fa discutere la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha deciso di revocare la sentenza del 1973 sul caso roe v. Wade, cancellando il diritto costituzionale di abortire. Il tema è discusso nell’edizione del 24 giugno di Controcorrente, il talk show di Rete4 condotto da Veronica Gentili, e c’è chi trova sensata la decisione dei giudici statunitensi. Mario Giordano, giornalista e conduttore di Fuori dal coro sulle reti Mediaset, spiega il proprio punto di vista: “Essendo cattolico sono convinto che la vita sia nel momento del concepimento. Non penso che sia un tornare indietro tutelare i più deboli e il più debole è il bambino, il nascituro nel momento in cui viene concepito. Una tutela nei confronti del nascituro non penso sia un arretramento sul piano dei diritti. Lo so che sono fuori dal coro, che ho detto una cosa stravagante e strana, ma è quello che penso”.
"Vietato l'aborto? No, è democrazia". E a Otto e mezzo scoppia la lite. Francesco Curridori il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.
Scontro a Otto e mezzo tra Francesco Borgonovo e Lilli Gruber sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha negato il diritto all'aborto.
Continua a dividere la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha negato il diritto all'aborto a livello federale. Stavolta, lo scontro non è tra due politici, ma tra due giornalisti: Francesco Borgonovo e Lilli Gruber.
Il vicedirettore de La Verità, ospite stasera a Otto e mezzo, su La7, non ha dubbi sul fatto che si tratti di una "decisione assolutamente democratica" e che"non c'entra nulla la morale e nulla la religione". Per Borgonovo è solo"una questione di democrazia" dato che la Corte Suprema americana non abolisce l'aborto, ma concede ai singoli Stati di decidere "attraverso il voto". Secondo il giornalista de La Verità "i diritti delle donne non sono in pericolo". E aggiunge: "E non c'entra nulla con l'Italia". Un discorso che ha mandato Lilli Gruber su tutte le furie che ha subito voluto puntualizzare: "Qui la democrazia non c'entra niente. C'entra, invece, con uno Stato democratico e civile garantire i diritti civili ai propri cittadini". Non si è fatta attendere la replica di Borgonovo: "Chi ha deciso che l'aborto è un diritto umano? Lo avete deciso voi adesso?".
A quel punto ecco che interviene Alessandro De Angelis, vicedirettore dell'HuffPost, che attacca il collega con una provocazione: "Perdonami, io capisco, sei anche vestito di nero e, quindi, queste teorie ben si calzano...". E poi si sfoga ulteriormente: "L'autodeterminazione di sé, del proprio corpo e l'amore che non ha sesso, sant'Iddio, si chiama libertà". E infine: "La democrazia liberale è questo, è l'opposto del comizio che ha fatto la Meloni in Andalusia. Quella è boia chi mollas....". Borgonovo, che si trova in collegamento e non in studio, cerca di far valere le sue ragioni, ma il volume del suo microfono viene silenziato al minimo per impedirgli di parlare. Solo, poco dopo, il giornalista de La Verità, può far valere brevissimamente le sue ragioni, ma la Gruber concede l'ultima parola a Beppe Severgnini del Corriere della Sera che, ovviamente, non esprime giudizi favorevoli alla sentenza della Corte Suprema americana.
Adinolfi: “Sentenza Corte Suprema USA su aborto importante, decideranno singoli Stati". I Tempo il 24 giugno 2022
(Agenzia Vista) Roma 24 giugno 2022 La decisione assunta dalla Corte Suprema americana è di grandissima importanza. Finalmente si riconosce il diritto alla vita e si stabilisce che non può esserci una decisione sull'aborto presa contro il volere del popolo. Quello che circola in queste ore è davvero qualcosa di stupido e falso. Non è stato cancellato il diritto di abortire negli Stati Uniti, ma semplicemente rimandato alle decisioni dei singoli Stati. Il caso è quello del Mississipi che voleva limitare l'aborto alla 15esima settimana”. Lo ha dichiarato il Presidente del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi. Fonte: Agenzia Vista / Alexander Jakhnagiev agenziavista.it
La decisione sull'aborto. I giudici della Corte Suprema Usa sono retrogradi e oscurantisti. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista l'1 Luglio 2022
Dopo la decisione Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, che ha cancellato i precedenti favorevoli al diritto delle donne alla interruzione volontaria della gravidanza, non è facile anticipare l’impatto che essa potrà avere sulla vita politica americana, in particolare sui risultati delle elezioni dette di metà mandato che avranno luogo in novembre. Negli ultimi mesi i sondaggi sulle intenzioni di voto non sono favorevoli ai Democratici, che potrebbero perdere la maggioranza al Congresso, e l’approvazione del Presidente Biden è data al 41% dai sondaggi Gallup. Quello che è certo è che la decisione della Corte Suprema si inscrive in un clima di conflitto e di scontro politico e culturale presente da tempo nella società americana e che si è fortemente accentuato a partire dall’elezione di Trump nel 2017 e ancor più a partire dalla sua sconfitta elettorale.
Questa divisione che spacca la società di oltre Atlantico vede al tempo stesso la crescita degli estremismi e il discredito delle istituzioni. La stessa Corte Suprema, che partecipa in realtà dello stesso estremismo, ha una reputazione bassissima fra i cittadini americani e raggiunge appena il 25% di approvazione, un giudizio senza precedenti. La decisione Dobbs è peraltro il risultato di una lunga battaglia della destra americana contro la celebre sentenza Roe v. Wade del 1973 che aveva, in assenza di una legge federale, garantito alle donne il diritto di abortire. La svolta è avvenuta con la nomina di tre giudici conservatori scelti dal presidente Trump e approvati dal Senato, i quali, in aggiunta ad altri tre nominati da precedenti presidenti Repubblicani, controllano ormai la Corte Suprema. Se si tiene conto del fatto che i giudici della Corte sono, in base alla costituzione del 1787, nominati a vita e che si tratta, per tutti quelli scelti da Trump, di giudici cinquantenni, si capisce che esiste ormai un corpo di guardiani della costituzione che può interpretarla a lungo secondo canoni della destra radicale, nonostante la presidenza del giudice Roberts, che è considerato dai più come una figura più moderata (come testimonia anche la sua opinione separata che, come chi scrive, considera estrema la decisione della maggioranza).
Per capire come le opinioni evidentemente di parte della maggioranza della Corte Suprema possano venir presentate come difesa della costituzione, dobbiamo tener presente che la Corte nella sua maggioranza adotta una teoria dell’interpretazione che va sotto il nome di “originalismo”. Con questo termine si intende la sorprendente dottrina in base alla quale le leggi sottoposte al vaglio dei giudici supremi devono essere compatibili con il dettato letterale della Carta costituzionale. Da cui risulta senza grande sforzo interpretativo che, poiché nel 1787 i Padri fondatori dell’Unione Americana non avevano parlato e nemmeno fatto menzione in nessuno dei successivi emendamenti di interruzione volontaria della gravidanza, la Corte non può (come avevano invece preteso le decisioni precedenti a partire da Roe) statuire sul punto. Dopo di che, il giudice redattore dell’opinione di maggioranza Samuel Alito sostiene che è compito e facoltà degli Stati dell’Unione – legislature e corti dei medesimi – decidere sulla materia.
In realtà, potrebbe decidere il Congresso federale, ma questo non ha mai voluto farlo per le divisioni interne ai due partiti monopolisti del potere politico, che, non essendo del tutto omogenei sulla questione, temono di alienarsi un po’ di elettori quale che sia la decisione che dovessero prendere. In assenza di una legge federale e avendo cancellato un diritto riconosciuto a partire dal 1973 dalla Corte Suprema, la conseguenza della decisione presa ora, che rovescia e cancella quelle precedenti, è che il paese si troverà, come su molti altri temi, diviso fra gli Stati liberali che consentono l’aborto e quelli che lo restringeranno rapidamente ai minimi termini. In sostanza questo vuol dire che in buona parte degli Stati conservatori del sud e del centro in molti casi per abortire le donne saranno costrette a recarsi negli Stati liberali.
Ciò evidentemente divide i diritti delle donne americane fra quelle che li hanno e quelle che invece no. Da questo punto di vista, la sentenza è conservatrice nei suoi effetti nel senso più tradizionale del termine: i diritti non sono gli stessi per i ricchi e per i poveri. Non si può essere più classicamente conservatori di così. Sarebbe tuttavia interessate vedere cosa accadrebbe se qualche Stato più conservatore degli altri decidesse di punire in qualche modo il turismo forzato per ottenere un aborto. Si tratterebbe di un aggravio dei costi del viaggiare dentro gli Stati Uniti. Ma questo probabilmente non avverrà poiché i conservatori americani amano i ricchi più dei diritti eguali.
Quello che questa strana vicenda insegna è la crisi profonda della società e dalla vita politica americana, al di là delle stravaganze dell’interpretazione costituzionale oggi dominante nella Corte Suprema, molto distante da quelle praticate nelle Corti costituzionali di paesi come la Germania, la Francia e l’Italia. Uno studioso di indiscussa autorità, che è stato giudice della Corte costituzionale tedesca, Dieter Grimm, ha sostenuto più volte che in Germania non esiste alcun equivalente dell’originalismo americano, così come non esistono nomine a vita dei giudici costituzionali e nomine di estremisti nelle Corti supreme di giustizia. In Germania, esattamente come in Italia.
Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino
Alberto Simoni per “la Stampa” il 4 luglio 2022.
Lunedì scorso, tre giorni dopo la storica sentenza sull'aborto che ha archiviato la Roe contro Wade, la dottoressa Caitlin Bernard, ginecologa di Indianapolis, ha ricevuto una telefonata da un collega dell'Ohio che si occupa di abusi sessuali. Le ha raccontato una vicenda incredibile. E drammatica. Da pochi secondi una bambina di appena dieci anni aveva lasciato il suo studio medico, era stata violentata ed era incinta da sei settimane e tre giorni. Tre giorni oltre il limite, quelli in cui la legge dell'Ohio ritiene non si possa più interrompere una gravidanza.
Il Buckeye State consente l'aborto entro le prime sei settimane, ovvero quando inizia l'attività cardiaca del feto. Il trasferimento in Indiana era l'unica speranza. I legislatori di Indianapolis non hanno ancora approvato la legge statale che restringerà i tempi dell'aborto. La finestra si chiuderà il 25 luglio, ma fino ad allora non c'è il limite delle sei settimane di gestazione.
Secondo quanto ha riferito l'Indianapolis Star che per primo ha dato la notizia, la bambina è già arrivata in Indiana dalla dottoressa Bernard. Non si sa se sia già stata sottoposta al trattamento per interrompere la gravidanza.
Questo caso non è isolato. Mentre il divieto all'aborto è entrato in vigore negli Stati Uniti e tocca alle Assemblee statali legiferare, sono moltissime le donne che si sono rivolte a cliniche in altri Stati. Anche l'Indiana ha visto in questi primi sette giorni l'aumento degli arrivi di donne dagli Stati limitrofi. La dottoressa Katie McHugh ha parlato di un «anomalo incremento di richieste» da parte di persone incinte provenienti dal Kentucky e dall'Ohio. Nel 2021 il 5,5 per cento degli aborti in Indiana (sono stati circa 8400) sono stati praticati su persone che provenivano da altri Stati. La percentuale è destinata a crescere quest' anno anche se con il probabile ingresso in vigore della nuova legge il 25 luglio, gli aborti caleranno drasticamente. E dall'Indiana le donne saranno costretto a cercare aiuto in Illinois.
La sentenza della Corte suprema ha delegato agli Stati il compito di dotarsi di norme sull'aborto. Da qui la miriade di provvedimenti che rendono il sistema una vera e propria giungla. Il presidente Joe Biden vorrebbe che il Congresso facesse una legge sulle orme della Roe contro Wade in modo da codificare nelle norme federali il diritto all'interruzione di gravidanza. Ma non ha la maggioranza dei 60 voti necessari a superare l'ostruzionismo dei senatori repubblicani.
Sabato, intanto, in Texas la Corte suprema statale ha rimesso in vigore una legge del 1925 che vieta l'aborto e punisce con il carcere chi lo pratica ribaltando la sentenza di una corte minore. In direzione opposta sta andando invece lo Stato di New York, che ha approvato un emendamento per inserire l'aborto nella costituzione statale, che deve essere approvato dalla prossima legislatura e quindi sottoposto a referendum.
I giudici della Corte suprema sono sempre più nel mirino. Dopo le manifestazioni fuori dalle abitazioni in Maryland della giudice Amy Coney Barrett e l'arresto di un californiano armato vicino alla casa di Brett Kavanaugh, ieri il capo della Sicurezza della Corte ha chiesto ai governatori di Virginia e Maryland di aumentare la protezione attorno alle residenze dei giudici.
Biden ha citato una storia virale sull’aborto non verificata. Il Domani il 12 luglio 2022
Ha detto che una bambina di dieci anni, incinta dopo essere stata stuprata, ha dovuto cambiare stato per poter abortire. Nessuno però è riuscito a verificare la notizia che sembra fare acqua da molte parti
Venerdì scorso, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha citato una storia sull’aborto con un’unica fonte e che, fino ad ora, nessuno è riuscito a verificare. Biden ha parlato di una bambina di dieci anni, messa incinta dopo una violenza sessuale che, non potendo abortire in Ohio dopo la sentenza della Corte suprema, si sarebbe spostata nel vicino stato dell’Indiana per ricevere il trattamento.
Biden ha raccontato l’episodio in un momento altamente simbolico: mentre si apprestava a firmare un ordine esecutivo che cerca di limitare gli effetti del divieto all’aborto già implementato da diversi stati repubblicani. Si tratta dell’azione più concreta intrapresa dal presidente sull'aborto fino a questo momento.
La storia era già diventata virale prima di essere ripresa da Biden, con migliaia di tweet e numerosi articoli sui giornali degli Stati Uniti e di altri paesi. La credibilità dell’episodio, però, è traballante.
La storia ha un’unica fonte: Caitlin Bernard, una dottoressa dell’Indiana e attivista a favore del diritto all’aborto. Bernard ha raccontato al giornale locale IndyStar di aver saputo del caso da un medico dell’Ohio che l’avrebbe contattata per aver informazioni su come comportarsi, poiché la legge introdotta nel suo stato dopo la decisione della Corte suprema vieta l’aborto anche in caso di stupro e incesto.
Dopo aver parlato con Bernard, il medico avrebbe consigliato alla famiglia della bambina di recarsi in Indiana per ottenere un’interruzione di gravidanza.
COSA NON TORNA
Dopo la ripresa della storia da parte di diversi media e soprattutto dopo che Biden ne ha parlato, numerosi giornalisti e factchecker hanno cercato di verificarla, ma dopo giorni di ricerca non sono emerse conferme, anzi.
Bernard ha rifiutato tutte le richieste di chiarimento e il giornale IndyStar, il primo a riferire la notizia, si è limitato a far sapere di aver svolto tutte le verifiche del caso e ha preferito non commentare ulteriormente la vicenda.
Il caso è divenuto sospetto anche perché i medici dell’Ohio sono tenuti a denunciare i casi di sospetta violenza sessuale nei quali si imbattono. Nello stato non esiste un registro centralizzato di questo tipo di denunce, quindi senza conoscere la giurisdizione dove è avvenuto il fatto è quasi impossibile verificare se una denuncia è stata sporta o meno. Il Washington Post ha contattato le autorità delle principali città dello stato e nessuna ha ricevuto una denuncia di questo tipo.
Altri dubbi sono stati sollevati da Dave Yost, il procuratore generale dello stato, un repubblicano che ha sostenuto parte degli sforzi di Donald Trump per invalidare l’elezione del suo successore. Yost ha detto che in un caso simile ci sarebbe stata una richiesta da parte delle autorità locali di un’esame medico per provare a individuare il Dna del violentatore. Il laboratorio che esegue queste analisi è alle dirette dipendenze del procuratore e Yost ha detto che nessun caso del genere è arrivato alla loro attenzione di recente.
UN CASO PLAUSIBILE?
Secondo Yost, inoltre, un caso del genere sarebbe del tutto impossibile, poiché il divieto di aborto dello stato non si applicherebbe in questo caso. Questa seconda questione è in realtà più complicata. La legge dell’Ohio prevede il divieto di aborto a partire da quando diventa udibile il battito del cuore del feto, il che può avvenire tra la quinta e la sesta settimana di gravidanza, quando molte donne non sanno ancora di essere incinta.
La legge non prevede eccezioni in caso di aborto o stupro, ma stabilisce che l’aborto è consentito per emergenze mediche, definite come un «grave rischio di un danno sostanziale e irreversibile ad una delle principali funzioni corporee della donna incinta». La legge esclude esplicitamente le conseguenze psicologiche della gravidanza tra le possibili eccezioni.
Ospite di una trasmissione del network di destra FoxNews, Yost ha detto che la legge dell’Ohio «ha una sezione sulle emergenze mediche più ampia della semplice tutela della vita della madre», ma non ha spiegato a quale eccezione potrebbe far ricorso una minorenne messe incinta dopo uno stupro se la sua gravidanza fosse non problematica per la sua salute dal punto di vista medico come definito dalla legge dello stato.
Gli effetti della sentenza della Corte Suprema negli USA. Incinta a 10 anni dopo uno stupro, costretta a lasciare l’Ohio per abortire: arrestato il suo aguzzino. Redazione su Il Riformista il 14 Luglio 2022.
Altro che ‘fake news’ inventata di sana pianta per difendere la posizione pro-aborto dell’amministrazione democratica di Joe Biden, in contrapposizione alla sentenza della Corte Suprema che nelle scorse settimane ha demolito la Roe v Wade sul diritto all’interruzione di gravidanza in caso di incesto e stupro.
La notizia data per falsa di una bambina di 10 anni alla quale era stato negato il diritto all’aborto dopo esser stata vittima di stupro è stata infatti confermata dalla polizia dell’Ohio, Stato dal quale la bambina è stata costretta a uscire per poter procedere all’interruzione di gravidanza.
Incinta di sei settimane e tre giorni, ha abortito il 30 giugno in uno stato del Midwest, in Indiana, dove l’aborto è ancora legale. Una vicenda che anche il presidente Joe Biden aveva citato un suo recente discorso in occasione della firma di un ordine esecutivo per difendere l’accesso all’aborto.
Per l’orribile crimine è stato arrestato un uomo, il 27enne del Guatemala Gershon Fuentes, residente a Columbus. Il giovane è accusato di “stupro di un minore di età inferiore ai 13 anni”, violenza che sarebbe avvenuta il 12 maggio scorso. Dopo l’arresto Fuentes ha confessato di aver violentato la bambina almeno due volte.
Secondo quanto scrive l’Afp, parti dell’embrione della ragazzina sono stati sottoposti a test genetici per poter confermare o meno i legami con il sospetto in questione.
Da repubblica.it il 14 luglio 2022.
Un uomo di 27 anni è stato arrestato e incriminato per lo stupro della bambina di 10 anni alla quale è stato negato di interrompere la gravidanza in Ohio a seguito della legge entrata in vigore nello Stato dopo che la Corte Suprema ha annullato la sentenza che tutelava il diritto all'aborto. La bambina era stata costretta a trasferirsi nel vicino Indiana per poter interrompere la gravidanza.
Dopo l'arresto Gershon Fuentes, residente a Columbus, ha confessato di aver violentato la bambina almeno due volte.
La vicenda della piccola a cui era stato negato l'aborto dopo la violenza sessuale ha attirato una grande attenzione negli Stati Uniti e lo stesso presidente Joe Biden l'ha citata in un suo recente discorso in occasione della firma di un ordine esecutivo per difendere l'accesso all'aborto.
La notizia della gravidanza era stata data nelle ultime settimane per falsa, ma la polizia dell'Ohio ha confermato sia la violenza subita, sia la decisione della famiglia di uscire dallo Stato per abortire.
Il caso della bambina era stato anche bollato come fake news da molti anti-abortisti. L'accusa era che sarebbe stata inventata "solo per difendere" la posizione dell'amministrazione Biden contro la Corte Suprema, che ha vietato l'aborto per qualsiasi caso, compreso l'incesto e lo stupro.
Usa, indagine sulla ginecologa che ha fatto abortire la bimba di 10 anni stuprata. Massimo Basile su La Repubblica il 15 Luglio 2022.
Il caso aveva destato scalpore dopo la decisione della Corte Suprema contro il diritto all'interruzione volontaria di gravidanza
Prima era stata definita una storia trash, poi una “fake news”: la bambina di 10 anni dell’Ohio rimasta incinta dopo uno stupro, e costretta ad andare nell’Indiana per abortire, esiste, anche se a nessuno sembra importare. Prima l’ha confermato la polizia dell’Ohio, poi è arrivata l’incriminazione per il presunto stupratore e, adesso, il procuratore generale dell’Indiana ha annunciato l’apertura di un’indagine sulla ginecologa che ha fatto abortire la bambina.
Simona Siri per “La Stampa” il 17 luglio 2022.
Si chiama Caitlin Bernard, è assistente professore presso la facoltà di Medicina dell'Università dell'Indiana ed è la ginecologa che ha praticato l'aborto alla bambina di dieci anni dell'Ohio rimasta incinta in seguito a uno stupro, un caso che dal primo luglio si è impossessato dell'attenzione dell'opinione pubblica sulla scia della decisione della Corte Suprema che ha reso l'aborto non più protetto a livello federale.
In una situazione normale, il suo nome non dovrebbe fare notizia: il fatto che lo sia rende l'idea di quanto violenta sia diventata la discussione. Prima, c'è stato il tentativo da parte di alcuni media e del procuratore generale dell'Ohio - il repubblicano Dave Yost - di screditare il suo nome e la storia in generale.
Dal momento che Bernard era citata come l'unica fonte nel primo articolo che riportava la storia della ragazza, le è stato detto che mentiva, e che la storia era inventata o, come ha scritto la sezione opinioni del Wall Street Journal, «troppo perfetta per essere vera».
Poi, quando le evidenze sono diventate fatti e lo stupratore della ragazzina è stato arrestato e ha confessato, gli attacchi sono continuati. Il procuratore generale dell'Indiana ha dichiarato mercoledì sera su Fox News di avere aperto un'indagine su di lei. Mentre lo diceva, la rete mandava in onda una sua fotografia, rendendola di fatto un target.
Non è la prima volta che un medico abortista riceve minacce e non sarà l'ultima. Negli Anni 80 e 90 fuori dalle cliniche americane venivano appese le foto dei medici e gli anti abortisti offrivano ricompense in denaro a chiunque fornisse informazioni che portassero alla condanna dei suddetti.
Qualcuno pagò addirittura con la vita: il medico del Kansas George Tiller, uno dei pochi a praticare l'aborto tardivo negli Usa, fu ferito nel 1993 e poi ucciso nel 2009 sul sagrato di una chiesa. Non fu il solo: dal 1993 al 2015 ben 11 persone furono uccise in attacchi perpetrati da anti abortisti.
La stessa Bernard era già finita nel mirino degli anti abortisti: secondo il Guardian, il suo nome compare su un sito web estremista pro life collegato a Amy Coney Barrett prima che fosse nominata alla Corte Suprema. L'anno scorso, in un caso riguardante le restrizioni all'aborto in Indiana, Bernard ha testimoniato di essere stata costretta a smettere di fornire aborti nel primo trimestre in una clinica a South Bend perché, avvertita da Planned Parenthood che a sua volta era stata allertata dall'Fbi, c'erano state minacce di rapimento contro sua figlia.
Sempre secondo il Guardian a gennaio i nomi di sei fornitori di aborti, così come il loro background scolastico e gli indirizzi dei luoghi di lavoro, sono stati postati sul sito web di un gruppo estremista chiamato Right to Life Michiana, in una sezione intitolata «minaccia di aborto locale».
Kendra Barkoff Lamy, portavoce di Bernard, ha dichiarato: «Le notizie riguardanti le minacce contro la famiglia della dottoressa nel 2020 sono purtroppo vere. Queste minacce personali e pericolose sono ovviamente devastanti per un medico che ha dedicato la carriera a migliorare la vita delle donne fornendo cure riproduttive cruciali, compresi gli aborti. Purtroppo, Bernard non è sola, succede a molti medici che come lei forniscono aborti».
Daniele Dell'Orco per “Libero quotidiano” il 5 luglio 2022.
Il Nancy Pelosi-gate continua a dividere la Chiesa cattolica. La speaker della Camera dei rappresentanti Usa lo scorso 29 giugno ha fatto la comunione durante la messa in parte presieduta da papa Francesco nella Basilica di San Pietro. E questo nonostante poche settimane prima l'arcivescovo Salvatore Cordileone di San Francisco, la diocesi natale della Pelosi, le avesse vietato di ricevere la comunione per il suo esplicito sostegno all'aborto.
«Dopo numerosi tentativi di parlare con lei per aiutarla a capire il grave male che sta perpetrando, lo scandalo che sta causando e il pericolo per la propria anima che sta rischiando, ho stabilito che è giunto il punto in cui devo dichiarare che non è ammessa alla Santa Comunione a meno che e fino a quando non ripudi pubblicamente il suo sostegno ai "diritti" dell'aborto e confessi e riceva l'assoluzione perla sua collaborazione in questo male nel sacramento della penitenza», così aveva motivato duramente la sua scelta Cordileone.
Il diktat del vescovo californiano era stato aggirato dalla Pelosi durante il soggiorno Roma per una vacanza in famiglia (anche se i ben informati sostengono non si trattasse affatto di villeggiatura ma della concreta possibilità che possa diventare il prossimo ambasciatore americano in Italia), quando aveva partecipato alla liturgia per la festa dei Santi Pietro e Paolo nella Basilica vaticana e avrebbe ricevuto l'ostia.
Non dal Papa in persona che, per il dolore al ginocchio, ha presieduto solo la prima parte della messa e la liturgia della parola, lasciando poi la guida della liturgia eucaristica al cardinale decano Giovanni Maria Re. Il sacramento eucaristico è stato celebrato da un altro sacerdote di cui non si conosce la nazionalità e non è nemmeno chiaro se sapesse chi aveva di fronte.
Ma dalle parole di Papa Francesco, riportate in una intervista alla Reuters, il Pontefice ha in un certo senso comunque «rivendicato» il gesto, difendendo la possibilità di dare la comunione a quei politici che hanno posizioni pro-choice (come pure lo stesso presidente Usa Joe Biden) e sostengono progetti di legge abortisti.
In America la questione è tutt' altro che chiara, e ha spaccato in due l'episcopato: da una parte coloro che fanno valere il magistero e si rifiutano di dare la comunione ai politici abortisti e dall'altra chi, invece, fa prevalere il dialogo e la misericordia. Papa Francesco ha in qualche modo dettato la linea in un passaggio in cui dice che «quando la Chiesa perde la sua natura pastorale, quando un vescovo perde la sua natura pastorale, questo causa un problema politico. Questo è tutto ciò che posso dire».
Allo stesso tempo però, mentre non si placano le proteste e i tentativi di correre ai ripari negli Stati Uniti dopo la sentenza della Corte Suprema, il Papa, interrogato sulla sentenza della che ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade, che nel 1973 stabilì il diritto di una donna a interrompere la gravidanza, ha affermato di rispettare la decisione ma di non poter dire, da un punto di vista giuridico, se (la Corte) abbia fatto "bene o male". Il Pontefice, però, nell'intervista ha ribadito la sua visione antiabortista, paragonando l'interruzione di gravidanza all'assunzione di un sicario.
La Chiesa cattolica insegna che la vita inizia al momento del concepimento, ha detto in sostanza, affidandosi infine alla domanda retorica: «Chiedo: è legittimo, è giusto eliminare una vita umana per risolvere un problema?».
Le star della musica promettono mobilitazioni massicce in difesa del diritto all’aborto. Gino Castaldo su L'Espresso il 4 luglio 2022.
Un numero senza pari di big statunitensi si sono espressi contro la sentenza della Corte Suprema, giurando battaglia. E il fenomeno non può essere sottovalutato.
Ci voleva una sentenza allucinante come quella della Corte Suprema americana che ha annullato il diritto costituzionale all’aborto, per scatenare l’ira dell’intero mondo della musica. Eddie Vedder dei Pearl Jam ha urlato a Imola che in America i diritti delle donne non sono garantiti, Pink ha postato sui suoi social una proposta forte e condivisibile: «Se apprezzate la sentenza antiabortista allora non ascoltate più la mia musica», come dire se la pensate in quel modo non voglio neanche immaginare che le mie canzoni siano da voi amate e ascoltate.
Al festival di Glastonbury, ormai la tribuna rock per eccellenza, è stato un coro continuo: Billy Joe Armstrong dei Greenday ha detto che rinuncerà alla cittadinanza americana, e in questo periodo è anche questo un pensiero condivisibile; Olivia Rodrigo ha tuonato contro i giudici e poi insieme a Lily Allen hanno cantato “Fuck you”, Billie Eilish ha detto che è una giornata nera per le donne in America. Quel gran genio di Kendrick Lamar ha terminato il suo concerto con in testa una corona di spine e il sangue che colava sulla sua camicia bianca urlando a ripetizione: «Godspeed for women’s rights; they judge you, they judge Christ!». E poi ancora Taylor Swift, Bon Iver che ha postato un laconico ma significativo «I cant stop cryng», e poi ancora Harry Styles, Cher, Cat Power, Alicia Keys, John Legend, uomini e donne di ogni stile e generazione.
Perfino Mariah Carey ha tuonato: «It is truly unfathomable and disheartening to have to try to explain to my 11 year old daughter why we live in a world where women’s rights are disintegrating in front of our eyes».
È vero, come si fa a spiegare a una figlia di 11 anni perché viviamo in un mondo in cui i diritti delle donne si stanno disintegrando davanti ai nostri occhi? Il problema come sempre è l’America, il Paese delle massime contraddizioni, il rigoglioso luna park della cultura moderna e poi la nazione della pena di morte, delle armi libere, di Trump.
«Viviamo in un’America che non riconosco», scrive Jennifer Lopez e Madonna lo spiega ancora meglio: «Mi sono svegliata con una notizia terrificante, il ribaltamento di Roe v. Wade», in riferimento a una sentenza storica del 1973 che affermò il diritto di una donna alla scelta dell’aborto. E continua: «Ora la Corte Suprema ha deciso che i diritti delle donne non sono più diritti costituzionali. Di fatto abbiamo meno diritti di una pistola». La scesa in campo è potente e massiccia. I messaggi non si limitano a deplorare l’accaduto. Molti annunciano battaglia, e allora ne vedremo delle belle. Non capita spesso che la musica si mobiliti in massa, ma quando succede l’effetto è garantito.
«Cari smemorati, l’attacco ai diritti delle donne va avanti da anni. E noi resisteremo». Loredana Lipperini su L'Espresso il 4 luglio 2022.
Prontuario per chi è rimasto stupito dalla decisione della Corte Suprema Usa. E per ricordare che anche in Italia, il tentativo di rimettere in discussione il diritto all’autodeterminazione torna ciclicamente.
È sacrosanto evocare Margaret Atwood e “Il racconto dell’ancella” per sfogare costernazione e rabbia dopo la decisione della Corte suprema degli Stati Uniti sull’aborto. Peccato, però, che quel romanzo sia stato scritto nel 1985, e, certo, reso famoso dalla serie televisiva che ne è stata tratta nel 2017 sotto la presidenza Trump. Dunque, occorre avere memoria, e avere ben chiaro che negli Stati Uniti l’attacco ai diritti delle donne (e non solo) è cominciato esattamente in quel tempo, con la presidenza di Ronald Reagan, che proprio nel 1985 bloccò i finanziamenti del governo federale alle organizzazioni non governative internazionali che praticano l’interruzione di gravidanza all’estero o informano sulla medesima. La norma, detta Mexico City Policy, venne eliminata da Bill Clinton nel 1993, reintrodotta da George W. Bush nel 2001, eliminata ancora da Barack Obama nel 2009 e infine nuovamente introdotta da Donald Trump in uno dei suoi primi ordini esecutivi.
L’altalena di provvedimenti dovrebbe dimostrare che c’è da decenni una larghissima parte di politici ed elettori che si rifiuta di ammettere la libera scelta delle donne. E che spesso passa alle vie di fatto: negli anni Novanta i no-choice bloccavano fisicamente l’accesso alle cliniche, cari smemorati: in soli sei mesi, nel 1993, due medici abortisti sono stati uccisi, e un terzo, che indossava il giubbotto antiproiettile, venne colpito alle braccia «per impedirgli di continuare nella sua opera di morte». Il parroco di Mobile, Alabama, dirà nella sua predica: «Se si devono ammazzare 100 medici per salvare un milione di bambini, benissimo, il prezzo non è troppo alto».
Erano gli anni di Bill Clinton, che venivano dopo il lungo governo di Reagan prima e di Bush senior poi. Quegli spari venivano dalla paura: paura di una vera legge sull’aborto, paura che il mondo sarebbe andato diversamente. Paura, teniamolo a mente. Stephen King ne parlò in almeno un romanzo, “Insomnia”, dove i no-choice assaltano un centro femminista, uccidendo la gran parte delle organizzatrici e delle ospiti.
Il problema è che tutto questo non riguarda solo gli Stati Uniti, come moltissime donne si sono sgolate a ripetere prima della sentenza, ma un grandissimo numero di Paesi, anche europei. E riguarda noi. Sì, è vero, la legge 194 è ancora in piedi. Formalmente. L’indagine Mai Dati! condotta da Chiara Lalli e Sonia Montegiove, e pubblicata dall’Associazione Luca Coscioni, ci dice che in 11 regioni italiane c’è almeno un ospedale con il 100 per cento di obiettori. 31 in tutto, per essere precisi, e ce ne sono 50 con percentuale superiore al 90 per cento e oltre 80 con tasso di obiezione superiore all’80 per cento. Le cose sono peggiorate durante e dopo il Covid-19. E in molti casi, i dati, appunto, non sono pervenuti. Per non parlare delle regioni, come Umbria e Marche, che di fatto impediscono il ricorso all’aborto farmacologico.
Un piccolo sforzo di memoria, dunque, è necessario per chi si stupisce dei numeri, e per quanto è avvenuto negli Stati Uniti, e a Malta, dove una turista americana ha rischiato la morte perché anche in caso di perdita di liquido amniotico, se il cuore del feto batte, non si può intervenire, e per chi è rimasto stupefatto per lo Strajk Kobiet, lo sciopero delle donne polacche del 2020 e 2021 contro la sentenza della Corte Costituzionale che ha reso illegali quasi tutti i casi di aborto.
Passo indietro. 1988. È Giuliano Amato a intraprendere quel «parliamone» che diventerà frequentissimo. Durante un dibattito sulla legge 194 organizzato al club Turati di Milano, Amato critica la sentenza della Corte Costituzionale che consente alla donna di abortire anche senza il consenso del coniuge. In realtà, contesta tutta la legge, sostenendo che la donna dovrebbe decidere da sola solo se la gravidanza mette in pericolo la sua salute. In parole ancor più povere, Amato non accetta l’idea stessa di autodeterminazione.
1992. Amato è presidente del Consiglio. Viene intervistato dall’emittente cattolica Telepace. Sostiene che la vita «è un valore enorme. Se mettiamo in discussione questo, se non limitiamo a casi essenzialissimi le ipotesi in cui un essere umano può mettere in discussione la vita di un altro essere umano, allora viene meno proprio il fondamento della convivenza prima ancora che il fondamento della solidarietà».
Dunque, la vita va protetta «una volta che si è formata». In quello stesso anno, in commissione Giustizia viene approvato un emendamento di Carlo Casini (leader del Movimento per la vita) che estende la «protezione dell’ infanzia alla fase prenatale». Salto di secolo e di millennio. Negli anni Zero inizia la battaglia di Giuliano Ferrara, culminata nella presentazione della lista elettorale “Aborto? No grazie”, e peraltro mai terminata. In mezzo, tanti episodi che forniscono il clima.
Nel settembre 2011 a San Giovanni in Fiore (Cosenza) il parroco Don Emilio Salatino decide di suonare le campane a morto ogni volta che in città viene praticato un aborto. Due mesi prima, il presidente della Regione Piemonte Cota aveva proposto un protocollo, bocciato dal Tar e riproposto sotto altra forma «per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza». Il miglioramento prevedeva l’inserimento nei consultori di associazioni no-choice. Sempre all’inizio degli anni Dieci, le ginecologhe di alcuni consultori torinesi si rifiutano di affiggere un manifesto del Centro aiuto alla vita, con un feto e la scritta: «Mamma, ti voglio bene». Stesso mese, stessa città. Tre volontari dell’Associazione Ora et Labora in Difesa della Vita si muniscono di una croce che al posto dei chiodi ha feti di plastica e diffondono volantini dove il feto parla in prima persona alla madre che lo uccide. Fermano le donne, tutte le donne. Sfileranno a Roma, in un giorno di maggio 2012 (lo stesso della festa della mamma), con quelle stesse croci, ricordando alle donne che abortiscono, le assassine, che le loro anime bruceranno all’inferno.
E dunque, care e cari smemorati, il problema c’è sempre stato. Per paura. Forse per il timore occidentale della crescita zero. Di certo per la mancata accettazione di quanto le donne siano cambiate, siano determinate e più forti di prima. Paura, certo: non è per questo che si uccidono le mogli e le fidanzate che abbandonano? Quando lo si sottolinea, scatta lo scherno verso le femministe con le ascelle pelose, in tutti gli ambienti. Anche letterari, sì, certo.
Infine, un altro appello alla memoria. Quelle famose femministe non si sono mai distratte, in Italia e altrove. Ci sono sempre state anche se non sono sempre state narrate. Dal 1971 hanno rivendicato il diritto di scegliere se essere madri o non esserlo. Femministe di prima, seconda, terza, quarta ondata, settantenni e ventenni, con pratiche che si aggiornano e resistono, anche se nessuno se ne accorge (tranne le donne, evidentemente). Se si vuole citare Atwood, è bene ricordare che la scrittrice ha sempre sostenuto di non aver mai scritto nulla che non sia già accaduto. E che è pronto ad accadere ancora.
Medici obiettori di coscienza: quando tutelare il nascituro tutela anche il profitto. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.
La foto parla da sola: «Tieni le tue leggi lontano dal mio corpo» porta scritto sulla propria pelle una donna che protestava in piazza a Los Angeles contro la recente sentenza della Corte suprema Usa che ha cancellato il diritto costituzionale all’aborto.
In questa immagine la protesta di una donna, SophiaMeneakis, a Los Angeles, in California, il 26 giugno scorso: la Corte suprema statunitense ha appena sancito la cancellazione del diritto costituzionale ad interrompere volontariamente la gravidanza (foto Jason Armond/Los Angeles Times/Getty)
Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola l’8 luglio. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»
Dice che in Molise ci sono solo due medici abortisti e che le cose vanno male, ma io ricordo che fino a pochi anni fa non ce n’era nemmeno uno. Fino a pochissimo tempo fa in Molise tutte le strutture pubbliche praticavano l’obiezione di coscienza al 100% e quindi, chi avesse voluto abortire, avrebbe dovuto spostarsi altrove. E altrove le cose non andavano e non vanno molto meglio. Ciò che è accaduto negli Usa ha acceso i riflettori su un dramma eterno - l’accesso all’aborto - che solo formalmente ha trovato una soluzione in Italia con la 194 del 1978 e in Usa con la sentenza Roe contro Wade del 1973. L’argomento è interessantissimo e ricco di sfumature, lo si può affrontare attraverso molte lenti, ma quella che preferisco è seguire il profitto: cui prodest? Chi trae profitto dall’aborto negato nelle strutture pubbliche?
IN ITALIA SOLO IL 30% DEI GINECOLOGI PRATICA ABORTI IN STRUTTURE PUBBLICHE. LA SOLUZIONE? IL PRIVATO, DOVE PAGHI PER UN DIRITTO
In Italia solo il 30% dei ginecologi pratica l’aborto nelle strutture pubbliche, ci sono intere aziende ospedaliere in cui tutto il personale ha scelto di obiettare. In queste realtà territoriali, molto più diffuse di quanto si pensi e presenti in ogni angolo del Paese, la soluzione è il privato. Pagare per un diritto che è costituzionalmente garantito. La stessa cosa avveniva - e avverrà in maniera ancor più drammatica - negli Usa dove, se è vero che la sentenza Roe contro Wade garantiva l’accesso all’aborto facendo ricorso al Quattordicesimo Emendamento (diritto alla privacy inteso come diritto di libera scelta, diritto di autodeterminazione), anche lì abortire senza dover pagare era ed è un’impresa ardua. E allora, provando a non apparire complottista, mi domando se la tutela della vita del nascituro non sia piuttosto tutela del profitto.
Mi domando se tutte le persone che, a vario titolo, si impegnano perché un diritto come l’aborto sia considerato un privilegio, un capriccio immorale della donna, o peggio, un metodo di contraccezione, stiano pensando a tutelare i diritti di un essere umano non ancora nato o i profitti di qualche essere umano già nato. Il progressivo smantellamento della sanità pubblica a vantaggio della privata mi farebbe pensare di non essere poi così lontano dal vero. Quindi, se da un lato sentirsi fare la morale o addirittura leggere di esternazioni di esultanza per un diritto negato è davvero inaccettabile, dall’altro dovremmo interrogarci, a prescindere dalle biografie di questo o quel giudice, su quale sia il fine ultimo delle Corti costituzionali; fine non dichiarato, ma sempre perseguito. Su argomenti «divisivi» - come piace a certo giornalismo e a certa politica definire le questioni cruciali che determinano la quotidianità di noi umani - l’orientamento è sempre di base conservatore, tende sempre a cristallizzare lo status quo.
UNA MINORENNE INCINTA, PER IGNORANZA O PER ERRORE, HA LA VITA ROVINATA E NESSUNO NE TUTELERÀ I DIRITTI
Negli Usa, mi si dirà, il diritto c’era, a che pro stabilire che non fosse costituzionalmente garantito e affidarne la gestione ai singoli Stati? Solo formalmente il diritto era garantito; nella prassi gli ostacoli erano tanti e tali da essere già di fatto, il diritto all’aborto, un diritto negato. A questo si aggiunga l’orientamento politico dei giudici della Corte suprema e di alcuni Stati federali e si capisce bene come questa scioccante decisione fosse di fatto nell’aria da tempo e affondi le sue radici nella diserzione delle urne. Possiamo sentirci al sicuro in Italia? No. E non avremmo dovuto sentirci al sicuro nemmeno prima della sentenza Usa. In Italia abortire è relativamente facile per chi ha mezzi propri, quasi impossibile per fasce sociali ed economiche meno tutelate. Ma le fasce più deboli di norma non hanno voce né rappresentanti politici a garantirne i diritti acquisiti. Quindi si dirà sempre che abortire si può, basta volerlo.
Raccontate questa favola a una minorenne di provincia che, per ingenuità, ignoranza o errore è rimasta incinta; raccontatelo a lei che se lo vengono a sapere a casa la sua vita è rovinata! Per lei non è questione divisiva, ma vitale. La direzione dell’Italia è evidente da quando la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili i tre quesiti referendari che avrebbero stimolato dibattito sul referendum spingendo verso il quorum e dato un impulso importante su diritti conquistati (eutanasia), contrasto alla criminalità organizzata (legalizzazione della cannabis) e responsabilità degli organi giudicanti. La foto che ho scelto parla da sola: tieni le tue leggi lontane dal mio corpo.
"La sentenza della Corte Suprema è politica". Aborto, Biden firma ordine su interruzione gravidanza: “Donne votate per fermare estremisti repubblicani”. Redazione su Il Riformista l'8 Luglio 2022
A due settimane dalla decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di cancellare il diritto all’aborto, arriva la prima mossa del presidente Joe Biden. che ha firmato un ordine esecutivo a difesa del diritto all’accesso all’interruzione di gravidanza per le donne americane. La “terribile, estrema e completamente sbagliata” decisione della Corte Suprema sull’Aborto “non è stata una guidata dalla Costituzione”, ma è stato un “esercizio di potere politico” spiega l’inquilino della Casa Bianca in riferimento ai giudici nominati dal suo predecessore Donald Trump.
L’ordine esecutivo di oggi garantisce a tutte le donne che vogliono abortire la libertà di movimento da uno Stato all’altro. Per Biden il modo per ristabilire il diritto all’Aborto su tutto il territorio nazionale, cancellato dalla decisione della Corte Suprema, è “votare“, esprimendo “la speranza” che a novembre le “donne voteranno in massa per riprendersi i diritti”. Il presidente americano ha infatti ricordato che “la via più veloce” per difendere il diritto all’aborto è approvare al Congresso “una legge che codifichi” quanto era stabilito dalla sentenza Roe vs Wade, cioè che il diritto all’aborto è tutelato dal diritto alla privacy sancito dalla Costituzione. E per farlo bisogna che vengano eletti a novembre più rappresentanti pro choice, in particolare al Senato.
Corte che “ha praticamente sfidato le donne americane ad andare alle urne” per ristabilire il diritto che “è stato tolto loro”. Biden ha sottolineato ancora una volta l’importanza del voto di midterm di novembre, per ottenere al Congresso la maggioranza necessaria a fare approvare una legge federale in tema di Aborto. Il presidente ha quindi rilevato che nelle liste elettorali la percentuale di donne registrate è “più alta” rispetto a quella degli uomini. “Questa è la strada più rapida“, ha detto il presidente in riferimento al voto, aggiungendo che gli “estremisti repubblicani”, dopo avere ottenuto la loro vittoria politica con la decisione della Corte Suprema, ora “vogliono spingersi oltre”, attaccando altri diritti.
Con l’ordine esecutivo firmato oggi, Biden ha formalizzato una serie di istruzioni per i dipartimenti di Giustizia e Salute per consentire alle donne di accedere con più facilità a farmaci abortivi approvati dal governo federale o di viaggiare attraverso i confini statali per accedere ai servizi di Aborto nelle cliniche specializzate. L’ordine esecutivo riguarda anche la privacy e la diffusione dei dati delle pazienti.
Nelle misure della Casa Bianca, anche la richiesta alla Federal Trade Commission di soluzioni per proteggere la privacy di coloro che cercano informazioni sull’assistenza riproduttiva online e l’istituzione di una task force inter-agenzia per coordinare gli sforzi federali per salvaguardare l’accesso all’Aborto. La Casa Bianca ha affermato che convocherà anche degli avvocati volontari per fornire alle donne e agli operatori del settore assistenza legale pro bono per aiutarli a superare le nuove restrizioni statali dopo la sentenza della Corte Suprema.
La sentenza. Non vogliono l’aborto e sono fan della pena di morte, chi sono i giudici della Corte Suprema. Elisabetta Zamparutti su Il Riformista il 15 Luglio 2022.
Vita! Ineffabile mistero legato al respiro, dal primo vagito all’ultimo sospiro. E quanti i guardiani di questo fluire, dentro e fuori i polmoni, dell’aria, a volte ferma a volte burrascosa. Tra questi i giudici della Corte Suprema americana che hanno deciso in sei contro tre di mettere fine alle garanzie costituzionali per l’aborto. Lo hanno fatto dopo mezzo secolo dalla loro introduzione. “Ha vinto la vita!” ha commentato qualcuno. Per Donald Trump siamo addirittura all’espressione della “volontà di Dio”. Strumenti della manifestazione di questa “volontà divina” sono certamente i tre giudici che lui stesso ha designato: Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett i quali hanno costituito la super maggioranza conservatrice della Corte Suprema, unendosi all’afroamericano Clarence Thomas scelto da Bush padre e a John Roberts e Samuel Alito voluti da Bush figlio. Conservare, cum-servare, tenere con sé.
Sono d’accordissimo. La vita stessa è mantenimento di un equilibrato insieme di elementi diversi quali parti di un tutto. Ordine armonico e per questo vitale in un disordine altrimenti distruttivo. Marco Pannella, sull’aborto, diceva che ciò che bisogna assicurare è il diritto a procreare con amore, con consapevolezza, anziché il riprodursi come bestie. Questo attiene alla vita, in una dimensione nonviolenta e civile. Mentre, invece, trovo una matrice violenta, primordiale, disordinata, in fin dei conti mortifera nell’imposizione della vita a tutti i costi come inteso dai guardiani americani della Corte Suprema. Non è un caso che i tre giudici di nomina trumpiana si siano distinti per un morboso attaccamento da un lato alla vita di un feto e contemporaneamente alla pena di morte. Ricordo ancora la motivazione scritta dal giudice Gorsuch nel rigetto del ricorso di un condannato a morte del Missouri, Russell Bucklew, che spiegava come fosse affetto da una malattia rara che gli avrebbe causato atroci dolori se giustiziato con l’iniezione letale e che pertanto chiedeva un metodo alternativo.
Si era appellato all’ottavo emendamento che vieta trattamenti crudeli e inusuali. Per Gorsuch “l’ottavo emendamento vieta metodi ‘crudeli e inusuali’ ma non garantisce una morte indolore”. Non so cosa possa esserci di più cinico e violento. D’altro canto lo stesso Trump ha danzato con la morte per consegnare la sua presidenza alla storia. Nel 2020, fece giustiziare dieci persone – un numero maggiore rispetto a quello delle esecuzioni nei cinquanta Stati dell’intero continente – ripristinando le esecuzioni federali sospese dal 2003. Trump ha inteso passare alla storia con il bottino del maggior numero di esecuzioni federali dal 1896 e uscire di scena con la messa a morte, senza alcuna pietà, di una persona torturata e abusata per una vita: Lisa Montgomery, la prima donna giustiziata in settant’anni negli USA. Ecco, un pensiero conservatore servirebbe per manifestare, anche politicamente, il senso di una vita concepita con amore e capace di contenere – di tenere con sé – anche chi nella sua vita ha conosciuto tempeste, scommettendo sull’inesorabile schiarita. Contenimento e conservazione possibile se fondata sulla fiducia, oserei dire sull’amore, per la persona umana: la donna che decide di abortire o il condannato che decide di cambiare. Elisabetta Zamparutti
Dopo soli quattro anni la forca tornò legale. Quando gli Stati Uniti abolirono la pena capitale, ma solo per pochi anni…Valerio Fioravanti su Il Riformista l'8 Luglio 2022
Il 29 giugno 1972 la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la pena di morte. Nel 50° anniversario della famosa sentenza Furman v. Georgia ne hanno scritto in tanti. A noi italiani francamente interessa poco, e non siamo nemmeno molto sicuri che le sentenze di costituzionalità servano a qualcosa, perché in Italia in effetti restano ferme sui libri, e sortiscono scarsi effetti. Però possiamo approfittarne per fare un riassunto della comunque interessante situazione della pena di morte nel Paese “più potente del mondo”.
La fede assoluta che alcuni settori degli Stati Uniti hanno nel concetto di “punizione durissima” deve interessarci, non è opportuno che rimanga relegata ai buoni sentimenti di chi lavora nelle ONG, perché non c’è una grande differenza tra i principi istitutivi secondo cui molti statunitensi vogliono punire i propri cittadini “sbagliati”, e il desiderio di punire anche il resto del mondo quando “sbaglia” anch’esso. La sentenza del ’72 riconosceva che la vaghezza delle leggi accordava alle giurie popolari poteri discrezionali troppo ampi, che sconfinavano nell’arbitrio. A quell’epoca, infatti, come un retaggio dei “linciaggi” del passato, in molti Stati si poteva emettere una condanna a morte anche solo per rapimento o per stupro. Ovviamente in quegli anni l’elemento razziale era particolarmente rilevante, e per “stupro” si intendeva spesso un uomo nero che faceva sesso con una donna bianca. Molte giurie consideravano questa cosa “stupro” a prescindere anche dalla consensualità.
La Corte Suprema dal 1965 in poi aveva già emesso una serie di sentenze parziali, ma nel 1972 mise ordine alle proprie deliberazioni e ne emise una complessiva, e dichiarò incostituzionali le leggi di 40 Stati e del governo federale, e ridusse automaticamente all’ergastolo le 629 condanne a morte allora esistenti. Fu una sentenza elaborata, emessa con la maggioranza minima: 5-4. Due dei componenti, Brennan e Marshall (il primo nero nominato alla Corte Suprema) sostenevano che era la pena di morte di per sé a essere incostituzionale, altri tre sostennero che era il modo in cui veniva amministrata a non essere corretto, e gli altri quattro, i “contrari”, ammisero che c’erano degli elementi di “arbitrarietà”, ma in una misura accettabile, in quanto ogni procedimento giudiziario è in qualche misura “arbitrario”. Gli ottimisti scrissero che gli Stati Uniti avevano abolito la pena di morte. I pragmatici invece si misero al lavoro, e dopo soli quattro anni, modificate le varie leggi, ottennero, nel luglio 1976, un’altra sentenza “storica”, Gregg v. Georgia, votata 7-2: si poteva ricominciare a emettere condanne a morte.
Il combinato disposto tra le sentenze parziali e “Furman” aveva bloccato tutte le esecuzioni negli Stati Uniti dal 1967 al 1977. La prima persona giustiziata nel “nuovo corso” fu Gary Gilmore, che volle creare un certo scandalo e affrettò la procedura, e si presentò volontariamente alla fucilazione, in Utah, lo Stato mormone, il 17 gennaio 1977. La storia di Gilmore venne raccontata in un romanzo da Norman Mailer, che con Il canto del boia vinse il Premio Pulitzer. A parte Gilmore, le uccisioni ripartirono molto lentamente, e nei primi sei anni furono giustiziate solo 7 persone. Poi la macchina infernale terminò il rodaggio, e nel 1984 si arrivò a 21 esecuzioni, che diventarono 98 nel 1999, il record nell’epoca post-Furman, e da lì iniziò un calo costante: 60 nel 2005, 39 nel 2013, 25 nel 2018 e 17 nel 2020, 10 delle quali fortemente volute da Trump in campagna elettorale. Nel 2021 le esecuzioni sono state 11 e nei primi 6 mesi di quest’anno 7.
Nel frattempo 23 Stati hanno abolito la pena di morte, comprese le due “capitali”, Washington e New York. Dal 1977 a oggi sono state emesse complessivamente 9.763 condanne a morte ed effettuate 1.547 esecuzioni. Già solo questo fatto, che in media solo una condanna su sei arrivi davvero all’esecuzione, conferma che molto è affidato al caso: a parità di reato farà la differenza la geografia, la razza, il censo, l’ignoranza, la malattia mentale, il quoziente intellettivo. Come sappiamo tutti, oltre l’80% delle esecuzioni sono negli Stati del Sud, e il Texas da solo ne ha il 37%. Questi Stati hanno una vera a propria “cultura” della durezza giudiziaria. Considerato però che a fronte di tanta severità sono e rimangono la parte degli Stati Uniti con il più alto tasso di omicidi, forse il termine più appropriato sarebbe “fede ferrea”. Quando si insiste a fare qualcosa anche se non funziona, evidentemente è “fede”. Malriposta, ma fede. Valerio Fioravanti
La Corte Suprema il 24 giugno scorso ha annullato la sentenza Roe contro Wade. Aborto, Biden alle donne: “Continuate a protestare, è di cruciale importanza”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 10 Luglio 2022.
“Continuate a protestare. Continuate a tenere il punto. È di cruciale importanza”. È quanto ha detto il presidente Usa, Joe Biden, rivolgendosi alle manifestanti che protestano per il diritto all’Aborto a seguito della sentenza della Corte suprema del mese scorso. Biden ha parlato con i giornalisti durante una sosta nel corso di un giro in bicicletta vicino alla sua casa di famiglia sulla spiaggia in Delaware.
Poche ore prima più di diecimila persone si sono radunate a Washington per manifestare a favore dell’Aborto. Al grido di “non torneremo indietro” i manifestanti si sono diretti verso la Casa Bianca e hanno chiesto di contrastare la decisione della Corte Suprema, che ha revocato il diritto all’Aborto, stabilito quasi cinquant’anni fa. Alcune persone, sotto gli sguardi della polizia, si sono legate alle cancellate che si trovano attorno alla residenza presidenziale. Molti gli appelli ai Democratici ad agire. “O lo fate voi, o lo faremo noi”, hanno scandito i manifestanti. Non sono stati segnalati incidenti.
Biden ha detto di non avere il potere di costringere ad applicare l’Aborto gli Stati Usa che hanno rigide restrizioni o divieti e per questo ha riferito che sta valutando la possibilità di dichiarare un’emergenza sanitaria pubblica per liberare risorse federali per promuovere l’accesso all’Aborto, anche se la Casa Bianca ha detto che non sembra “un’ottima opzione”. “Non ho l’autorità per dire che ripristineremo la Roe v.Wade come legge del Paese”, ha detto Biden riferendosi alla decisione della Corte Suprema del 1973 che aveva stabilito un diritto nazionale all’Aborto, ma ha ribadito che il Congresso dovrebbe codificare quel diritto e che per avere maggiori possibilità in futuro gli elettori dovrebbero eleggere più parlamentari che supportino l’accesso all’Aborto.
Biden ha affermato che la sua amministrazione sta cercando di fare “molte cose per accogliere i diritti delle donne” dopo la sentenza, inclusa appunto la possibilità di dichiarare un’emergenza sanitaria pubblica per liberare risorse federali. Una mossa del genere è stata promossa dai sostenitori, ma i funzionari della Casa Bianca ne hanno messo in dubbio sia la legalità che l’efficacia e hanno notato che quasi certamente dovrà affrontare sfide legali. Il presidente ha detto di aver chiesto ai funzionari “di vedere se ho l’autorità per farlo e quale impatto avrebbe”. Venerdì Jen Klein, il direttore del Consiglio per la politica di genere della Casa Bianca, aveva dichiarato che “non sembra un’ottima opzione”. “Quando abbiamo esaminato l’ipotesi dell’emergenza sanitaria pubblica – ha detto – abbiamo imparato un paio di cose: una è che non libera molte risorse”, ha detto ai giornalisti, spiegando che “è quello che c’è nel fondo di emergenza per la salute pubblica, e ci sono pochissimi soldi, decine di migliaia di dollari”, e che “inoltre non rilascia una quantità significativa di autorità legale. Ed ecco perché non abbiamo ancora intrapreso questa azione”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
La sentenza Usa. Il Parlamento Ue “risponde” alla Corte Suprema: l’aborto è un diritto fondamentale. Redazione su Il Riformista l'8 Luglio 2022
Il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione (324 sì, 155 no, 38 astenuti) che chiede di inserire il diritto all’aborto nella Carta fondamentale dei diritti Ue. L’iniziativa, che non ha valore vincolante, nasce in contrapposizione alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha cancellato la precedente sentenza Roe vs Wade che nel 1973 aveva legalizzato l’aborto a livello federale. Hanno votato a favore Socialisti e Democratici (tra cui tutta la delegazione del Pd), i Verdi e la Sinistra unitaria. Hanno votato contro i Conservatori (tra cui la delegazione di FdI), la destra euroscettica (tra cui la Lega, tranne un voto a favore). Il Ppe, invece, si è diviso. Compatta per il no alla risoluzione Forza Italia (tranne uno).
“Si tratta di una risposta finalmente positiva del Parlamento europeo all’appello promosso dalle associazioni femministe italiane ed europee e di un importante segnale di solidarietà nei confronti delle donne americane e di chi si batte per la salvaguardia del diritto a un accesso sicuro all’interruzione di gravidanza – commenta la presidente della Casa Internazionale delle Donne di Roma, Maura Cossutta -. Già il 9 giugno un’altra risoluzione aveva chiesto agli Stati membri un impegno per contrastare le limitazioni all’accesso all’interruzione di gravidanza, a partire dall’obiezione di coscienza. Atti che sono in linea con quanto richiesto dalle associazioni per i diritti delle donne in Italia e in Europa”.
Gli eurodeputati chiedono una modifica dell’articolo 7 della Carta dei diritti, allegata ai Trattati Ue, inserendo la frase “ogni persona ha diritto all’aborto sicuro e legale”. Ieri a Roma con un presidio a piazza dell’Esquilino Non Una Di Meno e Women’s March Rome hanno manifestato solidarietà con le donne Usa e contro l’obiezione di coscienza: “Non torneremo indietro”. Nei prossimi giorni manifestazioni in tutta Italia in difesa dell’interruzione volontaria di gravidanza.
Se per la Ue dei diritti l'aborto è un vanto: la risoluzione e le polemiche. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 09 luglio 2022.
Ue pare un vagito ma è la sigla di morte della vita nascente. Lo è tanto più da ieri, quando l'Europarlamento ha approvato a larga maggioranza, con 324 voti favorevoli, 115 contrari e 38 astenuti, una risoluzione per inserire il diritto di aborto nella Carta europea dei diritti fondamentali. In particolare, la richiesta è di adottare l'espressione «Ogni persona ha diritto all'aborto sicuro e legale» come articolo 7 bis della Carta, subito dopo quello che stabilisce che «ogni persona ha diritto al rispetto del proprio domicilio e della propria corrispondenza»: e già qui si capisce la confusione dell'Ue che mette la vita umana sullo stesso piano valoriale di una missiva o una mail.
E poi, cosa vuol dire «ogni persona ha diritto all'aborto»? La hanno anche i maschi, per caso? Si dice «persona» forse perché chiamare la donna «donna» per l'Ue sarebbe discriminatorio? Vabbè, tralasciamo... La risoluzione approvata non sarà vincolante per gli Stati membri, ma verrà comunque sottoposta al Consiglio dell'Unione europea che ha la facoltà di procedere a una revisione dei trattati, a cui è equiparata appunto la Carta.
MAGGIORANZA URSULA Non sorprende che, a votare a favore della risoluzione abortista, sia stata tutta la maggioranza Ursula, con l'adesione pressoché unanime dei Socialisti, del gruppo The Left, dei Verdi, dei grillini, e di mezzo Ppe, mentre a opporsi siano stati il gruppo di Identità e democrazia (di cui è parte la Lega) e quello dei Conservatori europei, guidato dalla Meloni.
Semmai è singolare che, anziché tutelare il diritto alla vita, come è riconosciuto ad esempio nella Costituzione americana, insieme alla libertà e alla felicità, l'Unione europea preferisca riconoscere come fondamentale il diritto (doloroso, traumatico) di sopprimere una vita nascente. Non ha saputo riconoscere come fondamentali le radici cristiane, l'Europa preferisce ritenere come fondante lo sradicamento di un feto... A riguardo, il testo della risoluzione sottolinea più volte, come è sacrosanto e ci mancherebbe, i diritti della donna e la sua libertà di scelta; ma li declina sempre nell'ottica del dovere degli Stati di «eliminare e combattere gli ostacoli all'aborto sicuro e legale». Mai una volta che ci fosse invece il riferimento all'urgenza per gli Stati di rimuovere e superare gli ostacoli che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza. Insomma, ai firmatari della risoluzione, sfugge il concetto che l'aborto deve restare sempre l'extrema ratio e ogni Paese dovrebbe impegnarsi perché sia tale. Altrettanto incredibilmente manca nel testo approvato dal Parlamento Ue ogni riferimento al diritto del nascituro così come al diritto dei medici e del personale sanitario di fare obiezione di coscienza.
No, per l'Ue esiste solo il diritto della donna d’abortire.
Non meno clamoroso è che l'Unione europea si impicci negli affari di altri Paesi sovrani, come gli Usa, giudicando le scelte dei suoi più alti organi istituzionali, con un atto di ingerenza e di sfida (geo)politica. Scopo della risoluzione è infatti anche quello di «condannare fermamente la regressione in materia di diritti delle donne e di salute sessuale e riproduttiva negli Stati Uniti», a seguito della sentenza della Corte Suprema che ha deciso di revocare il diritto costituzionale federale all'aborto. Nel testo si esprime più volte lo sdegno per quella decisione che, oltre ad «aggravare il circolo vizioso della povertà» di molte donne, soprattutto adolescenti (se hanno figli, non potranno più lavorare, è la tesi), «potrebbe incoraggiare il movimento antiabortista nell'Ue» (e anche se fosse?).
Da qui un appello esplicito a interferire nelle faccende interne agli Usa: l'Europarlamento, si legge, «sostiene la richiesta affinché il Congresso degli Stati Uniti approvi un progetto di legge che tuteli l'aborto a livello federale» e «chiede che le prossime delegazioni del Parlamento europeo a Washington sollevino costantemente la questione dei diritti in materia di aborto».
METODI ILLIBERALI A livello di affari relativi ai Paesi europei, invece, suona decisamente inquietante e profondamente illiberale la richiesta di togliere finanziamenti ai gruppi pro-vita (l'Europarlamento «esprime preoccupazione per un possibile aumento del flusso di denaro per finanziare gruppi anti-genere e anti-scelta nel mondo, anche in Europa»), così come l'esortazione a «intensificare il sostegno politico a favore dei prestatori di assistenza sanitaria che lavorano per far progredire la salute sessuale e riproduttiva e i relativi diritti» (leggi, i gruppi abortisti). Alla faccia della libertà di scelta, qui siamo all'imposizione di un Pensiero Unico. «Un indicatore inquietante del progetto sociale delle sinistre per l'Europa: vogliono sponsorizzare il ricorso all'aborto e liberalizzarlo al massimo, così da tramutarlo in un banale prodotto di consumo», lo definisce l'eurodeputato di Fdi Vincenzo Sofo. «Un delirio ideologico di ispirazione totalitaria», aggiunge il portavoce di Pro Vita & Famiglia Jacopo Coghe avvertendo: «Non ci faremo intimidire da un colpo mortifero che condanna le future generazioni europee a non vedere mai la luce». Eh già, ad abortire ieri è stata soprattutto l'idea di una nuova Europa, aperta alla vita e al domani.
Se la libertà abortisce. Marcello Veneziani
La sentenza sull’aborto della Corte suprema americana ha riaperto una ferita profonda nella società americana e ha confermato una divaricazione radicale nella società occidentale, destinate entrambi a perdurare. Non vi parlerò ancora della sentenza e nemmeno dell’allineamento drastico, militante del 99% dei media e del paese legale contro la sentenza che invece spacca in due il paese reale. Ma vorrei riflettere su una realtà che ci ostiniamo a non voler vedere, così minando alle basi la nostra democrazia e la stessa libertà e cittadinanza.
Gli States sono la casa del politically correct e di ogni altro suo derivato tossico. Ma sono anche la patria della militanza conservatrice e religiosa come non succede da nessun’altra parte d’Occidente. Oltre l’aborto, infatti, ieri la Corte ha riammesso la possibilità di pregare in classe e in campo, inginocchiandosi: era consentito in nome di Blacks Live Matter, ma non nel nome di Dio.
Sarebbero impensabili sentenze del genere in Italia, e in quasi tutta Europa. E impensabile sarebbe una forza politica cospicua pronta a dar battaglia sul piano parlamentare. Già due forze su tre nel centro-destra nostrano si sono defilate.
Ma al di là delle ipocrisie, la realtà torna a bussare alle coscienze civiche e politiche dell’occidente. La realtà è che ci sono due visioni della vita contrapposte in modo irriducibile e non possiamo continuare a pensare che solo una sia quella giusta, sacrosanta, umana, moderna, eco-compatibile e l’altra debba solo soccombere. Da una parte c’è quella che in queste ore sta montando furiosa in tutto l’Occidente contro la sentenza della corte, che insorge rabbiosa su tutti i temi sensibili che riguardano soprattutto i diritti civili e umani. E che considera barbara ogni scelta, opinione, pronunciamento in direzione opposta o anche solo diversa. E’ la parte liberal, radical, progressista, che pur sostenendo il relativismo dei valori, non ammette altri valori e altre scelte all’infuori delle proprie, ponendosi non come la parte ma come il tutto; l’Assoluto nel senso del Bene, del Giusto, del Vero.
Dall’altra parte c’è una larga opinione pubblica che non si riconosce in quello schema e in gradi diversi inclina per la visione opposta, ma tace o lo dice solo a mezza voce. E poi c’è una parte minore, a cui si unisce il Papa, che invece è netta e perentoria, soprattutto negli Usa, e propone la stessa intransigenza dei suoi avversari su valori che ritiene non negoziabili, assoluti. Come il diritto alla vita, la salvezza dei nascituri, il diritto di pregare anche nei luoghi pubblici. Sono quelli dell’aborto come omicidio, per dirla con Bergoglio.
Come forse sapete, chi scrive propende per questa visione, senza nasconderlo, e ritiene effettivamente che quei principi siano fondamentali. Ma se la società è spaccata in due su questi temi non si può pensare di eliminare il nemico, tra prova muscolare e criminalizzazione. Pur ribadendo i propri principi si deve vedere se sono possibili intese di alto profilo, senza sotterfugi e ipocrisie, tra due visioni così radicalmente antagoniste.
Non si può pretendere che il fronte dell’aborto si converta o sia sconfitto ed eliminato. I suoi punti di forza sono il diritto delle donne a decidere della loro maternità e la convinzione che il feto non sia ancora una persona con i suoi diritti. I punti di forza dell’altro versante sono invece il diritto alla vita e la convinzione che una vita si formi al suo concepimento: il feto è già una persona e una promessa reale di vita. Gli abortisti dicono: se tu non vuoi abortire sei libera di non farlo ma lascia alle altre il diritto di farlo. Ma se l’aborto è per te un omicidio, non puoi dire: Uccidi? fatti tuoi, io sono libero di non farlo…
Non si può pretendere che uno o l’altro si rassegni ad accettare le ragioni opposte ma si può tentare di stabilire una zona di frontiera. Del tipo: ferme restando le due opposte convinzioni, e il legittimo intendimento di affermarle, si può concordare sul fatto che abortire è comunque una tragedia e perciò è lecito e doveroso aiutare a non farlo. Non boicottare chi abortisce, ma in positivo, aiutare chi recede dal suo proposito.
Non si tratta di relativizzare i propri principi e diritti elementari ma di capire che la loro traduzione nella realtà comporta di fare i conti con la reale umanità. E’ inutile negarlo, ci sono due modi di vedere la realtà e per vivere abbiamo due soluzioni: o accettare l’alternanza di leggi pro e contro l’aborto, a seconda di chi vince le elezioni, senza recriminare; o tentare un punto di mediazione pur restando ciascuno nelle proprie convinzioni. Questo vuol dire libertà e reciproco rispetto. Detto in termini filosofici: non si tratta di ridurre la verità a punto di vista ma di riconoscere sì la verità sopra di noi, però ritenere che nessuno detenga il monopolio assoluto della sua traduzione.
Invece si è scatenata una campagna feroce in cui i giudici, i movimenti pro life, i conservatori sono stati ridotti a mostri. In particolare vergognosa la campagna contro il giudice nero Clarence Thomas (ma guarda, la sinistra legalitaria che si schiera contro la legge e contro il magistrato nero). Si è cercato, come sempre fa la sinistra, non di confutare la “sua” sentenza ma di discreditare e diffamare il magistrato, insinuando che tutta la sua battaglia non abbia nulla di legale né di ideale ma risponda a un rancore personale contro i progressisti e a un proposito di vendetta a lungo covato. La smerdizzazione dell’avversario, la riduzione a carogna… Ma la soluzione non è rovesciare lo schema e riproporlo uguale dall’altra parte. Il problema di fondo resta e tocca tutti: dobbiamo imparare a convivere con la differenza di visioni della vita, senza mostrificare l’avversario. Perché se non accettiamo di convivere con questa realtà divisa, la soluzione più coerente è la guerra civile, l’ordalia. E non mi sembra il caso… La Verità (29 giugno 2022)
Testo di Pier Paolo Pasolini del 30 gennaio 1975 - pubblicato da “Sette - Corriere della Sera” l'8 luglio 2022.
Veniamo all’aborto. Tu (il destinatario dell’intervento è lo scrittore Alberto Moravia; ndr) dici che la lotta per la prevenzione dell’aborto che io suggerisco come primaria, è vecchia, in quanto son vecchi gli «anticoncezionali» ed è vecchia l’idea delle tecniche amatorie diverse (e magari è vecchia la castità).
Ma io non ponevo l’accento, sui mezzi, bensì sulla diffusione della conoscenza di tali mezzi, e soprattutto sulla loro accettazione morale, per noi – uomini privilegiati – è facile accettare l’uso scientifico degli anticoncezionali e soprattutto è facile accettare moralmente tutte le più diverse e perverse tecniche amatorie. Ma per le masse piccolo-borghesi e popolari (benché già «consumistiche») ancora no.
Ecco perché io incitavo i radicali (con cui è avvenuto tutto il mio discorso, che solo appunto visto come un colloquio con essi acquista il suo pieno senso) a lottare per la diffusione della conoscenza dei mezzi di un «amore non procreante», visto (dicevo) che procreare è oggi un delitto ecologico.
Se alla televisione per un anno si facesse una sincera, coraggiosa, ostinata opera di propaganda di tali mezzi, le gravidanze non volute diminuirebbero in modo decisivo per quel che riguarda il problema dell’aborto.
Tu stesso dici che nel mondo moderno ci sono due tipi di coppie: quelle borghesi privilegiate (edonistiche) che «concepiscono il piacere distinto e separato dalla procreazione» e quelle popolari, che «per ignoranza e bestialità non arrivano a una simile concezione».
Ebbene, io ponevo come prima istanza alla lotta progressista e radicale proprio questo: pretendere di abolire – attraverso i mezzi cui il paese ha democraticamente diritto – tale distinzione classista.
Insomma, ripeto, la lotta per la non-procreazione deve avvenire nello stadio del coito, non nello stadio del parto. Per quel che riguarda l’aborto, io avevo suggerito paradossalmente di rubricare tale reato nel quadro del reato di eutanasia, inventando per esso una serie di attenuanti di carattere ecologico. Paradossalmente.
In realtà la mia posizione su questo punto – pur con tutte le implicazioni e le complessità che sono tipiche di un intellettuale singolo e non di un gruppo – coincide infine con quella dei comunisti. Potrei sottoscrivere parola per parola ciò che ha scritto Adriana Seroni su Epoca (25-1-1975).
Bisogna evitare prima l’aborto, e, se ci si arriva, bisogna renderlo legalmente possibile solo in alcuni casi «responsabilmente valutati» (ed evitando dunque, aggiungo, di gettarsi in una isterica e terroristica campagna per la sua completa legalizzazione, che sancirebbe come non reato una colpa).
Mentre per il «referendum» sul divorzio ero in pieno disaccordo coi comunisti (che lo temevano) prevedendo la vittoria che poi si è avuta; mentre sono in disaccordo coi comunisti sugli «otto referendum» proposti dai radicali, prevedendo anche qui una vittoria (che ratificherebbe in effetti una realtà esistente), sono invece d’accordo coi comunisti sull’aborto.
Qui c’è di mezzo la vita umana. E non lo dico perché la vita umana è sacra. Lo è stata; e la sua sacralità è stata sentita sinceramente nel mondo antropologico della povertà, perché ogni nascita era una garanzia per la continuità dell’uomo. Ora sacra non lo è più, se non in senso maledetto (sacer ha tutti e due i sensi), perché ogni nuova nascita costituisce una minaccia per la sopravvivenza della umanità.
Dunque dicendo «c’è di mezzo la vita umana», parlo di questa vita umana – questa singola, concreta vita umana – che, in questo momento, si trova dentro il ventre di questa madre. È a ciò che tu non rispondi. È popolare essere con gli abortisti in modo acritico e estremistico? Non c’è neanche bisogno di dare spiegazioni?
Si può tranquillamente sorvolare su un caso di coscienza personale riguardante la decisione di fare o non fare venire al mondo qualcuno che ci vuole assolutamente venire (anche se poi sarà un disgraziato)? Bisogna a tutti i costi creare il precedente «incondizionato» di un genocidio solo perché lo «status quo» lo impone?
Va bene, tu sei cinico (come Diogene, come Menippo... come Hobbes), non credi in nulla, la vita del feto è una romanticheria, un caso di coscienza su un tale problema è una sciocchezza idealistica... Ma queste non sono delle buone ragioni.
ABORTO/SENTENZA USA: I ‘SINCERI DEMOCRATICI’? IN PIENO DELIRIO – di GIUSEPPE RUSCONI – rossoporpora.org – 26 giugno 2022
La sentenza della Corte Suprema statunitense che ha negato l’aborto come diritto costituzionale a livello federale (demandandone la valutazione ai singoli Stati dell’Unione) ha scatenato forti reazioni ancora in corso. Negli Stati Uniti e in altri Paesi. Anche in Italia. Ve ne offriamo un florilegio ‘democratico’, con un occhio anche a titoli e commenti deliranti. Alla fine una bella sorpresa giornalistica e un Post Scriptum che riempie di speranza.
Come facilmente prevedibile sono tanto numerose quanto spesso isteriche e turbolente le reazioni (anche di piazza) alla decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di affossare- con un Atto del 24 giugno 2022, di 213 pagine molto ben argomentate - la sentenza Roe v. Wade del 1973, con cui veniva riconosciuto l’aborto come un diritto garantito costituzionalmente a livello federale. La possibilità dell’aborto legale negli Usa non viene abolita, ma demandata alla valutazione autonoma di ogni singolo stato dell’Unione. Già in questi giorni e in ogni caso a breve si prospettano in una metà degli Stati dell’Unione il divieto di aborto o in ogni caso forti restrizioni alla sua pratica. Con conseguente chiusura di molte cliniche, in particolare della famigerata rete Plannet Parenthood, un impero industriale cresciuto sulla pelle delle donne (e degli uomini), comprovato grande finanziatore da tempo del partito democratico di Biden, di Obama, di Hillary Clinton.
La Corte era stata chiamata in causa per valutare la legge approvata dal Mississippi che limitava a 15 settimane il periodo in cui era possibile abortire, condizionando fortemente tale facoltà anche prima. La maggioranza della Corte ha però ritenuto di andare oltre, argomentando che in realtà il ‘diritto’ di aborto a livello federale non aveva nessun fondamento e la sentenza Roe v Wade poggiava su premesse sbagliate. Grande il coraggio civile – anche derivato dalla fede religiosa - mostrato dai sei giudici favorevoli (cinque convintissimi più uno che personalmente avrebbe preferito limitarsi alla convalida della legge del Mississippi): da tempo devono vivere sotto scorta per le continue minacce alla loro vita.
E’ indubbio che la storica decisione della Corte è un duro colpo da digerire per i fautori della sovversione antropologica: per i suoi ideologi, i suoi propagandisti e anche per l’ormai vasta cerchia delle aziende interessata agli enormi profitti economici legati al suo concretizzarsi.
Alla sentenza attinge con speranza rinnovata chi - non solo negli Stati Uniti, ma in tante parti del mondo- si batte, con ardore e con costanza spesso vilipesi dal politicamente corretto, perché cessi la strage disumana degli innocenti nel grembo materno. Sì, la nota e proteiforme lobby può essere costretta a indietreggiare, la gioiosa macchina da guerra si può fermare. Contro tutti o quasi… si può fermare, come ha dimostrato la Corte Suprema degli Stati Uniti. Si può fermare dappertutto, anche nell’Europa occidentale, anche in Italia.
Della sentenza (che pure induce anche a qualche fondata perplessità quando delega la tutela della vita umana agli elettori dei singoli Stati… ma tale tutela è delegabile, subordinata come sarebbe alle opinioni dominanti in un tempo ben definito?) proponiamo qui un passo particolarmente chiaro e incisivo.
Lo troviamo alle pagg. 14 e 15 della sentenza (Opinione Corte, sezione I):
“Per dare forza a questo Atto, si richiama una serie di fatti. Dapprima si nota che al momento dell’elaborazione dell’Atto, solo sei Paesi oltre gli Stati Uniti permettevano un aborto non terapeutico o su domanda dopo la ventesima settimana di gestazione. In realtà si constata che già alla quinta o sesta settimana di gravidanza incomincia a battere il cuore di un essere umano non ancora nato; all’ottava settimana l’essere umano non nato incomincia a muoversi nel grembo; alla nona settimana sono presenti tutte le funzioni fisiologiche fondamentali; alla decima settimana gli organi vitali incominciano a funzionare e le unghie delle mani e delle dita dei piedi incominciano a prendere forma; all’undicesima settimana il diaframma si sta sviluppando e ora l’essere umano non nato si muove liberamente nel grembo; e alla dodicesima settimana l’essere umano non nato ha preso forma umana in tutti i suoi aspetti più rilevanti”.
DALLA REAZIONE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DEGLI STATI UNITI – Dichiarazione del 24 giugno 2022 a firma del presidente José H. Gomez (arcivescovo di Los Angeles) e del presidente della Commissione episcopale per la vita William F. Lori (arcivescovo di Baltimora)
Questo è un giorno storico nella vita del nostro Paese, che suscita pensieri, emozioni e preghiere. (…) Per quasi cinquant’anni l’America ha applicato una legge ingiusta che ha permesso ad alcuni di decidere se altri possono vivere o morire; generazioni a cui è stato negato il diritto di nascere.
La sentenza è anche il frutto delle preghiere, dei sacrifici e della testimonianza pubblica di innumerevoli americani di ogni ceto sociale. In questi lunghi anni, milioni di nostri concittadini hanno lavorato insieme pacificamente per educare e persuadere i loro vicini sull’ingiustizia dell’aborto, per offrire assistenza e consulenza alle donne e per lavorare per alternative all’aborto, compresa l’adozione, l’affidamento e l’assistenza pubblica politiche a sostegno delle famiglie. Condividiamo la loro gioia oggi e gli siamo grati. Il loro lavoro per la causa della vita riflette tutto ciò che c’è di buono nella nostra democrazia e il movimento pro-vita merita di essere annoverato tra i grandi movimenti per il cambiamento sociale dei diritti civili nella storia della nostra nazione».
I ‘SINCERI DEMOCRATICI’ STATUNITENSI, DIFENSORI DEI ‘VALORI DELL’OCCIDENTE’ SONO TREMENDAMENTE INDIGNATI…
Joe Biden (presidente democratico e cattofluido degli Stati Uniti): Oggi è un giorno triste per la Corte Suprema e il Paese. E’ un tragico errore. Questa decisione è la realizzazione di tentativi che vanno avanti da decenni per rovesciare le leggi, la realizzazione di un’ideologia estrema: la Corte ha fatto una cosa mai fatta prima, togliere un diritto costituzionale fondamentale per milioni di americani. Non lo ha limitato, lo ha semplicemente eliminato. Con questa decisione la maggioranza conservatrice alla Corte Suprema ha mostrato quanto estrema sia, quanto si sia allontanata dalla maggioranza di questo Paese.
Jill Biden (moglie del presidente): Per quasi 50 anni, noi donne abbiamo avuto il diritto di prendere le nostre decisioni sul nostro corpo. Oggi quel diritto ci è stato rubato
Barack Obama (ex-presidente democratico degli Stati Uniti): La Corte Suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ma ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno può prendere ai capricci di politici e ideologi: (sono state) attaccate le libertà fondamentali di milioni di americani
Michelle Obama (moglie dell’ex-presidente): Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate. Avrà delle conseguenze devastanti. Una decisione orribile, dagli effetti devastanti.
Hillary Clinton (ex-Segretario di Stato, moglie dell’ex-presidente democratico Bill Clinton): Un’infamia.
Nancy Pelosi (speaker democratica Camera dei Rappresentanti) Decisione crudele, scandalosa. Un insulto.
Alexandria Ocasio-Cortez (esponente dell’ala sinistra del partito democratico): Biden apra immediatamente cliniche per l'aborto su terreni federali negli Stati repubblicani che imporranno il divieto. (…) Le elezioni non bastano, dobbiamo riempire le strade.
E LE AZIENDE DELLA NOTA LOBBY?
Saranno coperte le spese di viaggio delle dipendenti che vorranno abortire, ma non potranno farlo nel loro Stato di residenza: l’hanno comunicato le tante aziende di grande rilievo infiltrate pesantemente dalla nota lobby. Tra loro troviamo (prenda buona nota chi ci legge): Disney, Apple, JPMorgan , Tesla, Meta e Bank of America, Netflix, Levi Strauss e Microsoft.
IN CANADA (è previsto a fine luglio il viaggio apostolico in Canada di papa Francesco, che con Justin Trudeau ha apparentemente ottimi rapporti)
Justin Trudeau (primo ministro, esponente coccolato della sovversione antropologica): E’ orribile. Le notizie che arrivano dagli Stati Uniti sono orribili, Non riesco nemmeno a immaginare la paura e la rabbia che le donne statunitensi stanno provando in questo momento. Il mio primo pensiero va alle donne che hanno perso il diritto all’aborto.
IN FRANCIA Emmanuel Macron, (presidente francese tanto spavaldo quanto elettoralmente acciaccato): ha fatto annunciare che sarà depositata una proposta di legge all’Assemblea Nazionale per inserire il diritto all’aborto nella Costituzione francese (già l’ha annunciato per quella dell’Unione europea): L’aborto è un diritto fondamentale per tutte le donne. Deve essere difeso. Desidero esprimere la mia solidarietà alle donne le cui libertà sono state minate dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.
IN INGHILTERRA Boris Johnson (primo ministro inglese): La decisione è un grande passo indietro. Io ho sempre creduto nel diritto di scelta delle donne.
ALL’ONU Michelle Bachelet (Alto Commissario per i diritti umani - !!! – già presidente del Cile): E’ una grave battuta d'arresto dopo cinque decenni di protezione della salute sessuale e riproduttiva e dei diritti negli Stati Uniti attraverso Roe v Wade. L'accesso ad un aborto sicuro, legale ed efficace è saldamente radicato nel diritto internazionale dei diritti umani. E’ un duro colpo per i diritti umani delle donne e l'uguaglianza di genere. Gli Stati Uniti si stanno purtroppo allontanando dalla tendenza progressista.
IN ITALIA Alcune citazioni (ce ne sarebbero però altre assai problematiche sul versante del centro-destra…) relative a esponenti del centro-sinistra che incessantemente inneggiano all’impegno per la difesa delle libertà democratiche e dei valori occidentali (vedi ad esempio riguardo alla guerra scellerata in Ucraina, con un invio scandaloso di armi in conflitto grave con l’art. 11 della Costituzione)
Enrico Letta (segretario del Pd): La decisione della Corte americana sull'aborto è stato un errore grave perché è figlia di una svolta ideologica. (…) Un ritorno indietro che genera sconforto, alimenterà sofferenze e farà divampare conflitti. Da noi nessun ritorno al ‘900.
Elena Bonetti (ministro renziano della Famiglia, cattofluida di radici scoutistiche Agesci): E’ una decisione che lascia sgomenti, che ferisce la dignità e i diritti delle donne.
Nicola Zingaretti (Pd, governatore del Lazio): La terribile scelta della corte suprema americana rappresenta un drammatico passo indietro
Emma Bonino (radicale storica, in passato ha praticato aborti con una pompa aspirante infilata nell’utero della donna): La sentenza della Corte Suprema dopo 50 anni cancella il diritto di aborto negli Usa a livello federale, che perde così il livello di costituzionalità. Ora saranno i singoli Stati, un po’ come avviene in Europa, basti pensare a Polonia e Ungheria, oltre ai rigurgiti antiabortisti anche nel nostro Paese, a disciplinare questa libertà. E' sicuramente un passo indietro e la mia solidarietà va alle donne americane
I parlamentari del M5S (… e si è detto tutto…): Questa sentenza è l’ultima manifestazione di un’inquietante tendenza oscurantista presente non solo negli USA, ma anche in Europa e in tutto il mondo e che in Italia conosciamo molto bene.
I TITOLI PIU’ DELIRANTI: VINCE ‘LA STAMPA’ DI TORINO
La Stampa, 25 giugno 2022. A tutta prima pagina: L’America che odia le donne. Commento di Concita De Gregorio che incomincia in prima pagina: Così la destra umilia i più deboli. Altro commento di Linda Laura Sabbadini che incomincia in prima pagina: Non ci toglieranno la voglia di libertà. Grande titolo a pagina 2: Aborto: medioevo USA. Poker!
SI SI, NO NO? NEL VANGELO, MA NON NEI TITOLI DI ‘AVVENIRE’
Avvenire, 26 giugno 2022. Titolo di apertura: Ma la vita è dialogo. Titolo a tutta pagina 6: Vita e aborto, tempo di dialogo.
COMMENTI DI MAESTRI DEL VIVER CIVILE, DEMOCRATICAMENTE INTESO
Gianni Riotta (noto esperto della ‘vita buona’ da salotto, Repubblica, 26 giugno 2022), fa proprio come incipit del suo articolo questo giudizio di Ian Bremer, “sofisticato stratega del forum internazionale Eurasia”: Gli Stati Uniti non son più la democrazia dei tempi della caduta del Muro di Berlino. Non sono l’Ungheria, non sono la Turchia, ma vanno in quella direzione. Non si poteva dimenticare l’Ungheria…
Massimo Giannini (direttore de La Stampa, 26 giugno 2022): Anche in Europa si avverte una tendenza alla Grande Restaurazione. Se parliamo di aborto, basta vedere quello che sta succedendo in Polonia, dove una legge del gennaio 2021 ha ristretto drasticamente il diritto all’interruzione della gravidanza (…) Ma poi anche a Malta, o in Ungheria, dove Orbán ha fatto inserire in Costituzione “la tutela del feto fin dal suo concepimento” (…) In Italia già ora in molte strutture ospedaliere i medici obiettori si rifiutano di applicare la legge. (…) Bisogna dire no a queste tentazioni di nuovo Medioevo. Non si potevano dimenticare non solo l’Ungheria, ma anche Polonia e Malta. E il ‘Medioevo’ dell’obiezione di coscienza…Un perfetto democratico!
Lucetta Scaraffia (storica femminista, qui in versione cattofluida, La Stampa, 26 giugno 2022): Meglio chiarire subito: sono convinta che la decisione della Corte Suprema americana di negare all’aborto lo status di diritto inalienabile costituzionalmente garantito rappresenti di fatto una grave ferita alla libertà delle donne statunitensi. (…) E parimenti sono convinta che l’entusiasmo con il quale la Chiesa cattolica ha accolto questa decisione le costerà un ulteriore allontanamento delle donne. (poi la Scaraffia fa qualche considerazione condivisibile, ad esempio sulla necessità di non ignorare i padri dei nascituri, ma intanto le affermazioni iniziali restano).
Concita De Gregorio (nota editorialista radicalchic, La Stampa, 25 giugno 2022): Peccato, Peccato per il tempo che ci vorrà a risarcire questa ferita colossale, un salto indietro di cinquant’anni, ma come si sa la destra demolisce con un calcio castelli costruiti in decenni, sulle rovine festeggia. Nel Paese in cui da oggi non si può più abortire ma si può entrare in un asilo con la pistola in mano da puntare alla tempia dei bambini (…). Lucida la De Gregorio nella ricerca di immagini per palati forti…
Linda Laura Sabbadini (che si definisce ‘direttora del Dipartimento Metodi e Tecnologie Istat’, La Stampa, 25 giugno 2022): Non a caso dopo il popolo ucraino che anela a libertà e democrazia, le prime a essere sotto attacco nucleare sono le donne (…) Ma loro, i reazionari, non hanno più remore, preparano l’assalto al cielo, quello che fallirono a Capitol Hill. Vogliono distruggere la democrazia dei diritti e delle libertà, vogliono colpire al cuore le donne americane. La strategia è unitaria. La truppa di Trump si muove all’unisono con quella di Putin. Poteva non c’entrare Putin?
Filippo Facci (ovvero il Galateo fatto uomo, Libero, 25 giugno – il commento, intitolato “L’Italia ignori questa follia di quaccheri”, è pubblicato in prima pagina con seguito a pagina 2, accanto al commento contrapposto -bello e intenso – di Renato Farina, che porta il titolo: Così l’America ha ritrovato i suoi valori”): Della sentenza della Corte Suprema non ce ne frega niente. Della singola opinione di qualche baciapile – a me personalmente – non me ne frega niente. Se negli USA, dopo 49 anni, hanno deciso che una donna non è libera di interrompere una gravidanza, a questo Paese e a questo continente (fa eccezione la nota avanguardia polacca) non gliene frega niente, perché nel nostro caso c’è una decisione sancita da un referendum, promulgata a mezzo legge (la 194) e che soprattutto funziona. (…) La legge 194 c’è solo il problema di difenderla dai troppi sabotatori: l’Italia è stata uno degli ultimi Paesi occidentali in cui è stata introdotta la pillola Ru 486 che resta di complicata reperibilità; impossibile poi tacere di quella truffa da codice penale che resta l’obiezione di coscienza che è esercitata da circa l’80% dei ginecologi soprattutto in Campania, Basilicata e Sicilia (…) Noi, con il nostro 80% siamo ultimi con Portogallo e Argentina, nazioni note per i loro convincimenti etici. Dopo aver offeso i’ baciapile’, offende anche gli obiettori di coscienza e i meridionali cui la addebita in buona parte e offende anche polacchi, portoghesi e argentini: un nuovo Guinness dei primati in così poche righe!
A SORPRESA IL COMMENTO DI VITTORIO FELTRI
Vittorio Feltri (fondatore di ‘Libero’), in apertura di Libero del 26 giugno 2022 con prosecuzione a pagina 3, sotto il titolo “Quella volta che anch’io volevo fermare una vita”: Anche io quando ero un giovane padre mi trovai di fronte al dilemma. Io e mia moglie, persona mite, avevamo già tre figli. Ella a un certo punto scoprì di essere incinta (…) Se avesse portato a termine la gravidanza, con il quarto pargolo, non avrebbe più potuto continuare la sua attività importante presso un ente pubblico, l’Amministrazione provinciale. Sorse in me ed anche in lei l’idea dell’aborto, il quale però non era ancora stato reso lecito. (…) Presi contatto con una struttura (in Svizzera). (…) Avvicinandosi la data dell’intervento io e la mia consorte cominciammo ad avere titubanze che crebbero quotidianamente. Non discutevamo d’altro in casa mia (…) Una sera si mise a singhiozzare. Non riusciva a digerire la situazione che si andava profilando. Le presi la mano e gliela accarezzai, poi le sussurrai mentre il mio cuore sobbalzava (…) Teniamoci anche questo quarto rompicoglioni e che sia finita ogni tribolazione. Ci abbracciammo come due sposini (…) Basta col tormento che mi procurava l’ipotesi di stroncare una creaturina che non era neanche in grado di opporsi e protestare. (…) Quando risalii nel reparto mi venne incontro una giovane infermiera che teneva tra le braccia un fagottino: con entusiasmo mi disse: ‘Ecco, è nata la Sua bambina’. Guardai la piccola come si osserva un gioiello. Mi sembrava un miracolo. E pensare che aveva rischiato di finire in un bidone della spazzatura. (…) Allorché leggo sui giornali che la gente si lamenta perché in Italia le culle sono vuote, penso che l’aborto abbia contribuito a svuotarle”.
P.S. A scorrere titoli e citazioni deliranti si può essere presi da un certo sconforto. Però, stamattina, durante la messa domenicale delle 10.30 a Sant’Ippolito a piazza Bologna, si sono registrati due battesimi, di Chiara e di Matteo, con il Coro che ha eseguito in modo molto intenso e coinvolgente il Benedicat di San Francesco a Frate Leone. E allora… Benedicat/ benedicat/ benedicat tibi Dominus et custodiat te.
Così l’America ha ritrovato i suoi valori. Renato Farina 25 Giugno 2022
Dai più deboli, da quei condannati a morte, ma non ancora nati, ci arriva una richiesta di soccorso.
La Corte Suprema degli Stati Uniti, l’equivalente della nostra Corte costituzionale, ma persino più solenne perché chi ne fa parte lo è fino alla tomba, ha stabilito che in base ai principi sulla cui base è nata la multiforme e multiculturale nazione americana non esiste il diritto di aborto, e chi lo ha introdotto in passato, ha sbagliato. Anzitutto perché viola un diritto che viene prima: quello alla vita dell’esserino che palpita nell’utero di una donna, e che non è una sua propaggine, anche se in tutto e per tutto dipende da lei. Quel “coso”, detto feto anche se nessuno quando tocca quella pancia lo chiama così, è “un altro” che sta in casa tua, mamma, e nessuno può autorizzarti a ucciderlo.
Papa Francesco che non è certo un bigotto, e non perdona niente a chi non è capace di perdonare, definisce killer chi pratica l’aborto, come applicazione più tremenda di una cultura dello scarto. Non è una faccenda cattolica, ma un dato di scienza e coscienza. Di ragione e di cuore. È un dato di fatto che in Occidente, ma probabilmente anche in Oriente, ci sia stato una radicale mutazione antropologica, l’evidenza della realtà non è più tale. Non esiste più il primato dello sguardo ma dell’emozione. Per cui chi non ha voce non ha chance di suscitare commozione.
Il grido del suo soccombere non attraversa le pareti del grembo, e non è in grado – ciò che vale del resto anche per i neonati – di esprimere il suo pensiero in argomento. Ma esiste una forza tremenda e documentata dentro quella creaturina non ancora nata. Quel grumo di carne e sangue, con le sue piccole dita, nuota nelle acque materne, e disperatamente cerca di salvarsi la vita davanti alla chimica che lo vuole dissolvere o alla pinza del dottore che lo vuole ridurre a brandelli. Ci sono immagini inconfutabili e che subiscono una censura assoluta. Ieri sera in nessun tigì sono state trasmesse.
Nessun sito del web di proprietà dei grandi gruppi editoriali italiani e internazionali ha non dico approvato la sentenza ma riconosciuto la sua dignità. Neppure un piccolo, minimo “forse”, è sfuggito dalle bocche serrate nella protesta e dalle penne schierate a falange in una sorta di conformismo benpensante. La storia – dice il coro della nostra tragedia – non può fare un passo indietro di cinquant’anni. Qual è l’unità di misura del valore degli anni? Riaffermare solennemente il diritto alla vita, non in generale, ma proprio quella che eri tu in boccio, è andare avanti, che non si misura in anni ma in potenza di una luce che si era perduta chissà dove.
Questo articolo è stato pubblicato oggi, 25 giugno 2022 su Libero Quotidiano.
Lucetta Scaraffia per “la Stampa” il 26 giugno 2022.
Meglio chiarire subito: sono convinta che la decisione della Corte Suprema americana di negare all'aborto lo status di diritto inalienabile costituzionalmente garantito rappresenti di fatto una grave ferita alla libertà delle donne statunitensi, che molto probabilmente i repubblicani pagheranno caro nelle elezioni locali. E parimenti sono convinta che l'entusiasmo con il quale la Chiesa cattolica ha accolto questa decisione le costerà un ulteriore allontanamento delle donne. Ma c'è un punto sul quale vorrei riflettere.
Una domanda che anche noi femministe dobbiamo avere il coraggio di farci: l'aborto può essere davvero considerato un diritto naturale, indipendentemente da ogni atto legislativo che lo sanzioni (perché è proprio ciò e solo ciò che la Corte americana ha negato)?
Può davvero essere considerato un diritto naturale la facoltà di sopprimere la possibilità di vita di un altro essere umano? E quindi, di conseguenza, abbiamo fatto bene a fondare le battaglie femministe su questo straordinario diritto?
Viceversa combattere per la semplice depenalizzazione dell'aborto è una battaglia giusta e sacrosanta, fondativa del movimento femminista, così come la battaglia che ha portato a riconoscere lo stupro come reato contro la persona e non contro la morale. È da entrambe queste battaglie, infatti, che deriva il rispetto per il corpo femminile e per il diritto della donna di disporne liberamente.
Diritto imprescindibile per fondare la libertà delle donne e il rispetto nei loro confronti. Invece l'aborto, formulato come un vero e proprio diritto naturale, di fatto coinvolge un'altra persona, cioè il padre del nascituro, e in un certo senso anche il possibile nascituro. E quindi, come si capisce, risulta oggettivamente alquanto problematico considerarlo un vero e proprio diritto naturale, trattandosi tra l'altro di una decisione che coinvolge altri interessati ma privi in alcun modo della possibilità di interferire. Mi chiedo quindi se non sarebbe allora stato meglio impostare fin dall'inizio la battaglia sul tema dell'aborto chiedendo la sua pura e semplice depenalizzazione.
Questo mi sembra il vero problema che pone la sentenza della Corte Suprema americana. La sua decisione, sicuramente oltremodo deprecabile per i suoi effetti, mette però il dito su una contraddizione effettivamente esistente alla base dell'ideologia femminista. Affermare il diritto all'aborto come un diritto naturale inalienabile delle donne infatti significa inevitabilmente negare qualunque diritto a chiunque altro a qualsiasi titolo sia interessato all'eventuale nascita di un essere umano. Limitarsi alla depenalizzazione dell'aborto significa invece consegnare la terribile decisione alla coscienza di chi la compie, e accettare quindi che questa scelta dolorosa venga pagata, nel corpo e nella psiche, dalla donna che la compie.
A Gilead, a Gilead! Anche sull’aborto noialtri intelligenti siamo molto stupidi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Giugno 2022
Pur pensando che essere incinte sia un’invalidità, e perfino dopo aver sbirciato un paio di talk show italiani sul tema, riesco ancora a capire che le donne americane che festeggiano la decisione della Corte Suprema non gioiscono perché viene negato loro un diritto, ma perché sono convinte che si metta fine a un crimine
Riesco a immaginare solo un’invalidità più insopportabile, una tragedia più abissale, uno stato più atroce dell’essere incinta, ed è: essere incinta senza aver desiderato d’esserlo. È una delle ragioni per cui le sciatte militanti che in questi anni hanno scomodato Gilead per ogni fischio per strada sono imperdonabili: a che serve la potenza della letteratura che evoca donne incinte per imposizione se poi, quando arriva il momento in cui in alcuni degli Stati Uniti non si può più abortire per nessuna ragione, quei personaggi di fantasia non puoi più citarli perché “Il racconto dell’ancella” è consunto dalle similitudini a casaccio?
In cima alla pagina di The Cut, la sezione femminile del New York Magazine, c’è l’occhiello «Life after Roe», la vita dopo che la Corte Suprema ha deciso che la sentenza Roe vs. Wade non attiene all’aborto, non essendo l’aborto citato in una Costituzione scritta nel Settecento (ma tu pensa), e non tutelando quindi quella sentenza, come fin qui ritenuto, il diritto all’interruzione di gravidanza. Prima dell’articolo c’è un avviso. Fa così: abbiamo rimosso il paywall da questa e altre storie sulla possibilità di abortire. Certo che è importante dare informazioni sulle questioni urgenti (e se non lo è liberarti d’una gravidanza che non vuoi, non saprei che definizione dare di «urgenza»), ma magari un articolo che ti dice che non devi credere a TikTok, il bidet con la Coca Cola non fa abortire, dovremmo averlo superato a dodici anni, che è l’età alla quale leggevo le smentite di queste leggende su Cioè. Sto per compierne cinquanta, e la demolizione delle leggende abbiamo cominciato a chiamarla debunking, e non pensiamo si smetta d’averne bisogno dopo le scuole medie.
Lo so, questa cosa d’aver detto «sezione femminile» fa di me una retrograda. Anche le persone trans e non binarie possono aver bisogno d’un aborto, possono mestruare, possono amare: sono tali e quali a noi, noi normali. Ma cosa volete ne sappia io, che ogni volta che sento «non binario» ho il riempimento automatico di «triste e solitario».
Dunque è andata così: Barack Obama ha avuto una maggioranza mai vista e non l’ha usata per fare una legge federale che regolamentasse l’aborto; a seconda di chi siano tifosi, gli studiosi di leggi americane ti dicono che non l’ha fatto perché il precedente d’una sentenza che s’appoggia alla Costituzione è più forte d’una legge federale e non c’era ragione di pensare decadesse, o che non l’ha fatto come non ha fatto mille altre cose, tra cui i nuovi giudici della Corte Suprema. Le militanti strepitano perché Donald Trump ne ha fatti tre, e non s’accorgono mai mai mai che stanno dicendo: è stato più bravo. Chi vuol far vedere che ha spirito critico dice: eh, certo, è un po’ colpa di Ruth Bader Ginsburg che si sarebbe dovuta dimettere a Obama in forze, permettendogli di metterci un altro giudice abortista. Ma chi la doveva convincere a dimettersi, RBG, io? Se Obama fosse stato bravo a fare il presidente quanto a venire bene in foto, chissà dove saremmo.
L’altra sera alla tv italiana sono andati in onda quelli che mi sono sembrati i quaranta minuti di tv più incredibili di tutti i tempi, ma probabilmente è il livello medio dei talk show e sono io che non sono abituata a guardarli. A osservare senza neanche troppa attenzione, si vedeva in controluce la costruzione del disastro. Una puntata preparata con un parterre di ospiti televisivi abituali, di quelli ritenuti in grado di parlare di Ucraina e di PNRR, dell’afa e della pandemia. Poi, nel pomeriggio, la notizia: in America è saltato per aria il fragile escamotage su cui si basava la possibilità di abortire. Mica vorrai smontare il parterre. Aggiungiamo due donne, ché l’aborto è cosa di donne, due con utero e che sappiano anche quattro cose sul tema. Ma quaranta minuti cinque ospiti? Ma figuriamoci: alle due in quota competenza facciamo una domanda e poi le congediamo.
Quando la conduttrice, dopo averle fatte parlare trenta secondi l’una, manifestando una certa qual insofferenza per ventinove dei trenta secondi, dice «so che ci dovete lasciare», la regia si guarda bene dall’inquadrarle, acciocché non si veda il labiale «no veramente noi potremmo pure restare». Se inquadrassero le due che conoscono il tema mentre vengono congedate per proseguire la discussione sul tema con gente che di solito parla di scissione dei Cinque stelle, vedremmo probabilmente due emule di Valeria Parrella allo Strega, quando la congedarono per parlare di MeToo: «E lei ne vuole parlare con Augias? Auguri».
L’omaggio a quel grandissimo momento di televisione può quindi proseguire con gli abituali turnisti del circo, uno dei quali – d’un quotidiano di destra – dice delle cose ovvie per un conservatore ma le dice come le dicono le macchiette televisive italiane: risultando insopportabile. Perdipiù la conduttrice, che è in modalità in-quanto-donna e quindi deve dire che l’aborto è un diritto inalienabile, è così maldisposta nei suoi confronti che la regia non osa inquadrarlo, e quindi quello diventa una voce dall’indefinito del suo bravo collegamento mentre tengono fisso il primo piano della conduttrice che sbuffa. Quando ero giovane e fertile queste trasmissioni esistevano per diventare Blob, ora probabilmente per diventare meme.
La stessa sera, sulla Hbo andava in onda il talk migliore del mondo, quello di Bill Maher. Era ospite Andrew Sullivan, che esprimeva gli stessi concetti del conservatore italiano ma come li esprime uno alfabetizzato, e spiegava bene l’assurdità dell’Italia che si scalda sulla regolamentazione dell’aborto americano, pur senza nominarci mai.
La sinistra americana è scandalizzata perché i primi interventi di riduzione della possibilità di abortire (in Florida, per esempio) hanno abbassato il termine da sei mesi a meno di quattro (quindici settimane). Gli americani non sanno talmente mai niente che il primo che studia due schede da sussidiario su quel che accade fuori dagli Stati Uniti pare subito un genio. Sullivan (che è inglese, inserire qui la battuta di Hamilton sugli immigrati sui quali contare per un lavoro ben fatto) fa presente che in mezza Europa il termine è a dodici settimane (anche in Italia).
Una giornalista ospite interviene dicendo sì, ma lì hanno la sanità pubblica. Già, ragazza: qui in dodici settimane, non potendo per legge abortire nel privato, devi anche fare in tempo a trovare un non obiettore nel pubblico. Ha tentato di spiegarlo Chiara Lalli a Lilli Gruber, ma alla Gruber «Molise» sembrava meno chic di «Florida» e quindi l’ha interrotta come stesse andando fuori tema. (Dovendo scegliere un modello, suggerirei l’Inghilterra: sanità pubblica, e termine a sei mesi).
Ci sarebbe poi anche da parlare della questione «come osano parlarne gli uomini» o, come dicono quelli cui piace citare in inglese, «no uterus no opinion». La giornalista ospite da Bill Maher è lesbica: l’utero inutilizzato ha comunque diritto a opinioni? E, se pensi che quella che abortisce ammazzi qualcuno, non hai non solo il diritto ma forse pure il dovere d’intervenire, anche se un utero non ce l’hai?
Com’è possibile che da questo lato delle cose – quello in cui abortire pare non solo un diritto ma addirittura un dovere, e quella fuori legge dovrebbe essere la gravidanza portata a termine – non riusciamo ad avere argomentazioni adulte, e a capire che una questione etica che per qualcuno (anche per molti di quelli che cianciano di «dramma morale» sperando così diventi più accettabile) non è niente, e per altri è assassinio, non la risolvi fingendo che le donne siano tutte da questo lato della questione?
Certo che più o meno tutte le donne hanno l’handicap di rischiare di restare incinte a ogni rapporto sessuale per metà della loro vita, e che questa disgrazia richiederebbe una pensione d’invalidità universale, e che l’idea che se resti incinta tu debba tenertelo è distopica e inaccettabile per molte di noi. Ma ci sono pure quelle che pensano che farti aspirare un embrione o un feto sia un omicidio, e rispetto all’omicidio hanno problemi di coscienza: avere un utero non basta neanche ad avere tutte la stessa opinione sui diritti che abbiamo su quell’utero.
Com’è possibile che non capiamo che le donne americane che manifestavano felicità per la fine di Roe vs Wade non sono donne che gioiscono perché viene negato loro un diritto, sono donne convinte che si metta fine a un crimine? Com’è possibile che noialtri intelligenti siamo così stupidi?
Aborto, Vittorio Feltri racconta tutto: "Quella volta che io...", drammatica confessione. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 26 giugno 2022
Se avesse portato a termine la gravidanza, con il quarto pargolo, non avrebbe più potuto continuare la sua attività importante presso un ente pubblico, l'Amministrazione provinciale. Sorse in me e anche in lei l'idea dell'aborto il quale però non era ancora stato reso lecito.
Che fare? Possiamo andare in Svizzera, pensammo. Presi contatto con una struttura elvetica e mi accordai anche sulla data dell'intervento. Avvicinandosi la quale io e la mia consorte cominciammo ad avere titubanze che crebbero quotidianamente.
SCELTA GIUSTA? Non discutevamo d'altro in casa mia mentre la pancia di Enoe (mia moglie) non faceva che crescere.
Una sera ero un po' nervoso, anzi turbato, lei mi interrogò, la solita domanda imbarazzante: ma sei sicuro chela nostra scelta sia quella giusta? Risposi: certamente amore, sono sicuro che stiamo facendo una incredibile puttanata. Enoe annuì e si mise a singhiozzare. Non riusciva a digerire la situazione che si andava profilando. Le presi la mano e gliela accarezzai, poi le sussurrai mentre il mio cuore sobbalzava: senti amore mio, a me i bambini hanno sempre portato fortuna, ho un lavoro importante e ben retribuito, rinunceremo al tuo stipendio, io mi adopererò per non far mancare nulla alla mia famiglia. Teniamoci anche questo quarto rompicoglioni e che sia finita ogni tribolazione. Ci abbracciammo come due sposini, poi disdissi l'appuntamento svizzero e provai un sollievo liberatorio. Basta col tormento che mi procurava l'ipotesi di stroncare una creaturina che non era neanche in grado di opporsi e di protestare. L'abbiamo concepita ed è nostro dovere farla nascere nel migliore dei modi e provvedere a lei come abbiamo fatto con gli altri tre bambini a cui ci dedichiamo con tutto il nostro impegno. La gestazione filò liscia fino all'ultimo giorno quando Enoe ebbe le doglie. Senza tentennare la caricai in macchina e la condussi di fretta all'ospedale. La ricoverarono immediatamente mentre io mi intrattenni negli uffici amministrativi per il disbrigo delle pratiche burocratiche.
IL MIRACOLO Quando risalii nel reparto mi venne incontro una giovane infermiera che teneva tra le braccia un fagottino: con entusiasmo mi disse, ecco è nata la sua bambina. Guardai la piccola come si osserva un gioiello. Mi sembrava un miracolo. E pensare che aveva rischiato di finire in un bidone della spazzatura. La presi in braccio un attimo con titubanza, avevo paura di rovinarla, invece lei mi sorrise, anche se nessuno crede, ogni volta che racconto questo dettaglio, che una neonata sia già allegra. Oggi mia figlia ha 50 anni, due lauree, gestisce una farmacia, ha un figlio grande, e quando spesso viene a trovarmi la rivedo come il giorno che era appena uscita dal grembo materno. Lei non sa che sono stato sul punto di ucciderla. Allorché leggo sui giornali che la gente si lamenta perché in Italia le culle sono vuote, penso che l'aborto abbia contribuito a svuotarle.
Aborto: i perché di un figlicidio.
Di Antonio Giangrande domenica 26 giugno 2022.
La Corte suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe contro Wade del 1973, annullando così il diritto costituzionale Usa all'aborto. In questo modo ha sentenziato che ogni Stato ha la competenza di legiferare in riferimento all'interruzione della gravidanza.
In base al dibattito che ne è scaturito sorgono delle domande spontanee.
1 Perché i media politicizzati, fomentando dibattiti e polemiche, oltre che proteste, hanno fatto passare il messaggio che la sentenza riguardasse l’abolizione dell’aborto e non la libertà di scelta di ciascuno Stato?
2 Perché nei talk show il dibattito era palesemente schierato a favore dell’aborto ed al diritto costituzionale al figlicidio, considerando la sentenza un arretramento della civiltà? Perché tutelare la vita del figlio è incivile e retrogrado?
3 Perché nel paese più civile al mondo si considerano incivili da una parte la vendita delle armi libere che causano morti e dall’altra parte la libertà di scelta di ogni Stato a vietare la morte dei nascituri?
4 Perché la sinistra fa sua la battaglia sull’aborto, confermando quel detto sui comunisti che mangiano i bambini, non foss’altro che, intanto, ne agevolano la morte?
5 Perché è primario il diritto della donna all’aborto, violando l’istinto naturale materno alla difesa dei cuccioli, rispetto al diritto alla vita del nascituro?
6 Perchè il diritto all'aborto della donna va pari passo al diritto della donna alla libera sessualità, irresponsabile degli eventi?
7 Perché è diritto della sola donna decidere sulla vita del nascituro, tenuto conto che c’è sempre un uomo che ha avuto rilevanza fondamentale alla fecondazione? E perché, se il figlio non lo si vuole per problemi economici e/o sociali, non si fa un regalo a coppie sfortunate che la gioia di un figlio non la possono avere?
8 Perché una vita deve essere sindacata in base alla cronologia dello sviluppo e non in base all’esistenza?
9 Perché un delitto viene punito in base all'evolversi del diritto politico alla morte e non al diritto naturale alla vita?
Assumono denominazioni specifiche l’uccisione del padre (parricidio), della madre (matricidio), del coniuge (uxoricidio), di bambini (infanticidio), del fratello o sorella (fratricidio), del sovrano (regicidio), di una donna (femminicidio).
Si noti bene: il politicamente corretto elude il termine figlicidio, scaturente dal reato di aborto.
La scriminante è la carta del pepe.
Si dibatte quando, l'embrione, prima, ed il feto, poi, ha valore di nascituro.
Il diritto alla vita dell'embrione e del feto nascente: futuri nascituri di fatto.
10 Perché il dispositivo dell'art. 544 bis Codice Penale prevede: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni”; mentre per l’omicidio del nascituro la sinistra si batte per l’immunità dell'omicida?
(1) Tale articolo è stato inserito dalla l. 20 luglio 2004, n. 189.
(2) La l. 20 luglio 2004, n. 189 ha previsto una serie di ipotesi in cui sussiste per presunzione la necessità sociale. Si tratta della caccia, pesca, allevamento, trasporto, macellazione, sperimentazione scientifica, giardini zoologici, etc. (art. 19ter disp.att.).
(3) Il trattamento sanzionatorio prima previsto nei limiti di tre e diciotto mesi di reclusione è stato innalzato secondo quanto previsto dall'art. 3, comma 1, lett a), della l. 4 novembre 2012, n. 201.
Ratio Legis
La norma è stata introdotta al fine di apprestare una tutela più incisiva agli animali, i quali però non ricevono copertura legislativa diretta, rimanendo ferma la tradizionale impostazione che nega un certo grado di soggettività anche agli animali. Di conseguenza risulta qui garantito il rispetto del sentimento per gli animali, inteso come sentimento di pietà.
In conclusione: perchè per gli animali si ha sentimento di pietà e per i nascituri viene negata l'umana misericordia?
Luca Telese per tpi.it il 30 luglio 2022.
Voi anti-abortisti italiani gioite per la sentenza della Corte americana: si può festeggiare perché si toglie un diritto alla donne??
«Semplice. Questo diritto non esiste».
Non esiste, dici??
«Cito il Santo Padre: “Abortire equivale ad assoldare un sicario per uccidere qualcuno”».
Non usare papa Francesco per eludere il tema e coprirti.?
«Non ne ho nessun bisogno. Cito un pensatore ateo e marxista, Pier Paolo Pasolini: “Sono traumatizzato dalla decisione di legalizzare l’aborto, perché equivale a legalizzare l’omicidio”, Corsera, 19 gennaio 1975».
Ancora con questo collage di frasi ad effetto? Eludi il punto della mia domanda: tu neghi il diritto della donna a decidere.?
«Nessuno ha diritto di sopprimere una vita. Si chiama “omicidio”».
Non è una intervista, quella con Mario Adinolfi sull’aborto. È un corpo a corpo. Ed infatti il leader del Popolo della Famiglia spiega in questo dialogo senza mezze misure, la sua certezza: «Il vento americano diventerà un progetto politico anche in Italia».
La natura, che tanto vi piace invocare come giudice ha assegnato il poter di far nascere alla donna. Accettatelo.?
«Balle. Se non vuoi diventare omicida devi essere obbligata a consentire che il bimbo nasca».
Ci vuoi portare in un moderno medioevo in cui gli integralisti decidono per gli altri? Ottimo.?
«Voi laici, casomai, usate l’aborto come strumento di contraccezione».
Quindi qualsiasi ovulo fecondato per te è vita. Anche eliminare un ovulo fecondato è omicidio??
«È evidente».
Quindi per te una gravidanza nata da uno stupro etnico va portata a termine? O non ci credi o sei matto.?
«Ancora con questa argomentazione ridicola dello stupro? Che pena…».
Dici che è ridicola perché non sai cosa rispondere.?
«So benissimo cosa rispondere. Primo, è un caso assolutamente anomalo e raro. Secondo: capisco che una donna possa non voler crescere il frutto di una violenza…».
Bontà tua.?
«…Ma può affidarlo ad altri. L’importante è che il bimbo nasca».
Per fanatismo ignori che quel bambino è figlio dell’odio, non dell’amore.?
«Il tuo laicismo ti impedisce di capire che il bambino è incolpevole, e il suo diritto va difeso ad ogni costo».
Quindi, in questa tua visione tribale, la donna è solo un contenitore. Va costretta a portare a termine gravidanze indesiderate se la tribù e i maschi lo pretendono.?
«Ti sei già ridotto ad utilizzare le vecchie stanche argomentazioni del femminismo ideologico, sei messo male».
Tu pensi di parlare in nome di Dio, ma rappresenti una sparuta minoranza integralista.?
«Sai che solo un bambino su sei, tra tutti i concepiti, vede la luce?».
Per fortuna lo Stato laico impedisce ai fanatici come te di imporre alle donne che fare.?
«Eludi il vero tema: nove volte su dieci, giovani donne rinunciano ai loro figli per ragioni futilissime, diciamo pure del cazzo».
Un figlio non è bestiame da allevamento, ma il frutto di un amore, di un progetto. Mi meraviglio che un cattolico dimentichi questo. Avete l’ossessione del controllo sul corpo delle donne.?
«Sono come uno che per strada interviene per fermare un omicidio».
Per tua disgrazia, la legge 194 dice che nessuna autorità religiosa, o politica ha questo diritto.?
«Oggi in America non è più così. Una Costituzione va bene quando garantisce un diritto delle donne e male se riconosce il diritto di un bambino?».
La Costituzione non assegna mai il diritto di decidere al mullah Omar, al Papa, a qualche Ayatollah, o alla barba di Mario Adinolfi.?
«È straordinario che tu ricorra a ridicoli espedienti dialettici per evitare l’unica argomentazione che non sai eludere: è il primo concepimento il giorno in cui la vita prende forma».
L’aborto non è un valore. È drammatica necessità. Quindi tu preferisci tornare ai ferri da calza e alle mammane, alla clandestinità, alle donne morte per setticemia??
«Un omicidio commesso senza spargere sangue e senza sofferenza è meno grave?».
La 194 pone limiti, definisce percorsi, fornisce assistenza alle donne.?
«La 194 va cancellata con il Napalm: l’assistenza, i consultori… balle! È una legge che maschera la possibilità di uccidere».
Io non pretendo di decidere per gli altri, come te. Non sei il capo di una Chiesa, non puoi arrogarti il diritto di prescrivere precetti.?
«Voi non capite: il vento è cambiato. La sentenza della Corte americana vi dice questo».
Questo “Voi” non esiste: sono un cittadino come te. Evita di attribuirmi la seconda persona plurale, o di usarla tu, come i matti.?
«Di nuovo fingi di non capire cosa ti dico: l’abortismo è un frutto avvelenato degli anni Settanta. Vecchia ideologia. L’Occidente che va verso crescita zero non può più permettersi l’olocausto dei suoi figli».
Insisti con questo transfert allucinato? Non sono figli tuoi, né di altri. Sono delle donne che li portano in grembo, talvolta dei loro padri. È la donna che dà la vita: se tu avessi l’utero potresti reclamare diritti. Purtroppo ne sei privo.?
«Che pena. Ci manca solo che ti metta a gridare “l’utero e mio e me lo gestisco io”».
Sei tu che dici: “l’utero e mio”. Quello altrui, però.?
«Torno al punto vero: la difesa della vita diventa, dopo la sentenza americana, la grande battaglia etica di questi tempi. C’è un nuovo, enorme consenso, intorno all’antiabortismo: voi laicisti nemmeno lo immaginate».
Se pensate che questo consenso ci sia, contatevi. Lo avete già fatto, però: in Italia la democrazia e i referendum hanno decretato che gli italiani sono favorevoli, nei limiti della 194, a riconoscere questo diritto: alle donne, e non ai predicatori come te.?
«Si parla da giorni del comizio della Meloni in Spagna, e non vi siete neanche accorti che le sue parole chiave erano sull’aborto: “Sì alla cultura della vita / no alla morte”».
Convinci Fdi, raccogliete le firme per un referendum abrogativo. Auguri.?
«Hai poco da scherzare: dopo la vittoria in America questo è già uno dei grandi temi, se non il grande tema delle prossime politiche: una nuova generazione fa del diritto alla vita la sua missione».
Mettetevi le corna sulla testa, come a Capitol Hill e assaltate i consultori.?
«Ecco la vostra arroganza: voi laicisti difendete la cultura della morte, ma siete buoni carini e legittimati. Noi, che difendiamo la vita, invece, siano brutti sporchi e cattivi. E con le corna».
A Verona il vescovo che pretendeva di chiamare gli elettori ad una nuova crociata, in nome del nuovo integralismo, ha perso. Prova a cancellare il divorzio, già che ci sei.?
«(Sorriso). Una battaglia alla volta».
Proprio tu che sei divorziato, vuoi dire agli altri cosa devono fare delle loro vite??
«Sei meschino».
Logico, semmai.?
«Proprio perché ho una mia esperienza di vita posso dirlo: l’Italia senza il divorzio era più bella e più sana di questa».
Decanti sui social la bellezza della tua nuova unione, ma vuoi impedire agli altri di trovare la compagna della loro vita se hanno sbagliato?
?«Non ridicolizzare tutto. Come un ex drogato può spiegare meglio di tutti gli effetti perversi della droga, così io posso spiegare meglio il dramma del divorzio».
Sei neo-medievale. Speri di poter imporre ad altri cosa fare?
«Vi siete svegliati, ma tardi. C’è una nuova generazione in campo: li dipingete con le corna, brutti, fanatici e cattivi. Ma vinceranno. Rassegnatevi».
L’aborto volontario è un omicidio. Dopo la sentenza Usa, si riapre il dibattito sull’interruzione di gravidanza. Franco Battaglia su Nicolaporro.it l'1 Luglio 2022
Chi è contrario all’aborto invoca il principio di sacralità della vita, chi è a favore invoca il principio di autodeterminazione della donna. Se ragioniamo liberi da ogni condizionamento ideologico, dobbiamo innanzitutto sottoporre a critica i due principi appena nominati; anzi, meglio, non dobbiamo neanche considerarli. Un’etica veramente libera da condizionamenti ideologici non pone prescrizioni a priori, immutabili e assolute. L’unica prescrizione è quella di non avere altre prescrizioni di quelle che contraddicono il fine stesso dell’indagine etica: la ricerca del benessere e della libertà, con ognuno giudice di sé stesso, a condizione (questo è importante) che la stessa libertà venga riconosciuta all’altro.
Non mi è riconosciuta la libertà di ucciderti (anche se questa azione, per qualche ragione, dovesse procurarmi soddisfazione e benessere) perché io non son disposto a riconoscere a te la libertà di uccidermi. Per cui non è certamente lecito che una donna sostenga di voler uccidere il bimbo appena nato, in quanto non pronta alla maternità (autodeterminazione) o esposta, in conseguenza della maternità, ad una condizione di squilibrio psichico (diritto alla salute).
Ci si può ora chiedere: forse ciò che non è lecito il giorno della nascita sarebbe lecito il giorno precedente? Non è difficile argomentare ed arrivare ad una risposta negativa. Ma è possibile continuare ad andare a ritroso nel tempo e “dedurre” l’illeicità della soppressione dell’embrione sino alla fecondazione dell’ovulo? Ecco: questo non sembra possibile. Si può argomentare che nelle prime due settimane del suo sviluppo l’embrione non può essere tutelato come “individuo ragionevole” perché certamente, sino a quello stadio, non è un individuo, non avendo ancora deciso se deperire, come avviene per l’80% degli embrioni, o cosa essere (una forma tumorale, un bimbo, più gemelli), né ha capacità raziocinanti, essendo privo di tessuto nervoso e di cervello.
Ma dopo la seconda settimana di sviluppo l’embrione ha certamente le caratteristiche dell’individualità e a due mesi dalla fecondazione esso è già una miniatura umana. Certo, il suo sviluppo futuro dipende dalla madre con la quale esso è in interazione. Ma anche lo sviluppo futuro (e la vita) di un bimbo appena nato dipende da qualcuno che se ne curi.
Il principio di sacralità della vita non sembra essere applicabile prima della seconda settimana di sviluppo di un embrione, quello di autodeterminazione e di salvaguardia della salute della donna non sembra esserlo dopo l’ottava settimana (ad esclusione, naturalmente, del caso in cui dovesse essere in pericolo la vita stessa della donna). Insomma, vi è un salto di qualità tra ciò che è nelle prime due settimane dopo la fecondazione e ciò che è dopo.
E ciò che è dopo non differisce qualitativamente da ciò che alla fine nascerà. Poste così le cose, quella dell’aborto oltre la seconda settimana dalla fecondazione è una pratica barbara, ammantata di diritti della donna e di progresso della civiltà solo per nascondere, per convenienza, ciò che essa veramente è: un omicidio. Oggi la ricerca farmacologica mette a disposizione strumenti tali che non giustificano più il dover ricorrere all’aborto, che appare così una pratica primitiva. Naturalmente il problema etico sollevato da chi ritiene la cosa inaccettabile fin dal primo giorno del concepimento è degno del massimo rispetto ma, temo, non ha soluzione o, comunque, io non ne vedo una. Sicuramente però l’aborto oggi, così com’è praticato, non ha più alcuna giustificazione. Franco Battaglia, 1 luglio 2022
Il Razzismo. Erano entrati clandestinamente dal Messico. Strage di immigrati negli Stati Uniti, 46 persone trovate morte per il caldo in un camion nel Texas. Redazione su Il Riformista il 28 Giugno 2022
Sono 46 le persone trovate senza vita, una ventina invece quelle ferite, all’interno di un camion a San Antonio, in Texas.
Si tratta di un gruppo di immigrati illegali, entrati nel Paese dopo un viaggio della disperazione dal Messico. Come riporta il New York Times, quello avvenuto oggi è il peggiore incidente riguardante immigrati degli ultimi anni. Il Texas sta sperimentando una forte ondata di migranti e nelle ultime settimane anche un caldo torrido, che potrebbe forse essere la causa dell’ultima tragedia. Le autorità federali stanno assistendo quelle locali nelle indagini.
A scoprire il furgone gli agenti della Homeland Security Investigation, agenzia specializzata nei casi di traffico di esseri umani. Scomparso invece l’autista del mezzo, che lo ha abbandonato dopo aver scoperto i corpi senza vita al suo interno.
“E’ una tragedia. Ci sono 46 persone che avevano una famiglia e cercavano una vita migliore”, ha detto il sindaco di San Antonio Ron Nirenberg, che pur non specificando la nazionalità dei morti o il numero di minori presenti nel veicolo, ha affermato che si tratta di migranti che avevano attraversato il confine tra Stati Uniti e Messico.
Una strage che per il governatore del Texas, il repubblicano Greg Abbott, vede la responsabilità del presidente Joe Biden: “Queste morti sono di Biden: sono il risultato delle politiche mortali dei confini aperti e mostrano le conseguenze del suo rifiuto di attuare la legge“, ha twittato il governatore dello Stato.
L’incidente riporta alla memoria quello simile del 2003, quando 19 migranti illegali furono trovati morti in un camion all’interno del quale la temperatura era salita fino a 78 gradi
(ANSA il 16 maggio 2022. ) - Altre due sparatorie e altri morti. Si allunga lascia di sangue negli Stati Uniti, in un fine settimana contrassegnato dal massacro nel supermercato di Buffalo, dove un diciottenne suprematista ha aperto il fuoco e ucciso dieci persone per motivi razziali.
Nel sud della California, nella comunità per pensionati di Laguna Woods, un uomo apre il fuoco in una chiesa, la Geneva Presbyterian: il bilancio è di un morto e quattro feriti in condizioni critiche.
In Texas vicino a Houston una lite fra cinque uomini di trasforma in tragedia, con due morti e tre feriti. Ma il bilancio poteva essere ben peggiore visto che gli spari sono volati in un affollato mercatino delle pulci.
"Nessuno deve avere paura a recarsi nel suo luogo di preghiera", afferma il governatore della California Gavin Newsom. L'incidente è avvenuto intorno alle 13.30 locali: il rapido intervento della polizia ha consentito di fermare il sospettato e recuperare l'arma usata.
Una persona è deceduta sul colpo, mentre i quattro feriti sono stati trasportati in ospedale. Si tratta di tutti adulti, rassicura la polizia spiegando come il motivo scatenante del gesto folle non è ancora chiaro. In Texas si è invece sfiorata la tragedia. In un mercatino con più di 1.000 persona a fare shopping di domenica pomeriggio, cinque uomini hanno aperto il fuoco in seguito a una lite.
"Al momento sembra che i feriti, così come i due morti, siano tutti parte del litigio. Nessun innocente è stato colpito. Almeno due pistole sono state recuperate sulla scena", riferiscono le autorità della Harris County. I due incidenti culminano un fine settimana di terrore, con la tragedia di Buffalo tornata a scuotere l'America. Joe Biden sarà nella città dello stato di New York martedì: vestirà i panni del consoler-in-chief prima di partire per l'Asia.
Guido Olimpo per corriere.it il 15 maggio 2022.
Il giovane di Buffalo ha intrapreso il suo sentiero di guerra ispirandosi a chi lo ha preceduto. Almeno questo ciò ha scritto in un manifesto di oltre 100 pagine. Non sappiamo con certezza che sia il suo, ma la polizia lo sta esaminando. Gli sparatori di massa copiano altri per ragioni ideologiche o semplicemente «terroristiche», seguono dei modelli, adottano un modus operandi, studiano per esaltarsi e trovare «scuse».
L’assassino (identificato come Payton Gendron), di appena 18 anni, ha imitato lo stragista della Nuova Zelanda, Breton Tarrant , autore dell’assalto contro due moschee nel marzo 2019. Una cinquantina di morti. Anche lui un estremista, convinto che la razza bianca sia in pericolo, rimpiazzata e sostituita. Per questo aveva deciso di colpire i musulmani. Si è armato, ha indossato una telecamera per filmare l’azione, è salito in auto, ha raggiunto i target ed ha aperto il fuoco.
Alla fine lo hanno preso. L’omicida di Buffalo non solo ha copiato, ma ha scritto in modo chiaro che Tarrant ha rappresentato il suo faro ideologico. È già avvenuto in passato. Quindi ha citato altri responsabili di attacchi xenofobi e nella lista del suo presunto documento ha citato anche Luca Traini , l’uomo che sparò contro un gruppo di immigrati a Macerata. Dettagli che dovranno trovare conferme nel lavoro degli investigatori alle prese con una minaccia dilagante.
A Dallas indagano su spari contro negozi gestiti da asiatici. La molla dei raid è spaccare, dividere, gettare benzina sul fuoco delle tensioni. Sono come fendenti, nella speranza di innescare risposte dure. L’idea è sempre quella di un conflitto civile. E “giustificano” l’incursione contro degli innocenti usando teorie radicali, anti-semite, dietrologie e complottismi: non serve ripetere nei dettagli i contenuti del messaggio, sarebbe un errore e un favore alla propaganda criminale. C’è sempre l’elemento preparazione, la premeditazione, anche quando il soggetto è in preda a squilibri. Gendron afferma che i suoi genitori sono d’origine nord europea e italiana, scrive che il suo obiettivo era quello di costringere gli afro-americani o gli ispanici a partire, a lasciare l’America. Un odio unito a quello contro gli ebrei.
Il killer ha sostenuto di aver fatto «come qualsiasi americano», ha accumulato munizioni, ha acquistato un fucile Bushmaster XM 15 e un equipaggiamento militare, infine – attorno al gennaio 2022 - ha iniziato a pensare alla seconda fase. Quella dell’atto violento. È evidente – e non solo in questo episodio – come gli sparatori cerchino di adottare tecniche che permettano loro di provocare tante vittime. Si vestono da «guerrieri», costituiscono il loro arsenale, muovono come predatori. Alcuni sono pronti a morire, a farsi «suicidare» dagli agenti. Altri vogliono restare in vita, l’assassino di Buffalo lo ha aveva annunciato, aggiungendo la volontà di dichiararsi colpevole. Invece, una volta catturato, ha sostenuto il contrario.
Insieme all’azione la propaganda. Ecco la necessità di lasciare un testo, a disposizione di quanti condividono queste posizioni. È l’eredità, il testamento. Ecco il bisogno di filmare e rilanciare in streaming su internet ogni momento, compresi quelli più atroci con donne e uomini freddati. C’è poca differenza con i metodi dei jihadisti, ma anche con quelli di coloro che hanno compiuto eccidi senza un movente politico. Video e delirio concedono luce e fama sinistra agli autori, trasformano la belva in un personaggio. Forse, come altri assassini di massa, poteva essere fermato: nel 2021 Gendron aveva minacciato di attaccare il suo liceo, un segnale inquietante comunicato alla polizia. Non è raro che i «mutanti» lancino avvertimenti prima della «grande operazione», solo che non sono trattati con la dovuta determinazione.
La strage di Buffalo, i suprematisti e quelle teorie del complotto sul «genocidio dei bianchi». Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 15 maggio 2022.
Non sono schegge isolate: la tesi della «Grande Sostituzione» (per cui le minoranze prenderanno il posto della maggioranza bianca) alimenta fenomeni di massa.
La strage nel supermercato degli afroamericani di Buffalo come quella nella sinagoga di Pittsburgh nel 2019, nella moschea di Christchurch in Nuova Zelanda lo stesso anno (50 morti), o il massacro di 23 ispanici in un grande magazzino Walmart di El Paso, in Texas. La causa immediata è sempre la stessa: la facilità con la quale ci si può procurare un’arma da assalto. E anche la matrice è comune: la diffusione delle teorie cospirative del suprematismo bianco, amplificato dalle paure innescate dai movimenti migratori e turbocompresso dai meccanismi virali che dominano blog e reti sociali nell’era digitale.
I sostenitori dei «complotti razziali»
Nelle 180 pagine del manifesto col quale Payton Gendron ha giustificato il suo attacco feroce è ossessivo il riferimento al «genocidio dei bianchi» e alla «grande sostituzione»: neri, popoli musulmani e ispanici che pian piano invadono l’Occidente emarginando i bianchi, destinati a divenire minoranza oppressa. Nulla di nuovo verrebbe da dire: già nel 1925, nel «Mein Kampf», Adolf Hitler denunciava l’aumento della popolazione di colore della Francia e agitava lo spettro della nascita di una nazione africana al centro dell’Europa.
Anche gli Stati Uniti hanno una lunga storia di teorie su complotti razziali: da Theodore Bilbo, un politico democratico che fu anche governatore del Mississippi e che nel 1947 pubblicò un saggio con l’eloquente titolo «Separati o bastardi», al neonazista David Lane, fondatore del gruppo terrorista The Order, che nel suo manifesto del 1995, «White Genocide», sostenne che mescolanza razziale, aborto e omosessualità indeboliscono la «razza caucasica» mentre molti governi occidentali, infiltrati dai sionisti, incoraggiano questo genocidio distruggendo la cultura europea bianca.
Effetto eco
Estremisti e cospirazionisti sono sempre esistiti, ma come fenomeni marginali, spesso derubricati a manifestazioni folcloristiche, dai terrapiattisti al mondo controllato dalla setta degli Illuminati. Le cose sono cambiate negli ultimi decenni con le tecnologie digitali e l’«effetto eco» delle reti sociali che, per molti, sono un canale per affrontare un problema magari reale ma complesso (come gli squilibri demografici) in modo semplicistico, individuando colpevoli inesistenti e proponendo soluzioni folli.
Così le teorie cospirative, un tempo sostenuti da piccole sette, sono divenute fenomeni di massa con la nascita di movimenti come QAnon: un fattore ormai rilevante anche nel dibattito politico ovunque in Occidente. Di recente la teoria cospirativa che si è diffusa maggiormente è proprio quella del «Great Replacement»: l’interpretazione della crescita delle minoranze e dei fenomeni migratori come frutto di una congiura degli stessi governi occidentali per spazzare via la cultura e l’egemonia politica dei bianchi.
Da Camus a Trump
Proposta in un saggio del 2011 dall’accademico francese Renaud Camus, la Grande Sostituzione ha fatto proseliti nell’estrema destra europea e poi ha varcato l’Atlantico: era la bandiera dei movimenti dei suprematisti bianchi che nel 2017 si diedero appuntamento a Charlottesville per un raduno che finì in tragedia. È stata evocata più volte da Trump quando era alla Casa Bianca ed è il cavallo di battaglia di Tucker Carlson, la star di Fox News, la tv della destra Usa, che accusa Biden di aprire le porte agli immigrati del Terzo mondo per importare elettori democratici.
Il risultato sono le stragi delle schegge impazzite e gli assalti alla democrazia: gli insorti che un anno e mezzo fa hanno invaso il Congresso di Washington hanno detto, in maggioranza, di credere che l’America stia scivolando verso la «Grande Sostituzione».
Cos'è la teoria della «Grande sostituzione», e perché è pericolosa. Elena Tebano su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.
Il premier ungherese Viktor Orbán ha fatto riferimento a un supposto piano per «sostituire» i bianchi cristiani con gli immigrati. È un’idea professata anche da molti terroristi di estrema destra americani, ma arriva originariamente della Francia.
Nel discorso ai deputati dopo le elezioni parlamentari che hanno riconfermato l’ampia maggioranza del suo partito, Fidesz, il premier ungherese Viktor Orbán (ormai al quarto mandato) ha attaccato l’Occidente, che a suo dire sta «tentando il suicidio» per una serie di supposte colpe: «Il vasto piano di scambio della popolazione occidentale, che cerca di sostituire i bambini cristiani non ancora nati con migranti; la follia del genere, che vede nell’uomo il creatore della propria identità sessuale; un programma di un’Europa liberale che trascende gli Stati-nazione e il cristianesimo».
Parole che sono suonate particolarmente stridenti in un momento in cui l’Unione europea e le democrazie occidentali, lungi dal «tentare il suicidio», sono impegnate a difendere i propri valori e principi costitutivi contrastando l’invasione illegale dell’Ucraina da parte dell’amico di Orbán Vladimir Putin.
A qualcuno quelle parole saranno suonate anche familiari: riprendono un concetto, «la grande sostituzione», che in questi giorni è riecheggiato molte volte al di là dell’Oceano, negli Stati Uniti.
Lo ha usato l’attentatore di Buffalo, il terrorista di estrema destra che sabato ha ucciso dieci persone e ne ha ferite altre tre in supermercato di un quartiere nero nella città dello Stato di New York. Payton S. Gendron, questo il nome del suprematista bianco, ha lasciato un manifesto di 180 pagine in cui dichiara di essere un sostenitore della «grande sostituzione», ovvero la teoria complottista che esista un piano per «sostituire» i bianchi con altre «razze», cioè neri, latinos o immigrati musulmani (a seconda delle versioni).
Non è un’idea nuova: compariva anche nei manifesti di altri stragisti di massa di estrema destra, come quello che nel marzo 2019 ha ucciso 51 persone durante la preghiera del venerdì in due moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda, e quello che nell'agosto del 2019 ha preso di mira i latinos in un supermercato Walmart di El Paso, in Texas, uccidendo 22 persone e ferendone 24.
Nel frattempo però è cambiato tutto: tre anni fa negli Stati Uniti la teoria complottista della «grande sostituzione» era ancora un’«idea marginale» che circolava sui siti cospirazionisti di QAnon (il movimento di estrema destra che ha promosso l’attacco al congresso statunitense del 6 gennaio, nel tentativo di annullare il risultato di elezioni legittime). Ora è diventata «mainstream», si è cioè diffusa nel discorso pubblico dominante.
A renderla popolare, come spiega Vanity Fair Us, è stato il giornalista filorepubblicano di Fox News Tucker Carlson (che secondo il New York Times, come ha scritto Massimo Gaggi, potrebbe candidarsi e proporsi come erede di Donald Trump). «Il Partito Democratico sta cercando di sostituire l’attuale elettorato, gli elettori che ora votano, con nuove persone, elettori più obbedienti provenienti dal Terzo Mondo» diceva Carlson nell’aprile dell’anno scorso nel suo programma, che denunciava una supposta «mania anti-bianca» e invitava a «salvare questo Paese... prima che diventiamo il Ruanda» (quel presunto salvatore della Patria, secondo Carlson, era ed è Trump). Argomenti simili sulla sostituzione dell’elettorato sono stati usati anche da Elise Stefanik, la terza deputata repubblicana per importanza alla Camera dei rappresentanti americana.
La teoria della «grande sostituzione» però non è originaria degli Stati Uniti: è nata in Europa, dove è da tempo uno dei luoghi comuni del sovranismo. Orbán non è l’unico ad averla fatta sua: la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni la evocava già nel 2016 (in questo tweet per esempio, in cui parla di «prove generali di sostituzione etnica in Italia» confrontando emigranti e immigrati).
Il termine viene dalla Francia: Le grand remplacement è il titolo di un libro del 2012 dello scrittore Renaud Camus (che non è né un parente né un buon sostituto di Albert Camus), un intellettuale gay che in gioventù ha frequentato Roland Barthes e Andy Warhol e ora vive in un castello in Occitania. Camus, dapprima sostenitore di Marine Le Pen e poi convertitosi a Éric Zemmour alle ultime elezioni, è convinto che ci sia un piano per islamizzare la Francia e che tutti i Paesi occidentali corrano un pericolo simile (per esempio gli Stati Uniti con gli immigrati latinos).
«La Grande Sostituzione è molto semplice. Ora c’è un popolo, e nello spazio di una generazione ce ne sarà un altro» ha affermato. Alla base di questa teoria c’è la concezione antimoderna ed essenzialista della «purezza» non ibridabile dei popoli («L’essenza stessa della modernità è il fatto che tutto, e davvero tutto, può essere sostituito da qualcos’altro, il che è assolutamente mostruoso» ha dichiarato Camus, che è anche uno strenuo difensore della Francia rurale). Anche questa idea di purezza è familiare: la pericolosa genialità di Camus è che ha rivitalizzato con un linguaggio nuovo idee tristemente note.
«In realtà è la stessa ideologia della cospirazione del Nuovo Ordine Mondiale, l’idea del governo di occupazione sionista, che è il modo in cui se ne parlava negli anni Ottanta e Novanta. Ne vediamo versioni che risalgono al movimento eugenetico dei primi del Novecento, agli scritti di Madison Grant e a cose come “I Protocolli degli Anziani di Sion”. Si tratta dello stesso insieme di credenze» spiega sul New Yorker la professoressa dell’Università di Chicago e studiosa del suprematismo bianco Kathleen Belew.
«L’idea è semplicemente che molti tipi diversi di cambiamento sociale siano collegati a un complotto di una setta elitaria per sradicare la razza bianca, che i membri di questo movimento ritengono essere la loro nazione. Collega cose come l’aborto, l’immigrazione, i diritti degli omosessuali, il femminismo, l’integrazione residenziale: tutto ciò è visto come parte di una serie di minacce al tasso di natalità bianca». Adottare la nozione di «grande sostituzione», che lo si espliciti o no, significa di fatto sottoscrivere questa tradizione. E ripulirla dagli elementi omofobi e antisemiti, come ha fatto Camus, non significa renderla meno sbagliata e pericolosa.
«Dietro la sparatoria in California l’odio contro Taiwan di un immigrato cinese negli Stati Uniti». Guido Olimpio su Corriere della Sera il 16 maggio 2022.
L’odio verso Taiwan. Sarebbe questo il movente dell’attacco avvenuto domenica nella chiesa di . Responsabile dell’aggressione David Chou, 69 anni, origini cinesi, residente a Las Vegas. Secondo lo Sceriffo l’uomo era infuriato per la crisi tra Pechino e il governo dell’isola, dunque ha deciso di compiere un gesto violento. Infatti ha scelto come obbiettivo una cerimonia religiosa della comunità taiwanese dell’Orange County. Chou è entrato nel tempio con due pistole, quindi ha iniziato a far fuoco. Un medico, che aveva accompagnato la madre alla festa, è stato colpito a morte. Sembra che abbia cercato di fermare lo sparatore. Altre 4 persone sono rimaste ferite in modo serio. L’assalto avrebbe potuto avere conseguenze più gravi, ma il killer è stato neutralizzato dai presenti. Uno gli ha lanciato una sedia, altri lo hanno immobilizzato con una corda per poi consegnarlo alla prima pattuglia arrivata sul posto. Secondo gli inquirenti l’omicida avrebbe cercato di bloccare le porte con catene e un potente collante mentre attorno all’edificio sono state trovate delle bottiglie Molotov. Probabile che volesse usarle in un secondo momento. Tutti indizi evidenti di una premeditazione, di un piano per fare danni.
La storia racchiude diversi aspetti. Intanto la motivazione: la crisi asiatica che innesca violenza all’interno dei confini americani. Circostanza inusuale. Quindi la mossa di Chou: sarà da capire se insieme alla molla politica non vi siano aspetti più personali. In eventi come questo è sempre opportuno dare tempo alle indagini, non di rado il quadro iniziale cambia. Infine l’elemento temporale. L’episodio è avvenuto all’indomani della strage di Buffalo, compiuta da un suprematista bianco di 18 anni. Anche lui animato dall’odio verso gli altri.
Guido Olimpio per il "Corriere della Sera" il 18 maggio 2022.
L'odio verso Taiwan, i problemi personali, un carattere difficile. E la volontà di usare delle armi: c'è questo - e forse altro - nell'attacco avvenuto domenica nella chiesa di Laguna Woods, in California. Gesto costato la vita ad un medico.
Al centro c'è David Chou, un cittadino dalla vita movimentata. Nato in Cina 69 anni fa, si è trasferito a Taiwan, quindi è emigrato in cerca di fortuna negli Stati Uniti. Come altri si è spostato in diversi Stati per poi stabilirsi a Las Vegas, Nevada, dove ha lavorato come guardia privata. Gli ex vicini di casa ne danno una descrizione doppia: un tipo in apparenza gentile diventato sempre più scontroso, pronto a litigare per il parcheggio e questioni minime.
Esistenza agitata dai guai in famiglia. La moglie, malata di cancro, lo ha lasciato per tornarsene a Taiwan e lui è stato sfrattato, riducendosi - secondo alcuni - a dormire sull'auto o in alloggi di fortuna. Poche le notizie al momento sui rapporti con il figlio, dottore in Texas.
Insieme a questi aspetti ne sono emersi poi altri, inusuali. Ma solo dopo che Mister Chou ha attuato il suo piano criminale. Domenica l'uomo ha raggiunto la cittadina di Laguna Woods e si è presentato ad una cerimonia in onore di un religioso d'origine taiwanese. È entrato nel tempio a metà mattina e si è fatto notare per un bisticcio che non gli ha impedito di restare.
Pare che lo abbiamo scambiato per uno della sicurezza.
Chou ha atteso paziente che i presenti si sedessero per il pranzo ed ha aperto il fuoco.
Uno sparo in aria seguito da quelli contro le persone. I suoi tiri hanno ferito cinque persone e ucciso un medico che aveva cercato di disarmarlo. L'omicida non è riuscito a fare altri danni per la reazione dei fedeli, lo hanno centrato con una sedia e poi legato con una corda.
La polizia è arrivata in forze ed ha scoperto che l'aggressore aveva studiato un'operazione più ambiziosa: aveva progettato di bloccare le porte usando catenacci e colla potente, inoltre si era portato dietro delle bottiglie Molotov.
Nella sua vettura le indicazioni sul possibile movente: l'avversione verso i taiwanesi. Un risentimento - ha spiegato Chou - legato a come sarebbe stato trattato (male) durante il suo periodo sull'isola e dalla convinzione che nella disputa Taiwan-Cina le ragioni siano dalla parte di Pechino.
La storia è chiusa in una cornice allarmante. Intanto la motivazione: la crisi asiatica che innesca la sparatoria all'interno dei confini americani. Una nuova - presunta - «causa» di tensione in una grande comunità orientale.
Possibile che l'omicida abbia mescolato il risentimento politico alla rabbia per le sue traversie familiari, sentiero piuttosto frequente in questi episodi di violenza americani. Saranno gli inquirenti a cercare le risposte, è sempre opportuno dare tempo alle indagini poiché non di rado il quadro iniziale cambia. Infine l'elemento temporale.
Tutto è avvenuto all'indomani della strage di Buffalo, compiuta da un suprematista bianco di 18 anni. Anche lui animato dall'odio, un giovane che ha dedicato mesi alla progettazione del massacro preparando armi, studiando tattiche, travestendosi da «barbone» per spiare il futuro obiettivo, il supermarket dove ha freddato 10 innocenti. Un ciclo senza fine. A Dallas hanno annunciato l'arresto di un individuo che ha preso di mira negozi gestiti da coreani.
Il suprematista 18enne radicalizzato in lockdown. E una strage annunciata. Valeria Robecco il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.
L'allarme del liceo: "Prepara una sparatoria". Era segnalato. I dem: subito stretta sulle armi.
Payton Gendron, il diciottenne suprematista che ha ucciso 10 persone con un fucile d'assalto in un supermercato di Buffalo, nello stato di New York, era motivato dall'odio, e si sarebbe ispirato al killer che nel 2019 ammazzò 50 persone a Christchurch, in Nuova Zelanda, attaccando una moschea e un centro islamico. L'Fbi e anche il dipartimento di Giustizia, come confermato dal ministro Merrick Garland, stanno indagando sulle strage come «crimine d'odio e atto di estremismo violento di matrice razziale». Mentre il presidente Joe Biden ha parlato di un «atto di terrorismo interno», «un crimine ripugnante e motivato dall'odio razziale perpetrato in nome della disgustosa ideologia del nazionalismo bianco». Per l'inquilino della Casa Bianca si è trattato di un atto «antitetico a tutto ciò che rappresenta l'America».
Gli investigatori stanno sentendo i testimoni e passando in rassegna i video della strage, incluso il filmato trasmesso dal giovane in live streaming su Twitch per alcuni minuti prima di essere sospeso. Le immagini mostrano che imbracciava un fucile con il numero 14, probabile riferimento allo slogan neonazista delle «Quattordici Parole», e con la scritta «nigger», la N-word impronunciabile negli Stati Uniti perché offensiva. Payton viene dalla cittadina di Conklin, sempre nello Stato di New York, e avrebbe guidato per oltre 300 km. Poi, armato fino ai denti, con indosso mimetica e giubbotto antiproiettile, ha iniziato a sparare a quattro persone fuori dal Tops Friendly Market, prima di aprire il fuoco all'interno. Proprio il supermercato scelto sembra confermare la pista razzista in quanto si trova in una zona a maggioranza nera di Buffalo, e fra i 10 morti e tre feriti, 11 sono afroamericani. Payton viene descritto dagli investigatori come un ragazzo «annoiato» che si sarebbe radicalizzato durante il periodo del lockdown su 4Chan, la stessa chat che ha lanciato QAnon. Al vaglio delle autorità ci sono ora tutte le sue attività online, e in particolare il manifesto di 180 pagine in cui descrive la sua «filosofia» e anticipa la strage: si definisce un fascista, un suprematista e un antisemita, e dichiara il suo appoggio alla teoria cospirazionista del «Great Replacement», ovvero la convinzione che i bianchi siano sostituiti nei loro paesi da immigrati non bianchi con il risultato dell'estinzione della razza. Nel manifesto Gerdon fa riferimento a Dylan Roof, il ragazzo che ha ucciso sei afroamericani in una chiesa in South Carolina, e anche a Luca Traini, autore dell'attacco razzista di Macerata del 2018 contro degli immigrati. Alcuni suoi compagni di classe hanno raccontato che spesso Payton si comportava in modo strano e aveva idee politiche estremiste: durante un'esercitazione al liceo, in cui si chiedeva agli studenti di creare un loro paese e scegliere la forma di governo, lui scelse un regime autocratico «stile Hitler».
Peraltro non è la prima volta che il 18enne finisce nel mirino delle autorità. Il Buffalo News scrive che nel giugno 2021 il suo liceo allertò la polizia in merito a un «ragazzo problematico che diceva di voler fare una sparatoria alla cerimonia di diploma o successivamente». La governatrice di New York, Kathy Hochul, ha rivelato che il ragazzo è stato monitorato dalle «autorità mediche» per «qualcosa che ha scritto al liceo». E ora la strage è destinata a riaccendere il dibattito su pistole e fucili: «Basta con la violenza delle armi da fuoco», ha sottolineato Hochul, mentre la speaker della Camera Nancy Pelosi è tornata a chiedere una stretta sulle armi.
Alberto Simoni per “la Stampa” il 16 maggio 2022.
Payton Gendron ha 18 anni ed è il ragazzo che sabato pomeriggio ha indossato una mimetica, un elmetto militare con videocamera in testa, imbracciato un fucile semiautomatico Ar-15 e ha sparato raffiche di colpi in modo indiscriminato in un negozio della catena Tops a Buffalo, Stato di New York, uccidendo 10 persone e ferendone tre. Undici delle persone colpite sono afro-americani. Poi nel parcheggio del supermarket si è inchinato e si è puntato l'arma sotto il mento.
Non ha fatto fuoco però e si è arresto ai poliziotti. Davanti al giudice si è dichiarato non colpevole. Giovedì tornerà in tribunale. Su di lui pesa anche l'ipotesi di un'accusa per terrorismo interno. Che si aggiunge a quella di crimini di matrice razziale.
All'indomani della strage di Buffalo, l'America si trova a contare nuovamente le vittime di un mass shooting. Ce ne sono stati - dati Fbi - 28 dal 2000 al 2020, 78 persone sono state uccise. E sono in aumento dal 2017. I dati del 2021 confermano il trend tanto da far dire a Kamala Harris, vicepresidente Usa, che «c'è un'epidemia d'odio».
Biden l'ha definito «un crimine ripugnante e motivato dall'odio razziale, antitetico a ogni cosa che rappresenta l'America». Nancy Pelosi e la governatrice dello Stato di New York, Kathy Hochul, hanno detto che serve una stretta sulle armi. Il fucile di Gendron è stato acquistato legalmente a New York.
Ma il caricatore a grande capacità è fuorilegge. Eppure, il killer era riuscito ad averne più di uno e forse se li è procurati fuori dai confini statali.
La pianificazione
Secondo gli inquirenti, Gendron ha studiato il piano da mesi. Da una settimana era in perlustrazione a Buffalo - lui che vive a Conklin, 200 miglia più a sud.
Il barbiere del centro commerciale, Daniel Love, l'aveva notato aggirarsi davanti al suo salone. «Sembrava uno di quelli che gironzolano per allacciarsi alla rete wi-fi gratuita».
L'ideologia
Ci sono due documenti che sono attribuiti a lui sparsi sul Web. Il primo è un manifesto di 180 pagine intriso di complottismo e che ricalca la cosiddetta "Great Replacement Theory", ovvero la sparizione dei bianchi a vantaggio delle attuali minoranze.
Risale agli anni '40 ed è diventata la linfa per gruppi come il Ku Klux Klan. Ultimamente in alcuni ambienti dell'ultradestra radicale Usa è intesa come il metodo con cui i democratici vogliono sfruttare l'immigrazione per cambiare gli equilibri del Paese.
La radicalizzazione
Il giovane Payton si sarebbe abbeverato a queste dottrine - prive di qualsiasi fondamento - leggendo forum on line, fra cui 4Chan la chat on line che ha lanciato QAnon. La polizia dice che l'inizio dell'indottrinamento è avvenuto durante il lockdown quando il ragazzo era «annoiato» dalla nuova vita di imposizioni e costrizioni.
Ieri l'Fbi ha parlato con i genitori Paul e Pamela, due ingegneri, per fare luce anche su questo aspetto. Sui social e le chat, Payton avrebbe scoperto personaggi che prima di lui hanno imbracciato le armi nel nome della difesa della supremazia bianca.
Nelle pagine caricate su Google Drive compaiono infatti i nomi di Dylan Roof e di Brenton Tannant: sono gli autori dell'assalto alla chiesa di Charleston, in Sud Carolina, nel 2015; e del raid contro una moschea in Nuova Zelanda. C'è anche un cenno a Luca Traini, l'autore degli spari contro degli immigrati a Macerata nel 2018.
Il suprematismo
I suoi sproloqui teorici sono tutti riconducibili a slogan suprematisti e antisemiti. Si proclamava fascista ed era terrorizzato dal rovesciamento degli equilibri demografici nella società americana. In un passaggio c'è scritto: «Sostengo coloro che vogliono un futuro per i bambini bianchi e l'esistenza della nostra gente». Che la sua mente fosse uscita dai binari lo aveva notato anche la sua scuola, la Suny Broome Community College, e gli ex compagni di classe: «Aveva idee estreme, scelse in un compito di classe di simulare un regime autocratico stile Adolf Hitler».
I precedenti Lo scorso anno aveva minacciato di sparare alla cerimonia di consegna dei diplomi. I dirigenti avevano chiamato la polizia e la storia era finita con la segnalazione del giovane presso l'ufficio di igiene mentale. Alcune fonti citate dalla Reuters si basano su questo episodio per dire che il ragazzo era noto da tempo. Ma di sicuro su di lui non c'era alcun tipo di controllo.
L'attacco finale
Un amico ha raccontato infatti che in novembre Payton era andato a sparare con lui nella tenuta di famiglia. «Abbiamo usato fucili Remington e Ar-15 di configurazione militare».
Ma a quei tempi il suo atteggiamento era stato normale. In un secondo documento online, invece Payton ha descritto le minuzie del piano con tanto di diagrammi, schizzi, disegni, spostamenti e orari. E anche la scelta dell'obiettivo è avvenuta con una meticolosità incredibile. Ha scelto di colpire il Tops Friendly Markets di Buffalo perché è nel cuore del quartiere con la più alta concentrazione di afro-americani dello Stato.
Per scoprirlo gli è bastato consultare i dati pubblici e mettere il zip code (il codice di avviamento postale in pratica, ndr). Da lì è uscita la radiografia del quartiere. Bersaglio perfetto per il suprematista di Conklin, dove il 95% della popolazione è bianca.
10 morti, 3 feriti. Sul fucile semiautomatico le scritte "Nigger" e "14" (slogan suprematista). Chi è Payton Gendron, il 18enne autore della strage di Buffalo in diretta sui social: “La popolazione bianca sta diminuendo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 15 Maggio 2022.
Si chiama Payton Gendron e ha 18 anni il suprematista bianco arrestato dopo la strage al supermercato Tops Friendly di Buffalo dove ha ucciso 10 persone, ferendone altre tre (undici sono afroamericane, due bianche). Abita a Conklin, nello stato di New York, a 320 chilometri dal luogo dove è avvenuta l’ennesima carneficina che ha sconvolto gli Stati Uniti e ha riaperto, ancora una volta, la questione relativa alla facilità con la quale ci si procura un’arma.
Oltre 70 i proiettili esplosi. Il 18enne ha realizzato la strage con un Ar-15, un fucile semiautomatico statunitense, sul quale c’erano le scritte “Nigger” (negro) e “14” in riferimento al più popolare slogan suprematista, le “14 parole” in inglese del messaggio traducibile come: “Noi dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e il futuro per i bambini bianchi”. Slogan coniato da David Lane, membro di un gruppo terrorista suprematista bianco conosciuto come ‘The Order’, morto in carcere nel 2007.
Gendron, che è accusato di “crimine d’odio razziale e estremismo“, aveva annunciato tutto sui social, con tanto di diretta streaming su Twitch dell’attentato. In un manifesto di 106 pagine pubblicato di recente lamentava la diminuzione della popolazione bianca, così ha deciso di eliminare afroamericani. Non è chiaro perché il 18enne abbia deciso di colpire proprio in quella città e in un quel particolare supermercato.
Usa, uomo armato di fucile spara sulla folla in un supermercato in Colorado: 10 morti, uno è un poliziotto
Payton Gendron, che ha studiato per un periodo breve al Suny Broome Community College, era già noto agli archivi dalla polizia americana. Non è la prima volta infatti che finisce nel mirino delle autorità. Gia’ in passato era stato sotto indagine per minacce. Nel giugno del 2021 il suo liceo allertò la polizia in merito a un “ragazzo problematico che diceva di voler fare una sparatoria alla cerimonia di diploma o successivamente“, riferiscono alcun fonti al Buffalo News.
Sulla strage è intervenuto il governatore di New York, Kathy Hochul che si è scagliato contro i social media. “Le piattaforme devono essere responsabili di monitorare e sorvegliare” i contenuti, “consapevoli, in casi come questo, di poter essere ritenute complici. Forse non legalmente ma almeno moralmente”, afferma Hochul riferendosi ai contenuti online postati da Gendron.
Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in una nota pubblicata dalla Casa Bianca, ha espresso dolore per l’accaduto e gratitudine alle forze dell’ordine e ai soccorritori. “Non abbiamo bisogno di nient’altro per affermare una chiara verità morale: un crimine d’odio a sfondo razziale è ripugnante per il tessuto stesso di questa nazione. Qualsiasi atto di terrorismo interno, compreso un atto perpetrato in nome di una ripugnante ideologia nazionalista bianca, è antitetico a tutto ciò che sosteniamo in America. L’odio non deve avere un porto sicuro. Dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per porre fine al terrorismo interno alimentato dall’odio”, ha dichiarato Biden.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
La carneficina di Buffalo. Che cos’è la “Grande Sostituzione”, la teoria del complotto dell’estrema destra che ispira stragi razziste e omofobe. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Maggio 2022.
Payton Gendron avrebbe scritto nelle 180 pagine di un manifesto a lui attribuito del “genocidio dei bianchi”, di un Occidente destinato a essere sopraffatto da neri, musulmani e ispanici, di un’invasione vera e propria. E perciò ha aperto il fuoco a Buffalo in un supermercato frequentato soprattutto da afroamericani causando dieci morti e tre feriti. Ha indossato una telecamera per filmare tutto. Ha 18 anni e con la sua azione terroristica non ha compiuto solo una strage ma aggiunto un altro capitolo a una propaganda complottista ed estremista.
Prima era stato il turno delle carneficine nella sinagoga di Pittsburgh, nella moschea di Christchurch in Nuova Zelanda, del magazzino Walmart di El Paso. La matrice era sempre la diffusione di idee radicali, cospirazioni da suprematismo bianco. Payton rivendica le sue origini nord europee e italiane. Avrebbe scritto che il suo obiettivo era spingere gli afro-americani e gli ispanici a partire, a lasciare l’America. Ha trasmesso la strage in diretta sulla piattaforma Twitch.
Gendron sarebbe stato animato, come scrive anche il Washington Post, dalla teoria complottista della sostituzione etnica, molto cara all’estrema destra sia negli Stati Uniti che in Europa, da un complotto globale ordito da governi e multinazionali contro i bianchi. Secondo il think tank svedese Khalifa Ihler Institute circa il 28 per cento del documento è stato copiato da un testo diffuso dal responsabile dell’attentato alle due moschee di Christchurch in cui furono uccise oltre 50 persone nel 2019, Brenton Tarrant. La teoria del complotto maturata negli ambienti dell’estrema destra è conosciuta come “Grande Sostituzione” – “Great Replacement” o “Grand Remplacement” – secondo la quale l’immigrazione di massa non è frutto di un moto spontaneo di persone ma il risultato di un deliberato piano di sostituzione delle popolazioni europee bianche e di fede cristiana con altre di origine extra-europea.
La teoria così come diventata virale oggi, in determinati ambienti estremisti, è stata avanzata in un saggio del 2011 dell’accademico francese Renaud Camus e da allora ha fatto il giro del mondo. Letture simili e precedenti erano state tra le altre quella di Theodore Bilbo, politico democratico statunitense, anche governatore del Mississippi, che nel 1947 pubblicò un saggio dal titolo Separati o bastardi. Il neonazista David Lane, fondatore dell’organizzazione terrorista “The Order“, scrisse invece il manifesto White Genocide nel 1995. Bersaglio delle pubblicazioni anche aborto, omosessualità, sionismo. La teoria della “Great Replacement” è stata citata anche dall’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e spesso rievocata dalla star di Fox News Tucker Carlson.
Gendron ha comprato munizioni e un fucile Bushmaster XM 15. Dopo essersi procurato l’equipaggiamento militare ha cominciato a programmare la seconda fase, quella dell’attacco vero e proprio. Viveva a Conklin, nello Stato di New York, e ha fatto oltre 300 chilometri per arrivare a Buffalo e sparare con un fucile d’assalto nel supermercato Tops. Secondo Associated Press a un certo punto ha puntato il fucile contro una persona bianca nascosta dietro un bancone prima di scusarsi e di rivolgere altrove la sua attenzione. Sul posto è intervenuta la polizia. Il 18enne si è puntato un’arma al collo e ha minacciato di uccidersi. Si è arreso a due agenti e davanti al tribunale si è dichiarato non colpevole. “Questa persona è venuta qui con l’obiettivo esplicito di uccidere il numero più alto possibile di neri”, ha detto il sindaco di Buffalo Byron Brown. In passato il 18enne era stato indagato per aver minacciato di compiere una sparatoria nel suo liceo, il Susquehanna High School di Conklin.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
(ANSA il 17 maggio 2022) - L'uomo arrestato per la sparatoria in una chiesa della California del sud (1 morto e 5 feriti), è un immigrato cinese, ora cittadino americano, che ha agito spinto dall'odio per il popolo di Taiwan, isola che Pechino rivendica come parte del suo territorio. Lo riferiscono le autorità. Si tratta di David Chou, 68 anni, di Las Vegas. La vittima è John Cheng, 52 anni, taiwanese come i cinque feriti. La causa dell'attacco quindi sono i dissapori tra l'assalitore e la comunità taiwanese locale.
Da tag43.it il 17 maggio 2022.
Dopo la strage di Buffalo, dove il suprematista bianco Payton Gendron ha ucciso dieci clienti di un supermercato, nella giornata di domenica negli Stati Uniti si sono verificate due nuove sparatorie con vittime.
In u mercatino delle pulci di Houston, in Texas, una lite tra due gruppi di persone ha portato a uno scontro a fuoco: due i morti. Una vittima invece in California, dove un uomo ha sparato in una chiesa presbiteriana, facendo un morto. In entrambi i casi ci sono feriti gravi.
Sparatoria a Houston, due morti
Due persone sono morte sul colpo a Houston e tre, ferite in modo grave, sono state trasportate in ospedale.
Un bilancio che avrebbe potuto essere peggiore, visto che lo scontro a fuoco si è verificato in un mercatino delle pulci che, di domenica pomeriggio, è sempre particolarmente affollato. La polizia ha fermato tre persone: due sono in custodia, il terzo è in ospedale.
Lo sceriffo della contea di Harris, ha dichiarato che la sparatoria è avvenuta tra due gruppi di persone.
Sparatoria in chiesa a Laguna Woods, una vittima
A Laguna Woods, in California, un uomo di 60 anni ha fatto fuoco all’interno della Geneva Presbyterian Church, nella contea di Orange, uccidendo una persona e ferendone altre cinque.
L’assalitore ha iniziato a sparare poco prima delle 13:30, dopo aver chiuso le porte della chiesa per impedire la fuga dei parrocchiani, mentre circa 40 fedeli, che avevano appena finito di pranzare, stavano scattando foto insieme al pastore appena tornato da Taiwan dopo due anni. È stato proprio il religioso a fermarlo, colpendolo con una sedia mentre si è fermato per ricaricare l’arma. Poi i parrocchiani sono intervenuti immobilizzandolo e tenendolo poi legato fino all’arrivo della polizia. L’uomo che ha aperto il fuoco, asiatico, non apparteneva alla Irvine Taiwanese Presbyterian Church, che da dieci anni si riunisce nella chiesa di Laguna Woods.
(ANSA il 17 maggio 2022) - Il killer di Buffalo è stato lo scorso anno in un ospedale per una valutazione sulla sua salute mentale dopo una generica minaccia effettuata a scuola. Il liceo lo aveva infatti segnalato alla polizia che, a sua volta, lo aveva indirizzato in ospedale. Da allora era sparito dai radar delle autorità. Lo riferisce la polizia. "niente su di lui è stato trovato. Nessuno ha chiamato o ha effettuato denunce", afferma il commissario della polizia di Buffalo Joseph Gramaglia.
Chiuso in casa per il lockdown da Covid un Payton Gerdon "annoiato" ha passato ore sul web e sui social. E il frutto della sua navigazione senza freni è stato l'assalto al supermercato Tops di Buffalo dove, a sangue freddo e con l'obiettivo dichiarato di difendere la razza bianca, ha ucciso 10 persone e ne ha ferite altre tre. Un attacco di "terrorismo interno", come lo ha definito il presidente Usa Joe Biden, che parla di "odio come macchia sull'anima dell'America".
Un massacro che riaprire il dibattito sulle armi e sulla necessità dei social media di sorvegliare i contenuti che viaggiano sulle loro piattaforme. Ma che accende l'attenzione anche sull'Ucraina: il killer ha infatti usato nel suo manifesto il simbolo esoterico caro ai nazisti del 'sole nero', simile a quello utilizzato in passato anche dai combattenti ucraini del reggimento ultra nazionalista Azov.
Ma che accende l'attenzione anche sull'Ucraina: il killer ha infatti usato nel suo manifesto il simbolo esoterico caro ai nazisti del 'sole nero', simile a quello utilizzato in passato anche dai combattenti ucraini del reggimento ultra nazionalista Azov.
Una somiglianza che scatena un infuocato dibattito sui social, fra chi accusa gli Stati Uniti di finanziare i suprematisti bianchi in Ucraina e chi invita a non leggere troppo e a strumentalizzare l'episodio in quanto il sole nero è un generico simbolo suprematista, usato da gruppi di mezzo mondo. Online e sulle chat il ragazzo diciottenne si è radicalizzato divenendo un "suprematista", "fascista" e "antisemita", come si è descritto nel manifesto shock postato sul web. Un documento di 180 pagine in
(ANSA il 17 maggio 2022) - Payton Genrdon, il 18/enne autore della strage suprematista in un supermercato di Buffalo, stava pianificando da mesi il suo assalto, come risulta da un piano dettagliato postato online e compilato durante un sopralluogo in marzo, quando fu affrontato anche da una guardia del negozio che gli aveva chiesto conto del suo andirivieni.
Lo scrive il Washington Post. Nel documento il giovane descrive non solo il supermarket preso di mira ma anche altri due posti dove "uccidere tutti gli afroamericani", indicando per ciascuno tragitti e tempi di attacco, stimando un bilancio di oltre tre decine di vittime.
Dagotraduzione dal Los Angeles Times il 17 maggio 2022.
Durante i primi giorni della pandemia, Payton Gendron si è connesso alla bacheca di messaggi di 4chan per sfogliare meme ironici e infografiche che diffondono l'idea che la razza bianca si stia estinguendo.
Ben presto si è trovato nelle frange ancora più sinistre del web, scorrendo siti estremisti e neonazisti che spacciavano teorie del complotto e razzismo anti-nero. Ma è stato solo quando ha individuato la GIF di un uomo che sparava con un fucile in un corridoio buio, e poi ha rintracciato un live streaming sull'uccisione di 51 persone nel 2019 in due moschee in Nuova Zelanda, che a Gendron deve esser sembrato di aver trovato la sua vocazione: uno sparatutto di massa virulentemente razzista con una brama di notorietà.
Il diciottenne bianco di Conklin, NY, sospettato di aver ucciso 10 persone sabato in un supermercato di Buffalo, sembra rappresentare una nuova generazione di suprematisti bianchi. Sono isolati e online, radicalizzati dai meme di Internet e dalla disinformazione, apparentemente ispirati dai livestream per trovare fama attraverso spargimenti di sangue, in gran parte spinti da idee contorte secondo cui la razza bianca è minacciata da tutto, dal matrimonio interrazziale all'immigrazione.
«Ora hai questo nuovo mondo ironico di assassini», ha detto JJ MacNab, un borsista del programma sull'estremismo della George Washington University. «È un mondo diverso - solo un flusso costante di statistiche sbagliate, meme cattivi, bugie sulle persone che vogliono odiare... Questo è il modo di 4chan: dici cose oltraggiose a cui non credi necessariamente - e nel tempo arrivi a crederci».
A differenza dei vecchi suprematisti bianchi - dal Ku Klux Klan ai nuovi gruppi terroristici neonazisti come la Base o la Divisione Atomwaffen - le nuove reclute dei forum razzisti 4chan e 8chan sono spesso ragazzi adolescenti al liceo, ha detto MacNab. Esprimono la loro rabbia in un momento in cui le opportunità economiche diminuiscono per alcuni giovani.
«Si sono messi a cavalcioni sui reciproci crimini e, man mano che ognuno di loro è diventato più famoso, hanno reso più desiderabile la loro copia», ha detto MacNab. «La battuta è sempre: chi può battere il numero di uccisioni? ... Per loro è come un videogioco. Come fai a segnare meglio dell'ultimo?».
Armato di un potente fucile scarabocchiato con un epiteto razziale, il sospetto ha trasmesso la sua follia omicida in diretta su Twitch, una piattaforma popolare tra i giovani giocatori, e ha pubblicato un manifesto di 180 pagine che sposava la «teoria della sostituzione» razzista, l'idea che i bianchi americani rischiano di essere sostituiti da ebrei e persone di colore.
Identificandosi come un fascista suprematista bianco con convinzioni neonaziste, Gendron ha scritto che i bassi tassi di natalità dei bianchi in tutto il mondo rappresentano una «crisi» e un «assalto» che «alla fine si tradurrà nella completa sostituzione razziale e culturale del popolo europeo».
Gli esperti affermano che la teoria della sostituzione - la cui etichetta è stata coniata per la prima volta in Francia dallo scrittore nazionalista bianco Renaud Camus nel suo libro del 2011 "Le Grand Remplacement" - ha ispirato un flusso costant