Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE

GLI AFRO-ASIATICI

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE

GLI AFRO-ASIATICI

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Quei razzisti come i marocchini.

Il Marocco guida la "decolonizzazione" del calcio africano. Il Mondiale consacra la "decolonizzazione" del calcio d'Africa. Il caso del Marocco è emblematico: i figli della diaspora vogliono giocare per la nazionale di Rabat. Andrea Muratore e Mauro Indelicato l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

L'Africa agli africani: non è uno slogan terzomondista di Thomas Sankara, che pure approverebbe quanto sta accadendo in Qatar, piuttosto l'attestazione della definitiva "decolonizzazione" del calcio africano. Cinque allenatori su cinque delle nazionali africane della Coppa del Mondo sono nati nel continente di frontiera per eccellenza. Compreso quello del Marocco rivelazione del torneo. La cui storia di "africanizzazione" è paradossalmente la più recente. Poco prima dell'inizio del Mondiale, arriva un colpo di scena da Rabat: la federazione calcistica marocchina rescinde il contratto con il commissario tecnico Vahid Halilhodzic, artefice della qualificazione della nazionale africana a Qatar 2022. Al suo posto viene chiamato Walid Regragui, un ex calciatore nato in Francia ma formatosi come allenatore nel suo Paese di origine e in grado di riportare nello scorso mese di maggio la Champions League africana proprio in Marocco, trionfando con il Wydad Casablanca.

Regragui è l'eroe del momento. Il 6 dicembre 2022, con la vittoria ai rigori sulla Spagna, regala al Marocco il suo primo quarto di finale ai mondiali. Ma è anche uno dei volti che sta dando all'Africa un'inaspettata decolonizzazione calcistica. Cinque nazionali africane sono andate in Qatar e tutte hanno in panchina allenatori africani. Un fatto inedito per un continente le cui squadre più iconiche nella rassegna iridata sono state sempre guidate da commissari tecnici stranieri, soprattutto europei.

Il Camerun di Italia '90, prima squadra africana a raggiungere i quarti di finale, era allenato dal russo Valerij Nepomnjascij. Il Senegal capace di sconfiggere la Francia campione del mondo nel 2002 era stato costruito dal francese Bruno Metsu, mentre il Ghana che in Sudafrica nel 2010 ha sfiorato le semifinali aveva in panchina il serbo Milovan Rajevac.

Cinque allenatori hanno riscritto la storia calcistica dell'Africa

Se Regragui è l'eroe del Marocco, in Senegal le attenzioni sono tutte per Aliou Cissé. È forse da lui e dalla federcalcio senegalese che parte una tanto repentina quanto inaspettata inversione di tendenza del calcio africano. Cissé è già da anni una leggenda del calcio del suo Paese. Fa parte della squadra che nel 2002, agli ordini di Metsu, arriva ai quarti e si attesta come rivelazione del torneo.

Dieci anni dopo viene chiamato a dirigere la nazionale, ma è solo un incarico ad interim. È nel 2015 che Cissé prende definitivamente in mano la squadra. Non sono anni facili per il calcio senegalese, incapace di replicare i risultati del decennio precedente. Ci sono però alcuni nomi importanti da cui ripartire. C'è ad esempio l'attaccante Sadio Mané, così come il difensore Kalidou Koulibaly. A Cissé viene concesso tempo e pazienza per poter ricostruire un gruppo competitivo. Nel 2018 arriva la qualificazione a Russia 2018, dove gli ottavi sfuggono solo per la differenza di cartellini gialli favorevole al Giappone (primo e finora unico caso nella storia). Poi la nazionale riesce a giocarsi il titolo di campione d'Africa l'anno successivo in Egitto, perdendo però con l'Algeria. Il riscatto definitivo arriva nello scorso febbraio, quando in Camerun nella finalissima supera l'Egitto ai rigori e ottiene il primo storico alloro continentale.

La vittoria del Senegal è forse uno spartiacque nel calcio africano. Ci sono molte nazionali che nella rassegna giocata a febbraio deludono amaramente. A partire dal Camerun padrone di casa, chiamato a vincere il trofeo ma non in grado di esprimere un buon gioco. A deludere è anche il Ghana, squadra lontana dalla generazione d'oro di inizio XXI secolo ma da cui non ci si aspetta un'uscita di scena dalla coppa continentale con soltanto un punto nel girone.

Le due federazioni allora decidono di guardare al modello Senegal: via i precedenti allenatori, spazio alle storiche bandiere delle rispettive nazionali. Il Camerun non rinnova il contratto al portoghese Toni Conceiçao e chiama Rigobert Song, protagonista con i “leoni indomabili” a cavallo tra gli anni '90 e 2000. Per lui anche una fugace apparizione in Serie A con la Salernitana, poi Liverpool e West Ham nella sua carriera, assieme ad alcune esperienze in Turchia. Vince per due volte consecutive la Coppa d'Africa, nel 2000 e nel 2002, e i suoi tanti anni in Europa lo rendono tra i camerunensi più conosciuti e apprezzati a livello calcistico. Song guida il Camerun ai playoff per andare in Qatar e riesce il 29 marzo scorso a qualificare la nazionale superando l'Algeria.

Il Ghana invece licenzia l'allenatore dei quarti di finale di Sudafrica 2010, Milovan Rajevac, e decide di affidare la direzione tecnica a Otto Addo. Anche lui storica presenza tra le fila della sua nazionale, con riferimento soprattutto alla partecipazione a Germania 2006, primo mondiale con il Ghana al via e capace di raggiungere poi gli ottavi di finale. Addo è un “allenatore di ritorno”: nato e vissuto in Germania, decide però di vestire la maglia del suo Paese di origine e, a distanza di 16 anni, di traghettarlo ai mondiali in veste di commissario tecnico. Il suo è un incarico temporaneo, chiuso subito dopo l'eliminazione ai gironi in Qatar, a cui il Ghana arriva dopo il doppio confronto con la Nigeria ai play off. L'esperienza di Addo però rappresenta una svolta nella gestione del calcio nel Paese africano.

La Coppa d'Africa risulta fatale anche per la panchina tunisina, ma in quel caso si tratta di un passaggio di testimone tutto interno al calcio del Paese nordafricano. Via Mondher Kebaier, spazio a Jalel Kadri, tunisino la cui carriera calcistica si svolge interamente nel mondo arabo e che porta la nazionale in Qatar dopo la vittoria sul Mali.

Cinque allenatori africani quindi in cinque squadre africane. E non è forse un caso che proprio in questo mondiale per la prima volta il continente può vantare almeno due formazioni, il Senegal di Cissé e il Marocco, nella fase ad eliminazione diretta. Con il Marocco adesso punta di diamante capace di alimentare il sogno africano nel deserto qatariota. E fonte di un'altra forma di "decolonizzazione" calcistica: l'attrazione della diaspora.

La nazionale del Marocco, raduno della diaspora

La decolonizzazione passa anche per il "soft power". Una nazione si libera dalle catene della dipendenza coloniale e comincia a essere attrattiva sul profilo identitario. Questo vale per l'arrembante e giovane Marocco targato Regragui. Identitario e cosmopolita al tempo stesso, senza alcuna contraddizione: la squadra del Marocco è la squadra dei figli della diaspora. A fronte di un Paese di 37 milioni di abitanti ci sono circa 5 milioni di marocchini all'estero, quasi un settimo del totale degli abitanti. La maggior parte di questi vive in Europa occidentale, principalmente in Francia (circa 1.500 000), Spagna (circa 750.000), Belgio (circa 500.000), Italia (circa 450.000), Paesi Bassi (circa 400.000) e Germania (circa 140.000), oltre che in Israele e Canada.

La nazionale del Marocco ha saputo operare l'attrazione necessaria a far tornare coi colori di casa i figli di questa diaspora. Se nella vecchia guardia, per fare un esempio, i figli delle nazioni degli ex imperi coloniali nati nelle antiche colonie anelavano a giocare per la compagine europea più quotata (Clarence Seedorf dal Suriname all'Olanda, Patrick Vieira dal Senegal alla Francia, per fare due esempi), oggi succede l'opposto. E così un fuoriclasse del calibro di Achraf Hakimi, nato a Madrid e passato dalla camiseta blanca del Real alle maglie di Borussia Dortmund, Inter e Paris Saint Germain, sceglie legittimamente e convintamente il Marocco. Al suo fianco, il portiere-eroe degli ottavi, Bounou, nato a Montreal, Canada. Il roccioso difensore Noussair Mazraoui e l'estroso centrocampista offensivo Hakim Ziyech, in forza rispettivamente a Bayern Monaco e Chelsea, sono nati in Olanda.

E c'è spazio anche per l'Italia. Parla un florido accento marchigiano Walid Cheddira, giovane talento del Bari nato a Loreto, in provincia di Macerata, all'ombra di quel santuario e di quella Casa Santa che molto dicono dei rapporti tra Italia e Oriente mediati dal Mediterraneo. Un rapporto che ha portato in passato i nostri destini a incrociarsi con quelli del Marocco e del Maghreb, molto prima che la florida diaspora proveniente da Casablanca e dintorni si ramificasse nel Paese. Cheddira, classe 1998, ha giocato stagioni tra Eccellenza e D nel maceratese dividendosi tra il Loreto e la Sangiustese. Ha poi peregrinato tra Arezzo, Lecco e Mantova in Serie C prima di consacrarsi a Bari: 6 gol nella vittoriosa Serie C 2021-2022, ben 9 nel primo spezzone dell'attuale Serie B. A settembre l'esordio con la nazionale del Marocco per questo giovane prospetto che ha giocato anche l'ottavo con la Spagna.

Mutatis mutandis, non possiamo non sottolineare che il periodo d'oro del calcio italiano iniziò quando, tra gli Anni Venti e Trenta, gli "oriundi", i figli della diaspora, iniziarono a giocare con la Nazionale azzurra e i club del nostro Paese. Da Raimundo Orsi a Enrique Guaita, protagonisti del Mondiale 1934, la storia degli oriundi è proseguita con nomi di peso come Omar Sivori, José Altafini e Eddie Firmani per arrivare ai giorni nostri con Mauro German Camoranesi, campione del Mondo nel 2006, e i campioni d'Europa del 2021 Jorginho ed Emerson Palmieri. Ebbene i legami di molti di questi campioni, specie i più recenti, con la madrepatria erano prima dell'affermazione calcistica molto meno ombelicari di quelli dei figli di prima generazione dell'emigrazione marocchina. Ora tornati a vestire i colori rosso acceso della nazionale di casa per decolonizzare il calcio nel Paese. E contribuire a restituire l'Africa del pallone agli africani. Ovunque essi siano nati.

Costruzione dal basso. Il miracolo del Marocco non è solo sportivo, ma anche politico. Carlo Panella su L’Inkiesta l’8 Dicembre 2022.

È il solo paese arabo-islamico che si possa definire democratico e la squadra che ha battuto la Spagna riflette uno Stato moderno in cui la religione non è violenta ma si evolve con la società

Il pallone è rotondo e guai a strologare sentenze per cavare lezioni epocali da una partita dei mondiali. Ma la coincidenza è troppo grossa per resistere alla tentazione di spiegare che c’è un mondo di intrecci interessanti dietro il 3 a 0 con cui il Marocco ha battuto la Spagna in Qatar e giocherà quindi i quarti di finale. Questa vittoria è caduta infatti proprio nel giorno in cui l’Indonesia ha definito reato il sesso fuori dal matrimonio, punito addirittura con un anno di carcere, così come la promozione della contraccezione. Per coincidenza dunque, nello spazio di poche ore, abbiamo visto gli effetti perversi  di un governo dell’Islam fondamentalista nell’Indonesia, il più popoloso paese islamico del mondo. All’opposto, sul campo abbiamo visto invece gli effetti modernizzatori di un governo dell’Islam evolutivo nel Marocco, unico e solo paese arabo-islamico a democrazia compiuta. Il tutto, nei giorni bui e sanguinosi che l’Islam iraniano impone al suo popolo di strage in strage 

Non tiriamo dunque per i capelli la realtà se scorgiamo una qualche linea di continuità tra la clamorosa vittoria del Marocco sulla Spagna ai mondiali e l’unicità di quel paese musulmano che, solo, accetta le sfide della modernità, vive un Islam non dogmatico ma evolutivo, sia pure con prudenza estrema e mille contraddizioni. 

Certo, il pallone è rotondo e guai a fare sociologia d’accatto su una partita finita ai calci di rigore. Ma l’intrico dei rapporti tra Spagna e Marocco invoglia a riflettere. Soprattutto perché, caso unico nella storia, quel Marocco che nell’Ottocento divenne in parte colonia della Spagna, prima e per secoli, aveva colonizzato e dominato la Spagna, o meglio, la feconda e ridente Andalusia sotto il dominio dei sultani berberi Almoravidi e poi Almohadi.

È storia antica e complessa ma non è un caso che quel crogiolo di fedi che fu l’Andalusia abbia prodotto a Cordova, nati a pochi anni di distanza e probabilmente riforniti dagli stessi librai ebrei, sia Averroé che Mosé Maimonide. Allora erano i dotti ebrei a tradurre Aristotele e l’ellenismo a cristiani e musulmani, e da essi Averroé ha attinto il razionalismo, inascoltato ahimè tra i Musulmani e così il Maimonide che trasportò l’ebraismo nella modernità.

In quel antico pensiero limpido e ibrido ha dunque le sue radici l’Islam di un Marocco che in seguito, unico paese arabo al mondo, sotto la dinastia degli Alawidi, ha resistito per secoli al dominio oppressivo e oscurantista dell’impero ottomano.Quella storia di fiera indipendenza nazionale dei marocchini e quel loro Islam così fecondato dalla modernità ellenistica, ebraica e cristiana c’entra col 3 a 0? In qualche modo sì. 

I grandi risultati sportivi, pur sempre debitori alla Dea Fortuna, sono il prodotto di un profondo retroterra fatto di agonismo diffuso, di organizzazioni efficienti, di un forte e maturo equilibrio mentale e nazionale. Dunque, questa squadra del Marocco riflette un paese moderno, l’unico in cui l’Islam non è d’impaccio violento e invece, lentamente, con prudenza, si evolve.

L’unico paese arabo che dagli anni cinquanta in poi ha stretto forti legami sotterranei con Israele (a Rabat il Mossad è sempre stato di casa), riconosciuto poi formalmente con gli accordi di Abramo. Insomma, nella palude di un Islam che arretra e regredisce – lo straricco Qatar impone in mondovisione la arretratezza delle sue regole – il Marocco ci mostra l’Islam che anche altrove avrebbe potuto essere, ma non è stato.

Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 6 dicembre 2022.

Nei giorni più sanguinosi della guerra civile, un soldato marocchino che combatteva con i franchisti fu sorpreso da un ufficiale con la testa di un nemico repubblicano nascosta nei pantaloni; spiegò che non aveva avuto tempo di cavargli i denti d’oro, e intendeva farlo con calma.

L’ufficiale lo fece fucilare.

Il suo attendente gli chiese spiegazioni: «In fondo anche noi uccidiamo i repubblicani».

«È vero – rispose l’ufficiale -. Ma era pur sempre uno spagnolo. Ammazzato da un marocchino». 

(Testimone dell’episodio fu un giovane volontario italiano, Edgardo Sogno, che l’avrebbe raccontato molti anni dopo). 

Non esistono nella storia due popoli che si siano affrontati per altrettanti secoli e con altrettanta ferocia come marocchini e spagnoli; e per quanto si annunci intenso oggi l’ottavo di finale dei mondiali, a Doha , non sarà che una pallida parvenza dei duelli combattuti dagli antenati dei calciatori in campo.

Francisco Franco si temprò nella guerra contro i marocchini, conquistando quell’aura fortunata – la baraka — che ne farà il Caudillo di Spagna. All’inizio della guerra civile, porterà dal Marocco sugli aerei tedeschi il nerbo del proprio esercito, tra cui le truppe coloniali del Tercio. Ma erano mille anni, dai tempi del Cid Campeador, che spagnoli e mori incrociavano le lame; e proprio davanti a un quadro del Cid (che poi sarebbe Sidi, signore, in arabo) che faceva strage di infedeli Franco maturò la convinzione di combattere una battaglia per la civiltà cristiana occidentale. 

Se è per questo, il Cid non faceva che replicare il modello di Santiago Matamoros: san Giacomo, quello del pellegrinaggio, sarebbe intervenuto personalmente a cavallo nella battaglia di Clavijo (23 maggio 844), massacrando i mori e dando la vittoria ai cristiani.

Ovviamente sarebbe improprio identificare direttamente quelli che gli spagnoli chiamavano mori con quelli che oggi chiamiamo marocchini. Ma già Dante, nel raccontare il «folle volo» di Ulisse, cita la Spagna e il Marocco, Siviglia e Ceuta, i confini occidentali del mondo conosciuto. E certo i califfi di Cordova e di Granada, contro cui i castigliani combatterono le battaglie della Reconquista, erano imparentati con i sovrani di Fes e di Marrakesh (da cui deriva appunto il nome Marocco).  

Dopo la caduta di Granada, avvenuta in quello stesso fatale 1492 in cui Cristoforo Colombo sulla rotta dell’Ulisse dantesco approdò in America, i mori furono costretti alla conversione o alla fuga. 

Con il tempo, gli spagnoli portarono la guerra in Africa. Parte del Marocco divenne una loro colonia. E quando gli europei si ritirarono, il re Hassan II ordinò la «marcia verde»: un’onda di marocchini preceduti dal Corano invase il Sahara spagnolo, strappandolo ai nomadi saharoui. 

Ancora oggi i due Paesi separati dallo stretto di Gibilterra hanno un contenzioso aperto: la Spagna conserva sul territorio marocchino le enclave di Ceuta e Melilla, difese spesso a fucilate dai migranti che cercano di penetrarvi ed essere accolti in Europa. 

Per il Marocco è un problema vedere la bandiera spagnola su due piazzeforti che considera proprie, e pure essere attraversato da carovane in arrivo dall’Africa nera che a volte, non riuscendo a passare la frontiera, finiscono per accamparsi fuori dalle città marocchine e a vivere di espedienti.

Di tutto questo a Gavi, Pedri e agli altri ragazzini spagnoli cresciuti a pallone e playstation non potrebbe importare di meno (anche se Gavi è andaluso e Pedri delle Canarie, quindi del Marocco sono dirimpettai). 

È possibile invece che i loro colleghi marocchini metteranno nella storica sfida di oggi qualche stilla di energia e di rabbia in più. 

Spesso gli scontri mondiali ispirano una duplice retorica: quella che li carica di significati politici, culturali, letterari; e quella che riduce tutto a una partita di calcio. 

Tra poco vedremo se Spagna-Marocco è solo una partita di calcio.

(ANSA il 25 agosto 2022) - In rete circola un breve filmato, di appena pochi secondi, in cui si vede il re del Marocco Mohammed VI apparentemente ubriaco, barcollante, la notte scorsa nelle strade di Parigi. Il sovrano, asceso al trono nel 1999 a 36 anni, è circondato da guardie di sicurezza, una delle quali, nel video, cerca di fermare la persona che ha filmato. 

In breve tempo il video è diventato virale online ed è stato ripreso da numerosi siti web arabi, come riferisce il Times of Israel, notando che il consumo di alcolici è vietato dall'Islam, sebbene il Marocco sia clemente sulla questione e consenta la vendita di bevande alcoliche.

Rayan come Alfredino. Estratto dopo 100 ore "Ma non ce l'ha fatta". Chiara Clausi il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Precipitato a 32 metri nel pozzo che stava scavando suo padre. Il re chiama la famiglia.

Una corsa a ostacoli e contro il tempo per salvare il piccolo Rayan. Alla fine i soccorritori ce l'hanno fatta a raggiungerlo, ma purtroppo Rayan era morto. Il piccolo è stato subito caricato in ambulanza e su un elicottero, ma per lui non c'era più nulla da fare, ucciso dalle ferite che si era provocato cadendo. Il re Mohamed VI ha telefonato alla famiglia per le condoglianze. La tragedia che ha tenuto tutti con il fiato sospeso era iniziata martedì scorso, quando il padre stava riparando un pozzo. «Ho staccato gli occhi da lui per un secondo, e il piccolo è caduto lì dentro», ha raccontato. La madre con le lacrime agli occhi aveva spiegato: «L'intera famiglia lo ha cercato. Poi ci siamo resi conto che era caduto lì».

Il dramma di Rayan Awram, cinque anni, è avvenuta nella città marocchina di Bab Berred, a 100 chilometri da Chefchaouen, sui monti del Rif e ha bloccato e scioccato tutto il paese nordafricano. Sono stati utilizzati macchinari pesanti per scavare senza sosta e il posto è stato trasformato in un cantiere di terra rossa con la campagna e i boschi circostanti. L'operazione è stata delicata perché c'era sempre la minaccia di possibili frane. I lavoratori con elmetti e giubbotti hanno trasportato barelle, corde, e altre attrezzature nella trincea. Per cercare di salvarlo con sei scavatrici è stato aperto un altro pozzo, molto più grande, a pochi passi dal pertugio. Arrivati in profondità, i soccorritori hanno cominciato a scavare in orizzontale un tunnel che raggiungesse il posto di Rayan senza farlo crollare. Il pozzo è profondo 32 metri e si restringe in profondità. Il suo diametro è di 45 centimetri nella parte superiore, lì dove si trovava Rayan 25. Questa storia ricorda quella di Alfredino, caduto anche lui in un pozzo a Vermicino nel 1981, morto in seguito all'incidente. La regione in cui si trova Rayan è molto fredda in inverno. Ma gli sono stati forniti acqua, cibo e ossigeno attraverso un tubo. E c'era anche una telecamera per monitorarlo. Lo ha mostrato da dietro sdraiato su un fianco e con alcune lievi ferite alla testa. Sul posto si trovavano i genitori del bambino e centinaia di persone, che sono state tenute a distanza dai militari. La folla scandiva «Allah u akhbar», «Dio è il più grande», in attesa di vedere il piccolo. Un elicottero della Royal Gendarmerie era pronto a trasportare Rayan in ospedale non appena liberato e c'era anche un'équipe medica per curare subito il ragazzo. «Stiamo dimostrando solidarietà a questo bambino caro al Marocco e al mondo intero», aveva affermato Hafid el-Azzouz, una persona sul posto. «Gli ho parlato via radio, ho sentito il suo respiro, respira a fatica, ma è vivo», aveva invece raccontato poco prima il padre mentre le preghiere a voce alta dei marocchini scandivano il ritmo dei lavori, giorno e notte. E le preghiere per Rayan risuonavano ogni giorno nelle 60 mila moschee del Marocco.

L'incidente ha suscitato un'ondata di simpatia online sui social media. L'hashtag «Save Rayan» è diventato virale. Il calciatore marocchino Achraf Hakimi ha sottolineato gli sforzi per il suo salvataggio sui social media, insieme alle emoji di un cuore spezzato e le mani unite in preghiera. Anche il calciatore algerino Riyad Mahrez ha partecipato al coro di solidarietà, e ha condiviso una foto di Rayan su Facebook insieme all'hashtag «Stay Strong». Poi c'è anche chi specula sulla tragedia. Una pagina Facebook fake è stata creata a nome del padre del bambino. E c'è chi ne ha approfittato per creare magliette vendute a 16,68 euro. Ma non finisce qui. Una donna nei giorni scorsi aveva creato un finto profilo Twitter e aveva comunicato la falsa notizia della morte di Rayan. La polizia giudiziaria l'ha arrestata in meno di 12 ore. Chiara Clausi

 Bambino caduto nel pozzo in Marocco, Rayan estratto dai soccorritori senza vita dopo 5 giorni. Redazione su Il Riformista il 5 Febbraio 2022. 

Il piccolo Rayan è stato estratto dal pozzo in cui era rimasto incastrato nel villaggio di Tamrout, nel nord del Marocco, cento chilometri da Chefchaouen sui monti del Rif, ma è morto per le ferite riportate. Lo ha annunciato in un comunicato il gabinetto della Casa Reale del Marocco: “Il bambino è morto a causa delle ferite riportate durante la caduta“, si legge nel comunicato citato dai media arabi

Il bambino di 5 anni era stato raggiunto dai soccorritori ed estratto dal pozzo dopo giorni di incessante lavoro di scavo, quindi portato in una ambulanza che lo aspettava a pochi metri: l’obiettivo era quello di farlo salire su un elicottero pronto a volare verso un ospedale, ma Rayan è morto per le ferite riportate nella caduta.

Un epilogo drammatico dopo le ore di grande attesa che ha vissuto il Marocco, che da giorni stava pregando per il piccolo Rayan, caduto martedì in un pozzo nel villaggio di Tamrout.

Da subito si era mossa la macchina dei soccorsi, che hanno scavato con sei grosse bulldozer un tunnel parallelo al pozzo profondo circa 30 metri. Una montagna è stata letteralmente sbancata per creare una voragine e raggiungere in parallelo il fondo del pozzo.

Il bambino da martedì ha trascorso oltre 100 ore in un ‘buco’ di una larghezza di circa 50 centimetri e ha riportato probabili fratture nella caduta. In questi Rayan tramite un tubo è stato rifornito di ossigeno, acqua e cibo.

I lavori di scavo nel tunnel sono proseguiti di centimetro in centimetro, anche perché il rischio crolli ha costretto gli operatori a lavorare con estrema cautela. “Ottanta centimetri ci separano da Rayan, i perforatori stanno lavorando minuziosamente per evitare qualsiasi errore“, aveva detto Mourad Al Jazouli, riferendosi a una progressione di 20 centimetri all’ora.

Rayan come Alfredino

La storia del piccolo Rayan ricorda quella di Alfredo Rampi, detto Alfredino, che il 13 giugno 1981 morì a Vermicino, nel Lazio, dopo aver trascorsi tre giorni in un pozzo artesiano di circa 60 metri di profondità.

Le operazioni di recupero, trasmesse in diretta tv per oltre 18 ore, paralizzarono l’Italia intera. Anche l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini si precipitò sul posto. Una vicenda che resta dolorosa a distanza di oltre 40 anni.

La tragedia che ha fatto il giro del mondo. Com’è morto il piccolo Rayan, il bimbo caduto in un pozzo come Alfredino Rampi. Vito Califano su Il Riformista il 6 Febbraio 2022. 

Rayan ha lottato per quasi cinque giorni, oltre 100 ore, 32 metri sotto terra. Quando la storia sembrava essere arrivata al lieto fine la tragica notizia: il bambino di 5 anni precipitato in un pozzo nel nord del Marocco è morto. La notizia è stata diffusa dalla Casa Reale ieri sera e ha fatto il giro del mondo in pochi minuti. Inutili i soccorsi. Un dramma che agli italiani ha ricordato quello del piccolo Alfredino Rampi, il bimbo caduto in un pozzo artesiano e morto a Vermicino nel 1981.

Tutto è cominciato nel pomeriggio martedì scorso. Rayan sta giocando davanti casa nel villaggio di Tamrout, a 100 chilometri da Chefchaouen sui monti del Rif. C’è anche il padre. “Lo tenevo d’occhio ma è sparito all’improvviso, non l’ho più visto e non avevo capito fosse precipitato lì dentro”. Ovvero in un pozzo asciutto di proprietà della famiglia. La caduta del piccolo si è fermata a 32 metri, a un punto in cui la larghezza era di circa 25 centimetri. I soccorsi sono scattati subito: prima sono arrivati i vicini di casa, poi i volontari del villaggio. Il primo a scendere è stato un vicino di casa, molto magro, con una corda non riesce ad andare oltre un punto troppo stretto. Fa scendere un telefonino con telecamera accesa: Rayan è vivo, si lamenta e chiama la mamma.

Lo specialista dei pozzi Ali El Jajaoui arriva da Erfoud appena apprende la notizia. Scava per ore e ore anche con le mani nude dopo l’intervento di cinque escavatori che apre una voragine, un corridoio orizzontale. I soccorsi sono imponenti. Mercoledì tramite un tubo si fa arrivare a Rayan ossigeno, acqua e qualcosa da mangiare. Il piccolo è provato ma vigile. È ferito alla testa. La voragine arriva all’altezza del piccolo venerdì e si comincia a lavorare alla costruzione del tunnel. La corsa contro il tempo è ostacolata dalle rocce e dalla terra che frana. “Resto fiducioso che mio figlio uscirà vivo da questo pozzo – aveva detto il padre del piccolo venerdì sera alla tv di Stato 2M – Ringrazio tutti coloro che si sono mobilitati e coloro che ci sostengono in Marocco e altrove”.

Rayan è appoggiato sul fianco. L’ultimo contatto con il padre sabato mattina: “Gli ho parlato, sentivo che respirava a fatica”. Con la moglie viene fatto salire su un’ambulanza con a bordo una psicologa. La rassicurazione dei soccorsi, sabato pomeriggio: oggi lo tiriamo fuori. I soccorritori sono entrati nel tunnel mentre una folla di spettatori osserva e alcuni pregano al grido di Allah Akbar. Pronta l’equipe medica per soccorrere il piccolo. L’ennesima roccia, 80 centimetri di masso da sgretolare, ritarda ancora la salvezza.

Lo sforzo di volontari, speleologi e forze marocchine sembra essere premiato: il bambino viene raggiunto. Il quotidiano Le Matin dà la notizia di “una scena toccante e mai vista”: Rayan è vivo e viene portato in una coperta termica in ambulanza nel visibilio. Poco dopo il comunicato che tronca ogni gioia, della Casa Reale. “Il bambino è morto a causa delle ferite riportate durante la caduta”. Il Re Mohammed VI ha espresso le sue condoglienza alla famiglia.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Michele Farina per corriere.it il 6 febbraio 2022.  

«I genitori, hanno chiamato i genitori!». Sono passate da poco le 9 di sera quando, alla luce delle fotoelettriche e dei telefonini, la folla degli uomini intona inni di ringraziamento. Questione di attimi. Dopo quattro giorni e quattro notti di incubo. 

Lo portano fuori avvolto in un lenzuolo giallo. Papà Khalid e mamma Soumaya ora aspettano all’ambulanza. Che parte verso il piccolo campo dove un elicottero è pronto a partire. La folla festeggia. Ma l’elicottero non si alzerà in volo. E un comunicato della Casa Reale del Marocco gela tutti: «Rayan è morto per le ferite riportate durante la caduta».

20 centimetri all’ora

Per tirarlo fuori avevano squarciato la montagna. E poi hanno continuato a rosicchiare la roccia a mani nude, per ore, avanzando in orizzontale grazie a un condotto di sicurezza. Piano piano, per non rischiare di far crollare tutto. 

Roccia grigia, terra rossa. Alla luce del sole e quando è calata la sera, una grande scavatrice gialla, con il braccio pazientemente piegato e ormai inservibile, è rimasta a fare da sentinella all’imboccatura della caverna artificiale, mentre dentro i soccorritori con il casco rosso avanzavano a piccoli colpi di 20 centimetri all’ora per salvare il bambino Rayan, 5 anni, prigioniero da martedì pomeriggio di un pozzo profondo 32 metri e largo 25 centimetri. Il pozzo che, mentre lui giocava, suo padre stava sistemando .

La folla in preghiera

Per ore ieri il papà contadino è stato visto vagare all’entrata della caverna, o seduto con il cappuccio calato sulla testa, mentre intorno una folla sterminata di persone (quasi tutti uomini) incorniciava la scena da ogni lato. A Ighrane, villaggio di 500 persone sulle montagne del Rif, nel nord del Marocco, tanta gente insieme non si era mai vista. Persone pronte, con il cellulare in mano, a riprendere un momento atteso in tutto il Marocco e non solo. 

Un momento che era sembrato imminente già dal mattino, quando i capi della Protezione Civile raccontavano che l'avanzata nella notte precedente era stata ritardata da un pericoloso imprevisto: l’ostacolo di una grande roccia di tre metri aveva richiesto quattro di scavo e mille precauzioni per la paura di frane.

Il sole è tramontato sui monti del Rif, su quel villaggio di coltivatori di cannabis che è sempre stato soltanto un puntino nelle mappe, e il momento tanto atteso ancora non arriva. Per la mamma e il papà di Rayan, per gli spettatori che a decine (tanti bambini) hanno chiamato le radio e le tv per lasciare un messaggio o una preghiera. 

L’incertezza

Alla discesa del buio, gli «Allah Akhbar» lanciati verso il cielo sono ripresi tra la folla, quando alla squadra degli scavatori si è affiancata l’equipe dei medici. Le flebo dopo gli scalpelli. Ma del piccolo Rayan ancora nessuna traccia. Nella mente le avvertenze di Abdelhadi Temrani, responsabile dei soccorsi, che prima di mezzogiorno aveva messo in guardia: «Non è possibile determinare le condizioni del bambino. Non sappiamo se abbia preso l’acqua e la mascherina dell’ossigeno che gli abbiamo mandato giù. Ma preghiamo Dio che sia vivo». 

La testa ferita

Le ultime immagini dalla telecamerina, ha raccontato Temrani, mostravano Rayan appoggiato sul fianco. Giovedì, il giovane che si era calato nel pozzo arrivando a sei metri di distanza dalla sua testa ferita, come avevano fatto a Vermicino i volontari italiani nel tentativo di salvare Alfredino Rampi nel 1981, lo aveva sentito piangere e respirare. 

Non aveva potuto fare altro, perché a 26 metri il pozzo si restringeva ulteriormente.

La Protezione Civile aveva così cambiato strategia. Scavando la montagna con sei scavatrici in modo da arrivare «di lato» alla stessa profondità del bambino. Sulla parete in alto, sotto il treppiede alla bocca del pozzo, i segni dei denti delle benne. Al fondo, «i perforatori» che avanzavano 20 centimetri all’ora.  

Scesa la notte, nella caverna illuminata dalle fotoelettriche si è continuato a lavorare. Fuori, la folla in attesa: tra la sentinella gialla e l’ambulanza bianca pronta ad aprire il portellone per il tragitto fino all’elicottero e da lì all’ospedale.

Poi sono comparsi i genitori, il papà con il cappuccio e gli occhi bassi, la mamma impietrita. Cominciano i cori. Adesso esce. Ancora un attimo. Scattano i telefonini. L’ambulanza accoglie Rayan avvolto in un lenzuolo giallo.

Rayan e gli incubi di Ali, «l'eroe del deserto» che non è riuscito a salvarlo: come Angelo Licheri con Alfredino Rampi. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 06 febbraio 2022.

Uno di volontari che ha provato a salvare il piccolo Rayan era partito dal sud del Marocco per arrivare sui monti del Rif, per tentare di salvare il bambino. È stato salutato, sui social, come «l'eroe del deserto». E ora affronterà gli stessi incubi di Angelo Licheri, che provò a salvare Alfredino Rampi. 

Non è arrivato a sfiorarlo, come fece Angelo Licheri con Alfredino Rampi. «Tentai di afferrarlo per la canottierina, ma ho sentito che cedeva», disse a Giusi Fasano che lo intervistò nel 2019 per «7», «allora me ne andai e dissi “ciao piccolino”». Ma gli incubi — è facile immaginarlo — non smetteranno di assillarlo. 

Ali Sahroui, come lo chiama l'agenzia Afp; «l'Eroe del deserto», come lo chiamano in Marocco, è uno delle decine di soccorritori che sono arrivati nei giorni scorsi per tentare di salvare Rayan, il bimbo di 5 anni caduto in un pozzo mentre giocava, martedì, davanti a casa sua, sulle montagne del Rif, in Marocco. 

È diventato — suo malgrado, forse — un simbolo: il più applaudito a Tamrout, il villaggio teatro della vicenda, durante le operazioni di soccorso, terminate tragicamente sabato sera. 

Si era presentato con una maglietta azzurra, e un berretto nero in testa, a chiedere di poter dare una mano. 

Secondo le agenzie, viene da Erfoud, nel Sud del Marocco. Ha circa 50 anni, ed è specialista nella perforazione di pozzi. Una professione preziosa, specie in zone dove l'acqua è così scarsa. 

Appena saputo di quanto era accaduto a Rayan si è messo a disposizione. È partito da Erfoud, percorrendo quasi per intero tutto il Marocco, da sud a nord, per condividere con i tecnici che erano già al lavoro i segreti dei pozzi. Sarebbe sua l'idea del tunnel di raccordo tra il cratere e il punto in cui era precipitato Rayan. 

Quando sono andati via i bulldozer è stata l'ora di Ali, che con altri giovani ha scavato a mano, fino alla fine. Un lavoro di ore: Ali è entrato nel cratere venerdì, più o meno alle 18, per uscirne solo sabato, a operazione conclusa. 

Applaudito dalla folla ogni volta che si è affacciato, per bere un sorso d'acqua o per riprendere fiato: la sua foto è diventata virale sui social. 

Ha contribuito a dar forma al tunnel che doveva rappresentare la via di fuga, per Rayan: e che invece si è invece trasformato nel suo ultimo percorso. 

Non sappiamo se sia già ripartito, o se intenda partecipare ai funerali del piccolo Rayan. 

Ma il pensiero di tutti, osservandolo, è andato alle parole di Licheri, scomparso pochi mesi fa. 

Anche lui — sardo di Gavoi — era partito all'improvviso da dove abitava, a Roma, per raggiungere Vermicino. Faceva il fattorino per una tipografia, seguì l'inizio della vicenda davanti allo schermo, come altri 32 milioni di telespettatori. Come ha scritto Giusi Fasano qui: «Rimase davanti allo schermo per due giorni finché la sera del 12 giugno disse alla donna che allora era sua moglie: "Esco a prendere le sigarette". E lei: "Fra mezz’ora è pronta la cena". Lo vide uscire e - confesserà dopo - le venne spontaneo un pensiero: "Vuoi vedere che quel pazzo vuole andare a Vermicino...". Nelle ore precedenti lo aveva visto davanti allo specchio fare strane contorsioni con le braccia in alto. "Che fai?" aveva chiesto. "Niente, un po’ di ginnastica", aveva risposto lui. Ma cos’altro poteva essere quella strana ginnastica se non prove immaginarie di movimenti nel pozzo? Lei non disse nulla ma capì». 

«Non sapevo nemmeno dove fosse quel posto», disse, sempre a 7. «"Ricordo solo che ho fatto tutte le infrazioni possibili per arrivarci. Mi sono fatto l’ultimo tratto a piedi, sono arrivato davanti al blocco e non mi hanno fatto passare, ma non avrei ceduto per niente al mondo. Così ho costeggiato una via che portava al pozzo e, come un ladro, sono passato in mezzo a una vigna finché ci sono arrivato davanti. C’era un cordone di militari e mi sono detto: e adesso che faccio? A quello che mi ha bloccato ho detto che mi aspettava il capo dei pompieri: puoi andare a dirgli che è arrivato Angelo? Lui è andato e io mi sono infilato fra i soccorritori. In mezzo a loro c’era Franca, la mamma di Alfredino. Al capo dei vigili del fuoco ho detto: sono piccolo, fatemi scendere. E lui: lei è troppo emotivo. Ha qualche malattia, qualche problema... L’ho interrotto. Gli ho detto: senta, io sto benissimo, voglio solo scendere. La mia determinazione è stata più forte dei loro no alla fine l’ho vinta io. 

Gli tolsi il fango dagli occhietti e dalla bocca e cominciai a fargli promesse che avrei senz’altro mantenuto. Gli dissi: ho tre bambini e uno è più piccolo di te. Hanno tutti la bicicletta. Sai che facciamo? Appena usciamo ne compro una anche a te, vedrai che sarai orgoglioso di questa bici nuova. E poi ti compro anche una barchetta, mi hanno detto che sai pescare bene... Lui emetteva quel rantolo che è qui, nella mia testa..." 

Lo imbragò una prima volta e diede il segnale alla squadra in superficie. Ma lo strattone fu troppo forte e la cinghia scivolò fuori dalle braccia. La rimise e tentarono ancora ma stavolta fu il moschettone a sganciarsi. «Ho provato a prenderlo per i gomiti ma niente, non si riusciva. Alla fine l’ho afferrato per i polsi e nel tentativo di tirarlo su gli ho rotto quello sinistro. Ho sentito un lamento, lieve. Non aveva più forze, povera creatura. Gli ho detto: dopo tutta la sofferenza che hai patito ci mancavo proprio io a farti ancora più male. Dopo vari tentativi andati a vuoto, l’ultimo che ho fatto è stato prenderlo per la canottierina, ma appena hanno cominciato a tirare ho sentito che cedeva... E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via. Ciao piccolino"».

Così Rayan ha unito mondi divisi. Fiamma Nirenstein il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La vita di un bambino vale tutto. D'un tratto i conflitti del mondo musulmano sono spariti nel niente.

Il mondo non è stato salvato. Intorno alla terra marrone e fangosa, nei palazzi adornati dai tappeti colorati di tutto il mondo arabo, fino nella mitica casa del re, e molto molto più in là, sui nostri teleschermi squadrati, crudeli di luce azzurrina, negli uffici dei governanti europei, americani e nelle redazioni affollate e formicolanti di notizie, per alcuni giorni ha contato solo la quintessenza della speranza, quella di salvare il bambino Rayan. Quella provincia abbandonata del Nord Marocco in breve sarà di nuovo un luogo periferico, sconosciuto ai più, i poveri genitori disperati e poveri resteranno soli: per alcuni giorni quel villaggio è stato la capitale del mondo. Per un bambino si deve fermare il mondo: troppo spesso invece non è successo, non succede. I bambini che muoiono di fame in Africa e di guerra in Siria, i piccoli che salgono in braccio ai genitori su una barca e vengono ripescati o inghiottiti fra i flutti, quelli che vengono usati come kamikaze o scudi umani dai terroristi, quelli che sono stati oggetto di genocidio per mano di mostri civilizzati, come i bambini ebrei nella Shoah hanno trovato per cinque inutili giorni il loro riscatto nel martirio di Rayan. La vita di un bambino vale tutto. D'un tratto i conflitti del mondo musulmano sono spariti nel niente, una amorosa solidarietà fatta di preghiere comuni ad Allah fra Paesi spesso antagonisti si è fatta largo. L'ardua, impossibile comunanza fra musulmani, ebrei, cristiani, realizzata nelle piccole mani, sempre più deboli, del bambino. Il Bambino. Al Arabyia dava continue notizie al mondo su quanti centimetri, quanti minuti, quanto miracolo ci si potesse aspettare da Ali El Jajaoui, il mago dei pozzi del deserto arrivato da Erfoud; proprio come fu per Angelo Licheri a Vermicino, l'eroe, purtroppo inutile anche lui, di Alfredino. Anche Ali, come Angelo, per tutta la vita dovrà sentire il peso sull'anima di chi ha provato per un momento l'ebbrezza di salvare il mondo e poi invece è stato castigato dalla ferocia della sorte umana. Qui poi la folla è impazzita di gioia e ha lodato Dio quando il piccolo corpo è stato estratto dalla terra, senza sapere che era troppo tardi. Uno strappo che lascia muti. Intorno a Rayan si era compiuto il miracolo che è ovvio a ogni genitore quando guarda suo figlio, e che invece si frammenta, si sbriciola inaspettatamente nella miseria della realtà politica, sociale, religiosa: un bambino è una luce candida, perfetta, non ha religione, né nazionalità. Tanto più crudele, come accadde anche a Vermicino, è quindi su di lui l'accanirsi improvviso insieme alla disgrazia del definitivo meccanismo devastante del tempo: un secondo in più, due, tre, il mondo davanti al teleschermo, i fedeli nei loro luoghi di culto, i genitori nella devastazione dell'ansia, hanno contato i minuti della corsa contro il tempo che non è stata vinta. E poi il buio, la sconfitta collettiva: era il bambino di tutto il mondo, come lo fu Alfredino. Si è dovuto scoprire che la sublimazione, il desiderio, l'intuizione della perfezione, non bastano per salvare la persona. Non è mai bastato. Fiamma Nirenstein. Fiamma Nirenstein

Marocco, ultimo saluto a Rayan: addio al bimbo di 5 anni caduto nel pozzo di Ighrane. Ilaria Minucci il 07/02/2022 su Notizie.it.

Centinaia di persone in lutto hanno partecipato ai funerali del piccolo Rayan, il bimbo di cinque anni morto dopo essere caduto in un pozzo in Marocco. 

Centinaia di persone in lutto hanno partecipato ai funerali del piccolo Rayan, il bimbo di cinque anni morto dopo essere caduto in un pozzo in Marocco.

Marocco, ultimo saluto a Rayan: addio al bimbo di 5 anni caduto nel pozzo di Ighrane

Nella giornata di lunedì 7 febbraio, si sono tenuti i funerali del piccolo Rayan, il bambino di soli cinque anni che è morto dopo essere precipitato in un pozzo profondo 32 metri, situato nel villaggio di Ighrane, in Marocco.

Il piccolo era caduto nel pozzo lo scorso martedì 1° febbraio e il Paese ha seguito con il fiato sospeso le oltre cento ore di diretta video che mostravano il lavoro svolto dai soccorritori.

Dopo quattro giorni di interminabili tentativi, lavorando prima con scavatrici e poi a mano per tentare di trarre in salvo il bambino, Rayan è stato infine estratto dal pozzo ancora vivo nella giornata di sabato 5 febbraio ma è deceduto all’ospedale militare di Rabat poco dopo il suo arrivo a causa delle ferite riportate a seguito della caduta.

In occasione dei funerali, centinaia di persone in lutto si sono recate al cimitero di Ighrane, situato a sei chilometri dal luogo della tragedia, nelle vicinanze di Chefchaouen, nel Marocco settentrionale, e hanno atteso che i rituali funebri musulmani avessero inizio.

In merito ai funerali del bambino, un abitante del villaggio Ighrane ha dichiarato: “Ho più di 50 anni e non ho mai visto così tante persone ad un funerale.

Rayan è il figlio di tutti noi”.

In considerazione del grande afflusso ai funerali del piccolo, sono state allestite due grandi tende dinanzi all’abitazione della famiglia di Rayan, consentendo alle persone di potersi fermare e porgere le proprie condoglianze.

Sull’accaduto, un altro abitante del villaggio ha affermato: “La morte di Rayan ha rinnovato la fiducia nell’umanità poiché persone di lingue diverse e provenienti da Paesi diversi esprimono solidarietà”.

Tra i volontari che hanno lavorato insieme a i soccorsi per dare una mano e trarre in salvo il bimbo, invece, domina la tristezza. Il volontario Ali Sahraoui, infatti, ha ammesso ai giornalisti presenti alla cerimonia funebre: “Sono tanto triste. Non abbiamo risparmiato alcuno sforzo per raggiungere il ragazzo vivo. Abbiamo scavato 24 ore su 24 in cinque giorni ciò che avrebbe potuto richiedere settimane”.

I giocatori di calcio egiziani e senegalesi, infine, hanno osservato un minuto di silenzio nella giornata di domenica 6 febbraio, prima del calcio d’inizio della finale del torneo della Coppa d’Africa.

·        Quei razzisti come i libici.

Gheddafi e il «patto del diavolo» con l’Ira: il dittatore inviò 12,6 milioni di dollari. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera l'1 gennaio 2022. Il regime finanziò i terroristi con l’equivalente di 45 milioni attuali. I primi contatti sono stati favoriti dall’Urss nel 1973, un canale privilegiato che ha portato ad una prima spedizione nel marzo di quell’anno con la nave Claudia. 

L’aiuto di Gheddafi all’Ira è storia, una collaborazione ampia con invio di materiale bellico e denaro. Ora però si hanno dati più precisi: Tripoli, nei primi anni ‘80, ha versato 12,6 milioni di dollari, l’equivalente di 45 milioni attuali. Documenti riservati emersi dagli archivi irlandesi forniscono informazioni interessanti sul patto del diavolo. I primi contatti tra il regime e i terroristi sono stati favoriti dall’Urss nel 1973, un canale privilegiato che ha portato ad una prima spedizione nel marzo di quell’anno con la nave Claudia. 

E il rapporto si è consolidato con un flusso continuo che ha creato il grande arsenale della fazione. I libici hanno spedito: 1.450 Kalashnikov, 180 pistole, 66 mitragliatrici, 36 lanciagranate tipo Rpg, 10 missili terra-aria (tipo Strela), 10 lanciafiamme, 765 bombe a mano, 5.800 chilogrammi di esplosivo al plastico, 1.080 detonatori e oltre un milione di proiettili. A questi «pezzi» ne vanno aggiunti altri, come mine anti-carro, fucili di precisione, sistemi per creare ordigni. 

Il Paese nord africano non era l’unico fornitore in quanto i militanti hanno spesso acquistato il necessario su fronti diversi, dagli Usa all’Europa dell’Est. Per trasferire gli equipaggiamenti sono stati impiegati, oltre la Claudia, altri cargo. La Casamara nell’agosto e ottobre 1985, la Kula nel luglio 1986, la Villa nell’ottobre dell’anno dopo. La filiera si è poi interrotta nell’87 quando la Francia ha intercettato il mercantile Eksund, anche questo con la stiva piena di armamenti. 

I dettagli, coincidenti con le valutazioni dell’intelligence, sono però di fonte libica. Un gesto distensivo legato a nuove condizioni diplomatiche. Gheddafi, per uscire dall’isolamento internazionale provocato dalle indagini per la strage di Lockerbie (dicembre 1988, jet Pan Am), ha avviato un dialogo con la Gran Bretagna e ha passato file importanti nel corso di due incontri riservati nel 1992. Il primo a Ginevra, il secondo al Cairo. 

Il crocifisso, i vestiti, la bomba: così la morte giunse dal cielo. Mariangela Garofano il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il 21 dicembre 1988 il volo Pan Am 103 esplose in volo sopra la cittadina di Lockerbie, Scozia, provocando il decesso delle 270 persone a bordo.  

È il 21 dicembre 1988 quando il volo Pan Am 103 diretto da Londra a New York decolla dall’aeroporto di Heathrow con un leggero ritardo, a causa del traffico natalizio. Ma solo mezz’ora più tardi il Boeing 747-121 esploderà in volo sulla città di Lockerbie, in Scozia, uccidendo tutte le 259 persone a bordo e 11 persone che si trovavano a terra. Solo nel 1991 le indagini porteranno alla cattura dei responsabili, due terroristi libici che misero a bordo l’ordigno esplosivo, causando il più grave disastro aereo accaduto in Gran Bretagna.

L’antefatto e l’esplosione

Il Boeing “Clipper Maid of the Seas" della compagnia Pan American stava effettuando la seconda tratta da Londra a New York, quando esplose durante la fase di crociera. Il giorno precedente al disastro, il velivolo aveva effettuato un volo di routine da Francoforte a Londra, dove rimase parcheggiato per i controlli prima della partenza successiva. L’aereo sarebbe dovuto restare sotto osservazione, a causa di un allarme bomba. Sedici giorni prima della partenza, un uomo dall’accento arabo chiamò l’ambasciata americana a Helsinki per avvisare che entro due settimane un volo della Pan Am da Francoforte a New York sarebbe esploso a causa di una bomba. 

Pur avendo preso seriamente la soffiata anonima, l’allarme durò solo due giorni e, terminato il check-in, il "Clipper Maid of the Seas" decollò alle 18.25 con 243 passeggeri e 16 membri dell’equipaggio a bordo. Alle 19.01 il comandante James MacQuarrie contattò i controllori di volo di Prestwick, in Scozia, per chiedere il permesso di dirigersi sull’Oceano Atlantico, con direzione New York. Ma quella fu l’ultima comunicazione radio del volo 103, perché alle 19.02 l’aereo sparì dai tracciati e neanche un minuto più tardi una forte esplosione che causò una scossa sismica, fu avvertita nei pressi di Lockerbie. A provocare la scossa fu il volo 103, che con a bordo 91.000 chilogrammi di carburante a bordo, si schiantò al suolo, disintegrando diverse abitazioni nel raggio di 60 metri.

Le ricerche e gli indizi

Membri dell’esercito britannico e una squadra dell'Air Accident Investigation Branch scozzese arrivarono sul posto poche ore dopo il disastro, trovandosi davanti agli occhi uno spettacolo apocalittico. L’area colpita dai rottami del velivolo si estendeva per 2000 metri quadrati ed era un inferno di fuoco e rottami. Gli inquirenti stabilirono che a causare l’esplosione dell’aereo fu un attentato terroristico. A bordo del Boeing venne trovato un mangianastri contenente un ordigno esplosivo. La bomba era stata inserita a sua volta all’interno del vano bagagli in una valigia Samsonite, che esplose sul lato sinistro della fusoliera provocando un buco di mezzo metro. L’aereo si spezzò in più parti: la cabina di pilotaggio, il terzo motore e il tetto della parte del velivolo in cui era contenuta la bomba si separarono dal resto dell’aereo, che precipitò in posizione quasi verticale. Nessun passeggero si salvò dalla violenza dell’esplosione.

Le vittime 

Durante le ricerche delle vittime, la Fatal Accident Inquiry scoprì che a molti dei passeggeri si strapparono i vestiti di dosso, a causa delle decompressione. Alcuni di loro restarono attaccati ai sedili, altri furono sbalzati fuori dal velivolo durante la rovinosa caduta. Purtroppo anche 11 persone che si trovavano a terra persero la vita, quando le ali dell’aereo colpirono le loro abitazioni alla velocità di 800 chilometri all'ora. La furia dell’esplosione provocò un cratere lungo 47 metri e polverizzò ben 27 case nei paraggi. Dall'autopsia inoltre si evinse che molte delle vittime arrivarono al suolo ancora vive, rivelando particolari drammatici al mondo sugli ultimi momenti di vita dei passeggeri. Venne infatti ritrovata una madre davanti al figlio, nell'atto di proteggerlo dall’urto, due amici che si tenevano per mano e altri passeggeri furono trovati con un crocifisso in mano.

Le indagini e le teorie

Quando gli investigatori specializzati in disastri aerei trovarono i resti del Boeing, scoprirono che le maschere d’ossigeno erano al loro posto e che non vi era nulla di insolito. L’esplosione era avvenuta così repentinamente che non c’era stato tempo per alcuna procedura di sicurezza. Il 25 dicembre dell’anno successivo venne ritrovato nella valigia, in mezzo ai vestiti, un altro congegno con un timer uguale a quello esploso sul volo della Pan Am, fabbricato da una società svizzera, che ammise di averlo consegnato ad alcuni esponenti del governo libico.

Il 13 novembre 1991 l’Fbi e la polizia dell’area amministrativa di Dumfries e Galloway, Scozia, accusarono dell’attentato del volo 103 l'ufficiale dell'intelligence libica Abd el-Basset Ali al-Megrahi e il responsabile della Libyan Airways presso l'Aeroporto Internazionale di Malta, Lamin Khalifah Fhimah. Gli inquirenti sospettarono di un attacco agli Stati Uniti, dato che 178 passeggeri erano di nazionalità statunitense e che i rapporti con la Libia erano tutt’altro che distesi. A questo punto gli accusati furono presi in custodia dal Gruppo di intervento speciale dei carabinieri per conto della Corte dell'Aia e vennero emesse sanzioni nei confronti della Libia.

 Megrahi e Fhimah 

Megrahi fu condannato all’ergastolo per l’uccisione di 270 persone, mentre Fhimah venne prosciolto. Megrahi fu rilasciato nel 2009 per problemi di salute. Siamo alla fine degli anni ’80, i rapporti degli Stati Uniti con il Medio Oriente sono tesi e la Guerra del Golfo è alle porte. Nel 1986 inoltre, gli Usa bombardarono la Libia con l’operazione El Dorado Canyon, in risposta a un attentato di quest’ultima alla discoteca La Belle di Berlino, in cui rimasero ferite 230 persone, tra le quali 50 militari statunitensi e trovarono la morte una donna turca e due soldati. Non sembrò strano quindi che la responsabilità dell’accaduto venisse imputata al governo libico.

Ma, come riporta RaiNews, un ex agente dell’intelligence iraniano sostenne che l’attentato fu opera del governo iraniano, come rivendicazione dell’abbattimento del volo Iran Air 655, avvenuto per errore il 3 luglio 1988 da parte di un'unità da guerra della Us Navy. Ma Teheran smentì la dichiarazione dell’agente e prese piede un’ulteriore teoria, che vede protagonisti dell’attacco al volo della compagnia americana dei terroristi siriani, teoria che non fu mai confermata.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna

·        Quei razzisti come i congolesi.

Un dente d’oro è tutto ciò che resta di Patrice Lumumba? Gianluca Mercuri su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.

L’uomo che ebbe il coraggio di dire, davanti al re del Belgio, che il suo popolo era stato schiacciato da «un’umiliante schiavitù», dai belgi venne torturato, ucciso e sciolto nell’acido. Ma qualcosa di lui rimase. E oggi trova sepoltura. 

«Un’umiliante schiavitù ci è stata imposta con la forza». 

Quando sentì pronunciare queste parole, Baldovino ebbe un sussulto. Il re dei belgi, quando era toccato parlare a lui, aveva usato tutt’altro tono. Aveva definito il suo antenato Leopoldo II «un civilizzatore». Leopoldo II non era un civilizzatore ma uno sterminatore. Tra il 1884 e il 1908 sfruttò il Congo in quanto suo dominio personale, beffardamente denominato «Stato libero del Congo». In quegli anni praticò il genocidio: milioni di congolesi schiavizzati nella produzione del caucciù, trattati brutalmente, mutilati quando non raggiungevano i quantitativi previsti. Morirono oltre dieci milioni di persone. 

Ma il Belgio non era pronto a fare i conti col suo piccolo Hitler incoronato, e forse non lo sarà mai del tutto. 

Chi era prontissimo a dire la verità, quel 30 giugno 1960, era il giovane primo ministro del Congo finalmente davvero libero, almeno in teoria. 

Patrice Lumumba aveva 34 anni ed era stato eletto una settimana prima, negli ultimi giorni dell’amministrazione coloniale, perché dopo il 1908 il Congo era diventato una colonia belga, non più una proprietà privata del re. 

Nel proclamare l’indipendenza aveva raccontato la vera storia di quella dominazione, interrotto più volte dagli applausi e salutato alla fine da una standing ovation. 

I belgi rimasero interdetti e con loro tutti gli europei, perché fino a quel giorno nessun africano aveva mai osato denunciare i crimini del colonialismo. Per questo Patrice Lumumba divenne un simbolo prima ancora di diventare uno statista, ruolo che non fece in tempo a perfezionare. Un simbolo della lotta per la libertà, della ribellione dei popoli schiavizzati dai bianchi, del terzomondismo. 

Di tutte quelle cose, insomma, che oggi sono demodé, che nel discorso pubblico davvero imperante non si possono nemmeno menzionare perché sennò si passa per nemici dell’Occidente. 

Lumumba fu il primo a criticare. Gli storici sono portati a pensare che quel giorno, con quelle parole, si autocondannò a morte. 

Gliela giurarono tutti: i belgi, gli americani sospettosi dei suoi flirt con i sovietici, gli inglesi che nella storia deprecata da Lumumba vedevano la loro storia. E, certamente, altri africani, altri congolesi, perché nel momento stesso in cui finiva il colonialismo altri mali cominciavano a flagellare l’Africa, la corruzione, la lotta per accaparrarsi le risorse, il tribalismo, la tendenza all’eccidio feroce, la conflittualità endemica, l’instabilità perenne: mali seguenti al colonialismo, vai a capire quanto conseguenti o quanto da attribuire solo a quei popoli finalmente «indipendenti», loro senza più l’alibi del dominio straniero e noi senza più colpe. 

Fatto sta che Lumumba rimase per quarant’anni il primo e unico leader democraticamente eletto del Congo; che il Belgio fomentò subito la secessione del Katanga (la regione più ricca di miniere); che Lumumba entrò subito in conflitto col presidente; che in dicembre, solo sei mesi dopo l’indipendenza, il generale golpista Mobutu lo fece arrestare; che in gennaio fu trasferito con due fedelissimi in Katanga; e che lì fu torturato e massacrato. 

A massacrare Lumumba furono i belgi. Se il contributo del governo di Bruxelles fu tacito, furono sicuramente mani belghe a compiere lo scempio. 

Quelle del commissario di polizia Gerard Soete e dei suoi sottoposti, come lui stesso ammise quattro decenni dopo dinanzi alla commissione parlamentare belga incaricata di fare luce sull’assassinio: «Avevamo fucilato Lumumba nel pomeriggio. Poi tornai nella notte con un altro soldato, perché le mani dei cadaveri spuntavano ancora dal terriccio. Prendemmo l’acido che si usa per le batterie delle automobili, dissotterrammo i corpi, li facemmo a pezzi con l’accetta; poi li sciogliemmo in un barile, facendo tutto di fretta, perché non ci vedesse nessuno». 

Altre testimonianze parlano di uno spostamento del cadavere in una zona a 200 chilometri dal luogo della fucilazione, prima della riesumazione e della liquidazione. Di certo, nelle intenzioni degli assassini, di Lumumba non dovevano restare tracce. Ma ne restarono. Due dita e due denti, che Soete conservò — disse lui stesso in un documentario del 1999 — come «una specie di trofeo di caccia». 

Aggiunse di essersene poi sbarazzato. Tranne di un pezzo. Un dente d’oro. Soete morì nel 2000 e del dente si riparlò solo nel 2016, quando la figlia ne ricordò l’esistenza durante un’intervista. C’è voluta una battaglia legale di quattro anni perché un tribunale ne disponesse la restituzione alla famiglia. 

Nel frattempo la figlia di Lumumba, Juliana, che quando il padre fu ucciso aveva 5 anni, era stata costretta a scrivere una lettera aperta al re Filippo perché intervenisse. 

Quel dente è l’unica cosa rimasta di Lumumba e il 20 giugno, in una cerimonia ufficiale al Palazzo di Egmont a Bruxelles, il Belgio l’ha restituto alla sua famiglia, rappresentata da Juliana. 

La reliquia è stata esposta all’interno di una bara, dal 27 al 30 giugno, al Palais du Peuple, sede del Parlamento congolese. 

Il 30 giugno, nel 62esimo anniversario della nascita della Repubblica Democratica del Congo, si terrà la cerimonia ufficiale di sepoltura di ciò che resta di Patrice Lumumba, in un mausoleo costruito per lui nella periferia orientale di Kinshasa. 

Il Belgio, l’Occidente, noi, abbiamo fatto i conti con tutto questo? È un processo faticoso. 

La commissione parlamentare, dopo due anni di lavoro, scrisse che all’epoca del massacro «le norme del pensiero internazionale politicamente corretto erano diverse», il che fa sobbalzare per un paio di motivi: per come ancora all’inizio di questo millennio si tendeva a ridimensionare la portata di un orrore come quello con una imbarazzata e imbarazzante contestualizzazione storica; ma anche per il riconoscimento di come il tanto deprecato «politicamente corretto» sia stato necessario, nella sua versione originaria, a ricostruire verità storiche rimosse o taciute per decenni o secoli. 

Quanto alla matrice dell’assassinio, la commissione concluse che alcuni membri del governo belga erano «moralmente responsabili delle circostanze che portarono alla morte di Lumumba». 

Un passo in più l’ha fatto all’inizio di giugno re Filippo, che è andato per la prima volta in Congo e ha definito il colonialismo belga «un regime caratterizzato da relazioni ineguali, di per sé ingiustificabili, segnate da paternalismo, discriminazione e razzismo», per poi aggiungere: «Qui, davanti al popolo congolese e a coloro che ancora oggi ne soffrono, desidero ribadire il mio più profondo rammarico per queste ferite del passato». 

Un po’ poco forse.

E forse si potrebbero dire molte cose sulle lentezze e sulle reticenze dei belgi, e sulla tentazione di catalogarle come difetti cronici. 

Ma sarebbe politicamente scorretto. 

Dente per dente. Come il Belgio sta affrontando il suo travagliato passato coloniale. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 25 Giugno 2022.

Un discorso di scuse del Re Filippo in Congo e due restituzioni simboliche sono gli ultimi episodi di un processo difficile nel Paese che deve confrontarsi con violazione dei diritti umani perpetrati nel passato, assumendosi le proprie responsabilità storiche in Africa

Il cofanetto blu passa di mano in modo solenne, in una cerimonia sobria alla presenza del Primo ministro, trasmessa in diretta televisiva. Chi la riceve non proferisce parola. Dentro c’è un dente, vecchio di 61 anni. Apparteneva a un giovane politico africano, assassinato in circostanze poco chiare ancora oggi, ma per tutto questo tempo è rimasto conservato in Europa. Il Belgio lo ha restituito alla Repubblica democratica del Congo: un gesto che rivela l’impegno delle autorità di Bruxelles a fare i conti con il passato coloniale del Paese.

Il dente era di Patrice Émery Lumumba, protagonista dell’indipendenza e primo Primo Ministro nella storia congolese. Non un mandato lungo, per la verità: Lumumba annunciò la nascita del nuovo Stato il 30 giugno del 1960, ma il 5 settembre dello stesso anno era già stato destituito e il 17 gennaio di quello successivo, assassinato.

Gli anni turbolenti a cavallo dell’indipendenza sono raccontati minuziosamente nel libro «Congo» del giornalista e scrittore David Van Reybrouck. Quel giovedì di giugno del 1960 Lumumba, appena proclamato Primo ministro dopo le prime elezioni della neonata repubblica, pronunciò un discorso storico, molto critico nei confronti della dominazione belga, durata in totale 75 anni. Nelle sue parole, il regime coloniale veniva associato alla schiavitù, al saccheggio, al lavoro estenuante e alla discriminazione razziale: il Congo era stato governato fino ad allora con una legge «crudele e disumana» per i suoi abitanti indigeni e «accomodante» per i bianchi colonizzatori.

Il discorso, intriso di rabbia e rivendicazioni e dal tono poco riconciliatorio, non piacque alle autorità belghe, che avevano appena concesso l’indipendenza al Paese. Lo stesso Re Baldovino, presente alla cerimonia, restò interdetto. Pochi mesi dopo, Lumumba sarebbe stato costretto a rimangiarsi quelle parole: in senso letterale, visto che fu obbligato a inghiottire una copia del testo.

I primi mesi di vita della Repubblica democratica del Congo furono infatti molto tormentati. Come ricostruisce Van Reybrouck, Lumumba procedette in maniera troppo rapida all’«africanizzazione» dell’esercito nazionale, trasformando la Force Publique dell’epoca coloniale nell’Armée Nationale Congolaise e sostituendo gli alti ufficiali belgi con impreparati militari del luogo. Una decisione forse motivata da intenzioni lodevoli, ma dagli effetti nefasti, visto che tolse al neonato governo un esercito efficiente con cui affermare il monopolio nell’uso della forza.

In pochi giorni, il Paese fu travolto da violenze e tumulti: alcuni fra i soldati che si erano ammutinati per ottenere promozioni e aumenti salariali attaccarono i civili europei ancora presenti in una città congolese, Thysville. La cosa provocò l’intervento dell’esercito belga, deciso a salvare i propri connazionali e l’esodo degli europei tolse al nuovo Stato anche il personale amministrativo, prima che si fosse pronti a sostituirlo.

La situazione degenerò presto, con due regioni meridionali, il Katanga e il Kasai del sud, che dichiararono a loro volta l’indipendenza dal Congo. Il caso congolese assunse subito una dimensione internazionale, con l’intervento delle Nazioni Unite, le pressioni del Belgio e degli Stati Uniti e la richiesta di aiuto inviata da Lumumba all’Urss: una mossa probabilmente dettata dall’inesperienza del governo, ma destinata ad aprire un fronte africano nella Guerra fredda.

Il 5 settembre Lumumba fu destituito dal Presidente della Repubblica, Joseph Kasavubu e il 14 si verificò il primo colpo di Stato, ad opera di Joseph-Désiré Mobutu, ex segretario e amico di Lumumba. Il primo risultato di questo caos governativo fu l’arresto ai domiciliari di Lumumba da parte del nuovo leader Mobutu, il cui governo provvisorio venne riconosciuto dalla Nazioni Unite. L’ex Primo ministro tentò la fuga dalla capitale Léopoldville verso l’Est del Paese, dove i suoi sostenitori avevano allestito un governo parallelo. Ma fu intercettato, incarcerato, torturato e infine trasferito nella regione del Katanga.

Qui trovò la morte, insieme a due fedelissimi, per mano delle autorità katanghesi, in un luogo sperduto nella foresta. I funzionari dei governi di Belgio e Stati Uniti, decisi a disfarsi di lui politicamente, non fecero nulla per impedire la deportazione di Lumumba, pur consci che ne avrebbe messo in pericolo la vita. Per questo i due Paesi sono considerati coinvolti, anche se non direttamente responsabili, nell’omicidio politico.

Storia di un dente

Racconta nel suo libro Van Reybrouck: «I tre prigionieri furono condotti, uno alla volta, sul bordo della fossa. A meno di quattro metri di distanza c’era il plotone d’esecuzione: quattro militari katanghesi con una mitragliatrice. Per tre volte una salva assordante risuonò nella notte. Lumumba fu l’ultimo a essere giustiziato. Alle 21.43 il corpo del Primo ministro eletto democraticamente del Congo rotolò nella fossa».

Viene ricordata anche la sottrazione del dente, operata dal vice-ispettore generale della polizia katanghese, un belga. «L’assassinio di Lumumba fu tenuto nascosto a lungo. Gerard Soete segò in pezzi i corpi e li sciolse in un barile di acido solforico. Dalla mascella superiore di Lumumba estrasse due denti rivestiti d’oro, dalla sua mano mozzò tre dita. Nella sua casa di Bruges conservò per anni una piccola scatola che mostrava talvolta ai visitatori: conteneva i denti e un proiettile».

Solo alla fine degli anni ‘80, Soete confessò il suo ruolo nell’occultamento dei cadaveri e la refurtiva trafugata. Ne scaturì un’inchiesta del parlamento belga, a cui dichiarò di aver gettato i resti di Lumumba nel Mare del Nord. 

Ma nel 2016, sedici anni dopo la sua morte, la polizia belga sequestrò a casa della figlia di Soete un dente, che ora è stato consegnato alla famiglia di Lumumba e alla Repubblica democratica del Congo. Con tanto di scuse dell’attuale Primo ministro di Bruxelles, Alexander De Croo, non solo per l’appropriazione indebita. «Abbiamo riconosciuto la responsabilità morale del governo belga. Vorrei qui, alla presenza della sua famiglia, presentare a mia volta le scuse per il modo in cui il governo belga all’epoca ha pesato sulla decisione di uccidere Patrice Émery Lumumba».

I conti con il passato

La restituzione segue di pochi giorni quella, altrettanto simbolica, di una grande collezione di maschere africane finora conservate nel museo di Tervuren, alle porte di Bruxelles. Un gesto realizzato nell’ambito di una visita diplomatica molto importante, effettuata dal Re dei belgi Filippo e dalla regina Mathilde, accompagnati da rappresentanti del governo, nelle città di Kinshasa, Lubumbashi e Bukavu.

In quell’occasione, dal sovrano belga sono arrivate parole di rammarico, se non proprio scuse esplicite, per gli anni della dominazione coloniale, causa di «ferite profonde». Filippo ha evocato una relazione tra belgi e congolesi «ineguale, ingiustificabile, segnata da paternalismo, discriminazione e razzismo». Toni simili erano stati utilizzati in una lettera ufficiale indirizzata al presidente congolese Félix Tshisekedi due anni fa, per celebrare i 60 anni dall’indipendenza del Paese.

Il trisnonno di Filippo, Leopoldo II di Sassonia-Coburgo-Gotha, si appropriò nel 1885 del territorio che corrisponde all’incirca all’attuale Congo. Per oltre due decenni, si trattò di un dominio «personale». Leopoldo era a capo dell’Associazione Internazionale del Congo, nata in teoria per garantire il libero commercio in quello che era appunto chiamato «Stato Libero del Congo», sulla carta escluso dai confini coloniali africani delle potenze europee. In pratica, il Congo fu amministrato da funzionari belgi come un possedimento personale di Leopoldo: monarca costituzionale in patria, dove doveva rendere conto al Parlamento, e sovrano assoluto in una terra grande 80 volte il Belgio, dove tra l’altro non mise mai piede.

Il Congo di Leopoldo fu segnato da uno sfruttamento intensivo delle materie prime: inizialmente l’avorio, che però non permise al sovrano di rientrare dagli investimenti iniziali, poi la gomma, molto richiesta alla fine diciannovesimo secolo con l’invenzione dello pneumatico. Proprio in questo periodo si verificarono grandi atrocità nei confronti della popolazione locale, costretta a raccogliere gomma incidendo le liane come forma di tassazione e punita severamente quando non in grado di consegnare alle autorità i quantitativi richiesti. 

Rapporti, testimonianze, fotografie e un’inchiesta internazionale dell’epoca hanno evidenziato trattamenti disumani, frustate, amputazioni di arti e omicidi punitivi perpetrati da belgi sadici o sorveglianti locali incaricati dai superiori di ottenere i pagamenti. Le stime, molto complicate per la mancanza di cifre affidabili, parlano di milioni di morti per la «politica della gomma»: non solo a causa delle punizioni inflitte, ma anche e soprattutto per le condizioni insalubri di lavoro e il generale impoverimento dei villaggi congolesi, condannati alla malnutrizione, alle epidemie e allo spopolamento.

La pressione internazionale suscitata da tali atrocità costrinse Leopoldo a rinunciare al suo territorio d’oltremare, che dal 1908 divenne ufficialmente una colonia del Belgio. Diminuirono gli episodi cruenti, ma la dominazione restò segnata da profondi squilibri, una politica commerciale di rapina (soprattutto mineraria) e la discriminazione perpetrata dagli europei nei confronti dei locali, che vivevano in una situazione di apartheid di fatto e potevano al massimo aspirare al rango di évolué (evoluti), ovvero neri che provavano a imitare i costumi dei bianchi ed essere ammessi ai loro consessi sociali. 

L’incidenza negativa negli anni della colonizzazione e in quelli successivi all’indipendenza, con le redini economiche del Paese in mano alle élite belghe e l’intromissione nella politica nazionale, sono state causa di tensione nella seconda parte del ‘900 tra Bruxelles e Kinshasa, come fu ribattezzata nel 1966 la capitale Léopoldville, in un tentativo di africanizzare la toponomastica del Paese che trasformò persino il Congo in Zaire. 

Oltre alla freddezza tra i due governi, si è registrato per anni il silenzio della monarchia belga sul passato coloniale, rotto solo di recente da Filippo. Secondo la stampa nazionale, nel 2020 il movimento Black Lives Matter ha favorito il riemergere del dibattito sulle responsabilità del Belgio in Congo, culminato con la lettera di rammarico inviata dal sovrano e l’istituzione di una nuova commissione parlamentare per indagare sui crimini dell’epoca coloniale, che presenterà le sue conclusioni alla fine dell’anno. Con queste iniziative, forse tardive, il Belgio cerca di riconciliarsi con il Congo sul passato comune, con la speranza esplicita di rafforzare i legami per il futuro. 

Mercenari, dittatori, sangue. Il Congo di Lumumba e Mobutu. Marco Valle su Inside Over l'8 maggio 2022.

Léopoldville, 30 giugno 1960. In quel giorno torrido, Re Baldovino scese — abbastanza malvolentieri — dal piccolo Belgio nel cuore dell’Africa per concedere l’indipendenza all’immensa colonia creata dal suo avo Leopoldo II. Una folla enorme lo accolse, acclamandolo. Vive le Roi, vive Lumumba. Un trionfo, apparentemente. Ma lungo il percorso, un manifestante si affiancò alla vettura e strappò la spada dal fianco del giovane sovrano. Un gesto fulmineo, provocatorio e terribilmente simbolico che colse di sorpresa il monarca e il suo seguito. Poco dopo, Baldovino dovette subire, al momento della cessione dei poteri, un’arringa confusa quanto violenta di Patrice Lumumba sulle colpe dell’amministrazione coloniale. Terrorizzati dall’eccitazione della folla, i dignitari belgi imposero al loro sovrano un’apparenza di tranquillità e rassegnazione. Poche ore dopo la duplice umiliazione, mentre il Re — furibondo e mortificato — s’involava per la sicura Bruxelles, le milizie lumumbiste iniziavano i saccheggi devastando i quartieri della città europea. Il Congo era indipendente. Un’epoca complessa e contradditoria si chiudeva e una terribile tragedia aveva inizio.

A luglio l’esercito si ammutinò, gli ufficiali belgi furono rimossi ed espulsi e l’intero paese piombò nel caos. L’11 luglio Moise Tshombe (il nome viene a volte italianizzato in Ciombe) dichiarò la secessione del Katanga, la più ricca regione del Congo. A settembre dello stesso anno, il presidente Kasavubu impose le dimissioni a Lumumba. L’uomo, ormai in piena deriva filo-comunista, in dicembre venne arrestato e, due mesi dopo, ucciso in circostanze oscure. La mattanza aveva inizio.

Le ingerenze internazionali sul Congo si fecero sempre più pesanti, causando l’intervento dell’Onu e dei principali attori della Guerra fredda, Stati Uniti e Urss, che trasformarono la crisi “interna” in un vero e proprio campo di battaglia globale. Per una volta sincero, John Kennedy nel marzo del 1962 chiariva, a chi ancora dubitava, i contorni della micidiale partita: “quello che faremo — o non riusciremo a fare — in Africa entro il prossimo anno o i prossimi due anni avrà grandi conseguenze per gli anni venire […]  Riteniamo che l’Africa sia forse il più grande campo di manovra della competizione su scala mondiale fra il blocco comunista e il mondo non-comunista”.

Un meccanismo infernale a cui anche l’Italia pagò un tributo crudele. L’11 novembre 1961 a Kindu due equipaggi dell’Aeronautica militare, assegnati al contingente delle Nazioni Unite, furono selvaggiamente trucidati da insorti locali. I corpi straziati dei tredici aviatori, malamente sepolti in una fossa comune, vennero ritrovati solo dopo quattro mesi. Dal 1962 le salme riposano nel Sacrario dei caduti di Kindu, all’ingresso dell’aeroporto militare di Pisa. A ricordo del sacrificio dei due equipaggi una stele si staglia all’ingresso dell’aeroporto intercontinentale “Leonardo Da Vinci” di Fiumicino.

In questa follia assassina s’inserì più tardi la prima incursione comunista nell’Africa della decolonizzazione. La spedizione, guidata da Ernesto “Che” Guevara, si rivelò un fallimento pieno: i comunisti congolesi si rivelarono “un esercito di parassiti” (Che dixit), un’armata stracciona che i mercenari europei— gli affreux, ruvidi reduci di ogni guerra — sbaragliarono con facilità, cancellando le velleità dell’argentino che preferì levare il disturbo e partire, dopo qualche tappa altrettanto deludente, verso la fatale Bolivia.

La secessione del Katanga si concluse solo nel 1963 e l’anno successivo Tshombe venne nominato primo ministro ma la guerra civile e gli odi tribali non si arrestarono. Nel 1965 gli Usa, assai preoccupati per la situazione ormai fuori controllo, appoggiarono il golpe del “generalissimo” Joseph-Désiré Mobutu Sese Seko. Un regime spietato. A scanso d’equivoci, il primo atto del nuovo presidente fu la plateale fucilazione dei principali oppositori nello stadio della capitale.

Alla trentennale dittatura cleptocratica di Mobutu seguirono l’opaco regime della famiglia Kabila e la presidenza di Félix Tshisekedi, eletto più o meno pacificamente nel 2019. Ma l’attuale uomo forte di Kinshasa ha poco da celebrare e nulla di cui sorridere. Dopo la fresca condanna ai lavori forzati di Vital Kamerhe, il suo braccio destro reo d’aver intascato 50 milioni di dollari destinati all’edilizia popolare, il governo naviga a vista, l’esercito resta inquieto e le proteste montano in tutto il Paese. Sullo sfondo una miseria dilagante: malgrado le sue enormi ricchezze minerarie (che ogni anno rendono allo Stato 15 miliardi di dollari), il Congo — questo formidabile “scandalo geologico” — rimane uno dei dieci paesi più poveri del pianeta.

Il 30 giugno 2020, nell’anniversario della fine della presenza belga in Congo, monsignor Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa non ha avuto peli sulla lingua e ha tracciato un amarissimo bilancio del fatidico sessantenario:

“Contrariamente ai paesi vicini, l’indipendenza è stata una indipendenza più sognata che ponderata: mentre altri riflettevano sul significato dell’indipendenza e preparavano le persone alle sue conseguenze; noi, in Congo, sognavamo l’indipendenza con emozione, passione, irrazionalità, tanto che quando il momento è giunto non sapevamo che cosa sarebbe accaduto. Le conseguenze si vedono ancora oggi. Per i congolesi dell’epoca sognare l’indipendenza significava sognare di occupare i posti dei bianchi, sedersi sugli scranni dei bianchi, godere dei vantaggi riservati ai bianchi e non agli indigeni dell’epoca. Per molti l’indipendenza era vista come la fine di tutti i lavori pesanti. Quando saremo indipendenti diventeremo tutti capi. Occuperemo i posti dei bianchi. Tutto ciò si è verificato: i congolesi hanno occupato i posti dei bianchi. Ma dato che non capivano niente di quello che facevano i bianchi, dato che non capivano l’esercizio dell’autorità o l’esercizio delle cariche, qualunque compito politico o incarico è stato visto come l’occasione di godere dei vantaggi dei bianchi. Si cercava di accedere al potere non per rendere servizio a coloro che si trovano sotto la propria responsabilità ma per avere i privilegi dei bianchi. Ma questi, mentre erano seduti sulle loro sedie, non se la spassavano e basta. Lavoravano anche. Comprendevano il senso del loro lavoro. Noi invece abbiamo messo da parte l’idea del servizio da rendere agli altri e abbiamo posto l’accento sul piacere”. Parole su cui riflettere.

Daesh e superpotenze: Il tesoro conteso della miniera d’Africa. Jihadisti e milizie puntano ai giacimenti della Repubblica democratica del Congo. Il Paese insanguinato dove è atteso Papa Francesco. Daniele Bellocchio su L'Espresso il 20 Giugno 2022.

La notte sta accomiatandosi con lentezza dalla Repubblica democratica del Congo. Le nere montagne del massiccio del Rwenzori appaiono ancora indefinite all’orizzonte; in cielo persiste il profilo di una luna trasparente ma, poco a poco, la delicata luce dell’albeggio svela la città di Beni, incastonata a 1.100 metri d’altezza tra il lago Alberto e il lago Kivu, tra il Congo e l’Uganda, tra anatemi esiziali e malvagità politiche. È qui, infatti, che nel 2019 si è consumata la prima epidemia di Ebola in una zona di conflitto e la più feroce per numero di bambini colpiti, e oggi è sempre questa città, nell’estrema parte settentrionale della provincia del Nord Kivu, ad essere l’epicentro della guerra tra la formazione jihadista degli Adf e l’esercito governativo.

Il bailamme che sveglia e infetta di una vitalità febbrile il centro cittadino nel giorno di mercato è stato sovvertito da un silenzio inquietante. Nel vicino villaggio di Mutuej, nella notte, è stato compiuto un massacro da parte di una colonna islamista e la notizia, che si diffonde in breve tempo attraverso le frequenze delle radio locali, paralizza e ammutolisce il capoluogo. Le strade vengono subito occupate dai soldati governativi che immediatamente allestiscono posti di blocco, dispongono i blindati, effettuano perquisizioni e controllano ossessivamente i documenti: tutti imbracciano i kalashnikov, alcuni celano la tensione dietro le scure lenti dei Ray-Ban, altri invece la ostentano, appoggiando l’occhio nella scanalatura del mirino e tenendo sotto tiro chiunque si aggiri per le vie di Beni.

Per avere piena comprensione di ciò che è avvenuto occorre dirigersi all’obitorio dove si rimane sconvolti di fronte al delirio di odio che è stato perpetrato. Dozzine di corpi sono ammassati nella piccola camera mortuaria. Alcuni hanno impressi gli inequivocabili segni dei colpi degli Ak-47, altri sono stati mutilati con i machete, altri ancora barbaramente decapitati. La commistione tra l’afrore di morte e l’umidità rende l’aria irrespirabile ma, nonostante ciò, centinaia di persone, stravolte e immobili, vegliano le salme. «Non ne possiamo più! Ogni giorno avvengono massacri e il mondo dov’è? Ci mandate sacchi di farina anche se viviamo nella terra più fertile del mondo, ma non fate niente per mettere fine a queste stragi. Noi vogliamo soltanto la pace»: mentre il parente di una vittima sfoga la sua collera demolendo le consunte e sfiduciate parole d’ordine della carità internazionale, intanto gli infermieri trasportano dei cadaveri appena rinvenuti nella boscaglia.

Due barellieri avanzano lentamente: il lenzuolo che copre la salma che stanno trasportando scivola e, in quel momento, si svela il corpo di una giovanissima donna, poco più che un’adolescente, con la testa riversa e la gola recisa. Un silenzio assoluto, livido di paura e impotenza, cala su una folla attonita e sconvolta che osserva quell’ennesimo assassinio senza ragione e senza risposte. Si odono solo i rintocchi ferali delle campane dell’ospedale che, oltre a informare la comunità della tragedia, forse suonano anche per esortare Dio a essere testimone delle azioni dell’uomo e, nel vederle, soffrire per la sua creazione.

Quanto avvenuto nel piccolo villaggio della Repubblica democratica del Congo è infatti solo l’ultimo di una serie di massacri perpetrati dagli Adf, Allied democratic forces, un gruppo jihadista, nato in Uganda e che nel 2017 ha giurato fedeltà a Daesh, ribattezzandosi Iscap: Provincia dello Stato islamico in Africa centrale. I ribelli che vantano tra le proprie fila anche foreign fighters e sono accusati di stupri, esecuzioni sommarie, rapimenti e reclutamento di bambini soldato, hanno ripetutamente dichiarato di voler instaurare il Califfato nei territori orientali del Paese ma, secondo analisti e giornalisti locali, il vero obiettivo, più che la guerra santa, sarebbe quello di mettere le mani sulle ricchezze del Congo.

La formazione terroristica è passata alla ribalta delle cronache perché è una delle prime formazioni di matrice islamica ad aver dato vita a una ribellione in Congo ma, soprattutto, perché è il gruppo più spietato presente nel Paese e che fa dell’uso sistematico della violenza contro i civili lo strumento per prendere controllo del territorio. Per provare a respingere l’avanzata delle bandiere nere l’esecutivo congolese ha chiesto supporto al governo dell’Uganda che, da dicembre, ha inviato le proprie truppe in appoggio a quelle di Kinshasa. Nelle province orientali dello Stato africano però non si annovera solo la ribellione degli jihadisti: sono oltre 130 le formazioni armate e, da aprile, nella parte meridionale del Nord Kivu, è divampata la guerriglia del gruppo filo-ruandese M23 che nel 2012 aveva dato origine all’ultimo conflitto su vasta scala in Congo. A causa del cristallizzarsi dei conflitti, si è aggravata anche la crisi umanitaria: i profughi interni, secondo l’ultimo report dell l’Unhcr, son più di 5 milioni e il World food programme ha dichiarato che sono 27 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo, 3,4 milioni i bambini malnutriti e, dall’inizio dell’anno ad oggi, nelle sole province orientali del Paese, le vittime delle violenze sono state più di 1.800, stando a quanto riporta il Kivu security tracker.

Tra le vittime della violenza che impera nell’est del Congo si annovera anche l’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso a soli 44 anni, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo, la mattina del 22 febbraio 2021 a Kibumba, piccolo villaggio distante 20 chilometri dal capoluogo Goma, mentre stava viaggiando su un fuoristrada del Programma alimentare mondiale all’interno di un convoglio composto da un’altra jeep del Pam. Secondo le ricostruzioni e le dichiarazioni rilasciate dalle autorità congolesi si sarebbe trattato di un tentato rapimento a scopo di riscatto finito tragicamente, ma molti interrogativi e ombre ancora avvolgono la vicenda. Da quel che si è potuto apprendere, infatti, stando alle indagini condotte dalla procura di Roma, il nome dell’ambasciatore non sarebbe stato inserito, dai funzionari del Pam, tra i membri del convoglio e la Monusco (la Missione dei Caschi Blu in Congo) non sarebbe stata preventivamente avvisata del viaggio che il diplomatico e il militare italiano stavano per intraprendere.

La figura del diplomatico sarà ricordata anche da Papa Francesco durante il suo viaggio nel Paese africano, programmato a luglio e posticipato per motivi di salute. Il Pontefice ha annunciato che celebrerà una messa a Chegera, proprio vicino al luogo in cui si è registrato il tragico agguato. Nella visita del Santo Padre in Repubblica democratica del Congo, a 42 anni esatti da quella compiuta da Giovanni Paolo II, missionari e vescovi locali hanno visto la ferma volontà da parte di Francesco di esporsi in prima persona perché la violenza cessi nella nazione. Il Papa negli anni ha infatti più volte invitato a pregare per il Congo denunciando anche lo sfruttamento del sottosuolo che alimenta gli endemici conflitti. 

L’ex Zaire, pur occupando il 175esimo posto su 189 Paesi nell’Indice dello sviluppo umano, è una delle nazioni maggiormente ricche di materie prime al mondo. Qui si trovano metà dei giacimenti planetari di cobalto; l’ex colonia belga è il quarto produttore di diamanti, possiede l’80 per cento delle riserve mondiali di coltan oltre a immensi giacimenti di rame, uranio, oro, cassiterite e petrolio. Ed è proprio questa ricchezza ad aver attirato gli appetiti di potenze internazionali e locali ed essere alla base delle guerre che dal’96 ad oggi hanno insanguinato la regione provocando oltre 6 milioni di morti.

«Nessuno vuole la pace lungo le frontiere congolesi. In questo modo tutti possono accaparrarsi una parte del Congo. Il popolo congolese muore di fame e stenti per arricchire il resto del mondo. Questo è il grande paradosso del mio Paese». Le parole di Justin Nkunzi, direttore della Commissione giustizia e pace dell’arcidiocesi di Bukavu, anticipano quanto si scopre all’indomani nelle miniere di cassiterite di Nyabibwe, nel Sud Kivu, dove, nella cornice di un paesaggio empireo, tra montagne e foreste smeraldine, si consuma un inferno terreno. Centinaia di persone lavorano nelle cave, senza sosta, per pochi dollari al giorno. Un gruppo di donne caracolla dal pendio di una montagna trasportando gerle che pesano più di 50 chili; dei bambini, badili alla mano, setacciano per ore, con i piedi nell’acqua, il materiale estratto dalle miniere separando i minerali dalle pietre grezze; uomini dai volti deformati dalla fatica, con le mani granitiche e gli occhi gonfi, scavano senza sosta e senza nemmeno la consolazione di un raggio di sole, nella speranza di trovare una nuova vena. I minatori, che spesso muoiono sepolti sotto i crolli improvvisi, vengono pagati in base a quanto estraggono e se al termine della giornata non trovano nulla, non percepiscono nessuna paga.

Da decenni il popolo congolese, sotto il maglio dell’indifferenza globale, balsamo per coscienze e interessi, è costretto quindi a calarsi continuamente nelle miniere e a precipitare negli abissi di uno sfruttamento talmente disumano e inintelligibile che non consente né di vivere e neppure di morire, ma solo di consumarsi poco a poco, nelle viscere di una terra che appartiene a tutti, eccetto che ai congolesi.

Luca Attanasio. L'AMBASCIATORE DIMENTICATO IL CONGO SANGUINA PARTE 1. Testo di Daniele Bellocchio su Inside Over il 21 febbraio 2022.

Il Lago Kivu è un oceano che sommerge l’orizzonte e nel quale i pensieri facilmente naufragano nei ricordi e nelle malinconie. Padre Franco Bordignon, saveriano in missione da oltre cinquant’anni a Bukavu, est del Congo, invita ad accompagnarlo lungo la riva del lago. Cammina con l’energia della gente di una volta e il bastone a cui si accompagna, lascito di un attacco di malaria cerebrale, lo utilizza più per indicare, quasi fossero compagni di vecchia data, i villaggi e le montagne che punteggiano il promontorio, piuttosto che come sostegno. Ha conosciuto il Congo quando ancora si chiamava Zaire, è stato testimone delle guerre di liberazione e di quelle dei minerali, ha visto le montagne tremare per le esplosioni dei mortai e per quelle della dinamite, ma cinque decadi di errori ed orrori dell’uomo guardati a distanza ravvicinata non hanno scalfito le oneste speranze e le vive convinzioni di padre Bordignon.

Le felci ornano il bordo del lago, lo sciabordio della pagaia di un pescatore interrompe il silenzio ed è il missionario veneto a invitare a osservare il paesaggio tutt’intorno: “Guardate quanta bellezza, quanta meraviglia!”; si aggiusta la montatura spessa degli occhiali con l’indice della mano destra e prosegue: “Chi dice che il Congo è una terra maledetta non ha capito niente. Il Congo è una terra troppo benedetta. Sono gli uomini ad aver trasformato questo Eden in un far west: per la ricchezza, per le miniere. Il Congo è una torta di cui tutti vogliono un pezzo. Ma c’è anche gente che invece crede nel Congo, in questa terra, nello sviluppo e nella pace di questo Paese. Luca Attanasio era un uomo così”.

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Kabamba – vista del lago. Nelle regioni orientali del congo persiste uno stato di conflitto ed insicurezza. La guerra nel est del paese, per il saccheggio del sottosuolo, ha visto un proliferare dei gruppi armati. All’oggi sembra che solo nelle province orientali se ne contino 128, tra cui spicca il gruppo di matrice islamista ADF.  La popolazione paga il prezzo più alto di questo stato di insicurezza. 

È trascorso un anno dal tragico attacco durante il quale hanno perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo e padre Bordignon, amico del diplomatico italiano, oggi, in riva alle acque del lago Kivu, si abbandona ai ricordi, inciampando spesso, durante il racconto, nel tempo presente; forse una resistenza personale al definitivo dell’imperfetto: di certo una maniera autentica di serbare vivo un ricordo e di conferire all’impersonalità di un’intervista i connotati di una lettera a un amico del passato, che fa in modo che il passato non passi mai del tutto.

“Luca ti contagia, ti contagiava. Attanasio non era un ambasciatore come gli altri. Nel suo modo di presentarsi, di vestire, di accogliere. Era come se fosse un ‘fratello’ che viveva dall’altra parte del Paese, a 2mila chilometri di distanza, e che era presente nonostante si trovasse lontano. Continuamente ci mandava messaggi, ci telefonava, chiedeva come andava, quali fossero i problemi: voleva sapere cosa si poteva fare in loco. Pensate, in cinquant’anni di servizio qui a Bukavu, Attanasio è stato il secondo ambasciatore che ho incontrato e che è venuto più di una volta qui, nella nostra missione”. 

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Dai bambini giocano su un mortaio abbandonato dalla guerra con gli M23 a Kibumba. Nelle regioni orientali del congo persiste uno stato di conflitto ed insicurezza. La guerra nel est del paese, per il saccheggio del sottosuolo, ha visto un proliferare dei gruppi armati. All’oggi sembra che solo nelle province orientali se ne contino 128, tra cui spicca il gruppo di matrice islamista ADF. La popolazione paga il prezzo più alto di questo stato di insicurezza. 

Padre Bordignon è un fiume in piena di aneddoti e la memoria corre subito alla sera del 20 febbraio, quando il diplomatico italiano ha cenato insieme ai saveriani. “Quella sera lui arrivava da Goma. Aveva fatto quasi otto ore di viaggio in macchina e, appena arrivato a Bukavu, si era fermato da noi insieme a una delegazione del Pam (Programma alimentare mondiale). Mi ricordo che durante il viaggio aveva visitato una cooperativa e questo è un aspetto rilevante per capire chi era Luca. Diceva che il suo ruolo, la sua figura di ambasciatore, era in funzione della gente; aveva una visione della professione del diplomatico estremamente umana e impegnata nel sociale, che è davvero un che di unico, straordinario. Infatti il pomeriggio e la sera di sabato, quando siamo rimasti insieme, ci siamo confrontati su progetti da realizzare nelle periferie di Bukavu, Uvira e Goma e poi tanto si è parlato del Congo, della storia di questo Paese, delle problematiche che lo attanagliano, perché Luca era curioso e interessato a conoscere questa terra, in tutti i suoi aspetti”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti. 

La storia prosegue: padre Bordignon ricorda i saluti prima della partenza per Goma, gli abbracci e le mani strette insieme alle promesse di ritrovarsi per dar forma e concretezza ai progetti, alle idee, ai sogni. E poi la mattina del 22 febbraio. “Quel giorno non me lo scorderò mai. Era mattina e un funzionario del Pam di Bukavu corse nella nostra sede, sconvolto, dicendoci che l’ambasciatore era stato ferito. Pochi minuti dopo un altro dipendente si precipitò a dirci che forse era rimasto vittima di un agguato. Non avevamo notizie certe, non riuscivamo a capire con esattezza in quei momenti cosa fosse successo. Solo quando è ritornato il funzionario del Pam qui in sede abbiamo avuto comprensione dell’accaduto: Luca era stato ucciso. Noi eravamo increduli. Insieme ad alcuni confratelli sono partito per Goma per capire cosa fosse successo; ci hanno raccontato com’è andata, il viaggio, il posto di blocco, la sparatoria, l’intervento dei ranger…ma ancor oggi permangono dei punti di domanda su quanto accaduto un anno fa a Kibumba, sulla strada RN2 che collega Goma con Rutshhuru”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti. 

Sono passati 365 giorni da quando i notiziari di tutto il mondo hanno annunciato la morte del diplomatico italiano e, stando alle ricostruzioni fatte sino ad oggi, la mattina del 22 febbraio 2021, Luca Attanasio stava viaggiando su un fuoristrada del Pam insieme all’autista Mustapha Milambo e al carabiniere Vittorio Iacovacci, all’interno di un convoglio composto da un’altra jeep del Programma alimentare mondiale, da Goma verso Rutshuru, poiché doveva andare a visitare un centro dell’agenzia delle Nazioni Unite, per valutare la possibilità di replicarlo in un’altra regione del Paese. A Kibumba, piccolo villaggio distante 20 chilometri dal capoluogo del Nord Kivu, il convoglio è stato arrestato da un gruppo di assalitori che hanno aperto il fuoco contro la macchina su cui viaggiava il diplomatico. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti.

I colpi sparati dagli Ak-47 dei banditi hanno ucciso l’autista; poi Attanasio e il militare Iacovacci sono stati prelevati dal veicolo e condotti nella boscaglia che circonda la strada. Gli spari hanno attirato una pattuglia di rangers del Parco del Virunga che sono accorsi sul posto ed è incominciato così uno scontro a fuoco tra i guardiaparco e i rapitori e sembrerebbe che sia stato in quel frangente, mentre i due gruppi armati si fronteggiavano e il drappello di sequestratori sparava all’impazzata per corprirsi la fuga, che l’ambasciatore e il carabiniere italiano siano stati colpiti e feriti a morte. Il 18 gennaio 2022 le autorità del Nord Kivu hanno annunciato, durante una conferenza stampa, di aver arrestato i presunti assassini e che si sarebbe trattato di un tentato rapimento a scopo di riscatto.

Una versione che però non ha convinto il padre dell’ambasciatore Salvatore Attanasio che, ai media italiani, ha dichiarato: “Il governo del Congo ha l’obiettivo di chiudere in tutta fretta questo caso che, per il Paese, è piuttosto spinoso e quindi cerca di liquidare in fretta e in modo semplicistico la vicenda. Di certo, anche se queste persone fossero davvero gli assassini di Luca, ciò non basterebbe per fare chiarezza, in quanto bisogna chiarire le responsabilità del Pam, che a nostro avviso sono molto gravi, per non aver previsto la necessaria protezione alla missione”. Tra gli interrogativi più annosi che permangono intorno all’accaduto ci sarebbero alcune omissioni da parte dei dirigenti del Programma alimentare mondiale. Da quel che si è potuto apprendere, infatti, stando alle indagini condotte dalla procura di Roma, il nome dell’ambasciatore non sarebbe stato inserito, dai funzionari del Pam, tra i membri del convoglio e la Monusco (la Missione dei caschi blu in Congo) non sarebbe stata previamente avvisata del viaggio che il diplomatico e il militare italiano stavano per intraprendere. Ciò avrebbe portato i dipendenti del Pam, Mansour Rwagaza e Rocco Leone, ad essere iscritti nel registro degli indagati.

In una nota diramata dalla procura capitolina si legge a proposito: “Avrebbero attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell’Onu, indicando nella richiesta di autorizzazione alla missione, al posto dei nominativi dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci, quelli di due dipendenti Pam così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima”. Prosegue poi:  “Avrebbero omesso, in violazione dei protocolli Onu, di informare cinque giorni prima del viaggio, la missione di pace Monusco che è preposta a fornire indicazioni specifiche in materia di sicurezza informando gli organizzatori della missione dei rischi connessi e fornendo indicazioni sulle cautele da adottare (come una scorta armata e veicoli corazzati)”. E: “Omesso, per negligenza, imprudenza e imperizia, secondo la ricostruzione effettuata allo stato, che risulta in linea con gli esiti dell’inchiesta interna all’Onu, ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti alla missione Pam che percorreva la strada Rn2 sulla quale, negli ultimi anni, vi erano stati almeno una ventina di conflitti a fuoco tra gruppi criminali ed esercito regolare”. 

Kibumba è un piccolo villaggio vicino a Goma. Due militari oggi pattugliano stanchi la strada nazionale; sanno che in quel posto, proprio sotto le antenne delle telecomunicazioni è avvenuto il tragico agguato la mattina del 22 febbraio di un anno fa. Altro però non sono in grado dire. Osservano l’arteria nazionale, guardano transitare alcuni moto-taxi carichi di sacchi di riso e poi indicano, con beneficio d’approsimazione, un punto di quella pista che, come un nastro d’ocra, fende il verde circostante: ecco il luogo dove sarebbe stata tesa l’imboscata. Nulla oggi è rimasto a testimonianza dell’accaduto, la vegetazione ha investito i bordi delle strade, il parco del Virunga e le montagne del Ruanda incorniciano il paesaggio, gli unici rumori sono quelli del vento e l’eco di un convoglio dei caschi blu che sopraggiunge in lontananza.

“Luca non accettava gli stereotipi e i luoghi comuni: credeva in questo Paese, con la convinzione che il Congo e la sua gente possano esseri liberi”. È con queste parole che padre Bordignon si commiata dal ricordo dell’ambasciatore Attanasio. Nuvole nere e minacciose sopraggiungono da est e prima che un acquazzone tropicale investa il lago, il missionario italiano si lascia andare a un ultimo ricordo, dal sapore di una confessione intima e preziosa: ”Chi era Luca lo si capiva non solo da quello che diceva, ma anche dal suo modo di interagire con la popolazione; da quella sua capacità di abbracciare tutti e di sorridere sempre. Era un uomo di pace e lo si comprendeva appena lo si incontrava, perché affrontava ogni situazione con il sorriso: un sorriso indimenticabile che ti infettava”.

Mentre ne parla, padre Bordignon accenna anche lui un sorriso, probabilmente lasciatogli in dono dal suo amico Luca Attanasio, insieme all’innocente capacità di continuare a stupirsi e sapere tener viva la speranza che le cose possano essere migliori un giorno. Testo di Daniele Bellocchio

IL CONGO SANGUINA PARTE 2. Articolo di Daniele Bellocchio su Inside Over il 13 giugno 2022.  

Sono le prime ore del mattino a Beni, città del Nord Kivu nell’estremo est della Repubblica Democratica Del Congo, e una nebbia spessa si solleva lentamente lasciando scorgere una bellezza empirea tutt’intorno. La città congolese, a 1100 metri di altitudine, tra il Lago Alberto e il Lago Kivu, tra il Congo e l’Uganda, è assediata da foreste di un verde talmente intenso che sfuma in un nero impenetrabile. Le montagne che la circondano, quelle dell’altipiano del Rwenzori e del parco del Virunga, viste in lontananza, hanno lo stesso colore blu del cielo, e la terra, rossa e feconda, è uno sconfinato forziere di minerali.

Beni è un paradosso storico e geopolitico con cui è impossibile venire a patti perché queste ambe, tripudio di una ricchezza trascendente, sono anche il proscenio di ingiustizie vertiginose e di diseguaglianze incommensurabili. Questa città, nel 2019, è stata l’epicentro della prima epidemia di Ebola in un contesto di guerra e la più feroce per numero di bambini colpiti. Oggi è il cuore del conflitto tra la formazione jihadista degli ADF e gli eserciti del Congo e dell’Uganda, che hanno unito le proprie forze per cercare di eradicare la ribellione degli islamisti.

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Nelle regioni orientali del congo persiste uno stato di conflitto ed insicurezza. La guerra nel est del paese, per il saccheggio del sottosuolo, ha visto un proliferare dei gruppi armati. All’oggi sembra che solo nelle province orientali se ne contino 128, tra cui spicca il gruppo di matrice islamista ADF. La popolazione paga il prezzo più alto di questo stato di insicurezza 

É ancora l’alba, ma un’isteria collettiva si è impossessata della città. Dalle radio e dai telefoni si diffonde la notizia di un massacro avvenuto a poche decine di chilometri di distanza dal capoluogo. Le prime testimonianze raccontano di una strage consumatasi nella notte nel piccolo villaggio di Mutuej e riferiscono di sette persone uccise. A Beni tutti parlano dell’accaduto e un panico dettato dallo sgomento e dalla collera infetta in poco tempo l’intero centro abitato. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Il cordoglio della madre di Ushindi Mumbere, di 23 anni. Il 24 gennaio durante delle manifestazioni di protesta contro l “etat de siege”, a Beni, è stato ucciso dalla polizia Ushindi Mumbere, di 23 anni. Il ragazzo, membro del movimento giovanile apartitico e non-violento  L.U.C.H.A. che rivendica maggiori diritti per la popolazione e la revoca dello “etat de siege”. Sabato 29 gennaio durante i funerali gran parte delle popolazione di Beni si è riversata per le strade per un ultimo saluto al ragazzo e per protestare contro il potere dei militari della MONUSCO

La guerra, nonostante la proclamazione dell’ état de siege, prosegue senza un’apparente soluzione di continuità: le bande armate infestano il territorio, le milizie jihadiste fanno del terrore lo strumento con cui imporsi ed estendere il proprio controllo. Nessuno si sente protetto e la frustrazione corale è manifesta nelle centinaia di dimostranti che si riversano nelle strade, dopo aver appreso dell’ultima tragedia avvenuta, invocando pace e diritti.

Usciti dal caotico centro abitato e procedendo in direzione di Oicha, si è però improvvisamente investiti da un silenzio antitetico e spettrale. La strada che conduce verso il luogo dove si è consumata la strage corre nel mezzo di una muraglia verde e per chilometri non si vedono altro che cespugli, piante, frasche e arbusti impenetrabili. La boscaglia è interrotta soltanto da piccoli villaggi ormai disabitati che punteggiano l’arteria nazionale e dove sono ancora visibili gli attrezzi della vita di ogni giorno, prima di una fuga precipitosa e senza ripensamenti: una tanica dell’acqua, una zappa, i resti di un fuoco; tracce di cos’era la quotidianità qualche istante prima che tutto finisse.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Un’operazione militare congiunta tra l’esercito regolare congolese FARDC e quello ugandese UPDF nelle zone di confine tre i due paesi lungo il Semliki, uno dei principali fiumi del Africa centrale, sull’altopiano del Ruwenzori, roccaforte del gruppo jihadista del ADF 

Ai limiti della foresta appare Oicha e, appena fatto l’ingresso in città, ci si imbatte subito in decine di persone che, in ossequioso silenzio, si dirigono verso l’ospedale. E’ sufficiente seguirli per raggiungere l’obitorio, avere così comprensione della strage che si è consumata e rimanere sconvolti e muti alla visione di un delirio d’odio senza ragione e senza risposte. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Il 24 gennaio durante delle manifestazioni di protesta contro l “etat de siege”, a Beni

Nella piccola camera mortuaria una dozzina di corpi sono ammassati gli uni sopra gli altri. L’odore di disinfettante non riesce a sovrastare quello di morte che penetra nelle narici e stringe la bocca dello stomaco. Alcune vittime presentano i segni dei colpi dei kalashnikov, altre quelli delle mutilazioni inferte con i machete e con i coltelli, altre ancora sono state decapitate. Il personale dell’ospedale inizia a preparare le bare per procedere con le sepolture, intanto però il numero dei corpi trasportati nell’obitorio aumenta.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Nella notte tra il 18 e il 19 gennaio 2022 nel villaggio di Mutuei, nel territorio di Beni è stato compiuto un attacco contro la popolazione civile da parte delle milizie ADF. Il bilancio finale del efferata incursione è stata di 17 morti, alcuni dei quali decapitati e trucidati con armi bianche e machete. Questi morti si vanno a sommare ai 638 registrati da Kivu Security Tracker avvenuti nei soli ultimi 3 mesi 

Due infermieri sopraggiungono con una barella sulla quale è stato adagiato un corpo esanime appena rinvenuto nella foresta. Il lenzuolo che copre la vittima durante il trasporto scivola per terra e improvviso appare il volto sfigurato di una giovanissima donna, poco più che un’adolescente, a cui è stata tagliata la gola. ”Basta! Basta! Basta! Non ne possiamo più di tutto questo. Ogni giorno ci sono massacri, ogni giorno. E dov’è il mondo? Dov’è l’Europa? Dove sono gli Stati Uniti? Cosa fanno le Nazioni Unite? Ci mandate i sacchi di farina come aiuti umanitari anche se viviamo nella terra più fertile del mondo, ma non fate niente per mettere fine a tutto questo. Perchè? Ditemelo: perchè? Noi abbiamo bisogno soltanto della pace”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Il 24 gennaio durante delle manifestazioni di protesta contro l “etat de siege”, a Beni 

É un urlo che nasce dall’esasperazione e che si scaglia contro ogni artificio retorico della compassione quello lanciato da un parente seduto fuori dalla camera mortuaria. E gli fanno seguito centinaia di grida di disperazione intervallate da lacrime e singhiozzi. La popolazione maledice gli ADF, la milizia islamista colpevole del massacro, attacca l’esercito congolese e le forze dell’ordine, accusate di non esser in grado di porre fine alle violenze, e non lesina critiche sulla missione della MONUSCO, da 22 anni dispiegata nel Paese africano e sotto attacco per non aver stabilizzato e pacificato la regione come si prefiggeva di fare a inizio mandato. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Il 24 gennaio durante delle manifestazioni di protesta contro l “etat de siege”, a Beni

I responsabili della strage compiuta nel villaggio di Mutuej sono gli ADF, Allied Democratic Forces, un gruppo armato jihadista, nato in Uganda, radicalizzatosi nel tempo, che dal 2013 ad oggi ha intensificato gli attacchi e le azioni nel Nord Kivu e nel 2017 ha giurato fedeltà a Daesh ribattezzandosi ISCAP, Provincia dello Stato Islamico in Africa Centrale. La guerra degli jihadisti ha aggravato una situazione già estremamente precaria e solo negli ultimi tre mesi, nelle province orientali del Paese, le vittime delle violenze sono state più di 1500, stando a quanto riporta il Kivu Security Tracker.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. La preghiera del venerdì nella moschea centrale Jamia, di Beni. Dopo l’insurrezione islamista degli ADF la comunità islamica è vittima di discriminazione da parte del resto della popolazione. L’imam della moschea, Idriss Kabuyaya, apparentemente a seguito dei suoi sermoni d’impegno per un dialogo di pace inter-religioso, è stato ucciso da alcuni membri dell’organizzazione islamista radicale ADF agli inizi di gennaio 2022 

Gli ADF, che vantano tra le proprie fila anche foreign fighters e sono accusati di aver commesso stupri, esecuzioni sommarie, rapimenti nonché di arruolare bambini, hanno ripetutamente dichiarato di voler instaurare il Califfato nei territori orientali. Analisti e opinione pubblica ritengono però che il vero obiettivo dei salafiti sia quello di accaparrarsi una porzione della ricchezza del Congo. A causa dell’incancrenirsi del conflitto, si è aggravata anche la crisi umanitaria nel Paese. I profughi nella nazione, secondo l’ultimo report dell l’UNHCR, son più di 5 milioni e il World Food Programme ha dichiarato, nel suo ultimo report sulla Repubblica Democratica del Congo, che sono 22 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo .

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Francine Kavira di anni 15, è stata rapita e tenuta prigioniera insieme alla madre per 4 giorni agli ADF.  Il padre è stato ucciso davanti ai suoi occhi. La notte del quarto giorno la ragazza è riuscita a fuggire insieme alla madre che però e rimasta gravemente ferita durante la fuga 

“Lo stato c’è. Lo stato congolese con il suo esercito e le sue forze di polizia sta conducendo un’offensiva nell’est del Paese per sconfiggere i terroristi dell’ADF. Grazie all’état de siege stiamo ripristinando l’ordine e la sicurezza”. Il colonnello Charles Omeonga, dopo essersi recato nella città di Lume, piccolo villaggio ai piedi del massiccio del Rwenzori, accerchiato da montagne e gruppi armati, descrive con toni entusiastici l’operato delle truppe regolari ed elogia l’introduzione della legge marziale da parte dell’esecutivo di Thsisekedi.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Un soldato cammina per il villaggio deserto di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti 

Da maggio infatti, nelle province dell’Ituri e del Nord Kivu, è in vigore l’état de siege, un provvedimento attraverso il quale le autorità civili sono state sostituite da quelle militari e queste, grazie al regime speciale introdotto, godono di poteri speciali: possono effettuare perquisizioni nelle case, vietare le riunioni pubbliche e applicare leggi che limitano la circolazione dei cittadini. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori

Questa misura straordinaria, introdotta per porre fine all’insurrezione jihadista e all’insicurezza che regna nell’est, è in vigore da oltre otto mesi e, a dispetto di quanto dichiarato dall’ufficiale dell’esercito regolare, il provvedimento è osteggiato dalla popolazione, secondo la quale la militarizzazione del territorio non ha portato a nessun cambiamento, ma solo inasprito la violenza. “Stando a quanto dicono studiosi e ricercatori il numero delle vittime civili è aumentato dall’applicazione della legge marziale , rispetto al periodo precedente la sua introduzione”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Nella prima periferia della città di Oicha è sorto il campo profughi spontaneo di Luvangira che da riparo a famiglie Bantu e anche a 103 famiglie di pigmei, uno dei gruppi primigeni delle foreste congolesi e che oggi è perseguitato e minacciato dalla violenza degli islamisti. Oggi secondo l UHNCR in Congo si contano 5.6milioni sfollati interni, di cui la quasi totalità nelle provincie del est. Il capo villaggio Mutengu Kimbunda di etnia TWA (o più comunemente chiamato pigmea) 

A parlare è Fabrice Mulali, membro di Lucha, un’ organizzazione pacifista e apolitica che si batte per il rispetto dei diritti civili in Congo. E l’attivista prosegue dicendo: ”Nelle regioni del Nord Kivu e dell’Ituri, a causa della militarizzazione del territorio, si è riscontrato un aumento della violenza. Violenza come soluzione alla violenza: questo, in sintesi, è il frutto del provvedimento e, sebbene non abbia portato ai risultati sperati, continua a perdurare. Il prezzo più alto di questa politica, però continua a pagarlo il popolo congolese, vittima di abusi, repressione e violenze di ogni sorta”. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Nella prima periferia della città di Oicha è sorto un campo profughi spontaneo di Muloku, di 1090 persone.  Oggi secondo l UHNCR in Congo si contano 5.6milioni sfollati interni, di cui la quasi totalità nelle provincie del est.  Il capo villaggio Issa Baguma Akoloza, racconta le efferatezze compiute dagli ADF che hanno costretto la sua comunità ad abbandonare i loro territori d’origine

Le parole dell’attivista sembrano prevedere quanto avviene all’indomani quando, nella città di Beni, durante una manifestazione di protesta contro il potere dei militari, la polizia apre il fuoco sui dimostranti e uccide Ushindi Mumbere. Un giovane di soli 23 anni.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Il 24 gennaio durante delle manifestazioni di protesta contro l “etat de siege”, a Beni 

Durante i funerali del ragazzo, migliaia di persone si riversano nelle strade. Tutti i gruppi della società civile partecipano alle esequie e un corteo di centinaia di persone sfila, accompagnando il feretro per la città. Il ritratto del giovane studente assassinato è riproposto sulle magliette indossate dai militanti congolesi e sugli striscioni che aprono il corteo. Sventolano le bandiere del Congo insieme a quelle dell’organizzazioni civili e, con il proseguire della manifestazione, il dolore aumenta e si mescola con la rabbia. ”Polizia come ADF”, recita uno striscione. ”Saremo sempre troppi perché possiate ucciderci tutti!”, grida la folla. Il servizio d’ordine impedisce che la situazione degeneri al passaggio di un blindato della MONUSCO.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. I territori settentrionali del nord Kivu, sono oggi l’epicentro delle guerra tra la milizia islamista ADF e l’esercito regolare del Congo ( FARDC )  in operazioni congiunte al esercito Ugandese (UPDF). 

Nei villaggi di Erengeti, Oicha e Luna, considerati la prima linea di questo conflitto asimmetrico, vige oggi la legge marziale e tutti i poteri sono stati trasferiti alle autorità militari 

Dopo il lancio di qualche sasso in direzione del mezzo delle Nazioni Unite il corteo riparte e tutti i partecipanti, interrogati su quali siano le loro richieste e le loro rivendicazioni, rispondono all’unisono: ”pace e libertà!”. Libertà di vivere, di sognare, di potere concepire, almeno in potenza, un’idea di futuro. E c’è una scritta, dipinta sul muro dell’obitorio cittadino, capace, nella sua immediatezza, di riassumere tutte le richieste della cittadinanza: ”Stop massacre!”, Basta massacri. Indipendentemente da chi vengano compiuti e in nome di quale ideologia, fede o eresia.

Fine alla violenza: una richiesta capace di rivelare, nella sua essenzialità, tutta l’esasperazione di un popolo che, da oltre 60 anni, è orfano di pace e che non ha mai potuto godere del privilegio di poter immaginare l’incedere della vita senza l’incombere improvviso in essa della tragedia. Articolo di Daniele Bellocchio

LA FURIA JIHADISTA. IL CONGO SANGUINA PARTE 3. Daniele Bellocchio su Inside Over il 18 giugno 2022.  

Georgine Kaindo (nome di fantasia usato per ragioni di sicurezza) ha 29 anni, è seduta in una casa protetta nella città di Oicha e guarda la telecamera con una dignità granitica che destabilizza. ”Io sono una sopravvissuta al gruppo jihadista degli ADF. Sono stata rapita, torturata e violentata. Sono una sopravvissuta”. Georgine ha un volto invecchiato in faccia alla morte e la follia di cui è stata vittima è un precipizio di sofferenze  da cui è impossibile risalire. Georgine non cerca di sublimare la disperazione con l’oblio di sé e di quanto le è accaduto. Tutt’altro; tiene viva la memoria dell’orrore che l’ha travolta e lo urla in faccia al mondo: perchè sappia,  si indigni, si mortifichi e  perda il sonno con la presa di coscienza delle sue distrazioni, della sua nepente sordità, dei suoi ammanchi di coerenza.

”Era il 1 ottobre del 2016 e mi trovavo vicino alla città di Kasindi con la mia famiglia. Eravamo lì per lavorare, per raccogliere il nostro nutrimento, perchè quella era la nostra vita. All’improvviso ci siamo trovati accerchiati da i ribelli dell’ADF. Ci hanno puntato le armi contro, ci hanno legati e ci hanno condotti nella foresta. Arrivati nel loro accampamento, ci hanno fatti mettere tutti in fila e per prima cosa mi hanno chiesto chi fosse mio marito. Io l’ho indicato e loro gli hanno sparato. Lo hanno ucciso davanti ai miei occhi! Senza un motivo, senza un perchè. L’hanno ucciso come se neanche fosse un essere umano”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Un’operazione militare congiunta tra l’esercito regolare congolese FARDC e quello ugandese UPDF nelle zone di confine tre i due paesi lungo il Semliki, uno dei principali fiumi del Africa centrale, sull’altopiano del Ruwenzori, roccaforte del gruppo jihadista del ADF. 

Georgine prende fiato e, senza concedersi neppure il conforto di un pianto, prosegue nel racconto: ”Dopo aver ucciso mio marito, ci hanno separati: gli uomini da un lato, le donne da un altro e ci hanno spinti in buche profondissime che usavano come prigioni. Io, con mia madre, ero in una fossa molto stretta e da cui era impossibile risalire. Lì dentro eravamo in sei persone. Non ci davano da bere e neppure da mangiare; il loro scopo era che morissimo in quei pozzi. Siamo rimaste lì dentro per cinque giorni. Io e mia madre mangiavamo la terra che grattavamo dalle pareti di quelle buche, per cercare di sopravviere e non morire di fame, ma altre donne non ce l’hanno fatto e sono morte lì, in quelle fosse dove eravamo imprigionate, le une addosso alle altre: strette e immobili”. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti.

Secondi, minuti, ore: ogni singola unità di misura adottata convenzionalmente per calcolare l’incedere dei momenti non ha più alcun valore. Tutto è sospeso, pietrificato; anche il tempo sembra essersi arrestato al cospetto di un racconto che è un incubo vivido e reale. Come in ogni sogno angoscioso, muoversi, divincolarsi e liberarsi è impossibile e proibito. Si è prigionieri dei lamenti, delle suppliche, dei gemiti e delle grida. E’ doverso ascoltare, ma fa male e il racconto, poco a poco, deposita, nell’intimo di chi l’ascolta, una spessa morca di sfiducia e di biasimo, di impotenza e di vergogna.

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Akilimali Saleh Chomachoma, guarda fuori dalla finestra della parrocchia di Nyabibwe.

Nella miniera artigianale di Nyabibwe, in sud Kivu, centinaia di persone, uomini donne, e anche bambini, lavorano in condizione estreme per estrarre la cassiterite, uno dei componenti fondamentali per la realizzazione degli smartphone ed impiegato anche nella cosmesi. 

L’intera economia del villaggio di Nyabibwe ruota intorno alla miniera. 

” Il sesto giorno ci hanno fatti uscire dalle buche. All’inizio avevamo gli occhi coperti, poi ci hanno tolto le bende e abbiamo visto che ci avevano portati all’interno di un cerchio e che davanti a noi era stato posizionato un tronco di un albero: il ceppo che usano per decapitare la gente. Abbiamo capito in quell’istante quale sarebbe stata la nostra sorte. Piangevamo, urlavamo, supplicavamo dicendo che non avevamo nessuna colpa: potete immaginare cosa significhi comprendere che nel breve tempo verrete uccisi? Decapitati! Ecco quello era ciò che stavamo vivendo. Ma mai avremmo immaginato che la nostra morte potesse diventare un gioco per loro. Non solo stavano uccidendo degli innocenti, ma si stavano anche divertendo nel farlo. Avevano scritto infatti i nostri nomi su dei fogli, poi li pescavano da un cestino e la persona il cui nome veniva estratto era trascinata sino al tronco d’albero e poi fatta inginocchiare. Un ribelle recitava dei versi del Corano e accusava il condannato di essere un infedele che poi veniva decapitato da un altro uomo. Ho visto prima mio padre e poi mia madre morire così. Davanti ai miei occhi”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti. 

Gli ADF sono oggi il gruppo armato più temuto tra quelli presenti nell’est della Repubblica Democratica del Congo. La formazione sostiene di voler instaurare il Califfato nelle regioni orientali del Paese e, per prendere controllo del territorio, attacca in modo indiscriminato la popolazione. Il gruppo islamista però ha anche un altro obiettivo: il sottosuolo dell’ex colonia belga. La bandiera nera che guida il jihad dei guerriglieri congolesi celerebbe in realtà l’ennesima formazione armata il cui catechismo ideologico si trova ben scritto nella tavola periodica degli elementi. Rapire, mutilare, decapitare: per l’oro, il coltan, la cassiterite; facendo di un odio, elevato a imperativo di condotta ,e di una crudeltà, che ha travolto qualsiasi argine di umanità, gli strumenti attraverso i quali raggiungere l’obiettivo. Questi sarebbero gli jihadisti secondo analisti locali e internazionali, chi li ha incontrati però, pù semplicemente, li chiama ”diavoli’. Ed è facile comprendere il motivo poiché, se l’ inferno esiste, di certo non si discosta molto da ciò che alberga nel vissuto di Georgine. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. I territori settentrionali del nord Kivu, sono oggi l’epicentro delle guerra tra la milizia islamista ADF e l’esercito regolare del Congo ( FARDC )  in operazioni congiunte al esercito Ugandese (UPDF).  Nei villaggi di Erengeti, Oicha e Luna, considerati la prima linea di questo conflitto asimmetrico, vige oggi la legge marziale e tutti i poteri sono stati trasferiti alle autorità militari. 

”Quando è stato il mio turno e sono stata trascinata in mezzo al cerchio, un uomo si è fatto avanti dicendo che non dovevo venire uccisa perchè lui mi voleva per sé. Gli altri allora hanno iniziato a discorrere e alla fine hanno sentenziato che dovevo dimostrare di meritarmi la vita. A quel punto mi hanno spogliata, mi hanno legato le mani dietro la schiena, mi hanno buttato dell’acqua addosso e hanno iniziato a frustarmi. Mi frustavano, mi prendevano a bastonate, a calci e poi ancora frustate; non so quante ne ho ricevute: continuavano a colpirmi, non si fermavano mai. Solo grazie a Dio sono viva. Pensavo di morire mentre venivo frustata e picchiata. Poi, quando hanno smesso di colpirmi, l’uomo che aveva deciso di prendermi con sé, dal momento che ero sopravvissuta, mi ha portato nella sua abitazione e lì ho lavorato come una schiava per un anno e due mesi facendo tutto quello che mi ordinava. E ogni volta che lo voleva, mi violentava!”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti. 

Ha un nome quest’uomo. Georgine lo conosce, ma non lo pronuncia mai. Nemmeno una volta lo proferisce e in questa omissione cosciente e considerata si legge tutto il desiderio di vendetta che cresce simbiotico con la memoria. Sono i nomi infatti a fare esistere le persone, a renderle vive nel presente e immortali nei ricordi: privare di un nome significa negare l’esistenza di chi c’è e di chi  c’è stato e così, non proferendone mai il nome, Georgine confina il suo aguzzino nel limbo del niente. E’ un ribelle senza volto e identità, é la banalità del male, l’esecutore in armi che ha colmato il proprio nulla con l’odio, che è molto peggio del nulla.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Olive Mwambiabo di anni 15, rimasta orfana di entrambi i genitori uccisi in maniera efferata dagli ADF. Oggi vive come sfollata interna a Oicha e non può frequentare la scuola per mancanza di mezzi e racconta: “ io continuo a pregare Dio perchè io possa studiare, perchè per me il significato della parola pace è potere andare a scuola”. 

”Un giorno c’è stata un’offensiva delle FARDC (Forze Armate Repubblica Democratica del Congo) vicino al villaggio in cui ero tenuta prigioniera. Ho approfittato dei momenti di confusione per fuggire. Ero andata al fiume a lavare i vestiti dei combattenti e in quel momento mi sono detta che se non fossi scappata, non avrei più avuto altre possibilità. Avevo paura, tantissima paura, perchè se gli ADF mi avessero vista fuggire mi avrebbero uccisa. Però qualcosa da dentro mi ha spinta a scappare. Sono corsa e non mi sono più voltata, neppure quando dei soldati dell’ADF mi hanno vista e hanno sparato contro di me. Alla fine ho incontrato una pattuglia dei militari congolesi, mi sono lanciata tra le braccia di un soldato che mi ha portata in caserma e alcuni giorni dopo sono tornata al mio villaggio”.

“E oggi sono la donna che è sopravvissuta a tutto questo e continuo a vivere e lavorare perché, nonostante tutto ciò, ho cinque figli cui devo pensare e provvedere da sola”. Testo di Daniele Bellocchio

Le miniere maledette. DISCESA NELL'INFERNO. IL CONGO SANGUINA PARTE 4. Daniele Bellocchio su Inside Over il 19 giugno 2022.

Il sentiero che dall’abitato di Nyabybwe conduce alla vicina miniera di cassiterite dapprima si snoda sulla cresta di una collina, poi si tuffa in una foresta fitta e impenetrabile e  poi quando la vegetazione si dirada, di nuovo, il tratturo si inerpica e conduce sulla sommità di una montagna che si affaccia su un oceano verde che disorienta e spaventa. E’ un verde infinito quello che travolge e circonda i monti del Sud-Kivu e gli unici rumori che sopraggiungono sulla sommità del monte sono quelli della giungla circostante. Il cinguettio degli uccelli, le urla delle scimmie, il ticchettio di una leggera pioggia sulle foglie di banano. Tutto appare enorme, sublime, numinoso. Ma in realtà, in questa magnificenza della natura, si celano le ragioni della dannazione della Repubblica Democratica del Congo. E’ tra le vallate e sui pendii delle montagne infatti che si trovano le cave e le miniere da cui vengono estratti i minerali e sono i minerali la ragione dei conflitti e delle violenze che travolgono il Paese africano da decenni.

Dagli anni ’90 ad oggi tutte le guerre che hanno investito l’est del Paese hanno avuto due comuni denominatori: la ricchezza come fine e la violenza come mezzo. Così è stato durante la prima guerra del Congo, quella che ha visto l’AFDL di Kabila destituire Mobutu, lo stesso si è verificato nella seconda guerra del Congo, iniziata nel ’98 e mai formalmente finita e che vide l’Uganda e il Ruanda creare degli eserciti ombra per mettere mano sul forziere congolese. Sempre per il sottosuolo, nonostante i proclami di etnicità, è stata combattuta la guerra del 2012 tra i ribelli M23 e il governo di Kinshasa e anche oggi, il conflitto che vede gli jihadisti dell’ADF avanzare nel Nord Kivu, secondo osservatori ed analisti, vede, più che nella guerra santa, nella ricchezza del territorio congolese il suo combustibile.

Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu, Massisi, Rubaya. 16/09/2013 Il movimento ribelle armato dei Nyatura si è formato dalla secessione, avvenuta nel 2010, dal movimento ribelle CNDP, oggi chiamato M23. Formati per lo più da hutu congolesi, sono guidati dal Colonnello Marcel Habarugira. Oggi una parte di questi ribelli è stata reintegrata all’esercito regolare congolese FARDC. Privi di qualunque forma di stipendio sopravvivono spadroneggiando, con abusi di potere, soprusi sui civili, razzie notturne, e diurne, pretendendo una tassa del 10% su qualunque forma di attività nella città di Rubaya. Alcuni Nyatura pattugliano il territorio attorno alle Miniere. 

Occorre marciare per diverse ore, arrampicandosi tra le colline e oltrepassando foreste e boscaglie, prima che appaia in lontananza la miniera di cassiterite di Nyabybwe. Vista dall’alto la cava ha le proporzioni di un ciclopico formicaio: un alternarsi geometrico e ordinato di cuniculi e rivoli, venature e avvallamenti all’interno dei quali centinaia e centinaia di piccole figure si muovono e non si arrestano mai. Avvicinandosi al centro estrattivo, ecco che le sagome diventano sempre più nitide e sono centinaia gli uomini, le donne e i bambini piegati sotto al peso dei sacchi e dei badili che lavorano incessantemente e senza sosta. 

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Nei siti di estrazione mineraria, i minatori scavano buche che possono arrivare fino a 50 metri per estrarre i minerali. Il Congo è il paese più ricco al mondo di risorse minerarie. Lo sfruttamento del sottosuolo è la causa principale dei conflitti che da decenni coinvolgono lo stato africano. Nella miniera artigianale di Nyabibwe, in sud Kivu, centinaia di persone, uomini donne, e anche bambini, lavorano in condizione estreme per estrarre la cassiterite, uno dei componenti fondamentali per la realizzazione degli smartphone ed impiegato anche nella cosmesi.  L’intera economia del villaggio di Nyabibwe ruota intorno alla miniera.

È un brulicare continuo, ininterrotto, di persone che scavano, setacciano, riempiono sacchi di sassi e detriti e scavano di nuovo e poi strisciando ed entrano nel ventre della terra. Non si danno tregua. Hanno i volti ricoperti di terra, marciano scalzi su pietraie e nel fango, hanno mani di marmo e occhi rossi, irrorati di sangue e velati di polvere.

Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu, Massisi, Rubaya. 16/09/2013 Il Coltan, un metallo raro usato per i microchip di telefoni cellulari e computer, è una miscela di Columbite e tantalite. Il suo valore di mercato è così alto da aver suscitato l’interesse di multinazionali ed organizzazioni criminali: per destabilizzare la situazione politica ed appropriarsi dell’estrazione mineraria a prezzi contenuti, vengono finanziati gruppi armati in guerra tra di loro. Sotto la supervisione dei compratori in Rwanda, soldati e poliziotti controllano il territorio, sfruttando la popolazione locale e rivendendo le risorse naturali: i proventi servono ad acquistare altre armi che garantiscono un ulteriore potere. Un circolo vizioso difficile da debellare. Lavoratori separano i minerali dalla sabbia e dai sassi lavandoli a mano nel fiume. 

”In Africa , dove non ci sono risorse, non ci sono guerre. Le guerre in questo continente avvengono per le miniere. L’import export è molto semplice: escono minerali ed entrano soldi, pochi, ed armi, molte. E dove non c’è lo Stato è più facile mettere mano sulle ricchezze. Nessuno vuole la pace lungo le frontiere congolesi, né i Paesi vicini né altre potenze mondiali. In questo modo tutti possono accaparrarsi una parte del Congo.” Così parla padre Justin Nkunzi, direttore della Commissione giustizia e pace dell’arcidiocesi di Bukavu che aggiunge: ”Ma chi paga il prezzo più alto dello sfruttamento del Congo? I congolesi.

Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu, Massisi, Rubaya. 16/09/2013 Il Coltan, un metallo raro usato per i microchip di telefoni cellulari e computer, è una miscela di Columbite e tantalite. Il suo valore di mercato è così alto da aver suscitato l’interesse di multinazionali ed organizzazioni criminali: per destabilizzare la situazione politica ed appropriarsi dell’estrazione mineraria a prezzi contenuti, vengono finanziati gruppi armati in guerra tra di loro. Sotto la supervisione dei compratori in Rwanda, soldati e poliziotti controllano il territorio, sfruttando la popolazione locale e rivendendo le risorse naturali: i proventi servono ad acquistare altre armi che garantiscono un ulteriore potere. Un circolo vizioso difficile da debellare. Alcuni minatori escono da una un tunnel della miniera. Questi minatori scavano a volte buchi profondi oltre 50 metri per trovare i minerali. Una volta rimenpiti i sacchi, questi vengono trasportati ad un fiume ai piedi della collina dove sorge la miniera. 

Quando andrete a Nyabybwe vedrete gli uomini, le donne e i bambini che lavorano nelle miniere del Congo. Lavorano in condizioni atroci, per una paga di pochi dollari. A volte, persone che hanno un lavoro in città o anche gli studenti, quando gli giunge notizia che è stata scoperta una nuova vena d’oro, lasciano la loro vita per andare a unirsi ai minatori nella speranza di poter arricchirsi trovando dei minerali. Nessun congolese è diventato ricco in questo modo. Anzi, la società si impoverisce, le famiglie si disgregano e spesso questi minatori infettati dalla ”febbre dell’oro”, muoiono nel silenzio globale a causa dei crolli, delle frane o dei massacri che vengono compiuti per il controllo delle cave. Il popolo congolese muore di fame e di fatica per dare le sue ricchezze al resto del mondo. E’ un atroce paradosso”.

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Nei siti di estrazione mineraria, i minatori scavano buche che possono arrivare fino a 50 metri per estrarre i minerali. Il congo è il paese più ricco al mondo di risorse minerarie. Lo sfruttamento del sottosuolo è la causa principale dei conflitti che da decenni coinvolgono lo stato africano. Nella miniera artigianale di Nyabibwe, in sud Kivu, centinaia di persone, uomini donne, e anche bambini, lavorano in condizione estreme per estrarre la cassiterite, uno dei componenti fondamentali per la realizzazione degli smartphone ed impiegato anche nella cosmesi. L’intera economia del villaggio di Nyabibwe ruota intorno alla miniera. 

Quanto dice il prelato congolese preannuncia ciò che ci si para davanti nel momento in cui facciamo l’ingresso nella miniera. Alcune donne, scalze, caracollano da un pendio trasportando sulla schiena sacchi contenenti pietre e terriccio. Le gerle pesano più di cinquanta chili e le portatrici non si fermano nemmeno un’istante per una breve intervista: ”Ci pagano in base a quanta cassiterite viene estratta. Più lavoriamo più c’è possibilità di guadagnare”. Spiega lapidaria una donna mentre rovescia il contenuto del suo carico in una pozza d’acqua dove una dozzina di uomini, con badili e setacci, immediatamente, inizia a lavare il materiale per separare i minerali dalle pietre grezze. La miniera funziona come una catena di montaggio della sofferenza: c’è chi trasporta, chi lava i minerali ma il settore più feroce è quello dell’estrazione. 

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Alcune donne trasportano sulle spalle sacchi che arrivano a pesare anche 60kg per diversi km. Il congo è il paese più ricco al mondo di risorse minerarie. Lo sfruttamento del sottosuolo è la causa principale dei conflitti che da decenni coinvolgono lo stato africano. Nella miniera artigianale di Nyabibwe, in sud Kivu, centinaia di persone, uomini donne, e anche bambini, lavorano in condizione estreme per estrarre la cassiterite, uno dei componenti fondamentali per la realizzazione degli smartphone ed impiegato anche nella cosmesi.  L’intera economia del villaggio di Nyabibwe ruota intorno alla miniera.

Dai rivoli dove vengono lavate le pietre sino all’ingresso delle miniere occorre camminare ancora per un’ora. L’umidità incolla i vestiti alla pelle, i piedi affondano prima nel fango e poi scivolano sulle pietraie e intanto un gruppo i bambini, con ancora i badili in mano, su ordine del direttore della miniera, si nasconde nella boscaglia così che non si sappia dello sfruttamento minorile che si consuma sistematico nelle cave congolesi.

Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu, Massisi, Rubaya. 16/09/2013 Il Coltan è una miscela di Columbite e Tantalite, metallo raro usato per la realizzazione di cellulari e computer. Il suo valore di mercato è così alto da aver suscitato l’interesse di multinazionali ed organizzazioni criminali: per destabilizzare la situazione politica ed appropriarsi dell’estrazione mineraria a prezzi contenuti, vengono finanziati gruppi armati in guerra tra di loro. Sotto la supervisione dei compratori in Rwanda, soldati e poliziotti controllano il territorio, sfruttando la popolazione locale e rivendendo le risorse naturali: i proventi servono ad acquistare altre armi che garantiscono un ulteriore potere. Un circolo vizioso difficile da debellare. Alcuni minatori portano sacchi di cassiterite dalla miniera giù per la collina dove poi il minerale verrà lavato e pesato.  

Poi, improvvisa, appare una voragine. Alcuni uomini stanno spalando, immersi nel limo fino al ginocchio, per cercare di creare degli scalini e intanto, altri uomini, equipaggiati soltanto di una pila frontale, a torso nudo e senza scarpe si calano in un tunnel profondo 50 metri. Una scala a pioli fatta con delle travi conduce nel ventre della montagna. L’unica misura di sicurezza è una sottile corda logorata e legata a una tanica dell’acqua incastrata tra due bastoni. Una volta dentro la miniera, il buio totale non permette di scorgere neanche una sagoma. Le sole fonti di luce sono quelle dei minatori in profondità, e si scende lentamente aggrappati alla scala e alla corda e più si scende più si è travolti da una paura primigenia che non si pensava più di conoscere: la paura del buio. E’ tutto nero, di un nero assoluto, e giunti in fondo alla galleria, provando a voltarsi e guardare l’ingresso della miniera, ci si rende conto che si è così in profondità che non si scorge né l’ingresso e neppure il più flebile e sottile spiraglio di luce.

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Nei siti di estrazione mineraria, i minatori scavano buche che possono arrivare fino a 50 metri per estrarre i minerali. Il Congo è il paese più ricco al mondo di risorse minerarie. Lo sfruttamento del sottosuolo è la causa principale dei conflitti che da decenni coinvolgono lo stato africano. Nella miniera artigianale di Nyabibwe, in sud Kivu, centinaia di persone, uomini donne, e anche bambini, lavorano in condizione estreme per estrarre la cassiterite, uno dei componenti fondamentali per la realizzazione degli smartphone ed impiegato anche nella cosmesi. L’intera economia del villaggio di Nyabibwe ruota intorno alla miniera. 

C’è solo l’oscurità e  questa fa paura perché avvolge tutto come un mantello e ricopre, come una spessa coperta, l’ ingiustizia che si consuma nelle miniere africane rendendola invisibile al resto del mondo. Testo di Daniele Bellocchio

·        Quei razzisti come gli ugandesi.

Da lastampa.it il 20 febbraio 2022.

Il ministro degli Esteri ugandese Abubakhar Jeje Odongo è passato senza salutare davanti alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ed è andato a stringere la mano solo al capo del Consiglio dell'UE Charles Michel e al presidente francese Emmanuel Macron durante un ricevimento ufficiale a Bruxelles giovedì.

Dopo aver posato per le telecamere, Macron fa un cenno alludendo a von der Leyen e il ministro scambia solo un saluto verbale. L'incontro ricorda un incidente dell'aprile 2022 quando von der Leyen era stata relegata dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan su un divano distante durante un incontro mentre al suo collega Michel era stato fatto sedere accanto a lui su una sedia.

Il ministro arriva e "umilia" la Von der Leyen: il video fa il giro del mondo. Federico Garau il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Arrivato a Bruxelles per il vertice Ue-Africa, il ministro degli Esteri ugandese ha completamente ignorato la presidente della Commissione europea, stringendo la mano solo a Michel e a Macron.

Ha fatto molto scalpore quanto accaduto giovedì al vertice Ue-Africa tenuto a Bruxelles, dove il ministro degli Esteri ugandese Abubakhar Jeje Odongo ha completamente ignorato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (guarda il video), andando a direttamente a salutare il presidente del Consiglio dell'Ue Charles Michel ed il presidente francese Emmanuel Macron.

Un episodio che ha riportato subito alla memoria un altro fatto simile, accaduto l'aprile dello scorso anno in Turchia, quando la von der Leyen era stata ospite del presidente Recep Tayyip Erdogan. In quell'occasione, la presidente della Commissione europea era stata l'unica a non avere una sedia sulla quale sedersi ed aveva dovuto accontentarsi di un sofà.

Giovedì scorso, invece, è stato il ministro degli Esteri ugandese Abubakhar Jeje Odongo a fare uno sgarbo alla von der Leyen, passandole di fronte senza neppure degnarla di un cenno. Il politico è infatti subito andato a stringere la mano a Charles Michel e a Emmanuel Macron. È stato proprio il presidente francese, dopo un momento di imbarazzo generale, ad indicare con una certa fermezza la presidente della Commissione europea al ministro ugandese.

Un tentativo quasi del tutto vano. Sollecitato da Macron, Abubakhar Jeje Odongo si è limitato a rivolgere alla von der Leyen una semplice parola di saluto. Per tutta la durata dell'episodio, la presidente della Commissione europea ha mantenuto sul volto un sorriso di circostanza. Ha fatto discutere la mancata reazione del presidente del Consiglio Ue Charles Michel. In seguito all'episodio, qualcuno ha immediatamente parlato di maschilismo, ma in realtà le ragioni del gesto di Abubakhar Jeje Odongo non sono note.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

·        Quei razzisti come i nigeriani.

Nigeria, ritrovate dopo 8 anni due studentesse rapite da Boko Haram. Tgcom24 il 22 giugno 2022.

Sono state liberate dall'esercito nigeriano che le ha mostrate alla stampa con i figli. Così le due giovani hanno raccontato la prigionia

L'esercito nigeriano ha annunciato di aver trovato due ex studentesse del gruppo delle cosiddette "ragazze di Chibok", rapite dai jihadisti di Boko Haram otto anni fa, nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2014 dalla scuola di Chibok, da qui il nome, nello Stato di Borno, nord-est del Paese. 

Le due giovani erano tra le 276 studentesse di età compresa tra 12 e 17 anni rapite dal loro collegio. Con i loro figli in braccio sono state presentate alla stampa. Si tratta di Hauwa Joseph e  Mary Dauda

Il ritrovamento - Il generale Christopher Musa, comandante militare della 26ma brigata dell'esercito nigeriano, ha dichiarato che le giovani sono state trovate il 12 e 14 giugno in luoghi differenti. La prima, Hauwa Joseph , era con altri civili vicino a Bama, dove le truppe avevano attaccato un campo di Boko Haram. L'altra, Mary Dauda, era nei pressi del villaggio di Ngoshe, al confine con il Camerun, assieme al suo bambino. 

Le testimonianze - Alcune delle ragazze scappate dalla prigionia hanno raccontato di essere state portate nella 

foresta di Sambisa, dove si trovava la base di Boko Haram, e divise tra cristiane e musulmane: le musulmane erano state costrette a sposare dei miliziani; lo stesso accadde alle cristiane che accettarono di convertirsi all'Islam. Le studentesse cristiane che rifiutarono la conversione furono ridotte in schiavitù, costrette a dormire all'aperto e compiere lavori di fatica, oltre a cucinare per i miliziani, curare quelli feriti e seppellire quelli morti. I loro guardiani le separarono in piccoli gruppi e continuarono a spostarle nelle varie basi di Boko Haram per tenerle nascoste. 

"Siamo state abbandonate, nessuno si è preso cura di noi. Non ci hanno neanche dato da mangiare a sufficienza", ha riferito Hauwa Joseph. Mary Dauda, racconta di essere stata costretta a sposarsi con diversi combattenti di Boko Haram prima di riuscire a fuggire. "Ti fanno morire di fame - ha detto. - Ti picchiano se ti rifiuti di pregare".

La sorte delle altre ragazze rapite - A oggi, delle 276 studentesse rapite, oltre 57 sono riuscite a scappare quasi subito dopo il sequestro, altre 80 sono state liberate grazie all'intervento dell'esercito nigeriano o in cambio di alcuni comandanti prigionieri di Boko Haram. Tante altre ragazze però risultano ancora disperse da otto anni. 

Secondo l'Unicef, dal 2009, inizio dell'insurrezione dei terroristi nel nord della Nigeria, 27mila persone hanno perso la vita. Sono state chiuse oltre 1.400 scuole nel nord-est del Paese e più di 2.200 insegnanti sono stati uccisi. Almeno 2,8 milioni bambini non hanno accesso all’istruzione di base. Tanti sono dovuti fuggire dalle loro case e ora si trovano in campi per sfollati o profughi nei Paesi limitrofi. 

·        Quei razzisti come i ruandesi.

Hotel Rwanda. La vita impunita dell’uomo che comprò le armi per il genocidio ruandese. Pietro Del Re su L'Inkiesta il 26 Settembre 2022.

Come spiega Pietro Del Re ne “I dimenticati”, Félicien Kabuga non sarà probabilmente mai condannato per aver acquistato 500.000 machete con cui migliaia di contadini hutu sterminarono 800mila tutsi e per incitato all’odio etnico dalla sua Radio des Mille Collines 

L’esagerata copertura mediatica del processo contro l’uomo che nel 2005, assieme a Aretha Franklin e Muhammad Ali, fu insignito dal presidente George W. Bush del massimo riconoscimento americano, la Medal of Freedom, è la prova di come il genocidio del 1994 sia ancora una ferita aperta nel cuore dei ruandesi. Per ore, le radio e le televisioni locali trasmettono in diretta ogni udienza del dibattimento contro Paul Rusesabagina, l’eroe raccontato nel film “Hotel Rwanda” e oggi giudicato per tredici reati di terrorismo da un tribunale di Kigali.

A quest’uomo di sessantasei anni, apparso in aula indossando pantaloni e camicia rosa confetto, l’uniforme dei galeotti locali, molti augurano oggi l’ergastolo, non tanto per aver creato una milizia armata che secondo l’accusa nel 2017 avrebbe rapinato e ucciso al confine con il Burundi, quanto per il ruolo che ebbe lui stesso durante i massacri di ventisette anni fa, quand’era direttore dell’Hôtel des Mille Collines. «Raccontò a tutti di aver salvato più di milletrecento tutsi dai machete dei genocidari, ma in realtà le cose sono andate diversamente”, dice l’attivista JeanPierre Sagahutu, che allora sopravvisse miracolosamente alle stragi nascondendosi in una fossa biologica dove per settimane si nutrì soltanto di vermi e scarafaggi.»

Secondo Sagahutu, «Rusesabagina chiedeva 1500 dollari a chiunque chiedesse di varcare il portone del suo albergo per poter usufruire della protezione del contingente dell’Onu che vi alloggiava. Molti furono da lui respinti semplicemente perché non avevano di che pagarlo. Non ha mai agito per altruismo ma solo per soldi. Con le sue tante bugie è riuscito a convincere Hollywood di essere stato un uomo eccezionalmente generoso e grazie al successo del film che gli fu dedicato negli Stati Uniti c’è ancora chi gli dà credito», aggiunge Sagahutu, la cui madre fu impalata viva, i due fratelli massacrati con il machete e il padre segato in due.

È del resto comprensibile che il genocidio non sia ancora stato metabolizzato né i suoi tanti lutti elaborati dai ruandesi, perché si è trattato di uno spaventoso trauma collettivo, in cui le milizie interahamwe e i contadini hutu si sono accaniti con una frenesia omicida e devastatrice su tutta la popolazione tutsi. Nonostante l’organizzazione sommaria e i mezzi piuttosto arcaici per compierlo, cioè machete, mazze e bastoni, ottocentomila tutsi sono stati uccisi in dodici settimane, conferendo ai genocidari ruandesi uno spaventoso primato.

Dalla notte del 6 aprile 1994, subito dopo l’abbattimento nei cieli di Kigali dell’aereo sul quale viaggiavano il presidente del Ruanda Juvénal Habya Rimana e il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira, il paese si tramutò improvvisamente in un luogo di estremo sadismo, dove le donne e i bambini furono le prime vittime dei massacri affinché non rinascesse alcuna generazione di tutsi, con le madri costrette a uccidere i propri figli per essere poi sistematicamente violentate, mutilate e infine ammazzate anch’esse. Secondo un’inchiesta realizzata dall’Unicef, l’80 per cento dei bambini ha avuto un morto in famiglia in quei tragici tre mesi del 1994 e il 70 per cento di loro ha visto uccidere qualcuno. 

L’ex “banchiere del genocidio” che nel 1994 aveva fatto arrivare in Ruanda 500.000 machete e che aveva creato e diretto Radio des Mille Collines da cui diffondeva odio e invitava a snidare e mutilare gli “scarafaggi tutsi”, fino al giorno del suo fermo a Asnières sur Seine, vicino Parigi, aveva trascorso la vita comoda e serena di un qualsiasi pensionato molto benestante. Dice ancora Sagahutu: «Chi l’ha protetto, tutti questi anni? Non lo sapremo mai, ma possiamo immaginare il sollievo che deve provare quell’assassino seriale, ormai vecchio e malato, all’idea che probabilmente non sarà mai condannato per tutto il male che ha fatto. Perché sono certo che morirà prima che il Tribunale dell’Aia possa giudicarlo»

"Racconto il Ruanda tra siccità, antichi riti e l'inizio dell'odio". La scrittrice in "Kibogo è salito in cielo" indaga le radici comuni di un Paese dilaniato. Eleonora Barbieri il 3 Agosto 2022 su Il Giornale.

Scholastique Mukasonga ha lasciato il suo Paese, il Ruanda, quarantanove anni fa. Nel 1973, a diciassette anni, a causa delle persecuzioni contro i tutsi è fuggita in Burundi; poi, nel 1992, è arrivata in Francia, dove vive tuttora e la sua opera è stata riconosciuta, fra gli altri, con un Prix Renaudot. Ha raccontato la sua storia nel memoir Inyenzi ou les cafards, pubblicato da Gallimard, e les cafards sono gli «scarafaggi», uno dei nomi con cui venivano definiti i tutsi ai tempi del genocidio del '94. Kibogo è salito al cielo, pubblicato da Utopia (pagg. 126, euro 18), è il suo secondo romanzo ad apparire in Italia, dopo Nostra signora del Nilo (66thand2nd, 2014): parla del suo Paese a metà del '900, di una grande siccità (come oggi...) e dei tentativi degli abitanti di un villaggio di far scendere la pioggia, fra l'adesione, non sempre spontanea, alla religione cristiana e i ricordi di antichi riti e leggende, legati alla figura di Kibogo, la cui storia ricorda proprio quella di Gesù...

Scholastique Mukasonga, come è nata l'idea del romanzo?

«Ogni sera, intorno al camino, mia madre Stéfania ci raccontava le leggende della tradizione ruandese. Nel suo inesauribile repertorio ritornava spesso quella del principe Kibogo, che salì in cielo per riportare la pioggia in Ruanda, minacciato da una grave siccità. Al catechismo i missionari ci hanno raccontato la storia della resurrezione al cielo di Gesù: come si fa a pensare che le due storie non siano collegate?»

Quindi la leggenda di Kibogo esiste davvero?

«Non l'ho inventata io. Le tradizioni orali ruandesi hanno spesso per protagonisti degli eroi chiamati abatabazi, i salvatori. In tempi di guerra o di calamità naturali, gli indovini di corte chiedevano a una persona di alto rango, talora al re in persona, di sacrificarsi per salvare il Paese. Il rito, definito a sua volta abatabazi, potrebbe essere paragonato alla devotio romana, il cui esempio più famoso, secondo Tito Livio, è quello del console Decio Mure».

E in questo caso?

«Nella corte del re c'era una capanna-santuario dedicata a Kibogo: essa era presieduta da una vestale, responsabile del culto. Il mio personaggio, Mukamwezi, è proprio una vestale, che il cristianesimo ha bandito».

In effetti, nel romanzo il Ruanda appare quasi una terra di conquista religiosa, fra paganesimo e cristianesimo.

«La colonizzazione belga si fondava essenzialmente sulle missioni cattoliche, alle quali era affidata l'istruzione. Nel 1931 il re Musinga, che si opponeva al controllo coloniale e missionario, fu deposto e sostituito con uno dei suoi figli, favorevole invece al battesimo: questo portò alla conversione dei chef, che a sua volta portò alla conversione di gran parte della popolazione».

Con questo scontro religioso voleva anche rimandare al tragico conflitto civile che ha insanguinato il suo Paese?

«Vorrei innanzitutto sottolineare che hutu e tutsi non sono gruppi etnici: tutti i ruandesi parlano la stessa lingua, vivono gli uni accanto agli altri e condividono la stessa cultura. L'appoggio che i belgi e la Chiesa hanno dapprima garantito ai tutsi, e poi il rovesciamento dell'alleanza per paura del comunismo al momento dell'indipendenza, spiegano in parte il genocidio dei tutsi nel 1994. La fine del romanzo può essere ambientata nel 1959, anno in cui scoppiarono i primi pogrom contro i tutsi».

Può raccontare come la guerra ha colpito lei e la sua famiglia?

«La mia famiglia è stata deportata nel 1966 a Nyamata, perché era tutsi. Nel 1994, trentasette dei suoi membri sono stati massacrati lì».

Il romanzo parla di una grande siccità: è qualcosa di molto attuale.

«In passato, la colpa della siccità veniva attribuita a Dio o agli spiriti maligni. Oggi la responsabilità è del cambiamento climatico, in gran parte causato dall'uomo...»

Siccità e pioggia hanno anche significato metaforico?

«La pioggia e il suo arrivo, auspicato in una data ben precisa, sono ovviamente cruciali per i ruandesi, che vivono al novanta per cento di agricoltura. Il re e gli stregoni della pioggia sono sempre stati ritenuti responsabili dei mali del Paese. La carestia del 1943 però è ben documentata: fu causata dalla siccità, ma anche dallo sforzo bellico richiesto alle popolazioni colonizzate».

Akayézu è un personaggio centrale, che incarna lo spirito cristiano più dei religiosi stessi: come nasce?

«Il nome Akayézu, Piccolo Gesù, sembra determinare il suo destino. È davvero un piccolo Gesù, ma un piccolo Gesù africano, addirittura ruandese. Spesso i convertiti, sia in Africa, come Beatriz Kimpa Vita in Congo, sia in America, come i mormoni, si sono chiesti: perché le Scritture bianche non parlano dell'Africa o dell'America?»

Quanto sono state avvicinate la storia di Kibogo e quella di Gesù?

«Quando i missionari volevano spiegare ai loro catecumeni la salita in cielo di Gesù, di Elia o di Maria, si appellavano all'esempio di Kibogo, che era stato portato in cielo con le mogli, i figli, i servi, i guerrieri e le mucche. Le catechesi dei missionari erano spesso prese alla lettera, e confondevano una storia con l'altra. Di qui è nato un certo sincretismo».

Da dove nasce il tono così ironico del romanzo?

«L'humour è una peculiarità imprescindibile dell'eleganza, e un ruandese deve disporne nel comportamento e nei modi».

La pluralità di voci che cosa rappresenta?

«Il romanzo vorrebbe essere corale. La voce fuori campo appartiene al villaggio che è stato costruito ai piedi del monte Runani, dove Kibogo è salito in cielo e dove si oppongono due luoghi santi: un bosco sacro con alberi intoccabili e la cappella in mattoni della missione».

C'è un personaggio che ama particolarmente?

«Ho provato a rendere Akayézu un personaggio molto simpatico, credo. Come me, ascoltava i racconti di sua madre».

Il richiamo alle radici ha un valore anche oggi?

«All'indomani del genocidio, i ruandesi hanno cercato di riconciliarsi e di ricostruire il Paese attorno a valori fondamentali come l'agaciro, in cui ogni ruandese può identificarsi. Il termine può essere tradotto come dignità. Nel 2019, il Ruanda ha riportato in vita una festa tradizionale chiamata umuganura, la festa del sorgo».

Con quale intento?

«Secondo il governo, al di là delle manipolazioni che la storia del Ruanda ha subito, è necessario affidarsi a pratiche e riti che sono stati alla base della società e della cultura ruandese. Il nuovo Ruanda può affondare le sue radici in un passato ritrovato? È questa la scommessa del mandato di Paul Kagame. Questo ritorno alle origini non deve essere accompagnato da una recrudescenza nazionalista, deve essere accompagnato da un'apertura agli altri: questo è ciò che il Ruanda sta cercando di fare».

 Carlo Tarallo per “La Verità” il 19 aprile 2022.

«Non conosco i dettagli dell'accordo tra Ruanda e Regno Unito, ma in base all'annuncio pubblico sembra essere un buon passo avanti»: è il commento del ministro per l'Immigrazione e l'integrazione della Danimarca, Mattias Tesfaye, in riferimento al piano del governo britannico per contrastare l'immigrazione illegale, che prevede, fra l'altro, che alcuni dei richiedenti asilo sbarcati sulle coste inglesi siano trasferiti in Ruanda per la gestione dell'iter burocratico relativo alle loro richieste. Le parole di Tesfaye sono destinate a far venire il mal di testa ai sedicenti progressisti di tutta Europa, e in particolare ai paladini della immigrazione senza regole.

Tesfaye, infatti, non è un politico di destra, ma l'esatto contrario: il babbo, Tesfaye Momo, è un rifugiato etiope, mentre il ministro, prima di aderire al Partito Socialdemocratico della premier Mette Frederiksen, è stato un esponente di primo piano del Partito Popolare Socialista e prima ancora dell'Alleanza Rosso-Verde e dell'ormai disciolto Partito Comunista Marxista-Leninista della Danimarca.

Dunque, siamo di fronte a un politico di sinistra radicale, che però non ha alcun problema a definire interessante il piano di Boris Johnson per contrastare l'immigrazione clandestina: «Spero», ha aggiunto Mattias Tesfaye, a quanto riferisce il Guardian, «che più Paesi europei nel prossimo futuro sosterranno la visione di affrontare la migrazione irregolare attraverso partenariati impegnati con Paesi extraeuropei".

Il piano di Boris Johnson, la cui realizzazione pratica è affidata al ministro dell'Interno britannico Priti Patel, prevede che venga sottoscritto col governo del Ruanda un accordo da 120 milioni di sterline che prevede in alcuni casi rimpatri rapidi per i richiedenti asilo arrivati nel Regno Unito e la gestione dell'intero processo burocratico nel Paese africano.

Johnson nei giorni scorsi ha sottolineato che la situazione degli sbarchi clandestini è diventata insostenibile per la Gran Bretagna: arrivano anche 600 persone al giorno su gommoni e piccole imbarcazioni che attraversano il canale della Manica, e il totale dall'inizio dell'anno supera le 5.000 persone. 

Johnson ha accusato i trafficanti di esseri umani, sottolineando che Londra non può tollerare queste azioni illegali: «La nostra compassione può essere infinita», ha commentato il primo ministro inglese, «ma la nostra capacità di aiutare le persone non lo è».

In sintesi, il piano di Johnson prevede che ogni immigrato clandestino che verrà pizzicato mentre tenta di sbarcare sulle coste britanniche o che è entrato in maniera irregolare sul territorio dall'inizio dell'anno verrà imbarcato su un aereo e trasferito in Ruanda, stato dell'Africa orientale con poco più di 11 milioni di abitanti. Ottenuto l'asilo, i rifugiati saranno accolti in ostelli e sostenuti per cinque anni dal governo locale, con fondi inviati appositamente da Londra, per costruirsi una vita e trovare una attività lavorativa: sono stati già stanziati 140 milioni di euro. Il piano prevede anche il dispiegamento della Royal Navy, la Marina militare, per intercettare, identificare e bloccare i barconi degli scafisti.

Il ministro Patel, nei giorni scorsi, è volata a Kigali per sottoscrivere il patto tra Gran Bretagna e Ruanda: «Si tratta di un Paese», ha evidenziato Johnson, «che ha la capacità di sistemare decine di migliaia di persone negli anni a venire. E fatemi essere chiaro, il Ruanda è uno dei Paesi più sicuri al mondo, globalmente riconosciuto per i suoi sistemi di accoglienza e integrazione migratoria».

Da corriere.it il 14 aprile 2022.

Il governo britannico guidato da Boris Johnson ha lanciato un controverso piano per contrastare l'immigrazione illegale. Il progetto dell'esecutivo conservatore prevede che alcuni dei richiedenti asilo entrati illegalmente in Gran Bretagna possano essere mandati in Ruanda per la gestione delle loro richieste — senza alcuna certezza di poter tornare indietro.

Non ci sono limiti numerici al piano, ha detto il governo di Londra, che quindi potrebbe riguardare migliaia di persone che hanno attraversato la Manica per entrare in Gran Bretagna. 

Il piano è stato formalizzato oggi dopo la sigla, a Kigali, di un'intesa con il Ruanda chiamata «Partnership per lo sviluppo economico». 

Secondo Londra, la situazione migratoria è diventata «insostenibile»: oltre 600 persone sono arrivate solo ieri dopo aver attraversato su barchini e gommoni il Canale della Manica, portando il totale a oltre 5.000 quest'anno. 

Lo scorso anno le persone entrate in territorio britannico attraverso la Manica su imbarcazioni di fortuna sono state almeno 28000 (contro le 8.500 nel 2020). Decine i morti: l'incidente più grave fu registrato nel mese di novembre, e a morirono furono 27 migranti.

L'intenzione dichiarata da Johnson è quella di porre fine al traffico di esseri umani. «Chi cercherà di saltare la coda (per entrare nel Paese) o prendersi gioco del nostro sistema» sarà «rapidamente, e in modo dignitoso, mandato in un Paese terzo sicuro» (cioè il Ruanda) o «nel loro Paese d'origine».

Le ong hanno fortemente criticato il piano, definendolo «crudele»; l'opposizione laburista l'ha bollato come «impraticabile e immorale». Il piano — per ammissione dello stesso Johnson — sarà probabilmente contestato legalmente, e non entrerà in vigore subito. 

«Noi siamo convinti che il nostro piano rispetti appieno i nostri obblighi internazionali ma nonostante questo ci aspettiamo dei ricorsi legali - ha riconosciuto Johnson - e se questo Paese è considerato debole verso l'immigrazione illegale da alcuni nostri partner è a causa di una schiera di avvocati politicizzati che per anni fatto affari ostacolando le deportazioni e limitando l'azione del governo». 

Il piano annunciato oggi da Londra prevede anche che sia la Royal Navy — la marina militare britannica — a pattugliare il canale della Manica per frenare l'impennata di sbarchi di immigrati illegali.

Il Ruanda è lo stato più densamente popolato del continente africano; le tensioni etniche e politiche hanno scatenato, nel 1994, un genocidio tra le etnie Hutu e Tutsi.

Il piano choc di Johnson: gli immigrati clandestini deportati in Ruanda. Erica Orsini il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.

Intesa Londra-Kingali sui richiedenti asilo. Critiche al premier: "Una scelta immorale".

Londra. Un biglietto di sola andata per il Ruanda.

È quello che intende regalare il governo di Boris Johnson ai migranti clandestini che hanno attraversato la Manica cercando rifugio e una nuova patria nel Regno Unito. La decisione, annunciata ieri in una conferenza stampa dallo stesso Primo Ministro britannico rientra nell'ambito del pacchetto di nuove politiche sull'immigrazione che già aveva suscitato reazioni polemiche nel mondo politico.

«Questo tipo di schema si è reso necessario per mettere fine ai mezzi usati nel traffico di esseri umani, così sarà possibile salvare innumerevoli vite» ha spiegato Johnson nella conferenza svoltasi in Kent.

Il Premier ha spiegato di aver raggiunto un accordo con quello ruandese che accoglierà un numero ancora non fissato di clandestini, attualmente detenuti nel Regno. Il ministro degli Interno, Priti Patel, si è infatti recata a Kigali per sottoscrivere il patto tra i due Paesi nell'ambito delle collaborazioni di sviluppo economico. L'idea dell'Home Office è infatti di portare gli immigrati in Runanda, «incoraggiandoli» a rimanere e a rifarsi una nuova vita lì. «Quel Paese - ha proseguito Johnson - ha la capacità di sistemare decine di migliaia di persone negli anni a venire. E fatemi essere chiaro, il Ruanda è uno dei Paesi più sicuri al mondo, globalmente riconosciuto per i suoi sistemi di accoglienza e integrazione migratoria».

Ai giornalisti che gli hanno fatto presente il triste record di violazioni dei diritti umani perpetrate in quei territori e le numerose torture alle quali vengono sottoposti i detenuti il Primo Ministro ha risposto: «Il Ruanda ha subito una trasformazione completa e negli ultimi decenni è diventato un Paese diverso da quello che era». Nel costo totale dell'operazione sarà compreso un iniziale pagamento di 120 milioni di sterline, una cifra già contestata dall'opposizione che ha definito l'intero sistema «non fattibile e non etico». «L'attuale sistema di accoglienza che prevede la sistemazione negli alberghi ci costa già un miliardo e mezzo ogni anno - si è difeso Johnson - la permanenza negli hotel si aggira intorno ai 5 milioni quotidiani ed è destinata ad incrementare». I migranti che arriveranno in Ruanda verranno prima sistemati in un ostello del quartiere Gasabo di Kigali che al momento funge da albergo per turisti e che il governo africano intende acquistare in leasing dall'attuale proprietario. Al momento non è ancora chiaro se verranno spediti in Africa soltanto uomini, se laggiù sarà possibile ricorrere in appello e se il sistema sarà destinato ai soli migranti «economici». Johnson ha anche dichiarato che dalla prossima settimana la Royal Navy assumerà il comando operativo nel Canale per assicurare che «nessun barcone arrivi clandestinamente nel Regno Unito». Lo scorso anno hanno attraversato la Manica in imbarcazioni di fortuna 28,526 persone secondo i dati ufficiali, ma il numero potrebbe essere molto più alto. Decine hanno perso la vita tentando di raggiungere le coste inglesi.

Il ministro Patel aveva dichiarato in Parlamento che «il 70% degli immigrati clandestini che arrivano a bordo dei barconi sono migranti economici» ma i dati ottenuti dal Guardian dallo stesso Home Office evidenziano che il 61% degli immigrati arrivati via mare hanno poi ricevuto il permesso di rimanere come rifugiati.

Cuore di tenebra. Il modello Brexit dell’immigrazione? Appaltare l’accoglienza dei rifugiati al Ruanda. Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 16 Aprile 2022.

Il premier Johnson ha deciso di spedire a Kigali i migranti maschi single che arrivano nel Regno Unito. I primi trasferimenti partiranno a maggio. Londra pagherà i biglietti aerei e i primi tre mesi di permanenza, spendendo tra le 20mila e 30mila sterline a persona.

Aiutiamoli a casa loro. Anche se non è casa loro. Basta che non sia casa nostra. In una riga, è questo il piano del governo inglese per spedire – e quindi deportare, accusano opposizione e ong – in Ruanda i migranti illegali. Inizialmente verranno respinti così solo i maschi adulti senza figli, a prescindere dalla nazionalità: chi scappa dall’Afghanistan potrebbe trovarsi su un volo per Kigali. Più di esternalizzare l’accoglienza, si tratta di pagare per lavarsi la coscienza. Da Londra, il Ruanda riceverà subito 120 milioni di sterline. Benché più avanzata di altri Stati africani, la repubblica guidata da Paul Kagame è criticata per come reprime il dissenso.

Il primo ministro Boris Johnson combatte l’immigrazione, anche quella regolare, da quando è a Downing Street. Ha reso più difficile ottenere un visto per gli europei, con un sistema a punti. Ha pagato la Francia per pattugliare le coste normanne. Ha varato una legge, il Nationality and Borders Bill, che prevede il carcere per chi arriva illegalmente. Sono aumentati gli sbarchi via mare: 28 mila persone nel 2021, ventimila più del 2020. I numeri di quest’anno, con più di 5mila ingressi, hanno convinto i conservatori all’ennesima stretta. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza, in Italia l’anno scorso sono approdate 67mila persone.

Chi cerca salvezza nel nostro Paese proviene soprattutto da altre nazioni del Mediterraneo, in testa Tunisia ed Egitto. La maggior parte dei profughi diretti verso l’Inghilterra, invece, arriva da più lontano. Iran, Iraq, Eritrea, Siria, Vietnam, Afghanistan. È prevalente il Medio Oriente, non l’Africa, eppure è qui che i richiedenti asilo verranno mandati.

Il criterio per il trasferimento in Ruanda, risparmiato a donne e bambini, è che i maschi single siano prima transitati dalla Francia o da altri «Paesi sicuri». Difficile non passarci per salpare su un barchino di fortuna o rischiare la vita nascosti nel retro di un camion.

Johnson ha promesso che i primi transfert saranno a maggio. Verranno imbarcati i migranti arrivati da inizio gennaio. Downing Street si aspetta di riuscirne a rilocare – la terminologia dei Tories si addice più alle merci che agli esseri umani – «decine di migliaia» nei prossimi anni. Sarà il governo a pagare i biglietti aerei e i primi tre mesi di permanenza in Ruanda, dove si potrà chiedere asilo a patto di rinunciare alla domanda nel Regno Unito. Il Times ha stimato che la spesa oscillerà dalle 20 alle 30mila sterline a persona.

Cosa succede dopo? A Londra non interessa troppo, non lo ritiene più un suo problema. I tre mesi coperti dai fondi britannici sono quelli in cui, in teoria, la repubblica africana esaminerà le domande d’asilo. In caso positivo, verrà concesso un permesso di soggiorno di cinque anni. In caso di diniego, per esempio per precedenti penali, di fatto scatta il rimpatrio nel Paese d’origine. Se la trafila burocratica si ingolfasse, questa triangolazione rischia di trasformare il Ruanda nell’ultima fermata del viaggio della speranza.

Il Regno Unito non solo esternalizza l’accoglienza, come ha fatto l’Unione europea con la Turchia, ma paga un Paese terzo per accollarsi le responsabilità. Una specie di export di disperati. Ci sono gravi storture: un profugo partito dall’Afghanistan o dall’Iraq, per l’attuale normativa, può chiedere asilo solo dal suolo britannico, ma raggiungere l’isola, in base ai nuovi criteri, equivale a rendere inammissibile la domanda. È un vicolo cieco. In linea d’aria, Londra dista da Kigali 6,591 chilometri: mille più di Kabul, duemila più di Teheran e il doppio di Aleppo.

Perché proprio il Ruanda, allora? La risposta più semplice è che è l’unico Paese ad aver accettato. Ha negoziato il patto Priti Patel, ministra dell’Home Office dell’ala destra dei conservatori. La repubblica è entrata nel 2009 nel Commonwealth, di cui ospiterà il summit a giugno, e può darsi voglia compiacere Londra. Ma le ragioni sono soprattutto economiche. Kigali conta sull’afflusso di denaro stabile da una superpotenza finanziaria. Le cifre non sono ancora pubbliche, ma saranno legate al numero di trasferimenti e c’è già un fondo da 120 milioni di sterline per progetti educativi.

«Il Ruanda somiglia alla Svizzera dell’Africa, ma è un posto estremamente repressivo e spaventoso», ha detto alla BBC Michela Wrong, autrice di un libro sul Paese. C’è il W-iFi, una copertura vaccinale della popolazione al 60% e un parlamento a maggioranza femminile, è vero, ma vengono pure messi in galera gli Youtuber che criticano il presidente Kagame, al potere dal 2000, fine della guerra civile. Con percentuali plebiscitarie, ha modificato la costituzione per candidarsi dopo il secondo mandato, scaduto nel 2017, ed è stato regolarmente rieletto.

I sostenitori di Kagame spiegano i risultati con l’ascendente popolare di uno «statista», ma gli analisti sollevano dubbi sul funzionamento della democrazia ruandese. «Nel corso degli scorsi decenni – ha scritto per esempio Amnesty International – lo spazio politico e il processo elettorale in Ruanda sono stati caratterizzati da restrizioni delle libertà di associazione e assemblea, attacchi mirati contro i leader dell’opposizione, omicidi, sparizioni e processi politici che hanno indebolito la società e i media».

Una delle figure più note del Paese è Paul Rusesabagina, che ha salvato più di mille persone negli anni del genocidio dei Tutsi. Hollywood nel 2004 gli ha dedicato un film, Hotel Rwanda, con diverse nomination agli Oscar. Nel 2020, secondo quanto denuncia la sua famiglia, Rusesabagina è stato rapito da Dubai e portato in Ruanda, dove è stato condannato a 25 anni di carcere per il presunto sostegno a un gruppo ribelle. «Il Ruanda è una dittatura, non c’è libertà di parola, non c’è democrazia», ha detto alla Bbc sua figlia, Carine Kanimba.

«Siamo un posto sicuro, teniamo al rispetto dei diritti umani come ogni altra nazione» ha assicurato ai media inglesi il portavoce di Kigali. Il Paese africano più densamente popolato, per ora, ha solo 50 stanze per chi atterrerà dal Regno Unito. Possono accogliere al massimo cento persone. Un nuovo complesso di palazzine dovrebbe triplicare questa (scarsa) capacità ricettiva. Il paradosso è che proprio l’anno scorso il governo inglese ha espresso le sue preoccupazioni davanti all’Onu per «le continue limitazioni ai diritti civili e politici e alla libertà di stampa», testuale, nel paese dove ora intende spedire i migranti.

Il Regno Unito non è il solo, né il primo, a varare strategie simili. Ci ha provato anche la Danimarca, proprio con il Ruanda. «Tentativi xenofobi e inaccettabili» li ha definiti l’Unione africana. Ha protestato anche la commissione europea. Così il memorandum firmato dal ministro socialdemocratico Matthias Tesfaye è rimasto lettera morta: finora, zero trasferimenti in Africa. La Danimarca, in compenso, ha revocato il permesso di soggiorno a migliaia di siriani, sostenendo che possano tornare a Damasco, mentre si prepara ad accogliere centomila profughi ucraini.

Tra respingimenti e centri di detenzione, l’Australia ha fatto scuola negli ultimi vent’anni. Queste politiche sono costate, solo nel 2021, 460 milioni di sterline a Camberra, ma sono state spostate solo 239 persone. Una spesa media di quasi due milioni ciascuna. Anche Israele ha un accordo con due paesi: i nomi sono secretati, ma secondo i media si tratta proprio di Ruanda e Uganda. Chi viene respinto da Tel Aviv può scegliere se tornare a casa o accettare un pagamento di 3,500 dollari e un biglietto aereo per l’Africa.

Secondo un sondaggio di YouGov, il provvedimento di Johnson piace solo al 35% degli elettori ed è avversato dal 43% di loro. Anche l’esecutivo si è spaccato, se per farlo passare Patel ha dovuto usare un meccanismo che scavalcasse l’opposizione dei funzionari dell’Home Office. I conservatori potranno anche stanziare 50 milioni di sterline per armare la marina e intercettare i barchini sulla Manica, ma – secondo una proiezione in esclusiva del Telegraph – il partito crollerà alle elezioni locali di maggio, perdendo più di ottocento seggi a favore dei laburisti.

La guerra ai migranti. Profughi deportati in Ruanda, la barbarie di Boris Johnson. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

Ho letto tre volte la nota di agenzia. Perché non ci credevo, ero convinto che ci fosse un errore o di non aver capito io. Invece è proprio così. Boris Johnson, il premier britannico, ha annunciato che schiererà la marina militare inglese – storicamente la più potente marina del mondo – per impedire gli sbarchi di profughi. La Royal Navy, una volta catturati i nemici, li stiperà in alcuni aerei messi a disposizione dall’aeronautica militare e con un volo di poche ore li trasporterà in Ruanda. Qui saranno accolti e sistemati, si immagina, in appositi campi di concentramento. Poi, del loro destino non si saprà più nulla.

Al Ruanda sono destinati non solo tutti i profughi che verranno catturati da oggi in poi. La caccia è aperta. Ma anche tutti quelli sbarcati in Gran Bretagna dal primo gennaio. Insieme alla marina, spalla a spalla, lavorerà la polizia. Sarà una deportazione di massa. Come quella che gli europei qualche secolo fa realizzarono con il percorso inverso. Allora andavano a prendere gli africani e li portavano in America. Li vendevano come schiavi al mercato di Charleston. Ora invece prendono i profughi e li portano in Africa. Anzi, per essere precisi, li portano in uno dei paesi più poveri dell’Africa. Il Ruanda è uno stato piccolissimo, molto popoloso, governato da una dittatura. Ha un reddito medio inferiore ai due dollari al giorno. Medio: vuol dire che ci sono alcuni milioni di persone che vivono con un dollaro al giorno o forse un po’ meno. Nelle classifiche ufficiali del Pil pro-capite il Ruanda sta intorno al 175° posto su 190. I poveri sono la maggioranza della popolazione, e muoiono letteralmente di fame. Il regime è dominato da un signore che si chiama Paul Kagame.

Governa dal 2003 e le previsioni (dopo una serie di ben studiate riforme costituzionali) dicono che governerà fino al 2034. Le ultime elezioni le ha vinte ottenendo il 99 per cento dei voti. Una percentuale leggermente superiore a quella ottenuta da Kim Jong Un nella Corea del Nord. Agli oppositori è stato proibito di presentarsi alle elezioni, per evitare confusione. Il Ruanda è il paese del quale si parlò molto negli anni novanta per lo sterminio di una delle due etnie, i Tutsi, che erano una etnia di minoranza e furono annientati dagli Hutu. Il problema razziale fu risolto in quel modo. Si trattò, effettivamente in quel caso, di genocidio. Magari va segnalato a Biden. Boris Johnson ha pensato che il luogo migliore dove mandare i migranti che non vuole più fosse proprio il Ruanda. E ha sborsato circa 120 milioni di sterline per realizzare questa operazione. Più o meno il prezzo che la Juventus ha pagato qualche anno fa per comprare Cristiano Ronaldo già a fine carriera.

Non sappiamo a cosa serviranno questi dollari. Probabilmente a blindare il potere di Kagame. Ma Londra non era nemica delle dittature? Si, si, è vero, ma non stiamo lì a fare troppe polemiche, in fondo questo Kagame è stato eletto dal popolo, no? Non sappiamo a cosa serviranno i soldi inglesi ma sappiamo cosa, con baldanza e tranquillità, ha dichiarato Johnson nell’annunciare questa operazione inglese. Ha detto che “la compassione degli inglesi non ha limiti ma la possibilità di accogliere migranti invece ne ha”. Il ragionamento del primo ministro del Regno Unito è abbastanza semplice. In questi giorni in Gran Bretagna ci sono stati 600 sbarchi al giorno. Siamo oltre i limiti della possibile accoglienza. L’Inghilterra è un paese abbastanza ricco, è vero, è tra i cinque o sei paesi più ricchi del mondo, ma anche la ricchezza ha un limite, no? Molto meglio mandare i migranti in un paese poverissimo, dove in fondo è quasi impossibile aumentare la povertà. In Ruanda ci sono 11 milioni di persone (circa un sesto degli abitanti dell’Inghilterra) e come dicevamo un reddito medio di circa 600 euro all’anno a testa: non sarà un gran problema se a un esercito di morti di fame si aggiunge qualche altro migliaio o centinaio di migliaia di persone.

Infatti Johnson ha parlato esplicitamente di “approccio innovativo, guidato dal nostro condiviso impulso umanitario”. Si, Johnson ha detto proprio così. Non dovete pensare che sio sia impazzito o sia travolto dal mio ben conosciuto spirito anti-inglese. Johnson ha usato esattamente queste parole: innovativo, umanitario, impulso.

Tutto questo succede in un periodo un po’ particolare nella storia dell’Europa e dell’Occidente. E cioè nei giorni nei quali tutti, i grandi giornali in testa, e i politici, e gli intellettuali più lucidi, ci spiegano che noi siamo gente che può rinunciare a tutto, ma non ai propri valori occidentali. I nostri valori occidentali sono superiori a tutti gli altri valori. Indipendenza, libertà, giustizia.

Ci hanno anche chiesto di rinunciare ai condizionatori per difendere la nostra libertà. E noi abbiamo battuto le mani: si, si, siamo gente di tempra idealista. Chissà se Johnson ha chiesto anche ai cittadini del Ruanda di rinunciare ai condizionatori. È probabile – credo – che loro accettino senza fiatare. Per fortuna i laburisti inglesi hanno protestato un po’. E hanno protestato un po’ più vigorosamente le organizzazioni umanitarie che ancora esistono, anche se governi e magistratura stanno tentando di annientarle, magari solo perché hanno l’impressione che queste organizzazioni non conoscano bene i valori occidentali. Io però mi chiedo: ma se l’Occidente è questa roba qui, se i suoi valori sono questi, se i suoi leader ragionano come Boris Johnson, vale la pena difendere a spada tratta questa follia?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

·        Quei razzisti come gli egiziani.

Giurano di salvare il futuro nell’Egitto senza presente. Non resta nulla della «Primavera araba». Nemmeno Piazza Tahrir. Francesca Borri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Novembre 2022

Ho ancora la sua boccetta di vetro. Era il 2011. Ed eravamo al Cairo. Alaa Abd El-Fattah tolse il tappo, e mi disse: L’aria di piazza Tahrir. L’aria della libertà.

Poi mi disse: Va lasciata così. Aperta.

Ma a quest’ora probabilmente è già morto.

Ha iniziato lo sciopero della fame il 5 aprile. E dal 6 novembre rifiuta anche l’acqua. Con il suo blog, è stato l’icona della Primavera Araba. Ed è in carcere da dieci anni, ormai. Arrestato da chiunque sia stato al potere. Da Mubarak, dai Fratelli Musulmani, dall’esercito. E ora, da al-Sisi. Ha passaporto britannico, oltre che egiziano, ma Rishi Sunak ha chiesto invano una prova di vita. Non ha avuto risposta. I capi di Stato e di governo in questi giorni sono tutti a Sharm el-Sheik per la Cop27 sul clima. Promettono di salvare il mondo: e intanto non sono neppure capaci di salvare un uomo.

Ma questo è l’Egitto. Questo è al-Sisi. Intoccabile.

Quando sono stata fermata all’aeroporto del Cairo, nel 2019, e rispedita indietro in quanto «pericolo per la sicurezza nazionale», non mi sono meravigliata. Ho pagato l’inchiesta Regeni. E comunque, al Cairo siamo stati fermati tutti. Dal New York Times ad al-Jazeera. Ero pronta. Capita, in questo mestiere. Ma quello a cui non ero pronta, era l’Italia. Questa sensazione, mentre ero giù in quello scantinato, che l’Italia fosse non dico dalla parte dell’Egitto: ma certo non dalla mia. La console, quando arrivò, e mi disse che nessuno aveva idea di dove fossi, che non contassi su Amnesty International. Su una mobilitazione. Quando mi disse: Sei sola. Quello che in genere ti dice la polizia. Quando mi disse di firmare una cosa in arabo che non capivo. Quando mi disse che è perché scrivo per Yedioth Ahronoth, per Israele, che è una follia che una legata a Israele stia in Medio Oriente - Israele: che è il primo alleato di al-Sisi, e con l’Egitto ha un trattato di pace dal 1979. Quando rientrai a casa. E trovai messaggi di giornalisti di mezzo mondo: ma non uno da quelli italiani. Non uno.

Perché ti occupi di Egitto, e hai l’inferno.

Sembra un Paese lontano. E così diverso. Eppure, la mia prima volta al Cairo pensai: Ma l’Italia è uguale. Ma perché la Primavera Araba è la storia della mia generazione. Piazza Tahrir chiedeva molto più che democrazia. Chiedeva karama. Dignità. Perché il problema non era solo la politica. Non era solo Mubarak. Il problema era anche l’economia, dominata dall’esercito, e la società, marcia di clientelismo e nepotismo. Ma in fondo, cos’è il sistema del wasta, della raccomandazione, in arabo, quella con cui ti trovi un lavoro, ti salti una lista d’attesa, ti eviti un controllo della Finanza, se non quello che chiamiamo disuguaglianza delle opportunità? Non c’è un solo inviato di guerra nero. L’avete mai notato? Perché il giornalismo, come la diplomazia, come l’università, è uno di quei settori in cui ormai sei sottopagato per anni: il giornalismo è per privilegiati. Ed è sempre più così. Architetti figli di architetti, medici figli di medici.

Persino calciatori figli di calciatori.

Wasta. O come si dice a Napoli: «La conoscenza».

E poi, l’economia. In Egitto, è dell’esercito. Attraverso quattro organizzazioni, istituite perché i militari contribuissero allo sviluppo. Ma da infrastrutture e edilizia, l’esercito è dilagato ovunque. Ha imprese di ogni tipo. E tutto esentasse. Ma quanto è diversa la nostra economia? In Cina, gli operai che assemblano gli iPhone non hanno mezzo diritto. Ma i nostri, invece? Non stiamo più come schiavi alle catene di montaggio, è vero. Ma le sedi alle Cayman, per esempio, l’elusione fiscale: smantella il nostro welfare. Svuota le casse dei nostri Stati. O pensate che chi viola i diritti in Cina poi altrove sia ligio alle regole?

Se non ti importa della vita dei cinesi, non ti importa della vita di nessuno.

Perché ti importa del profitto e basta.

E la democrazia. La politica. Non abbiamo i Mubarak. Gli al-Sisi. Ma quanto potere ha un Parlamento, oggi? Quanto potere reale? Quanta sovranità, in tempi di globalizzazione? Di questioni sempre più transnazionali? E quanto è rappresentativo? Quanto è accessibile? Rishi Sunak è più ricco del Re, ma il record è stato di David Cameron: nel suo governo, erano milionari 18 ministri su 29. Cosa è il potere, cosa è la politica, in un mondo in cui l’uomo più ricco, Elon Musk, è più ricco di più di un quarto dei Paesi?

In Egitto, se fai politica ti arrestano. Ma altrove, sei escluso comunque.

Ed è per questo che la generazione di Tahrir è la mia generazione.

E Alaa Abd el-Fattah anche la mia icona.

Ma sono tutti a Sharm el-Sheikh come se niente fosse. Ambientalisti compresi. Si battono per il futuro: indifferenti a un Paese che non ha l’oggi. Ma in fondo, non hanno mai visto gli Alaa Abd el-Fattah come dei pari. La Primavera Araba qui è sempre stata bollata come una manovra degli americani. Come una cospirazione. O si è temuto che avrebbe ottenuto non la democrazia, ma la Sharia. E quando Mohamed Morsi, il primo, e ultimo, presidente regolarmente eletto della storia dell’Egitto, è stramazzato a terra in tribunale, ed è morto così, per un attacco di cuore, mentre tutti restavano a guardare, la stampa occidentale non gli ha dedicato che due righe.

Quante iniziative per i panda. Nessuna per un islamista.

E comunque, a Sharm el-Sheikh non si discute di clima. Si discute dei risarcimenti per i danni causati dai paesi più industrializzati. Perché l’ambientalismo non è che questo, per molti: una nuova opportunità per battere cassa. Secondo l’ONU, nel 2025 l’Egitto non avrà più acqua. E intanto al-Sisi, nella nuova capitale da 45 miliardi di dollari che ha voluto a est del Cairo, ispirata a Dubai, costruisce fontane nel deserto.

Dei dieci Paesi con le maggiori emissioni di anidride carbonica, 7 sono nel Golfo.

Piazza Tahrir neppure esiste più. In questi anni, tutta l’area è stata oggetto di riqualificazione urbana. E la piazza, sostanzialmente, è sparita. Per evitare manifestazioni.

Ma ora ha un prato, invece dell’asfalto, è bellissima, vero? Così verde.

Il controllo dell’opinione pubblica in Iran, Qatar ed Egitto. Chiara Salvi il 28 Novembre 2022 su Inside Over.

Il 16 novembre le autorità egiziane hanno arrestato centinaia di persone, come riportato dall’Ong Human Rights Watch. Gli arresti sarebbero avvenuti in risposta a un appello a manifestare contro gli abusi del governo, ma si tratta solamente dell’ultima di una serie di arresti, volti a bloccare ogni tipo di assembramento non autorizzato in occasione della COP27. L’Egitto non è però l’unico paese in Medio Oriente a fronteggiare una crisi dell’opinione pubblica: l’Iran sta combattendo un moto di proteste che ha coinvolto gran parte del paese e il Qatar affronta il delicato passaggio dei Mondiali di Calcio, tra esposizione mediatiche e critiche per i dirtti umani.

Il cuore delle protese iraniane

Il 16 settembre Mahsa Amini, ragazza di ventidue anni, muore in custodia della “polizia morale” iraniana. Il decesso è arrivato dopo un arresto per uso “scorretto” dell’hijab, il velo di carattere religioso che nello Stato shiita è obbligatorio, perché risultava scoperta una parte dei suoi capelli. La sua morte ha innescato in Iran una delle proteste più ampie degli ultimi anni, ma la risposta del governo non si è fatta attendere. Tre giorni dopo, il 19 settembre, è stato tagliato l’accesso ai social media e la connessione a Internet in gran parte del Paese, rendendo così più difficile il coordinamento fra i manifestanti, ma soprattutto ostacolando la fuoriuscita di notizie verso il resto del mondo.

La “polizia morale” deve controllare il rispetto della sharia (una rigida interpretazione del Corano), ma i manifestanti lamentano che queste forze dell’ordine sono solo uno degli strumenti di oppressione utilizzati dal governo per controllare la popolazione. Specialmente sotto il nuovo mandato del presidente Ebrahim Raisi, in carica dall’agosto 2021, l’intervento della polizia morale è diventato più aggressivo. Secondo la Human Rights Activists News Agency (HANRA) dall’inizio delle proteste ad ora sono state arrestate 14.000 persone. In diverse occasioni le forze dell’ordine hanno sparato sui manifestanti o usato gas lacrimogeni cercando di disperderli e alcuni dei detenuti rischiano la pena di morte. Se la popolazione è perlopiù isolata dal resto del mondo, per via dei continui blocchi applicati a Internet, l’Iran spicca fra gli attori più avanzati nell’uso di strumenti tecnologici e cyber per raggiungere i propri obiettivi. Tra le strategie di intervento volte a individuare i luoghi di protesta e identificare i dissidenti risulta l’uso di droni dispiegati per le strade delle principali città, così da identificare i luoghi della protesta e chi vi partecipa, e una campagna di phishing, volta a raccogliere le informazioni di potenziali dissidenti.

Però, anche le azioni benevolenti di attori esterni possono presentare un rischio: Amir Rashidi, iraniano ed esperto di sicurezza sul web, ha spiegato alla CNN come Elon Musk abbia esposto, non volutamente, la popolazione iraniana ad un pericolo considerevole. Il 23 settembre, il fondatore di SpaceX ha promesso di mettere a disposizione Starlink, la sua flotta di satelliti utilizzati anche in Ucraina, ma il processo di attivazione non è così immediato come si potrebbe sperare. Attivare la connessione in Iran significa un impegno a livello tecnologico considerevole e poter garantire una connessione anonima e sicura per chi la usa. Nei giorni susseguenti l’annuncio di Musk molte sono state le persone che sono cadute in trappole di phishing che promettevano loro una connessione sicura a Starlink. Rashidi ha avvertito come alcuni di questi hacker potrebbero essere incaricati dal governo per fornire a esso i profili raccolti. Ha sottolineato inoltre, che l’uso di tecnologie americane può essere motivo di accusa di spionaggio contro il governo iraniano.

Culture a contrasto ai Mondiali di calcio

Inaugurata il 20 novembre, la Coppa del mondo di calcio quest’anno si svolge per la prima volta in un Paese del Medio Oriente: il Qatar. Lo Stato sta combattendo da anni contro accuse di violazione dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori. L’attenzione mediatica sulle condizioni dei lavoratori migranti è rimasta elevata da quando, nel 2010, il Paese è stato individuato come stato ospite dei Mondiali del 2022. Un’inchiesta del Guardian, uscita nel febbraio 2021, ha dimostrato la morte di quasi 6.500 lavoratori coinvolti nella costruzione delle infrastrutture per la coppa del mondo a causa delle condizioni, spesso disumane, sotto le quali hanno sofferto. L’estate della penisola araba è particolarmente calda, con temperature che superano anche i 50°, nonostante questo i lavoratori, sotto il sole cocente del deserto, hanno spesso toccato turni di 14 ore al giorno.

Anche la libertà di stampa di tradizione occidentale si scontra con i limiti imposti dal Qatar, come dimostrato dall’episodio del 16 novembre in cui le forze di polizia locali hanno interrotto la trasmissione del reporter danese Rasmus Tanthold. La Danimarca si è già scontrata con gli organizzatori dei Mondiali, quando la FIFA ha proibito alla sua squadra di allenarsi con delle magliette con lo slogan “Diritti umani per tutti.” A Germania e Stati Uniti è stato proibito di gareggiare con la fascia arcobaleno, simbolo della comunità LGBTQ+, di cui qualunque affiliazione o appartenenza è proibita in Qatar.

I comportamenti occidentali si stanno per scontrare con quelli che sono valori intrinsecamente diversi dai propri. In data 18 novembre è stato ufficializzato il divieto di vendere alcolici, cosa che è in aperto contrasto con uno degli sponsor principali dei Mondiali: Budweiser. Ma il Qatar non si da per vinto: per dimostrare l’apertura della religione musulmana e della loro cultura verso il mondo, gli arabi hanno una cultura dell’ospitalità della quale vanno particolarmente fieri, e per dimostrare l’attrattiva del loro Paese sono stati affissi, per esempio, diversi cartelloni con alcuni insegnamenti presi dal Corano riguardanti la carità, la tolleranza e l’amore.

La COP27 tra censura e arresti

La XVII Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si è conclusa il 18 novembre. E mentre Sharm-el-Sheik, città ospitante, torna alla normalità, i riflettori mediatici sono ancora puntati sull’Egitto.

Visto l’attivismo in materia, dimostrato da Ong e civili, è diventata prassi comune permettere l’organizzazione di proteste nell’area della conferenza e nella città ospitante. Il caso dell’Egitto rappresenta però l’eccezione alla regola: il paese proibisce la maggior parte delle manifestazioni e, in vista della COP27, le ha vietate del tutto citando motivi di sicurezza pubblica. Solo all’interno della conferenza, lontano dalle attività principali, è stata designata un’area per permettere di organizzare delle manifestazioni, ma qualunque protesta doveva essere registrata con un preavviso minimo di 36 ore. Nelle settimane precedenti la conferenza, le autorità hanno avviato una rete di sorveglianza per trovare chiunque stesse organizzando una manifestazione. Tra le strategie messe in atto c’è stata anche la creazione di postazioni di controllo al Cairo in cui le forze dell’ordine bloccavano i passanti per controllargli i profili social media.

Secondo quanto riportato dalla Commissione egizia per i diritti e libertà (Egyptian Commission for Rights and Freedoms) sono state arrestate quasi 700 persone in vista della Conferenza, tra loro anche giornalisti e un avvocato per i diritti umani, Ahmed Nazir Elhelw.

Anche le delegazioni di Stati, organizzazioni e media si sono resi conto della stretta da parte del governo egiziano: specialmente nei primi giorni sono state numerose le segnalazioni di chi non riusciva ad accedere a pagine di organizzazioni per i diritti umani, come ad esempio il sito di Human Rights Watch, o a siti di giornali, come Al-Jazeera o il Huffington Post, perché oscurate dalle autorità.

L’Egitto è in piena crisi economica, causata in parte dalla guerra in Ucraina e la svalutazione della sterlina egiziana. Il timore di molti “watchdog” è che la stretta avvenuta in occasione della conferenza possa continuare per prevenire possibili disordini causati dal carovita.

Egitto, il "sistema delle porte girevoli" che permette al regime di tenere gli oppositori in carcere per anni senza processo. Francesca Caferri su La Repubblica il 18 Luglio 2022.

In un'inchiesta minuziosa, frutto di un anno di lavoro, il New York Times ha dato nome e cognome a migliaia di persone detenute raccontando nei dettagli la strategia repressiva di Al Sisi.

Uno squarcio nel muro del silenzio. È l’inchiesta minuziosa, tutta basata sui dati, che il New York Times ha pubblicato sabato dopo un anno di lavoro del suo ufficio del Cairo: il quotidiano americano ha dato nome e cognome a migliaia di persone detenute – spesso senza nessuna notifica alle famiglie – nelle prigioni egiziane. Persone arrestate e in un secondo momento accusate, per lo più di diffusione di notizie false e di associazione con gruppi terroristici che, in base alla legge egiziana possono restare in carcere fino a due anni senza processo, in una serie infinita di rinvii.

Tagadà, Domenico Quirico furioso con Mario Draghi sul caso Regeni: inganna i genitori, vergogna.

Affari con l'Egitto di Al Sisi dopo l'omicidio di Regeni: rivolta contro le mosse di Draghi. Dalla Cina parte l'assalto all'Occidente: senza la Nato vivremmo in un mondo pacifico. Il Tempo il 14 aprile 2022.

L’Italia è a caccia di gas alternativo rispetto a quello della Russia e dopo aver bussato alla porta dell’Algeria adesso è il turno di un possibile accordo con l’Egitto. Nel corso della puntata del 14 aprile di Tagadà, talk show di La7 condotto da Alessio Orsingher in sostituzione di Tiziana Panella, è ospite il giornalista Domenico Quirico, che usa toni durissimi nei confronti del governo Draghi legando il tema dell’energia a quello dell’omicidio del giovane Giulio Regeni, assassinato in Egitto, un paese con cui ora l’Italia vuole fare affari dopo anni di depistaggi: “Trovo la vicenda Regeni assolutamente scandalosa. Due persone che hanno seguito il più tremendo degli urti che la vita e la morte gli può dare dal 2016 vengono ingannate sistematicamente, ma non dagli egiziani che lo fanno per principio loro, bensì da quelli che stanno in questo Paese, cioè i governo di questo Paese, che sono stati innumerevoli e tutti si sono occupati di questa vicenda. Ai genitori di Regeni gli si racconta che stiamo facendo tutto il possibile e anche un po’ di impossibile per ottenere la verità dall’Egitto, la condanna dei responsabili… Ma non è vero! Il problema doveva essere risolto all’inizio, andando a cercare il responsabile numero uno di questa storia, che è il presidente, dittatore, capo, boss di questo Paese e il ministro degli Interni. L’hanno preso, l’hanno torturato e ammazzato. È - martella il giornalista - inutile e ridicola questa cosa di farsi dare quattro indirizzi di manutengoli della violenza di Stato, pensando che quella sia la soluzione del problema. Non te li daranno mai, perché ovviamente li coprono. È stato lo Stato egiziano, non sono quattro tizi che hanno ammazzato uno per un altro”. 

Lo Stato egiziano è - prosegue Quirico - colui che lo rappresenta e lo guida, denunciate Al-Sisi ad un tribunale internazionale, come bisogna denunciare Vladimir Putin per i crimini commessi dai suoi soldati in Ucraina. Lui non li ha impediti o puniti. È una cosa elementare, dire che state facendo il possibile per condannare gli assassini di Regeni è una bufala, una bugia. Gli assassini bisogna cercarli nella scala gerarchica di coloro che hanno ucciso materialmente questo povero ragazzo e coloro che hanno coperto e consentito questo diletto. Se non fate questo ai due poveri genitori di Regeni date soltanto delle chiacchiere ed è una cosa vergognosa”.

Domenico Quirico, Alessandro Sallusti: "Ciò che dovrebbe ricordare sul suo rapimento", realpolitik meglio dell'etica. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 15 aprile 2022.

«Vogliamo la giustizia o i termosifoni?», ha scritto Domenico Quirico, firma di punta de La Stampa - indignato del fatto che il nostro governo si sia rivolto a quello egiziano per rimpiazzare almeno in parte il gas che vorremo non più comperare dalla Russia di Putin. Ma come, si chiede l'illustre collega, quel criminale di Abdel al-Sisi fa torturare e uccidere un nostro ragazzo, Giulio Regeni, ostacola le indagini della magistratura e noi, anziché punirlo, andiamo in Egitto con il cappello in mano e la valigetta piena di miliardi, implorandolo di aiutarci, dove è finito il senso di giustizia?

Detto che l'omicidio di Giulio Regeni e tutto quanto successo dopo ci fa orrore e ci indigna, il ragionamento di Quirico non fa una grinza in punta di etica, ma proprio lui dovrebbe sapere che ci sono casi in cui sull'etica assoluta si deve fare prevalere la ragione di Stato. Dovrebbe saperlo, perché lui fu al centro di un caso benedetto nella sostanza ma discutibile in quanto a etica. Nell'aprile del 2013 Quirico fu rapito in Siria da una delle bande di miliziani che si fronteggiavano sul campo. Fu liberato a settembre dietro il pagamento da parte del governo italiano di un riscatto di quattro milioni di euro (cosa ufficialmente negata ma accertata da inchieste indipendenti), soldi che i guerriglieri usarono in armi per compiere nuovi massacri. È evidente che in quella occasione abbiamo trattato col nemico (e pure pagato) ma non ho dubbi: tra la giustizia e la vita di Quirico il governo italiano ben fece a scegliere la seconda senza badare a questioni morali.

Oggi il compito del governo è salvare la vita economica di cittadini e aziende e liberare i nostri approvvigionamenti da chi - Putin - li tiene in ostaggio. Bisogna sporcarsi le mani e tapparsi il naso? Sì, anche perché - dove ti giri, ti giri - gas e petrolio sono in mano praticamente ovunque a banditi e tiranni. Ahimè non ci sono pozzi in Svizzera né in Liechtenstein. Del resto, già facciamo affari con Paesi, dalla Cina all'Algeria, che poco hanno a che fare con democrazia e rispetto dei diritti umani senza che Enrico Letta e compagnia si scandalizzino più di tanto. Lasciamo che Regeni riposi in pace; oggi in guerra - almeno in quella energetica - ci siamo noi e a salvarci non saranno retorica facile né moralismi buoni a riempire le bocche in tempi di pace e vacche grasse.

Carlo Bertini per “La Stampa” il 15 aprile 2022.  

Dopo l'annuncio di un accordo per la fornitura di gas con l'Egitto, Enrico Letta la mette giù senza mezzi termini: «Mi lascia moltissimi dubbi. La vicenda Regeni è un simbolo della necessità di difendere i diritti umani e di fare giustizia. Quindi è netta la nostra richiesta al governo di essere molto più forte ed esigente nei confronti degli egiziani». 

E se Carlo Calenda gli chiede polemico «quali soluzioni» proponga e Antonio Tajani invece plaude al realismo, «perché sono un bene le forniture alternative alla Russia», il gelido silenzio di tutti i vertici istituzionali fa capire quanto il tema sia spinoso per il governo: a palazzo Chigi la critica del segretario dem viene vissuta con il disincanto di chi pensa che alla politica tocchi questo ruolo e all'esecutivo quello di mettere in sicurezza la dotazione energetica dell'Italia.

Ma nei vari dicasteri si registra notevole imbarazzo: c'è chi non apprezza il modo con cui la questione è stata gestita dalla Farnesina e chi addossa la croce a Palazzo Chigi, perché non si muove foglia che Draghi non voglia.

Dai piani alti del governo trapelano considerazioni di questo tenore: «Questo accordo - svela una fonte addentro al dossier - è stata gestita da Eni e ovviamente il premier ne è consapevole. Ma la differenza stringente tra questo caso e gli accordi con Algeria, Congo e Angola è che in questi tre Paesi si procede con intese istituzionali e politiche, mentre in Egitto no: c'è un contratto tra Eni e una società egiziana, come ce ne sono stati svariati in questi anni tra società italiane ed egiziane».

Ovvero, non c'è un ripristino di relazioni a livello istituzionale tra Egitto e Italia: questo il punto centrale. Anche se l'accordo riguarda uno dei maggiori giacimenti del mondo, quello di Zohr, la più grande scoperta di gas nel Mediterraneo, e 3 miliardi di metri cubi di gas liquefatto per il mercato Eni in Europa e Italia. 

Dunque, lo stop di Letta si inserisce in un contesto complicato ed è lui il primo a dire «chi meglio di Draghi può gestire una partita così, è il primo a essere consapevole di tutte le implicazioni». Ma al tempo stesso nel momento in cui si tratta una grande vendita di gas, «il contenzioso serissimo con il regime di Al Sisi rischia di passare in sordina».

Se nel medio termine, bisogna investire sulle rinnovabili e costruire l'unione energetica europea, nel breve «non bisogna legarsi mani e piedi all'Egitto. Punto». Ma c'è poi un piano più strategico, così sintetizzabile: il problema energetico di questi mesi si può trasformare in opportunità. «È possibile una nuova centralità dell'Italia - dicono gli strateghi di Letta - perché se la Germania non può prendere gas russo, gli servirà gas africano, che passa da due Paesi: Spagna e Italia. Così il nostro Paese diventerebbe un hub e questo apre a uno scenario nuovo: il che significa un nuovo sistema di relazioni, che deve soppiantare la logica neocoloniale, se vogliamo stabilità».

Enrico Borghi, che del Pd è responsabile sicurezza, fa notare che «il tempismo sul caso Egitto è sbagliato e si incrocia con la vicenda Regeni. Insomma, non possiamo immaginare che il gas sia usato come arma di scambio sui diritti umani violati». In ogni caso l'affondo sull'Egitto non è una minaccia alla stabilità del governo, come quelle della Lega: l'annuncio di una trattativa separata della destra con Draghi e Franco sulla delega fiscale è vissuto come un'escalation pericolosa e il numero due del Pd Peppe Provenzano, sbotta: «Da parte nostra c'è grande irritazione, non esiste che riscrivano loro la norma. Hanno dato vita a una sceneggiata e bisogna evitare di dargli occasioni di fare propaganda». Anche qui, il premier è avvisato: pari dignità nella maggioranza e nessun cedimento.

Gas, ci mancava Giulio Regeni: il "no" all'Egitto di Enrico Letta, il democratico del Cairo. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

Doverosa premessa. Certo andrebbe -metaforicamente- spalmato di napalm quell'Egitto che nega alla magistratura italiana e alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni gl'indirizzi degli indagati dell'omicidio del nostro ricercatore. E un sudario di ipocrisia copre questa penosa faccenda. E abbracciamo tutti Claudio e Paola Regeni sopravvissuti alla morte contronatura di un figlio; e faremmo ingoiare gli sgherri di Al Sisi dalla fiamme di centomila inferni.

Detto ciò, come facciamo col gas egiziano? Tenendo conto che le parole d'ordine del governo sarebbero «renderci autonomi dai russi» e «differenziare gli approvvigionamenti» (ma in modo capillare, onde evitare di sostituire al Cremlino un altro fornitore dominante, ché saremmo daccapo), come dovremmo comportarci, noi, col Cairo col quale Draghi tratta per 2/3 miliardi metricubi di forniture di gas?

L'ottimo Enrico Letta ha «moltissimi dubbi». «La vicenda Regeni va oltre la singola vicenda personale drammatica, è un simbolo della necessità di difendere i diritti umani e di fare giustizia. Netta la nostra richiesta al governo di essere molto più forte ed esigente nei confronti degli egiziani», dice. E a lui si accodano i suoi. O i renziani come Massimo Ungaro della Commissione Regeni il quale, giustamente inviperito ci chiede di rivolgersi per l'approvvigionamento energetico «all'Azerbaigian e all'Algeria». Ma l'abbiamo già fatto, in realtà. E con l'Algeria qualcuno a sinistra ha storto il muso sul costo eccessivo del rifornimento.

Mentre sul petrolio dall'Azerbaigian -il nostro primo fornitore- molti hanno sollevato le eccezioni di un paese «poco democratico che stringe accordi con l'Iran» già, peraltro, ufficialmente considerato poco democratico di suo. Insomma l'Eni, chez Draghi, firma col Cairo un accordo quadro che «consente di massimizzare il gas e le esportazioni di Gnl»; e il Pd, nella figura del suo capo, è per la linea dura con la Russia. Ma lo è anche un po' con l'Arabia Saudita, con la Libia, e con tutti quegli Stati che si macchiano di etica incerta. E siamo d'accordo, caro Enrico, anche sul fatto di interrompere il prima possibile la perversa dipendenza energetica con Mosca.

Però, appunto, gli Stati nordafricani non vanno bene. Ci siamo girati un attimo e la Turchia e la Russia stessa ci hanno fregato il controllo del petrolio libico. Potevamo ottenere il gas attraverso il pipeline Eastmed che partiva da Israele e Cipro; e qualcuno ha preferito esser dissuaso da Biden, il quale pretendeva di attivare il russo North Stream 2 (col senno di poi, gli avessimo dato del tutto ascolto, saremmo morti).

E, tra i partiti di governo ce ne fosse uno che insistesse davvero sul tetto al costo del gas e sulla richiesta di trasparenza nell'offerta; magari, lì, ci accorgeremmo che la civile Norvegia ci vende gas a 100 euro al megawattora ma lo produce a 10 euro, e nessuno capisce bene perché.

Per non dire degli anatemi contro chi soltanto si azzarda a discutere di riattivare le trivelle nel Mar Adriatico e nel Mar di Sicilia, un bacino di 350 miliardi metricubi di gas, e ora ne estraiamo solo 4 miliardi (il resto se lo fregano la Croazia e l'Albania). Inoltre c'è la faccenduola del nucleare, a cui si oppongono sinistra e 5 Stelle in blocco solo ad evocarlo, e noi certo qui non ci ripeteremo, pure se comprare l'energia dalla centrali francesi e svizzere ha un che di dadaista. Insomma caro Enrico, detto col cuore in mano: se il nostro fabbisogno dalla Russia è di 29 miliardi di metricubi di gas e se non va bene nulla, dove e come cavolo andiamo a differenziare? Forse, allora, ha ragione Carlo Calenda di Azione quando afferma: «Enrico Letta, vuoi lo stop immediato e totale al gas russo ma non vuoi il gas egiziano perché l'Egitto viola i diritti umani.

Però non vuoi neanche il carbone per sostituire il gas russo, perché inquina. Hai una soluzione o facciamo solo retorica?». E forse non ha torto -anzi senza forse- Stefano Fassina di Leu: «Russia, Egitto, Arabia Saudita, finché non arriviamo all'autosufficienza energetica è davvero complicato rimanere esclusivamente sul terreno etico. Siccome Regeni è italiano l'Egitto no, ma l'Arabia Saudita sì perché Khashoggi è saudita? Quando acquistiamo gas dall'Egitto, non siamo noi che facciamo un favore ad Al Sisi. È lui che lo fa a noi. Se noi non lo compriamo, ha la fila fuori la porta. Ai fini sacrosanti di avere giustizia per Regeni è assolutamente inutile. Dobbiamo trovare canali efficaci».

Canali efficaci, appunto. Quello della cocciuta opposizione a sinistra intesa come un riflesso pavloviano, be', caro Enrico, forse non è la migliore delle risposte...

Filippo Facci per "Libero Quotidiano" il 16 aprile 2022.

Giusto. Il noto criminale egiziano Abdel al-Sisi - condannato in giudicato dal web - fa torturare e uccidere Giulio Regeni e quindi non possiamo, ora, riempirlo di miliardi solo per avere quel gas che rifiutiamo dall'altro noto criminale a capo della Russia. È una questione di decenza, non c'entra la realpolitik. Dev' esserci un limite, e questo limite sono i diritti umani. È di questo, di diritti umani, che Mario Draghi è andato a discutere l'11 aprile scorso in Algeria: non di gas.

Dalla nazione più grande del Nordafrica, pare, potrà passare una fornitura di miliardi di metri cubi l'anno di metano, e pazienza se il nostro premier non ha potuto discutere anche con Faleh Hannoudi, che è proprio il presidente della sezione locale della Lega per i diritti umani: gli algerini infatti l'hanno arrestato il 20 febbraio e condannato a tre annidi carcere per un reato gravissimo, cioè un'intervista che aveva rilasciato al canale televisivo Al Maghibiya. È un peccato che lui non sia divenuto un'icona come Giulio Regeni, o che semplicemente non sia italiano. Mario Draghi però non sa che cosa rischia, comportandosi così: è probabile che l'inverno prossimo, il gas algerino, gli italiani non lo vorranno. 

Gli italiani, a loro volta, non sanno che la mancata qualificazione della nazionale al Mondiali di calcio, in realtà, è dovuta al mancato rispetto del Qatar per i diritti umani.

E' una nazione in cui i diritti dei lavoratori migranti, impegnati proprio nella costruzione delle infrastrutture e degli impianti sportivi, sono stati orribilmente vilipesi con violenze e sfruttamento. 

È una nazione che da anni sostiene ufficiosamente anche i gruppi islamici radicali in tutto il mondo (anche se il loro governo non lo ammette) e insomma, lo sanno tutti che il Qatar sostiene gruppi islamisti anche in Siria, Iraq, Libia e Afghanistan, quindi mica potevamo andarci, anche perché peraltro ci saremmo trovati a giocare il campionato del Mondo con la nazionale dell'Iran, altro stato che di recente, per dire, ha tenuto le sue donne tifose fuori dallo stadio e ha usato lo spray urticante. Si era addirittura letto che la Fifa voleva prendere dei provvedimenti, e che la nazionale iraniana avrebbe potuto essere squalificata e la nostra nazionale di conseguenza ripescata, ma è una cosa che non va fraintesa: le residue speranze dei tifosi italiani erano votate solo al rispetto dei diritti umani in Iran, erano tutti indignati, cioè, per i 2.000 biglietti messi a disposizione delle donne iraniane alle quali è stato impedito di entrare allo stadio. Non c'entra lo sport, così come in generale, parlando di Egitto, non c'entra il gas per alimentare i termosifoni o banalità del genere.

L'ETICA PRIMA DI TUTTO Allo stesso modo non si può credere che il premier Mario Draghi sia passato e passerà dalla Repubblica del Congo e dall'Angola se non per mettere pressione sul rispetto dei citati diritti umani, che in quest' ultime nazioni, a loro volta, è vagamente inesistente. Non si può crederlo, perché sarebbe come pensare che l'indignazione per le violazioni dei diritti umani di Vladimir Putin riesca meglio rimanendo al caldo piuttosto che al freddo, e che allora si passi, banalmente, dall'appoggiare alcune violazioni al posto di altre.

Sarebbe puerile.

Ci sono dei limiti che non possono essere superati: l'Arabia, per esempio, di recente ha scoperto nuovi giacimenti di gas naturale al centro del Paese e nella parte orientale (l'ha riferito la Saudi Press citando il ministro dell'Energia) ma all'Occidente questo non interessa, così come - è noto anche questo - non è mai interessato a nessuno il petrolio arabo: in Occidente sono tutti troppo indignati per l'assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, quello che era entrato nel consolato dell'Arabia Saudita di Istanbul - ricorderete - e che da allora risulta scomparso.

È accaduto in un contesto dove il governo saudita (chiamiamolo governo) continua a reprimere il dissenso con arresti e processi iniqui che spesso terminano con lunghe condanne o con la pena di morte: per questo a nessuno ha mai acquistato il loro petrolio, e tantomeno, ora, potrebbe interessare il loro gas. Il pensiero fisso degli europei e degli italiani non è il gelo invernale: è Jamal Khashoggi. Esiste un'etica, a questo mondo. Non si tratta con l'Egitto del caso Regeni. Sarebbe come, per dirne un'altra, lasciare che il dittatore Recep Erdogan funga da mediatore dell'Occidente con Putin, e che si utilizzi un suo canale di dialogo con Mosca e con l'Ucraina: è impensabile. Non potrebbe mai accadere, e se vi hanno detto che sia avvenuto non dovete crederci.

Non è vero che la mediazione turca abbia portato i ministri degli Esteri di Russia e Ucraina a incontrarsi ad Antalya lo scorso 10 marzo: perché la Turchia non rispetta i diritti umani, e l'Occidente (e Amnesty International, il Pd, e tantissimi italiani) non sono disposti a passarci sopra, pensano a questo e non altro. Pensano al fatto che Erdogan ha incarcerato politici dell'opposizione, giornalisti e difensori dei diritti, pensano alle sue discriminazioni degli omosessuali, alle accuse di tortura e maltrattamenti. Il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha notificato alla Turchia l'intenzione di avviare un procedimento per gravi infrazioni: come potrebbe, il presidente-sultano di uno Stato del genere, fungere da mediatore tra Ucraina e Russia?

Suvvia. Sarebbe come ospitare al centro di Roma una monarchia assoluta guidata da soli uomini, uno staterello in cui la nostra vita apparterrebbe a un dio o allo Stato, come nelle teocrazie islamiche o come nella vecchia Unione Sovietica. Non si scherza sui diritti umani. Per questo non commerciamo con la Cina o le lasciamo organizzare, chessò, le Olimpiadi. Sono i diritti umani a governare il mondo, la gente non pensa ad altro. 

Alessandro Barbera per “La Stampa” il 16 aprile 2022.  

«Il decreto firmato da Vladimir Putin sulle modalità di pagamento in rubli porterà a una violazione delle sanzioni adottate dall'Unione europea». Il gioco delle parti fra Bruxelles e Mosca sulle forniture di gas russo sta assumendo i contorni di una tragica farsa. Ieri i servizi giuridici della Commissione hanno formalizzato una decisione annunciata più volte. A meno di una retromarcia da parte dello Zar, la prossima riunione dei capi di Stato europei - a fine maggio - dovrebbe sancire lo stop all'importazione del metano russo. Non è però chiaro se la scadenza fissata ai primi del mese da parte del Cremlino verrà rispettata. Sempre ieri, nelle ore in cui la Commissione faceva filtrare il proprio orientamento, il portavoce di Putin Dimitri Peskov rilasciava una dichiarazione criptica. 

«Per l'ampliamento dei pagamenti in rubli al momento non ci sono scadenze», senza chiarire se si riferisse a petrolio e carbone, o anche al gas. Una cosa è certa: a meno di uno stop improvviso alla guerra, con il passare dei giorni le probabilità che lo stop si realizzi davvero aumentano.

Il mandato di Mario Draghi al ministro Roberto Cingolani è di prepararsi entro l'autunno, ma in un settore come quello energetico significa domani. Per capirlo basta un dettaglio: dal primo aprile sono iniziate le aste dei nuovi stoccaggi, e due sono andate deserte. I prezzi sono troppo alti, dunque chi avrebbe interesse ad acquistare teme di farlo a prezzi molto più alti di quelli futuri. Per metterci una pezza, il governo ha dovuto introdurre incentivi, ma il livello delle nuove scorte è ancora al sette per cento. 

Sostituire un terzo del fabbisogno di gas - circa trenta miliardi di metri cubi l'anno - non è semplice. L'accordo firmato da Draghi ad Algeri a inizio settimana vale un terzo di quel fabbisogno, ma nessun altro singolo fornitore sarà in grado di offrire altrettanto. Occorrono una somma di forniture minori, dall'Azerbaijan all'Africa. Alcuni di questi possono però essere forieri di problemi politici per la maggioranza. L'aumento delle importazioni dall'Egitto, ad esempio, oggetto delle proteste del Pd per via del caso Regeni.

O la necessità di derogare agli impegni del Green deal europeo. Durante l'ultima riunione a Palazzo Chigi, presenti Cingolani, il capo dei servizi segreti Franco Gabrielli e il numero uno di Enel Francesco Starace si è discusso della possibilità di far ripartire singole unità di centrali a carbone dismesse più o meno di recente. L'Enel ne ha a Brindisi, Venezia, nel Sulcis e a Civitavecchia. Secondo le stime di Nomisma Energia, entro il prossimo inverno la produzione di energia elettrica da carbone potrebbe essere raddoppiata, e così rinunciare a tre miliardi di metri cubi di gas, un decimo delle forniture russe.

Starace ha dato la sua disponibilità a procedere, Cingolani non ne vuole sapere. «Finché non sarà necessario, non sarò io a farmi carico di una decisione che ci metterebbe contro tutto il mondo ambientalista», ha detto il ministro durante la riunione. Stessa cosa dicasi per il vecchio investimento - mai decollato - di un rigassificatore a Porto Empedocle, in Sicilia, grazie al quale ritrasformare il prodotto liquefatto in arrivo via nave da Angola e Congo, dove Draghi andrà in visita dopo Pasqua proprio con l'obiettivo di aumentare l'importazione.

Pochi giorni fa - era il 5 aprile - Starace ha detto di essere pronto a investire un miliardo di euro. Il progetto è bloccato da sette anni per via di lungaggini amministrative e l'opposizione feroce dei comitati ambientalisti. Anche su quest' ultimo progetto Cingolani ha espresso dubbi. «I tempi sono lunghi e i rischi alti. Meglio puntare sui rigassificatori galleggianti». Cingolani ha dato mandato a Snam di acquistarne due, e quello per lui resta l'obiettivo prioritario.

Marcello Sorgi per "La Stampa" il 16 aprile 2022.

Il caso Egitto - o meglio l'incrocio dell'accordo per l'aumento delle forniture di gas con il Paese con cui siamo il conflitto per l'ostruzionismo al processo Regeni - ha rivelato solo in parte le difficoltà di mettere a punto un nuovo piano di approvvigionamento energetico alternativo a quello basato fin qui sulla Russia. Ci sono infatti difficoltà diplomatiche, legate al fatto che i regimi a cui si va a chiedere aiuto (Algeria, Azerbaigian, eccetera) non sono proprio democratici. 

Ci sono difficoltà logistiche, legate ad esempio alla collocazione di nuovi rigassificatori che servono per la trasformazione del gas liquido, ma che naturalmente non verrebbero accettati a braccia aperte dagli abitanti dei luoghi destinati agli impianti. Per non dire della riapertura delle centrali elettriche a carbone, la cui chiusura era stata salutata come un passo avanti, oltre che per la riduzione dell'inquinamento atmosferico, sulla strada della civiltà. Esiste insomma il rischio di una moltiplicazione in serie di problemi come l'Ilva di Taranto. 

C'è poi un problema di adattamento della gente al dilemma posto efficacemente da Draghi, «pace o condizionatori», nel senso che già dalla prossima estate l'uso contingentato dell'aria condizionata e dal prossimo inverno quello del riscaldamento potrebbero creare reazioni inaspettate, anche se i primi sondaggi dicono che emerge una certa disponibilità dei cittadini. E c'è una questione ambientale che va montando, con una vittima, politicamente parlando, designata: il ministro della Transizione ecologica Cingolani, che si trova a gestire un percorso opposto a quello per cui era stato nominato.

Politicamente, a giudicare dalle prime reazioni, l'ambiente rischia di trasformarsi per il Pd e la sinistra e i 5 Stelle ciò che il fisco è stato per il centrodestra. Non è solo il caso Regeni che preme al portone del Nazareno: per Letta (ma anche per Conte) è inaccettabile che un tema a cui gli elettori di centrosinistra e grillini sono ultrasensibili venga sacrificato sull'altare di uno stato di necessità.

Cara Boldrini, il gas di Putin non è più etico di quello di al-Sisi. Se non prendiamo gas dall'Egitto, saremo costretti a continuare a staccare assegni a favore di Mosca. E non è chiaro perché la vita di migliaia di ucraini debba valere meno di quella del povero Regeni. Davide Varì su Il Dubbio il 15 aprile 2022.

La nuova campagna della sinistra anti-atlantista, putinista, antioccidentale, pacifista, papista, (ognuno scelga la sua), ora muove contro la scelta italiana di prendere il gas dall’Egitto. «È come passare dalla padella alla brace», ha detto Boldrini, ricordando che Al Sisi è lo stesso che protegge gli agenti accusati dell’omicidio di Giulio Regeni.

In effetti non è chiaro perché la vita di migliaia di ucraini debba valere meno di quella del povero Regeni. E sì perché una cosa deve essere chiara: se non prendiamo gas dall’Egitto, saremo costretti a continuare a staccare assegni a favore di Mosca finanziando la sua guerra. Ma evidentemente, per Boldrini e gli altri, il gas russo deve avere qualcosa di decisamente più etico. La verità è che gran parte dei paesi che controllano le fonti di energie sono dittature – e non è certo un caso. Ma cara onorevole Boldrini, continuare a prendere il gas di Putin non ci assolve di certo…

Gas, un ginepraio tra dittatori e rinnovabili. Obiettivo: fare presto. Quello dell'energia è un rebus e fingere che sia semplice risolverlo non aiuterà a uscire dalla crisi attuale. Paolo Delgado su Il Dubbio il 16 aprile 2022.

Si fa presto a dire che del gas russo potremo fare a meno in tempi se non proprio rapidissimi quanto meno non biblici. La corsa al gas è appena cominciata e già si avvertono chiari i segnali di quali e quanti problemi si creeranno senza il pur minimo dubbio. Va detto che l’Eni non poteva scegliere giorno peggiore per bussare alle porte egiziane di casa al- Sisi proprio mentre l’Egitto chiariva per l’ennesima volta di non voler chiarire in alcun modo le circostanze e le responsabilità nell’assassinio di Giulio Regeni. Ma anche senza quell’inconcepibile coincidenza le cosa sarebbero cambiate di poco. Per uscire dalla dipendenza energetica di un dittatore di cui si denunciano con strepiti indignati le nefandezze antidemocratiche bisogna rivolgersi a figuri della stessa risma, altrettanto alieni da ingombranti pastoie democratiche, non meno pronti del russo a far valere la propria vantaggiosa posizione per ricattare e tacitare eventuali proteste.

Con l’Algeria, Paese dal quale già riceviamo una quota decisiva del gas non russo che alimenta non solo i condizionatori ma anche le italiche aziende, il problema è diverso ma non meno spinoso. Proprio perché già eroga in copiosa dose, l’Algeria fatica a pompare dosi ancora maggiori di gas senza ledere gli interessi fraterni degli altri Paesi Ue che da quella fonte si abbeverano, la Spagna e il Portogallo. Una soluzione per la verità ci sarebbe ma non se ne vedono i vantaggi. L’Algeria può sempre rifornirsi dalla solita Russia e poi rivendere. Non sarebbe salva neppure la faccia, ma il portafogli starebbe messo peggio perché con un passaggio in più inevitabilmente pagheremmo lo stesso gas russo a prezzi maggiorati. Sulla Libia meglio glissare. Grazie alla guerra contro Gheddafi, ma anche contro l’Italia, alla quale l’Italia stessa ha partecipato seguendo una logica puramente autolesionista, quel Paese è in mano a signori della guerra al confronto dei quali i dittatori figurano come modelli di affidabilità.

Lo zio Sam ci dà una mano col suo gas liquido. Però non ce la dà gratis e il prezzo, anzi lievita. Però a quel prezzo bisogna aggiungere quelli, non tutti quantificabili in moneta, dei rigassificatori: costano molto, inquinano anche di più e tutto per una qualità di gas tra le peggiori. L’autarchia ha il suo fascino ma anche qui, oltre alle ovvie difficoltà, il conto è salato. È vero che negli ultimi anni l’Italia ha fatto sempre meno ricorso alle proprie peraltro esigue fonti ma lo ha fatto perché contro le trivellazioni si è mobilitato, non senza ottimi argomenti, un combattivo e nutrito fronte ecologista. Tanto che neppure nelle drammatiche circostanze attuali è parso opportuno ricominciare a trivellare acque salate a destra e a manca. Qualcosina si potrà fare rispolverando il carbone, sempre che gli impianti fermi da un bel pezzo non si rivelino catorci inutilizzabili. Però insistere, come è giusto e inevitabile fare, sulla riduzione drastica delle emissioni e allo stesso tempo annerirsi di nuovo le mani col carbone appare un bel po’ contraddittorio.

La parola magica, che in effetti Draghi non manca di adoperare in ogni dove, è “rinnovabili”: pulite, indipendenti, eticamente adamantine. Però riconvertire in tempi brevi non è difficile bensì impossibile e anche solo accelerare drasticamente non sarà affatto una corsa in discesa. Per centrare l’obiettivo sarebbe necessaria una vera rivoluzione nelle abitudini e negli stili di vita, e su quanto il popolo sia pronto e disponibile a rivedere tutta la propria way of life ogni dubbio è lecito. Peraltro si tratterà di un grosso affare e il bivio già si profila nitido: per evitare che a gestirlo e ingrassarcisi sia la criminalità ci vorrebbero controlli stringenti, che però rallenterebbero tutto proprio quando la parola d’ordine è invece fare presto.

Va da sé che come sempre nei dilemmi ognuna di queste contrastanti e tutte fondate esigenze diventa o può diventare bandiera di qualche forza politica, a maggior ragione con l’avvicinarsi delle elezioni. Quello dell’energia è un rebus e fingere che sia semplice risolverlo non aiuterà. Come non aiuta le accuse che sono risuonate nell’ultimo mese contro i “colpevoli” di aver troppo puntato sul gas russo. Come se a motivare quella scelta fosse stata una sorta di miope pigrizia e non, invece, il semplice fatto che il gas russo era effettivamente di estrema utilità.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2022.

Potrebbe passare da una rogatoria negli Usa la ricerca dei recapiti dei quattro funzionari della National Security egiziana accusati del sequestro di Giulio Regeni, necessaria ad avviare il processo a loro carico. 

Scavando «negli ambiti social ipoteticamente associabili agli imputati» infatti, attraverso «una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale da indirizzare alle competenti autorità degli Stati Uniti d'America» sarebbe forse possibile risalire alle «informazioni anagrafiche e ai log files associati agli account di interesse » sui profili Facebook o Instagram utilizzati da alcuni di loro. 

È un ulteriore, difficile tentativo suggerito dai carabinieri del Ros alla magistratura italiana, che comunque potrebbe andare a scontrarsi col muro egiziano: «Ottenute le informazioni anagrafiche e i log files , nel caso le stesse non fossero di per sé sufficienti a consentire l'indivudazione del domicilio/residenza degli imputati, occorrerebbe interessate le autorità della Repubblica Araba d'Egitto, con l'obiettivo di ottenere l'assoczione degli IP (nella data/ora di interesse) alle utenze telefoniche, e quindi queste ultime al loro intestatario».

Ma che dal Cairo arrivino gli indirizzi da abbinare ai quattro nomi. 

È ormai impensabile; l'ultima comunicazione giunta dal governo è che la magistratura locale ha valutato «illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici» le conclusioni dei giudici di Roma, pronunciando una archiviazione a loro dire irrevocabile. Quindi, niente recapiti. 

Ma il giudice dell'udienza preliminare Roberto Ranazzi ha chiesto di provarle tutte, e i carabinieri si sono messi a caccia.

L'informativa depositata agli atti del processo nuovamente sospeso riassume i complicati accertamenti svolti dal Reparto indagini telematiche del Ros per risalire ai luoghi dove poter comunicare il rinvio a giudizio e la fissazione del dibattimento. 

L'eventualità di rivolgersi agli Stati Uniti presenta a sua volta delle difficoltà, ma secondo gli investigatori dell'Arma sarebbe in teoria percorribile. 

Altre vie battute attraverso banche-dati o altri strumenti di cooperazione internazionale hanno dato «esito negativo», mentre un risultato «parzialmente positivo» è stato raggiunto con la ricerca dei luoghi di lavoro. 

E lì che l'Avvocatura dello Stato, che nel processo Regeni rappresenta il governo italiano, propone di notificare le comunicazioni dei rinvii a giudizio, ma per la stessa Procura di Roma sarebbe una forzatura del codice che non consentirebbe di superare l'ostacolo.

Il più alto in grado, il generale Sabir Tariq, «sarebbe attualmente in servizio presso il Dipartimento degli Affari civili del ministero dell'Interno, con l'incarico di un progetto relativo alle carte d'indentità dei cittadini egiziani», e da «fonti aperte» è stato recuperato l'indirizzo di questo ufficio: c'è il nome di una strada, nel Distretto di El Weili, Governatorato del Cairo. 

Il colonnello Helmy Uhsam sarebbe invece impiegato presso l'ente che si occupa di passaporti e immigrazione, e l'Amministrazione generale corrispondente avrebbe sede presso un numero civico di un'altra via, sempre a «El Weili, Governatorato del Cairo».

Il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif - l'unico accusato anche delle torture e dell'omicidio, sulla base delle testimonianze raccolte dagli inquirenti italiani - «potrebbe essere ancora in servizio perso la Direzione della Sicurezza Nazionale», di cui i carabinieri non hanno individuato una sede. 

Ma potrebbe trovarsi presso il ministero dell'Interno, di cui è indicato l'indirizzo a Nuova Cairo 1. 

Di uno degli imputati, il colonnello Uhsam, è stato recuperato un possibile recapito di posta elettronica. 

Ma per lui, come per il maggiore Sharif e il quarto imputato di cui non si è riusciti a risalire ad alcun ipotetico indirizzo nemmeno del luogo di lavoro - il colonnello Mohamed Ibrhaim Athar Kamel - sono stati individuati alcuni probabili profili Facebook e Instagram.

In attesa di capire se sarà possibile imboccare l'impervia e comunque incerta strada della rogatoria negli Usa, da lì i carabinieri hanno estratto alcune foto attribuite a tre dei quattro imputati per il rapimento e la morte di Giulio Regeni: i volti degli uomini che l'Egitto ha ormai dichiarato di voler sottrarre alla giustizia italiana.

Giulio Regeni, nuovo stop del Cairo al processo: per l’Egitto gli 007 sono innocenti. Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.

Impossibile notificare gli atti agli imputati individuati dalla Procura di Roma quali responsabili dell’omicidio. La famiglia di Giulio Regeni: «Una presa in giro, intervenga Draghi».

Per l’Egitto il procedimento contro i quattro ufficiali della National Security accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni è già in archivio, e non si può riaprire. Caso chiuso. Per questo le autorità del Cairo non hanno risposto (e non risponderanno) alle richieste italiane di conoscere i loro indirizzi, necessari per notificare gli atti e poterli processare davanti alla Corte d’Assise di Roma. La Procura generale della Repubblica araba ha già valutato le imputazioni e le prove a loro carico, e li considera innocenti. Dunque l’assistenza giudiziaria sollecitata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, pronta a un incontro con il suo omologo egiziano, non ha avuto (e non avrà) alcun esito.

La lettera

A questa amara conclusione è giunto l’ultimo tentativo del giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi, dopo la lettera ricevuta dal capo del Dipartimento degli affari di giustizia del ministero di via Arenula, Nicola Russo: cinque pagine di risposta alla richiesta di farsi parte attiva con il governo del Cairo per cercare di sbloccare la situazione a livello politico, e capire se ci siano possibilità di cooperazione. Il risultato è che, al momento, non ce ne sono. Il giudice ha rinviato l’udienza di altri 6 mesi, al 10 ottobre, mentre la famiglia di Giulio chiede che la pressione politica salga di livello.

L’indignazione della famiglia

«Siamo indignati dalla risposta della Procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto», commenta l’avvocata Alessandra Ballerini, che assiste i genitori e la sorella di Giulio. «Chiediamo che il presidente Draghi, condividendo la nostra indignazione, pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati. Oggi è stata un’ennesima presa in giro». Il capo del Governo valuterà il da farsi, ma la replica egiziana alle mosse della ministra della Giustizia non lascia presagire nulla di costruttivo. «La condizione fermamente posta dalla ministra Cartabia per recarsi al Cairo e interloquire con il suo omologo Omar Marwan — scrive Russo — è che nel corso dell’incontro si affronti il caso Regeni. Ad oggi, nonostante i ripetuti passi svolti dal nostro ambasciatore al Cairo, il ministro della Giustizia egiziano non ha ancora fornito un riscontro alla lettera della ministra Cartabia».

La competenza

La missiva era partita da Roma il 20 gennaio. Difficile quindi che sul piano politico possano esserci passi avanti. A livello tecnico, invece, un dialogo c’è stato. Una delegazione guidata proprio da Russo è andata al Cairo un mese fa, ma s’è sentita dire che in assenza di accordi bilaterali tra i governi, la cooperazione giudiziaria internazionale è competenza esclusiva della Procura generale. I carabinieri del Ros hanno recuperato i recapiti di lavoro degli imputati e l’Avvocatura dello Stato, parte civile per conto del governo, propone di notificare lì gli atti. Ma sarebbe una forzatura del codice italiano. E proprio dalla Procura generale egiziana arriva la novità che potrebbe rappresentare lo sbarramento definitivo alla possibilità di andare avanti con il processo.

Le prove raccolte dalla Procura di Roma

L’ufficio giudiziario del Cairo ha infatti esaminato le prove raccolte dal procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco (con la collaborazione del Ros e del Servizio centrale operativo della polizia) a carico del generale Sabir Tariq, dei colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmi Uhsam, e del maggiore Magdi Ibrahim Sherif (accusato anche delle torture e dell’omicidio). Arrivando a un loro sostanziale proscioglimento.

Il memorandum

In un memorandum consegnato all’Italia il 26 dicembre 2020, è scritto che «il quadro probatorio avanzato dalle autorità italiane è poco solido e contrario ai meccanismi della cooperazione giudiziaria internazionale, il che spinge la Procura generale a ritenere che le autorità italiane si siano sviate dalla verità, ed esclude tutti i sospetti nei confronti degli indagati». Quel provvedimento, comunica il ministero italiano al giudice Ranazzi, secondo l’Egitto «ha natura decisoria irrevocabile, non più suscettibile di impugnazione e preclude la riapertura di un procedimento nei confronti degli stessi soggetti». Di conseguenza, «l’assistenza giudiziaria sarebbe preclusa dal principio del ne bis in idem (non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto, ndr) sancito dall’ordinamento interno egiziano e dalle Convenzioni internazionali». In pratica un’assoluzione definitiva senza che si sia celebrato il processo. Utilizzata dall’Egitto per impedire lo svolgimento di un regolare giudizio in Italia. Che resta sospeso, in attesa di una soluzione che non si trova.

Caso Regeni, caccia agli 007 egiziani che torturarono il ricercatore: «Rogatoria negli Usa sui profili social per rintracciarli». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.  

La pista suggerita dal Ros per risalire al domicilio. Grazie agli accertamenti telematici ora hanno un volto.

Potrebbe passare da una rogatoria negli Usa la ricerca dei recapiti dei quattro funzionari della National Security egiziana accusati del sequestro di Giulio Regeni, necessaria ad avviare il processo a loro carico. Scavando «negli ambiti social ipoteticamente associabili agli imputati» infatti, attraverso «una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale da indirizzare alle competenti autorità degli Stati Uniti d’America» sarebbe forse possibile risalire alle «informazioni anagrafiche e ai log files associati agli account di interesse » sui profili Facebook o Instagram utilizzati da alcuni di loro.

È un ulteriore, difficile tentativo suggerito dai carabinieri del Ros alla magistratura italiana, che comunque potrebbe andare a scontrarsi col muro egiziano: «Ottenute le informazioni anagrafiche e i log files, nel caso le stesse non fossero di per sé sufficienti a consentire l’indivudazione del domicilio/residenza degli imputati, occorrerebbe interessate le autorità della Repubblica Araba d’Egitto, con l’obiettivo di ottenere l’assoczione degli IP (nella data/ora di interesse) alle utenze telefoniche, e quindi queste ultime al loro intestatario». Ma che dal Cairo arrivino gli indirizzi da abbinare ai quattro nomi. È ormai impensabile; l’ultima comunicazione giunta dal governo è che la magistratura locale ha valutato «illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici» le conclusioni dei giudici di Roma, pronunciando una archiviazione a loro dire irrevocabile. Quindi, niente recapiti.

Ma il giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi ha chiesto di provarle tutte, e i carabinieri si sono messi a caccia. L’informativa depositata agli atti del processo nuovamente sospeso riassume i complicati accertamenti svolti dal Reparto indagini telematiche del Ros per risalire ai luoghi dove poter comunicare il rinvio a giudizio e la fissazione del dibattimento. L’eventualità di rivolgersi agli Stati Uniti presenta a sua volta delle difficoltà, ma secondo gli investigatori dell’Arma sarebbe in teoria percorribile. Altre vie battute attraverso banche-dati o altri strumenti di cooperazione internazionale hanno dato «esito negativo», mentre un risultato «parzialmente positivo» è stato raggiunto con la ricerca dei luoghi di lavoro. E lì che l’Avvocatura dello Stato, che nel processo Regeni rappresenta il governo italiano, propone di notificare le comunicazioni dei rinvii a giudizio, ma per la stessa Procura di Roma sarebbe una forzatura del codice che non consentirebbe di superare l’ostacolo.

Il più alto in grado, il generale Sabir Tariq, «sarebbe attualmente in servizio presso il Dipartimento degli Affari civili del ministero dell’Interno, con l’incarico di un progetto relativo alle carte d’indentità dei cittadini egiziani», e da «fonti aperte» è stato recuperato l’indirizzo di questo ufficio: c’è il nome di una strada, nel Distretto di El Weili, Governatorato del Cairo. Il colonnello Helmy Uhsam sarebbe invece impiegato presso l’ente che si occupa di passaporti e immigrazione, e l’Amministrazione generale corrispondente avrebbe sede presso un numero civico di un’altra via, sempre a «El Weili, Governatorato del Cairo».

Il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif — l’unico accusato anche delle torture e dell’omicidio, sulla base delle testimonianze raccolte dagli inquirenti italiani — «potrebbe essere ancora in servizio perso la Direzione della Sicurezza Nazionale», di cui i carabinieri non hanno individuato una sede. Ma potrebbe trovarsi presso il ministero dell’Interno, di cui è indicato l’indirizzo a Nuova Cairo 1.

Di uno degli imputati, il colonnello Uhsam, è stato recuperato un possibile recapito di posta elettronica. Ma per lui, come per il maggiore Sharif e il quarto imputato di cui non si è riusciti a risalire ad alcun ipotetico indirizzo nemmeno del luogo di lavoro — il colonnello Mohamed Ibrhaim Athar Kamel — sono stati individuati alcuni probabili profili Facebook e Instagram. In attesa di capire se sarà possibile imboccare l’impervia e comunque incerta strada della rogatoria negli Usa, da lì i carabinieri hanno estratto alcune foto attribuite a tre dei quattro imputati per il rapimento e la morte di Giulio Regeni: i volti degli uomini che l’Egitto ha ormai dichiarato di voler sottrarre alla giustizia italiana.

NUOVA UDIENZA IL 10 OTTOBRE. Carte mancanti, affari e nessuna collaborazione. Il caso Regeni resta fermo. LAURA CAPPON su Il Domani l'11 aprile 2022

È stata fissata al 10 ottobre la nuova udienza del gup sull’omicidio di Giulio Regeni. Il giudice ha sospeso il procedimento perché mancano ancora gli indirizzi dei quattro agenti della National Security accusati del rapimento e dell’uccisione del giovane ricercatore.

La ministra Marta Cartabia aveva promesso ai genitori di Giulio Regeni che si sarebbe recata al Cairo per ottenere gli indirizzi dei quattro agenti. Ma la richiesta, inoltrata il 20 gennaio alle autorità egiziane, non ha mai ricevuto risposta.

Il 15 marzo, al posto della Cartabia, a volare al Cairo è stato il direttore della cooperazione giudiziaria italiana. In quell’occasione le autorità egiziane hanno ribadito che la la procura generale considera chiuso il caso.

LAURA CAPPON. Giornalista, nel 2011 si trasferisce in Egitto per seguire gli anni del post rivoluzione egiziano. Ha lavorato per Rai 3, Skytg 24, Il Fatto Quotidiano, Al Jazeera English, The New Arab e Radio Popolare. Nel 2013 ha vinto il premio l'Isola che c'è per la copertura del colpo di stato egiziano e nel 2017 il premio "Inviata di Pace "del Forum delle giornaliste del Mediterraneo per i suoi articoli sulla morte di Giulio Regeni. È inviata per Mezz'ora in più, su Rai 3.

Caso Regeni, il gup dispone la sospensione del processo. L’Egitto non collabora. Il Domani l'11 aprile 2022.

Mancano ancora gli indirizzi degli imputati, e non è possibile notificare loro gli atti. I carabinieri del Ros dovranno fare nuove ricerche. La prossima udienza è stata fissata per il 10 ottobre. Il legale dei genitori ha chiesto che Draghi intervenga

Il giudice per l’udienza preliminare di Roma, Roberto Ranazzi, ha disposto la sospensione del procedimento a carico dei quattro agenti dei Servizi segreti egiziani, accusati per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Mancano gli indirizzi di domicilio degli imputati, e senza i recapiti non è possibile dar luogo alla notifica degli atti giudiziari. L’Egitto non collabora. Ora proseguiranno le indagini del Ros, mentre la nuova udienza, per valutare eventuali sviluppi, è stata fissata per il 10 ottobre prossimo. 

SOSPENSIONE DEL PROCESSO

La decisione del gup è arrivata  dopo le comunicazioni del ministero di Giustizia e dei carabinieri del Ros, che hanno confermato la già nota indisponibilità dell’Egitto a qualsiasi forma di collaborazione con l’Italia in merito al caso Regeni.

A gennaio, il giudice aveva chiesto al governo di verificare la possibilità di una effettiva collaborazione con le autorità egiziane. Ma il ministero ha ribadito «il rifiuto dell’Egitto di collaborare nell’attività di notifica degli atti», cui si è aggiunto il rifiuto da parte del Cairo a un incontro tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il suo omologo egiziano.

Il direttore della cooperazione giudiziaria italiana ha fatto sapere che le autorità egiziane, che ha incontrato al Cairo, hanno evidenziato come, sul caso Regeni, la competenza sia della procura generale, per la quale comunque l'indagine è chiusa perché non sarebbe possibile effettuare ulteriori verifiche sui quattro indagati.

All’indisponibilità egiziana non hanno fatto da contrappeso i risultati delle indagini, condotte nel frattempo dai carabinieri del Ros. Le loro ricerche hanno portato solo all’indirizzo dei luoghi di lavoro, non anche a quello dei domicili. E, secondo il codice di procedura internazionale, l’indirizzo lavorativo non può essere utilizzato per le notifiche in sede processuale. 

Il rifiuto di collaborare da parte dell'Egitto, ha detto il gup, «è un dato di fatto» e «sono del tutto pretestuose le argomentazioni proposte delle autorità egiziane». Alla prossima udienza del 10 ottobre sarà sentito il direttore generale del ministero della Giustizia, Nicola Russo, sugli eventuali sviluppi.

IL SIT-IN AL TRIBUNALE

In mattinata, davanti al tribunale di Roma, dove stava per svolgersi l’udienza preliminare, i genitori di Giulio Regeni, Claudio Regeni e Paola Deffendi, con la legale Alessandra Ballerini, hanno mostrato lo striscione giallo con la scritta «Verità per Giulio Regeni», dando luogo a un sit-in. Al presidio hanno partecipato anche il presidente della Federazione della stampa italiana (Fnsi) e degli attivisti, anche egiziani. i.

«Siamo qui per dire che non smetteremo mai di reclamare verità e giustizia», ha detto Giuseppe Giulietti, presidente Fnsi che ha partecipato al presidio. «Chiederemo che ci sia un’interruzione dei rapporti con l'Egitto, qualora dovesse perseguire una politica di omissione e di cancellazione delle prove».

Anche il presentatore tv Flavio Insinna ha preso parte al sit-in, e alla domanda dei giornalisti sul perché fosse lì ha risposto: «Perché sono qui? La domanda è da porre al contrario. Perché non esserci? Bisogna esserci. Come ha detto la mamma di Giulio su quel viso ha visto tutto il dolore del mondo, non dobbiamo darci pace fino a quando non si arriverà alla verità. Lo dobbiamo alla famiglia, alla parte buona di questo paese. Voglio vivere in un paese, come dice il papa, che ritrovi un senso di fraternità, dove il tuo dolore diventa il mio. Questa famiglia sta facendo un’opera straordinaria con una compostezza unica al mondo. Dal primo minuto mi sono legato a questa storia. Mi interessa che ci sia la volontà politica di andare avanti, spero che l'alta politica faccia il bene delle persone che amministra. A questa famiglia l’alta politica deve dare la verità».

IL PROCESSO

L’udienza preliminare che si è svolta oggi, davanti al gup, è la seconda dopo quella dello scorso gennaio. A  ottobre del 2021, il processo contro i quattro 007 era stato sospeso al termine della prima udienza, nell’aula bunker di Rebibbia, per decisione dei giudici della Corte d’Assise, che avevano stabilito che il gup si pronunciasse sulla questione della notifica delle accuse agli imputati. I legali della difesa avevano sollevato la questione della non conoscenza, da parte dei quattro imputati, di quanto veniva loro imputato a Roma.

 A gennaio poi il gup aveva stabilito che i carabinieri del Ros disponessero di altro tempo per verificare i luoghi di residenza e di lavoro dei quattro agenti presunti torturatori e omicidi in modo tale da notificare loro l’avvio del processo e sollecitato un intervento da parte del ministero di Giustizia. 

L’OMICIDIO

Giulio Regeni venne rapito la sera del 25 gennaio 2016 e il suo corpo martoriato fu trovato nove giorni dopo, lungo la strada che collega Alessandria a Il Cairo. La procura di Roma, in seguito a quanto raccolto finora, ritine che il ricercatore dell’Università di Cambridge sia stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia alla National Security dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, con il quale era entrato in contatto per i suoi studi.

Gli agenti egiziani coinvolti nel procedimento sono Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono tutti accusati di sequestro di persona, mentre Abdelal Sharif risponde anche di lesioni e concorso nell’omicidio.

Caso Regeni, processo sospeso: «L’Egitto non collabora». Il gup di Roma dispone nuove ricerche e rinvia il processo a carico degli 007 egiziani al 10 ottobre dopo la nota di Via Arenula che riferisce di una chiusura netta da parte del Cairo. La legale della famiglia Regeni: «L'Egitto si beffa di noi, intervenga Draghi». Il Dubbio l'11 aprile 2022.

Sospensione del procedimento a carico di quattro 007 egiziani accusati di avere sequestrato, torturato ed ucciso Giulio Regeni. È quanto disposto dal gup di Roma dopo le comunicazioni arrivate sia dal ministero della Giustizia, sia dai carabinieri del Ros, in merito al rifiuto delle autorità egiziane ad una collaborazione con l’Italia.

Secondo il giudice è un dato di fatto il rifiuto dell’Egitto di collaborare e sono pretestuose le argomentazioni della Procura generale del Cairo. Il giudice ha disposto nuove ricerche degli imputati affidate al Ros e ha rinviato il processo al prossimo 10 ottobre: in quell’occasione verrà sentito anche il capo dipartimento Affari di giustizia del ministero Nicola Russo sugli eventuali sviluppi dopo la nota inviata alle autorità egiziane in seguito all’incontro del 15 marzo scorso.

La nota di Via Arenula

Dopo l’annullamento del processo a ottobre 2021, lo scorso gennaio il giudice aveva chiesto al governo italiano di verificare la possibilità di una «interlocuzione» con le autorità del Cairo. E nella nota inviata al gup di Roma in occasione della nuova udienza preliminare, il ministero della Giustizia ha sottolineato il «rifiuto dell’Egitto di collaborare nell’attività di notifica degli atti» con l’Italia così come il no ad un incontro tra il ministro Marta Cartabia e il suo omologo egiziano. Lo scorso 15 marzo il direttore della cooperazione giudiziaria italiana si è recato in Egitto per un incontro e in quell’occasione gli è stato comunicato che la competenza è della Procura Generale che considera chiuso il caso Regeni e che non è possibile andare avanti con ulteriori indagini sui quattro indagati in Italia. I carabinieri del Ros inoltre, ai quali erano state affidate nuove ricerche sul domicilio degli indagati, hanno fatto sapere di essere riusciti ad acquisire solo l’indirizzo del luogo di lavoro dei quattro 007 egiziani e non il domicilio, necessario per il codice di procedura internazionale.

La legale della famiglia Regeni: «Il Cairo si beffa di noi»

«Prendiamo atto dei tentativi falliti del ministero della Giustizia di ottenere concreta collaborazione da parte delle autorità egiziane e siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto», commenta l’avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, al termine dell’udienza.

«Chiediamo che il presidente Draghi condividendo la nostra indignazione pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati dal presidente Al Sisi e ci consenta lo svolgimento del processo per ottenere giustizia riguardo il sequestro le torture e l’omicidio di Giulio», prosegue la legale. «La lesione della tutela della vita, della libertà e dell’integrità dei cittadini all’estero, come la presidenza del Consiglio Ricorda nel suo atto di costituzione di parte civile, costituisce grave pregiudizio dell’immagine e del prestigio dello Stato Italiano nella sua funzione di protezione dei propri cittadini – aggiunge -. Quindi, visto il conclamato ostruzionismo, egiziano pretendiamo da parte del nostro governo la necessaria, tempestiva e proporzionata reazione. Stare inermi ora, permettere al regime di Al Sisi di bloccare questo processo faticosamente istruito, consentirebbe l’impunità degli assassini di Giulio ed equivarrebbe ad essere loro complici. Il nostro governo ha il dovere invece di esigere energicamente giustizia».

Regeni, i silenzi e il caos boicottaggi. Giannino della Frattina il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La tournée in Egitto, la rivolta dell'orchestra, il giusto orgoglio dei genitori di Giulio Regeni, la smentita della Scala per bocca del sovrintendente Dominique Meyer. Di certo sipario calato, ma comunque sia andata non è stato un trionfo. Perché la nostra serva Italia continua a essere nave sanza nocchiere in gran tempesta. E soprattutto non donna di provincie, ma bordello! E bordello ancor più sconcio se a essere coinvolto in questo pantano sono un ragazzo rapito e torturato a morte in quell'Egitto che si rifiuta di collaborare alle indagini per chiarire la tragedia e punire i colpevoli e soprattutto i suoi genitori che hanno saputo trasformare l'indicibile dolore in una campagna per trovare la verità e rendere giustizia a quello sventurato figliolo. Perché qui hanno ragione un po' tutti: gli orchestrali che protestano, i giornalisti che raccontano e scoprono l'affaire, papà e mamma che ringraziano, il sovrintendente che nega. Tutti fuorché purtroppo ancora una volta il governo italiano, quello Stato che avrebbe il dovere di ergersi granitico a difendere un proprio figlio a cui servitori forse non troppo infedeli di un'altra nazione hanno tolto la vita. E, invece, non è così. Perché al di là di generiche dichiarazioni d'intenti che non costano nulla e servono ad ancor meno, striscioni gialli esposti un po' qui e un po' là da sindaci volonterosi e chiacchiere da bar o da campagna elettorale dei politici, null'altro è stato fatto per mettere in piedi una seria iniziativa diplomatica e contemporaneamente appoggiare il lavoro dei magistrati italiani che vedono i loro tentativi infrangersi sul muro di gomma eretto dall'omertà di quei governanti d'Egitto mai abbastanza disprezzati per questo. In filigrana, ma senza mai il coraggio di dirlo chiaramente, una malintesa e mal gestita ragion di Stato da chi uno Stato che si rispetti (e si faccia rispettare) nemmeno sa dove metta le fondamenta. Ragioni di economia e di geopolitica male interpretate da analfabeti della politica atte solo a scatenare multicolori iniziative individuali che nascono dal basso. E altro non fanno che alimentare la confusione, non certo la giustizia per Giulio. Giannino della Frattina

IL “GRAMSCI D’EGITTO”. Scioperi e pressioni diplomatiche per Alaa Abdel Fattah, l’attivista che fa paura al Cairo. LAURA CAPPON su Il Domani il 28 maggio 2022

Alaa è in sciopero della fame da 58 giorni contro l’accanimento dell’autorità penitenziaria egiziana, che va avanti dal 2019. Il trasferimento in un carcere meno duro lo ha portato dalla «repressione in stile medioevale a una repressione più moderna», dice la madre Laila Soueif. La campagna di solidarietà di Amnesty 

Lo sciopero della fame di Alaa Abdel Fattah, blogger e simbolo della rivoluzione egiziana, arriva anche in Italia. Inizia oggi uno sciopero solidale indetto da Amnesty International Italia per supportare la battaglia dell’attivista egiziano.

Alaa è in sciopero da 58 giorni contro l’accanimento dell’autorità penitenziaria che va avanti dal 2019, anno del suo ultimo arresto. Dall’inizio del digiuno, è stato trasferito nel carcere di Wadi el Natrun e ha ottenuto di nuovo libri, carta e penna.

«È passato dalla repressione in stile medioevale del carcere di Tora a una repressione più moderna», dice la madre Laila Soueif che chiede che il figlio, da poco cittadino britannico, riceva la visita delle autorità consolari del Regno Unito.

Lo sciopero della fame di Alaa Abdel Fattah, blogger e simbolo della rivoluzione egiziana, arriva anche in Italia.

L’attivista ha smesso di mangiare da 58 giorni, in protesta contro le condizioni di detenzione, definite «disumane» dalla sua famiglia, a cui è sottoposto dal 2019. Un gesto estremo, che dopo l’appello fatto da diversi parlamentari nel Regno Unito e negli Stati Uniti sta mobilitando anche la società civile italiana.

Ieri Riccardo Noury, portavoce, di Amnesty International Italia, ha dato il via a uno sciopero a staffetta annunciato alcuni giorni fa su Twitter.

«Abbiamo pensato che un piccolo gesto di solidarietà, ossia stare almeno un giorno nelle condizioni di Alaa, sarebbe servito a perorare la sua causa», dice Noury.

Le adesioni da parte di cittadini e associazioni iniziano ad arrivare mentre la madre dell’attivista, Laila Soueif, ha parlato mercoledì scorso in videoconferenza al Comitato permanente sui diritti umani della Camera e ha denunciato un accanimento contro di lui da parte delle autorità carcerarie, nel penitenziario di Tora al Cairo.

Per più due anni, infatti, Alaa non ha avuto diritto a carta e penna, libri, ora d’aria e nemmeno a un orologio.

LE CONDIZIONI IN CARCERE 

Dall’inizio dello sciopero della fame, il regime egiziano ha fatto alcune piccole concessioni. Il 18 maggio Alaa è stato trasferito dal penitenziario di Tora al carcere di Wadi el Natrun, mentre giovedì scorso le autorità carcerarie gli hanno permesso di ricevere alcuni libri e le sue amate copie di Topolino portate dalla madre.

Ma resta ancora senza l’ora d’aria e in una cella, sorvegliata 24 ore su 24, in cui non è possibile spegnere la luce.

«È passato dalla repressione in stile medievale del carcere di Tora a una repressione più moderna. Ci sono le telecamere che lo controllano tutto il giorno e ha un sistema di comunicazione diretto con le guardie che al momento sembrano essere persino gentili», dice con una punta di sarcasmo la madre dell’attivista.

«Ci ha scritto una lunga lettera, dice che al momento continua lo sciopero. Beve solo acqua e latte con un po’ di zucchero, sono circa 100 calorie al giorno», continua.

«Non si fermerà sino a quando non otterrà tutte le sue richieste, compreso l’incontro con le autorità consolari britanniche».

La diplomazia di Londra è coinvolta in maniera diretta nel caso dallo scorso aprile. Dieci giorni dopo l’inizio del digiuno volontario, infatti, l’attivista ha preso la cittadinanza del Regno Unito proprio grazie alla madre, nata a Londra nel 1956.

PRESSIONE INTERNAZIONALE

Il nuovo passaporto è l’ennesimo tentativo dell’attivista di dare una svolta alla sua vicenda giudiziaria che lo ha portato a trascorrere sette anni di carcere negli ultimi suoi otto anni di vita.

L’ultimo arresto risale al 2019, poi il 20 dicembre del 2021 è arrivata la condanna a 5 anni di carcere per diffusione di notizie false dal tribunale per i reati minori di New Cairo.

Una sentenza inappellabile perché emessa secondo il rito previsto dallo stato di emergenza. Secondo il triste copione che il sistema giudiziario egiziano segue sulle decine di migliaia di detenuti di coscienza, chi riceve una pena definitiva non ha quasi alcuna via di uscita se non quella di chiedere l’annullamento del processo.

Così, negli ultimi anni, alcuni attivisti con doppia cittadinanza, sfruttando un decreto presidenziale del 2014, hanno ritrovato la libertà rinunciando al passaporto egiziano. Se Alaa vorrà seguire questa strada non è ancora certo. Quello che chiede ora, insieme alla sua famiglia, è pressione diplomatica.

«Sono convinta che la mobilitazione dei paesi occidentali abbia giocato un ruolo fondamentale nel far trasferire mio figlio in un altro penitenziario ma ora serve qualcosa di più», dice Soueif.

«Egitto e Gran Bretagna sono in ottimi rapporti, quindi dovremmo aspettarci che le richieste di Londra su mio figlio vengano accettate dal governo del Cairo».

Che il regime egiziano, impegnato da diversi mesi in una nuova operazione di recupero della credibilità sui diritti umani, stia cercando di dare un segnale alla comunità internazionale è un dato di fatto.

Ora cerca di farlo anche con gli attivisti di punta della rivoluzione contro i quali, sino a ora, non aveva mai allentato la morsa della repressione. Soprattutto con Alaa, definito ormai il Gramsci d’Egitto, fonte di ispirazione per una generazione di attivisti, non solo egiziani.

Il suo libro, Non siete stati ancora sconfitti, una raccolta di scritti dal carcere, è stato pubblicato in Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti e presto arriverà in Germania.

«Il regime egiziano ha paura di Alaa. Nonostante sia costantemente privato della sua libertà personale, da più di dieci anni trasmette messaggi di cambiamento sulla democrazia e sui diritti umani», spiega Noury.

«Credo soprattutto che i palazzi del potere del Cairo stiano iniziando a temere la mobilitazione che c’è intorno a lui. E questo sta succedendo grazie anche al suo libro, che sta arrivando nei luoghi di cultura più importanti del mondo, e sta facendo diventare il suo caso una campagna globale».

·        Quei razzisti come gli israeliani.

In Palestina le forze israeliane hanno demolito una scuola elementare, durante le lezioni. Gloria Ferrari su L'Indipendente  il 29 Novembre 2022

A Isfey Al-Fouqa, un villaggio all’interno del complesso di Masafer Yatta, nella Cisgiordania meridionale occupata, il 23 novembre le forze israeliane hanno demolito una scuola elementare palestinese frequentata da 22 studenti, provenienti da quattro diverse comunità. Durante l’orario di lezione i soldati sono arrivati sul posto con un bulldozer, lanciando bombe vicino all’edificio per avvisare della loro presenza, e costringere i bambini a sgomberarlo prima della demolizione.

L’ordine di abbattimento è stato emesso dall’Alta Corte di giustizia israeliana, che quello stesso mercoledì ha revocato un’ingiunzione che fino a quel momento aveva bloccato la demolizione della scuola. Secondo il COGAT (l’ente militare israeliano di proprietà del Ministero della difesa che coordina e gestisce le attività governative nei territori occupati) quell’edificio era stato costruito illegalmente in un’area proibita, e per questo andava rimosso.

La scuola, che si trovava in una zona in cui ai residenti tocca spesso fare i conti con sfollamenti forzati, è riuscita a rimanere in piedi per poco: era stata costruita da circa un mese ed era entrata in “funzione” da ancora meno, all’incirca un paio di settimane prima della demolizione. Secondo quanto raccontato da alcuni attivisti ad Al-Jazeera, la sua costruzione – insieme a quella di almeno altre 12 strutture simili – era stata prevista da un programma del Ministero dell’Istruzione dell’Autorità Palestinese, finanziato dall’Unione Europea, per favorire lo sviluppo palestinese nonostante le restrizioni e le pressioni israeliane.

Tra l’altro la scuola di Isfey Al-Fouqa a Masafer Yatta – una regione che in tutto ospita più di 1.200 palestinesi, tra cui 500 bambini – era l’unica in zona che fornisse istruzione ai suoi abitanti e «quando la polvere si posa su una scuola che ora è ridotta in macerie, 22 bambini palestinesi si chiederanno cosa hanno fatto per meritarsi che la loro scuola fosse abbattuta dai bulldozer israeliani”, ha detto Caroline Ort, rappresentante per la Palestina della Norwegian Refugee Council, un’organizzazione umanitaria non governativa che protegge i diritti delle persone colpite dallo sfollamento.

Quello di Isfey Al-Fouqa potrebbe non essere l’unico episodio di questo tipo. Ad oggi in tutta la Cisgiordania occupata sono 57 le scuole a rischio di demolizione, istituti che ospitano quasi 7mila studenti, costruiti ad hoc in zone ritenute meno pericolose di altre. Senza una struttura adeguata vicina, tutti i ragazzi dei villaggi coinvolti sono costretti a percorrere a piedi ogni giorno lunghissime distanze, con il rischio di ricevere una pallottola durante il tragitto. «Questa occupazione prende di mira tutto: prende di mira le nostre case, l’istruzione, la nostra acqua, i pannelli solari. Pensano che questo spingerà le persone ad andarsene, in modo che Israele possa “pulire” etnicamente questa zona», hanno spigato ad Al-Jazeera gli esponenti del comitato per la protezione e la resilienza di Masafer Yatta. Molte famiglie infatti vivevano in questa zona ancora prima dell’occupazione israeliana della Cisgiordania del 1967, ma con il tempo le forze israeliane hanno reso la loro permanenza un inferno: gli hanno tolto l’acqua, la corrente elettrica, li hanno circondati con insediamenti israeliani illegali e li sottopongono a sistematiche violenze.

Secondo l’ONU, tra l’altro, il 2022 è da considerare uno degli anni più mortali per i palestinesi dal 2005, da quando cioè l’organizzazione ha iniziato a tenere conto delle vittime. I dati, quelli ufficiali, dicono che da gennaio nella Cisgiordania occupata sono morte almeno 120 persone, di cui un quinto sono bambini, per via dell’aumento dei raid militari israeliani. Molti di loro sono stati uccisi durante perquisizioni e arresti, giustificati dalle forze israeliane come operazioni portate avanti contro sospetti “terroristi”.

Studiosi e attivisti per i diritti umani, sia palestinesi che israeliani, sostengono che l’obiettivo reale di Israele sia chiaramente lo sgombero dei residenti arabi, col fine ultimo di perseguire e rafforzare la sua presenza nei loro territori, nonostante “l’espansione degli insediamenti, le demolizioni e gli sfratti sono illegali secondo il diritto internazionale”.

Ad oggi, però, le testimonianze palestinesi (sostenute da filmati aerei, foto, documenti) non sembrano bastare ad una comunità mondiale che continua a riempirsi la bocca di parole, ma che nel concreto sostiene ancora una nazione che perpetua violenze ai danni di un’intera comunità. D’altronde, come si fa a chiedere a qualcuno di accorgersi di qualcosa se di fondo non vuole vederla? [di Gloria Ferrari]

Netanyahu e il nuovo corso israeliano. Piccole Note su Il Giornale il 05 novembre 2022.

Netanyahu si è ripreso lo scettro. E stavolta potrà costituire un governo fortissimo, sostenuto solo da forze di ultradestra, tra cui spicca quella guidata da Ben Gvir, la vera rivelazione di queste elezioni.

Così un editoriale di Haaretz: “Il sionismo religioso , il partito che ha distorto il progetto sionista e lo ha trasformato da casa nazionale del popolo ebraico in un progetto di suprematismo ebraico conservatore, di destra, razzista e religioso, nello spirito del maestro e rabbino di Ben Gvir, Meir Kahane, è ora la terza forza politica più grande in Israele. Questo è il vero, agghiacciante significato delle elezioni tenutesi martedì”. Parole pesanti, che riecheggiano quelle di un altro articolo di Haaretz, firmato da Yossi Klein, dal titolo: “Ora è ufficiale: il fascismo siamo noi”.

Gli sconfitti si interpellano su cosa non abbia funzionato e tanti hanno addossato la colpa al premier uscente Yair Lapid, che ha lavorato solo per se stesso, sottraendo consensi ai partiti di sinistra, che in tal modo non hanno superato la soglia di voti necessaria per entrare nella Knesset.

Nessuna differenza tra destra e sinistra…

La vittoria di Bibi è stata favorita anche dall’usuale astensionismo degli arabo-israeliani, sui quali invece contava il centro-sinistra per sbarrare la strada al sempiterno Netanyahu (France 24). In realtà, gli arabo-israeliani nutrono scetticismo verso tutte le forze politiche, tanto che hanno accolto l’esito del voto non con allarme, ma con indifferenza.

Un atteggiamento sintetizzato dal commento dal premier palestinese Mohammad Shtayyeh:  “La differenza tra Benny e Bibi – Benny Gantz e Bibi Netanyahu – […] è la stessa che c’è tra Pepsi Cola e Coca-Cola” (per quanti non conoscono la politica israeliana, Gantz è uno dei leader del centro-sinistra).

Un’idea condivisa da Gideon Levy, che su Haaretz scrive: “Cosa pensavi che sarebbe successo? Cosa pensava la sinistra sionista, che è caduta in coma dopo gli accordi di Oslo? Che fosse possibile tornare al potere uscendo dal coma? A mani vuote? Senza alternativa e senza leadership? Solo sulla base dell’odio per Netanyahu? A parte questo, non aveva nulla da offrire”.

“Nessuno dovrebbe sorprendersi per quanto è accaduto. Non poteva essere altrimenti. Tutto è iniziato con l’occupazione – scusate l’accenno fastidioso al cliché – ma è lì che è iniziato davvero, ed è necessariamente culminato con un governo impregnato di razzismo e voglia di deportazione [dei palestinesi ndr]”.

“Cinquant’anni di istigazione all’odio contro i palestinesi e di terrore nei loro confronti non potevano culminare con un governo di pace. Cinquant’anni di sostegno israeliano quasi spalla a spalla, dalla sinistra e dalla destra sioniste, all’occupazione, non potevano finire in nessun altro modo se non con Ben-Gvir portato sugli scudi come un eroe popolare”.

“Un’occupazione senza fine non poteva che portare al governo Benjamin Netanyahu-Itamar Ben-Gvir. Perché, data l’occupazione, allora devi abbracciare la sua versione più genuina, quella che non è minimamente imbarazzata al riguardo: la versione di Ben-Gvir”.

“Era semplicemente impossibile continuare con le illusioni – ebraiche e democratiche, di un’occupazione illuminata, temporanea – e tutto quello stanco repertorio di frasi. Era arrivato il momento della verità, ed è ciò che Netanyahu e Ben-Gvir ci diranno”.

Tante e non propriamente graziose le incognite che incombono sul futuro. All’interno della politica israeliana potrebbe marcarsi il divario già esistente tra Bibi e i suoi alleati di ultradestra, che sembrano ansiosi di strappargli lo scettro, come rivelato da una conversazione riservata, e misteriosamente trapelata (Timesofisrael).

Ma Netanyahu è una vecchia volpe, difficile da mandare in pellicceria, tanto che già alcuni analisti israeliani prospettano che in futuro scaricherà uno o entrambi gli scomodi alleati – invisi agli Stati Uniti (Axios) – per formare un governo più presentabile. Una crisi (una guerra con l’Iran, per esempio), richiedendo l’unità nazionale, favorirebbe tale sviluppo.

I palestinesi, l’Iran e l’Ucraina

Al di là degli interna corporis della politica israeliana, la prospettiva che il conflitto con i palestinesi raggiunga picchi drammatici resta purtroppo reale. Ed è presumibile che l’esito elettorale segni una svolta anche per lo scontro con l’Iran, verso il quale Netanyahu nutre una vera e propria ossessione.

Non sembra affatto un caso che, subito dopo le elezioni israeliane, Biden abbia giurato di “liberare l’Iran“, frase che indica un rapido allineamento al nuovo vento e che riecheggia le parole di George W. Bush in occasione della guerra irachena (alla quale il senatore Biden diede il suo consenso). Nel caso, le bombe cadranno anche sulle teste di quei manifestanti e quelle manifestanti oggi esaltati dai media occidentali per il coraggio con cui stanno sfidando le autorità.

Resta da capire se cambierà l’atteggiamento di Israele verso la guerra ucraina, rispetto alla quale, pur condannando l’invasione russa, Tel Aviv ha osservato un prudente distacco. Secondo tanti analisti Bibi sarà più interventista, cosa che aggraverebbe vieppiù il conflitto che avrebbe bisogno più di pompieri che di incendiari.

In questo quadro alquanto fosco, ci permettiamo di riferire un’analisi in controtendenza apparsa su Ria novosti: “in un’intervista con USA Today alla fine di ottobre, Netanyahu ha detto che se vincesse, prenderebbe in considerazione la possibilità di fornire armi. Ma preferisce ancora una soluzione diplomatica del conflitto. E gli è già stato chiesto di mediare”.

“Sotto il governo uscente, abbiamo assistito a un periodo di raffreddamento [dei rapporti tra Tel Aviv e Mosca ndr]”, ha ricordato il politologo Stanislav Tarasov. “Ciò ha influito anche sull’approccio alla crisi ucraina. Ma Netanyahu ha criticato costantemente Lapid. C’è un’intesa personale tra Putin e Netanyahu, una stretta collaborazione e la possibilità di nuove soluzioni”.

“Come sottolinea l’esperto, sotto Netanyahu c’è stato un processo di riconciliazione tra Iran e Israele. ‘I negoziati, per quanto ne so, si sono svolti a porte chiuse – e con la mediazione di Mosca. Credo che, per quanto riguarda l’iran, con il nuovo governo l’intensità delle passioni si attenuerà e la Russia riprenderà il suo impegno. Israele è pronto per facilitare un accordo con Kiev. Cioè, la mediazione [israeliana con Kiev] in cambio della mediazione [russa con l’Iran] è possibile’, conclude Tarasov”..

Possibile che quella del politologo russo sia una pia illusione, ma l’analisi, distinguendosi da altre prodotte in fotocopia, meritava una menzione, in particolare per l’accenno agli incontri segreti Netanyahu-iraniani.

Più realistica la conclusione del media russo: “Gli analisti concordano sul fatto che Israele, pur essendo un alleato chiave degli Stati Uniti, non rischierà i suoi legami consolidati con la Russia e continuerà a evitare dure dichiarazioni contro Mosca”.

Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 27 Ottobre 2022.

Come centrare una buca sul campo da golf in un colpo solo e passando attraverso un muro. O ancora: la stessa distanza tra il ponte George Washington e la Trump Tower a New York. Benjamin Netanyahu ha imparato dagli americani a comunicare con gli elettori israeliani e dagli israeliani a comunicare con gli americani, almeno quelli a livello dell'ex presidente, il suo amico Donald. 

Semplificare. Così le trattative per la pace vengono presentate con una metafora golfistica comprensibile per l'inquilino-giocatore di Mar-a-Lago e a quel tempo della Casa Bianca: impossibili, irrealistiche, chi ci prova va a sbattere contro i mattoni.

Mentre il futuro Stato palestinese diventerebbe una base per i terroristi a un passo dall'aeroporto israeliano Ben Gurion. La mappa del conflitto è ormai troppo intricata tra linee di armistizio che risalgono al 1949, sovrapposte a righe disegnate più di recente, suddivisioni della Cisgiordania in Area A, B, C. Meglio tirar fuori la cartina di Manhattan, facile da navigare per il leader repubblicano che ci è cresciuto. 

È «Bibi: la mia storia» come la racconta Bibi. Diventa la storia dei capi di Stato incontrati nei dodici anni al potere consecutivi (quindici in totale), dei negoziati e dei trucchetti diplomatici, delle richieste rimaste inesaudite: nel 2013 l'ex premier israeliano aveva incitato Barack Obama a bombardare l'Iran per fermarne il programma nucleare. 

Gli era stato risposto: «Non voglio essere un gorilla di 300 chili che balza sulla scena mondiale. Troppo a lungo gli Stati Uniti si sono comportati così». Ammette di aver promesso sia ad Obama che a Trump di essere pronto a riaprire il dialogo con i palestinesi perché sapeva che l'iniziativa non sarebbe andata da nessuna parte.

All'inizio - riconosce - Trump sospettava di lui: «Netanyahu non vuole la pace», si sarebbe sfogato. Lo ha convinto che a non volerla fosse Abu Mazen, il raìs che l'ex presidente non ha più voluto sentire. 

È la storia di Bibi - come lo chiamano amici e nemici - e quella del Medio Oriente fino alle minuzie della politica interna, gli israeliani tornano a votare martedì prossimo per la quinta volta in quattro anni. 

Ancora un referendum attorno a lui, tra chi smonta le accuse di corruzione (il processo è in corso) come una montatura dei giudici «sinistrorsi» per rimuoverlo e chi pensa che quel lungo periodo ai vertici - con le casse di champagne e i sigari in regalo - abbia corrotto il capo senza rivali della destra, fino a trasformarlo in un pericolo per la nazione.

L'autobiografia - Netanyahu ha compiuto 73 anni il 21 ottobre - è uscita nei tempi giusti della campagna elettorale per elencare quelli che considera i suoi successi e prometterne implicitamente altri. 

Senza indicarli per nome critica i vertici del Mossad e delle forze armate (Benny Gantz era capo di Stato Maggiore ed è ora un rivale nelle urne): sarebbero stati «troppo preoccupati dai rischi» e per almeno un paio di volte si sarebbero opposti alla sua volontà di attaccare le centrali iraniane con i jet. Ricorda le ferite del passato perché a sanguinare siano miti israeliani come Ehud Barak.

Fuoco amico contro il soldato più decorato della storia del Paese che è stato suo comandante nelle forze speciali, mentore e pure compagno di coalizione, fino a diventare uno dei critici più accaniti: lo accusa di essersi preso il merito per la liberazione degli ostaggi sull'aereo della Sabena nel 1972 (Netanyahu partecipò e fu colpito di striscio) mentre «è stato un semplice spettatore, il suo unico ruolo nell'assalto è stato rimanere sulla pista e soffiare in un fischietto».

Il sodale che non ripudia è Vladimir Putin. Ripercorre la relazione molto stretta e ventennale con il presidente e lo esalta: «Ha ricostruito l'Armata russa in una forza formidabile». Ci sarebbe stato il tempo di ritoccare le bozze dopo l'invasione dell'Ucraina, che racconta una storia diversa.

Commissione d’inchiesta ONU: l’occupazione israeliana della Palestina è illegale. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 24 Ottobre 2022. 

Un rapporto di una commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite diffuso il 20 ottobre ha definito “illegale” l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, per via “della sua permanenza e delle azioni intraprese da Israele per annettere parti del territorio”. Il controllo permanente esercitato sulla Cisgiordania e l’annessione delle terre rivendicate dai palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania, oltre alle terre siriane nel Golan, configurerebbero quindi, a detta dei commissari, una violazione da parte di Israele del diritto internazionale. Il rapporto verrà presentato il 27 ottobre prossimo all’Assemblea Generale dell’ONU.

La commissione, composta da Navanethem Pillay (Sudafrica), Miloon Kothari (India) e Christopher Sidoti (Australia), è stata istituita nel maggio 2021 quando, a seguito di una sessione speciale del Consiglio per i diritti umani riguardante la “grave situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi, inclusa Gerusalemme est”, è stata adottata la risoluzione Garantire il rispetto del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario nei Territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme est, e in Israele. In base a tale risoluzione, la commissione è stata incaricata di indagare “tutte le presunte violazioni del diritto umanitario internazionale e gli abusi della legge internazionale sui diritti umani” e “tutte le cause profonde delle tensioni ricorrenti, dell’instabilità e del protrarsi del conflitto, incluse le discriminazioni sistematiche e la repressione basata sull’identità nazionale, etnica, razziale o religiosa”.

Nel rapporto, in particolare, si legge come “la Commissione ha rilevato che vi siano motivazioni ragionevoli per concludere che l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi sia ora illegale secondo l’attuale legge internazionale a causa della sua permanenza e delle azioni intraprese da Israele per annettere parti del territorio de facto e de iure. Le azioni di Israele volte a causare fatti irreversibili sul terreno e a espandere il suo controllo sul territorio sono riflessi e motori della sua occupazione permanente”. Inoltre, “continuando ad occupare il territorio con la forza, Israele incorre in responsabilità internazionali provenienti da una continua violazione degli obblighi internazionali, e si rende responsabile per qualsiasi violazione dei diritti delle persone palestinesi”. L’annessione de facto di Israele include “l’espropriazione delle terre e delle risorse naturali, la creazione di insediamenti e avamposti, il mantenimento di un regime di pianificazione e costruzione restrittivo e discriminatorio per i palestinesi e l’estensione della legge israeliana in modo extraterritoriale ai coloni israeliani della Cisgiordania”. La Commissione ha così confermato che l’occupazione delinea “gravi violazioni ed abusi dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale”, mettendo in campo “una serie di politiche […] che hanno influito negativamente su tutti i settori della vita palestinese”, tra le quali “sgomberi, deportazioni e trasferimenti forzati di palestinesi all’interno della Cisgiordania, espropriazione, saccheggio e sfruttamento della terra e delle risorse naturali vitali, restrizioni alla circolazione e il mantenimento di un ambiente coercitivo con l’obiettivo di frammentare la società palestinese, incoraggiare l’allontanamento dei palestinesi da alcune aree e garantire che essi non siano in grado di soddisfare il loro diritto all’autodeterminazione“. Di conseguenza, il governo di Israele dovrebbe “porre immediatamente fine ai 55 anni di occupazione dei Territori palestinesi e siriani” e rispettare “il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e al suo diritto di utilizzare liberamente le risorse naturali”.

Il premier israeliano Yair Lapid ha reagito al rapporto definendolo “scritto da antisemiti” oltre che “parziale, falso che istiga e palesemente sbilanciato”. Intanto, mentre veniva reso pubblico il report, 65 organizzazioni palestinesi e internazionali hanno siglato una lettera indirizzata al nuovo Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Voler Türk per domandargli di trattare come prioritaria la situazione dei diritti umani in Palestina. “Al popolo palestinese [è stato] negato il diritto all’autodeterminazione, e ha sopportato oltre sette decenni di colonialismo e Apartheid da parte di Israele e 55 anni di occupazione bellicosa” hanno scritto i firmatari nella lettera, che sottolineano come “per troppo tempo la questione della Palestina è stata trattata come un’eccezione all’attuazione del diritto internazionale”. [di Valeria Casolaro]

Un tranquillo weekend. Il tormento religioso degli ebrei americani e la vulnerabilità dei discorsi identitari. Joshua Cohen su L'Inkiesta il 21 Settembre 2022

“I Netanyahu” è una riflessione dissacrante e pungente sui problemi della società americana. Joshua Cohen racconta con ironia l’incontro di Ruben con una famosa famiglia israeliana che lo costringerà a tornare in contatto con le sue radici profonde, da cui per tutta la vita ha cercato di affrancarsi

Feci un passo fuori dalla porta giusto in tempo per vedere lo sportello posteriore che si apriva e i corpi che capitombolavano fuori; non dei pagliacci in tutto il loro splendore demente a suonare la trombetta e fare il gioco delle palline, ma quasi: bambini rivestiti di montone. Uno, due, tre bambini. Mi ci volle un attimo per contarne tre: piccolo, medio, grande. I cappottini di montone identici e soprattutto l’improvvisa sconfinata energia li facevano sembrare più numerosi. Si stavano inseguendo tra il marciapiede e la strada e lanciavano palle di neve, intanto che due forme adulte più grandi scivolavano fuori dallo sportello anteriore dal lato del marciapiede. Gli sportelli sul lato opposto dovevano essere bloccati. I due adulti all’inizio sembravano indistinguibili e completamente androgini, dato che erano infagottati in cappotti di montone di qualche taglia più grande rispetto a quelli dei bambini. Cinque cappotti identici, pelosi e allacciati con le olivette, si spera comprati in blocco con uno sconto notevole. Intanto che i bambini facevano esercitazioni antincendio attorno alla macchina in un delirio di palle di neve lanciate e schivate, uno degli adulti sollevò una mano verso il cielo e urlò in una lingua che nella mia gio ventù era stata parlata solo da Dio. Lei – perché quello era l’urlo di una donna – doveva aver ordinato ai bambini di smetterla di correre e di zittirsi. Questo fu il mio primo incontro con i Netanyahu, con tutta la famiglia: die ganze mishpocha.

Mentre la moglie rimproverava i figli, il marito tirò indietro il cappuccio per mostrare la faccia che conoscevo o pensavo di conoscere dalla fototessera dimensione passaporto incollata alla buona sull’angolo in alto a destra del suo curriculum: era invecchiato. Aveva cinquant’anni allora, la faccia era una noce dura da spaccare dai linea menti vagamente mongoli; aveva occhi stretti a nocciolo di oliva e orecchie decisamente enormi e carnose come gusci di ostriche, forti pieghe nasolabiali che mi rifiuto di definire “piccole rughe d’espressione” o “rughe da risata”, perché la bocca in sé era priva di umorismo, tutta labbrastrette. La testa era sormontata da due gobbette da cammello di capelli, la cupola in mezzo era un uovo luminoso di calvizie lentigginosa. Le prime parole che mi rivolse furono:

«Il dottor Blum, suppongo?»

«Piacere di conoscerla.»

«Dottor BenZion Netanyahu.»

Sì, insistette per usare i titoli ufficiali all’inizio e sì, mi strinse la mano senza togliersi il guanto pieno di pelucchi. Il suo accento era più forte di quello che mi aspettavo; era sabbioso, ma più tardi ebbi l’impressione che volesse enfatizzarlo di proposito: BenSion.

«Può chiamarmi Ruben. O Rube. Shalom.»

Stavamo sulla neve su quello che poteva essere il marciapiede o il prato, chi poteva dirlo, e lui strinse le labbra e annuì con fare pensoso, come se non riconoscesse il saluto, o ci si stesse arrendendo. «Shalom, Rube.»

Condussi l’uomo lungo il sentiero impolverato di neve verso casa, seguito da sua moglie e dai figli che non mi aveva ancora presentato.

Fu solo quando salirono i gradini ed entrarono che la moglie tracagnotta e con i capelli a ciuffi disse: «Mi chiamo Tzila», ma lo disse fissando suo marito, che a sua volta aggiunse: «Si chiama Tzila, mia moglie», e io tirai fuori la mano e Tzila la prese e mi tirò a sé offrendo la guancia. Io la baciai velocemente. Lei offrì l’altra guancia. Baciai velocemente anche quella.

Le sue guance erano fredde.

Edith, rinfrescata, con il sorriso che mostrava i denti, ci venne incontro per accoglierci. «Tzila, BenZion, questa è Edith», e Edith disse: «Oh che bello… avete portato i bambini… che bella sorpresa, Ruben non mi aveva detto dei bambini… ecco qui, lasciate che vi prenda i cappotti…»

I bambini e i genitori dismisero le loro pelli identiche e guanti e sciarpe e cappelli e, impilandoli, trasformarono Edith in un appendiabiti.

«Vi dispiacerebbe – la sua voce era un cinguettio smorzato sotto gli strati – togliervi le scarpe?»

Ma i genitori erano già passati sul tappetino d’ingresso senza nemmeno sbattere i piedi per pulirli ed erano entrati in salotto, lasciando strisce di neve sul parquet a formare pozzanghere.

I maschietti detonarono in uno stridio. A quanto pareva, il più alto dei tre era riuscito a infilare una palla di neve di contrabbando dentro casa ed era impegnato a ficcarla ovunque tra i vestiti del fratello di mezzo, nella maglia, nei pantaloni, dentro la vita a molla di uno sparticulo.

Tzila li riprese in ebraico, intanto che quello di mezzo inseguiva il più grande attorno al pianoforte e il più piccolo ululava. Altra neve divenne acqua sul pavimento; impronte di scarpe impregnarono i falsi arabeschi del falso tappeto persiano e Edith ci provò di nuovo: «Per favore, vi dispiace? Le scarpe? Temo che la nostra sia una casa piuttosto orientale».

Tzila disse di nuovo qualcosa, qualcosa dal suono troppo brusco per essere una traduzione, una parola sola impacchettata con densità e impazienza, tesa, declinata e con connotazioni di genere, e i maschietti si impalarono tutti in una volta e si accasciarono dove stavano; i due ragazzi più grandi sul tappeto, il più piccolo sul parquet, e lì iniziarono a strattonare i lacci delle scarpe molte volte allacciati. «Anche voi adulti, se non vi dispiace» disse Edith a Tzila e Netanyahu, che si guardarono perplessi e poi si sedettero sul Nascondiletto per togliersi le scarpe a loro volta.

Nessuno in famiglia, mi resi conto allora, stava indossando stivaletti o galosce o qualsiasi altro tipo di calzatura anche solo lontanamente adatta all’inverno: Netanyahu aveva dei mocassini stringati, Tzila delle ballerine, e i ragazzi scarpe di tela a buon mercato. Le calze di lei erano fradicie, e uno dei calzini di Netanyahu aveva un buco; un alluce spuntava fuori dal tessuto con un’unghia ricurva non tagliata.

Tzila passò le calzature sue e di suo marito a Edith, che si voltò per prendere quelle dei bambini. E mentre ognuno di loro porgeva il suo paio, Tzila li nominò: il più grande era Jonathan, quello di mezzo Benjamin, il più piccolo Iddo, e Edith disse: «Grazie, Jonathan, grazie Benjamin, grazie Iddu», e Tzila disse: «Iddo», e Edith disse: «Iddu», e i due fratelli più grandi si misero a ridere, e qualsiasi parola ebraica scegliessero di utilizzare per bat tibeccare con il più piccolo della cucciolata, adesso finiva per “Iddu”.

Mentre Edith posava le scarpe per farle asciugare sul tappetino, Tzila indicò le loro età: tredici, dieci e sette anni, e io ricordo di essermi soffermato su quel sequen ziamento pensando che fosse l’unica cosa disciplinata e ordinata di quelle persone, di questi Yahu, che era il modo con cui iniziai a chiamarli subito nella mia testa; questi rozzi e chiassosi Yahu che avevano fatto irruzione in casa nostra e nevicato sui pavimenti, e adesso erano di nuovo in piedi e vagavano per tutto il salotto come se lo stessero esaminando per una rapina; Jonathan e Benjamin ispezionavano la cornice del camino, esaminando le navi in bottiglia ispirate alla Mayflower e alla Speedwell, bistrattando i pupazzetti di latta a molla di Hamilton e Burr, e sovraccaricando le vaschette in peltro della bilan cia d’antiquariato con dei pesi che continuavano a squit tire. Iddo stava tra le loro gambe, colpendo gli alari e scavando nel caminetto, prima di strofinarsi la faccia cospargendola di cenere.

«Ruben» disse Edith, «avremo bisogno di sedie in più… Terra chiama Ruben Blum: va’ a prenderne qualcuna in sala da pranzo.»

Tzila, forse capendo male, disse ai ragazzi qualcosa che doveva significare sedetevi, e loro si mossero alla rin fusa alla ricerca di trespoli; Jonathan e Benjamin presero le delicate sedie Shaker che stavano di fronte al Nascon diletto prima che io o Edith potessimo fermarli.

Iddo, senza sedia, provò a salire sul grembo di Jona than ma venne respinto, e poi cercò di salire su quello di Benjamin, ma venne respinto anche lì, scatenando il tremolio allarmante delle gambe Shaker e delle sedute in trecciate, e – dopo che fu capitombolato a terra perico losamente vicino al tavolino Chippendale – gattonò via piangendo per asciugarsi il blackface bagnato su un fianco del Nascondiletto e annidarsi tra i suoi genitori.

Io andai in sala da pranzo e presi due delle sedie incorniciate di alluminio, robuste e abbinate al tavolo, le misi ai bordi della conventicola e mi sedetti su una fissando l’altra, cercando di individuare il modo più educato per dire ai ragazzi più grandi di fare a cambio.

«Ho preparato un piccolo rinfresco» annunciò Edith, «molti salati, ma immagino che debba prendere qualcosa di dolce per i piccoli?»

Tzila non rispose, continuava ad accarezzare la testa del bambino con il blackface che frignava, quindi Edith provò di nuovo: «Vi andrebbe se servissi dei biscotti?»

Tzila, confusa, ripeté lo spelling: «Bisca», ma Jonathan interruppe sua madre: «Biscotti, sta facendo lo spelling di biscotti». Poi si rivolse a Edith: «Parliamo inglese».

Benjamin intervenne: «Non siamo idioti».

«E lui?» disse Edith a Iddo. «Per te va bene?»

«Lui è un idiota» chiarì Jonathan. «Vero Iddy? Ho ragione? Iddy, non sei un idiota che non sa parlare inglese?» Iddo, con la voce ispessita dal piagnisteo, si protese verso la madre e disse: «Biscotti».

Tzila lo sollevò, lo annusò e poi lo posò sopra il tavolino e, senza nemmeno usare una tovaglietta o un asciugamano, iniziò ad abbassargli i pantaloni e a sfilargli il pannolino. «I bambini mangiano tutto» disse come se stesse parlando di quel casino. «Non ha più bisogno dei pannolini, se non la notte e quando facciamo un lungo viaggio in macchina.»

Edith, chiudendo gli occhi, scomparve in cucina. Intanto che Tzila pescava dalla sua borsa un rotolo di carta igienica e puliva Iddo, io domandai: «Ben, Jon, volete fare cambio posto?»

Ma Benjamin si stava sporgendo verso la nudità cine rina del fratello più piccolo titillandogli il pene. Tzila gli schiaffeggiò la mano e Iddo ululò. «Gocciole di cioccolato pupù» disse Benjamin indicando il pannolino, «goccio le di cioccolato brownie pupù.»

«Non è pupù» mi informò Tzila, «è solo pipì, piscio…»

«Urina» disse Jonathan strappando un petalo da una poinsezia 

“I Netanyahu”, Joshua Cohen, Codice edizioni, 272 pagine, 20 euro 

La forca a Gaza ha ripreso il suo corso. Hamas e la giustizia fai da te, è strage: in un giorno 3 impiccati e 2 fucilati. Sergio D'Elia su Il Riformista il 16 Settembre 2022 

Tre sono stati impiccati, altri due sono stati fucilati. In un solo giorno, lo Stato-Caino che detta legge nella Striscia di Gaza ha recuperato il tempo perduto. Da quando ha preso il potere nel 2007, Hamas aveva placato la sete di vendetta del suo popolo mandando ogni anno al patibolo almeno un paio di presunte spie del suo nemico giurato e assassini comuni. Dopo cinque anni di tregua, la “giustizia riparativa” della forca ha ripreso il suo corso mortale. Per i musulmani, la domenica non è il giorno del Signore, riservato al riposo, all’amore, alla grazia. All’alba della prima domenica di settembre, il boia di Hamas è stato richiamato al lavoro per “giustiziare” cinque palestinesi condannati in casi diversi di omicidio e presunta collaborazione con Israele. A due di loro, entrambi membri delle forze di sicurezza palestinesi, è stato concesso il “privilegio” di essere uccisi da un plotone di esecuzione.

Gli altri tre sono stati ammazzati come cani, con il cappio al collo. Tutte le condanne a morte sono state eseguite intorno alle cinque di mattina nell’Ansar Security Compound, nella parte occidentale della Città di Gaza. Il Ministero dell’Interno non ha fornito i nomi completi dei disgraziati, ha solo indicato le loro iniziali, l’età e descritto sommariamente il fatto. Il primo a essere fucilato è stato K. S., un uomo di 54 anni, residente a Khan Yunis. Era in carcere dal 2015 e secondo Hamas nel 1991 aveva fornito a Israele “informazioni sui combattenti della resistenza, sul loro luogo di residenza e la posizione dei lanciarazzi”. Anche N. A. era sospettato di essere una spia, ma non era un militare e quindi è stato impiccato. Aveva 44 anni ed era stato condannato per aver fornito nel 2001 informazioni di intelligence che avevano portato alla presa di mira e all’uccisione di civili da parte delle forze israeliane.

E. A. aveva 43 anni e abitava nella città di Gaza. Nel 2004 era stato incarcerato con l’accusa di rapimento e omicidio. Era evaso dal carcere e aveva commesso un altro rapimento e omicidio oltre a una rapina nel 2009. È stato impiccato. Il quarto giustiziato per impiccagione, M. Z., aveva 30 anni ed era residente nel nord della Striscia di Gaza. Era stato arrestato nell’ottobre del 2013 per un omicidio a scopo di rapina. J. Q. era un militare delle forze di sicurezza di Hamas e quindi non ha subito l’onta della forca. Ha avuto l’onore di finire davanti a un plotone di esecuzione. Aveva 26 anni ed era stato arrestato il 14 luglio scorso per aver ucciso un uomo e una ragazza e aver ferito altre 11 persone durante una lite familiare. Hamas ha detto che a tutti gli imputati è stato “concesso il pieno diritto di difendersi, secondo le regole di procedura, davanti a un tribunale competente”. Nel caso di J. Q. il corso della giustizia è stato tumultuoso, e la sua esecuzione avvenuta a furor di popolo. Cittadini e funzionari palestinesi l’hanno invocata con violente manifestazioni di piazza e anche sui social network con un hashtag inequivocabile: #Retribution_Life, occhio per occhio. Il prigioniero non ha avuto il tempo di chiedere la grazia o la commutazione della pena.

Questa furia di esecuzioni in un solo giorno in una stretta striscia di terra non era mai successa. Non era neanche volta a pareggiare il piatto del bene con quello del male nella bilancia della giustizia. Per Hamas le esecuzioni intendevano soprattutto “raggiungere la pace e la stabilità nella società”, anche a costo della violazione della legge palestinese e dei valori universali della giustizia. Dall’istituzione dell’Autorità Palestinese nel 1994, sono state eseguite 46 condanne a morte: 44 nella Striscia di Gaza e 2 in Cisgiordania. Di quelle effettuate a Gaza, 33 sono avvenute senza la ratifica del presidente palestinese, come prevede la legge nazionale. Ma, a Gaza, il regolamento dei conti tra vittime e carnefici non passa sempre dalle aule di giustizia del regime islamista. Accade anche che persone sospettate, arrestate o condannate siano “giustiziate” sul campo: nel cortile di un carcere o di una moschea, nelle strade e nelle proprie case. Se la pena capitale “legale” dei tribunali militari e civili di Gaza è stata intermittente dal 2007 a oggi, la giustizia “fai da te” di Hamas, fuori dalla legge e dai codici, ha fatto il suo corso senza interruzioni. Senza timbri e carte bollate, la colpa, la sentenza e la pena sono state scritte dagli uomini mascherati su pezzi di carta affissi sui muri accanto ai cadaveri senza nome dei nemici dello “stato islamico”, dell’ordine costituito in nome di dio. Sergio D'Elia

Stretta di mano tra Rabin e Arafat. La ratifica degli «Accordi di Oslo». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Settembre 2022.

«Rabin e Arafat, storica stretta di mano a Washington»: è il 14 settembre 1993 e in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» compare la foto simbolo dell’intesa raggiunta tra il primo ministro israeliano e il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Si tratta della ratifica dei cosiddetti Accordi di Oslo, che prevedono l’istituzione di un’Autorità nazionale palestinese ad interim su Cisgiordania e Gaza, il graduale ritiro militare israeliano dai territori occupati e il trasferimento dei poteri civili alla nuova entità amministrativa.

Con una dichiarazione, inoltre, Israele accetta come rappresentante del popolo palestinese l’OLP, che a sua volta riconosce il diritto d’Israele a esistere. Quella stretta di mano, dopo anni in cui le due parti hanno rifiutato ogni possibilità di dialogo, suona come un momento di svolta per la pace in Medio Oriente.

«Yitzhak Rabin, il 71enne comandante di tante guerre contro gli eserciti arabi, e Yasser Arafat, l’ex terrorista che per quasi mezzo secolo ha promesso al suo popolo la distruzione di Israele, si sono stretti la mano per dare ai bambini israeliani e palestinesi un futuro di speranza e di pace»: così inizia la cronaca della solenna cerimonia tenutosi alla Casa Bianca. «L’accordo che il Ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres e il collaboratore di Arafat Mahmoud Abbas hanno firmato ieri mattina sullo stesso tavolino su cui fu firmato l’accordo di Camp David, sotto gli occhi attenti del segretario di Stato Warren Christopher e del ministro degli esteri russo Andrei Kozyrev, è certo un accordo limitato, fragile e in molti punti volutamente ambiguo», commenta Gianna Pontecorboli.

«Visibilmente emozionato, quasi esitante di fronte all’enormità del passo che ha deciso di compiere, Rabin ha ricordato che “quello che ieri era un sogno, oggi è diventato un impegno. Abbiamo combattuto contro di voi, i palestinesi, e adesso vi diciamo con voce forte e chiara, basta sangue, basta lacrime, è finito il tempo dell’odio”. In confronto a Rabin, il leader dell’Olp è apparso più fiducioso, ha parlato con voce ferma: “Questo passo ha richiesto un grande coraggio e ancor più ne richiederà andare avanti”».

Dopo la cerimonia, Rabin è ripartito per Gerusalemme per celebrare il nuovo anno, mentre Arafat ha scelto di partecipare al «Larry King Show» «per spiegare le sue ragioni al largo pubblico», si legge sulla «Gazzetta».

L’illusione della pace non durerà a lungo. Gli Accordi verranno attuati solo parzialmente: gli israeliani non fermeranno l’espansione degli insediamenti e il malcontento nei territori occupati non farà che agevolare l’ascesa politica di Hamas.

Estratto dall'articolo di Rossella Tercatin per “la Repubblica” il 18 agosto 2022.

Israele avrebbe commesso «cinquanta Shoah». Lo ha dichiarato il Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) Abu Mazen e non in un luogo qualsiasi, ma a fianco del Cancelliere tedesco Olaf Scholz a Berlino, lasciandolo letteralmente di sasso, in un episodio che secondo il suo portavoce «getta un'ombra sulle relazioni tra Germania e Anp».

In visita ufficiale per discutere la cooperazione internazionale a favore della popolazione palestinese , durante la conferenza stampa congiunta con Scholz martedì sera Abu Mazen si è trovato a rispondere alla domanda se avrebbe chiesto scusa a Berlino per i fatti di Monaco '72. Cioè le maledette Olimpiadi in cui un commando di terroristi palestinesi legati a Fatah, il partito di Abu Mazen, prese in ostaggio undici atleti israeliani, che furono uccisi insieme a un poliziotto tedesco.

«Se vogliamo concentrarci sul passato, fate pure», ha detto il presidente ai giornalisti, aggiungendo che poteva citare «cinquanta massacri» commessi da Israele, «cinquanta stermini, cinquanta olocausti». Se lì per lì Scholz non ha avuto la presenza di spirito di replicare, in seguito il cancelliere si è detto «disgustato». [...] 

Le parole di Abu Mazen hanno provocato sdegno tanto in Germania quanto nello Stato ebraico. «Mahmoud Abbas che accusa Israele di aver commesso "50 Shoah" mentre si trova sul suolo tedesco non è solo una disgrazia morale, ma una mostruosa menzogna», il commento di Lapid. [...]

«Il presidente Mahmoud Abbas riafferma che la Shoah è il crimine più efferato della storia umana moderna», si legge nel comunicato diffuso sull'agenzia di stampa Wafa, che sottolinea come il presidente intendesse parlare di «crimini» commessi dalle forze israeliane.

Tuttavia, l'87enne Abu Mazen, politicamente sempre più debole e incapace di mantenere il controllo della Cisgiordania, non è nuovo al negazionismo della Shoah. La sua stessa tesi di dottorato, discussa nel 1982, si intitolava "L'altra faccia: la relazione segreta tra nazismo e sionismo". Nello studio si ripete più volte l'idea che la cifra dei sei milioni di ebrei annientati fosse un'esagerazione. 

«Questo è il "dottorato" del Presidente dell'Anp. C'è da stupirsi che egli accusi Israele di compiere 50 olocausti? », ha commentato l'ambasciatore di Israele a Roma Dror Eydar. Durante la conferenza stampa ci sono stati altri momenti di tensione tra Abu Mazen e Scholz, come quando il cancelliere ha sottolineato che non condivideva l'uso della parola Apartheid usata da Abu Mazen per descrivere la situazione nei Territori palestinesi. A elogiare invece le parole del leader, altri esponenti di Fatah. «Siamo orgogliosi di te», si legge in un post di Fatah pubblicato sui social media, secondo quanto riportato dalla stampa israeliana.

 I napoletani sono suoi concittadini. Abu Mazen, i 50 olocausti di Israele e la vergogna della cittadinanza onoraria concessa da de Magistris. Andrea Aversa su Il Riformista il 21 Agosto 2022 

L’ultima l’ha combinata in Germania. A Berlino, dinanzi al Cancelliere Olaf Scholz, Mahmūd Abbās – noto come Abu Mazen – ha accusato Israele di aver commesso, «dal 1947 ad oggi, 50 olocausti in altrettanti località palestinesi». Si, ha utilizzato proprio quella parola “OLOCAUSTO”, pronunciata a casa di un popolo che con la shoah e il programmato sterminio degli ebrei ha un rapporto delicato e sofferto. Parole che non solo hanno offeso la storia e la memoria ma che hanno rappresentato una mistificazione e una narrazione fittizia del conflitto israelo palestinese. Purtroppo i napoletani sono concittadini di Abu Mazen.

A conferirgli la cittadinanza onoraria è stato il sindaco in bandana Luigi de Magistris. Ciò avvenne nell’aprile del 2013, quando l’ex primo cittadino raggiunse il suo acme di retorica e ideologia anti israeliana dinanzi al leader palestinese. Per l’occasione de Magistris annunciò che erano «state messe in campo una serie di iniziative tra la città di Napoli e le città di Nablus, Gerico, Betlemme e Gerusalemme». Progetti in settori quali la cultura, la ricerca, l’economia e l’imprenditoria. Che fine abbiano fatto tutte queste promesse nessuno lo sa. Il corteggiamento dell’estremismo arabo da parte di quella giunta non deve certo meravigliarci. Dema aveva il suo serbatoio elettorale nei centri sociali, ovvero quelle organizzazioni di estrema sinistra da sempre nemiche di Israele.

Ma ci sono stati altri episodi che hanno confermato la distanza dell’ex pm con lo stato ebraico. “Giggino” cercò di conferire la cittadinanza anche al terrorista Bilal Kayed; fece proiettare in Comune un film dal nome “Israele, il cancro”; ospitò nella sala consiliare un convegno con gli aderenti al Movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) contro Israele; chiese in Consiglio, come se il suo fosse stato un governo autonomo e nazionale, di votare l’embargo militare ad Israele, benedicendo tutte le imbarcazioni che da Napoli si recavano provocatoriamente a Gaza; accolse a Palazzo San Giacomo i soli atleti palestinesi quando la città ospitò le Universiadi. Un curriculum, quello di de Magistris, del tutto sbilanciato verso una sola parte. Infine le ultime due gaffe. Prima, l’aver snobbato eventi e commemorazioni come l’inaugurazione di 9 pietre d’inciampo, installate in Piazza Bovio, per ricordare le vittime napoletane del genocidio voluto da Hitler: Amedeo Procaccia, Iole Benedetti, Aldo Procaccia, Milena Modigliani, Paolo Procaccia, Loris Pacifici, Elda Procaccia, Luciana Pacifici, Sergio Oreste Molco.

Poi, nel 2019, la nomina ad assessore alla Cultura di Eleonora De Majo (al posto di Nino Daniele, una decisione inspiegabile), la “regina” dei centri sociali. Quest’ultima aveva paragonato il sionismo al nazismo, definendo gli israeliani come dei «porci, accecati dall’odio, negazionisti e traditori finanche della loro stessa tragedia». L’ex primo cittadino, per smorzare gli animi, avrebbe potuto simbolicamente insignire della stessa onorificenza Shimon Peres, statista israeliano. Un passo indietro che avrebbe un minimo riequilibrato pesi e misure, anche rispetto ai rapporti con la comunità ebraica locale. Ma chi è Abu Mazen. Oltre ad essersi laureato con una tesi con forti denotazioni negazioniste, il leader palestinese non ha mai preso nette distanze dal terrorismo islamico. Dal 2005 è ininterrottamente Presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e presidente dello Stato della Palestina. In pratica, è come se in Italia un leader di partito diventasse e restasse premier per quasi 20 anni, senza che ci fossero più state le elezioni.

E anche in caso di consultazioni ci saremmo trovati di fronte a esiti elettorali “bulgari”. Cosa è questa se non una dittatura? Un regime che ha spremuto i palestinesi e causato l’egemonia terroristica di Hamas nella striscia di Gaza. Per non parlare della presunta corruzione della quale Abu Mazen pare sia colpevole. Soprattutto in merito ai tanti miliardi che gli stati occidentali hanno versato nelle casse palestinesi. A cosa sono serviti tutti quei fondi? A trovare la pace, una soluzione ai due stati, a migliorare le condizioni di vita dei palestinesi o a riempire le tasche dei loro rappresentanti politici? Non lo sappiamo. Sarebbe un bel gesto se il sindaco Gaetano Manfredi revocasse la cittadinanza onoraria ad Abu Mazen. Un piccolo grande passo di discontinuità rispetto alla precedente amministrazione. Andrea Aversa

ANTONIO ROSSELLO il 15 agosto 2022 su corrierenazionale.net.

Una riflessione di Igor Belansky.

Il nostro illustratore, Igor Belansky, ha da sempre focalizzato la sua vena artistico documentale nell’ambito della storia contemporanea. In questa occasione, però, porge ai lettori un suo contributo scritto. E lo fa entrando in un argomento che è da decenni scottante, che è fonte spesso di un dibattito assai autoreferenziale e poco informato: l’eterno ritorno della guerra in Israele. Una questione controversa che, con ripetitività ossessiva, declina in sé stessa elementi come la rappresaglia, le sofferenze, i diritti violati, l’odio che separa due popoli, su cui si scaldano anzitutto due minoranze militanti, nel grande mare della più totale indifferenza.

La prima fazione, più numerosa e con salde radici a sinistra (come pure in una determinata destra anti-araba) fa leva sulla tragedia palestinese. La seconda, assai più sparuta, postula che Israele è l’unica democrazia del Medioriente, il che diventa un vero e proprio slogan in difesa del Paese della stella di David. Ad ogni nuova recrudescenza di questa interminabile guerra, le due parti si fronteggiano senza quartiere, ovunque sui media, ora più che mai rete, in chiave offensiva o difensiva, con i loro post, la loro controinformazione o la loro propaganda da tifoseria calcistica.

Ecco come nasce l’anti-dialettica tra quelli per cui “Israele ha sempre torto” e quelli per cui “Israele ha solo e sempre ragione”. Questo ovviamente non stupisce, come non stupisce  (non solo sul web, anche sulla carta, ma perché no in famiglia o nei bar…) la polarizzazione estrema con cui, in ossequio a Zygmunt Bauman, ogni discussione in questa società fluida si origina. Il dramma è che manchino vieppiù le riflessioni pacate e l’analisi dei fatti scevra da partigianeria e ideologia, in sfregio alle grida di dolore, di rabbia e di guerra che si levano non solo dal tremendamente massacrato Medioriente, ma pure da altri – ahimè troppi – sanguinanti angoli del mondo.

Tutto ciò premesso, vediamo come in forma originale la pensa Belansky.

ISRAELE

Per molte persone Israele passa per l’invasore nei confronti dei palestinesi.

La situazione, però, è un pò diversa.

Gli ebrei non hanno invaso militarmente l’attuale Israele, hanno comprato le terre dagli sceicchi della zona, che furono ben contenti di vendere zone desertiche.

Pensavano di ingannare gli ebrei dandogli terre che mai avrebbero immaginato che sarebbero state coltivate.

Allora i palestinesi cominciarono a lamentarsi degli ebrei, ma ormai, era troppo tardi.

Oggi, siamo sempre nella stessa situazione.

I palestinesi rivogliono le terre dagli israeliani, che ovviamente dicono di no, forti del fatto che le terre le hanno comprate . Igor Belansky

Per Luzzatto gli ebrei sono “Un popolo come gli altri”. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista l'11 Agosto 2022 

Amo profondamente i libri di Sergio Luzzatto. Parliamo di uno dei maggiori storici italiani della contemporaneità, formatosi alla Normale di Pisa e alla École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dove ha preso un doppio Ph.D. Cattedratico di Storia Moderna presso l’Università di Torino per vent’anni, attualmente è Emiliana Pasca Noether Chair in Modern Italian History presso la Univesity of Connecticut.

Uno storico rigoroso e anticonformista

Lì, sulla Costa Est statunitense, sta lavorando sui nostri anni di piombo, dopo un recente, bellissimo testo biografico sulla figura di Guido Rossa, Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa (Einaudi, 2021, pp. 256, €15,20), a cui Luzzatto è legato da molti fili, non ultimo la comune genovesità.

Unico italiano vincitore del Cundill History Prize

Ma i campi di specializzazione del prof Luzzatto spaziano dalla Storia italiana dell’Otto e Novecento, alla Storia francese del Sette e Ottocento, includendo anche gli Studi ebraici del Novecento. Non manca una nota di eclettismo, testimoniata dal tagliente saggio su Padre Pio, Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento (Einaudi, 2007, pp. 420, €22,80) che ha vinto il Cundill History Prize nel 2011. Il Premio Cundill è considerato uno dei più prestigiosi premi storici di saggistica a livello mondiale. Ad oggi, Luzzatto è l’unico vincitore del Cundill Prize il cui libro non è stato originariamente pubblicato in inglese.

L’affaire “Pasque di sangue”

I suoi libri, così come le sue recensioni ai libri di altri colleghi, sono state a volte al centro di grandi polemiche perché Luzzatto ha il dono di essere uno studioso assai rigoroso, ma nient’affatto conformista. Sa parlare e scrivere in modo franco e sa ragionare in modo laico, senza ossequi verso nessuna corporazione. Sa prendere posizione, Luzzatto. Soprattutto quando si tratta di difendere la qualità e l’originalità del lavoro di un collega attaccato da tutta la sua comunità. Mi riferisco alla recensione (celebre, per la microcomunità di noi storici) che Luzzatto fece, il 6 febbraio 2007,  sul Corriere della Sera, all’assai discusso volume Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali, di Ariel Toaff (Il Mulino, 2007; seconda edizione riveduta 2008), il figlio del  rabbino capo di Roma, Elio Toaff.

Toaff e Luzzatto contro tutti

Per quella recensione per lo più elogiativa di un libro che scavava in quanto ci potesse esser di storicamente vero riguardo a una delle tematiche che hanno nel tempo alimentato la fobia antisemita – il fatto che alcuni ebrei fondamentalisti askenaziti usassero, nel Rinascimento, rapire e uccidere bambini cristiani per utilizzarne il sangue nei riti della Pasqua, da mescolare al pane azzimo – lo stesso Luzzatto si  trovò nell’occhio di una tempesta ben più grande di lui. Toaff indagava i confini fra “mit” e “rito” e aveva scoperto che, in almeno un caso – quello di Simoncino di Trento, del 1475 – era accaduto un omicidio rituale in ambienti di fondamentalisti ebraici askenaziti. Le fonti di Toaff erano soprattutto giudiziarie di matrice inquisitoriale, confermate poi da fonti successive, sempre cattoliche. Lo studio di Toaff si era speso intorno alla questione della maggiore o minore attendibilità delle confessioni estorte sotto tortura, analizzando le spie lessicali e culturali che potevano far propendere per una loro eventuale genuinità.

Questo tipo di ermeneutica risultò subito inaccettabile per la comunità ebraica italiana, che si tuffò a demolire non solo lo studio – e fin qui, nulla di male – ma anche l’autore e financo i suoi recensori positivi.

Così, sia Toaff che Luzzatto furono stigmatizzati  “da una sedicente intellighenzia ebraica legata all’Unione delle comunità israelitiche italiane” (p. 11) il giorno stesso dell’uscita della recensione (quindi senza che avessero potuto leggere lo studio di Toaff), e poi da altri storici e dal rabbino capo di Roma dell’epoca, Riccardo Di Segni. Al termine di quell’ondata di maccartismo fuori tempo, Ariel Toaff dovette piegarsi e far uscire un’edizione del suo Pasque di sangue riveduta, mentre il governo d’Israele (Toaff insegnava presso l’Università Bar-Ilan di Tel Aviv) dovette disporre nei suoi confronti una protezione armata a causa di tutte le credibili minacce di morte che gli erano arrivate.

Il caso “Partigia”

Anni dopo, quando Sergio Luzzatto pubblicò  il volume Partigia (Mondadori, 2017, pp. 415, €15), che presenta un Primo Levi negli inediti panni di complice della fucilazione di due membri della sua banda di partigiani, avvenuta il 13 dicembre 1943, prima di essere deportato ad Auschwitz, il riverbero di quella sua recensione positiva al testo proibito di Toaff sarebbe esploso nella richiesta di censura da parte di alti papaveri della dogmatica dell’ebraismo. Fra gli altri, Gad Lerner che in una recensione su Repubblica arrivò a paragonare Luzzatto a Giampaolo Pansa. Sic.

L’ebreo come uomo normale

Dopo aver letto questo libro Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l’eccezione, la storia (Donzelli, 2019, pp. 310, €19,50, ho come l’impressione che Luzzatto viva la religione al modo in cui la vivo io: da laico, da razionalista, da agnostico e da scettico. Se questa sensazione è corretta, è facile comprendere il perché di questo titolo non poi tanto sibillino, preso da una frase di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, apolide e rivoluzionario di professione: “Un popolo come gli altri”, teso a dimostrare che uno storico non deve parlare di “storia ebraica” ma semmai di “storia degli ebrei” e che, dopotutto, parliamo di un popolo che è come gli altri, quindi non è eletto, non è speciale, non è migliore degli altri. Di questo popolo non dobbiamo studiare solo la storia dell’antisemitismo che – per carità – è importante, ma non deve e non può esaurire l’intero spettro delle ricerche sulla storia degli ebrei.

Gli ebrei, un popolo come gli altri

Il testo è una raccolta di interventi di Luzzatto in vari ambiti di storia degli ebrei, dagli elzeviri del Corriere della sera, ad articoli più lunghi, forse pubblicati in occasioni accademiche. Si divide in 4 sezioni e una premessa fondamentale. Le 4 sezioni sono “Prima”, “Durante”, “Primo” e “Dopo”, dove il fulcro è la Shoah e dove “Primo” sta per “Primo Levi”. Gli interventi di Luzzatto sono dunque collocati in queste sezioni a seconda si occupino di storia medievale o rinascimentale o moderna (Prima), o di Shoah (Durante) o di Primo Levi (Primo) o di ciò che si è scritto vent’anni dopo la fine della Shoah, concentrandosi soprattutto sul conflitto arabo-israeliano. Luzzatto è un convinto critico delle politiche del governo d’Israele, e non le manda a dire.

Consigli utili per letture future

L’intento dell’autore in questo zibaldone è quello di raccontare diversi aspetti di storia degli ebrei, anche se c’è una tendenza a preferire la storia del Novecento. Luzzatto recensisce volumi che ha giudicato fondamentali – fra gli altri La tigre sotto la pelle. Storie e parabole degli anni della morte, di Zvi Kolitz, dove si incontrano personaggi della Shoah titanici, come la mamma che va a cercare la figlia cremata fra i papaveri, e la ritrova e la porta con sé sotto forma di due fiori rossi, e il più celebre I fratelli Oppermann di Lion Feuchtwanger, citato anche da Primo Levi, che possiamo definire la risposta della borghesia ebrea tedesca a I Buddenbrook.

Ne vien fuori una collezione di interventi brevi davvero preziosi, che funzionano anche come indice dei libri da leggere sugli ebrei. La premessa, poi, è salace, profonda e sorprendente, ed è dove appunto si richiama il terremoto culturale in seguito alla recensione del volume di Toaff.

Giulia Zonca per “la Stampa” il 10 agosto 2022. 

Paul Pogba non ha mai avuto paura di mostrare bandiere, lui stesso potrebbe definirsi così, nome di un calcio ancora ribelle e indipendente, talento che a volte non ha reso al meglio anche perché fuori dal sistema. Oggi, rientrato alla Juve dopo 6 anni al Manchester United, torna a sostenere la causa di Gaza: «Allah protegga il nostro popolo». Idealmente sventola di nuovo i colori della Palestina, come ha fatto davvero, in campo, nel maggio del 2019. 

Oggi aggiunge un post alle sue storie di Instagram, non lo ha scritto lui, lo prende da un account che si definisce «Islam is my deen» (l'Islam è la mia guida) e si limita a lasciarlo come è, con le facce dei bambini uccisi nei bombardamenti dei giorni scorsi, prima del cessate il fuoco mediato dall'Egitto che regge, come sempre su precari equilibri. Il testo scarno è una denuncia: «Bambini uccisi. Nessuna notizia. Ma siete umani?». La Palestina elenca i minorenni morti, 16, il più piccolo di 4 anni e Israele fa altri conti, dà altri numeri e allontana le responsabilità. In mezzo alla faida la gente continua a soffrire e Pogba sa bene da che parte stare.

Il campione del mondo si è convertito già da stella del pallone, in tempi recenti. Sua madre è musulmana, ma non l'ha cresciuto secondo i principi della religione, lui ne ha sentito il bisogno quando ricco e famoso ha capito di non avere un proposito. Di non avere chiari i valori che servono per mettere in fila ciò che conta ed evitare di farsi stravolgere da ogni cattiva notizia: «L'Islam mi ha dato una identità. A volte mettiamo in discussione la vita per qualsiasi stupidaggine, serve un fulcro».

 Se oggi Pogba, infortunato e lontano dal campo per più di un mese, scrive, «vedi il buono in ogni cosa» è per il culto che segue. È per l'esempio di Muhammad Ali che lui ha scelto come punto di riferimento: «Il Corano mi ha detto come affrontare le mie giornate, Ali è come me, un uomo che si è convertito per capire la sua storia».

Qualche anno fa Pogba ha iniziato a pregare con gli amici, si è confrontato con i numerosi colleghi praticanti, è stato alla Mecca, poi ha semplicemente capito «che cosa mi avrebbe messo in pace». E ha individuato esempi. E ha scelto le lotte, molte cause e quella palestinese abbracciata subito senza temere di finire in mezzo alle critiche, di essere contestato. Non è il tipo che si lascia spiegare che cosa fare.

 Su tutte le questioni vuole decidere in proprio, lo ha fatto anche sul suo menisco, dopo vari consulti e in accordo con la Juve, ma ha avuto lui l'ultima parola: ha optato per una terapia conservativa, non proprio la più consigliata, per poter riprendere a giocare prima ed essere ai Mondiali del Qatar, i primi in un Paese arabo. Gli interessa per difendere il titolo con la Francia, gli interessa per quel che rappresentano. Nel 2019, la bandiera palestinese gli è stata calata dalla tribuna, lanciata da un tifoso e lui l'ha raccolta e non ha esitato.

Non si è limitato ad alzarla: dopo la partita contro il Fulham, ha fatto il giro del campo con il compagno Amad Diallo, ivoriano e musulmano. Erano altri giorni di bombardamenti e di morti, anche allora ha pubblicato la foto sui suoi profili e anche allora si è scatenato il solito rumore di fondo. Sul conflitto arabo-israeliano non si muovono solo i differenti fronti, pure degli interessi. Diversi giocatori hanno litigato con i propri sponsor per aver manifestato solidarietà a Gaza. 

Pogba ha reso il suo credo evidente, tutti sanno come la pensa, i marchi che lo accompagnano e le squadre che lo vogliono quindi la Juve non può essersi stupita. Neanche se pochi giorni fa era a Tel Aviv dove avrebbe dovuto giocare un'amichevole contro l'Atletico Madrid. La partita è saltata proprio perché la situazione era instabile, pericolosa. Pogba è fermo e non si è dovuto porre il problema del viaggio.

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 agosto 2022. 

Caro Dago, sono strazianti le foto che il calciatore francese islamico Paul Pogba ha offerto alla commozione di tutto il mondo, le foto dei quattro bellissimi bambinetti palestinesi rimasti uccisi nell’attacco israeliano contro un edificio dove s’erano riuniti alcuni terroristi islamici.

Una gang ancor più feroce e inconsulta di Hamas, il raggruppamento politico palestinese che governa e domina lo spicchio di terra palestinese che ha nome Gaza. Quello da cui Sharon fece ritirare con la forza i coloni ebrei che vi si erano insediati e dove a un certo punto Hamas scalzò con la forza la leadership del ragionevole Abu Mazen (delfino di Arafat). 

E in quell’occasione i gentiluomini di Hamas commisero gesti molto eleganti tipo quello di legare il cuoco di Abu Mazen, portarlo al secondo piano di non so più quale edificio e scaraventarlo giù. Cose di cui dubito che venga un gran vantaggio ai bambinetti palestinesi e che Allah ne sia orgoglioso. 

Da allora la politica di Hamas è quella votata alla distruzione di Israele, e a tal uopo fanno un grande uso di missili e razzi indirizzati a grappoli sui civili israeliani, e ogni volta a un certo punto Israele reagisce, e ogni volta ne muoiono dei civili palestinesi, ivi compresi donne e bambinetti. 

E’ il regno dell’orrore, ma come potrebbe essere diversamente dato l’assunto di partenza dell’Hamas fomentata dagli iraniani? Sanno fare solo quello, sparare alla cieca contro un’entità militare che ogni volta li sovrasta e questo al costo di vite umane, ahimé tante. Se ne stanno cheti per un po’, per poi ricominciare.

Certo che la situazione di Gaza è disperata, lo sarebbe di meno se chi la governa spendesse non in armi i soldi che riceve da tutto il mondo, da un mondo che assiste sgomento e impotente a quella disperazione. 

Governata con altri criteri e non più votata alla distruzione dello Stato degli ebrei, Gaza potrebbe diventare tutt’altro sito che quello della disperazione. 

Le parole “pace” e “convivenza fra i diversi” ne potrebbero fare un luogo dove l’esser palestinese sarebbe meno disperante e senza sbocchi. Sta a loro scegliere quella pista, il non offrirsi ogni volta all’inevitabile e furibonda rappresaglia israeliana. Spero che lo stesso Pogba sia d’accordo con questo modo di vedere le cose.

"Allah protegga i palestinesi": il post di Pogba che nasconde la verità su Gaza. Andrea Muratore su Il Giornale il 10 agosto 2022. 

Paul Pogba è tornato a spendersi per la causa di Gaza e della Palestina partendo dal suo profilo Instagram. Il centrocampista della Juventus, campione del mondo con la Francia nel 2018 e ritenuto tra i maggiori talenti della sua generazione, ha ripreso in una storia un post raffigurante i volti di sei dei bambini morti nei recenti combattimenti a Gaza tra l'esercito israeliano e la Jihad Islamica palestinese.

Durante l'operazione Breaking Dawn, nella scorsa settimana, Israele è intervenuta contro una delle forze che controllano la Striscia di Gaza. I caccia hanno bombardato diversi obiettivi nell'enclave palestinese, uccidendo Tayseer al-Jabari, comandante della Pji nel nord della Striscia. In pochi giorni un cessate il fuoco è stato raggiunto, ma tra i raid dello Stato ebraico e i lanci di missili dalla Striscia, una volta di più, è stata la popolazione civile a essere colpita dal fuoco incrociato.

Il post di Pogba, in tal senso, riporta i volti di sei dei sedici bambini uccisi nei combattimenti postati dall'account "Islam is My Deen", con sede a Londra, accompagnandolo con l'invito "Allah protegga i palestinesi". L'account in questione, nel post originale, aggiunge il fatto che non c'è stata "copertura mediatica" nella diffusione dei nomi e dei volti dei bambini uccisi. I quali, va detto, sono stati però indicati con nome, cognome e immagine in un articolo di Al Jazeera, una delle testate più importanti al mondo, che da tempo segue con attenzione le violenze nella Striscia di Gaza. E anche Nbc News ha dato risalto al drammatico fatto.

Non è la prima volta che Pogba solidarizza con la causa palestinese, e il fatto di per sé sarebbe comprensibile essendo il giocatore tornato da poco a Torino dal Manchester United un musulmano praticante fedele alle sue radici. Poco più di un anno fa, al termine della partita di Premier League tra Manchester United e Fulham, insieme al compagno Amed Diallo fece un giro di campo a Old Trafford mostrando una bandiera palestinese ricevuta da un tifoso. Il punto problematico del post in questione è il rischio di una strumentalizzazione dei bambini uccisi a Gaza per fini politici.

In primo luogo, il post esce a scontri finiti e accompagnato da un perentorio hashtag #StopTerrorism, a indicare la convergenza tra l'azione militare israeliana e vere e proprie manovre volte a seminare il panico a Gaza in maniera brutale. In secondo luogo, sulla causa delle morti dei bambini trucidati a Gaza c'è ancora grande incertezza. Così come spesso accaduto sul fronte dei combattimenti tra israeliani e palestinesi nell'ultimo ventennio, causa di 4mila vittime di cui un quarto bambini, c'è grande confusione. Chi è il responsabile? L'aviazione israeliana o il confuso fuoco di controbatteria della Jihad Islamica?

L'esercito israeliano a tal proposito ha presentato ciò che dice essere una prova video che mostra che sette persone uccise a Jabaliya sabato notte, inclusi quattro bambini - in quello che i media palestinesi hanno affermato essere un attacco israeliano - sono state in realtà uccise da un missile della Jihad Islamica il cui lancio è fallito e che è atterrato all'interno della Striscia. Chiaramente tutto questo si può inserire nel quadro della propaganda bellica o nel giudizio sul tema, ma ogni evidenza deve essere analizzata ed eventualmente confutata prima di arrivare a giudizi definitivi.

Secondo quanto riferito dal Times of Israel, "l'esercito israeliano crede che la maggior parte dei bambini uccisi a Gaza durante i tre giorni di combattimenti di questo fine settimana siano morti a causa di esplosioni causate da lanci di razzi falliti da parte di agenti terroristi palestinesi e non a causa degli attacchi israeliani. Secondo un rapporto non fornito della domenica sul quotidiano Haaretz, i militari ritengono che la Jihad islamica palestinese sia responsabile di almeno 12 delle 16 morti di bambini segnalate dal ministero della Salute di Hamas a Gaza nei combattimenti".

Infine, si ripropone con post popolarizzati da un'atleta di fama globale come Pogba il mantra dell'utilizzo dei bambini a fini "iconografici" per giustificare messaggi politici. Una pratica diffusasi in forma virale nell'era dei social ma che lascia poco spazio a quello che dovrebbe essere un ragionamento serio sulla natura orribile di ogni guerra e delle sue conseguenze. Il nemico, in ogni raffigurazione, è sempre descritto allo stesso modo: violento, terrorista, uccisore di donne e di bambini. La costruzione del "mostro" attorno al nemico non citato ma lasciato intendere essere tale, in questo caso Israele, parte per Pogba proprio dal volto di bambini di cui si sa solo che sono morti, uccisi in una guerra più grande di loro, senza alcuna possibilità di consolazione per le loro famiglie. Buon senso vorrebbe che si cercasse di costruire, per loro, la strada della ricerca della verità sulle loro morti e, per i bambini di Gaza e di tutte le altre aree in crisi del mondo, un reale sentiero di pace. Un compito decisamente più nobile e utile di quello di utilizzare i volti di chi è stato strappato precocemente alla vita per denunce che durano giusto il tempo di una storia. Ma che è decisamente troppo complesso per le star dell'attivismo social.

Gaza, nuovi raid israeliani nella notte. Ucciso uno dei capi della Jihad. Redazione Esteri su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022.  

Ancora attacchi delle forze di Tel Aviv. Presidiati i luoghi di rito. Nei precedenti rai, secondo il ministero della Salute palestinese, ci sono stati 24 morti (sei bambini) e 203 feriti. 

L’esercito israeliano ha continuato a colpire Gaza durante la notte in risposta al lancio di razzi, mentre si teme l’acuirsi delle tensioni a Gerusalemme in occasione delle celebrazioni per il Tisha B’Av, una festività ebraica. Lo riferisce il Times of Israel, precisando che i luoghi dei riti sono presidiati da massicci schieramenti di polizia. Numerosi pellegrini già attendono di poter accedere alla Spianata delle Moschee, dove è stato vietato l’accesso agli uomini al di sotto di una certa età.

La Jihad palestinese ha intanto confermato, mentre l’operazione «Breaking Dawn» entra nel suo terzo giorno, la morte dell’alto comandante Khaled Mansour che si aggiunge a quella di Tayseer Jabari, avvenuta due giorni fa durante i raid israeliani. Ucciso, secondo la stessa fonte, il comandante dell’unità missilistica delle Brigate Al-Quds, Raafat al-Zamili, «martirizzato» negli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza.

I media palestinesi - riporta sempre il sito del Times of Israel - riferiscono poi di 7 feriti negli attacchi israeliani vicino a Rafah, dove sarebbe stato colpito un edificio residenziale. L’esercito israeliano, in un tweet in lingua inglese, afferma di aver preso di mira presunti tunnel terroristici utilizzati dalla Jihad islamica.

Intanto il ministero della Salute palestinese ha comunicato che è salito a 24 il bilancio delle vittime degli attacchi dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Tra i morti si contano 6 bambini, precisa il dicastero, mentre i feriti sono 203. Da parte sua, in una nota, il governo israeliano ha negato di aver colpito nelle ultime ore la località di Jabalia, dove sono morti dei bambini. «È stato dimostrato che si è trattato di un razzo della Jihad islamica non partito correttamente», si legge nel comunicato.

Davide Frattini per corriere.it il 6 Agosto 2022.   

Un rettangolo di muro si stacca dalla parete del palazzone nel centro di Gaza: dove prima c’era una finestra adesso c’è un buco grande il triplo che espelle polvere e fiammate. Dove prima i capi della Jihad Islamica erano seduti a complottare attacchi — secondo l’intelligence israeliana — non resta che la morte. 

L’operazione «Sorgere dell’alba» inizia con l’uccisione di Taysir al Jaabari (assieme ad almeno altre dieci persone, tra loro anche una bambina di cinque anni) e prosegue con 19 arresti all’alba di sabato tra i capi della Jihad islamica in Cisgiordania occupata. Gli ufficiali spiegano di aver fatto arrivare ad Hamas il messaggio di starne fuori, vorrebbero che questa rimanesse una mini-guerra contro la Jihad, sanno che le probabilità sono basse: 25 mila riservisti sono già stati richiamati, le strade attorno alla Striscia bloccate, le batterie anti-missile Iron Dome piazzate attorno a Tel Aviv. L ‘esercito israeliano ha riferito in una nota sabato mattina che soldati e agenti dell’agenzia di sicurezza interna Shin Bet hanno arrestato 20 persone in raid mattutini nella Cisgiordania occupata, «di cui 19 sono agenti associati all’organizzazione terroristica della Jihad islamica palestinese».

La rappresaglia annunciata nel pomeriggio è arrivata alle nove di sera, come promesso dai portavoce islamisti. Lanciati 160 razzi in poche ore, tra venerdì e sabato — intercettati nel 95% dei casi dal sistema Iron Dome — verso le città a nord di Gaza, sempre le prime a finire sotto il fuoco quando questi conflitti ciclici si riaccendono. Nel gergo in ebraico dei militari sono chiamati sivuv, parola che a Fania Oz-Salberger, figlia del romanziere Amos, suona fatalista e disperata: un altro giro del dolore che sembra inevitabile, nella Bibbia indica i cicli del sole. E dell’Alba appunto.

Jaabari è stato eliminato perché sarebbe stato lui a guidare la squadra incaricata di vendicare l’arresto cinque giorni fa di Bassam al Saadi, 61 anni passati più dentro che fuori le prigioni israeliane: tra i leader a Jenin, nel nord della Cisgiordania, è sospettato di voler organizzare attacchi contro gli israeliani. Gli analisti si aspettavano che le operazioni in Cisgiordania avrebbero aperto il fronte di Gaza. Così è successo. L’intelligence aveva preparato il pubblico con informazioni filtrate ai giornalisti di cose militari: la Jihad stava definendo gli ultimi dettagli di un attentato con razzi-anticarro da sparare al di là della barriera su obiettivi civili.

Ancora una volta in questi ultimi anni Israele va in guerra durante una campagna elettorale. Yair Lapid è premier da un mese e mezzo, un capo del governo ad interim (almeno fino alle elezioni dell'1 novembre) su cui le fazioni palestinesi potrebbero aver voluto mettere pressione. La coalizione che ha presieduto con Naftali Bennett fino alla crisi era nata proprio dopo gli undici giorni di scontro a maggio dell’anno scorso. In mezzo i civili: gli abitanti delle città israeliane colpite dai razzi (una cinquantina solo nei primi minuti), i due milioni di palestinesi stretti a Gaza sotto il dominio di Hamas in un corridoio di sabbia lungo 41 chilometri e largo dai 6 ai 12. Pochi possono uscirne per l’embargo israeliano contro i fondamentalisti, mentre il valico a sud controllato dagli egiziani resta quasi sempre chiuso dal 2007, da quando Hamas ha tolto con le armi il controllo della Striscia all’Autorità palestinese.

L'escalation nell'operazione Breaking Dawn. Altissima tensione tra Israele e Gaza: missili e bombardamenti dopo l’eliminazione del leader islamico. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Agosto 2022 

Esplode di nuovo la tensione tra Israele e il gruppo palestinese del Jihad Islamico nella Striscia di Gazza. Gli attacchi reciproci sono continuati per tutta la notte tra venerdì e sabato. Tel Aviv aveva lanciato un’operazione nella striscia con diversi raid venerdì: almeno una decina di morti e 55 feriti. Eliminato, nell’operazione che ha determinato l’escalation e che era stata battezzata “Breaking Dawn” un capo del gruppo radicale, Taiseer al Jabari. Altre 19 persone ritenute a capo dell’organizzazione sono state arrestate.

Israele ha fatto sapere che dei 160 razzi lanciati dalla Striscia il sistema difensivo Iron Dome li ha intercettati quasi tutti. Una sola persona risulta ferita dalla scheggia di un razzo. Aperti comunque i rifugi antiaerei nelle cittadine israeliane al confine con la Striscia. Chiuse al pubblico zone considerate a rischio, tra cui alcune spiagge.

La notte ha invece visto due attacchi aerei e bombardamenti da terra da parte di Israele nella Striscia. Il ministero della Salute Palestinese ha comunicato una vittima e un ferito, a Khan Yunis. Un altro militante palestinese di 15 anni era stato ucciso nei giorni scorsi in un conflitto a fuoco scaturito dall’arresto, in Giordania, di un leader del gruppo Jihad Islamica, il comandante 61enne Bassam al Saadi. E un altro leader dell’organizzazione, Ziad al Nakhalah, aveva annunciato l’inizio di una “guerra senza tregua per rispondere a questa aggressione”.

Giornalista di Al Jazeera uccisa in Cisgiordania: “Shireen Abu Akleh colpita deliberatamente alla testa”

Jaabari era ritenuto l’incaricato della vendetta per l’arresto dell’altro leader islamico in Giordania, perciò sarebbe stato colpito. Hamas, che governa la Striscia di Gaza popolata da circa due milioni di palestinesi, aveva accusato di crimini di guerra Israele.

Gli scontri in corso sono tra i più intensi da quelli del maggio 2021, in una guerra di 11 giorni che aveva lasciato sul terreno oltre 200 palestinesi e 12 israeliani. Nell’operazione “Breaking Down”, ha precisato il ministero palestinese è morta anche una bambina di cinque anni. Israele aveva parlato di azioni preventive contro attacchi imminenti del gruppo islamico. Il primo ministro israeliano Yair Lapid aveva parlato di “una precisa operazione antiterroristica contro un pericolo immediato”.

L’operazione “Breaking Dawn” dovrebbe durare circa una settimana. Hamas al momento non ha preso parte ai lanci di missili dalla Striscia. Sarebbero in corso delle trattative mediate dall’Egitto per disinnescare l’escalation. Le strade attorno alla Striscia sono state bloccate. Israele è in campagna elettorale, si vota l’1 novembre.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

La vita di Shimon Peres, un racconto per capire meglio Israele. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.  

Su Netflix il documentario sull’ex presidente è interessante per ricostruire i negoziati con la Giordania, gli accordi di Oslo, la cooperazione tra arabi ed ebrei 

Su Netflix è possibile vedere «Il talento di sognare: la vita e gli insegnamenti di Shimon Peres» («Never Stop Dreaming: The Life and Legacy of Shimon Peres»), un documentario sulla vita dell’ex presidente dello Stato d’Israele. Prodotto dal regista Richard Trank, sorretto dalla voce narrante di George Clooney, il film è un insieme di interviste con l’ex presidente israeliano e con i membri della sua famiglia, ma anche con i suoi amici più cari e una lunga lista di leader mondiali che lo hanno conosciuto. Tra loro, l’ex primo ministro britannico Tony Blair, l’ex premier israeliano Benjamin Netanyahu e gli ex presidenti degli Stati Uniti Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama.

Nato nell’attuale Bielorussia, emigrato con la famiglia nella Palestina mandataria (governata dagli inglesi), ebraicizza poi il suo nome Persky (letteralmente «persiano»: l’attrice Lauren Bacall, all’anagrafe Betty Persky, era sua cugina) in Peres, fonda il suo kibbutz e inizia la sua lunga attività politica, ora falco ora colomba: attivista nel movimento socialista dei lavoratori, formidabile organizzatore della difesa ebraica Haganà, a 27 anni direttore generale del ministero della Difesa, a 36 deputato della Knesset, quindi leader della sinistra, ministro della Difesa (fu lui ad autorizzare l’Operazione Entebbe) e degli Esteri e delle Finanze e dei Trasporti e dell’Informazione e dell’Immigrazione e di molte altre cose, infine due volte premier e presidente d’Israele.

Il film è molto interessante per ricostruire i negoziati di pace tra Israele e Giordania nel 1994, gli accordi di Oslo con il leader palestinese Yasser Arafat e, più ingenerale, la cooperazione tra arabi ed ebrei. Shimon Peres (1923-2016), la cui vita si intreccia con quella dello Stato Ebraico fin dalla sua fondazione nel 1948, è riuscito grazie al suo carisma a diventare un modello per le future generazioni, un leader amato e rispettato.

Nasce Israele ed è subito conflitto. La Gazzetta del Mezzogiorno del 15 maggio 1948. Annabella De Robertis  su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 maggio 2022.

«Al suono solitario di una cornamusa scozzese, sir Cunningham, Alto commissario per la Palestina, ha lasciato stamane Gerusalemme, ponendo così termine al mandato britannico sulla Palestina». «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 15 maggio 1948 con queste parole annuncia ai suoi lettori una notizia di importanza storica: la nascita dello Stato di Israele. «La sera prima sir Cunningham aveva rivolto un messaggio di addio alla popolazione palestinese facendo appello alla comprensione tra ebrei e arabi residenti in Terrasanta».

Il corrispondente da Londra spiega che nelle ultime ore si è riunito il Consiglio nazionale ebraico, che si è espresso in questi termini: «... proclamiamo la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina che prenderà il nome di Israele. Lo Stato sarà aperto a tutti gli immigranti ebrei, promuoverà lo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà basato sui precetti di libertà giustizia e pace insegnati dai profeti ebrei, garantirà la piena uguaglianza di razza, religione o sesso e assicurerò piena libertà di educazione e di cultura». I membri del Consiglio ebraico, inoltre, hanno promesso piena uguaglianza di diritti e di rappresentanza in tutti gli organi dello Stato alla popolazione araba e auspicano l’istituzione di relazioni pacifiche con i Paesi confinanti. Si tratta di un primo, inutile tentativo di mettere in atto la risoluzione 181, il piano proposto dall’Onu nel novembre 1947 per la spartizione della Palestina in due Stati, respinto dalla comunità araba. Poche ore dopo l’annuncio della nascita di Israele, gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano invaderanno il territorio dello Stato appena nato.

Uccisa Shireen, la giornalista-star di Al Jazeera. Ma Israele attacca: "Non abbiamo colpito noi". Fiamma Nirenstein il 12 Maggio 2022 su Il Giornale.

Stati Uniti, Onu e Unione europea chiedono un'inchiesta indipendente.

Quando un giornalista muore sulla linea del fuoco è un dramma per tutto il mondo, e purtroppo accade spesso, come si vede anche in Ucraina. Quando questo accade sul fronte del conflitto israelo-palestinese tuttavia la reazione è diversa da ogni altra, molto simile a una condanna pubblica senza processo. Qui Israele è il condannato preventivo del grande accusatore, la rete, il movimento, i politici. Shireen Abu Akle, la giornalista 51enne di Al Jazeera uccisa ieri da un proiettile a Jenin, in Cisgiordania, era seguita e apprezzata da decine di milioni di telespettatori: filopalestinese sempre sul campo, convinta che gli israeliani fossero responsabili di crimini da raccontare al telespettatore, spiegava il suo impegno in prima fila dai tempi dell'Intifada, dicendo che «voleva essere vicina al popolo e portare la sua voce al mondo». Una posizione politica consona al ruolo di Al Jazeera, jihadista e amante dei palestinesi (tutti noi giornalisti l'abbiamo incontrata, agile e articolata, e la notarono anche gli autori di Fauda, che hanno tratto da lei l'ispirazione per il nome della dottoressa, Shireen, protagonista della serie Netflix). Alla notizia della sua morte, i siti per la «causa palestinese» e i notabili della battaglia si sono mobilitati nell'accusare Israele di «terrorismo di stato», come ha detto il ministro degli Esteri giordano Ayman al Safadi, o il ministro degli Esteri del Qatar, il paese che di Al Jazeera è lo sponsor e che finanzia, notoriamente, Hamas; Abu Mazen si è spinto a dichiarare la morte della Abu Ahla una esecuzione, e di là dall'oceano la deputata Rashida Tlaib dal Congresso americano, attivista palestinese nota, ha detto che Israele deve essere processata dalla corte internazionale. Da Israele si chiede che i palestinesi accettino, cosa che per ora hanno rifiutato, una commissione formata dalle due parti, più garanti, che esamini la realtà dei fatti. Un'inchiesta indipendente la chiedono anche Stati Uniti, Onu, Unione europea. La prima ricerca dovrebbe essere sul proiettile che ha ucciso Shireen. Il primo ministro Naftali Bennett, il Capo di Stato Maggiore Aviv Kohavi, il ministro della Difesa Benny Gantz («non c'è stato fuoco dell'esercito verso giornalisti, mentre abbiamo materiale sul fuoco indiscriminato dei palestinesi»), tutti rifiutano la condanna preventiva e anzi pensano che sia probabile che il fuoco inaccurato dei terroristi sia responsabile del tragico episodio, e chiedono che una commissione faccia luce. Poiché Shireen era anche americana, può darsi che in vista della visita di Biden, in giugno a Gerusalemme e a Ramallah, si accetti un'indagine. Comunque siano, purtroppo, andate le cose, l'esercito era a Jenin perché è la città da cui muove una percentuale impressionante di terroristi, compresi quelli di quest'ultima ondata. In un documento filmato ieri, uno degli abitanti spara col kalashnikov e urla «ho colpito un israeliano, è a terra». Ma non risulta nessun israeliano colpito. In Israele l'ipotesi è che, per un equivoco, la persona colpita sia Abu Akle. Ma occorrono le perizie necessarie, altrimenti non si saprà cos'è successo, qualsiasi cosa dicano i palestinesi.

Il New York Times: "Il proiettile che ha ucciso la giornalista di Al Jazeera proveniva da un convoglio israeliano". Massimo Basile su La Repubblica il 20 Giugno 2022.

Un'inchiesta del quotidiano americano conferma quanto sostenuto anche da Ap e Bellingcat sull'uccisione di Shireen Abu Akleh a Jenin, in Cisgiordania

Il proiettile che l’11 maggio ha ucciso la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh è partito da una zona in cui si trovava l’esercito israeliano. E’ la conclusione a cui sono arrivati i giornalisti del New York Times e che conferma l’ipotesi già avanzata da altri media. La giornalista di Al Jazeera, 51 anni, volto conosciuto per i suoi reportage in prima linea, si sentiva al sicuro a Jenin, in Cisgiordania, quando è stata uccisa: aveva il giubbotto antiproiettile, l’elmetto protettivo, la scritta “Press” a caratteri giganti.

L'inchiesta sulla morte della reporter di Al Jazeera. Shireen Abu Akleh, per la morte della giornalista il New York Times accusa Israele: “Proiettili sparati da un loro convoglio militare”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

A poco più di un mese dalla tragica morte di Shireen Abu Akleh, la giornalista 51enne palestinese-americana di Al Jazeera uccisa durante un reportage a Jenin, in Cisgiordania, piovono nuove accuse nei confronti dell’esercito israeliano.

A metterle nero su bianco è una inchiesta pubblicata dal New York Times, che conferma di fatto le ricostruzioni già pubblicate nelle scorse settimane da Cnn, Washington Post e Bellingcat: a sparare e uccidere la reporter sono stati i militari israeliani.

A nulla è valso per Shireen Abu Akleh indossare un elmetto protettivo ma soprattutto il giubbotto antiproiettile con la scritta ‘Press’ a caratteri cubitali: contro di lei, probabilmente intenzionalmente, anche se su questo punto lo stesso giornale sottolinea di non avere prove certe, sono stati esplosi ben 16 colpi di proiettile.

Al termine di una indagine portata avanti per un mese, il quotidiano americano ha smentito così la ricostruzione israeliana fatta dallo stesso esercito e dal premier Naftali Bennett, che aveva tirato in ballo l’ipotesi che la morte della giornalista potesse esser stata provocata dal ‘fuoco amico’ dei palestinesi armati.

Nulla di tutto ciò è accaduto l’11 maggio scorso a Jenin, è invece la tesi del Nyt. Secondo quanto ricostruito i proiettili sono stati esplosi da un soldato di un’unità d’élite in un convoglio militare israeliano distante circa 300 metri dal luogo dove si trovava Shireen Abu Akleh, nei pressi del campo profughi di Jenin per seguire un’operazione militare israeliana nella zona.

Il Times ha sottolineato nella sua indagine che nella zona in cui si trovava la reporter di Al Jaazera non vi erano palestinesi armati, come confermato al quotidiano da sette persone, tra freelance e testimoni, presenti sul luogo dell’omicidio. I palestinesi più vicini alla giornalista erano distanti quasi 400 metri, una distanza che secondo gli esperti di balistica sentiti dal New York Times non è compatibile con la ricostruzione fornita da Israele.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Per l’Onu la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh è stata uccisa dall'esercito israeliano. LUCA SEBASTIANI su Il Domani il 24 giugno 2022

Un’inchiesta delle Nazioni unite ha concluso che la giornalista uccisa lo scorso 11 maggio sia stata raggiunta da colpi sparati dalle forze dell’esercito israeliano.

La giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, uccisa lo scorso 11 maggio, è stata raggiunta da colpi di armi da fuoco sparati dalle forze di sicurezza israeliane. È il risultato di un’inchiesta svolta dall’Onu.

«È profondamente inquietante che le autorità israeliane non abbiano condotto un'indagine penale», ha detto Ravina Shamdasani, portavoce dell’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni unite, in un briefing a Ginevra.

Shamdasani ha affermato che «i colpi che hanno ucciso Abu Akleh e ferito il suo collega Ali Sammoudi provenivano dalle forze di sicurezza israeliane e non dal fuoco indiscriminato di palestinesi armati, come inizialmente affermato dalle autorità israeliane».

Israeliani e palestinesi da giorni cercavano di addossarsi a vicenda la responsabilità dell’accaduto. Anche il funerale della giornalista era stato un momento di forte tensioni con le cariche delle forze israeliane sulla folla.

Shireen Abu Akleh, 51 anni, era una giornalista americano-palestinese, corrispondente di Al Jazeera e si occupava da oltre vent’anni del conflitto israelo-palestinese. Abu Akleh stava raccontando di un raid israeliano nella città di Jenin.

LA REAZIONE DI ISRAELE

Un portavoce militare di Israele ha risposto all’esito dell’inchiesta della Commissione dei diritti umani della Nazioni unite, sostenendo che Shireen Abu Akleh «non è stata colpita in maniera intenzionale da nessun soldato israeliano». Per il portavoce «ancora non è possibile determinare se sia stata uccisa da miliziani palestinesi che sparavano indiscriminatamente o inavvertitamente da un soldato israeliano». 

LUCA SEBASTIANI.  Giornalista praticante, laureato in Storia e con un master in Geopolitica e sicurezza globale. Scrive di esteri e politica internazionale.

Da open.online.it il 13 maggio 2022.

La polizia israeliana ha attaccato il corteo funebre per la giornalista palestino-americana Shireen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio durante un’operazione delle forze israeliane nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Centinaia di persone si erano raccolte fuori dall’ospedale di Gerusalemme Est per accompagnare la bara verso la Chiesa per la celebrazione del funerale, cantando e sventolando la bandiera palestinese, (di cui Israele vieta l’esposizione in pubblico).

Come si vede nel video, la polizia ha iniziato a colpire le persone con manganelli, calci e granate stordenti, cercando di far indietreggiare la folla e provocando la caduta della bara. Le forze dell’ordine hanno dichiarato che la folla stava «disturbando l’ordine pubblico».

Davide Frattini per corriere.it il 16 maggio 2022.

Ha scelto lo stesso cortile in cui la polizia israeliana ha fatto irruzione, lo stesso ospedale che ha conservato il corpo di Shirin Nasri Abu Aqla prima che la bara venisse accompagnata al cimitero sul Monte degli Ulivi. 

Pierbattista Pizzaballa — il Patriarca latino di Gerusalemme, l’autorità cattolica più alta nella città e nel Paese — condanna l’intervento delle squadre antisommossa durante i funerali per la giornalista di Al Jazeera: «Siamo sconvolti. Le ragioni di sicurezza non possono giustificare le cariche che offendono la sensibilità della comunità cristiana e non solo».

Gli agenti hanno colpito con i bastoni la folla davanti alla clinica San Giuseppe nella parte araba, non hanno risparmiato gli uomini che stavano trasportando il feretro, uno di loro è scivolato, la bara ha rischiato di cascare a terra. 

Attacco che Tomasz Grysa, l’inviato del Vaticano, definisce «una violazione brutale della liberà religiosa, diritto fondamentale incluso nell’accordo tra Israele e la Santa Sede». 

L’ordine di interrompere il corteo – hanno raccontato i giornali locali – è stato dato dal capo della polizia, pur in viaggio all’estero: le squadre avrebbero risposto al lancio di pietre ma soprattutto sono intervenute per strappare le bandiere palestinesi sventolate dalla gente in omaggio alla reporter, ormai diventata un simbolo politico.

Shirin è stata ammazzata mercoledì scorso durante gli scontri tra le forze speciali israeliane e i miliziani palestinesi a Jenin, nel nord della Cisgiordania: il canale satellitare di proprietà del Qatar accusa i soldati di aver freddato la giornalista, ne sono convinti anche i palestinesi che hanno eseguito l’autopsia. I portavoce di Tsahal spiegano che per avere certezze su chi l’abbia uccisa è necessario analizzare il proiettile. Per ora i palestinesi aprono a un’inchiesta internazionale, si rifiutano di condividere il bossolo con gli israeliani.

Ancora tensione al funerale della giornalista uccisa in Cisgiordania. Rossella Tercatin su la Repubblica il 13 maggio 2022.

Il suono delle campane, ma anche l’insistente frastuono delle pale degli elicotteri. Grande commozione ma anche forti tensioni. Una lunga processione con migliaia di persone ha accompagnato l’ultimo viaggio di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa mercoledì in Cisgiordania e sepolta sul Monte Zion dopo il funerale celebrato nella Chiesa di Sant’Andrea nella Città Vecchia di Gerusalemme. 

Un funerale ancora una volta teatro di violenza: mentre il corpo della giornalista lasciava l’ospedale, le forze dell’ordine israeliane hanno caricato i partecipanti, inclusi coloro che portavano la bara, che a un certo punto ha rischiato di cadere per terra. A provocare l’intervento secondo quanto comunicato dalla polizia, lancio di pietre e canti nazionalistici da parte di “centinaia di manifestanti” che hanno “disturbato l’ordine pubblico” e “costretto gli agenti a intervenire”.

Nata nel 1971 a Gerusalemme, palestinese di religione cristiana, Abu Akleh, era ormai diventata per i telespettatori palestinesi e nel resto del mondo familiare un volto familiare. Dal 1997 lavorava per il network qatariota ed era considerata un simbolo della causa palestinese, a cui dava voce attraverso i suoi reportage. È stata colpita alla testa durante uno scontro a fuoco tra esercito israeliano e miliziani palestinesi a Jenin, dove i soldati stavano conducendo un’operazione antiterrorismo.

A più di due giorni dalla morte della giornalista, lo scambio di accuse sulle responsabilità dell’accaduto non accenna a placarsi. I testimoni palestinesi  - incluso un altro giornalista che lavorava con Abu Akleh ed è rimasto ferito - l’Autorità palestinese e la stessa Al Jazeera hanno sin dall’inizio accusato Israele, sostenendo che i soldati abbiano deliberatamente preso di mira i membri della stampa che indossavano un giubbotto con la scritta “Press”. Dal canto loro, le autorità israeliane invece hanno inizialmente sostenuto che era “molto probabile” che Abu Akleh fosse stata uccisa dal fuoco dei miliziani, pur non escludendo in via definitiva l’ipotesi contraria. In seguito però, le dichiarazioni – tanto del Primo Ministro Naftali Bennett, quanto del Ministro della Difesa Benny Gantz e dei vertici militari – si sono fatte più caute, riconoscendo che a esplodere il colpo fatale potrebbe essere stato - inavvertitamente - uno dei soldati e chiedendo ancora una volta, così come nelle prime ore dopo l’uccisione, un’inchiesta congiunta insieme ai palestinesi con il coinvolgimento degli Stati Uniti, di cui la giornalista aveva la cittadinanza. La proposta però è stata ripetutamente respinta dall’Autorità palestinese che è attualmente in possesso dei resti del proiettile ritrovato nel corpo. “Israele ha richiesto un'indagine congiunta e la consegna del proiettile che ha assassinato la giornalista Shireen, noi abbiamo rifiutato e abbiamo affermato che la nostra inchiesta sarà completata in modo indipendente,” ha twittato il Ministro degli Affari Civili palestinese Hussein al-Sheikh. “Informeremo la sua famiglia, Usa, Qatar e tutte le autorità ufficiali e il pubblico dei risultati dell'indagine con la massima trasparenza. Tutti gli indicatori, le prove e i testimoni confermano il suo assassinio da parte di unità speciali israeliane”. Al momento, però, le indagini preliminari condotte dall’Istituto di Medicina Legale di Nablus, così come quelle dell’inchiesta interna dell’esercito israeliano non hanno raggiunto conclusioni definitive. Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, a uccidere Abu Akleh sarebbe è stato il proiettile di un M-16, usato dai soldati ma anche molto comune fra i miliziani.

Dalla fine di marzo Israele ha conosciuto una serie di attentati terroristici come non accadeva da anni, con un bilancio totale di 19 morti. In numerosi attacchi, i terroristi provenivano dalla zona di Jenin. Secondo fonti palestinesi invece sono state almeno una trentina nello stesso periodo le vittime degli scontri in Cisgiordania, durante le numerose operazioni militari condotte dall’esercito israeliano, inclusi alcuni civil6i. Dopo la morte di Abu Akleh le operazioni nell’area di Jenin sono proseguite. Venerdì a perdere la vita è stato anche un ufficiale dell’esercito israeliano, il quarantasettenne Noam Raz. Diversi anche i palestinesi rimasti feriti. 

Autogol del governo d'Israele. Un'inchiesta sulla sua polizia. Fiamma Nirenstein il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.

Dopo lo sdegno mondiale per la bara quasi ribaltata per l'azione degli agenti, il ministro apre l'indagine.

Gerusalemme. La condanna mondiale generale, o piuttosto la criminalizzazione, le parole sconsiderate, automatiche di tutte le tv e di molti leader contro Israele, l'accettazione della colpa anzi dell'intenzione criminale proposta dai palestinesi, il silenzio mondiale sul rifiuto di Ramallah di condividere un'indagine comune sul proiettile che ha ucciso Shirin Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa a Jenin, non contribuiscono alla ricerca della verità. Al contrario, la nascondono: sostenuti, i palestinesi non consentiranno mai l'esame delle prove. Così come aggiunge un elemento di confusione (che servirebbe bene a Douglas Murray per provare la tesi del suo ultimo libro che l'Occidente è il maggiore nemico di se stesso) il fatto che il ministro della Sicurezza israeliano Omer Bar Lev abbia istituito una commissione di inchiesta che indaghi sulla sua polizia e sugli eventi che hanno portato venerdì, durante il funerale, a scontri con la folla e quasi al rovesciamento, molto scioccante, della bara della povera giornalista.

La portavoce del presidente degli Stati Uniti Jen Psaki ha dichiarato le immagini «molto inquietanti», l'Ue si è detta «sconvolta». Lo stesso la Bbc, la Cnn, i giornalisti al funerale. Nessuno si è chiesto come sono andate le cose. La versione della polizia è che l'intento, forse non gestito con il garbo necessario, era quello di consentire un funerale ordinato e di sottrarre la bara a un gruppo di facinorosi che se ne era impadronito. È vero? Bar Lev sospetta di no insieme ai nemici di Israele, anche se quella è la sua polizia. Le forze dell'ordine invece che di fronte a un funerale si sono trovate di fronte a una manifestazione palestinese di massa (che non è come una manifestazione sindacale in Italia!) con le bandiere dell'Olp sventolate da una grande folla per le strade di Gerusalemme che gridava slogan si odio e di vendetta e ha anche lanciato di pietre. La polizia si è trovata in una situazione di esplosione politica e di violenza dopo giorni e giorni in cui con Ramadan la città è stata tormentata da attacchi terroristi e da scontri con i miliziani di Hamas e altre organizzazioni sulla Spianata delle Moschee. Quando la processione funebre è diventata la testa di un corteo dell'Olp non autorizzato, e le pietre hanno cominciato a piovere, si è fatta forse troppo sotto per impedirlo.

E allora tutte le peggiori congetture sull'aggressività israeliana, lasciando da parte quella palestinese, sono diventate carburante che ha preso fuoco. Vedremo: ma l'abbandono della polizia israeliana da parte del ministro in una situazione di attacco internazionale, ha qualcosa di oscuro e di inconsueto. Israele è uno stato democratico che ha il dovere di dar conto del suo comportamento, e quindi sarebbe stato logico che fornisse e anche rendesse pubbliche le risposte della polizia allo scandalo internazionale. Ma l'inchiesta significa una dilatazione del sospetto che toglie energia alle forze dell'ordine in un momento molto difficile, dopo tre settimane con 19 morti uccisi nelle strade, ai bar e nei negozi, in nome della stessa bandiera che ieri ha coperto coi suoi colori le strade della città. Inutile domandarsi cosa succederebbe a un cittadino israeliano che portasse la bandiera con la stella di David a Ramallah. Inutile anche domandarsi come mai se Israele è così esecrabile, il 93% dei cittadini arabi di Gerusalemme dicono che preferiscono essere israeliani rispetto alla prospettiva di una cittadinanza palestinese.

Israele e l'uccisione della giornalista Shireen Abu Akleh. Piccole note il 13 maggio 2022 su su Il Giornale.

L’uccisione di Shireen Abu Akleh, una delle più autorevoli croniste di al Jazeera, sta incendiando il Medio oriente. L’assassinio è avvenuto a Jenin, mentre documentava un’operazione dei militari di Tsahal. Per al Jazeera e i palestinesi non ci sono dubbi sulla responsabilità dell’esercito israeliano (IDF). A dare voce al dolere di al Jazeera il potente e dolente J’accuse di Andrea Mitrovica, al quale rimandiamo.

Tel Aviv, ovviamente, si difende, affermando che a colpirla potrebbero essere stati anche i palestinesi impegnati nello scontro a fuoco con i soldati israeliani. E ha aperto un’inchiesta per accertare i fatti, chiedendo ai palestinesi di parteciparvi (ma al momento non sembrano intenzionati a farlo perché reputano l’accaduto fin troppo chiaro).

È un durissimo colpo per l’immagine di Israele, tanto che, come spiega Amos Harel, su Haaretz, l’Hasbara (la macchina della propaganda israeliana) è entrata in azione, producendo un fuoco di sbarramento che andava dalla difesa più o meno ragionevole dei soldati a dei veri e propri deliri: “Alcuni – scrive Harel – sono arrivati ​​addirittura a incolpare la stessa Abu Akleh per la sua morte: non è altro che propaganda pagata dai nostri nemici, hanno affermato, e dal momento in cui [la cronista] ha scelto di entrare in una zona di combattimento, il suo sangue è stato perso”.

Ma, dopo alcune ore dall’accaduto, “l’ipocrisia è svanita“, continua Harel e “il capo di stato maggiore Aviv Kochavi ha promesso che sarebbe stato effettuato un esame approfondito delle cose e ha espresso dolore per la morte” della cronista.

Quindi, “in serata, il capo del Comando Centrale, generale Yehuda Fuchs, ha rilasciato alcune interviste alle Tv nelle quali ha lodevolmente dichiarato quel che avrebbe dovuto essere detto fin dalla mattina: in quanto guida dell’IDF, sono responsabile di tutto ciò accade in questa terra. Non volevamo che accadesse. Apriremo un’inchiesta interna per verificare se la giornalista è stata uccisa accidentalmente da uno dei nostri” (quell’accidentalmente è atto dovuto, ma suona come un evidente limite; tant’è).

A contribuire a tale svolta, aggiunge Harel, “è stata senza dubbio l’inattesa rivelazione che Abu Akleh aveva la cittadinanza americana“. E però, al di là di quanto verrà appurato e dalla potenza dell’Hasbara, commenta il cronista di Haaretz, il tribunale dell’opinione pubblica mondiale ha già emesso il suo verdetto e condannato Israele. Resta solo da vedere quanto in alto divamperanno le fiamme dell’incendio innescato dall’uccisione della giornalista.

Quanto avvenuto cade in un momento più che critico per Israele e il suo governo. Negli ultimi due mesi il Paese ha registrato una serie di attentati senza precedenti nel recente passato.

Non solo, il già fragile governo sta anche subendo pressioni debite e indebite sul fronte interno. Significativa in tal senso la lettera contenente una pallottola inviata a Bennet, che ha preceduto un’analoga missiva inviata al figlio (Israel Hayom).

Non solo, il governo ha vacillato a causa delle fibrillazioni all’interno della coalizione: la Lista araba unita ha infatti minacciato di farlo cadere. Si era perfino iniziato a parlare di elezioni anticipate quando, in extremis, lo strappo è stato ricucito. Ma, proprio mentre Bennet annunciava lo sventato pericolo, giungeva la notizia dell’uccisione di Abu Akleh (uccisa l’11 maggio, un altra volta l’infausto 11).

Così la morsa sul governo Bennet continua a stringersi: da una parte le fiamme della nuova conflittualità arabo-israeliana, che oggi vede scontri a Jenin con rischi in aumento; dall’altra le fortissime pressioni interne, come dimostra l’allarme del premier, il quale ha dichiarato che Abbas, leader della Lista araba unita, è in pericolo e “potrebbe essere assassinato” (Haaretz).

Una morsa che vede Netanyahu attendere (attivamente) alle contorsioni degli avversari nella speranza di riprendersi lo scettro perduto.

Sullo sfondo di tutto ciò, la trattativa sul nucleare iraniano che, se non avrà un esito positivo, alimenterà il parossismo le tensioni tra Israele e Iran. Il negoziato avviato da Washington con Teheran sembrava ormai felicemente chiuso quando è scoppiata, imprevista, la guerra ucraina.

Da allora in poi le trattative sono andate in stallo. Gli oppositori del negoziato sono riusciti a trovare un modo per bloccarlo, usando come pietra d’inciampo lo status dei Guardiani della rivoluzione (IRCG), che l’Iran chiede che siano rimossi dalla lista nera del terrorismo (nella quale sono stati inseriti da Trump), riportando le cose a com’erano al tempo in cui è stato siglato l’accordo.

Ma nonostante il fatto che i democratici si dicessero scandalizzati dalla decisione di Trump, si oppongono a tale richiesta, pur consapevoli che non cambierebbe granché. Lo spiegava Pietro Beinart sul New York Times riferendo la testimonianza del segretario di Stato Anthony Blinken alla Commissione per gli affari esteri del Senato, nella quale affermava che gli Usa non hanno intenzione di cancellare l’IRCG dalla lista nera, almeno non senza che la controparte accetti delle “condizioni non meglio specificate che Teheran sembra riluttante a soddisfare. [Blinken] Ha anche avvertito i senatori che se non si dovesse trovare un accordo che blocchi i progressi nucleari dell’Iran le conseguenze sarebbero gravi. Per la repubblica islamica, ha stimato, produrre un’arma nucleare è ormai solo una ‘questione di settimane'” (evidente esagerazione).

“Detto questo – si legge sul Nyt – quanto ha aggiunto Blinken è ancora più scioccante. Ha infatti dichiarato che la designazione dell’IRCG come organizzazione terrorista non ha importanza. ‘In pratica’, ha spiegato, ‘la designazione non è di molta utilità perché sono in vigore tante altre sanzioni sull’IRGC’. Per sua stessa ammissione, l’amministrazione Biden sta mettendo a rischio l’accordo sul nucleare iraniano per niente” (una considerazione analoga è esposta in un articolo di  Yair Golan e Chuck Freilich su Haaretz, al quale rimandiamo).

Se abbiamo fatto questa digressione è perché un governo Netanyahu cambierebbe tante cose. Anzitutto sull’accordo suddetto, verso il quale l’attuale governo è contrario, ma senza prodursi in eccessi. Netanyahu, come ha dimostrato in passato, lo contrasterebbe in maniera ben più aggressiva.

Il cambio di guardia a Tel Aviv, inoltre, potrebbe cambiare anche l’approccio israeliano alla guerra ucraina, verso la quale Bennet persevera in una posizione di formale equidistanza tra le parti, pur inviando aiuti a Kiev.

Un eventuale governo Netanyahu potrebbe cambiare le cose, come sembra indicare un articolo di Timesofisrael pubblicato agli inizi maggio, dedicato alla campagna globale avviata da Zelensky per procurare armi al suo Paese: “Walla news ha riferito che Zelensky ha ricevuto consigli da Srulik Einhorn, il più importante consigliere del Likud di Netanyahu nelle ultime elezioni. Secondo Walla, [il presidente ucraino] si è anche consultato con Jonatan Urich, da tempo al fianco di Netanyahu, del quale è ancora portavoce”. 

Ps. Peraltro, si può notare che al Jazeera sta attraversando un periodo complicato rispetto alle autorità israeliane. Nella recente guerra di Gaza la torre che ospitava i suoi uffici è stata distrutta dai bombardamenti.

Scontro con l'Anp. Shireen Abu Akleh, Israele non aprirà un’indagine per la morte della giornalista palestinese di Al Jazeera. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Maggio 2022. 

Nessuna indagine in Israele per la morte di Shireen Abu Akleh, la nota giornalista palestinese-americana di Al Jazeera che l’11 maggio era stata uccisa mentre stava seguendo per lavoro un’operazione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania settentrionale.

A comunicarlo oggi è stato l’esercito israeliano, che ha reso noto come la polizia militare, ovvero l’organismo interno che si occupa di presunti reati compiuti dal personale dell’esercito, non indagherà sulla morte della reporter 51enne.

Secondo l’esercito infatti non vi sono allo stato degli indizi che possano portare ad ipotesi di reato contro i militari israeliani presenti l’11 maggio nel campo profughi di Jenin, dove Shireen Abu Akleh è stata uccisa e il collega Ali Samodi, che lavora per il giornale Al-Quds è stato ferito alla schiena.

In un comunicato affidato al Jerusalem Post, l’esercito ha sottolineato come la morte della reporter di Al Jazeera non richiede l’apertura di una inchiesta in quanto non vi è il sospetto che sia stato compiuto un reato.

Al momento la ricostruzione di quanto accaduto nel campo profughi di Jenin è incerta, con uno scambio di accuse tra Israele e l’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese, l’organismo politico di governo della Palestina. Il 13 maggio scorso l’esercito aveva pubblicato un rapporto provvisorio in cui si sottolineava che “non è possibile stabilire l’origine dei fuoco che ha colpito” Shireen Abu Akleh.

Il rapporto menzionava due scenari: il primo è che fosse stata raggiunta da un “fuoco massiccio, di centinaia di proiettili” indirizzato “in maniera non controllata” da miliziani palestinesi verso veicoli militari israeliani; il secondo che sia stata colpita da proiettili sparati da un militare israeliano, dalla fessura all’interno di una jeep, dopo aver mirato a un “terrorista” palestinese. “Per scegliere una delle due possibilità – afferma l’esercito – occorre compiere una perizia balistica professionistica sul proiettile estratto dal corpo della giornalista”.

L’Anp ha accusato i soldati israeliani di aver ucciso la giornalista, ma ha impedito di effettuare l’autopsia sul corpo della reporter e non ha voluto consegnare alle autorità israeliane il proiettile estratto dalla testa della giornalista, impedendo quindi di fare una perizia per appurare da chi fosse stato sparato.

“Abbiamo respinto l’indagine congiunta con le autorità israeliane perché sono loro ad aver commesso il crimine e perché non ci fidiamo di loro”, è stata l’accusa di Mahmoud Abbas, presidente dell’Anp, che invece ha intenzione di sottoporre la questione alla Corte penale internazionale “per perseguire i criminali” israeliani.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Davide Falcioni per fanpage.it il 7 settembre 2022.

C'è "un'alta possibilità" che la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh uccisa l'11 maggio scorso a Jenin, in Cisgiordania, sia "stata colpita accidentalmente" da proiettili esplosi dall'esercito israeliano, anche se "non è possibile determinare in modo inequivoco la fonte" dei colpi e "non c'è alcun sospetto che sia avvenuto un atto penale, tale da necessitare l'apertura di un'indagine".

Questo il risultato dell'inchiesta interna condotta dell'esercito stesso (Idf) sulla morte della reporter, uccisa circa quattro mesi fa durante una protesta organizzata da palestinesi a Jenin. La morte di Shireen Abu Akleh è dunque destinata a restare priva di una risposta definitiva sulle responsabilità, almeno secondo l'inchiesta ufficiale condotta dalle forze armate di Tel Aviv, che hanno ribadito una tesi già largamente anticipata subito dopo i fatti.

Le conclusioni sono state respinte dai palestinesi, che ancora una volta hanno imputato Israele del crimine. Secondo l'Idf, inoltre, sebbene sia probabile che il colpo che ha ucciso la cronista sia stato esploso da un suo soldato, resta "rilevante" la possibilità che "sia stata colpita da pallottole sparate dai palestinesi armati". 

Questo è il motivo per cui la Procura militare israeliana non aprirà un'indagine penale contro soldati visto che "non c'è alcun sospetto che sia avvenuto un atto criminale" tale da giustificarla. L'Idf ha ricordato inoltre che "va enfatizzato e chiarito che durante l'intero incidente, il fuoco dei soldati era indirizzato con l'intento di neutralizzare i terroristi che sparavano ai militari, anche dall'area dove si trovava Shireen Abu Akleh".

L'indagine – chiesta anche a livello internazionale e dagli Usa, visto che la reporter aveva anche la cittadinanza americana – ha avuto inizio nei mesi scorsi ed è avvenuta con la revisione "delle circostanze" della morte della giornalista attraverso una task force, anche tecnica, designata dal capo di Stato maggiore Aviv Kochavi. L'inchiesta ha ascoltato "i soldati coinvolti nell'incidente" (si parla di un'unita del battaglione Dudvedan), la cronologia degli eventi, i rumori sul posto, dall'area dell'incidente e in particolare da quella dello sparo.

Al Jazeera denuncia Israele all'Aja per la morte della giornalista Shireen Abu Akleh: "Non fu uccisa per sbaglio". Poster con il volto di Shireen Abu Akleh agitati da dimostranti palestinesi e libanesi davanti al quartier generale delle Nazioni Unite a Beirut (ansa)

L'emittente: "Raccolte nuove prove". Il premier ad interim Lapid: "Nessuno interrogherà i nostri soldati". La Repubblica il 6 Dicembre

 Al Jazeera ha denunciato Israele alla Corte Penale internazionale dell'Aja per la morte della giornalista palestino-americana Shireen Abu Akleh, uccisa a maggio scorso a Jenin in Cisgiordania in scontri con l'esercito. Lo riferiscono i media secondo cui l'emittente del Qatar ha nuove prove che dimostrano che i soldati israeliani spararono direttamente verso la giornalista.

"La tesi che Shireen sia stata uccisa per sbaglio in uno scambio di colpi è completamente infondata", fanno sapere dal network. Al Jazeera ha precisato che le nuove prove si basano su nuove testimonianze di persone sul posto, sull'esame di video ed evidenze forensi.

"Nessuno interrogherà o indagherà i soldati dell'esercito israeliano", ha detto il premier ad interim Yair Lapid. "Nessuno ci può fare la morale sul comportamento in guerra, tanto meno la rete tv Al Jazeera", ha aggiunto Lapid commentando l'iniziativa del network del Qatar di denunciare Israele alla Corte Penale dell'Aja

Lo "sgarbo" americano al premier Netanyahu. "Un'inchiesta Fbi sulla reporter uccisa a Jenin". L'annuncio di Washington. Protesta anche Lapid in difesa dei soldati. Fiamma Nirenstein il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.

A volte l'eccesso di machiavellismo può diventare paradossale. Biden abbraccia la Cina incurante di Taiwan per isolare la Russia, si può capire. Ma che allo scopo di mettere in difficoltà la formazione di un governo israeliano che potrebbe risultare poco gradito agli Stati Uniti, mobiliti l'Fbi per indagare il proprio migliore alleato, è un'intromissione smodata: se l'ipotesi fosse realistica, ha toni eccessivi. Ricorda un po' la ministra francese che ha avvertito l'Italia di essere sotto tutela, ha solo recuperato l'unità nazionale italiana. Così è quando si minaccia la sovranità nazionale. Alla Knesset oggi, passando la torcia a Netanyahu, Lapid ha detto così: «I soldati israeliani non saranno indagati dall'Fbi né da alcuna altra autorità di Paese stranieri. Non abbandoneremo i soldati a inquirenti stranieri, abbiamo inoltrato le nostre proteste». Più ancora, questo non si fa quando si inaugura una nuova fase politica, e quando tre persone sono state uccise in un attentato terroristico.

L'Fbi ha l'incarico di indagare la morte della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Ahleh, uccisa a Jenin l'11 maggio in un'operazione dell'esercito. Ma l'indagine era già stata compiuta dalla giustizia israeliana, accorta e severa, oltretutto con risultati trasparenti che ipotizzano la responsabilità involontaria dei soldati israeliani. Semmai, sono i palestinesi che si sono rifiutati di consegnare la pallottola. Dunque, cosa cerca l'Fbi? Immagina che i soldati abbiano ucciso volontariamente una giornalista? È un gesto di ricerca di giustizia o un tentativo di ostacolare il nuovo governo di Benjamin Netanyahu che potrebbe avere fra i suoi ministri «pericolosi estremisti di destra»? È forse un avviso? Lascia Smotrich e Ben Gvir a casa anche se portano 14 seggi? Israele ha un codice militare severo; e se non è certo scevro da errori, da «fuoco amico», da scambi a fuoco che possono colpire innocenti, pure la sua etica esclude i crimini di cui li accusano i palestinesi: apartheid, pulizia etnica, attacchi a civili e a bambini. Associarsi alla criminalizzazione è una mossa sbagliata, né si deve cercare di indurre un senso di colpa che impedisca ai soldati di difendersi: Jenin, dove Abu Ahleh è stata uccisa, è la città capitale del terrorismo, guai se i soldati non ci vanno con la volontà di battersi contro i terroristi che sparano da ogni parte, questo significherebbe altri attentati come quelli che nelle due settimane prima dell'operazione a Jenin hanno fatto strage di 19 israeliani.

Fra 1990 e 2020 sono stati uccisi in guerra 2.658 giornalisti, 12 erano di Al Jazeera, come Abu Ahleh, nessuno dei loro nomi è conosciuto in tutto il mondo: c'è da chiedersi perché. La stessa domanda vale per un'indagine straniera sui soldati responsabili. È un grande errore, come ha detto il ministro della difesa Benny Gantz. La richiesta riceverà un rifiuto, ha solo gettato un'ombra sui rapporti di fiducia Usa-Israele proprio mentre si forma il nuovo governo. Biden non rimetterà in discussione i risultati elettorali anche se non sono quelli che desiderava, né romperà l'unità di Israele sulla sovranità e il diritto all'autodifesa.

Israele, attacco terroristico a Tel Aviv: almeno due morti e dieci feriti. Ucciso l'attentatore. La Repubblica il 7 aprile 2022.  

L'attentato compiuto in tre posti diversi nei pressi di via Dizengoff nel centro della città. Sono almeno due le vittime e diversi i feriti, alcuni gravi. Hamas non rivendica ma loda: "Risposta naturale ai crimini di Israele".  

Sono almeno due i morti e diversi i feriti gravi della sparatoria avvenuta giovedì nel tardo pomeriggio a Tel Aviv, in Israele. L'attacco terroristico è stato compiuto in tre posti diversi nei pressi di via Dizengoff, zona centrale e affollata: lo ha detto il portavoce della polizia, Eli Levi. Secondo una prima ricostruzione della polizia gli attentatori sarebbero stati due, "uno dei quali è stato eliminato dalle forze di sicurezza, mentre l'altro è riuscito a scappare".

Ma notizie successive hanno indicato la presenza di un unico aggressore. Il sospettato, un cittadino palestinese del nord della Cisgiordania, è stato localizzato e ucciso nella notte nel corso di un conflitto a fuoco. Secondo la radio militare israeliana, l'uomo si trovava nel centro di Jaffa (Tel Aviv), nelle vicinanze di una moschea.

La polizia aveva invitato la popolazione a mettersi al riparo, a stare a casa lontana dalle finestre e a non disturbare le forze di soccorso. Nei video girati da cittadini dalle finestre si vedono persone in fuga per le strade e forze di polizia in assetto anti-sommossa che stanno setacciando la città in una caccia all'uomo. Il premier Naftali Bennett si è recato al ministero della difesa a Tel Aviv per seguire gli sviluppi. I clienti di bar e ristoranti hanno lasciato di corsa il proprio posto ai tavoli, ribaltando sedie e tavoli nella fuga. Molte le ambulanze che sono confluite sul posto, sono almeno otto i feriti soccorsi dei quali quattro in gravi condizioni. 

Il movimento islamico palestinese di Hamas ha lodato l'attacco sferrato nel centro di Tel Aviv: "Le operazioni di resistenza sono una risposta naturale ai crimini di Israele contro il popolo palestinese", ha detto alla televisione al-Jazeera un alto funzionario di Hamas, Mushir al-Masri. Il gruppo terroristico non ha però rivendicato la responsabilità dell'attacco.

Si tratta del quarto attacco in poco più di 14 giorni nel Paese, mentre è in corso il Ramadan e ci si prepara alla Pasqua ebraica, Pesach. La scorsa settimana, un palestinese in Cisgiordania aveva aperto il fuoco sulla folla nella città ebraica ultra-ortodossa di Bnei Brak, vicino a Tel Aviv, uccidendo cinque persone, tra cui due ucraini e un poliziotto arabo israeliano. Pochi giorni prima, due agenti di polizia, tra cui un giovane franco-israeliano, erano stati uccisi ad Hadera in una sparatoria rivendicata dall'Isis. Il 22 marzo, a Beersheva, città nel deserto del Negev meridionale, quattro israeliani hanno perso la vita in un attacco perpetrato da un insegnante condannato nel 2016 a quattro anni di carcere per aver pianificato di recarsi in Siria per combattere per Isis. I movimenti islamisti palestinesi di Hamas e della Jihad islamica avevano subito elogiato l'attacco. Sulla scia di questi attentati, l'esercito israeliano, la polizia e i servizi di sicurezza interna hanno arrestato dozzine di persone sospettate di avere legami con l'Isis in Israele e hanno intensificato le operazioni in Cisgiordania in particolare a Jenin, dove proveniva l'aggressore dell'attacco Bnei Brak.

Da quotidiano.net il 30 marzo 2022.

Cinque persone uccise e una ferita gravemente. E' il bilancio delle sparatorie avvenute questa sera in due località della città ultraortodossa di Bnei Brak, vicino a Tel Aviv. Si sarebbe trattato di un attacco terroristico. La prima sparatoria è stata segnalata attorno alle 20, ora locale: una persona è stata trovata morta dentro un'auto e altre due sono state uccise nel marciapiede vicino, su HaShnaim Street. Una quarta persona è stata uccisa in un'altra strada, non lontana, in Hertzl Street.  

La quinta vittima è l'assassino, che era in sella a una moto: il suo corpo è stato trovato in un'altra strada. Sarebbe un palestinese proveniente dalla Cisgiordania. Lo riferisce l'emittente Channel 12, citando fonti della sicurezza. Si ritiene che l'uomo possa aver avuto dei complici che lo hanno aiutato ad entrare in Israele. Un sospetto complice è stato arrestato.  

L'attacco, il terzo in pochi giorni in Israele, è avvenuto come detto a Bnei Brak, una cittadina alle porte di Tel Aviv, abitata prevalentemente da ultraortodossi, con un'alta densità di popolazione e un basso reddito. 

Il premier Naftali Bennet ha convocato per le 22 (ora locale) una riunione straordinaria di sicurezza sulla situazione in atto nel Paese. Alla riunione prenderanno parte il capo della polizia, il ministro della Pubblica Sicurezza, il capo di stato maggiore dell'esercito e il direttore dello Shin Bet. E intanto messaggi di tripudio sono stati pubblicati a Gaza da Hamas e dalla Jihad islamica dopo aver appreso dell'attacco a Bnei Brak. "La lotta armata continua, siano benedette le mani degli eroi", ha esclamato su twitter Mushir al-Masri, un portavoce di Hamas. Ahmed al-Mudallal (Jihad islamica) ha rilevato che l'attacco odierno segue quelli di Beersheva e di Hadera, di questa settimana. "Ciò dimostra che la resistenza è in una nuova fase. È una un'unica campagna che coinvolge tutti i palestinesi: a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme e nelle terre del 1948", ossia Israele. 

Israele, quattro morti in un attacco terroristico a colpi di coltello a Beersheva. La Repubblica il 22 Marzo 2022.

L'aggressore, ucciso subito dopo a colpi di pistola, sarebbe un beduino della zona che secondo le forze di sicurezza è ritenuto un sostenitore dell'Isis.

Quattro persone sono morte in un sospetto attacco terroristico a Beersheva, nel sud di Israele. Lo riportano i servizi di pronto soccorso Zaka. Ci sono anche feriti, uno o due dei quali sarebbero in gravi condizioni secondo le prime informazioni. Due delle vittime sono donne tra i 30 e i 40 anni. Morto anche un uomo di 35 anni. 

L'uccisione sarebbe avvenuta a colpi di coltello, secondo quanto riferito dal capo del Pronto soccorso della zona, citato dai media.  Una delle quattro vittime è stata uccisa travolta dall'automobile guidata dall'agressore. Al momento non si sa quanti siano i feriti.

L'attacco - secondo le prime informazioni - è avvenuto in un centro commerciale della città. L'aggressore - come mostrano anche le immagini di alcuni video sui social - è stato raggiunto da colpi d'arma da fuoco e, ha poi fatto sapere la polizia, è morto poco dopo. L'autore dell'attacco sarebbe un beduino della zona che secondo le forze di sicurezza era ritenuto sostenitore dell'Isis. "Un passante ha preso l'iniziativa e gli ha sparato, uccidendolo", ha detto il portavoce della polizia, Eli Levy, alla tv Channel 13.

La tensione è aumentata nelle ultime settimane in Israele e nei Territori palestinesi con l'avvicinarsi del Ramadan, il mese sacro per i musulmani (che quest'anno cade in aprile), A Gerusalemme Est e in Cisgiordania ci sono stati diversi attacchi all'arma bianca compiuti da palestinesi e alcuni sospetti assalitori sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane.

I movimenti islamisti palestinesi di Hamas e della Jihad islamica hanno elogiato l'attacco che ha causato quattro morti a Beersheva, nel Sud di Israele. "I crimini dell'occupazione saranno combattuti con operazioni eroiche: accoltellamenti, investimenti e sparatorie", ha detto un portavoce di Hamas alla radio ufficiale dell'organizzazione. 

Attentato in Israele, 4 morti a Beer Sheva. Davide Frattini su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2022. 

Un arabo israeliano ha colpito a morte 4 persone a Beer Sheva, ed è stato poi ucciso: è il terzo assalto armato a colpi di coltello in quattro giorni. E sale l’allerta per l’aumento della violenza a Gerusalemme.

Sabato un uomo è stato accoltellato e ferito a Gerusalemme. Il giorno dopo un poliziotto è stato assalito con un pugnale vicino alle mura della Città Vecchia, ferito. 

Adesso un altro attacco sempre con il coltell o, a Beer Sheva un beduino ha colpito nel mucchio. È arrivato in auto e ha pugnalato una donna a una stazione di benzina, è risalito sulla macchina per investire un ciclista, è sceso e ha accoltellato altre due persone. I morti sono quattro, 3 donne. 

L’attentatore – cittadino israeliano e abitante di un villaggio nel deserto del Negev – è stato ucciso da un autista di bus che era armato. Ha cercato di avvicinarsi, lo ha inseguito nel parcheggio e gli ha sparato quando l’uomo gli si è lanciato addosso. 

Nel 2015 Mohammed Abu Al Kian era stato condannato a quattro anni di prigione per aver cercato di organizzare ad Hura un gruppo di sostenitori dello Stato Islamico, insieme sarebbero voluti andare a combattere in Siria. 

Lo Shin Bet, i servizi segreti interni, avevano arrestato altri insegnanti di scuola come lui per aver incitato gli allievi ad appoggiare l’ideologia radicale dell’Isis. Al Kian predicava anche in una moschea del posto. 

Proprio ieri il premier Naftali Bennett aveva discusso di un possibile aumento della violenza a Gerusalemme. 

Il Ramadan inizia il 2 aprile e quest’anno coincide con la Pasqua ebraica. L’anno scorso erano state le proteste e gli scontri con la polizia durante il mese più sacro per i musulmani a portare agli 11 giorni di guerra con Hamas e la Jihad Islamica. Che da Gaza hanno esaltato l’attentato a Beer Sheva.

Israele, attacco dell'Isis. Torna la paura di attentati. Chiara Clausi il 23 Marzo 2022 su Il Giornale.

A Beersheva 4 vittime: l'aggressore era vicino allo Stato islamico. Terzo episodio in quattro giorni.

È arrivato in macchina a un distributore di benzina. È sceso e ha accoltellato una donna, poi è tornato all'auto ed ha investito un ciclista. Quindi si è diretto in un centro commerciale. Ha lasciato l'automezzo, ha colpito a morte un altro uomo e un'altra donna. È stato poi abbattuto dai colpi d'arma da fuoco di un conducente di autobus sceso per soccorrere le persone aggredite. Sono per ora quattro le vittime di un attacco terroristico a Beersheva, nel sud di Israele. Due sono donne tra i 30 e i 40 anni. Morto anche un uomo di 35 anni. Secondo i media locali, l'aggressore, Muhammad Alab Ahmed abu Alkiyan, era un beduino arabo israeliano della città di Hura, a circa 19 chilometri a est di Beersheba. Dicono che avesse già scontato una pena in una prigione israeliana per reati alla sicurezza ed era noto ai servizi di sicurezza come un sostenitore del gruppo militante dello Stato islamico. Alkiyan è stato arrestato nel 2015, insieme a una serie di altri sospetti, per aver sostenuto e promosso l'Isis tra gli studenti di una scuola in cui insegnava.

Il premier Naftali Bennett ha espresso le sue condoglianze alle famiglie delle vittime, dicendo che «i civili che hanno sparato al terrorista hanno mostrato intraprendenza e coraggio e hanno impedito ulteriori vittime». Ha poi aggiunto che le forze di sicurezza sono in allerta e che lo stato opererà con mano pesante contro i terroristi e coloro che li assistono. I leader delle autorità beduine del Negev hanno rilasciato una dichiarazione in cui condannano l'attacco: «disapproviamo completamente qualsiasi violenza ed estremismo». Il leader dell'opposizione Benjamin Netanyahu ha chiesto «un'azione immediata per arrestare tutti i responsabili». Il portavoce di Hamas, Abd al-Latif al-Qanou, invece ha accolto con favore l'attacco, e anche il Jihad islamico si è congratulato per l'attentato.

Si tratta del terzo accoltellamento in quattro giorni in Israele. Domenica due agenti di polizia sono rimasti feriti in un attacco nel quartiere di Ras al-Amud, a Gerusalemme Est, mentre sabato, un uomo di 35 anni è stato accoltellato e lievemente ferito in Hebron Road, vicino alla stazione di Gerusalemme. È l'attacco più mortale in Israele da diversi anni. Il filmato della scena mostra un uomo barbuto in strada con in mano quello che sembra essere un grosso coltello, mentre il traffico continua. In un altro video, viene affrontato da un uomo con una pistola, che apre il fuoco quando l'aggressore si lancia verso di lui con il coltello. Proprio ieri c'era stato un incontro tra paesi dell'area. Bennett ha partecipato ad un meeting a Sharm El-Sheikh con il presidente Abdel Fattah El Sissi ed il principe degli Emirati, Mohammed bin Zayed. Secondo alcune fonti, il vertice ha voluto ribadire la posizione comune nelle trattative sul nucleare iraniano nella sua fase finale ed anche per l'intenzione, attribuita agli Stati Uniti, di togliere i «Pasdaran» dalla lista delle organizzazioni terroristiche.

Davide Frattini per il "Corriere della Sera" il 9 febbraio 2022.

«Abbiamo un software... siamo molto più avanti degli americani. Voglio che tu capisca: la mia conoscenza del tuo mondo, della tua vita, di quello che fai al lavoro, è totale. Pensa a quelle migliaia di lettere che sono passate attraverso le tue dita».

Quelle di Shlomo Filber, uno dei principali testimoni nei processi contro Benjamin Netanyahu. E di decine di israeliani che la polizia ha messo sotto sorveglianza digitale senza chiedere un permesso ai giudici.

Ha utilizzato lo stesso sistema di intrusione venduto dalla Nso, uffici in un cubo di vetri scuri a nord di Tel Aviv, ai regimi stranieri che lo hanno sfruttato per spiare gli oppositori. Lo stesso avrebbero fatto gli agenti delle unità investigative, rivela il giornale Calcalist , che hanno piazzato Pegasus nei telefonini dei leader delle proteste contro Netanyahu e pure in quelli dei consiglieri più stretti dell'allora primo ministro, hanno pedinato in virtuale i manifestanti per i diritti degli etiopi o quelli dei disabili, funzionari dei ministeri, sindaci, amministratori delegati.

Fino ad Avner Netanyahu, tra i figli del leader del Likud quello che resta fuori dalle questioni politiche di famiglia. Una delle giustificazioni offerte è stata che i poliziotti cercavano di individuare chi passasse ai reporter notizie riservate sulle varie inchieste, comprese quelle che hanno coinvolto Bibi - com' è soprannominato - e hanno portato al processo per corruzione.

La procura sostiene che nel caso di Filber le informazioni presentate dall'accusa sarebbero state recuperate in modo legale. La sua testimonianza, prevista per oggi, è stata comunque rinviata. Kobi Shabtai, il capo della polizia, ha dovuto accorciare il viaggio ufficiale a Dubai e tornare di corsa in Israele dove lo scandalo è diventato troppo complicato da gestire, «un barattolo pieno di vermi che sta per inondare le élite», come scrive Anshel Pfeffer, una delle firme migliori del quotidiano Haaretz .

Shabtai ripete che non sono state trovate prove di «infrazioni alla legge», il governo ha già creato una commissione «per valutare le violazioni dei diritti negli anni in questione». Anni in cui al comando delle forze c'era però Roni Alseich voluto da Netanyahu proprio perché arrivava dallo Shin Bet e avrebbe portato con sé «la cyber-tecnologia che sta diventando un aspetto importante in ogni azione dello Stato», come aveva proclamato l'allora premier alla cerimonia di insediamento.

I servizi segreti interni hanno sempre usato questi sistemi per controllare i palestinesi in «azioni anti-terorrismo, non sono stati però progettati per bersagliare i cittadini israeliani», dice adesso Naftali Bennett, che ha scalzato Netanyahu dal potere dopo dodici anni. L'ex premier in passato ha dispiegato quella che gli analisti chiamano «la diplomazia di Pegasus», dare il via libera governativo alla vendita del software - di fatto considerato un'arma - ai regimi con cui Israele è interessato a costruire relazioni. Adesso sta scoprendo che potrebbe aver contribuito alla sua caduta.

·        Quei razzisti come i libanesi.

Beirut, uomo armato entra in banca e prende in ostaggio dipendenti e clienti. La folla lo sostiene. Chiara Barison su Il Corriere della Sera l'11 Agosto 2022.

Il fratello del sequestratore ha chiarito: «Nostro padre è in fine di vita e non sappiamo come pagare le sue cure». Dal 2019 i conti correnti in euro e dollari sono stati congelati gettando migliaia di persone sul lastrico. 

La crisi del sistema bancario libanese sta portando all’esasperazione la popolazione. L’ultimo tragico effetto è l’irruzione di un uomo all’interno della Federal Bank di Beirut all’urlo di «Ridatemi i miei soldi!». Dopo essere entrato con una grossa tanica di benzina, ha preso in ostaggio alcuni clienti presenti nella filiale, oltre ai dipendenti. La sua richiesta può sembrare semplice: chiede che venga sbloccato il suo conto corrente, congelato ormai da tre anni.

Poco dopo la diffusione della notizia da parte della polizia libanese, una folla di persone si è riunita fuori dalla banca per esprimere la propria solidarietà nei confronti del sequestratore. Il fratello ha dichiarato ai media locali che il gesto è giustificato dalla malattia del padre: «È in fine di vita in ospedale e non sappiamo come pagare le sue cure», ha spiegato alla tv, «mio fratello è pronto a darsi fuoco se non riceverà quello che gli spetta». Ha aggiunto poi di non sapere dove possa aver trovato l’arma che si vede nei frame del video, perché è entrato «solo con la tanica di benzina».

Al momento, dopo una lunga trattativa con i poliziotti, il sequestratore ha rilasciato solo un anziano cliente. Sui social circola il video che mostra l’uomo, in evidente stato di agitazione, che gli agenti chiamano Bassam. Cammina nervosamente con l’arma puntata verso il pavimento e la sigaretta accesa nella mano sinistra.

Dal 2019 il cartello delle banche libanesi - d’accordo con la Banca Centrale - ha comportato il blocco di tutti i conti correnti e i depositi di investimenti in euro e dollari, nonostante i titolari siano cittadini libanesi. Allo stesso tempo, la moneta locale è stata colpita da una pesante svalutazione, arrivando a valere il 95% in meno rispetto al dollaro statunitense. Secondo l’Onu, la crisi che sta affrontando il Libano è la più grave di sempre e ha ridotto in povertà l’80% della popolazione a beneficio delle élite.

Il martirio di una nazione. Il futuro travagliato del Libano. Andrea Muratore su Inside Over il 4 agosto 2022.

Il Libano è una nazione in crisi. Un crocevia della storia mediorientale, della civiltà e dei rapporti tra Oriente e Occidente ancora oggi interessato da un notevole valore geopolitico e strategico. Dati nonostante i quali Beirut non riesce a uscire da una fragilità strutturale legata alla sua complessità interna, alle mire di ingombranti vicini, ai problemi della classe dirigente.

Negli ultimi quattro decenni guerre, invasioni, crisi interne hanno condotto il Libano più volte sull’orlo dell’abisso. E nell’ultimo biennio il Covid, la guerra in Ucraina e le dinamiche regionali mediorientali hanno messo più volte il Paese in ginocchio. Simbolo di questo processo è stato il terribile evento del 4 agosto 2020, giorno in cui una deflagrazione colossale ha devastato il porto di Beirut, causando centinaia di vittime.

La Ground Zero di Beirut è stata il simbolo del martirio del Libano. E proprio The Martyrdom of a Nation  è il titolo della quindicesima issue del magazine inglese di InsideOver, dedicata ai problemi atavici e al futuro complesso del Paese dei Cedri.

Il nuovo numero del magazine inglese di InsideOver

Si parte proprio dal ricordo di Beirut, dal devastante episodio del 4 agosto 2020 rivivendo il momento più problematico per la capitale libanese con il reportage di Ivo Saglietti, che si era recato nella città devastata poche settimane dopo la deflagrazione.

Il Ground Zero di Beirut nelle immagini di Ivo Saglietti.

La reporter Isabel Demetz investiga invece il futuro dopo l’esplosione nel porto parlando del recupero di un quadro di Artemisia Gentileschi, artista italiana del XVI secolo, che è stato danneggiato il 4 agosto 2020.

Art Lost in Tragedy: il reportage di Isabel Demetz

C’è spazio anche per le grandi complessità del Paese, che spaziano dalla religione alla politica nei due reportage firmati da Antonio Borrelli e Marco Ferraro che parlano del Libano contemporaneo e delle sue fragilità. Spaziando dalle voci dei cittadini preoccupati dalla crisi energetica a quelle dei militari impegnati nella missione Onu di stabilizzazione del Paese che garantisce i confini sulla Blue Line al confine Sud con Israele.

Le molte fonti di instabilità del Libano nel primo reportage di Borrelli e Ferraro

Il Libano calderone del Medio Oriente.

Infine, due pezzi di autori di spessore completano il quadro. L’analista statunitense Michael Young scrive un pezzo sulle grandi crisi strutturali vissute dal Libano e ci parla della grande tensione interna vissuta dal Paese e dalle istituzioni. 

La visione di Michael Young per il Libano di domani 

Lo storico britannico David Abulafia, invece, torna sulle nostre colonne e ci racconta del ruolo antico del Libano come crocevia della Storia e punto di contatto tra i popoli. Come porta del mare del Medio Oriente e bastione mediterraneo nella regione. Un ruolo di polmone ai rapporti tra uomini e nazioni che rappresenta anche oggi la chiave di volta per permettere al Paese di rinascere.

David Abulafia e la storia del Libano come paradigma.

Contrastata, dolorosa e a tratti tragica: la storia recente del Libano è importante, forse troppo turbolenta per questo piccolo lembo di terra al confine orientale del Grande Mare. Ma è il destino di questa terra, forse, produrre più storia di quanta ne riesce a digerire e interiorizzare. E così sempre sarà negli anni a venire. Con la speranza che il martirio del Paese dei Cedri possa avere fine.

Libano in Miseria. UN PAESE IN GINOCCHIO TRA CRISI ENERGETICA E ALLARME ALIMENTARE. Testo di Antonio Borrelli su Inside Over il 3 Agosto 2022.

Dall’aeroporto al centro di Beirut si attraversa un buco nero. La strada principale che collega lo scalo alla capitale è buia. Soltanto i cigli sono illuminati per qualche centesimo di secondo dai fari delle auto che sfrecciano nonostante il prezzo del carburante alle stelle. Intorno domina l’ignoto: dalle finestre dei palazzi non c’è luce, tutto è spento. Le case illuminate si contano sulle dita di un paio di mani. Sono i fortunati che possono permettersi un generatore di corrente elettrica, gli altri hanno al massimo qualche candela.

La crisi energetica

Da mesi, a causa della grave crisi energetica ed economica del Libano, non si riesce più a garantire la fornitura di energia elettrica per tutto il giorno, così i blackout sono sempre più frequenti. A Beirut, anche nei quartieri borghesi, capita che salti la corrente all’improvviso in qualsiasi momento e che torni nel cuore della notte. È l’effetto di una crisi energetica che in Libano è un’emergenza radicata (già nel 2018 l’azienda pubblica soddisfava soltanto il 63% della richiesta di elettricità nel Paese) ma che ora sta esplodendo e sta contribuendo ad aumentare le forti disuguaglianze. “Quando l’Occidente ci chiamava la Svizzera del Medioriente non sapeva realmente di cosa parlava”, commenta Rashid alla guida del suo taxi. 

Proteste all'indomani dell'esplosione di Beirut epa08592431 Un ferito manifestante antigovernativo libanese affronta la polizia antisommossa in una protesta a Beirut, Libano, 08 agosto 2020. La gente si è riunita per il cosiddetto "sabato delle corde sospese" per protestare contro i leader politici e invitarli responsabile dell'esplosione per essere ritenuto responsabile. Il 7 agosto il ministero della Salute libanese ha dichiarato che almeno 154 persone sono state uccise e più di 5.000 ferite nell'esplosione di Beirut che ha devastato l'area portuale il 4 agosto e che si ritiene sia stata causata da circa 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinate in un magazzino.

Ad amplificare il dramma è la crisi economica del Paese, messo in ginocchio dall’esplosione del porto del 4 agosto 2020 e ferito in maniera irreversibile dalla guerra in Ucraina. Fino a due anni fa il Libano dipendeva per il 66% dal grano di cui aveva bisogno dall’Ucraina e per il 12 dalla Russia. Oggi non ha più linee di approvvigionamento e non può neppure contare su scorte di grano, finite in fumo con la drammatica esplosione al porto, un evento dal quale la città non si è ancora ripresa.

“È la terza volta che vengo e stavolta mi sono accorto che questa profonda crisi economica si percepisce”. A parlare è il colonnello Claudio Guaschino, comandante del Reggimento Lagunari “Serenissima” alla sua terza missione nel Paese dei Cedri. “Nell’atteggiamento della popolazione c’è una considerevole difficoltà nel garantirsi i servizi essenziali. C’è carenza di medicinali, difficoltà ad approvvigionare il gasolio, che peraltro serve per costruire i pozzi per estrarre l’acqua, e anche il prezzo del pane è salito alle stelle”. Guaschino, che è stato qui anche nel 2006, nel periodo più drammatico del conflitto tra Hezbollah e Israele, ha pochi dubbi: “La situazione di oggi mi pare persino peggiore di quella di allora. Se non si trova una soluzione a livello governativo, si rischia davvero il peggio”.

Un lavoratore conta soldi in una stazione di servizio nella città di Khalde, nel sud di Beirut, Libano, 18 maggio 2022. Alcune stazioni di servizio a Beirut sono state chiuse ai clienti a causa di una carenza di benzina. Le società in Libano stanno distribuendo benzina in quantità limitate, ma alcune stazioni hanno interrotto le forniture a causa di un ritardo nelle consegne di benzina e di un ritardo nel completamento delle transazioni di cambio in USD per le società importatrici. 

Malumori al Sud

Nel sud del Paese, costellato da piccoli villaggi, si vive persino peggio, come spiega Abdul Qader Safiyeddine, sindaco di Shama – villaggio a una manciata di chilometri dal confine con Israele: “Questi villaggi sono stati abbandonati dal governo libanese. Se c’è un buco in strada nessuno se ne occupa se non il contingente italiano di Unifil”. Shama, questo piccolo paesino di 4mila anime – terra di mezzo in un’area da sempre instabile – ha però legato le sue “fortune” (se così possono essere chiamate) alla base italiana dell’Onu che ospita nel proprio territorio.

Una foto diffusa dal Gabinetto del Ministro della Difesa il 17 giugno 2021. Il ministro Lorenzo Guerini nel pomeriggio ha presieduto – insieme alla ministra della Difesa francese Florence Parly ed al coordinatore speciale per il Libano delle Nazioni Unite, Joanna Wronecka – una video conferenza per discutere sul livello di operatività della Lebanese Armed Forces (Laf) e sulla loro capacità di compiere a pieno la loro missione, ritenuta “fondamentale per la stabilità del Paese e dell’Area”. 

“In tutti i villaggi di quest’area Unifil ha portato acqua nelle case dei libanesi costruendo pozzi, ha costruito muri di sostegno e rifatto le strade. Inoltre nella base lavorano 250 persone, tutte libanesi, che prendono lo stipendio in euro. Questo è per loro un grande aiuto per vivere”.

I prossimi mesi saranno cruciali per capire il destino del Libano e con esso di tutto il Medioriente.

Testo di Antonio Borrelli

Sotto la polvere di una tragedia. IL RESTAURO CHE RACCONTA LA TRAGEDIA DEL LIBANO. Testo di Isabel Demetz su Inside Over il 4 Agosto 2022.

Questo reportage è tra i vincitori del corso di reportage della Newsroom Academy tenuto da Daniele Bellocchio.

Quando si entra in una mostra d’arte, lo si fa spesso con la consapevolezza che i quadri esposti ci raccontano periodi lontani. Il quadro Maria Maddalena di Artemisia Gentileschi, al contrario, narra di un avvenimento recente: l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020.

L’esplosione

Verso le 17:40 del 4 agosto 2020, una grande colonna di fumo si innalza dal porto della città di Beirut, capitale del Libano. In uno dei suoi depositi è scoppiato un incendio. Alle 18:08, la città viene scossa da una delle esplosioni non-nucleari più grandi mai registrate nella storia. Del porto rimane un cratere, vetri, pareti e tetti vengono danneggiati nel raggio di 5 km, l’esplosione viene addirittura percepita fino a Cipro, a 200 km di distanza. Nella deflagrazione perdono la vita 218 persone, tra le quali i pompieri chiamati a combattere le fiamme. 7.000 persone vengono ferite gravemente e più di 300.000 rimangono senza una casa.

Nei giorni successivi si scopre la causa dell’esplosione: 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, confiscate da una nave mercantile nel 2014, erano state lasciate nel porto: avrebbero dovuto essere depositate lì solo temporaneamente, in attesa di trovare una sistemazione definitiva. Oltre al costo umano, l’esplosione distrugge case, scuole, musei, edifici storici e culturali.

Tra questi anche il Palazzo Sursock-Cochrane, residenza della famiglia Sursock, all’interno del quale, al momento dell’esplosione, si trovano due dipinti di Artemisia Gentileschi, appartenenti alla collezione privata della famiglia: “Maria Maddalena” e “Ercole e Onfale”. 

“Nel corso delle ricerche per la mia tesi magistrale, avevo attribuito i due dipinti ad Artemisia Gentileschi, ma chi è che avrebbe ascoltato un neolaureato ventenne? Mi avrebbero deriso.”, racconta Gregory Buchakjian, artista e studioso di storia dell’arte libanese.

La storia dell’identificazione di questi quadri, risale infatti agli anni ’90. In quel periodo, come parte della sua tesi di magistrale, Buchakjian aveva cercato di catalogare e identificare i quadri appartenenti alla collezione privata della famiglia Sursock, tenuta all’interno del palazzo residenziale.

“Sapevo che i dipinti erano di origine napoletana. La mia supposizione era che fossero stati portati dall’Italia verso la fine dell’800, in occasione del matrimonio tra l’italiana Donna Maria Teresa Serra di Cassano e Alfred Bey Sursock.”, spiega Buchakjian.

“Molto probabilmente sono passati per lo stesso porto, dove secoli dopo è avvenuta l’esplosione che li ha danneggiati.” 

Per quanto fosse difficile l’attribuzione, non essendoci documentazione adeguata, Buchakjian era certo che i quadri fossero opera di Artemisia Gentileschi. Ma la conferma definitiva è arrivata appena trent’anni dopo, a ridosso dei tragici fatti il 4 agosto 2020.

“Sono entrato nel Palazzo Sursock una settimana dopo l’esplosione. Nessuno aveva toccato nulla, era come se si fosse fermato il tempo”,  racconta Buchakjian. “Le fotografie diffuse dai notiziari non rendono giustizia a quello che era lo stato reale del Palazzo e della città.”

Buchakjian è entrato nella residenza dei Sursock, accompagnato da due colleghi, Camille Tarazi e Georges Boustany, per valutare lo stato dell’edificio e delle opere della collezione. Al loro arrivo, l’artista ricorda di avere ritrovato la famiglia Cochrane-Sursock in un profondo stato di choc, incapaci persino di parlare. Lady Cochrane, figlia di Alfred Bey Sursock e Donna Maria, gravemente ferita dall’esplosione, è morta poco dopo, il 31 agosto 2020, all’età di 98 anni. Con i padroni di casa calati nel silenzio, Buchakjian inizia un difficile compito: salvare le tele.

“Mi muovevo per il Palazzo come se fosse casa mia. Ero munito di fotocamera, un metro e un taccuino. Sapevo solo di dover creare un inventario delle opere. È qui che è riemersa la questione dei due quadri di Artemisia Gentileschi.” I quadri della collezione Sursock realizzati dalla pittrice italiana sono “Ercole e Onfale” e “Maria Maddalena”.

Grazie a un articolo riguardante il suo lavoro all’interno del Palazzo, la “scoperta” di Buchakjian ha ricevuto molta attenzione e ben presto la sua attribuzione è stata confermata anche da altri studiosi.

Di uno dei due quadri, però, si erano inizialmente perse le tracce.

“Il primo giorno che sono entrato nel palazzo, l’opera “Maria Maddalena” risultava scomparsa. Era rimasta soltanto la sagoma che aveva lasciato sulla parete. Ai piedi di essa, un cumulo di detriti.”, è così che Buchakjian capisce, che l’opera si trovava sotto le macerie. 

“I pezzi di vetro, legno e soffitto erano incastrati uno nell’altro. Temevo che quel fragile equilibrio sarebbe crollato a momenti, danneggiando ulteriormente il quadro. Tirarlo fuori da quei detriti fu una decisione di pochi secondi. Dovetti staccarlo dalla cornice originale, rimasta incastrata a una trave. È un miracolo che la tela fosse in condizioni così buone”.

In effetti, l’opera risulta molto meno danneggiata rispetto a “Ercole e Onfale”. Questa, infatti, presenta danni maggiori, tra i quali un largo strappo nella tela, che hanno reso il suo trasporto temporaneamente impossibile. “Maria Maddalena”, invece, ha preso la via dell’Italia per il restauro.

Il restauro

“Ogni quadro ha una sua storia.”, racconta Andrea Cipriani, responsabile del restauro del quadro. “Io ci penso quando restauro. Chissà cosa ha visto questo quadro, essendo appeso ad una parete, chissà se ha cambiato proprietario e dove è stato. Il quadro della Gentileschi, ad esempio, è partito da Napoli in seguito ad un matrimonio. È stato scelto proprio questo tra altri, per chissà quali motivi, forse affettivi, forse economici.”

Non di tutte le opere però, possiamo conoscere la storia. Di alcune non ci resta che supporre la strada che hanno percorso, come spiega il restauratore, altre vengono perse, ancora prima di arrivare da noi.

“Siamo stati fortunati perché questa opera poteva andare distrutta, come succede a molte altre. Spesso mi capita di immaginare gli accadimenti vissuti dalle opere che restano. In questo caso, ad esempio, mi immagino che, ovviamente in un’esplosione, la prima cosa che uno salva è sé stesso, ma, mentre lascia la casa, riesce a portarsi via tre cose e tra queste c’è proprio questo quadro. Così l’opera arriva a noi, quando, probabilmente, un’altra non ci arriverà mai, perché per un motivo a noi sconosciuto non si è salvata.”

Della “Maria Maddalena”, qualche conferma della sua storia arriva proprio tramite l’intervento di recupero. Il primo passo è il restauro conservativo, come spiega Cipriani, anche noto come restauro strutturale. Questo include, tra l’altro, lo smontaggio del dipinto dal telaio e la rintelatura, il risanamento e la sutura degli strappi. 

È nel corso di questa prima fase dell’intervento che il restauratore ha potuto scoprire un dettaglio che altrimenti sarebbe rimasto nascosto: durante lo smontaggio del dipinto dal telaio, ha rinvenuto delle piccole schegge di vetro. “Molto probabilmente una testimonianza dell’esplosione che ha investito il luogo dove si trovava il quadro”, spiega Cipriani.

Al restauro conservativo è seguita la pulitura che ha permesso il ritrovamento dei colori originali. Come racconta il restauratore, però, “dal punto di vista tecnico non c’era molto da scoprire. I pigmenti e la tecnica utilizzati dalla Gentileschi erano già noti e coincidevano con quello che risultava dall’analisi del quadro.” 

Il restauro estetico, che include anche il ritocco pittorico, è invece completamente reversibile. “Questo processo non deve essere invasivo e dev’essere compatibile con i materiali originali dell’opera. Se tra qualche secolo un altro restauratore dovesse lavorarci, basterà usare un leggero solvente, per cancellare il mio intervento e riportare alla luce lo stato originale del quadro.” Infatti, la finalità del restauro è quella di ridare all’opera un’uniformità e una godibilità dell’insieme.

Cipriani lavora come restauratore da 30 anni, collaborando insieme a altre quattro persone nel suo laboratorio a Firenze. “Il mio lavoro è quello da tramite, sono un tramite tra un periodo della storia di un’opera e un altro.”

Nel caso della “Maria Maddalena”, non è però solo il restauratore a fare da tramite, bensì è il quadro stesso che, nel suo stato danneggiato, ha reso tangibile una tragedia. Portando con sé una piccola testimonianza di quella che è stata la distruzione vissuta durante il 4 agosto. 

Il Libano adesso

Le tracce dell’esplosione sono state cancellate dalla superficie della “Maria Maddalena”. Sulla popolazione libanese, invece, le conseguenze di quel giorno pesano tuttora.

“Il porto è nelle stesse condizioni del giorno dell’esplosione. Ho portato lì mio cugino in visita dalla Francia. È rimasto traumatizzato, tanto quanto i testimoni diretti.”, racconta Jana Mahmoud, studentessa alla Lebanese American University di Beirut.

“Il 4 agosto mi trovavo a casa. Vivo in montagna, ma l’esplosione l’ho percepita lo stesso. Ho iniziato a scrivere ad amici per capire se fossero vivi. L’incertezza è stata la cosa peggiore. Le notizie in Libano circolano lentamente e ci sono volute ore prima di scoprire cos’era successo”. 

“La gestione degli sfollati poi, è stata vergognosa. Il governo è intervenuto appena il giorno dopo. Le persone che avevano appena perso casa, parenti e amici, sono state costretta a passare la notte per strada. Chi aveva la possibilità era sceso in città ad aiutare, dando acqua e cibo a chi aveva appena perso tutto.”

Il 10 agosto, il governo, accusato di essere il responsabile dell’esplosione, perché a conoscenza del carico di nitrato di ammonio, si è dimesso. 13 mesi dopo, il 10 settembre 2021, è stata finalmente annunciata la formazione di un nuovo governo. “Noi non abbiamo un governo, un governo è formato da persone buone, ma queste non sono persone buone. Non gli importa se più di 200 persone sono morte per colpa loro.”, Jana Mahmoud.

La speranza in un cambiamento politico però rimane bassa. Il 15 di maggio si sono tenute le elezioni in Libano, ma il settarismo che divide i libanesi per credo e partito politico è ancora troppo radicato nella popolazione e tutto rende impossibile un vero cambiamento.

“Li stanno spaventando di nuovo con l’incubo della guerra civile, dicendo che se non manteniamo l’ordine creato con il settarismo, ritorneremo a combatterci per strada. La realtà però è che attualmente stiamo peggio che durante la guerra civile.”, così sempre Jana, riferendosi alla crisi economica nella quale sta sprofondando il paese.

Proteste contro il governo nell’agosto del 2020 

Il debito pubblico libanese ha toccato 175% del PIL nel 2021, con alcune stime che arrivano al 495% del PIL. La lira libanese continua a svalutarsi, con il tasso di cambio lira libanese verso dollaro che a gennaio 2022 ha raggiunto il picco di 32.000 lire per dollaro.

Un chilo di pane, che nel 2019 costava 1.500 lire, ora ne costa 13.000.

Se, quindi, il restauro del dipinto di Artemisia Gentileschi rappresenta un piccolo passo verso il ritorno alla normalità per una famiglia, non si può dire lo stesso per i libanesi che restano imprigionati in un’amara realtà.

Jana ammette: “Io non vedo l’ora di finire i miei studi e andarmene. Non voglio rimanere qui, presa in ostaggio dalla classe dirigente.”

·        Quei razzisti come i sudafricani.

Sudafrica veleni, trame e sei vedove: la dinasty degli Zulu. Riccardo Orizio su Il Corriere della Sera il 3 Settembre 2022.

La successione al trono del re, morto dopo 50 anni di regno, agita il Sudafrica. E rischia di metterne in crisi il fragile equilibrio politico 

Misuzulu Sinqobile Zulu, 47 anni, ha preso il posto del padre Goodwill Zwelithini, re degli Zulu per 50 anni, morto lo scorso anno a 72 anni. A destra un’immagine che ricorda la battaglia di Isandlwana, tra gli Zulu e gli inglesi

Centoquarantatrè anni fa erano così uniti e compatti che i loro reggimenti, fanaticamente devoti a re Cetshwayo, nipote del leggendario re Shaka, sconfissero nientemeno che l’esercito inglese nella battaglia di Isandlwana. Undici giorni prima il generale Chelmsford aveva invaso il regno zulu pensando che sarebbe stata una passeggiata, grazie al fatto che questi guerrieri-pastori vestiti di pelli di leopardo avevano a disposizione solo lance artigianali e scudi di pelle di bufalo (più dura del metallo, peraltro). Ma la loro coesione ideologica, in nome della dei valori di un’antica civiltà guerriera, aveva prevalso sui moderni fucili Martini-Henry e sulle divise gallonate degli inglesi. Oggi sono così divisi che nei sei palazzi reali di Nongoma, la località nella regione del Kwazulu Natal dove vivono i reali zulu, si consumano più intrighi che in una corte shakesperiana, con cerimonie e contro-cerimonie di incoronazione, parate e contro-parate rivali di guerrieri ululanti, cause legali con i migliori avvocati sudafricani, risse a pugni tra giovani principi e persino morti misteriose. Ovviamente per presunto avvelenamento.

I privilegi e quel reality che è faida tribale

In Sudafrica qualcuno sospetta che ci sarebbero problemi più seri da risolvere di una faida tribale di provincia. Ma in molti sono invece incollati alla tv e seguono ogni puntata del dramma reale zulu come se fosse un reality. Perché non si tratta di una storia anacronistica senza consequenze, ma di una vicenda che potrebbe cambiare i fragili equilibri politici del Paese-arcobaleno. I fatti sono questi; dopo 50 anni di regno, l’anno scorso è morto re Goodwill Zwelithini, capo di una tribù che conta tra i 10 e i 12 milioni di componenti, è la più grande del Sudafrica ed è riconosciuta dal governo sudafricano come un’entità regionale (nella provincia del Natal) culturalmente indipendente, anche se del tutto integrata nella nazione. La casa reale zulu non ha solo un ruolo cerimoniale: possiede 25.000 km quadrati di territorio come proprietà privata che nessun governo osa toccare, ha un budget di alcuni milioni di dollari per stipendiare il proprio funzionamento e di fatto il governo del presidente Cyril Ramaphosa si guarda bene dal prendere decisioni senza prima consultare informalmente i potenti zulu.

La regina Mantfombi Dlamini Zulu, 68 anni, morta 48 giorni dopo il marito

Evitare ogni tentazione di secessione

Il Sudafrica da sempre cerca di blandire gli zulu per evitare ogni tentazione di secessione. Così facendo garantisce alla tribù privilegi vari, assegnando a politici zulu ministeri e posizioni di potere. Insomma, gli zulu sono una circoscrizione elettorale molto importante, senza la quale l’ANC, l’African National Congress, forse farebbe fatica a reggere. Morto Goodwill, suo figlio maggiore Misuzulu è stato nominato come successore, una decisione approvata da un lungo elenco di zii, zie, parenti e anche dal governo centrale di Pretoria. A benedire questa transizione, anzi secondo molti a manovrarla, è stato l’uomo che anche se formalmente non ha mai avuto lo scettro regale, è sempre stato considerato il più influente degli zulu: il principe Mangosuthu Buthelezi, 92 anni, carismatico ex ministro degli Interni e amico-nemico di Nelson Mandela, uno straordinario Richelieu africano che ha fondato e guidato a lungo il temuto Inkhata Freedom Party. Questo partito ha sempre rivaleggiato con l’ANC (il partito che ha preso potere dopo la caduta del regime dell’apartheid e che lo detiene tuttora), controllando un pacchetto di voti molto pesante e senza mai schierarsi in modo definitivo.

Buthelezi, l’ago della bilancia

Il principe Buthelezi ha capito prima e dopo la caduta del regime bianco che gli conveniva fare l’ago della bilancia. Così, Mandela e i suoi successori non sono mai riusciti ad addomesticarlo del tutto, e il territorio zulu è da sempre una spina nel fianco del Sudafrica post-apartheid. Le mille offerte fatte a Buthelezi di diventare vicepresidente del Sudafrica e chissà cosa altro non hanno mai sortito effetto. Lo Zululand è di fatto una nazione dentro la nazione, anche perché la loro cultura di pastori semi-nomadi (come quella dei masai in Kenya) li rende culturalmente diversi dai concittadini e diffidenti nei confronti di qualunque potere centrale. Quando Buthelezi si è mosso e ha nominato Misuzulu, ha giustificato la scelta del giovane e sconosciuto principe, che fino ad allora si era dedicato più alla frequentazione dei night club di Durban che alla politica, spiegando che non solo è il figlio maggiore di Goodwill, che ha lasciato sei vedove e almeno 28 figli, ma è anche di sangue reale sia da parte di padre che da parte di madre.

La rivolta dei parenti

La regina Mantfombi Dlamini Zulu, infatti, è figlia dell’ex re di Eswsatini (nazione conosciuta in passato come Swaziland) e sorella dell’attuale re degli swazi, che degli zulu sono confratelli. Il discorso sembrava chiuso. Di solito Buthelezi parla, gli altri ascoltano. Invece, a sorpresa, questa logica non è piaciuta a molti parenti. Uno dopo l’altro, zii, fratelli, cugini e cortigiani vari hanno iniziato a protestare contro Misuzulu con rivelazioni che a loro parere lo renderebbero inadatto a diventare re. Accusato di avere problemi di alcolismo, di avere figli illegittimi con cameriere di palazzo, di essere solo un pupazzo nelle mani di Buthelezi, nei giorni scorsi Misuzulu è finalmente riuscito a completare la cerimonia di incoronazione: dopo l’ingresso trionfale nel “kraal”, il sacro recinto del bestiame dove in passato migliaia di mucche muggivano insieme simboleggiando la ricchezzza della nazione, davanti a centinaia di guerrieri che danzano riproducendo pari pari le scene di battaglia del passato, davanti ai cantastorie che ricordano le vite leggendarie dei suoi precedessori e cantano già le meraviglie del neo-sovrano, con ragazze a petto nudo che ballano nella tradizionale offerta di nuove mogli, Misuzulu è finalmente diventato re. La saga, tuttavia, continua.

La causa dei fratelli del re defunto

I principi Mbonisi Zulu e Vulindlela Zulu, fratelli del re defunto, si sono candidati alla successione e hanno fatto causa al giovane nipote. Un terzo parente, principe Simakade, ha improvvisato una sua cerimona del kraal, dopo la quale anche lui si è vestito da re e, circondato dall’ennesima fazione di cortigiani, ha dichiarato che lo scettro è suo. La vicenda è complicata dal fatto che sei mesi fa, a 68 anni, senza che si conoscesse di una sua malattia e a soli 48 giorni dalla morte del marito, la regina e reggente al trono è improvvisamente morta. Dalla sua famiglia di origine, i reali dell’ex Swaziland, sono venute accuse di omicidio per avvelenamento. Il figlio non ha voluto gettare benzina sul fuoco e dice che è morta di cause naturali. Nei palazzi del potere a Johannesburg ci si chiede cosa succede se una fazione radicale si impossessa del trono e, magari, alle prossime elezioni decide alleanze diverse, senza seguire l’equilibrismo di Buthelezi.

La star tv sudafricana di origine calabrese

Di certo sopravvivere dentro la famiglia reale zulu non è mai stato facile. Ne sa qualcosa Debora Patta, origine calabrese, star della tv sudafricana e giornalista di talento, oggi corrispondente della tv americana CBS dal Sudafrica, che nel ‘96 aveva sposato il principe Mweli Mzizi. Mweli è un brillante regista e produttore di film. Un matrimonio al quale - in nome del “teniamo buoni gli zulu” - aveva partecipato anche il padre della nazione Nelson Mandela, che peraltro conosceva bene anche Debora per i suoi reportage sulla fine dell’apartheid e per il suo impegno sociale. Il matrimonio misto di due star era stata una favola del Sudafrica del dopo apartheid. Ma a cerimonia finita, sia dentro che fuori i palazzi reali, Debora e Mweli non avevano sempre incontrato accoglienza entusiastica. Oggi i due non sono più insieme. Mweli non è coinvolto nelle beghe di famiglia. Debora è più famosa che mai. E dopo l’incoronazione di Misuzulu il popolo più famoso d’Africa deve ritrovare l’unità dei giorni di Isandlwana, per restare l’ago della bilancia di un Sudafrica diviso e complicato, così come il Sudafrica vuole ritrovare la magia unificatrice dei giorni della presidenza Mandela.

·        Quei razzisti come i turchi.

Filippo Rossi per “La Stampa” il 15 Dicembre 2022.

Il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamolu, è stato condannato ieri da un tribunale turco a 2 anni 7 mesi e 15 giorni di carcere. Oltre alla sentenza finale e la condanna al carcere, pronunciata da un tribunale penale di Istanbul e che dovrà essere confermata dalla corte d'appello suprema, il procuratore ha deciso di applicare l'articolo 53 del Codice penale, il quale prevederebbe il "divieto politico" nei confronti del sindaco escludendolo da ogni attività politica e da ogni candidatura alle elezioni durante il periodo della condanna. 

Il 52enne è stato accusato dal pubblico ministero di aver insultato alcuni membri del consiglio elettorale supremo turco nel 2019 - definendoli "idioti" - dopo che la sua elezione fu invalidata nel marzo dello stesso anno (prima di essere eletto a giugno dello stesso anno). Fra le persone insultate c'era anche l'attuale ministro degli interni Suleyman Soylu.

Secondo il pubblico ministero, Imamolu avrebbe pronunciato le parole offensive durante una conferenza stampa con i giornalisti il 4 novembre del 2019, che l'accusa ha definito «di natura offensiva per l'onore e la dignità dei membri del consiglio», sicura che le parole «fossero implicitamente dirette ai membri del consiglio». 

Secondo l'addetto stampa di Imamolu, Murat Ongun, e il suo consigliere politico, Necati Özkan, entrambi presenti come testimoni, il sindaco non avrebbe mai pronunciato tali parole contro il consiglio elettorale. Il pubblico ministero invece, ha ribadito la sua posizione, chiedendo 4 anni e 1 mese per «insulto a funzionari pubblici».

Ad assistere alla sentenza, oltre al suo avvocato Kemal Polat, anche alcuni membri del suo partito, il Chp, e del partito Iyi. L'avvocato Polat, annunciando un ricorso immediato, ha richiesto alla corte che il ministro degli Interni Soylu sia ascoltato come testimone. 

Dopo che la sentenza è stata resa pubblica, il ministro della Giustizia, Bekir Bozdag, ha confermato che la procedura di ricorso è stata aperta e sarà revisionata dal tribunale d'appello supremo dicendo però che «il potere giudiziario è esercitato da tribunali indipendenti e imparziali per conto della nazione turca», rispondendo alle forti critiche provenienti da molti ambienti politici nel Paese ma anche dall'estero. Difatti, dopo la sentenza, migliaia di persone si sono radunate di fronte al municipio di Istanbul, a Saraçhane, in sostegno al sindaco, il quale ha denunciato in un lungo discorso pubblico una situazione di «profonda illegalità» usando poi parole forti: «Oggi, in Turchia, non esiste giustizia.

Un gruppo di persone non possono togliere il potere dato dal popolo. Continueremo a lottare più forte in nome di Dio».

Il processo a Imamolu è stato anche oggetto dell'assemblea nazionale ad Ankara con forti dichiarazioni di dissenso da parte dei leader dei principali partiti dell'opposizione. Sebbene la sentenza non sia ancora definitiva, molti temono che questo possa avere ripercussioni sulle elezioni previste a giugno 2023.

Per molti, Imamolu avrebbe dovuto essere scelto come primo candidato dell'opposizione per sfidare il presidente Recep Tayyip Erdogan, anche se il suo partito non ha finora annunciato nessun candidato ufficiale e lo stesso sindaco di Istanbul, qualche mese fa, aveva dichiarato che non si sarebbe candidato. Si vedrà se questa sentenza, in caso di conferma in appello, avrà un impatto sulla campagna politica, peraltro già entrata nel vivo in un Paese che sta vivendo una situazione economica delicata ma una posizione geopolitica di grande spessore.

Le epurazioni del sultano. La condanna del sindaco di Istanbul è solo l’ultima sentenza politica in Turchia. Futura D’Aprile su L’Inkiesta il 17 Dicembre 2022.

L’antagonista di Erdogan (che perde consensi) non andrà in prigione, ma non potrà guidare l’opposizione alle presidenziali del 2023. Nonostante molti casi giudiziari come quello di İmamoğlu, l’Ue tace per i ricatti di Ankara sui migranti

Il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, è da tempo considerato l’antagonista per eccellenza del presidente Recep Tayyip Erdogan e da mesi si rincorrono voci sulla sua candidatura alle prossime elezioni alla testa della coalizione d’opposizione. La possibilità che il primo cittadino, esponente del partito kemalista Chp, guidi il cosiddetto “Tavolo dei sei” è però sfumata dopo la condanna a due anni e sette mesi decisa dalla Corte di Istanbul. I legali di İmamoğlu hanno fatto ricorso alla Corte di appello, ma i tempi della giustizia turca sono troppo lunghi perché la risposta arrivi in tempo per le prossime presidenziali, previste per giugno del 2023.

La condanna, salvo un ribaltamento in ultimo grado, non prevede la carcerazione effettiva perché è al di sotto del limite previsto nel Paese per l’applicazione della pena, ma comporta un allontanamento della vita politica per la durata della sentenza. İmamoğlu dunque dovrebbe anche rinunciare alla sua carica di sindaco, oltre a dover dire addio alla speranza di correre alle prossime urne.

L’accusa mossa al primo cittadino di Istanbul è di aver insultato alcuni funzionari elettorali dopo la decisione della Commissione di annullare le elezioni comunali del 2019 dietro pressioni del presidente, che aveva fatto ricorso per irregolarità. Nello specifico, İmamoğlu aveva definito «idioti» i responsabili di questa scelta, ma secondo quanto dichiarato dal sindaco stesso il suo commento era in realtà diretto al ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, che lo aveva in precedenza definito un pazzo, accusandolo tra l’altro di aver criticato la Turchia in sede europea.

Alla fine le elezioni comunali sono state ripetute pochi mesi dopo il loro annullamento, ma il risultato è rimasto immutato, a tutto svantaggio del presidente e del suo partito. La condanna definitiva di İmamoğlu è invece una buona notizia per Erdogan. Il presidente deve fare i conti con un calo senza precedenti del consenso e l’esclusione di una figura come quella del sindaco di Istanbul rende meno aspra la competizione alle prossime elezioni. A guidare l’opposizione potrebbe essere a questo punto Kemal Kılıçdaroğlu, leader del Chp, ma si tratta di un personaggio che non sembra godere dello stesso consenso tra gli elettori.

D’altronde İmamoğlu non è il primo a finire in carcere per motivazioni politiche. A inizio anno aveva fatto scalpore la notizia della condanna all’ergastolo di Osman Kavala, filantropo turco accusato di aver sostenuto le proteste di Ghezi Park e di aver voluto rovesciare il governo. L’uomo era già agli arresti domiciliari quando i giudici si sono pronunciati sul suo caso nonostante i ripetuti interventi della Corte europea per i diritti umani (Cedu) che aveva definito la detenzione di Kavala «un abuso» nonché uno stratagemma per creare «un effetto dissuasivo sui difensori dei diritti umani».

Sempre quest’anno è arrivata anche la sentenza ai danni di Canan Kaftancioglu, presidente della sezione di Istanbul del Chp, condannata in via definitiva a quattro anni, undici mesi e venti giorni di reclusione con l’accusa di offese al presidente e allo stato turco. Femminista, apertamente a sostegno dei movimenti Lgbtq+ e figura di spicco del partito kemalista, Kaftancioglu è nota per la sua opposizione al presidente ed è grande sostenitrice di İmamoğlu. Anche nel suo caso è prevista l’esclusione della vita politica e in particolare dalle prossime elezioni, a tutto vantaggio dei partiti dal governo.

Contro le vessazioni politiche e giudiziarie a cui Kaftancioglu è da tempo sottoposta si è espresso in passato anche il Parlamento europeo in una più ampia risoluzione sulla situazione dei diritti umani in Turchia. In quello stesso documento veniva chiesto anche il rilascio dell’ex co-presidente del partito filocurdo Hdp Selahattin Demirtaş, in conformità con la sentenza della Cedu del 2018, e di tutti gli altri membri dell’Hdp ancora in carcere. Sentenze però che la Turchia continua a disattendere senza che vengano presi i dovuti provvedimenti.

Il Consiglio d’Europa potrebbe infatti aprire una procedura contro Ankara, ma ad oggi non sono stati fatti passi in avanti in questo senso e difficilmente la condanna del sindaco di Istanbul porterà dei cambiamenti. Casi giudiziari come quelli di İmamoğlu, Kaftancioglu, Demirtaş e Kavala segnano però una distanza sempre più ampia tra la Turchia e l’Unione europea, nonostante sia ancora tra i Paesi candidati a entrare nell’Ue.

Di questa adesione però non c’è più traccia nei programmi politici di Erdogan, che guarda sempre più spesso verso quei governi autocratici in cui la tutela dei diritti civili e politici dei cittadini sono messi da tempo in secondo piano, anziché verso il Vecchio continente. Dal canto suo, l’Ue possiede gli strumenti per esercitare maggiori pressioni nei confronti di Ankara, ma la presenza di quattro milioni di rifugiati siriani nel Paese anatolico resta un utile strumento di ricatto nelle mani del governo turco. A discapito di chi, nella stessa Turchia, continua a lottare per far valere i propri diritti.

Istanbul, l’attentato nella via dello shopping: 6 morti, 22 gli arresti. Monica Sargentini su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.

Anche 81 persone ferite dall’esplosione in pieno centro. Erdogan: vile attacco. Il governo accusa il partito dei lavoratori del Kurdistan. «A piazzare la bomba una donna rimasta seduta per 40 minuti su una panchina»Non ci sono stranieri tra le vittime

Sono le quattro e venti di pomeriggio quando un boato squarcia l’aria a Istanbul in Istiklal Caddesi, la via pedonale dello shopping che va da piazza Taksim a piazza Tunel, a due passi dalla Torre di Galata e che come ogni domenica è affollata di turisti, famiglie con bambini,ragazzi e ragazze in cerca di divertimento, suonatori ambulanti. Chi ha potuto si è dato alla fuga, tra le lacrime e le urla. Sull’asfalto sei morti e più di 80 feriti (non ci sono stranieri tra le vittime). «Quando ho sentito l’esplosione mi sono pietrificato — ha raccontato alla Reuters Mehmet Akus, 45 anni proprietario di un ristorante sul viale —, la gente si è guardata negli occhi, poi ha cominciato a correre. Che altro si poteva fare?».

Le parole di Erdogan

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha subito parlato di «vile attentato» e ha affermato di «avere il sentore» di un attentato anche se per ora non ci sono conferme ufficiali: «Sarebbe sbagliato se dicessimo con certezza che si tratta di terrorismo, ma i primi sviluppi indicano quella pista». E subito attacca: «La nostra nazione deve essere sicura che i responsabili saranno puniti come meritano». Più tardi il vice presidente Fuat Oktay ha parlato di «una donna kamikaze con una borsa», ripresa dalle telecamere, che avrebbe fatto esplodere la bomba. In serata il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag aveva aggiunto che la donna è stata seduta su una panchina per 40 minuti e poi si è alzata. L’esplosione è avvenuta un paio di minuti dopo». Quindi le possibilità, ha spiegato, sono due: «O la borsa aveva un meccanismo all’interno per esplodere autonomamente oppure è stata fatta esplodere con un comando a distanza, l’inchiesta segue entrambe le ipotesi».

Nella notte gli arresti

Ventidue gli arresti nella notte. Il ministro dell’Interno turco Suleyman Soylu ha accusato il Partito dei lavoratori del Kurdistan e annunciato l’arresto di una ventina di sospetti, tra cui uno che avrebbe piazzato la bomba. «La persona che ha piazzato la bomba è stata arrestata. Secondo le nostre conclusioni, l’organizzazione terroristica Pkk è responsabile» dell’attacco, ha affermato Soylu in una dichiarazione notturna, trasmessa dall’agenzia ufficiale Anadolu e dalle televisioni locali. Anche altri 21 sospetti sono stati arrestati, ha aggiunto. Il ministro ha accusato le forze curde che controllano gran parte della Siria nord-orientale, che Ankara considera terroristi, di essere dietro l’attacco: «Riteniamo che l’ordine per l’attacco sia stato dato da Kobane».

La partita

Come è accaduto in passato, immediatamente sono state varate delle rigide restrizioni delle notizie, delle immagini e dei video che possono circolare su giornali, radio e tv per evitare che la popolazione rimanga traumatizzata ma anche per limitare la circolazione di voci e notizie non verificate. Nei ristoranti, ieri pomeriggio, tutti i televisori erano sintonizzati sulla partita di calcio Kayserispor-Konyaspor che si giocava in Cappadocia. Solo un bar trasmetteva la dichiarazione di Erdogan che parla di «vile attentato».

Operazioni militari

Il Paese della Mezzaluna aveva vissuto la stagione del terrore tra il 2015 e l’inizio del 2017 quando più di 500 persone hanno perso la vita in diversi attentati, alcuni compiuti dall’Isis, altri dai militanti curdi del Pkk. Allora la Turchia aveva risposto lanciando una serie di operazioni militari contro i curdi sia in Siria che nel nord dell’Iraq, mentre in patria erano state approvate leggi anti-terrorismo, anche in risposta al fallito colpo di Stato del 2016, che avevano consentito di perseguire politici, giornalisti e attivisti, curdi e non, facendo gridare alla censura e alla repressione. Ma, fino a ieri, quella stagione sembrava ormai un triste ricordo e non c’era stato, in questi mesi, alcun sentore di una recrudescenza.

Le condoglianze del mondo

Ad Ankara sono giunte le condoglianze da tutto il mondo, tra cui Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Nato, Ue e anche dalla vicina Grecia con cui le relazioni sono particolarmente tese. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha espresso su Twitter la vicinanza del popolo italiano alle famiglie delle vittime e al governo turco. E il presidente Sergio Mattarella ha inviato un messaggio a Erdogan. Ieri sera, comunque, nel quartiere di Beyoglu la vita continuava come sempre. «Non ho paura — ha detto all’Afp Derin, direttore di un hotel situato non lontano dal luogo dell’esplosione — ma provo rabbia perché il mio Paese si trova di nuovo in questa situazione». Uno dei cavalli di battaglia di Erdogan è il suo successo nella lotta al terrorismo. A metà dell’anno prossimo ci saranno le elezioni presidenziali.

Le autorità turche hanno arrestato l’attentatore di Istanbul e accusano i curdi. Il Domani il 14 novembre 2022

«Secondo le nostre conclusioni, l’organizzazione terroristica del Pkk è responsabile», ha detto il ministro dell’Interno. Si aggrava il bilancio dei feriti, da 53 diventano 81, di cui due in gravi condizioni

Secondo il ministro dell’Interno turco, Soumeylan Soylu, l’autore materiale dell’attentato che ieri ha ucciso almeno sei persone e ferito altre 81 è stato arrestato dalle forze di polizia. Soylu ha accusato il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) di aver causato l’attacco. «Secondo le nostre conclusioni, l’organizzazione terroristica del Pkk è responsabile», ha detto il ministro che ha annunciato che altri 21 sospetti sono stati arrestati. «Riteniamo che l’ordine per l’attacco sia stato dato da Kobane», ha specificato.

La questione, quindi, diventa politica. Il capo della comunicazione presidenziale Fahrettin Altun ha alluso al potenziale impatto sulle relazioni tra la Turchia e i paesi Nato a causa del loro sostegno ai gruppi attivi nel nord della Siria, come quello degli Stati Uniti di Joe Biden. «La comunità internazionale deve prestare attenzione. Gli attacchi terroristici contro i nostri civili sono conseguenze dirette e indirette del sostegno di alcuni paesi ai gruppi terroristici. Se vogliono l’amicizia della Turchia, devono cessare immediatamente il loro sostegno diretto e indiretto», ha detto Altun.

Negli ultimi mesi, il presidente turco Erdogan ha anche più volte accusato Svezia e Finlandia di sostenere e aiutare membri del Pkk, considerati organizzazione terroristica, e minacciato il loro ingresso nella Nato.

IL PRIMO SOSPETTO

Non è ancora chiaro l’identità del presunto attentatore, nella giornata di domenica sono circolate online le registrazioni di una telecamera di sicurezza che hanno ritratto una donna abbandonare per strada quello che è stato identificato come il bagaglio contenente l’esplosivo.

«Una donna si è seduta su una panchina per 40-45 minuti, e qualche tempo dopo c’è stata un’esplosione. Tutti i dati su questa donna sono attualmente sotto indagine», ha detto il ministro della Giustizia Bekir Bozdag. «O questa borsa conteneva un timer o qualcuno l’ha attivato da remoto», ha aggiunto.

Un attentato suicida è avvenuto nella stessa strada il 19 marzo 2016, atto che ha ucciso cinque persone e ne ha ferite 36. All’epoca, la polizia turca aveva affermato che l’attentatore aveva legami con il gruppo dello Stato islamico.

Arrestata una curda. Ma l'inchiesta fa acqua. Luigi Guelpa su Il Giornale il 15 novembre 2022.

L'attentato di domenica a Istanbul non ha soltanto provocato la morte di 6 persone, tra le quali Ecrin, una bambina di appena 9 anni, e il ferimento di altre 81, ma sta mandando in tilt i rapporti diplomatici tra Ankara e Washington, e sollevando alcuni dubbi sulla matrice terroristica dell'azione. Il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato un'organizzazione terrorista dal governo turco, ha smentito ogni coinvolgimento nei fatti di Istiklal. «Non siamo collegati a questo atto criminoso, perché non prendiamo di mira i civili. Lottiamo per la nostra libertà, e ci muoviamo per creare un futuro comune e libero con la società turca», si legge nella nota scritta dal comandante delle Forze democratiche Mazlum Abdi su Twitter. Ankara invece non ha dubbi sull'implicazione curda nell'attentato a Istiklal Caddesi, e già nella notte tra domenica e lunedì ha arrestato 46 persone legate al Pkk e al Ypg, le Unità di protezione popolare. Le manette sono scattate ai polsi anche di Ahlam Albashir, un'operaia tessile. Si tratterebbe della donna ripresa dalle telecamere di sicurezza mentre posizionava il sacchetto con l'esplosivo su una panchina. La presunta attentatrice, come si vede da un video pubblicato dal quotidiano Hurriyet, avrebbe quindi lasciato la scena di corsa, prendendo un taxi per recarsi nella sua abitazione al quartiere di Esenler, a 9 km dal luogo del misfatto. Di nazionalità siriana, avrebbe confessato durante l'interrogatorio di essere stata addestrata come ufficiale speciale dell'intelligence dal Pkk, ed entrata illegalmente in Turchia quattro mesi fa dalla regione di Afrin-Idlib, in Siria. L'attentato sarebbe stato orchestrato a Kobane, città a maggioranza curda che si trova in un'area in cui la Turchia ha gradualmente allargato la propria sfera di influenza negli ultimi anni. Al fermo dei sospettati si è giunti analizzando le immagini di 1.200 telecamere di sicurezza. La televisione turca ha trasmesso un video che mostra Ahlam mentre viene arrestata nell'abitazione in cui si nascondeva, dove la polizia ha sequestrato ingenti somme di denaro, oggetti in oro, una pistola automatica e un centinaio di munizioni. Gli inquirenti hanno quindi diffuso una foto che mostra la donna in piedi tra due bandiere turche, in manette. Secondo una prima ricostruzione degli inquirenti, l'Ypg avrebbe dato addirittura ordine di ucciderla per evitare che le prove risalissero a loro.

Le milizie curde filosiriane fanno parte delle Forze democratiche di Mazlum Abdi, sostenute dagli Stati Uniti nella lotta contro l'Isis nel nord della Siria. Per queste ragioni la loro presunta responsabilità nell'attentato ha provocato la dura reazione di Ankara contro Washington. Fahrettin Altun, portavoce di Erdogan, ha ricordato che «l'attacco di domenica è conseguenza diretta e indiretta del sostegno di alcuni Paesi ai gruppi terroristici. Devono fermare immediatamente il loro sostegno se vogliono la nostra amicizia». Si è spinto oltre il ministro degli Interni Soylu, affermando che la Turchia «non accetterà i messaggi di condoglianze di Biden».

Sono due però i dubbi che assillano analisti e alcune diplomazie internazionali sui fatti di Istiklal Caddesi: la rapidità con cui i turchi sono riusciti a individuare i presunti attentatori (meno di 10 ore dall'esplosione), e le foto della donna arrestata. Ha il volto visibilmente tumefatto, e non si può escludere che la confessione sia stata estorta attraverso l'uso della violenza.

Troppi dubbi sull'Isis. La pista dei curdi umiliati dal Sultano e "traditi" dalla Nato. Gian Micalessin su Il Giornale il 14 novembre 2022.

«È stata una donna kamikaze». Così sentenziava ieri sera, il vice presidente turco Fuat Oktay diffondendo i primi elementi emersi dalle indagini sull'attentato che ha causato sei morti e oltre ottanta feriti nella zona pedonale tra via Istiklal e piazzo Taksim, vero cuore turistico e metropolitano di Istanbul. In assenza di una rivendicazione precisa le dichiarazioni del vice presidente fanno propendere per due possibili scenari. Il primo è un ritorno ai tempi bui di quattro o cinque anni fa quando lo Stato Islamico firmò diversi sanguinosi attentati messi a segno tra Istanbul e altre città della Turchia. Un secondo scenario porta a ipotizzare il ritorno sulla scena di quelle militanti nazionaliste curde coinvolte, stando a vecchie, ma significative statistiche dei servizi di sicurezza turchi, nel 55 per cento degli attacchi rivendicati tra il 1996 e il 2010 dal Pkk, la formazione del Partito dei Lavoratori Curdi guidata da Abdullah Ocalan. Ovviamente in mancanza di dati certi la cautela è di rigore.

Tempi, modalità dell'azione e contesto geopolitico spingerebbero, però, a prendere per buona la pista curda. L'utilizzo di attentatrici suicide - pur non assente nella ritualità che accompagna e identifica le azioni dello Stato Islamico e di altre organizzazioni del terrorismo islamista - rappresenta un'eventualità rara o quantomeno inconsueta. Inoltre va ricordato che l'Isis, duramente colpito sia in Siria sia in Irak dopo il 2019, ha, ad oggi, tutto l'interesse a tener buoni rapporti con quei servizi segreti turchi con cui - non è un mistero, né una novità - ha sempre intrattenuto relazioni assai ambigue. Relazioni che hanno permesso a molti suoi membri in fuga di riparare, in attesa di momenti migliori, proprio sui territori di Ankara.

Dunque in assenza di un kamikaze maschio e di comprovate responsabilità islamiste risulta inevitabile ipotizzare anche una matrice più marcatamente politica. Anche sul piano della contingenza geo-politica i curdi finiscono con il risultare i maggiori indiziati. Condizionando l'entrata nell'Alleanza Atlantica di Svezia e Finlandia all'interruzione di qualsiasi sostegno alla causa curda, Erdogan ha garantito completa libertà d'azione all'esercito turco. Un esercito impegnato in continui raid contro il Pkk e contro le formazioni ad esso collegate in Siria e in Irak. In questo scenario l'attentato punterebbe dunque a risvegliare l'attenzione di un'Europa e un'America distratte dal conflitto in Ucraina e ormai completamente indifferenti alla sorte dei combattenti curdi. Combattenti che si sentono abbandonati al proprio destino dopo esser stati usati per combattere l'Isis.

Ma molti commentatori, sottolineando sia le ambiguità sia le difficoltà politiche ed economiche della Turchia di Erdogan, ipotizzano anche un terzo scenario, assai più torbido. Nella primavera del prossimo anno il Paese sarà chiamato ad elezioni dal risultato assai incerto. Da quel voto dipenderà non solo la conferma alla presidenza del cosiddetto Sultano, ma anche la capacità della sua formazione - l'Akp, ovvero il Partito della Giustizia e dello Sviluppo - di mantenere il controllo del Parlamento. Il tutto in un clima di estrema incertezza economica segnato da un'inflazione superiore all'80 per cento e da un crollo del prodotto interno lordo pro-capite precipitato dai 12.150 euro del 2012 ai 7.200 euro di questi giorni. Per non parlare delle continue e progressive restrizione di libertà e diritti civili accompagnate da continui arresti di giornalisti e oppositori. Un clima in cui la disinformazione è la regola e in cui, come già avvenuto alla vigilia di precedenti prove elettorali, la strategia della tensione può tornare a giocare un ruolo non indifferente. L'attentato di ieri arriva, infatti, a meno di un mese dalle clamorose uscite di Erdogan che a Praga, durante una cena in compagnia di ministri e leader europei, minacciò d'invadere la Grecia e le sue isole. Parole destinate ad aumentare quel clima di tensione che assieme alla paura per nuovi attentati potrebbe, come già in passato, contribuire alla vittoria dell'inveterato Sultano.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 14 novembre 2022.

Due luoghi per tentare di decifrare una strage ancora senza firma, collezione di mistero e congetture, un «vile attentato» come lo ha definito senza specificare Erdogan. Il primo è quello dove è stata collocata la bomba o il kamikaze ha realizzato il suo proposito criminale, via Istiklal, trasformata in un attimo in uno spazio in cui si ha l'impressione di vivere la fine del modo in poche centinaia di metri, in plastico museo dell'orrore. 

È stata scelta non soltanto per essere un luogo affollato in cui un ordigno moltiplica le vittime, ma perché è un simbolo. È una deliziosa arnia di consumismo: vetrina, non la sola ma una delle più scintillanti, della weltanschaung erdoganiana, della nuova Turchia che in vent' anni il sultano capace di succedere sempre a se stesso ha costruito per scandire il suo successo.

Non a caso nel 2015 e nel 2016 lo Stato islamico la scelse per punire la Turchia con una serie di attentati ancor più micidiali e mortiferi di quello di ieri. Sembra oggi un'altra Era. Dopo aver fatto affari petroliferi e favorito il passaggio dei miliziani che andavano a unirsi al Califfato, Erdogan nel 2015 cambiò politica e chiuse la frontiera agli islamisti. E per questo divenne un regime apostata da unire.

L'attentato, in questo luogo, scandisce brutalmente il momento in cui il sogno della nuova Turchia potente e moderna, in miracoloso equilibro tra passato e futuro, restaurazione e innovazione, sembra arrivata allo stadio della crisi e del disamore. Il prossimo anno, le elezioni presidenziali sotto l'urto della crisi economica che cancella l'analgesico del miracolo permanente e senza fine potrebbero mettere in crisi quella macchina per vincere che è il partito della Giustizia e dello Sviluppo.

Nulla può essere più pericoloso per Erdogan di questa sfida sanguinosa portata proprio all'immagine del suo potere. L'attentato affonda con l'onda d'urto della paura la miniera del turismo che ha consentito quest' anno di fronteggiare il collasso economico. E distrae Erdogan, in questo che appare come un lento autunno del patriarca, dall'ultima dei suoi trasformismi, la meticolosa costruzione cioè dell'immagine di pacificatore e di mediatore tra gli imperi con cui ha messo a suo profitto perfino la guerra in Ucraina. Un velo, l'ennesimo, steso sulle accuse di usare metodi repressivi e autoritari per rafforzare ancor più il nido di consenso di cui gode. 

A meno che questo funambolico rabdomante, capace di coniugare con un pragmatismo freddo autocrazia e populismo, non riesca a trasformare l'orrore per questo attentato nell'arma propagandistica che ne prolunga per l'ennesima volta il potere. 

Non sarebbe la prima volta che il terrorismo diventa l'utilissimo pretesto con cui le autocrazie, combinando paura e rabbia, hanno puntellato uno zoppicante consenso.

Una delle poche notizie che il governo ha fatto filtrare è che l'attentato è opera anche di una donna. È un elemento che pare allontanare dalla consueta pista islamista e ricondurre al Pkk curdo che lo ha utilizzato in passato e che pare in grado di colpire in modo così clamoroso e micidiale nel cuore del Paese.

I curdi da mesi sono nel mirino di Erdogan che ha minacciato più volte di allargare con un'invasione la fascia di sicurezza anti-curdi in Siria nella zona di Afrin fino alla città di Kamechliyé. Offensiva che ha dovuto rinviare ogni volta per l'opposizione dei russi, che sostengono il governo di Bashar Assad, e degli americani. 

Il secondo luogo da cui potrebbe iniziare il filo dell'attentato si chiama Idlib, in Siria appunto, ultima roccaforte delle formazioni jihadiste che combattono contro il regime di Damasco e i suoi alleati Russia e Iran. Una zona «liberata», quanto resta delle sbandate formazioni della rivoluzione siriana, che la Turchia protegge garantendo appoggio alle formazioni come Hayar Tahrirn al Sham che utilizza per i suoi interessi strategici in territorio siriano.

Idlib: terra di nessuno dove sono imprigionati quattro milioni di profughi , in cui si affoga nelle sigle islamiste che cambiano in un vorticoso mimetismo come insegne di negozi, teatro complicato di alleanze che durano un giorno come le tregue, dove l'Isis che sta rialzando la testa ha cercato finora invano di insediarsi e di prendere il potere sugli altri concorrenti dalle tinte islamiste almeno a parole meno forti.

È la Siria incubo e miraggio di Erdogan, che lo adesca come una fissazione dal 2011, pozzo di ambizioni e frustrazioni, tra l'incubo della possibile nascita dal caos della guerra civile di uno Stato curdo alla frontiera e i sogni neo-ottomani di riafferrare Aleppo e il Nord della Siria che Ankara considera come terra sua, sottratta dai soprusi della storia del Novecento. 

È la Siria da cui vengono i quattro milioni di profughi a cui con accorta mossa politica dal 2011 ha dato asilo dopo lo scoppio della guerra civile; che ha usato per tenere a bada le antipatie dell'Europa e lucrare sulla angoscia occidentale per «l'invasione» dei profughi. Ma che ora stanno diventano un grave problema politico anche per lui. Perché la crisi economica ha fatto crescere l'insofferenza dei turchi per questa costosa ospitalità.

Tanto che si chiede di negoziare con Bashar il loro ritorno in Siria, e lo stesso Erdogan, che pensa al voto, ha annunciato piani per trasferirli in nuovi insediamenti con cui popolare di fedelissimi la fascia di sicurezza. Idlib è il punto di partenza per ogni ipotesi, un nodo sanguinoso di tragici tribalismi, di faide del fanatismo che si mescolano a concreti interessi, difficile da tenere a bada anche per uno spregiudicato domatore come Erdogan. Duri scontri hanno messo di fronte le milizie filoturche e la formazione che ha preso l'eredità di Al Qaida. Un'altra pista che potrebbe spiegare il mistero sanguinoso di Istanbul.

La Turchia ha subito un attentato perfetto, dove ogni dettaglio torna comodo.  Andrea Legni ed Enrico Phelipon su L'Indipendente il 15 novembre 2022.

Quante possibilità ci sono di subire un’avversità perfetta, dove ogni tassello si inserisce al posto giusto fino a formare un mosaico capace di trasformare una disgrazia in una fortunata opportunità. Come se in uno stesso giorno a un imprenditore andasse in fiamme il ristorante per il quale aveva appena stipulato un’ottima polizza antincendio e cadesse a terra il computer a poche ore della scadenza dell’assicurazione contro i danni accidentali. Non è tecnicamente impossibile, ma di certo si può dire che è nato con la camicia. È quanto accaduto a Istanbul, dove domenica è esplosa una bomba nel centralissimo viale Istiklal Caddesi provocando 6 morti e 81 feriti. Dalla nazionalità dell’attentatrice, al luogo da cui l’attacco sarebbe stato progettato, al momento in cui avviene fino al dettaglio simbolico della scritta sulla felpa indossata: ogni dettaglio di quanto accaduto è perfetto per i fini politici e militari del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

Sono bastate poche ore per permettere alla Turchia di affermare di aver concluso le indagini sul fatto. A collocare la borsa-bomba che ha provocato il massacro sarebbe stata una giovane donna di nome Ahlam Albashir, curda di cittadinanza siriana. L’imputata è apparsa con le manette ai polsi, l’espressione smarrita e il volto gonfio e livido, nella foto diffusa dal governo. Secondo le autorità avrebbe confessato: è stata lei ed è stata addestrata dal PKK (il partito dei lavoratori del Kurdistan) come ufficiale speciale dei servizi segreti curdi per compiere l’attacco. È entrata illegalmente in Turchia attraverso il confine siriano di Afrin-Idlib, mentre le menti del PKK hanno pianificato i dettagli dal quartier generale di Kobane. Se non fosse stata presa sarebbe fuggita in Grecia, mentre sulla felpa indossata al momento dello scatto scenico diffuso dalla polizia turca esibiva la scritta “New York”. Per supportare questi dettagli non è stata fornita alcuna prova.

Di certezze in questa vicenda purtroppo ci sono solo i civili innocenti morti e feriti, perché per il resto rimangono ancora aperti diversi punti interrogativi, a partire dalla velocità con cui le autorità turche hanno risolto il caso, nonostante sia il PKK che le Syrian Demoratic Force (SDF-YPG) – le milizie curde che hanno combattuto in Siria contro lo Stato Islamico – abbiano fermamente smentito ogni responsabilità. E si tratta di organizzazioni che di solito rivendicano le proprie azioni. Di certo per ora c’è solo che ogni dettaglio fornito è perfettamente utile alla strategia del governo turco.

Da tempo Erdogan cerca di ottenere via libera al suo progetto di conquistare ulteriore territorio curdo in Siria, allargando la cosiddetta “zona cuscinetto” di confine creata grazie ad un accordo del 2019 con gli Stati Uniti. La città di frontiera da cui Ahlam Albashir sarebbe penetrata in territorio turco, Afrin, è in mano a jihadisti – che sono al governo della città dopo aver combattuto i curdi su mandato turco – in lotta tra opposte fazioni. Ankara cerca da tempo il pretesto per intervenire a ristabilire l’ordine. Quella da cui invece i vertici del PKK avrebbero ordito l’attacco è Kobane: città simbolo della resistenza curda contro lo Stato Islamico e al centro del progetto di confederalismo democratico attuato dai curdi nei territori autogovernati del Rojava, la zona sotto il loro controllo in Siria. Guarda caso è proprio la città nella quale Erdogan annuncia di voler intervenire militarmente da mesi.

Addebitare l’attentato al PKK è inoltre funzionale alle strategie politiche della Turchia, sia verso gli USA che verso Finlandia e Svezia che necessitano del via libera di Ankara per coronare l’obiettivo di entrare nella NATO. Questo potrebbe rappresentare un ulteriore indurimento delle operazioni militari del governo contro i curdi nella Turchia sud orientale, in Iraq e in Siria. Operazioni che a dire il vero non si sono praticamente mai fermate, dati i numerosi raid aerei occorsi negli ultimi mesi contro le presunte basi del PKK, nella regione del Kurdistan iracheno. Inoltre questa ipotesi tornerebbe utile anche per l’impasse emersa dalla richiesta di ingresso nella NATO da parte di Svezia e Finlandia. L’ingresso di nuovi paesi nell’alleanza Atlantica deve essere approvato da tutti i paesi membri. La Turchia si sta opponendo all’ingresso dei due proprio in relazione alla questione curda, per Ankara pericolosi terroristi, mentre per le due democrazie nordeuropee una minoranza perseguitata a cui garantire asilo politico. O almeno cosi era prima dello scoppio della guerra in Ucraina.

I vertici del governo di Ankara, non hanno inoltre esitato a lanciare un attacco agli Stati Uniti. «Non accettiamo il cordoglio dell’ambasciata statunitense, lo respingiamo» ha detto il ministro dell’Interno della Turchia, Suleyman Soylu, paragonando il telegramma della Casa Bianca nientemeno che a un «assassino che si presenta per primo sulla scena del crimine». Gli Stati Uniti in Siria sono alleati delle SDF, le milizie a maggioranza curda che hanno combattuto, con il supporto americano e di altri paesi occidentali, per liberare le zone della Siria che erano cadute sotto il dominio dello Stato Islamico. Che Ankara al pari del PKK considera pericolosi terroristi. Il dettaglio della felpa con scritto “New York” indossata (o fatta indossare) dalla presunta attentatrice è un particolare simbolico che palesa scenograficamente la connessione tra i curdi e gli Stati Uniti.

Non è mancata inoltre una frecciatina anche contro la Grecia, dove secondo i turchi l’attentatrice sarebbe fuggita se non fosse stata arrestata. Tra Turchia e Grecia esistono diverse controversie aperte nel Mediterraneo, e i due governi non sono nuovi a scambiarsi accuse reciproche, nonostante l’appartenenza comune dei due alla NATO.

Non si può inoltre non considerare le ripercussioni che l’attentato potrebbe avere a livello interno in vista delle prossime elezioni politiche previste nel 2023. Secondo i sondaggi, il partito del presidente Erdogan (AKP – Partito della Giustiza e dello Sviluppo), sarebbe in calo di almeno 10 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni a causa delle condizioni economiche e delle divisioni interne al partito stesso. A settembre 2022 l’inflazione in Turchia ha raggiunto livelli record che hanno toccato l’83% portando ad un conseguente aumento considerevole dei prezzi dei beni di prima necessità. Il momento è quantomai propizio per saldare l’opinione pubblica di fronte al nemico esterno.

Una poderosa mole di particolari che convergono tutti insieme fino a trasformare una tragedia in una occasione perfetta. Questo significa che il regime turco si sia auto inflitto l’attentato? Naturalmente non ci sono indizi in questo senso e anche se così fosse verosimilmente non ce ne sarebbero. Le variabili circa i possibili autori, dopotutto, possono essere tante: da gruppi jihadisti, a diverse fazioni politiche, fino al singolo fomentato che non risponde ad organizzazioni né ad apparenti logiche o strategie. Di certo la Turchia, risolvendo il caso a tempo di record, ha trovato il colpevole perfetto inserito nel contesto perfetto. Ultimo tassello: è dagli anni ’90 che il PKK ha abbandonato la strategia di utilizzare anche il terrorismo per perseguire l’obiettivo dell’indipendente del Kurdistan e in passato, quando lo fece, aveva sempre rivendicato le azioni. La scelta di tornare a farlo proprio mentre è in atto a livello internazionale una compagna per la sua rimozione dalla lista delle organizzazioni terroriste di Stati Uniti e Unione Europea sarebbe quantomeno insensata e suicida. [di Andrea Legni ed Enrico Phelipon]

Quella guerra di Ataturk che salvò la Turchia. Ataturk nel 1922 salvò la Turchia dall'offensiva greca. Ma i nazionalisti si abbandonarono dopo la vittoria a terribili massacri. Andrea Muratore il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Un'epopea nazionale seguita da drammi inenarrabili. Il riscatto di una sconfitta che chiuse l'era di un Impero e inaugurò una Repubblica. La tracotanza di un vincitore trasformatasi in rotta. La guerra di tre anni (1919-1922) tra la Grecia e il Movimento Nazionale Turco di Mustafa Kemal Ataturk, detentore di fatto del potere del fatiscente Impero Ottomano, fu la più sanguinosa di quelle seguite come coda alla Grande Guerra, eccezion fatto per i cataclismi della Rivoluzione Russa. Consacrò definitivamente un leader in Ataturk, capace di riscattare, materialmente e politicamente, la disfatta bellica. E inaugurò la nuova fase del dualismo greco-turco che, nell'ultimo secolo, non ha accennato a diminuire.

Il contesto geopolitico della guerra greco-turca del 1919-1922 è legato all'onda lunga della spartizione di parte dell'Impero ottomano da parte dei governi alleati dopo la Prima guerra mondiale. Nel 1919, le forze greche ricevettero l'autorizzazione dell'Intesa a sbarcare nella città di Smirne, in Anatolia prima che con il trattato di Sèvres (10 agosto 1920) la Sublime Porta accettasse le conseguenze della capitolazione.

Alla conferenza di pace di Parigi del 1919, il capo del governo greco, Eleutherios Venizelos, aveva fatto pressione sugli Alleati per attuare il suo sogno di una "Grande Grecia" (la Megali Idea), destinata a comprendere l'Epiro settentrionale, la totalità della Tracia e l'Asia minore, in qualche modo andando a ricreare il "nocciolo duro" dell'antico Impero bizantino. Mentre tra il 1919 e il 1920 la vigilanza dei britannici su Istanbul privava la Turchia della sua regione più ricca (il Bosforo), e le forze armate nazionaliste turche affrontavano tanto le truppe francesi in Cilicia quanto i nazionalisti armeni nella regione del Caucaso i greci poterono avanzare e consolidarsi indisturbati.

Ma Ataturk seppe riscattare apertamente la disfatta. Il leader vincitore della battaglia di Gallipoli rifiutò di accettare una presenza greca anche solo temporanea a Smirne. Alla fine, i nazionalisti turchi con l'aiuto delle forze armate kemaliste sconfissero le truppe elleniche in una serie di battaglie: nel distretto di Inonu, a sud della capitale imperiale, fermarono l'avanzata greca nel cuore dell'Asia Minore nel 1921; sul fiume Sakarya (Sangarios, in greco), in una regione situata a meno di 100 km da Ankara, nell'agosto 1922 l'avanzata fu congelata definitivamente; nel settembre 1922 la guerra-lampo di Ataturk travolse, infine, gli ellenici?

Cosa era successo nel frattempo? Certo, Ataturk si presentò con l'intento di resistere e fare dell'Anatolia "una sorta di fortezza eretta contro tutte le aggressioni verso Oriente". I militari greci non capivano la necessità di un'altra guerra dopo i lutti del primo conflitto mondiale. L'avventurismo di Atene finì per compattare i nazionalisti turchi e individuare un capro espiatorio nella popolazione greca della Turchia. Ma soprattutto il governo rivoluzionario di Ankara aveva ottenuto la vittoria sugli Armeni, conquistato la Cilicia inizialmente occupata dalle truppe francesi, ottenuto la restituzione di Antalya dove erano sbarcati gli italiani e, in particolar modo, siglato proprio con Parigi e Roma un'alleanza strategica. Entrambe le potenze latine temevano gli effetti dell'espansionismo e dell'avventurismo greco sull'ordine balcanico ed esteuropeo, non volevano che una Grecia molto vicina alla Gran Bretagna consegnasse di fatto a Londra le chiavi del Bosforo e segretamente avevano iniziato nella metà del 1921, dopo gli accordi con Ataturk, ad armare il suo esercito e a fornirgli ricognizione e intelligence sui movimenti greci. A giocare un ruolo decisivo, in questo senso, fu il conte Carlo Sforza, futuro ministro degli Esteri di Alcide De Gasperi, commissario a Costantinopoli per le potenze dell'Intesa, che giocò a favore della vittoria ottomana tramando per togliere ad Atene il terreno sotto i piedi.

Tra il settembre e l'ottobre 1922 Ataturk e i suoi uomini spazzarono via i greci dall'Asia Minore. Per la Turchia questa fu una vera e propria offensiva militare e politica al tempo stesso: Ataturk ebbe gioco facile nel presentare la sua mossa militare come una guerra di indipendenza contro un aggressore baldanzoso e di utilizzare contro il fatiscente potere del Sultano Mehmed VI lo spirito repubblicano e nazionalista. L'11 ottobre i Greci lasciarono confusamente la Turchia. Un mese dopo, Mehmed si dimise e la storia dell'Impero Ottomano iniziata nel 1299 veniva archiviata definitivamente, ed è un paradosso a dirsi, proprio dopo l'estrema difesa dell'integrità territoriale del suo nucleo storico. Ataturk plasmò la Repubblica che fu istituita nel 1923 come uno Stato nazionalista e fondato sul ceppo etnico turco anche in virtù del trionfo contro le aggressioni delle potenze dell'Intesa, Grecia in testa, che volevano approfittare della vittoria nella Grande Guerra.

Chi ci rimise? Senza ombra di dubbio la popolazione civile greca dell'Anatolia. La disfatta dell'esercito e la tracotanza dei nazionalisti turchi portò a massacri continui delle comunità greche che vivevano ininterrottamente nell'area dell'Asia Minore da quasi tremila anni. Gli effetti della sconfitta militare e del genocidio in Anatolia e la conseguente ondata di profughi che si insediarono in Grecia vanno oltre i fatti politici, diplomatici e militari. Si tratta di un evento storico totale che ha determinato tutti gli aspetti della storia e della società greca dal 1922 in poi. La "catastrofe dell'Asia Minore" portò 1,2 milioni di greci a stabilirsi nella madrepatria, aumentando del 20% la popolazione ellenica. Al contempo, il Trattato di Losanna del 1923 consentì a 500mila turchi residenti nella Tracia greca di spostarsi nella neonata Repubblica.

Il culmine della catastrofe fu il rogo di Smirne, città simbolo della Grecia "asiatica" in cui i turchi entrarono il 9 settembre 1922 e che fu data alle fiamme quattro giorni dopo: lo storico e giornalista britannico Arnold Joseph Toynbee dichiarò che, al momento in cui aveva visitato la regione, aveva visto villaggi greci rasi al suolo e la città data alle fiamme in maniera dolosa. Inoltre, Toynbee raccontò che le truppe turche avevano deliberatamente incendiato le abitazioni una a una. Almeno 10mila persone morirono in quel fatto, mentre la Turchia operava politiche di vera e propria pulizia etnica. Il trionfo di Ataturk generò la creazione del seme avvelenato che guasta da un secolo i rapporti tra Ankara e Atene. Oggi, più che mai, rivali sistemici.

Le tre carte del Sultano. Come Erdogan ha sfruttato il caos geopolitico della guerra in Ucraina. Maurizio Molinari su L'Inkiesta il 20 Ottobre 2022

Nel suo ultimo libro “Il ritorno degli imperi”, Maurizio Molinari spiega che l’invasione russa ha stravolto i rapporto tra gli Stati. E il leader turco è quello che più di tutti è riuscito ad approfittare della situazione, grazie alla sua abilità di giocare su più tavoli

In attesa di conoscere quali effetti produrrà la guerra ucraina in Europa e dintorni, possono esserci pochi dubbi sul fatto che nel breve periodo il leader riuscito più di altri ad avvantaggiarsene è stato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Abile nel distinguersi all’interno della Nato per la non adesione alle sanzioni alla Russia, Erdogan si è guadagnato un accesso privilegiato al Cremlino per poi diventare fra i maggiori alleati di Kiev, fornendo droni armati che i russi non riescono a intercettare e chiudendo acque e cieli nazionali all’esercito di Mosca. L’abilità di Erdogan è di saper giocare su più tavoli con straordinaria efficacia: da un lato aprendo le porte a Svezia e Finlandia nella Nato, dall’altro incontrando Putin in più occasioni – da Teheran a Soci – per testimoniare il non isolamento internazionale della Russia.

Ciò che accomuna tali e tante mosse, apparentemente in contraddizione, è il filo rosso dell’interesse nazionale turco. Erdogan è convinto che il conflitto fra Mosca e Kiev porterà a una frattura fra Est e Ovest destinata a durare nel tempo, in Europa come nel Mediterraneo, offrendo così spazio ad Ankara per estendere e consolidare una propria sfera di influenza lì dove, fino al termine della Prima guerra mondiale, si estendeva l’impero ottomano.

A tenere assieme i tasselli del mosaico di Erdogan sono dunque decisioni che assegnano alla Turchia il ruolo di interlocutore indispensabile di ogni parte in conflitto, permettendo ad Ankara di rafforzarsi ovunque, dal Bosforo a Gibilterra, dal Nordafrica allo Stretto di Babel-Mandeb, con gli interlocutori più disparati. Più gli attori rivali sono in attrito, più entrambi hanno bisogno di lui, per il semplice motivo che la Turchia è fisicamente presente nello scacchiere conteso ed è in grado di sfruttare, con grande disinvoltura, la propria geografia a favore di tutti i contendenti. È un risiko comprensibile solo tenendo presenti gli interessi turchi e l’idea strategica che Erdogan persegue con ferrea determinazione: tornare a essere potenza egemone nel Mediterraneo ripetendo la formula dei Sultani ottomani, che si imponevano con potenza efferata, trattavano con tutti ma esitavano a intervenire nelle dispute locali fino a quando non erano minacciati direttamente.

Se il legame con la Nato e gli Stati Uniti è indispensabile a una Turchia con un’economia in affanno, afflitto da un’inflazione molto alta e interessato a essere l’unico Paese musulmano parte dell’Alleanza occidentale, è invece la dipendenza dalle importazioni di energia dalla Russia l’architrave del legame con il Cremlino. Ma tenere a galla un sistema produttivo in difficoltà, segnato da forti squilibri di ricchezza sul territorio e un aumento demografico senza freni, non è l’unica priorità di Erdogan: il presidente turco persegue anche un’idea neoimperiale sui «territori» nordafricani e mediorientali già ottomani da riconquistare e mantenere.

L’intento di fondo è estendere le aree – terrestri o marittime – sotto il controllo, diretto o meno, delle proprie forze armate: gli accordi con la Russia in Siria e Libia consentono di controllare la regione a Nord di Idlib e attorno a Tripoli, così come il legame con il Qatar costituisce la testa di ponte per le operazioni nel Golfo Persico, mentre la presenza di armi nucleari Usa nella base di Incirlik assicura una formidabile autorità in tutta l’instabile regione.

Da qui anche l’impegno nel negoziato sull’export del grano dall’Ucraina, perché la mediazione diretta fra Putin e Zelensky – con il relativo successo delle consegne in Nordafrica, Medio Oriente e Italia – trasforma la Turchia nel protagonista indiscusso del superamento di una crisi alimentare che vedeva più Paesi, dal Libano all’Egitto, rischiare il collasso.

I tavoli negoziali aperti dal «Raìs» di Ankara sono quindi molteplici: dalla richiesta a Helsinki e Stoccolma di espellere gli oppositori curdi in cambio del definitivo avallo al loro ingresso alla Nato, al braccio di ferro con Mosca e Teheran per estendere il territorio curdo siriano sotto il controllo turco, fino alla consegna di armi hi-tech americane in cambio del sostegno a Kiev, e alle forniture energetiche russe in cambio della non adesione alle sanzioni occidentali.

A Washington e Mosca c’è chi ritiene che Erdogan stia rischiando più di un corto circuito, ma il presidente turco guarda tutti dall’alto in basso, nella convinzione che chiunque voglia essere attivo nel Mediterraneo debba, per avere successo, stringere accordi con lui, riconoscendo alla Turchia il ruolo di leader regionale a cui Ankara ambisce. Anche il ritorno dei terroristi jihadisti, che hanno spostato le loro roccaforti nel Sahel e nel Corno d’Africa, in realtà è una carta a suo favore, perché nessuno come Erdogan – che ha prima flirtato con e poi combattuto contro l’Isis – conosce la dinamica interna ai gruppi islamici. Nulla da sorprendersi, dunque, se il Qatar tenti di far leva su Ankara per spingere il regime talebano in Afghanistan ad attivare un canale di comunicazione con il resto del mondo.

Il trucco di Erdogan per restare al potere: guerra totale ai curdi. A dieci mesi dalle elezioni presidenziali e politiche la Turchia vive una gravissima crisi economica e il Sultano perde consensi che prova a recuperare con il solito metodo: la repressione. Ezio Menzione, Osservatore Internazionale UCPI, su Il Dubbio il 10 luglio 2022.

Nella primavera del 2023 in Turchia si terranno le elezioni, parlamentari e presidenziali. I sondaggi danno lo AKP, il partito di Erdogan, in deciso calo, e tale da non raggiungere la maggioranza nemmeno col suo partner nella attuale dittatura, il fascistissimo e islamissimo MHP. Addirittura, in termini assoluti, l’AKP verrebbe secondo dopo il CHP, di opposizione moderata, che ha già in mano le amministrazioni delle maggiori città.

Il calo di consenso dell’AKP è dovuto, secondo ogni osservatore, alla crisi economica che dal 2018 sta colpendo le classi più disagiate con disoccupazione e intollerabile aumento dei prezzi, in generale, e in particolare dei generi di prima necessità. Si noti che la maggioranza presidenziale del 52% anche alle ultime elezioni era stata costruita attraverso l’alleanza con lo MHP, che ci mise il suo 7%, che sarebbe andato disperso perché in Turchia vi è una soglia dell’ 8%. È mai possibile che Erdogan si rassegni a lasciare la sua posizione senza porre in atto manovre e trucchi per cercare di ricostituire il vecchio consenso? L’attivismo di Erdogan sullo scenario internazionale è volto ad accreditare una Turchia di cui non si può fare a meno se si intende preservare l’ordine geopolitico attuale. Questo dovrebbe consentire anche di portare aggressioni per esempio verso la Siria, o nei territori dei curdi siriani, così come anche recentemente più volte verso quello dei curdi irakeni.

Ciò consente alla Turchia di additare un proprio indebolimento come un venir meno delle garanzie di stabilità non solo del Mediterraneo orientale, ma di tutto il Medio Oriente, costringendo le potenze occidentali non solo a chiudere gli occhi sul tema dei diritti umani e civili, ma a consentire politiche di aggressione verso Siria, Cipro, Libia, Irak. Il presentarsi come mediatore necessario nel conflitto russo- ucraino ne dovrebbe fare un soggetto indispensabile nel panorama occidentale. Non ci sarebbe da meravigliarsi che prima o poi Erdogan ricominciasse a bussare alle porte dell’Ue. Una politica estera che vede Erdogan così ben piazzato è moneta che egli può spendere anche per tappare le falle di consenso in politica interna.

Il tallone d’Achille è l’economia, in tutte le sue declinazioni ( finanza, industria, occupazione ecc.) ed è anche il terreno su cui si vincono elezioni. Di fronte ad una crisi verticale che attanaglia il paese da 4 anni, soprattutto in quei settori, come l’edilizia, su cui si fondava il consenso del “sultano”, e che fa viaggiare l’inflazione a tre cifre (120% annuo, ma sui beni che interessano le fasce più basse sale al 165%), Erdogan non intende tirare i freni del credito. Ha cambiato governatore della banca centrale 4 volte negli ultimi tre anni proprio perché la ruota dovrebbe continuare a girare e garantire un certo livello di consenso negli strati intermedi e soprattutto imprenditoriali. E’ chiaro il ragionamento: più debiti faccio, soprattutto verso l’estero, e meno questi debiti saranno esigibili, perché troppo elevati. Se le banche tedesche ( ma anche italiane) dovessero richiedere i propri crediti ad Ankara non solo fallirebbe il governo, ma anche le incaute banche tedesche ( e italiane). E’ un po’ lo stesso principio che governa la politica estera: Erdogan non può essere lasciato andare in malora.

Come sappiamo, Erdogan ha fatto dei rifugiati ( soprattutto siriani) una merce di scambio con l’Europa. Tu paghi, ed io trattengo i rifugiati. Così negli ultimi anni ha incassato 10 miliardi di euro, e ha dovuto ospitare nei campi ( tutti ormai militarizzati) fino a 6 milioni. Oggi, però, le classi meno abbienti addossano la colpa della crisi ai rifugiati, che sottrarrebbero lavoro e benessere (!) ai turchi. Erdogan da un lato continua a minacciare la EU di spedirgli i rifugiati trattenuti, dall’altro si è impegnato a rispedirne a casa 2 milioni e ottocentomila.

Erdogan ha fatto passi indietro su tutta la linea (amministrazione, scuola, cultura) per quanto riguarda il riconoscimento dell’autonomia dei curdi. I sindaci curdi sono in galera e i comuni del Kurdistan sono governati da prefetti. Ma l’offensiva è soprattutto sul piano politico, cercando di mettere fuori legge lo HDP, terzo partito del panorama turco, di sinistra non solo curdo, ma capace di raccogliere oltre il 10 % di consensi fra gli strati medio bassi.

Da tempo i leader locali e nazionali ( compreso Demirtas, il segretario del partito, e la sua vice) sono in galera. E’ facile immaginare che l’assalto finale verrà sferrato nei mesi immediatamente precedenti le elezioni, così che esso non abbia il tempo di ricostituirsi con un’altra bandiera o tramite un’altra alleanza. Siccome chi decide sulla messa fuori legge di un partito è la Corte Costituzionale, Erdogan ha rafforzato la presenza conservatrice al suo interno tramite la nomina di un nuovo giudice di strettissima osservanza AKP. Accanto alla messa fuori legge dell’HDP, c’è poi un progetto di legge elettorale, con riscrittura dei confini dei collegi, ma soprattutto con un “premio” per chi si presenta in coalizione, nel presupposto che lo AKP si presenterà sicuramente assieme all’MHP, mentre per l’opposizione è più difficile raggiungere l’accordo.

Siamo abituati a pensare che una dittatura al declino possa fare dei timidi accenni di apertura soprattutto sul piano delle libertà e della politica giudiziaria. Non vanno così le cose in Turchia, anzi.

I dossier politico- giudiziari aperti si stanno concludendo nel peggiore dei modi, con pene più che esemplari: il processo all’imprenditore filantropo Kavhala (per il quale era intervenuta due volte la CEDU perché fosse liberato) e il cosiddetto caso Gezi Park si è chiuso con la condanna dell’imprenditore all’ergastolo e degli altri 8 imputati (di cui due avvocati; odiati da Erdogan come rappresentanti di una borghesia illuminata che non si vuole piegare) a 18 anni con immediata carcerazione. Non meglio andranno i moltissimi processi contro gli avvocati e i giornalisti.

Recentemente è stato nominato vice Ministro della Giustizia il famigerato giudice Akin Gurlek, quello che dava tre anni di condanna agli Accademici per la Pace che avevano firmato un appello per la non aggressione in Siria, laddove gli altri giudici “contenevano” le condanne attorno all’anno, con la condizionale: finché non è intervenuta la Corte Costituzionale affermando che l’appello era una libera espressione del pensiero. Lo stesso giudice nel marzo 2019 condannò praticamente con una finzione di processo 20 avvocati del CHD a pene che vanno da 3 a 18 anni. Il giudice più reazionario che ha messo le mani in pasta nei dossier politicamente più rilevanti.

Erdogan è molto attento anche sul fronte della politica culturale e dei diritti individuali, anche perché incalzato dagli islamisti fondamentalisti, che fanno il bello e il cattivo tempo tramite il potentissimo Direttore degli Affari Religiosi, e dunque eccoci alla disdetta della Convenzione di Istanbul per la tutela delle donne, i un paese in cui i femminicidi ammontano a uno al giorno di media; al divieto del Gay Pride e all’attacco all’intera comunità LGBT+; alla stretta sulle nomine dei rettori dei vari atenei; ai divieti di spettacolo per chiunque sia lontanamente schierato con l’opposizione. Per non parlare dell’informazione e della persecuzione dei giornalisti della carta stampata e della TV ( ma l’attacco è anche contro i social).

Insomma, il “sultano” sembra convinto che il suo consenso debba nutrirsi, anche in questa fase declinante, di repressione e violazione di ogni diritto, civile e politico. Altri trucchi? Difficile dire come Erdogan agirà se dovesse intravedere una sicura sconfitta. Un rinvio delle elezioni? E per far questo? Un nuovo stato di emergenza? E per giustificare questo? Una serie di attentati “pilotati” o un secondo tentativo di colpo di stato assai benvenuto? Chissà, staremo a vedere. 

Domenico Quirico per “La Stampa” il 19 luglio 2022.

Guardate Erdogan. Come si muove, come stringe le mani, come è elegante e sornione, come ascolta con compostezza e gravità, con incoraggianti cenni di testa, le battute dei suoi colleghi della Alleanza, un po' scervellati, ma tanto in buona fede, poverini. Astuzia e sfrontatezza sono negli occhi e nella bocca. È un antipatico che come il canto di Orfeo, può domare anche i più feroci. 

Il guaio con lui è che tutte le volte ci diciamo, speranzosi: questa volta è al capolinea, è preso in trappola. E giù a elencare i suoi guai ciclopici, l'inflazione al settantatré per cento, la liretta turca che ha perso nei primi mesi di quest' anno il venti per cento del valore, i sondaggi che danno per sepolti, lui e il suo partito, alle elezioni del giugno del prossimo anno.

La buona notizia è che il suo goffo e muscolare «ottomanismo» non sembra più la grande idea che era fino a qualche anno fa. Le sue galere sono piene di giornalisti e oppositori, come d'abitudine tutti «terroristi». Ma la decisione di dire basta con il sultano pare aver guadagnato consensi al di fuori dei salottini di Istanbul dove noi andiamo a cercare rassicurazioni di coraggiose ma finora rare volontà democratiche. E un sultano che viene sfidato non può permettersi di perdere. Perdere significa restare senza un ruolo, diventare ridicolo. 

La cattiva notizia è che mai come oggi l'anticamera della Sublime Porta, così si chiamava il palazzo di Istanbul al tempo dei sultani-califfi, è affollata di questuanti occidentali, di riverenti, di aspiranti alleati disposti a chiudere gli occhi su tutto. La Storia si ripete.

Fino al Settecento l'impero ottomano non sprecava denaro e uomini per aprire ambasciate nei tenebrosi e incivili paesi europei. Erano questi che venivano a Istanbul a implorare uffici diplomatici e a imparare come bisognava ungere il favore dei gran visir per ottenere qualcosa dall'onnipotente sultano. 

Diavolo di un Erdogan! Son tornati quei tempi: corteggiato, adulato, invocato lui è ovunque, guizza, promette, tradisce, illude, un figaro dai mille intrighi. Si illudono i russi, la nato, gli europei di averlo afferrato e lui scivola via, se la ride infilandosi in altri intrighi, alleanze e contro-alleanze e li avviluppa in mille fili. Ci fa le lezioni. E tutti a chiedersi, a Washington, a Bruxelles, a Damasco, a Mosca: ma a che gioco gioca? che cosa cerca? 

Erdogan non è un dittatorello da paese musulmano, prevedibilmente disonesto e pittoresco. Ma il pittoresco stanca.

Lui è moderno, modernissimo. Non si abbandona alla retorica e alle astrazioni, si ancora proficuamente al prosaico e all'immediato. Non offre teologie. Offre interessi. Per questo nessuno dei «democratici» osa dirgli che è una vergogna la sua politica di repressione interna e di avventurismo internazionale. Chi, ancor un po' naif, si è lasciato sfuggire l'insulto «dittatore», poi deve correre a Canossa. Il moralismo, in un mondo fradicio di immoralità come il nostro, ha una bassa quotazione.

Un caso da manuale è il rompicapo del grano ucraino bloccato dalla guerra. Anche qui tutto sembra passare da lui, il pasto quotidiano di centinaia di milioni di uomini, una crisi alimentare da maledizione biblica, un barlume di disgelo tra mosca e Kiev. 

Stiamo in guardia: non è detto che l'happy end accada davvero. Ma anche se finirà in nulla lui ha dettato il ritmo per settimane alla diplomazia universale, ha messo insieme crediti per i prossimi anni che si farà scontare a pronta cassa, silenziosamente. Erdogan il Negoziatore: un gigante in un panorama desertico di mezze figure che non vanno oltre l'insulto o la perorazione. 

Un minuto dopo l'annuncio dell'eventuale fallimento delle trattative lui riprenderà, sornione, paziente, i suoi furbi calcoli, gli insinuanti ricatti. Perché ottiene tutto ma non concede mai nulla che sia essenziale per i suoi complicati disegni.

E forse questo è l'unico limite: che i suoi progetti sono architetture così complesse e ardite che, alla fine, proprio l'inseguirne la perfezione diventa l'unico fine. Come un architetto che disegna case meravigliose ma dove non c'è posto per dettagli come scale e cantine. 

Da ammirare da fuori, ma impossibile entrarci, inutili. Se gli levi gli intrighi, a Erdogan che gli resta? 

I baccaloni di Bruxelles, Stoltenberg mezzo guerriero e già mezzo bancario, hanno attraversato tutte le forche caudine della vergogna per strappargli il sì a Svezia e Finlandia nella Nato, gli hanno lisciato il pelo e il contropelo regalandogli un po' di curdi da gettare in pasto al nazionalismo implacabile dei turchi.

Il sultano, che li sospetta implicati nel golpe fallito del 2016, ha fatto un po' le moine, si è negato come una accorta damina del Serraglio. Poi ha detto sì. Applausoni, mai come ora la nostra amicizia per lui è andata più liscia e spedita. In realtà non ha concesso nulla, solo parole. 

Se gli arriverà qualche offerta migliore, da Mosca per esempio, provvederà a negare la necessaria ratifica nel suo parlamento come impongono i trattati della nato. Siamo una democrazia, non decido solo io... Peccato. Nessuno oserà dire niente. 

E Putin? Pensa di tenerlo ben stretto con il cappio siriano. Perché se non c'è il via libera del grande Protettore di Bashar impossibile procedere alla quarta invasione turca della Siria dopo quelle del 2016, 2018 e 2019. Trenta chilometri di fascia di sicurezza anticurdi sono pochi per Erdogan. Bisogna cacciarli indietro di un altro bel tratto, bombardarli con cura i curdi delle Ypg, i terroristi. Ma lo zar dovrebbe venir imparare da lui, dalle sue astute civetterie.

Perché Erdogan da anni pianifica e realizza aggressioni come quelle putiniane del Donbass e della Crimea, vende armi e da a servizio mercenari. Ma invece che una cateratta di sanzioni e maledizioni si inghinghera di dollari, armi e applausi. 

Vedrete che dopo aver ottenuto la complicità occidentale otterrà anche il via libera di Putin per ripulire gli angolini curdi. Mosca ne ha bisogno, unico contatto che è rimasto con l'altra parte del fronte, l'Ucraina e l'Occidente. Non si sa mai. Erdogan sa che almeno metà dei turchi è convinta che la responsabilità della guerra in Ucraina sia degli Stati Uniti e della Nato e che intravedono negli atti degli occidentali il peccato dell'islamofobia.

I cosiddetti «eurasiani», coloro che pensano che il posto adatto per la Turchia sia a fianco di Cina e Russia e non certo con gli europei e l'America, sono influenti all'interno dell'esercito e dei servizi segreti. Di cui Erdogan non può fare a meno.

La nuova guerra di Erdogan contro i curdi si chiama pulizia etnica. Alberto Stabile su La Repubblica il 27 Giugno 2022. 

Approfittando del conflitto in Ucraina il sultano di Istanbul si prepara a entrare in Siria con l’esercito. Obiettivo: costringere la popolazione del Kurdistan siriano ad emigrare e insediare qualche milione di rifugiati arabi

Sul grande scacchiere della crisi scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina ha saputo guadagnarsi e mantenere, almeno finora, una posizione strategica centrale, in grado al tempo stesso di promettere fruttosi rapporti con la Russia di Putin pur restando membro della Nato. Ma poiché è un giocatore capace di esibirsi su diversi tavoli contemporaneamente, è sul Levante che il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, si prepara a fare la sua puntata “all-in”: lanciando la quarta operazione militare in sei anni nel Nord Est della Siria, allo scopo di allontanare gli indipendentisti curdi dalla frontiera ed allungare ulteriormente la cosiddetta “fascia di sicurezza”, profonda 30 chilometri, in parte già sotto controllo delle forze armate turche e delle milizie loro alleate.

(ANSA il 17 febbraio 2022) - La presidenza della Repubblica turca ha lanciato una campagna sui social per modificare il nome con cui la Turchia è conosciuta a livello internazionale (in inglese 'Turkey') con il termine in lingua turca per definire il Paese, ovvero 'Türkiye'.

Il quotidiano Milliyet ha presentato la campagna '#SayTürkiye' che segue un'altra iniziativa denominata #HelloTürkiye lanciata a dicembre quando la decisione è stata annunciata dal presidente Recep Tayyip Erdogan.

Il nuovo nome "rappresenta ed esprime la cultura, la civiltà e i valori della nostra nazione nel mondo migliore", ha affermato il leader turco incoraggiando le aziende ad utilizzare la denominazione 'made in Türkiye' nei prodotti destinati all'export. 

Il progetto si pone l'obiettivo di arrivare a cambiare il termine 'Turkey' con 'Türkiye' in passaporti, documenti di identità, siti web istituzionali e nelle versioni internazionali dei social delle aziende turche.

Molte pagine web ufficiali hanno già modificato il nome mentre i giornalisti della versione in lingua inglese della tv pubblica turca Trt World hanno iniziato nelle scorse settimane ad utilizzare il termine 'Türkiye'. 

"Riteniamo che sia significativo utilizzare l'espressione 'Türkiye' nell'arena internazionale per rafforzare ulteriormente il marchio e la reputazione del nostro Paese", ha fatto sapere il direttore delle comunicazioni presidenziali Fahrettin Altun che ha ideato la campagna. 

Secondo media locali, Ankara punta nelle prossime settimane a registrare ufficialmente il termine 'Türkiye' presso le Nazioni Unite.

Erdogan scrive all'Onu: "Ora siamo Turkiye, non Turkey" La Turchia non vuole più essere un tacchino. Dal “Fatto Quotidiano” il 6 giugno 2022.  

Altro successo internazionale per Erdogan: la Turchia, come scrive il Post, non si chiamerà più come un tacchino. "La Turchia - si spiega - ha chiesto ufficialmente alle Nazioni Unite di essere chiamata in modo diverso da qui in avanti. Il suo nome non sarà più Turkey', la versione inglese usata fino ad ora a livello internazionale, ma Turkiye', il nome turco che viene già usato in Turchia.  

La richiesta, fa parte di una campagna di rebranding, cioè di rinnovamento d'immagine, avviata nel paese dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan a dicembre dello scorso anno".  

Mai più tacchini: "Tra le ragioni del cambiamento, c'è anche il fatto che il paese non voleva più essere associato al tacchino (che in inglese si chiama appunto `turkey) e ad alcuni significati poco lusinghieri che il Cambridge English Dictionary attribuisce a questo termine, come 'qualcosa che fallisce miseramente' o 'una persona stupida e ridicola". L'Onu ha già ratificato, che nessuno irriti il sultano.

·        Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Mohammed bin Salman, gli Stati Uniti sostengono l’immunità nel processo per l'omicidio Khashoggi. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2022.

L’opinione è arrivata dal dipartimento di giustizia su richiesta del dipartimento di Stato . La fidanzata di Khashoggi: «Biden ha tradito Jamal»

Il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha raccomandato l’immunità per il principe saudita Mohammad bin Salman, per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi avvenuto nel consolato saudita di Istanbul nel 2018. Il caso è sotto esame di un tribunale americano, in seguito alla denuncia della fidanzata di Khashoggi, Hatice Cengiz. Un rapporto della Cia desecretato proprio dal presidente Joe Biden indica che il leader de facto dell’Arabia saudita sarebbe il mandante di quell’omicidio. Ora il dipartimento di Giustizia, senza scendere nel merito delle colpe del principe, scrive che la legge internazionale non permette di processare i capi di stato di altri paesi: a settembre Mohammed bin Salman (spesso identificato attraverso le sue iniziali, Mbs) è diventato infatti formalmente primo ministro (anche se era di fatto al potere dal 2017). La decisione ultima spetterà al giudice, ma un tribunale degli Stati Uniti non rovescerebbe mai una raccomandazione simile da parte del dipartimento di Giustizia, dicono gli esperti. 

Era da considerarsi improbabile che gli Stati Uniti, partner commerciale e alleato dell’Arabia saudita, facilitassero l’arresto di Mbs. Ma garantirgli l’immunità in questo modo ha provocato le proteste dei gruppi per i diritti umani. La fidanzata di Khashoggi che richiede un risarcimento di danni da parte del Regno saudita, ha accusato Biden di aver tradito il giornalista: «Oggi Jamal è morto di nuovo». 

La segretaria generale di Amnesty International Agnes Callamard ha criticato sia Trump che Biden per la scelta di archiviare il caso. Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva di Dawn, ha scritto su Twitter che è «assolutamente paradossale che Biden abbia assicurato che Mbs sfugga alla giustizia, visto che proprio questo presidente aveva promesso agli americani che avrebbe fatto tutto il possibile perché ci fosse giustizia». Il figlio di un agente della sicurezza in esilio in Canada, Saad al-Jabri, dichiara che questa decisione dà al leader saudita «licenza di uccidere». Il Regno saudita ha condotto un processo a porte chiuse, nel quale ha concluso che la morte di Khashoggi è stata il risultato di un’azione «fuori controllo» di agenti mandati a persuadere il giornalista a tornare a casa, negando ogni responsabilità di Mbs. L’episodio va letto anche nel contesto della necessità di Washington di migliorare i rapporti con il principe. Dopo aver giurato di fare dell’Arabia saudita uno «Stato-paria», Biden ha detto la scorsa estate di voler «ricalibrare» i rapporti. 

A luglio, dopo il famoso pugno contro pugno con il principe (si voleva evitare una stretta di mano, ma le critiche sono state anche maggiori), le cose non sono migliorate. Il rifiuto di Riad di aumentare la produzione di petrolio per abbassare i prezzi negli Stati Uniti è un chiaro messaggio agli occhi dell’Amministrazione, come la relazione di Riad si rafforza con Russia e Cina. Se le elezioni presidenziali del 2024 vedranno Trump contro Biden non c’è dubbio che Mbs tiferà per l’ex presidente, che scelse Riad come prima tappa all’estero.

Omicidio Khashoggi, per gli Usa Mohammed bin Salman ha l'immunità. Redazione Esteri su La Repubblica il 18 Novembre 2022.

Non può essere processato in quanto primo ministro saudita. Il giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi è stato ucciso nel 2018 nel consolato di Riad a Istanbul. La fidanzata del reporter su Twitter: "Jamal è morto di nuovo oggi"

L'amministrazione Biden ha stabilito che al principe ereditario dell'Arabia Saudita Mohammed bin Salman dovrebbe essere concessa l'immunità nella causa intentata contro di lui dalla fidanzata del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi, ucciso nel 2018 nel consolato di Riad a Istanbul. "Jamal è morto di nuovo oggi", ha scritto su Twitter Hatice Cengiz, cittadina turca che stava per sposare il reporter quando è stato rapito e ucciso.

La richiesta di immunità è stata avanzata dagli avvocati del Dipartimento di Giustizia su richiesta del Dipartimento di Stato perché bin Salman è stato recentemente nominato primo ministro saudita e, di conseguenza, ha diritto all'immunità in quanto capo di governo straniero. La richiesta è stata presentata nella tarda serata di ieri. Lo riporta la Cnn.

"Biden ha salvato l'assassino concedendogli l'immunità. Ha salvato il criminale e si è così coinvolto in questo crimine. Pensavamo che forse ci sarebbe stato un barlume di giustizia dagli Stati Uniti. Ma ancora una volta, i soldi sono la prima cosa", ha constato Cengiz che già a luglio aveva criticato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, per il suo incontro con bin Salman in Arabia Saudita.

"Biden è al corrente di questo processo legale ma è stata una decisione del dipartimento di Stato, che ha fatto una richiesta a quello della Giustizia", ha chiarito il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana, John Kirby, in un briefing virtuale con la stampa, a proposito della questione. 

Hatice Cengiz e Dawn, organizzazione per i diritti umani con sede a Washington fondata dal giornalista, hanno intentato una causa contro bin Salman e altre 28 persone nell'ottobre 2020 presso la Corte distrettuale federale di Washington. Sostengono che la squadra di assassini abbia "rapito, legato, drogato, torturato e assassinato" Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul e poi abbia smembrato il suo corpo. I resti del reporter non sono mai stati ritrovati.

Nourah Saeed al- Qahtani, il tweet critico del regime le costa 45 anni di carcere. Lei è un’insegnante universitaria e giornalista. L’ha condannata un tribunale speciale: «Mina l’ordine pubblico». Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 2 settembre 2022.

Sono passate appena due settimane dalla condanna a 34 anni di prigione della giovane ricercatrice universitaria saudita Salma al- Shehab che aveva criticato, sul suo account twitter, la monarchia saudita. Era la più lunga pena detentiva mai inflitta per un reato di opinione. Fino a quando non è arrivata la notizia che un’altra donna, insegnante e giornalista dovrà scontare 45 anni dietro le sbarre.

Si chiama Nourah bint Saeed al- Qahtani, giudicata da un tribunale speciale antiterrorismo che l’ha accusata di aver usato Internet per «lacerare il tessuto sociale saudita» ma anche di minare l’ordine pubblico. Troppo simili i due casi per non pensare che in Arabia Saudita sia in corso un’escalation contro chiunque dissente.

In particolare le donne, specie se con un’istruzione e una posizione sociale rilevante. Saeed al- Qahtani è infatti un’accademica che svolge il suo lavoro presso il College of Arts della King Saud University, a Riyadh. Qui insegna letteratura e critica moderna. Un particolare non secondario e che ricopre anche il ruolo di editore del quotidiano Al- Jazirah. Come la sua collega al- Shehab si è laureata in Gran Bretagna, all’università di Leeds. Anche le accuse accomunano le due donne così come l’uso dei social network che stanno diventando una spina nel fianco per il potere esercitato dal principe ereditario bin- Salman già coinvolto come presunto mandante dell’omicidio del giornalista Khashoggi. Twitter infatti, nonostante le pesanti limitazioni, è seguito da moltissimi sauditi.

L’account di al- Qahtani conta circa 6mila follower, non un numero enorme ma sufficiente a far scattare la mannaia della prigione. Attraverso i social è riuscita spesso non solo a parlare di ciò che insegna ma anche a discutere della situazione politica del suo paese. La notizia della condanna ha penetrato la cortina della censura grazie ai gruppi che difendono i diritti umani che si trovano all’estero. L’ong Dawn racconta di aver ricevuto documenti relativi alla vicenda da una fonte giudiziaria.

Secondo il direttore di Dawn, Abdullah Alaoudh, «nulla nelle pagine prodotte dal tribunale riguarda violenza o attività criminale ma le accuse contro di lei sono davvero tante. Stanno usando la legge antiterrorismo e la legge anti- criminalità informatica… che può criminalizzare qualsiasi pubblicazione critica nei confronti del governo».

Dawn teme che molti e molte altre sepolte nelle carceri saudite possano subire la stessa sorte di al- Qahtani. Una paura condivisa anche da un’altra organizzazione, ALQST che ha sede nel Regno Unito: «Stiamo assistendo a un allarmante deterioramento della situazione dei diritti umani in Arabia Saudita.» La situazione viene messa in relazione con l’ incontro del presidente Usa Joe Biden con il principe Mohammed, a Jeddah, il mese scorso, la Casa Bianca infatti aveva precedentemente promesso di rendere l’Arabia Saudita un paese sotto stretta sorveglianza per il suo non rispetto dei diritti umani. Cosa che però sembra aver sortito l’effetto opposto con un aumento della repressione.

Non passa giorno infatti che al di là delle condanne, non si venga a conoscenza di episodi gravi come quello che in questo momento ha costretto le autorità giudiziarie ad aprire un’inchiesta. Anche in questo caso è stata la rete a scoperchiare una storia di abusi verificatisi in un orfanotrofio, il Social Education House di Khamis Mushait. In un video pubblicato martedì scorso da un utente su twitter si vedono le forze di sicurezza fare irruzione nell’istituto e picchiare ragazze adolescenti.

Le immagini mostrano funzionari in borghese che trascinano una ragazza urlante per i capelli mentre un poliziotto la colpisce con una cintura. Le circostanze e il tempo degli avvenimenti non sono verificati ma sembra che la causa delle violenze sia stata una protesta contro la corruzione e l’ingiustizia inscenata dalle ragazze che reclamavano i loro diritti negati dalla direzione dell’orfanotrofio.

Marta Serafini per il "Corriere della Sera" il 18 febbraio 2022.

L'annuncio di lavoro era destinato a 30 macchiniste. Hanno risposto in 28 mila. Lo scenario, come ormai accade di frequente quando si parla di diritti delle donne, è quello dell'Arabia Saudita. Nel Regno di Mohammed Bin Salman di recente sono state le restrizioni al lavoro femminile ma a Riad, evidentemente, le aspirazioni femminili non sono ancora soddisfatte. Tanto più se si considera che fino al 2018 alle donne, in Arabia Saudita, non era nemmeno concesso guidare. 

Per trovare l'ago nel pagliaio, l'operatore ferroviario spagnolo Renfe, autore dell'annuncio di lavoro, ha fatto sapere che valuterà le candidature online e che, ai fini della selezione il cui termine è previsto a fine marzo, dirimente sarà la conoscenza della lingua inglese. Le 30 donne selezionate guideranno treni ad alta velocità tra la Mecca e Medina dopo un anno di formazione retribuita. Una tratta coperta per ora da 80 uomini. 

Fino a poco tempo fa, le opportunità di lavoro per le donne saudite erano limitate a certi ruoli quali insegnanti e operatrici sanitarie, nel rispetto delle regole di segregazione. Poi, la partecipazione femminile alla forza lavoro è quasi raddoppiata negli ultimi cinque anni, arrivando al 33 per cento dopo il piano di Mohammed Bin Salman di riammodernamento del regno e di apertura dell'economia, il Vision 2030. L'occupazione femminile nel settore privato è aumentata a un tasso doppio rispetto al settore pubblico nel 2019-2020, con una crescita del 40% nelle industrie ricettive e alimentari, del 14% nel settore manifatturiero e del 9% nelle costruzioni. 

Risultato, le donne ora iniziano a fare lavori una volta riservati agli uomini e ai lavoratori migranti. Ma la percentuale di donne che lavorano nel regno è ancora bassa, al 34,1% nel primo trimestre del 2021, e la disoccupazione femminile è ben oltre tre volte superiore a quella maschile, al 21,9%. 

L'Arabia Saudita di Mbs dunque punta molto sui progressi sulle questioni di genere anche a fini propagandistici - di recente alle donne è stato permesso anche di guidare i taxi - ma resta sotto osservazione sul tema dei diritti umani, a causa della repressione del dissenso che ha portato in carcere dozzine di attiviste per i diritti delle donne e per l'omicidio nel 2018 del giornalista Jamal Khashoggi. 

Come dire che 30 posti di lavoro riservati alle donne non bastano a cacciare le ombre. Da non dimenticare, poi, come le 30 candidate selezionate, prima di accettare il posto di lavoro dovranno chiedere il permesso al parente maschio più prossimo se single, o al marito se sposate. Perché così ancora è in Arabia Saudita, dove il sistema del guardiano non consente alle donne di prendere le decisioni più importanti da sole. Compreso salire su un treno per viaggiare. Figuriamoci per guidarlo.

Riad libera la principessa Basma detenuta da tre anni senza un perché. Monica Ricci Sargentini Il Corriere della Sera il 9 Gennaio 2022.

Figlia minore dell’ex re Saud, aveva criticato il principe ereditario bin Salman. Imprenditrice e attivista, scriveva articoli critici sulle condizioni di vita dei sauditi, in particolare delle donne. 

È tornata finalmente libera la principessa saudita Basma bint Saud al Saud, la più giovane dei 115 figli di re Saud che era stato rimosso dal trono lo stesso anno della sua nascita, nel 1964. La donna era stata arrestata nel 2019 insieme alla figlia Suhoud al-Sharif mentre stava per recarsi in Svizzera dove si sarebbe sottoposta a cure mediche. Nei suoi confronti non era mai stata presentata alcuna accusa specifica ma in molti avevano letto la sua detenzione come l’ennesimo «attacco» a una componente della famiglia reale che il principe ereditario Mohammed bin Salman (Mbs) voleva rendere sempre più marginale.

Sicuramente Basma è sempre stata un personaggio «alieno» dalla monarchia saudita. Suo padre, che ha visto solo due volte, è morto quando lei aveva cinque anni ed è cresciuta prima a Beirut, poi in Gran Bretagna dove ha avuto un’educazione internazionale. Imprenditrice, è stata la prima componente della famiglia reale ad apparire sulla copertina di una rivista in Arabia Saudita, ha fondato una catena di ristoranti, un gruppo editoriale e nel 2016 ha scritto un libro, The Fourth way law, in cui elenca le quattro condizioni fondamentali per costruire una società equa: sicurezza, libertà, istruzione e uguaglianza.

Un personaggio scomodo, insomma, che, aveva deciso di tornare a vivere in Arabia Saudita nel 2016 continuando a scrivere articoli molto critici sulle condizioni di vita dei sauditi e in particolare delle donne. La principessa si era anche espressa duramente contro la repressione del dissenso messa in atto dal principe ereditario. Le sue parole avevano irritato la famiglia reale tanto che i funzionari sauditi avevano cominciato a censurare i suoi articoli, come lei stessa aveva dichiarato al britannico The Independent.

A un anno dall’arresto, nell’aprile del 2020, Basma era riuscita incredibilmente a lanciare un appello dalla prigione al re Salman e a Mbs utilizzando il suo account Twitter: «Sono reclusa in maniera arbitraria nella prigione di Al-Ha’ir, senza accuse penali o di altra natura. La mia salute si sta deteriorando a un punto che potrebbe portarmi alla morte».

A dare la notizia del rilascio delle due donne è stata, sabato, l’ong saudita Alqst, con sede a Londra, che ha ricordato come durante il periodo di detenzione alla principessa «sono state negate le cure mediche di cui aveva bisogno». Ora madre e figlia hanno fatto ritorno a Gedda ma Basma, ha fatto sapere il suo avvocato Henri Estramant, soffre di problemi di salute, tra cui l’osteoporosi, e dovrà sottoporsi a urgenti cure mediche. «Il rilascio è segno che la famiglia reale sta tentando di modernizzarsi — ha spiegato l’avvocato Estramant —, per loro è importante non avere persone detenute arbitrariamente».

Di oppositori in carcere, però, ce ne sono ancora troppi.

·        Quei razzisti come i qatarioti.

Giordano Stabile per la Stampa l’11 Dicembre 2022. 

I nostri cari emiri. Il titolo di un saggio di qualche anno fa, 2016, ora di bruciante attualità. Autori due giornalisti francesi, Georges Malbrunot e Christian Chesnot. La guerra in Siria era all'apice, Bashar al-Assad usava tutte le armi, anche proibite, per massacrare i ribelli. Le accuse contro le monarchie del Golfo, in quel momento i principali sostenitori della rivoluzione siriana, valgono agli autori anche accuse di "assadismo". 

Ma l'inchiesta guardava lontano e lo scandalo nel cuore della democrazia europea conferma tutte le loro preoccupazioni. L'alleanza tra Occidente e Paesi del Golfo, che vede la Francia fra i principali protagonisti, ha il suo lato oscuro, fatto soprattutto di corruzione. «Da una parte c'è lo scambio irrinunciabile - conferma Malbrunot - tra forniture energetiche e sicurezza, con gli Stati Uniti come garante supremo dell'esistenza stessa dei ricchissimi ma piccoli emirati, minacciati dall'Iran. Dall'altra un flusso di investimenti gigantesco verso l'Europa, sempre più spesso opaco».

È il Qatar, il Paese con il reddito pro capite più alto al mondo, 70 mila dollari all'anno, a esserne la fonte. Con la Francia il rapporto è simbiotico. 

Sboccia negli anni Novanta, ma è nel 2009, dopo la mediazione qatarina per la liberazione delle infermiere bulgare prigioniere di Gheddafi, che il presidente Nicolas Sarkozy impone una convenzione fiscale a misura dell'allora emiro Hamad bin Khalifa al-Thani, compresi famigliari e amici, senza ritenute alla fonte. 

In pratica, la Francia diviene un paradiso fiscale per i ricchi qatarini. Lo shopping è gigantesco. L'Hôtel Lambert sull'Ile Saint-Louis, nel cuore di Parigi, il casinò di Cannes, quote nei principali gruppi del lusso, fino alla perla, la squadra di calcio del Psg, che sarà una delle porte d'ingresso per arrivare all'assegnazione dei Mondiali di Calcio.

Ma il trattamento privilegiato si accompagna a «innaffiatura» di uomini politici. «La maggior parte dei francesi sono stati "innaffiati" dal Qatar durante la presidenza Sarkozy - precisa Chesnot -. Doha però ha anche finanziato le campagne sia dei laburisti che dei conservatori britannici nel 2015. Mentre negli Stati Uniti la penetrazione è soprattutto emiratina e saudita: Mohammed bin Salman si è vantato si aver contribuito per il 20 per cento della campagna di Hillary Clinton nel 2016», salvo poi diventare uno dei più stretti alleati di Donald Trump. Un altro esempio di come non ci siano «preferenze di campo». 

L'importate è l'obiettivo, cioè influenzare le società occidentali. Con tutti i mezzi.

Ne hanno in abbondanza.

Qatar ed Emirati hanno sviluppato una strategia di soft power, che ha come pilastri «l'educazione, la cultura e lo sport», conferma Malbrunot: «Hanno i mezzi per comprarsi tutto o quasi: i quadri più preziosi, i club più prestigiosi, come il Manchester City, ma anche i politici. Quando c'è un problema, un ostacolo, la loro reazione può essere riassunta in una frase: "Compralo". Il risultato è che la classe politica europea ha spesso difficoltà a resistere a queste sirene». E se noi vediamo i miliardari in turbante ancora come «beduini ignoranti», loro ci percepiscono come gente che si vende facilmente «per un libretto degli assegni o un Rolex». O soldi in contanti in una valigia. Lo scandalo che ha coinvolto il patron del Psg, Nasser al-Khelaïfi, ne è un esempio. Che seguono quelli sulle mazzette alla Fifa o il finanziamento a moschee estremiste.

È dal fronte culturale che forse arrivano le minacce più insidiose. Come ancora Malbrunot ha documentato in un altro saggio, Qatar Papers, Doha è anche la principale finanziatrice di imam vicini alla Fratellanza musulmana, che diffondono una visione integralista dell'islam nelle diaspore dei Paesi arabi in Europa. L'altro volto scuro dell'Emirato. L'alleanza con i Fratelli musulmani è suggellata dall'accoglienza al loro leader Yusuf al-Qaradawi, condannato a morte in Egitto, e rifugiato a Doha fin dal 1977, dove fonda la facoltà di Studi islamici all'Università e diventa dagli anni Novanta in poi uno dei volti di Al-Jazeera in arabo. L'Emirato ha protetto il controverso imam jihadista fino alla sua morte, il 26 settembre scorso. «La soluzione è il Corano», era il suo motto. Soprattutto se oliato di petrodollari, si potrebbe aggiungere.

Giulia Zonca per “la Stampa” il 28 novembre 2022.

Una finta Rimini sul lungomare di Lusail, vicino allo stadio che ospiterà la finale, la Venezia di plastica nel mall davanti al Khalifa Stadium, la copia di Manhattan costruita ovviamente in verticale nella West Bay, come la replica di Hyde Park in faccia all'università. Il trasferello dell'Occidente in mezzo al Qatar dichiara un'ambizione: somigliare al mondo quotidianamente accusato di spocchia. Questo Mondiale è un gioco di specchi deformanti, dove ognuno deve fare il conto con il proprio riflesso. 

La prima Coppa del mondo organizzata da un Paese arabo porta a un inevitabile confronto tra il calcio declinato a Ovest e quello vissuto dal Medio Oriente. Il campo doveva essere terreno di incontro solo che al momento sta esasperando le differenze e non è dato sapere se il 18 dicembre, giorno della chiusura, si arriverà all'intesa.

Ore 18, la sfida tra Belgio e Marocco è appena finita, 0-2, l'ennesima sorpresa di un torneo che non ne vuole sapere di rispettare il copione e una sfilata di costumi da leone con le bandiere della Palestina. È la causa araba, istanza che l'Europa e il Nord America maneggiano con cura e che qui sbandierano, la portano al braccio. 

È successo dopo la vittoria dell'Arabia Saudita contro l'Argentina e ricapita nella festa del Marocco, con tifosi che alzano i disegni della kefiah. Pure se non c'è nessuna diretta relazione, qui oppongono la questione territori occupati alle campagne inclusive, agli arcobaleni. Non c'è parentela o contrasto, ma è andata così e se chiedi perché non esistono spiegazioni: «Non esiste solo quello che interessa a voi». Vero, solo che si confondono piani molto distanti tra loro.

Gli arabi si sentono giudicati, ma questo non giustifica la limitazione dei diritti dovuti. Gli Europei si sentono nel giusto, ma questo contrasta la brutta abitudine, per esempio, di un certo seguito inglese ancora vestito da crociato, così come una latente superiorità colonialista che purtroppo, a sprazzi, resta in circolo. 

Doha si nutre di contraddizioni. I sostenitori del Marocco, allargati a tutti gli arabi arrivati qui, ballano davanti all'M7, il centro culturale che ospita una mostra tributo a Valentino e squarci di Roma e moda italiana che racconta proprio il gusto desiderato e l'atteggiamento condannato. Tutto insieme.

Ci sono i track food, come al Borough market di Londra e certi hanno pure quel logo sopra, il fake del cibo di strada. Fa sorridere, perché quel mercato è nato come luogo meticcio prima di essere tendenza e qui potrebbe essere lo stesso, con una popolazione al 90 per cento di immigrati, invece al momento si vede solamente la cartolina, la riproduzione. Altrove, il modello inizia a lasciarsi contaminare dalla vita locale.

Oxygen Park, dentro Education City, distretto giovane della città. È appena finita Belgio-Marocco, c'è Croazia-Canada dentro la cornice di un parco londinese. Le sdraio sul prato davanti al maxischermo, gli angoli per comprare il caffè e il pop corn, ma non c'è birra e non può essere Gran Bretagna. È un altro modo di vivere il pallone, più tiepido verrebbe da dire, almeno per chi è abituato alla passione da cui adoriamo farci devastare quando una squadra si impossessa di noi. Eppure, dopo dieci minuti, è impossibile non accorgersi dell'autenticità del posto. È diverso dall'Europa, molto, ma non è finto solo perché nessuno urla e ondeggia.

Ci sono le famiglie, tante, donne, tutte velate, che giocano a pallone con i ragazzini, plaid da picnic apparecchiati anche mentre quelli sul mega video segnano. Non sono indifferenti, sono distanti, però vogliono stare lì. Ritrovarsi sotto le luci a mongolfiera. Stare al sicuro, con i bambini piccoli e le biciclette, Aisha con un palla sotto braccio e un pupo nel passeggino, chiarisce: «Non verrei qui se sapessi di poterci trovare degli ubriachi e sarebbe un peccato perdermi queste serate».

Non si sentirebbe a proprio agio se l'atmosfera fosse quella del vero Hide Park durante gli ultimi Europei. Stavolta sì, è un'altra cultura ed è probabile che sia eccessivo etichettare come proibizionismo il desiderio di stare in un luogo pieno di gente dove le persone sono sobrie. È una possibilità, un modo di vederla e di viverla. In bilico tra imitazione e contrapposizione basterebbe non lasciare spazio alla limitazione della libertà.

Doha non è l'America degli Anni Venti, non c'è bisogno di contrabbando per trovare dell'alcol, però non è neanche un posto dove l'uguaglianza oggi è un valore. L'Europa piace quando si può mangiare allo stesso modo e diventa il nemico se difende dei principi. In mezzo a incroci quasi impossibili si gioca, ogni giorno, con la strip di Las Vegas trapiantata sulla Corniche. Prima o poi ci si incontra. Difficile che capiti durante questo Mondiale.

Qatar: come un microstato di sabbia è diventato potenza. Enrico Phelipon su L'Indipendente il 24 Novembre 2022.

I mondiali di calcio portano per la prima volta il Qatar al centro dell’attenzione mediatica mondiale, una vetrina che fino ad oggi lo stesso emirato ha sempre dato idea di voler evitare. Come se il contestatissimo evento arrivasse a segnare un punto di svolta nella storia di questo Paese grande circa come l’Abruzzo, edificato sulla sabbia e con un clima semi-invivibile, divenuto una piccola potenza economica – e quindi politica – con un Pil procapite doppio a quello dei più ricchi stati occidentali. Una lunga storia quella del Qatar, a tratti avvincente, che si basa sulla fortuna del petrolio, certo, ma non solo.

Cosa sappiamo del Qatar?

Il Paese è stato governato dal 1869 ad oggi come una monarchia ereditaria dalla famiglia al-Thani. L’attuale emiro, in carica dal 2013, è Tamim bin Hamad Al Thani, il quale detiene un’ampia serie di poteri che lo rendono di fatto quasi un monarca assoluto. All’emiro la Costituzione riconosce poteri sia esecutivi che legislativi, oltre al controllo sulla magistratura. Ad al-Thani spetta inoltre il compito di nominare il primo ministro e il gabinetto di governo, mentre l’altro organo legislativo del Paese, l’Assemblea consultiva, eletta per la prima volta nel 2021 dispone di poteri limitati che le permettono solamente di bloccare alcune leggi e di revocare i ministri. Nell’ottobre del 2021 si sono infatti tenute in Qatar le prime storiche elezioni, inizialmente previste per il 2013, le quali hanno permesso ai cittadini di eleggere 30 dei 45 membri dell’assemblea – i rimanenti 15 membri sono nominati dall’emiro. I candidati che si sono presentati alle elezioni hanno potuto concorrere, previa approvazione, esclusivamente da indipendenti, dal momento che non esistono partiti politici nel Paese. Nessuna donna è stata eletta e secondo la ONG Human Rights Watch a molti cittadini è stato comunque negato il diritto di voto, nonostante sulla carta in Qatar esista il suffragio universale.

Cenni storici

Lo scoppio della prima guerra mondiale e il declino dell’Impero Ottomano hanno spinto il Qatar sotto la sfera d’influenza della corona inglese. Nel 1916 l’allora sceicco Abdullah bin Jassim Al Thani siglò un trattato con il governo inglese che incluse il Qatar nel Trucial System of Administration, sistema studiato dall’allora governo britannico che garantiva protezione in cambio di influenza alle confederazioni tribali nell’Arabia sudorientale. Con la firma del trattato lo sceicco Abdullah si impegnava a non entrare in relazioni diplomatiche con nessuna altra potenza mondiale, se non con il previo consenso del governo britannico, in cambio di protezione militare nell’eventualità di un’invasione. Questi trattati con le confederazioni tribali della penisola arabica hanno garantito alle imprese del Regno Unito vantaggiosi contratti per lo sfruttamento del petrolio nella regione. I primi pozzi di petrolio vennero scoperti in Qatar nel 1939 e, a seguito della seconda guerra mondiale, i legami con la potenza coloniale vennero incentrati sul commercio del greggio. Il petrolio divenne quindi la prima fonte di ricchezza del Qatar, andando a soppiantare il commercio delle perle che prima di allora costituiva il principale ingresso economico. L’enorme flusso di denaro generato dal settore energetico ha permesso al Qatar di avviare un processo di ammodernamento del Paese, oltre a garantire enormi ricchezze personali alla famiglia al-Thani. Nel 1968, con il processo di decolonizzazione in atto a livello mondiale, il governo britannico – che aveva perso le colonie in India e Pakistan – annunciò l’intenzione di abbandonare anche il golfo Persico entro tre anni. Nel 1971 si dichiarano quindi indipendenti i Paesi facenti parte del Trucial System of Administration, Qatar, Bahrain e l’insieme di sceicchi che hanno poi formato gli Emirati Arabi Uniti. L’indipendenza del Qatar garantì comunque alle compagnie petrolifere inglesi e occidentali di continuare a fare affari nel regno. La guerra del Golfo del 1991 lanciò il Qatar sullo scenario internazionale consolidandolo nella sfera d’influenza occidentale. Il piccolo esercito del regno prese parte alla battaglia di Khafij, quando con i suoi carri armati fornì supporto alle truppe saudite nel respingere l’invasione irachena che arrivava dal Kuwait. Inoltre il Qatar consentì alle truppe della coalizione canadese di utilizzare il Paese come base aerea, garantendo anche l’utilizzo dello spazio areo per le operazioni militari a Stati Uniti e Francia. Nel 1995 l’emiro Hamad bin Khalifa Al Thani prese il controllo del Paese soppiantando il padre grazie al sostegno delle forze armate. Sotto Hamad, il Qatar ha conosciuto un moderato grado di liberalizzazione: vennero infatti approvati il suffragio femminile, la stesura della prima Costituzione scritta e venne lanciata anche la nota stazione televisiva Al Jazeera. Nel 2010 Hamad al-Thani riuscì ad ottenere per il Qatar anche i diritti per ospitare la Coppa del Mondo FIFA del 2022, diventando così il primo Paese del Medio Oriente ad essere selezionato per ospitare il torneo. Nel 2013, lo sceicco Hamad cedette il potere al figlio Tamin, che da allora governa il Paese.

Politica estera 

Negli anni il Qatar, grazie alle ricchezze derivate dalle risorse naturali, ha potuto assumere un ruolo di maggior rilievo a livello internazionale. Il Paese è stato fondamentale durante l’invasione dell’Iraq da parte di Stati Uniti e alleati nel 2003, tanto da divenire la sede del Comando Centrale dell’esercito Americano. Nel 2011 prese parte all’operazione militare della NATO in Libia. Operazione che porto alla cattura e all’uccisione di Gheddafi, gettando il Paese del nord Africa in uno stato di semi-anarchia che dura ancora oggi. La monarchia del Qatar è inoltre uno dei principali finanziatori delle forze di opposizione che hanno combattuto durante la guerra civile in Siria il governo di Bashar al-Assad. Anche in Yemen il Qatar ha partecipato in modo attivo, supportando le operazioni militari saudite contro il movimento ribelle degli Houthi, che durante le proteste di piazza note come "primavera araba" portò alla cacciata del presidente Ali Abdullah Saleh.

L’attivismo a livello internazionale del Qatar, e in particolare il suo ruolo durante le rivolte che colpirono il Bahrein nel 2011, ha portato ad un deterioramento delle relazioni con gli altri attori regionali. Nel 2017, adducendo il supporto del Qatar a gruppi estremisti, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e in seguito la Giordania, interruppero le relazioni diplomatiche ed imposero un blocco economico che includeva la chiusura del confine e dello spazio aereo. Il Qatar ha sempre negato di aver fornito supporto ad organizzazioni estremiste  come al-Qaeda, dato che il Paese era stato alleato degli Stati Uniti nella "guerra al terrorismo", riconoscendo tuttavia il supporto alla Fratellanza Musulmana, gruppo di stampo islamista nato in Egitto a fine anni ’20 il quale, a seguito della caduta di Mubarak nel 2011, era riuscito a far eleggere in Egitto un suo alleato Mohamed Morsi. La presidenza di Morsi venne poi interrotta bruscamente dal colpo di Stato militare capeggiato da Abdel Fattah al-Sisi, che ancora oggi governa l’Egitto. Nel gennaio del 2021, grazie alla mediazione di Stati Uniti e Kuwait, l’Arabia Saudita e il Qatar siglarono un accordo per la riconciliazione e il ripristino di normali relazioni diplomatiche. Il "boicottaggio" da parte delle monarchie del Golfo ha di fatto rafforzato il Qatar, che è stato in grado di crescere sia economicamente che militarmente grazie anche all’incremento delle relazioni con Iran e Turchia.

Leggi e cittadinanza

Il Qatar ha una popolazione di circa 2,9 milioni di persone: di queste, tuttavia, solo poco più di 380.000 sono cittadini, mentre i restanti sono immigrati. Il reddito pro capite annuo in Qatar al 2021 era di 61,276 dollari (dati della Banca Mondiale), rendendo di fatto la monarchia uno degli stati più ricchi al mondo. Le enormi entrate derivate dal petrolio hanno permesso allo Stato nel tempo di costruire un ampio sistema di sicurezze sociali per i cittadini qatarioti: scuola, sanità e abitazione sono infatti pubbliche e garantite. Un sistema sociale che potremmo definire come di benessere in cambio delle libertà politiche e civili. In Qatar non esistono infatti partiti politici né organizzazioni sindacali e la legislazione si basa principalmente sulla legge islamica, la Sharia. Punizioni corporali come frustate e lapidazione sono pene previste dalla legge, anche se sempre meno applicate, mentre omosessualità e apostasia sono considerati crimini punibili con la pena di morte. Il consumo di alcool è illegale, anche se le autorità hanno annunciato che la vendita sarà eccezionalmente permessa nelle aree per i tifosi in occasione delle partite del mondiale. Mentre le punizioni previste dalla legge vengono applicate a tutti senza distinzione di sesso o religione, lo stesso non si può dure dei benefici derivanti dalla cittadinanza, da cui milioni di immigrati sono totalmente esclusi. In Qatar esiste infatti nei fatti una forma di moderna schiavitù di migliaia di immigrati provenienti da India, Pakistan e Bangladesh. In generale, ai migranti provenienti dai Paesi poveri vengono riservati i lavori più umili e pericolosi, senza il rispetto delle più basilari norme di sicurezza. Stando ad un articolo pubblicato nel febbraio 2021 della testata inglese The Guardian, sarebbero oltre 6.500 gli immigrati morti da quanto il Qatar ha ottenuto i diritti per i mondiali di calcio. Inoltre sono stati riportati anche numerosi casi in cui ai lavoratori non sono stati pagati i salari, o sono stati sequestrati i documenti di modo che diventasse per loro impossibile lasciare il Paese.

Economia

L’economia del Qatar è basata principalmente sullo sfruttamento delle ricchezze naturali di cui il Paese dispone: gas e petrolio. I due combustibili fossili rappresentano oltre il 70% delle entrate totali del governo, il 60% del prodotto interno lordo e circa l’85% dei proventi delle esportazioni. Nonostante le dimensioni ridotte – la superficie del Paese equivale a circa la metà dell’Emilia Romagna – il Qatar detiene le terze risorse al mondo di gas naturale per dimensioni dopo Russia e Iran, ed è il secondo esportatore a livello mondiale. Il giacimento di North Field è infatti il più grande singolo giacimento al mondo per dmensioni. Oltre alla produzione di gas, può contare anche su importanti risorse petrolifere, stimate a 25 miliardi di barili. La produzione giornaliera è di circa 1,3 milioni di barili: di questi, circa 1 milione sono destinati all’esportazione. Secondo gli studi, mentendo costanti gli attuali livelli di produzione, il Qatar potrà continuare a sfruttare le proprie riserve di gas per altri 300 anni, per 80 le riserve di greggio. Il governo del Paese per diversificare l’economia sta inoltre puntando molto sullo sviluppo del settore finanziario e bancario.

Al Jazeera, media autorevole o strumento del regime? 

Il caso di al Jazeera è più unico che raro a livello globale: un media di regime, di proprietà della famiglia reale e finanziato con soldi pubblici, ma che allo stesso tempo è stato in grado, negli oltre 20 anni di attività, di guadagnarsi autorevolezza grazie ad un giornalismo di qualità. Ed in effetti l’emittente è un formidabile strumento di politica estera nelle mani del Qatar. Grazie alla sua portata – è la prima emittente in lingua araba a livello mondiale – al Jazeera permette al regno di spingere la sua narrazione quando si trattano particolari avvenimenti. Come nel caso delle rivolte della primavera araba, in cui il Qatar ha potuto incentrare l’attenzione a livello internazionale su ciò che stava accadendo in Paesi nemici. Non a caso durante gli anni del boicottaggio del Paese da parte delle vicine monarchie del Golfo, uno dei principali punti di tensione era proprio relativo al ruolo di al Jazeera. Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono stati tra i Paesi più critici del media qatariota, tanto da chiederne in diverse occasioni la chiusura. Almeno formalmente, l’emittente ha un certo grado di indipendenza dal governo, anche se numerosi critici hanno fatto notare come molto spesso le posizioni assunte dall’emittente siano coincise con quelle del governo del Qatar. In realtà, in qualche rara occasione, al Jazeera ha anche pubblicato contenuti critici sull’operato del governo. Secondo comunicazioni interne del Dipartimento di Stato americano, pubblicate da WikiLeaks, la linea editoriale del giornale sarebbe stata decisa in accordo con gli interessi politici del Qatar. Quella di al Jazeera resta indubbiamente un’informazione di qualità su molti argomenti, anche se solo parzialmente libera. [di Enrico Phelipon]

Qatar, una ex principessa trovata morta in Spagna. Francesca Caferri su La Repubblica l'1 giugno 2022.  

Kasia Galliano era la moglie separata dello sceicco Abdelaziz bin Khalifa, zio dell'attuale emiro. Fra i due era in corso un duro scontro sulla custodia delle figlie.

Se sia un giallo o meno lo chiarirà l'autopsia. Di certo è una storia drammatica fatta di soldi, amori finiti male, giudici e guerre familiari, quella che si è conclusa domenica a Marbella con il ritrovamento del cadavere di Kasia Galliano nella sua casa della località balneare spagnola.

La donna, che aveva 45 anni, era la moglie separata di Abdelaziz bin Khalifa al Thani, zio dell'attuale emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al Thani. 

Da ilmessaggero.it il 31 maggio 2022.

Giallo in Spagna: è stata trovata morta nella sua abitazione di Marbella Kasia Galliano, ex principessa del Qatar: lo riporta l'agenzia di stampa Efe, confermando anticipazioni del giornale francese Le Parisien. Secondo quanto reso noto, la donna, 46enne ex moglie di Abdelaziz bin Khalifa Al-Thani, zio dell'emiro qatariota è stata trovata senza vita domenica scorsa.

In attesa dell'autopsia, una delle ipotesi sulle cause del decesso è il consumo di qualche sostanza nociva.

In seguito alla separazione dal marito, Gallanio, di doppia nazionalità polacca e statunitense, aveva intrapreso una lunga battaglia legale riguardante la custodia delle tre figlie minorenni: le denunce della donna sono state archiviate da un tribunale parigino alcuni giorni fa, secondo la Efe.

Kasia Galliano, trovata morta l'ex principessa del Qatar: droga, l'ipotesi sconvolge il mondo. Francesco Fredella su Libero Quotidiano l'1 giugno 2022

Giallo. Kasia Gallanio, l’ex principessa del Qatar, è stata trovata morta in casa. Adesso si aprono varie piste, ma prima i fatti: la donna si trovava nella sua abitazione di Marbella, in Spagna. A lanciare l’allarme è stata una delle figlie che vive a Parigi. C'è un'ipotesi: overdose di farmaci, ma è tutta da chiarire. Kasia Gallanio aveva 46 anni ed era un'ex principessa del Qatar. Secondo fonti di polizia sarebbe stata aperta un’indagine per capire quali possano essere le cause del decesso, infatti è stata disposta l’autopsia.

La scoperta risale a domenica, scorsa, tutto è partito dopo la segnalazione di una delle sue figlie (minorenne) che si trova in Francia, a Parigi. La ragazza da quattro giorni non riusciva a parlare con la donna, il cui corpo senza vita non presentava segni di violenza. Kasia era sposata con Abdelaziz Khalifa Al-Thani (73 anni), si tratta dello zio dell’emiro Tamim bin Hamad Al-Thani, che ha incontrato nel 2004 a Parigi.

Dal loro amore sono nate tre figlie, ma il matrimonio è finito da tempo dopo una durata di dieci anni. Poi c'è stata una dura battaglia legale per l’affidamento delle figlie. Sulle cause della morte circolano molte voci, ma poche conferme. Dalle prime indiscrezioni, che trapelano dagli inquirenti, la morte potrebbe essere stata causata da un’overdose di farmaci. Infatti, si dice che Kasia in passato aveva sofferto di depressione nel periodo della battaglia legate dopo le difficoltà giudiziarie.

Francesca Caferri per "la Repubblica" il 2 giugno 2022.

Se sia un giallo o meno lo chiarirà l'autopsia. Di certo è una storia drammatica fatta di soldi, amori finiti male, giudici e guerre familiari, quella che si è conclusa domenica a Marbella con il ritrovamento del cadavere di Kasia Gallanio nella sua casa della località balneare spagnola. 

La donna, che aveva 45 anni, era la moglie separata di Abdelaziz bin Khalifa al Thani, zio dell'attuale emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al Thani. E dunque, ufficialmente, una ex principessa dell'emirato. Secondo il giornale francese Le Parisien che per primo ha dato la notizia, il corpo non aveva segni di violenza e la polizia si starebbe orientando su una dose eccessiva di medicinali o di tranquillanti come causa della morte.

Gallanio, che aveva una doppia nazionalità, polacca e americana, era da anni separata dal ricchissimo marito: grazie ai giacimenti di gas, il Qatar è uno dei Paesi più ricchi del mondo. Lo sceicco Khalifa vive in esilio dal 1992 dopo essere stato accusato di aver tentato un colpo di Stato contro il fratello, l'allora emiro Hamad, ma come il resto dei reali ha proprietà e ricchezze in tutto il mondo. 

In questo mondo dorato aveva vissuto a lungo Gallanio: le foto pubblicate dai magazine britannici e francesi la mostrano protagonista di feste ed eventi mondani in abiti occidentali o in stile arabo, ma ugualmente lussuosi.

Nel 2012 la coppia si era separata e la ex consorte aveva iniziato una durissima battaglia legale contro il marito per la custodia delle tre figlie minorenni. A maggio il tribunale francese le aveva negato la custodia e aveva anzi ordinato una perizia psicologica sulla donna. Le Parisien scrive che soffriva di crisi di nervi e che si era a più riprese sottoposta a cure per disintossicarsi dai farmaci. 

«La mia cliente è stata devastata da questa decisione. Credo che sia morta di dolore», ha detto al giornale di Parigi Sabrina Boesch, l'avvocatessa che seguiva la causa di affidamento. La legale è in Spagna con le due figlie maggiori della coppia: alle ragazze, che hanno 17 anni, secondo El País è stato chiesto lunedì di identificare il corpo della madre.

Quello che è emerso in questi giorni è comunque una situazione di fortissima tensione che andava avanti da mesi. Lo scontro fra Gallanio e l'emiro infatti non si era chiuso con la decisione dei giudici sull'affidamento: ad aprile la figlia minore della coppia aveva accusato di violenza sessuale il padre, sostenendo che l'avesse toccata in maniera impropria quando aveva fra i nove e i quindici anni.

A Parigi, dove vivevano sia Gallanio che le figlie, residenti insieme al padre in una lussuosa dimora sugli Champs Elysées, è stata aperta un'inchiesta da parte della Procura dei minori. Proprio dalla figlia minore è partito l'allarme che ha portato alla scoperta del cadavere della ex principessa: ha allertato la polizia di Marbella che da giorni non riusciva a contattare la madre e così è scattato il blitz.

·        Quei razzisti come gli iraniani.

L’«uomo più sporco del mondo» è morto a 94 anni (dopo essere tornato a lavarsi). Carlotta Lombardo su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

L’eremita iraniano Amou Haji si era convinto, grazie agli abitanti del villaggio, a fare una doccia dopo 30 anni. Mangiava carne di manzo, fumava una pipa piena di escrementi di animali e più sigarette contemporaneamente

Per più di mezzo secolo non si era fatto nemmeno una doccia rifiutandosi di lavarsi con acqua e sapone e guadagnandosi così il soprannome di «uomo più sporco del mondo». Amou Haji, un eremita iraniano che credeva che la pulizia lo avrebbe fatto ammalare, era però riuscito ad arrivare alla veneranda età di 94 anni quando è morto, questa volta «lavato e pulito», dopo che gli abitanti del villaggio di Dejgah, nella provincia meridionale di Fars, lo avevano convinto a lavarsi per la prima volta. Il Guardian, che riporta la notizia, racconta di un uomo coperto di fuliggine che viveva in una baracca di cemento. Che mangiava carne di manzo, fumava una pipa piena di escrementi di animali e sigarette, più din una contemporaneamente, come mostra una foto pubblicata nel 2014 dal Tehran Times.

Dopo la morte di Haji, il record non ufficiale di «uomo più sporco del mondo» potrebbe andare a un uomo indiano che non aveva fatto il bagno per gran parte della sua vita. Nel 2009 l’Hindustan Times ha riferito che Kailash «Kalau» Singh, di un villaggio fuori dalla città santa di Varanasi, non si lavava da più di 30 anni nel tentativo di aiutare a porre fine a «tutti i problemi che la nazione deve affrontare». Un uomo che rifiutava l’acqua a favore di un «bagno di fuoco». «Ogni sera, quando gli abitanti del villaggio si radunano, Kalau … accende un falò, fuma marijuana e si alza su una gamba pregando Lord Shiva», scrive il giornale. «È proprio come usare l’acqua per fare il bagno — avrebbe infatti detto Singh —. Il bagno di fuoco aiuta a uccidere tutti i germi e le infezioni nel corpo».

Iran, conversioni-sfregio contro Maometto: qualcosa di impensabile. Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano il 19 ottobre 2022

«La più grande impresa degli ayatollah sarà quella di restituire la Persia a Zoroastro. Ci sono conversioni occulte anche al Cristianesimo». L'apparente provocazione viene via Social da Germano Dottori; consigliere scientifico di Limes, già docente di Studi Strategici presso la Luiss-Guido Carli, e noto commentatore tv. Ma Dottori spiega che si tratta di mera constatazione. La protesta sempre più dura contro il regime della Repubblica Islamica sta infatti mostrando in modo sempre più insistito un tipo di simbologia che fa riferimento all'identità persiana, più antica, risalente all'epoca pre-islamica. In particolare, nelle manifestazioni vengono spesso accesi fuochi. Servono a bruciare gli hijiab, ma sono anche l'antico simbolo del dio del bene Ahura Mazda, venerato appunto nei templi del fuoco: un collegamento fatto espressamente nei Social, in cui si invoca anche la liberazione della Persia dopo oltre un millennio e mezzo di occupazione e oppressione islamica.

RELIGIONE MILLENARIA

Già religione ufficiale dell'impero persiano, dopo la conquista araba lo zoroastrismo fu ridotto col tempo ai minimi termini. Nel 2012 il numero totale di zoroastriani nel mondo fu stimato tra i 111.691 e 121.962, il primo Paese di presenza degli zoroastriani non è neanche l'Iran ma l'India, dove la comunità dei Parsi è discendente di rifugiati che scapparono per non sottomettersi all'islam. Sono solo 69.000, ma rappresentano una élite estremamente importante, sa da punto di vista economico che culturale. In Iran secondo l'ultimo censimento erano, nel 2011, 25.271. Sono riconosciuti come minoranza tollerata e hanno diritto a uno dei cinque seggi riservati alle minoranze religiose in parlamento, ma è severamente vietato loro fare proselitismo. C'è poi una diaspora zoroastriana che conta ad esempio su 14.405 negli Stati Uniti, 6442 in Canada, 5500 nel Regno Unito o 2577 in Australia, che viene in gran parte da immigrati da India e Iran. Ma ad esempio 15.000 zoroastriani nel Kurdistan Iracheno, 7000 in Uzbekistan, 2700 in Tagikistan e 2000 in Azerbaigian sono invece soprattutto gente di stirpe iranica che a un certo punto ha deciso che lo zoroastrismo era vicino alle loro radici più dell'islam, e si sono convertiti negli ultimi anni. Nel Kurdistan Iracheno, in particolare, è stata una reazione alla violenza dell'Isis, e alcuni fonti affermano che gli zoroastriani vi avrebbero ormai addirittura oltrepassato la cifra di 100.000. Sicuramente 3000 curdi si sono convertiti allo zoroastrismo in Svezia. Anche in Iran c'è un movimento del genere proprio in reazione all'oppressione clericale degli ayatollah, ma finora si era tenuto nascosto, appunto perché abiurare l'islam in Iran è punito dalla legge. «Ci sono molte conversioni più o meno occulte» conferma Dottori, che aggiunge: «avendo parecchi contatti nella diaspora iraniana e anche qualcuno nella loro madrepatria ho contezza di questi fenomeni».

LAICITÀ DELLO STATO

«Zarathustra, come Gesù, è compatibile con una visione laica dello Stato. E non è che uno degli importanti contatti che ci sono tra zoroastrismo e cristianesimo». «I persiani ritengono l'islam una religione straniera, araba. Ovvero giunta da un popolo nei confronti del quale nutrono un forte complesso di superiorità culturale», conferma Dottori. Ma Dottori ricorda che anche il cristianesimo per gli iraniani che non ne possono più degli ayatollah «ha molte attrattive». «Le iraniane che migrano in Occidente spesso lo abbracciano, perché è una religione che attraverso la monogamia afferma un principio di eguaglianza tra uomini e donne». Lo storico Danel Pipes nel 2021 su Newsweek ricordò varie testimonianze sulla crescita di questo cristianesimo catacombale, che prega senza clero e edifici ecclesiastici, ma con discepoli efficienti e una rete di piccole chiese domestiche di quattro o cinque membri ciascuna. La sua leadership laica, in netto contrasto con i mullah che governano l'Iran, è costituita principalmente da donne. Data la natura clandestina di questo movimento, le stime sulle sue dimensioni sono inevitabilmente vaghe. Ma, ricorda sempre Pipes, «nel 2013, la ong Open Doors rilevò la presenza di 370.000 cristiani ex musulmani e 720.000 nel 2020; Duane Alexander Miller si avvicina a 500 mila, Hormoz Shariat parla almeno di 1 milione di Mbb e la fondazione Gamaan anche di più». Ciò anche se nel 2008 il governo ha presentato una legge per imporre la pena di morte a chiunque nato da genitori musulmani si converta a un'altra fede religiosa. «Adesso è in atto una lotta nuova», spiega Dottori. «Non si discute più di riforme, ormai è in contestazione la legittimità dell'islam politico. Se viene sconfitto in Iran, si chiude la breccia aperta nel 1979-80».

Francesca Paci per “La Stampa” il 29 novembre 2022.

Mahak Hashemi aveva sedici anni e viveva a Shiraz insieme al padre e alle due sorelline che seguiva passo passo dalla scomparsa della mamma, morta di cancro qualche anno fa. Il 24 novembre, giovedì scorso, è uscita di casa indossando il berretto da baseball al posto dell'hijab, come faceva ormai da settimane per affiancare la rivoluzione iniziata a metà settembre nel nome di Masha Amini: e non è più tornata. L'hanno cercata per due giorni, invano. 

Fino alla chiamata dell'ospedale che chiedeva agli Hashemi di recarsi in obitorio per identificare due cadaveri senza nome: uno era il suo. Sebbene la polizia parli d'incidente, la tensione per questa ennesima giovanissima vittima della teocrazia iraniana è al livello di guardia, tanto che, come già accaduto per altri attivisti massacrati di botte dal Kurdistan iraniano alla capitale Teheran, le autorità hanno proibito il funerale a Shiraz, la città del bacio ribelle tra le auto incolonnate, imponendo alla famiglia il silenzio stampa e la sepoltura del corpo spezzato dalle bastonate a Kangan.

«Non dimentichiamo, ti vendicheremo» scrivono oggi gli amici della rete Free Fire, il gioco di sopravvivenza di cui Mahak era un'appassionata. Del suo volto, tumefatto dai colpi, resta l'immagine simbolo, un seme, come il coetaneo Arshia Emamgholi Zadeh, suicidatosi un paio di giorni fa dopo essere stato in cella due settimane per aver strappato il turbante di un mullah a Jolfa, nella provincia dell'Azerbaigian Orientale. 

Come Mohammad Hossein Kamandloo, 17 anni, freddato sabato a Teheran dai basij che, premiati come i pasdaran per la loro efficienza sanguinaria, stanno volando a turno in Qatar, ospiti degli sceicchi nello stadio dei mondiali più controversi (è ormai noto che Doha ha fornito a Teheran la lista "completa" di tutti gli iraniani in procinto di entrare nel paese per le partite e ne ha respinti parecchi).

Sono passati due mesi e mezzo da quando, scioccati dall'assassinio di Masha Amini, le iraniane e gli iraniani sono scesi in strada, le prime mettendosi spontaneamente alla testa di una protesta cresciuta ora dopo ora fino a lambire le regioni più remote della Repubblica Islamica, e gli altri dietro. All'inizio è stato lo slogan apotropaico, "donna, vita, libertà". 

Poi, via via che alle coraggiose figlie più giovani si affiancavano le sorelle maggiori, le madri, i fratelli, i padri, le docenti e i docenti carichi di una cultura troppo a lungo repressa, il rifiuto dell'hijab come simbolo del potere misogino si è trasformato in rifiuto del regime stesso, "morte alla dittatura", "morte agli ayatollah". E la rivolta è diventata rivoluzione.

Sono passati due mesi e mezzo e, secondo i calcoli delle Nazioni Unite, le vittime hanno raggiunto quota 416 (300 a detta del regime), di cui oltre 50 minori. Almeno 14 mila persone sono state arrestate e centinaia condannate alla pena capitale con l'accusa di "aver dichiarato guerra a Dio" (250 nella sola città di Zanjan).

 Minacce concrete. Il boia è già entrato in azione cinque volte a Teheran mentre a Zahedan è stato appena giustiziato Mohammad Eisa Zehi e l'attivista baluco 23enne Majidreza Rahnavard è in attesa dell'esecuzione. Tutti gli occhi sono ora su Toomaj Salehi, il rapper trentunenne in carcere da ottobre su cui grava la pena di morte per il reato di "corruzione" e "incitamento alla violenza".

La Repubblica Islamica vacilla. La distruzione della casa natale dell'ayatollah Khomeini a Khomeyn, le università occupate nella capitale come a Mashhad, Esfahan, Mahabad in Kurdistan, in Baluchistan, gli scioperi a catena dei settori produttivi del Paese e le serrate dei tradizionalmente governativi bazar, i tentativi di marcia sul quartiere dove risiede la guida suprema Khamenei, la cui nipote Farideh Mooradkhani si è schierata con i ribelli paragonando lo zio a Hitler e Mussolini, scuotono le fondamenta del regime come mai erano riuscite né l'Onda verde del 2009 né le proteste per il carovita del 2018.

Le incertezze sul futuro della piazza, che al netto di una resilienza inaspettata soffre della mancanza di una leadership interna, non riducono la spinta popolare. «Trascorrere tutta la propria esistenza in dittatura lascia all'uomo pochissime opzioni, la morte, la schiavitù volontaria o il coraggio di non abbassare la testa» racconta un attivista cinquantenne al telefono da Busher. 

Dice che quelli come lui, sia pur senza successo, si sono battuti, ma che il coraggio mostrato dalle ragazzine del 2022 riscatta il popolo tutto dall'oblio. E manda la foto postata su Instagram dalla celebre attrice Ghazaleh Jazayeri.

Senza velo, senza veli. È la partita della vita. Mentre i social moltiplicano la notizia dell'ennesimo sciopero dei camionisti a Hamedan, il portavoce del ministero degli esteri Nasser Kanani replica al biasimo delle Nazioni Unite tacciandole di «utilizzo strumentale dei diritti umani». Ogni post rilancia in sovrimpressione il volto bello di Mahak Hashemi, un seme dopo l'altro. Fin quando il deserto sarà vinto.

Cosa non torna nella storia di Mahak Hashemi. Il Domani il 29 novembre 2022

La storia della ragazza 16enne uccisa durante le proteste in Iran è diventata virale anche in Italia, ma i media internazionali e le principali ong non ne parlano, mentre account social che dicono di essere legati alla famiglia dicono che è morta in un incidente

Negli ultimi giorni sta avendo grande risalto la morte di Mahak Hashemi, una ragazza di 16 anni morta in Iran la scorsa settimana. Secondo diversi media e account social, Hashemi sarebbe stata uccisa a colpi di manganello dalle forze di sicurezza del regime nel corso delle proteste in corso da mesi nel paese.

Della vicenda si sta parlando molto anche in Italia. Secondo un articolo pubblicato sulla prima pagina della Stampa di oggi, Hashemi sarebbe stata uccisa dopo essere uscita di casa indossando un cappello da baseball, un gesto che compiva da giorni in solidarietà con le proteste.

La polizia iraniana, però, sostiene che Hashemi sia morta in un incidente e ha pubblicato alcune fotografie dell’auto ribaltata a bordo della quale si sarebbe trovata la ragazza. Lo stesso affermano alcuni account social che sostengono di appartenere a membri della sua famiglia. I grandi media internazionali, per ora, trattano la vicenda con prudenza e alcuni hanno anche cancellato i riferimenti pubblicati alla storia nei giorni scorsi.

LA VICENDA

La notizia della morte di Hashemi sembra che sia stata pubblicata per la prima volta il 27 novembre dall’account twitter Iran human rights society (non affiliato alle più note Ong Ihr e Hrana). La storia ha immediatamente iniziato a circolare moltissimo. Il calciatore iraniano Ali Karimi ha condiviso la storia sul suo profilo Instagram (finendo criticato dall’agenzia delle Guardie rivoluzionarie del regime) e migliaia di utenti hanno twittato messaggi in suo ricordo. Un utente di TikTok ha postato un collage di video che sostiene siano di Hashemi.

Secondo le principali Ong vicine all’opposizione iraniana, nelle proteste iniziate lo scorso 16 settembre sono morte almeno 400 persone, tra cui molti giovani e giovanissimi che soprattutto nei primi giorni della rivolta sono stati i principali animatori della protesta.

Dopo essere circolata nei network di attivisti, la storia è stata ripresa da due testate internazionali in lingua iraniana che sostengono di aver parlato con testimoni a conoscenza della vicenda. Voice of America in persiano sostiene che un testimone abbia visto il corpo di Hashemi con il volto tumefatto. La polizia lo avrebbe restituito alla famiglia in cambio del pagamento di una grossa somma di denaro e avrebbe imposto loro il silenzio sul caso. Voice of America precisa che in realtà «non si sa molto di Hashemi» e riporta un tweet in cui viene riferito che Hashemi era nota nella comunità dei giocatori di Free fire, un videogioco per smartphone molto diffuso in Iran. 

Il sito Iranwire, un progetto portato avanti da un gruppo di giornalisti iraniani della diaspora, scrive che, secondo una persona informata sui fatti, la madre di Hashemi sarebbe morta quattro anni fa di tumore. La ragazza, uscita di casa nel fine settimana, sarebbe sparita per due giorni. La famiglia avrebbe poi ricevuto una telefonata in cui gli veniva chiesto di identificare il corpo in ospedale.

I DUBBI

La storia di Hashemi non è stata ripresa da alcuni dei principali gruppi per i diritti umani in Iran, come ad esempio Hrana, che pubblica una lista costantemente aggiornata di persone scomparse, ferite o uccise nelle proteste.

Radio Farda, parte del network Radio Free Europe/Radio Liberty finanziato dal governo americano, ha prima pubblicato un tweet sulla vicenda per poi rimuoverlo senza spiegazione. La versione persiana di Bbc, in un articolo in cui cita altri casi di persone uccise nelle proteste, si è limitata a riferire la versione della polizia, per poi aggiungere che «precedenti versioni» parlavano di morte avvenuta in seguito a percosse.

Un account Twitter che sostiene di appartenere a un familiare di Hashemi scrive che la ragazza è morta in un incidente e che sul suo conto sono state diffuse notizie false. Un account Instagram che sostiene di appartenere allo zio di Hashemi ha postato diverse storie in cui chiede di cessare con i “pettegolezzi” sulla sorte della ragazza.

Le terribili violenze in Iran non fanno notizia. Luciano Tirinnanzi su Panorama il 18 Novembre 2022.

Al G20 dei grandi della Terra nemmeno una parola sulle proteste e soprattutto sui massacri di giovani da parte della Polizia di Teheran. Fino a che punto durerà questo macabro silenzio? Le terribili violenze in Iran non fanno notizia

Iran, questo sconosciuto. I media occidentali sono così concentrati in queste settimane nel coprire crisi internazionali come la guerra russo-ucraina e nel criticare eventi come i mondiali in Qatar, che quasi non si accorgono – o ignorano del tutto – le conseguenze incendiarie della «rivolta continua» che divampa nella Repubblica islamica. Eppure, l’Iran la crisi è ormai giunta al suo terzo mese e, anziché placarsi, cresce d’intensità giorno dopo giorno. Troppo facile snocciolare i numeri degli scontri: 324 vittime tra i manifestanti, 14 mila arresti, 62 giornalisti detenuti e 40 forze di sicurezza decedute. Sono cifre preoccupanti, ma probabilmente assai sottostimate. E non aiutano a comprenderne la reale dimensione. Perché se è vero che le proteste sono state molto accese soprattutto nel Kurdistan iraniano, la regione nel nordovest da cui proveniva Mahsa Amini (l’involontaria scintilla delle proteste e prima vittima accertata del regime iraniano), è anche vero che la rivolta ha ormai contagiato l’intero Paese, dilagando pressoché ovunque e trovando proprio nella capitale Teheran il centro propulsore delle rivendicazioni dei manifestanti.

Dove, infatti, adesso arrivano anche le serrate dei negozi e gli scioperi generali delle classi lavoratrici che oggi si sono unite alle proteste delle donne, vero e proprio motore di questa pagina di storia della Repubblica islamica. Da martedì, i manifestanti hanno indetto tre giorni di cortei e raduni su larga scala per commemorare il cosiddetto «novembre di sangue»: si tratta della repressione seguita alle proteste antigovernative del 2019, quando cioè il governo degli ayatollah ordinò di soffocare ogni manifestazione di dissenso, lasciando senza vita per le strade circa 1.500 persone. Anche in questo caso, nessuno lo ricorda mai. Ma i giovani iraniani non possono dimenticare. Così come, al contrario di noialtri, non sottostimano il valore intrinseco dei simboli. Non c’è soltanto il togliersi il velo per le donne, o i baci scambiati in pubblico tra coppie nonostante siano proibiti dalla polizia morale (esti liberatori che hanno un valore immenso per una società dove la polizia morale spia e terrorizza il popolo, ed è autorizzata a calpestare ogni diritto civile). C’è molto di più. Mentre scriviamo, ad esempio, giunge la notizia che numerosi dimostranti anti-regime hanno preso d’assalto e incendiato persino la casa dove è nato l’ayatollah Khomeini, il padre spirituale della Rivoluzione islamica e il fondatore del regime. Dare alle fiamme la casa-museo della Guida Suprema non è un fatto da poco: questo fatto non solo costituisce un attacco diretto all’ordine costituito, ma segnala anche che le nuove generazioni si sono ormai convinte che la parabola della teocrazia iraniana sia giunta al suo termine naturale. Questo, signori, ha un nome preciso: si chiama rivoluzione. E vedremo cos’avranno da dire la casta religiosa e i Pasdaran che governano l’Iran con pugno di ferro, quando (e se) i giocatori della nazionale di calcio in Qatar rifiuteranno di cantare l’inno nazionale in mondovisione. Non si tratta di elementi da sottostimare, perché questa rivolta è trasversale e intercetta l’intera società iraniana: giovani e donne, operai e imprenditori, laici e religiosi, conservatori e progressisti. Solo gli ayatollah sembrano non aver ancora ben compreso la reale portata delle proteste. E difatti sinora hanno saputo soltanto comminare condanne a morte per chiunque compia «crimini contro lo Stato». Atti tanto arbitrari quanto controproducenti, che non fanno altro che aumentare il numero di martiri della nuova rivoluzione, allargando le rivolte nelle province più lontane della Persia, dove si moltiplicano gli assalti ai municipi locali, gli incendi nelle carceri, mentre nella capitale vengono erette barricate in piazza. Se è vero che il governo di Teheran non ha ancora voluto soffocare nel sangue ordinando all’esercito schierato per le strade di procedere come nel 2019, poco ci manca prima che la situazione sfugga completamente fuori dal suo controllo. E certo non aiuta il fatto che gli stessi Guardiani della Rivoluzione che dovrebbero difendere le istituzioni iraniane, siano tuttora concentrati più sul fornire armi ai russi e raggiungere la piena capacità nucleare, che non a dirimere la gravissima crisi sociale che sferza l’Iran e fomenta la rabbia del popolo.

Solo i francesi sembrano essersi accorti del peso specifico delle proteste. E lo cavalcano: «Qualcosa è cambiato in Iran» ha detto da Bali il presidente francese Emmanuel Macron, dopo che nelle ultime settimane aveva incontrato alcuni esponenti della dissidenza iraniana. «Questa è una rivoluzione delle donne, dei giovani iraniani, che difendono valori universali come l'uguaglianza di genere. È importante elogiare il coraggio e la legittimità di questa lotta» ha aggiunto, sollevando le critiche di Teheran che ha accusato Parigi di «tramare per la destabilizzazione del paese». Mentre Parigi si appresta a votare per censurare l’Iran e suo programma nucleare alla prossima riunione del consiglio dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), anche negli Stati Uniti, in Turchia e nello Stato di Israele s’inizia a considerare la caduta del regime – o quantomeno una sua radicale sterzata – come uno scenario improvvisamente possibile e attuabile. Insomma, a ben vedere nel 2022 regimi autoritari come appunto la teocrazia iraniana (non meno che la democratura russa), sembrano scricchiolare pesantemente sotto i colpi di masse critiche delle società contemporanee che – troppo vessate dall’intrusione dello Stato negli affari privati e ripetutamente colpite da crisi economiche – non intendono più accettare i metodi rozzi e brutali che hanno contraddistinto le amministrazioni al potere sin dal secolo scorso. Quel patto sociale che durava da decenni si è infine rotto, almeno in Iran, e con l’avanzare del nuovo millennio sembra affacciarsi una rivoluzione laica di cui abbiamo finto troppo a lungo che non vi fosse alcuna traccia

Gabriella Colarusso per “la Repubblica” il 22 novembre 2022.

Quando l'inglese Sterling firma il 3-0 con l'Iran, Hossein si sfoga: «Evviva, quello non è il nostro team!». «Si sono uniti a noi, in una situazione difficile, diamo loro una chance», gli risponde calmo Amir. Mentre allo stadio internazionale Khalifa di Doha va in scena uno dei match più politici di questo mondiale, Inghilterra- Iran, in una stanza privata di Clubhouse si accendono le divisioni di un Paese ferito. 

Nel salotto virtuale si sono dati appuntamento ragazzi che vivono in Iran e altri iraniani della diaspora, la cronaca della partita viene interrotta di continuo dalle notizie che arrivano dal Nord curdo dove il governo ha inviato mezzi pesanti e artiglieria per sedare le proteste di massa, e ci sarebbero almeno 13 morti, secondo la ong Hengaw. Finora sono quasi 400 le vittime della repressione, 40 i poliziotti caduti negli scontri. 

«La foto della squadra sorridente con il principale responsabile della repressione insieme a Khamenei è stata un oltraggio mentre i nostri amici muoiono in piazza!», dice Hosssein. Il 15 novembre il Team Melli aveva incontrato il presidente Ebrahim Raisi prima di partire per Doha.

«È stato un grosso errore», premette Amir, «ma meritano una seconda possibilità». Il punto in questo Mondiale iraniano non è il calcio. «Da che parte sta la nazionale? Oggi non hanno cantato l'inno, si sono presentati con la fascia nera al braccio e mi hanno reso felice. Vediamo cosa succede nella partita decisiva, quella con gli Stati Uniti: se anche allora, con tutte le pressioni che subiranno dai servizi di sicurezza, si rifiuteranno di cantare l'inno della Repubblica Islamica, perché quello non è l'inno dell'Iran, sapremo cosa hanno scelto». Ammesso che avranno ancora la possibilità di scegliere. 

Oggi il quotidiano iraniano che più rispecchia la voce del potere ultraconservatore - Kayhan , il cui direttore viene nominato dalla Guida Suprema Khamenei - sentenzia in prima pagina: traditori: «Alcuni membri della nazionale non hanno avuto onore e non hanno cantato l'inno. Iran 2-Inghilterra, Israele, Al Saud (i sauditi, ndr ), traditori interni e stranieri 6».

Ieri Teheran era deserta: chiuse scuole e università, Internet funzionava a singhiozzo. Da un palazzone di dieci piani nel quartiere Shahran si sentivano le urla di una gioia rabbiosa per i gol dell'Inghilterra. Davanti alla biblioteca nazionale dove di solito si vedono le partite c'era qualche centinaio di persone. Uno studente di 21 anni ha detto all 'Afp : «Ho sempre tifato per la nazionale, ma non questa volta perché i giocatori non hanno tifato Iran». 

Eppure in oltre due mesi di proteste pro-democrazia tanti sportivi hanno pagato il prezzo del dissenso, i calciatori Hossein Mahini e Parviz Broumand sono finiti in carcere per aver sostenuto il movimento, l'ex stella della nazionale, Ali Karimi, una delle voci più apprezzate dai manifestanti, invocato ieri anche allo stadio, vive confinato a Dubai e gli hanno sequestrato anche la casa. Pure Yahya Golmohammadi è nei guai: ex nazionale e oggi allenatore del Persepolis, la squadra più amata insieme all'Esteghlal, aveva criticato il Melli per non aver «portato la voce del popolo oppresso alle orecchie delle autorità». È stato convocato dal tribunale per dare spiegazioni. L'Iran ieri ha perso, ma nessuno ha esultato.

"Morte a Khamenei”: l’insulto dei tifosi durante la partita. E i giocatori non cantano l’inno. Storia di Mauro Indelicato su Il Giornale il 21 novembre 2022.

Quando le due formazioni sono entrate in campo, all'interno del Khalifa International Stadium di Doha, il primo pensiero è andato al comportamento dei giocatori dell'Iran. Dopo le dichiarazioni alla vigilia del capitano della nazionale iraniana, Ehsan Hajsafi, il quale ha ammesso una situazione di difficoltà nel suo Paese, da più parti ci si è chiesto se i giocatori avessero o meno cantato l'inno nazionale.

L'inno non è stato cantato e la tribuna si è spaccata. Alcuni tifosi iraniani hanno fischiato i giocatori, in segno di disapprovazione. Altri invece hanno urlato slogan contro i vertici della Repubblica Islamica.

Bocche cucite durante l'esecuzione degli inni nazionali

L'esordio dell'Iran nel girone B di Qatar 2022 era con l'Inghilterra. Una sfida già di suo politicamente molto significativa. Terminata l'esecuzione dell'inno inglese, storica perché per la prima volta è stato intonato a un mondiale “God Save The King”, lo speaker dello stadio di Doha ha annunciato quella dell'inno iraniano.

Una volta partite le note, i calciatori hanno tenuto la bocca chiusa. Nessuno ha cantato, nessuno ha fatto un pur minimo cenno a una delle strofe del testo. La prima curiosità della partita, la quale sportivamente in seguito non ha avuto molto da dire con il netto successo dell'Inghilterra, ha prodotto una notizia non secondaria.

Non cantare l'inno nazionale ha dato modo alla squadra di prendere una decisa posizione. I giocatori si sono schierati con chi da più di due mesi è in piazza nelle principali città iraniane per protestare contro il governo.

Proteste sorte all'indomani della morte di Mahsa Amini, la ragazza iraniana di origine curda deceduta all'interno di una stazione di Polizia di Teheran. Secondo le autorità locali, la morte è da ricollegare a cause naturali, ma non sono mai stati dello stesso avviso i manifestanti. I quali, al di là della richiesta della verità per accertare i veri motivi del decesso, hanno protestato anche per i motivi che hanno portato all'arresto. Mahsa Amini infatti era stata fermata per non aver indossato correttamente il velo.

L'Iran è in fiamme da oramai molte settimane. Gli scontri sono dilagati soprattutto nelle aree delle minoranze etniche, in quelle curde, azere e baluci. Teheran sospetta il coinvolgimento di attori stranieri e parla di ingerenze dei nemici storici della Repubblica islamica.

I fischi e le urla durante l'inno

Tornando a quanto accaduto all'interno dello stadio, durante l'esecuzione dell'inno oltre al silenzio dei giocatori iraniani a fare notizia sono stati anche i fischi piovuti dalle tribune. In un primo momento, non si è capito se i fischi fossero rivolti all'inno oppure ai giocatori. Se cioè il pubblico avesse preso posizione con o contro i calciatori della nazionale iraniana.

Per la verità, è molto difficile da decifrare. L'Iran è molto vicino al Qatar e dunque dal Paese sono potuti entrare migliaia di tifosi, sia sostenitori che detrattori dell'attuale governo. Non a caso prima della partita nelle gradinate sono stati notati iraniani con la bandiera della Repubblica islamica e iraniani con cartelli inneggiati ai manifestanti. Tra questi anche striscioni a favore della libertà delle donne.

Possibile quindi che il pubblico iraniano presente a Doha si sia diviso. C'è stato chi ha fischiato contro l'atteggiamento dei giocatori e chi invece contro l'inno. Una divisione che forse è specchio della spaccatura attuale all'interno della società. A questo occorre aggiungere poi che altri tifosi invece hanno urlato espressamente contro la Repubblica Islamica. "Morte a Khamenei" sarebbe stato scandito da un gruppo presente nello stadio dove da lì a breve sarebbe andata in scena la partita. A riferirlo è stata l'edizione in lingua farsi del network britannico Bbc.

Fabrizio Piccolo per sport.virgilio.it il 30 novembre 2022.

Che fosse una gara ad alta tensione, e non per motivi calcistici, lo si sapeva: Iran-Usa ai Mondiali in Qatar era una potenziale bomba ad orologeria per le implicazioni politiche tra i due paesi. Alla fine poteva andare peggio ma non sono mancati episodi da dimenticare. Un tifoso Usa con la fascia arcobaleno, ad esempio, è stato cacciato dallo stadio. Prima della gara i giocatori dell’Iran, alcuni non molto convinti, hanno cantato l’inno, a differenza della prima giornata quando rimasero tutti muti. Secondo la stampa Usa le famiglie dei giocatori sarebbero state minacciate se non lo avessero fatto. Tanti i fischi dagli spalti ma i problemi più gravi ci sono stati dopo l’incontro.

Una violenta rissa è scoppiata infatti dopo la partita. A denunciare l’accaduto è Michele Criscitiello che con un tweet riporta il video in cui c’è parte dell’aggressione, in cui è rimasto coinvolto anche l’inviato di Sportitalia Tancredi Palmeri insieme ad altri tifosi iraniani.

Il cronista è stato aggredito e fermato dagli steward che lo hanno minacciato, intimandogli di non registrare alcun filmato: ad alcuni tifosi hanno obbligato di nascondere bandiere e magliette, ad una donna hanno requisito il cellulare. Tre ragazzi iraniani residenti in Svezia che indossavano la maglietta "Woman, Life, Freedom" sono stati circondati da una trentina di addetti alla sicurezza filo-iraniani e aggrediti.

Ecco il suo racconto: "All’uscita dallo stadio escono questi tre ragazzi. Avevano una maglietta sui diritti sulle donne e avevano il volto truccato con lacrime di sangue. Li fermo, li noto, era una cosa grossissima. Gli ho chiesto – ‘Vi va bene venire in diretta?’ – uno dei tre che parla in italiano ha accettato. Preparo tutto per la diretta, ma poi si raggruppa un gruppo di 20-30 tifosi iraniani con tuniche e simboli islamici".

"Pochi secondi dopo la ragazza caccia il telefono per fare un selfie e uno dei tifosi la colpisce. Il telefono vola, loro accerchiano i ragazzi e mi allontano per salvare la videocamera. Mentre i ragazzi provano a recuperare il telefono si crea un principio di rissa. La polizia interviene e porta con sé i ragazzi, chiudendosi nella struttura dello stadio e non ci hanno permesso di accedere. Ho comunicato poi con uno dei ragazzi che ha ammesso di avere paura di uscire ma anche di rimanere lì con i poliziotti".

Teheran arresta il calciatore-simbolo (e minaccia i dissidenti ai mondiali). Storia di Manila Alfano su Il Giornale il 25 novembre 2022.  

Oltre 400 morti, 51 sono bambini, circa 14.000 persone arrestate da settembre a oggi, aumento delle esecuzioni. È il risultato della più vasta e capillare protesta nella storia della Repubblica islamica. Coraggiosa quanto sanguinosa contro il regime. Donne che chiedono pari diritti e questa volta non sono sole. In piazza, dopo l'uccisione di Masha Amini per il velo messo male, sono scesi in strada giovani, uomini di tutti i ceti sociali, studenti, lavoratori, atleti, artisti. E la risposta è sempre la stessa: violenza. Ieri il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha condannato la repressione in Iran delle pacifiche proteste di piazza e ha deliberato l'avvio di una indagine ad alto livello. La decisione è passata con 25 voti a favore, sei contrari e 16 astensioni.

«Una crisi totale dei diritti umani», ha denunciato l'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, nel corso di una sessione speciale del Consiglio dei diritti umani dell'Onu, che ha chiesto nuovamente alle autorità di «mettere fine all'uso della forza non necessario e sproporzionato» contro i manifestanti.

Dopo aver espresso la sua «profonda ammirazione per il popolo iraniano», Turk si è detto «addolorato nel vedere ciò che sta accadendo nel Paese: immagini di bambini uccisi, di donne picchiate per strada, di persone condannate a morte». E proprio ieri l'Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Volker Tuerk, ha ribadito di non aver ricevuto alcuna risposta dall'Iran alla sua proposta di visitare il Paese. Arrivano intanto dal Paese notizie sconfortanti. Ormai il regime non guarda più in faccia a nessuno. Arrestata anche la nipote della Guida suprema dell'Iran Ali Khamenei, l'attivista Farideh Moradkhani per aver partecipato alle proteste. Ma la furia non risparmia neppure una leggenda del calcio, Voria Ghafouri, ex giocatore della nazionale di calcio iraniana e attuale difensore del Khuzestan Steel Club, catturato e portato via davanti al figlio di dieci anni per aver «insultato» il regime e «propaganda contro lo Stato». «Sono sconvolto», ha detto Andrea Stramaccioni, tecnico e commentatore Rai dei Mondiali Qatar 2022. «Ho parlato con la moglie e gli amici, hanno paura, era mio capitano all'Esteghlal». Un arresto con un tempismo perfetto. O meglio, un avvertimento perfetto. Non è un caso infatti che la cattura di Ghafouri giunge mentre ai Mondiali di calcio, lo scorso 21 novembre durante la partita d'esordio contro l'Inghilterra, i giocatori della nazionale non hanno cantato l'inno in solidarietà con le proteste. Ora sanno cosa spetterà ai disobbedienti una volta rientrati in patria. Intanto Teheran punta il dito contro i Paesi occidentali dicendo che «non hanno la credibilità morale» per dare lezioni. Intervenendo in video alla riunione d'emergenza dell'Unhrc il rappresentante permanente della Russia alle Nazioni Unite a Ginevra, Ghennady Gatilov, ha esortato «gli Stati a smettere di interferire negli affari interni della Repubblica islamica e di destabilizzare la situazione nel Paese». 

Ma nel Paese non si placano le proteste con nuovi appelli a manifestare in solidarietà con i manifestanti nelle province a maggioranza curda, in particolare nell'Azerbaigian occidentale, colpita duramente dalla repressione delle forze di sicurezza iraniane. Per arginare nuovi focolai di protesta, il governo ha dispiegato le forze di terra dei Guardiani della rivoluzione iraniana (pasdaran) nelle città e nei villaggi della provincia del Kurdistan e nell'Azerbaigian occidentale per reprimere brutalmente i manifestanti.

L'atleta si era espresso esplicitamente contro la repressione delle proteste. Il calciatore Vouria Ghafouri arrestato per "insulto e propaganda" in Iran: "Preso davanti al figlio". Antonio Lamorte su Il Riformista il  24 Novembre 2022

Il calciatore iraniano Vouria Ghafouri è stato arrestato per "insulto e indebolimento della squadra nazionale di calcio iraniana e propaganda contro la Repubblica islamica". A confermarlo l’agenzia di stampa Fars. L’arresto, riportato da Iran International, è arrivato dopo l’allenamento del calciatore con la squadra Foolad Khuzestan su decisione dell’Autorità Giudiziaria. Il calciatore, che negli anni passati aveva giocato con la nazionale, non è stato convocato per i Mondiali in Qatar dove la selezione ha protestato contro la repressione delle proteste non cantando l’inno. Gesto che ha fatto infuriare le autorità di Teheran.

Da metà settembre il Paese è attraversato da proteste, represse anche nella violenza. L’ondata di manifestazioni è stata scatenata dalla morte della 22enne Mahsa Amini, fermata dalla polizia religiosa perché indossava in maniera scorretta il velo e morta durante la detenzione. Per le autorità per un tragico malore, per la famiglia a causa di violenze subite. E così sono esplose le proteste nel Kurdistan iraniano, regione di origine della 22enne, che si sono estese in tutto il Paese. Le immagini delle manifestazioni e i gesti di protesta sono diventati virali in tutto il mondo.

E Ghafouri aveva sostenuto esplicitamente i manifestanti sui social. Aveva anche fatto visita alle famiglie delle vittime a Mahabad, in particolare a membri della minoranza curda. Già a maggio scorso Ghafouri aveva criticato il governo di Teheran per la gestione di proteste scatenate da un improvviso aumento dei prezzi. Da quel momento la sua posizione all’interno della selezione si era complicata. "Sono scioccato: ho parlato con amici a Teheran, Ghafouri è stato arrestato davanti al figlio maggiore, di 10 anni. E la moglie è preoccupatissima, come tutti noi", ha dichiarato all’Ansa Andrea Stramaccioni, tecnico e commentatore Rai dei mondiali in Qatar 2022.

Ghafouri dal 2015 al 2019 è stato capitano dell’Esteghlal, allenato nel 2019 proprio da Stramaccioni, e ha giocato la coppa d’Asia nel 2015 e nel 2015. Chiedeva lo stop alla repressione violenta, soprattutto nel Kurdistan iraniano, nei suoi ultimi post su Instagram. "Nella Repubblica islamica lo sport è totalmente politico … L’eliminazione degli atleti popolari [che parlano] ha lo scopo di coprire i crimini del governo", ha scritto una volta in un post su twitter il blogger dissidente Hossein Ronaghi, anche lui detenuto in carcere.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Iran, il mistero dell’uccisione del «colonnello dei droni». Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 24 Novembre 2022.

Daoud Jafari, colonnello dei pasdaran iraniani, esperto di droni e missili, è stato ucciso in un agguato nella regione di Damasco, in Siria. Un agguato attribuito al Mossad. E ora Teheran promette vendetta 

Il colonnello Jafari con la Guida Suprema

La guerra strisciante Israele-Iran continua per terra e per mare, spesso oscurata da crisi più gravi. L’ultimo lampo in Siria, con un’azione mirata. Daoud Jafari, colonnello dei pasdaran iraniani, esperto di droni e di missili, è stato ucciso in un agguato nella regione di Damasco, in Siria. Era a bordo di un veicolo che è stato investito dall’esplosione di un ordigno piazzato ai lati di una strada. Morta anche la guardia del corpo. 

Un agguato attribuito al Mossad, già protagonista di operazioni analoghe per contrastare i programmi bellici del regime. L’alto ufficiale – secondo alcune informazioni – aveva partecipato nel 2016 ad un’operazione con la cattura di alcuni marinai britannici finiti fuori rotta nel Golfo Persico. E per questo era stato insignito di un riconoscimento dalla guida suprema, l’ayatollah Khamenei. Cerimonia documentata dai media con una foto. Successivamente sarebbe passato alla Divisione aerospaziale, la componente che gestisce velivoli guidati in remoto, missili e sistemi apparsi su diversi fronti. 

La Repubblica islamica ha fornito droni alle milizie alleate in Yemen, Libano, Iraq e Siria, poi ne ha venduti un gran numero alla Russia che li ha impiegati nel conflitto in Ucraina. Più volte i guardiani se ne sono serviti per attaccare mercantili legati a compagnie israeliane: il 15 novembre l’episodio che ha coinvolto una petroliera, la Pacific Zirkon, al largo delle coste omanite. Fonti statunitensi sostengono che sarebbe stato uno Shahed 136, lo stesso modello di quelli che hanno causato danni nelle città ucraine. Sono mezzi lanciabili da piattaforme multiple: navi, camion oppure basi come l’installazione di Chahabar, nel sud est dell’Iran. 

Quattro i punti da considerare.

1) L’eliminazione di Jafari conferma la volontà di Israele di neutralizzare le figure che dirigono ricerca e sviluppo di sistemi moderni.

2) Gli agenti segreti, affidandosi a sponde locali, hanno condotto missioni simili contro esperti del movimento palestinese Hamas.

3) Gli ayatollah hanno creato siti sul territorio siriano per sostenere Assad ma anche per colpire lo stato ebraico. La presenza di Jafari è la prova della presenza e forse era legata a progetti speciali.

4) È un ciclo infinito, con possibili ritorsioni: Teheran ha promesso di vendicare la morte del colonnello.

Che cosa è la polizia morale in Iran: le pattuglie in divisa verde che vanno a caccia delle «malvelate». Storia di Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 4 dicembre 2022.

Tutto nasce dall’ hisbah, concetto del Corano, che invita ad apprezzare ciò che è giusto e disprezzare ciò che è sbagliato per rendere migliore se stessi e quel che ci circonda. In nome dell’ si può portare la pace nel mondo, aiutare i poveri, non rubare, non tradire come in ogni religione oppure ossessionarsi con i vestiti delle donne. Nell’Afghanistan talebano c’era (ed è tornato) un ministero per «la promozione della virtù e la repressione del vizio»: ha fruste e pietre per punire gli adulteri o le donne che col «sensuale» rumore dei loro tacchi turbano gli uomini. In Arabia Saudita e Palestina si accontentano di comitati. Nei secoli, l’hisbah ha giustificato altre persecuzioni (vino o strumenti musicali, ad esempio), ma oggi gira tutto attorno al sesso.

In Iran l’ vuol dire camionette blindate e divise verdi delle Gasht Ershad, le pattuglie della Polizia morale. Stanno (o stavano visto l’annuncio di ieri) agli angoli più trafficati e r iempiono il furgone di , le «malvelate». Un foulard caduto dai capelli, un mantò (spolverino) aderente, un mascara calcato, basta a farle finire al commissariato. A Teheran, la questura «morale» è in via Vosarah dove è stata uccisa a botte Masha Amini, la ragazza simbolo di questa incredibile rivolta «donne, vita, libertà». Lì le ragazze venivano «rieducate» a voce o a manganellate sulla scandalosità dei capelli, sui colori peccaminosi dei soprabiti, sulle diaboliche sfumature dell’ombretto. In genere firmavano di aver capito e venivano consegnate a un parente/guardiano maschio. Altre volte finiva peggio.

Difficile credere che questa stortura di un principio religioso possa svanire senza che cambi l’essenza stessa della Repubblica Islamica d’Iran. Dai tempi del fondatore Ayatollah Khomeini, la polizia morale ha avuto nomi e violenze diverse, ma non è mai sparita. Negli anni ’80 c’erano le pattuglie Jondollah della polizia e quelle Sarollah dei Pasdaran. Nel 1997 una legge introdusse ufficialmente multe, prigione e frustate per le malvelate. L’attuale Gasht Ershad nasce nel 2006 con il presidente Ahmadinejad. Il resto è la continua sfida tra donne e poliziotti. I pantaloni si sono fatti via via più aderenti, i colori brillanti, i soprabiti morbidi a seguire le curve. Un arresto, una firma e di nuovo in strada a sfidare il regime con i loro abiti. Teheran fa sapere che l’abolizione della polizia morale non significa rinuncia all’obbligo del velo. Ci sono altri modi per imporlo. Più moderni dei manganelli come le telecamere che già scrutano dentro le auto e identificano le malvelate. La prima volta sarà una multa, poi il ritiro della patente, poi il sequestro dell’auto se il guardiano maschio non vigila sulla passeggera. Se ne va, forse, la polizia morale, ma l’ossessione continua.

"Stop alla polizia morale". Ma è giallo a Teheran. E la protesta si infiamma. Annuncio dei giudici. I media: non c'è conferma. Tre giorni di sciopero, la minaccia del regime. Chiara Clausi il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Tre mesi di proteste e uno sciopero generale che comincia oggi hanno convinto il regime iraniano a dare un primo segnale di apertura, se non di cedimento. Il procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri ha annunciato ieri uno stop all'attività della polizia morale, la famigerata Gasht-e-Ershad. Questo braccio delle autorità ha il compito di far rispettare il codice di abbigliamento islamico del Paese ed è il più odiato dalla popolazione. Montazeri ha parlato nella città santa di Qom: «La polizia morale non ha niente a che fare con la magistratura, ed è stata abolita da chi l'ha creata». I commenti di Montazeri però devono ancora essere avvalorati dai vertici della Repubblica islamica. E pure secondo la tivù qatarina Al Jazeera non c'è conferma che le pattuglie siano state tolte dalle strade.

Proteste oceaniche hanno travolto l'Iran da quando la 22enne Mahsa Amini è morta il 16 settembre, tre giorni dopo il suo arresto da parte della polizia morale a Teheran. La sua morte è stata il catalizzatore dei disordini, alimentati anche dal malcontento per la povertà, la disoccupazione, la disuguaglianza, l'ingiustizia e la corruzione. Da allora le iraniane hanno bruciato gli hijab e si sono tagliate i capelli in segno di protesta e solidarietà. «Donna, vita, libertà», è diventato il grido di battaglia dei manifestanti.

Le autorità iraniane hanno accusato gli Stati Uniti, Israele e le potenze europee di essere dietro i persistenti disordini, e sostengono di aver usato la morte di Mahsa come una «scusa» per prendere di mira il Paese e le sue fondamenta. L'hijab, obbligatorio poco dopo la rivoluzione islamica del Paese del 1979, è diventato una questione ideologica centrale per le autorità iraniane. Tuttavia queste hanno recentemente affermato che potrebbero rivedere le modalità di attuazione delle regole obbligatorie sull'abbigliamento. L'Iran ha avuto varie forme di «polizia della moralità» sin dalla rivoluzione islamica del 1979, ma l'ultima versione - la Gasht-e-Ershad - è attualmente il principale strumento incaricato di far rispettare il codice di condotta dell'Iran. Questo richiede alle donne di indossare l'hijab, abiti lunghi e vieta pantaloncini, jeans strappati e altri vestiti ritenuti immodesti. Il controllo della forza spetta al ministero dell'Interno e non alla magistratura. Se confermato, però, lo smantellamento della polizia morale sarebbe una concessione ma non ci sono garanzie che basterebbe a fermare le proteste. Eloha, 43 anni, fa la traduttrice a Teheran e conferma che «l'abolizione della polizia morale è un successo, ma non è sufficiente, è una delle tante nostre richieste». Le forze della polizia andavano in giro con furgoni bianchi e verdi, e per lo più dicevano alle donne per strada di aggiustarsi il velo o le portavano nei cosiddetti centri di «rieducazione» se ritenuto necessario. I furgoni però non sono stati visti in giro per Teheran o in altre città di recente.

Le proteste intanto non sembrano raffreddarsi. I manifestanti hanno indetto ieri uno sciopero di tre giorni. Dovrebbe tenersi anche quando il presidente Ebrahim Raisi visiterà l'Università di Teheran mercoledì, in occasione della Giornata dello studente. Ma il regime ha già annunciato tolleranza zero. I dimostranti, però, chiedono anche scioperi da parte dei commercianti e una manifestazione verso la piazza Azadi (Libertà) di Teheran. Hanno pure chiesto tre giorni di boicottaggio di qualsiasi attività economica. Continuano però le repressioni del regime. Quattro uomini sono stati condannati all'impiccagione per aver collaborato con il Mossad israeliano.

Le prime crepe di un regime impaurito (che cerca consensi dentro e fuori casa). Ormai la rivolta di popolo sta minacciando gli ayatollah. Sempre più deboli in patria e isolati a livello internazionale. Fiamma Nirenstein il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Se fosse degna di fede, la notizia sarebbe molto importante, e in ogni caso divulgarla segna un cambio della scena, mostrando un regime impaurito, a caccia di consensi dentro e fuori i confini: il procuratore generale iraniano Mohamad Jafar Montazeri ha annunciato lo scioglimento della funesta «Polizia della morale» che dopo aver sequestrato Mahsa Amini perché non indossava il velo secondo le regole, ne ha poi riconsegnato il corpo torturato e senza vita alla sua disperata famiglia. Da quel momento una protesta guidata dalle donne, sempre più coraggiose, ha tenuto le piazze e le strade nonostante ormai si contino quasi cinquecento morti fra i dimostranti. L'Iran non vuole più vedere donne, dissidenti, gay imprigionati e uccisi solo per ciò che sono. La resa sulla «polizia della morale» però di fatto rivela solo che il regime è nei guai e non che cerchi soluzioni.

Alla notizia infatti si aggiungono molte «chiarificazioni» per cui il sistema giudiziario dichiara di non «perseguire dichiaratamente» il suo scioglimento, ma è la polizia stessa che «cerca una soluzione prudente», mentre il presidente Raisi annuncia che «è allo studio» una legge per modificare l'uso obbligatorio del velo. Mahsi Alinejad una protagonista delle rivolta al femminile, di recente ricevuto all'Eliseo dal Presidente Macron, ha già detto che si tratta di «disinformazione, una tattica per fermare la rivolta». Perché la rivolta è ormai diventata una strada possibile verso un cambiamento fondamentale, ed è la prima volta dopo le tante rivolte che si susseguono dal 2017. È il mondo intero stavolta, come per l'Ucraina, che non può tacere alla violazione di ogni norma etica e che chiede insieme agli iraniani un altro domani. Un esempio italiano: Antonio Tajani, ministro degli esteri, il primo di dicembre ha cancellato l'incontro bilaterale col ministro degli esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian. Un gesto di coraggio da parte di un ministro di prima fila del secondo Paese dell'Ue. Avveniva quando l'appassionato pubblico del calcio iraniano veniva sconfitto dalla squadra del Grande Satana, gli Usa. Quanto deve non poterne più il popolo e quanto ormai il consesso internazionale riconosce l'impresentabilità di un Paese che solo fino a tre mesi fa si baloccava con la speranza americana ed europea degli incontri di Vienna del «P5 più uno» spronati da Biden a rinnovare il Jcpoa, ovvero, l'accordo sul nucleare? Le cose sono cambiate, le colossali violenze e violazioni dei diritti umani, le donne senza paura e senza velo in piazza, non consentono più la gestione del rapporto con l'Iran secondo «business as usual».

Come dice l'ambasciatore Ron Dermer nel podcast Jinsa «Politically Incorrect», due cose sono accadute: il regime di paura che teneva la gente a casa si è infranto e la richiesta di cambiamento, di «regime change» è totale. In secondo luogo, si sta formando un nuovo fronte internazionale dagli Usa, all'Ue ai Paesi Sunniti contrapposti all'Iran, alle istituzioni dell'Onu, su un atteggiamento comune, che non ne può più della prepotenza interna ed esterna del regime. La gente da Teheran sente il nuovo sostegno, e ne ricava forza. Al tempo della caduta del Comunismo, l'Unione Sovietica che sembrava immortale, si spezzò di fronte alla immensa disapprovazione interna e esterna, quando ai refusenik e al biasimo morale si unì la voce americana e l'azione concreta internazionale.

Iran, dietro la lotta delle donne la rivolta generazionale contro un regime di dinosauri integralisti. Da oltre due mesi una formidabile ondata di contestazione sta scuotendo le fondamenta della Repubblica sciita: un clima bollente che ricorda la rivoluzione del 1979. Sono giovani di ogni classe sociale che chiedono più libertà, di movimento, di pensiero, di abbigliamento ricevendo in cambio solamente una repressione feroce. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 05 dicembre 2022

È una vampata che attraversa tutto l’Iran da oltre due mesi e che scuote le fondamenta della repubblica sciita. In prima linea le donne, delle grandi città, dei campus universitari ma anche nei piccoli centri di provincia dove il consenso degli ayatollah sembra ancora altissimo e la tradizione regna sovrana. E dietro di loro tutta una generazione, quella dei venti trentenni nati quando il regime aveva già esaurito la spinta propulsiva della Rivoluzione e che hanno conosciuto solamente la repressione di Stato e una classe politica di dinosauri integralisti.

Certo, negli inverni del 2017 e del 2019 in Iran ci sono state massicce proteste di piazza, ma si trattava di un movimento “classico”, perlopiù di lavoratori maschi che protestavano contro l’inflazione e la crisi economica, in particolare contro l’aumento dei prezzi del carburante, la miccia che fece scoppiare la contestazione e che come sempre fu repressa nel sangue.

Ora in piazza ci sono invece migliaia di giovani di ogni classe sociale che chiedono più libertà, libertà di movimento, di pensiero, di abbigliamento, gridando “morte alla repubblica islamica”. E la miccia stavolta è stata innescata da un orrendo crimine: la morte di Mahsa Amini, la ragazza di origine curda arrestata dalla polizia religiosa a Teheran il 16 settembre perché indossava il velo in modo «non conforme» e deceduta due giorni dopo in circostanze mai chiarite.

Il suo sacrificio ha unificato la rabbia a livello nazionale, dando vita a un movimento del tutto diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto per ampiezza e radicalità.

Non era mai capitato infatti che la polizia facesse irruzione a Narmak, quartiere popolare di Teheran e feudo dell’ex presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, una storica roccaforte del consenso al regime oggi ribollente di cortei e manifestazioni. O che alle proteste si unissero anche i proprietari agricoli o i grandi commercianti dei bazar che non proclamavano lo sciopero dalla primavera del ’79 , una classe produttiva che è sempre stata dalla parte degli ayatollah e che adesso chiede un’alternativa politica.

C’è poi una dimensione anticlericale manifesta, una messa in discussione dell’influenza claustrofobica che i vertici religiosi esercitano su tutta la società iraniana, dalla sfera privata alla vita pubblica. Lo “schiaffo del turbante”, il gesto provocatorio diventato virale sui social network con cui i giovani fanno cadere per terra i copricapo dei mullah peraltro è stato mutuato dalla Rivoluzione del ’79 quando i militanti khomeinisti sbeffeggiavano i chierici “collaborazionisti” con il sistema politico guidato dallo Scià Reza Palevi e con la sua spietata polizia segreta .

Ma il nocciolo duro del regime, religiosi, pasdaran, ufficiali dello stato maggiore, resiste, ossificato ma compatto. E rilancia, facendo quadrato attorno alla declinante guida suprema Alì Khamenei e al monopolio della violenza, rispondendo alle piazze con una repressione durissima: oltre 250 i manifestanti uccisi secondo le ong il governo parla di 150 vittime), migliaia gli arresti. Con i tribunali, che alla fine di processi farsa, hanno già emesso le prime condanne a morte per impiccagione. Decine i reporter finiti in cella il che fa dell’Iran la terza “prigione” al mondo per i giornalisti dopo la Cina e il Myanmar della giunta golpista.

Nell’impeto fanatico di ristabilire l’ordine il regime trova anche l’occasione di regolare vecchi conti aperti. Come con i poveri curdi, bombardati dalle milizie governative nelle città di Bukan, Javanrud, Mahabad e Piranshahr, teatro anch’esse di imponenti cortei e scontri con le forze dell’ordine che arrestano i feriti facendo irruzione negli ospedali. Oppure nello sperduto e sottosviluppato Baluchistan regione al confine pakistano a maggioranza sunnita che rappresenta il 3% della popolazione ma conta quasi un terzo dei manifestanti uccisi.

È questa radicalizzazione del conflitto, anche dal punto di vista militare, l’aspetto più pericoloso per Khamenei e soci, neanche più capaci di mettere in scena la dialettica formale tra riformisti e conservatori ma soprattutto di aprire canali di mediazione con gli oppositori. E le generiche accuse agli stati Uniti e alla Cia che avrebbero occultamente orchestrato le rivolte sono un mantra a cui non sembra credere neanche chi lo pronuncia.

Bisogna stare attenti però a non interpretare questo potente movimento di contestazione attraverso gli schemi delle democrazie occidentali o peggio con spocchia paternalista, pensando che i giovani iraniani vogliano costruire una società “come la nostra”. Aspirano come tutti noi diritti e libertà, che però non sono un esclusiva dell’Occidente e se un giorno vinceranno la battaglia dovranno decidere loro e soltanto loro quale sarà il volto dell’Iran di domani.

Fabiana Magrì per “la Stampa” il 6 dicembre 2022.

«Il pentimento del lupo è la sua morte», dice un proverbio persiano. Lo scetticismo degli attivisti verso la propaganda di un regime tirannico, corrotto e che esercita una giustizia arbitraria, e verso i suoi proclami lasciati transitare alla vigilia della nuova mobilitazione nazionale in corso, si è rivelato ben riposto. Tanto che ieri il capo della magistratura iraniana Gholamhossein Ejei ha annunciato la prossima esecuzione per impiccagione di un gruppo di rivoltosi. 

L'agenzia di stampa statale Irna ha riportato le sue dichiarazioni a proposito del destino di un gruppo di persone arrestate durante le settimane di proteste. Secondo Amnesty International, si tratta di almeno 28 detenuti, tra cui tre minorenni. «I rivoltosi saranno impiccati presto», ha detto Ejei, specificando che i due capi di accusa della legge islamica iraniana per la sentenza di morte sono «muharebeh» (guerra contro Dio) e «fesad fel arz» (corruzione sulla terra). 

Subito dopo, la Guardia rivoluzionaria ha rilasciato una dichiarazione all'agenzia di stampa semi-ufficiale Tasnim per elogiare la decisione della magistratura. Non è chiaro se i detenuti, che sono stati condannati formalmente, abbiano ancora il diritto di presentare ricorso. 

L'ammonimento è evidentemente rivolto a chi provoca e partecipa alla rivolta popolare, a chi incoraggia altri ad aderire agli scioperi e alle mobilitazioni, e mira anche a intimorire chi osserva la situazione senza scendere in piazza. Uno dei più influenti riformisti iraniani, Abbas Abdi, ha messo l'accento, in un'intervista citata dalla testata indipendente britannica Iran International, proprio su questa «maggioranza silenziosa, importante ma trascurata».

Molti sondaggi che il governo non ha permesso di pubblicare, secondo quanto sostiene l'analista, indicano che il 60-80% della popolazione sostiene il movimento dei giovani, anche se non esplicitamente. 

Constatato che le dichiarazioni sull'abolizione «momentanea» della polizia morale (questo significa l'aggettivo utilizzato, «tatil» in farsi, come osserva in un tweet la scrittrice Farian Sabahi) e su una prossima revisione della legge che impone il velo obbligatorio alle donne non hanno sortito l'effetto di plac