Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
IL TERRITORIO
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
IL TERRITORIO
PRIMA PARTE
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede nel Trentino Alto Adige.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Friuli Venezia Giulia.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Veneto.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Lombardia.
Succede a Milano.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Torino.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Liguria.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)
Succede in Emilia Romagna.
Succede a Parma.
È morto Calisto Tanzi.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Toscana.
SOLITA SIENA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Siena.
SOLITA SARDEGNA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Sardegna.
SOLITE MARCHE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede nelle Marche.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Umbria.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede nel Lazio.
Succede a Roma.
SOLITO ABRUZZO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Abruzzo.
SOLITO MOLISE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Molise.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Campania.
Succede a Napoli.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Basilicata.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Calabria.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Sicilia.
TERZA PARTE
SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede in Puglia.
La Banca Popolare di Bari. La mia banca è differente…Jacobini story.
SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Foggia.
SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Taranto.
Succede a Manduria.
Succede a Maruggio.
Succede ad Avetrana.
SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Succede a Brindisi.
SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Tarantismo.
Succede a Lecce.
IL TERRITORIO
TERZA PARTE
SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Piano regolatore i baresi esultarono. Approvato nel ‘31, ma poi venne la guerra. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Ottobre 2022
Il Consiglio dei Ministri approva il piano regolatore della città vecchia di Bari: con questa notizia si apre «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 13 ottobre 1931. «Allo scopo di dare una sistemazione igienico-edilizia alla parte vecchia della città, rimasta nettamente distinta dai nuovi quartieri», si legge sul quotidiano, «erano stati affidati lo studio e la compilazione del relativo progetto di piano regolatore ad una Commissione di esperti, la quale si è ispirata al concetto di riallacciare il vecchio quartiere con la parte più moderna dell’abitato, di valorizzare i monumenti e il loro caratteristico ambiente edilizio e di migliorare le condizioni igienico-sociali della zona».
Si tratta del “Piano regolatore e diradamento edilizio della città vecchia” redatto da Concezio Petrucci, riprodotto nella sua integrità nelle pagine interne della «Gazzetta», che segue i numerosi tentativi bocciati negli anni precedenti dalla Commissione edilizia dell’Amministrazione comunale e dalla Sovrintendenza ai Monumenti. Il progetto di Forcignanò e Palmiotto, datato 1926, prevedeva in particolare la quasi totale distruzione dell’antico abitato, fatta eccezione per il Castello, la Cattedrale, San Nicola e il complesso di San Pietro, incastonati all’interno di una rigida scacchiera, che richiamava la configurazione del borgo nuovo. Petrucci, docente di Edilizia urbana ed arte dei giardini alla Scuola di Architettura di Firenze, è stato chiamato da Araldo di Crollalanza, ministro dei Lavori Pubblici ed ex podestà di Bari, a dirigere la Sezione Edilizia del Comune e a risolvere il problema del collegamento delle due anime della città.
«Non è completamente ingiustificato il detto che il corso Vittorio Emanuele segna quasi il confine di due mondi e di due civiltà. Non v’è dunque chi non veda la necessità di riavvicinare questi due mondi, stabilendo tra loro più armonici rapporti. E ciò bisogna fare senza togliere all’antico le sue buone caratteristiche, mettendo anzi in evidenza i suoi aspetti più suggestivi, migliorando le condizioni di vita e valorizzandone i monumenti». Annuncia trionfante il cronista della «Gazzetta»: «Il problema del risanamento della città vecchia, i cui studi furono iniziati sin dal 1852, può finalmente considerarsi integralmente e definitivamente risolto».
Il piano Petrucci, dunque, prevede la realizzazione di due grandi arterie: un prolungamento di via Vittorio Veneto – l’attuale via Sparano – verso il porto nuovo e una strada trasversale tra il porto vecchio ed il Castello. L’attuazione del piano di diradamento, a causa delle difficoltà economiche del Comune e al successivo scoppio della guerra, non verrà mai portata a compimento.
Amarcord Fiera: quella fiaba perduta ci apriva al mondo (e poi di nuovo paesani). La Fiera del Levante era per noi pugliesi dell’antichità la globalizzazione portata direttamente a casa nostra. Marcello Veneziani su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Ottobre 2022
La Fiera del Levante era per noi pugliesi dell’antichità la globalizzazione portata direttamente a casa nostra. Tu uscivi di casa, prendevi il motorino, la macchina o la Marozzi, il pullman dell'epoca, sostituito poi dalle Autolinee Scarcia, e andavi a vedere il mondo che si esibiva a due passi dallo Stadio della Vittoria, alle porte di Bari. Un corso breve ma intensivo di sprovincializzazione, un giro del mondo in ottanta stand; e tornavi a casa che ti sentivi uomo di mondo, con l’aria vitazzuola di chi ne ha viste di tutti i colori, facendo un giro a piedi in quel mappamondo virtuale.
Mi ricordo da bambino cos'era per noi di paese quella festa non patronale, non civile, ma giocosa e commerciale, che si teneva sul lungomare a Bari. La gioia di andare a Bari, e di varcare la Porta d'Oriente delle Meraviglie, e visitare tutti i desideri. Il paese dei balocchi. L’invidia per chi riusciva ad accaparrarsi il biglietto gratis o aveva comunque il privilegio dell'ingresso libero per via di parenti o conoscenti. Gli apprensivi che già cominciavano a comprare roba prima di entrare nella fiera dai vu'cumprà del posto; e s'incrociavano con i pentiti che insoddisfatti degli scarsi acquisti fatti in fiera si rifacevano in extremis, comprando le ultime cose nella corte d'appello dei rivenditori ambulanti.
Ma dentro le fauci della Fiera era tutta una magia, uno spettacolo. Appena varcata la soglia dei cancelli, ti sentivi entrato in un film o in una leggenda, incluso in un mondo festoso; cercavi cappellini, zucchero filato e pop corn – come gli ammericani – per integrarti nella fiction levantina. Persino gli altoparlanti che spacciavano messaggi pubblicitari sembravano introdurti in un mondo favoloso e parallelo, inaccessibile nella vita quotidiana. Ti muovevi seguendo le folle, o se misantropi scansandole, seguendo itinerari alternativi e andando contro corrente. Ma ti muovevi soprattutto sentendo gli odori, perché la fiera era oflattiva. Le merendine Aida avevano un successo strepitoso; deludenti nel sapore, ma l'odore ti stregava, come la catena di montaggio delle merendine. Ma forte era pure l'odore delle patate fritte, dei pop corn, delle mandorle pralinate, dei gelati appena sfornati. Obbligato era il pellegrinaggio al padiglione della Germania per accaparrarsi il sontuoso panino col wurstel, senape e crauti.
Poi t'imboscavi nelle nazioni esotiche, viaggiavi dai Caraibi all'India, passando per l'Africa e per la Russia con le sue matrioske. C'erano nazioni affollate e altre desolate, anche sfigate. Non mancava la fiera dei luoghi comuni: la Svizzera con gli orologi a cucù e la cioccolata, l'Olanda coi tulipani e gli zoccoli, la Francia coi formaggi e la coppa di champagne, il Giappone coi transistor e le macchine fotografiche, la Spagna coi tori, l'Egitto coi cammelli, il Brasile col caffè. Non c'era ancora la Colombia con la droga, ma si sentivano le prime sniffate. Ricordo il quartiere dei trattori e degli attrezzi agricoli che ti facevano sentire nei documentari agricoli dell'Unione Sovietica. E poi le novità tecnologiche, e tutti quegli attrezzi che tritavano carote e ortaggi e la gente che stava a sentire i piazzisti e gli imbonitori come se fossero predicatori e narratori. Benché inventata sotto il regime fascista, voluta da don Araldo di Crollalanza, la Fiera del Levante era per noi una full immersion d'americanizzazione e di mondialismo; e un incentivo al consumismo militante, compulsivo. Quel che faceva più impressione a noi bambini era trovare il riassunto dell'umanità, neri, gialli, nordici, una volta perfino due esquimesi in un finto igloo ed un mezzo Tarzan scappato dalla giungla o da un manicomio. Più qualche bonazza, svedese o brasiliana.
Ma anche nelle case, la Fiera compiva un miracolo a distanza. La televisione che di giorno solitamente dormiva, cominciando i suoi programmi il pomeriggio e finendoli poi in serata, nei giorni della Fiera compiva un prodigio: trasmetteva ogni mattina film vecchi, soprattutto americani. Era tra le cause più rilevanti di fruscia o assenteismo sociale (a scuola si andava solo il 1 ottobre, a Fiera finita). Poi quando chiudeva i battenti, ci riscoprivamo paesani, baresi, pugliesi, mangiatori di cozze pelose. E ci chiedevamo come fosse possibile che tutto quel bendidio sparisse da un giorno all'altro, e finita la fiaba felliniana, restasse solo un cancello e un vuoto immenso al posto di quel mondo alternativo. La Fiera era il sogno collettivo di fine estate. Madò che sogno.
La «prima volta» della Fiera del Levante. L’editoriale sulla «Gazzetta» del 1930. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Agosto 2022
È il 31 agosto 1930: mancano pochi giorni all’inaugurazione della prima edizione della Fiera del Levante. Su «La Gazzetta del Mezzogiorno» firma l’editoriale, intriso di retorica nazionalista e fascista, Leonardo D’Addabbo, deputato ed ex segretario della Federazione provinciale del Pnf. «Il recinto della Fiera in questi giorni è un immenso risonante cantiere. L’opera è quasi a compimento. Mille, duemila artieri di Bari e provincia lavorano incessantemente di giorno e di notte in un ultimo fervore per presentare al Sovrano la nuova creatura, espressione genuina della Bari di Mussolini.
Questa del Levante non è una delle tante fiere, non rappresenterà il solito centro di affari e del mondo moderno meccanico e industriale; ma sarà un centro nazionale di volontà soprattutto: un organismo propulsore di attività. Fiera non so del deteminarismo economico, ma del volontarismo. La Fiera dell’economia corporativa: la Fiera dell’avvenire». Obiettivo della manifestazione, il cui progetto iniziale risaliva ai primi del Novecento, era avviare scambi commerciali col vicino Oriente, compito che solo Bari, per la sua posizione strategica, poteva assolvere.
«Costruita sul mare, quest’opera di pace e di civiltà corona gli sforzi compiuti in Bari e riallaccerà con vincoli più solidali la Patria nostra al vicino Oriente. È un prodigio! A Bari di incanto è sorto un nuovo quartiere. Attrezzatura moderna completa, secondo la linea unitaria armonica, curata nei minimi dettagli con passione filiale e con intelligenza pugliese», continua D’Addabbo.
La campionaria barese fu inaugurata il 6 settembre 1930 alla presenza del re Vittorio Emanuele III.
Il successo delle prime dieci edizioni della Fiera – che tuttavia fu incrinato dalla guerra d’Etiopia e dalla decisione di alcuni Stati africani di disertare la campionaria barese – ebbe ripercussioni positive su tutto l’ambiente economico pugliese: anno dopo anno la Fiera vedeva crescere gli espositori italiani e stranieri, aumentava il numero dei padiglioni ed estendeva l’area del suo quartiere. Aprendosi alle nazioni d’Oriente, la campionaria finì per rappresentare una smentita della politica ufficiale del regime, incline al protezionismo economico più che ai liberi scambi internazionali. Dopo lo scoppio della guerra gran parte del quartiere fieristico fu occupato dalle autorità militari: l’area si trasformò in un vastissimo deposito di materiale bellico e fu requisito, nel settembre 1943, dalle truppe alleate. Dopo la guerra, ridotta a un campo di macerie, la Fiera fu rimessa in piedi solo nel settembre 1947 e poté dare un nuovo avvio alla sua storia.
La Fiera «risorge», Bari è in fermento. La XII edizione dopo la 2ª Guerra mondiale. Annabella De Robertis il 04 Settembre 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.
È il 4 settembre 1948: la città di Bari è in fermento per l’inaugurazione della XII edizione della Fiera del Levante. Si tratta di un appuntamento molto atteso, che segna l’avvio definitivo di una nuova stagione di scambi commerciali e culturali: soltanto l’anno precedente la campionaria era stata rimessa in piedi in soli 87 giorni dopo sei anni di interruzione a causa degli eventi bellici. «Oggi l’apertura della Fiera significa la riconferma che quel miracolo era necessario, che la tenacia degli organizzatori e delle categorie economiche baresi avevano saputo guardare da lontano con la tradizionale accortezza dei naviganti e la sagacia degli imprenditori», si legge su «La Gazzetta del Mezzogiorno». Turchia, Jugoslavia, Ungheria, Polonia, Danimarca e Olanda hanno annunciato mesi prima la loro presenza alla campionaria barese, sebbene il problema irrisolto del porto di Bari – non ancora integralmente funzionante dopo aver subito ingenti danni tra il 1943 e il 1945 – impedisca nei fatti un ripristino degli antichi traffici internazionali «che formarono le fortune di Bari mercantile».
La partecipazione dei paesi dell’Oriente europeo che si trovano al di là della cortina di ferro pone la campionaria barese sullo stesso livello di quella milanese. La Fiera si ripropone come centro propulsore dell’economia del Mezzogiorno e al suo interno si anima lo spazio di riflessione sui temi riguardanti l’industrializzazione del Sud e l’utilizzo delle risorse americane. In quei mesi del ‘48, infatti, è entrato nel vivo il dibattito sull’attuazione del Piano Marshall, il piano di aiuti per la ricostruzione europea promosso dagli Stati Uniti. Molte volte sulle pagine de «La Gazzetta del Mezzogiorno» intellettuali, meridionalisti, esperti e industriali sottolineano l’importanza della Fiera per la ripresa dei traffici: la riattivazione degli scambi con l’estero è la condizione essenziale, insieme agli aiuti americani, per la ricostruzione interna del Paese, dal momento che la produzione è in quel periodo priva di mercati di sbocco.
«L’Europa, pur divisa in due blocchi non soltanto economici, mostra già di non poter fare a meno della naturale interdipendenza che è stata sempre alla base dei suoi scambi. Da questa Fiera si leva oggi la voce dell’Italia che vuol tornare a vivere in un mondo concorde, ma soprattutto quella del Mezzogiorno che attraverso le tradizioni mercantili, antiche e recenti, dei suoi centri più vivi, vuol tornare a reinserirsi nelle grandi correnti dei traffici internazionali, dai quali si attende la spinta più attiva al suo progresso», scrive Arnaldo di Nardi in prima pagina.
Dalla Fiera si alza la voce per la pace. La prima pagina della «Gazzetta del Mezzogiorno» del 5 settembre del 1948
Il 5 settembre del 1948 sulla «Gazzetta»: la Campionaria del Levante aperta dal 5 al 21. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Settembre 2022.
«Da Bari si leva la voce dell’Italia per la pace e un lavoro fecondo» titola La Gazzetta del Mezzogiorno del 5 settembre 1948. Il giorno prima si è aperta la XII edizione della Fiera del Levante, alla presenza dell’on. Giovanni Porzio, vicepresidente del Consiglio dei Ministri: «Illustre avvocato e uomo politico, figura eminente del Mezzogiorno», è il ritratto del senatore. La visita alla campionaria diretta da Leonardo Azzarita, presidente dell’Ente Fiera a partire dal 1947, è iniziata dai padiglioni della Galleria delle Nazioni, in cui è allestita la mostra sul piano Marshall e sull’attività svolta dall’America a favore dell’economia europea.
«Ieri mattina si aveva più che mai l’impressione che Bari e la sua Fiera sono veramente una cosa sola, hanno un’anima sola, ed anche se la Fiera incontra intorno a sé soltanto una volta l’anno l’attenzione degli italiani e degli stranieri, la città l’ha sempre amorosamente nel suo seno questa sua creatura che presenta al mondo come la manifestazione più viva della sua laboriosità e della sua iniziativa». È presente anche il sottosegretario agli Esteri Aldo Moro, il quale, visitata la campionaria, dichiara: «Oggi la Fiera si presenta magnificamente, più che mai ricca nella partecipazione italiana e straniera. È una grande Fiera internazionale. [...] La ripresa dei traffici ed il loro sviluppo non sono soltanto un contributo alla vita economica del mondo e al benessere di tutti i popoli. Essi dimostrano che su questa base i popoli facilmente si intendono, tanto che dalla reciproca comprensione ed integrazione nascerà quella pace duratura che tutti cercano ed alla quale il governo italiano intende dare il suo cordiale contributo».
C’è grande entusiasmo nel capoluogo pugliese: «La città che già da alcuni giorni aveva cominciato a respirare aria di Fiera, ieri pulsava di una vita quanto mai intensa. Dalle prime ore della mattina e sino a tarda notte a diecine i grossi autocarri si succedevano per le strade verso la Fiera, a scaricare gli ultimi arrivi delle merci che dovranno figurare nelle varie esposizioni. Congestionati gli scali ferroviari e le agenzie di autotrasporti, affollati i marciapiedi della stazione, dalla quale a frequenti intervalli venivano fuori i forestieri, gente d’affari e turisti, richiamati a Bari dal grande avvenimento». I cancelli della Fiera resteranno aperti fino al 21 settembre. «Come per una rapida trasformazione Bari ha preso l’aspetto della città cosmopolita, ha ritrovato la sua vera fisionomia del grande centro mercantile», si legge sulla Gazzetta.
Fiera del Levante, una nascita «reale». La Gazzetta del Mezzogiorno di 92 anni fa. Sulla «Gazzetta» del 6 settembre 1930 la Prima edizione della Campionaria con Vittorio Emanuele. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Settembre 2022.
«Il Re ha inaugurato solennemente la Fiera del Levante» è il titolo che compare in prima pagina sull’edizione straordinaria della sera de «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 6 settembre 1930. Dopo la sfilata per le vie principali della città, Vittorio Emanuele III è stato ricevuto in Prefettura e dal balcone del palazzo del Governo si è affacciato per salutare la folla acclamante: nella rotonda della Fiera si è poi tenuta la solenne cerimonia della «consacrazione regale».
All’apertura degli ingressi monumentali una grande folla si è riversata con entusiasmo e curiosità all’interno. I cronisti della «Gazzetta» riportano ogni dettaglio della cerimonia e guidano i lettori alla scoperta del quartiere fieristico. Subito ci si imbatte nel Palazzo della Puglia: «Il grandioso edifizio, che è stato ideato dall’architetto comm. Corradini e rappresenta il punto di partenza per tutta la geniale ideazione planimetrica della Fiera, è stato costruito in poco più di tre mesi per merito dell’ing. Rizzi che, coadiuvato dai suoi giovani collaboratori, ha vinto le difficoltà dipendenti dalla scioltezza del terreno di fondazione costruendo colossali piattaforme di sostegno in cemento armato».
L’itinerario continua con la mostra dell’Acquedotto Pugliese, il padiglione del Banco di Napoli, opera dell’architetto Dioguardi, e quello delle Assicurazioni Generali ideato dall’arch. Farcignano. Si prosegue con la mostra dell’abbigliamento e quella ortofrutticola, il padiglione delle macchine agricole, dei generi alimentari, dell’artigianato, dell’arredamento, dell’edilizia.
Saverio Dioguardi, si apprende dal quotidiano, ha firmato il progetto dell’immenso Salone dell’Automobile; si arriva poi al Palazzo della Musica, ideato dall’arch. Signori di Milano. Il Salone dell’Aviazione è una costruzione in legno e acciaio «con intonazione adeguata alla fattura audace e leggera che contraddistingue gli strumenti di volo che nel padiglione sono ospitati».
La Fiera ospita anche una Mostra del turismo pugliese. Grande attenzione merita, naturalmente, il Padiglione della “Gazzetta del Mezzogiorno”, «che l’ing. Rizzi ha concepito dandogli una forma architettonica intonata ad una visione modernistica delle masse e dei volumi e contestandola di spigoli angolari policromi e di una cupola prismatica luminosa e multicolore». Nel piazzale Roma vi è, infine, la monumentale fontana dell’Acquedotto: da qui si arriva ai padiglioni delle nazioni estere, a cui l’ing. Minale di Milano ha donato elementi di sapore orientale. Comincia, così, novantadue anni fa, la lunga storia della Fiera del Levante.
Fiera del Levante 1948 tra industria e rinascita. Piano Marshall e ricostruzione: gli incontri. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Settembre 2022.
«Zellerbach apre il Congresso Erp»: con questa notizia titola in prima pagina La Gazzetta del Mezzogiorno del 15 settembre 1948. I grandi nomi del sistema finanziario europeo si riuniscono a Bari per partecipare a un incontro organizzato nell’ambito della XII edizione della Fiera del Levante. In quei mesi del ‘48, infatti, è entrato nel vivo il dibattito sull’attuazione del Piano Marshall, il piano di aiuti per la ricostruzione europea promosso dagli Stati Uniti.
Il convegno, dunque, è concepito come luogo di discussione sulle modalità di utilizzo dei fondi americani nel Sud Italia e sull’opportunità che l’European recovery program (Erp) può costituire per una definitiva risoluzione della questione meridionale.
Il vicepresidente della Fiera del Levante, Vittorio Emanuele Atlante, ha incaricato Michele Cifarelli, segretario regionale del Partito repubblicano, dell’organizzazione scientifica della manifestazione. La Fiera si propone, pertanto, come centro propulsore dell’economia del Mezzogiorno e al suo interno si anima lo spazio di riflessione sui temi riguardanti l’industrializzazione del Sud e l’utilizzo delle risorse americane.
Il Congresso si è aperto – si legge nella cronaca della Gazzetta con il saluto del sindaco di Bari Vitantonio Di Cagno al ministro James D. Zellerbach, capo della Missione americana in Italia per la Cooperazione economica: il Sindaco ha ricordato il gran numero di emigrati italiani, in particolar modo meridionali, presenti negli Stati Uniti, i quali sono diventati «un motivo vivente per dare a questo Mezzogiorno d’Italia una vita economica più intensa e quindi maggiori possibilità di lavoro». Zellerbach è giunto il giorno prima a Bari insieme al consigliere per gli affari economici dell’Ambasciata degli Stati Uniti Walmsley e ad altri sette esperti e ha annunciato ai giornalisti: «Grande sarà il contributo che il Congresso potrà recare ad indicare la via per la soluzione delle difficoltà che ostacolano una stabile ripresa nel Mezzogiorno d’Italia, se esso considererà problemi del Meridione non separati dai generali problemi italiani, e questi non scissi dai problemi europei».
Il congresso vedrà coinvolti come relatori, alcuni tra i più noti esperti di questioni agrarie, finanziarie e industriali del Paese e darà un significativo contributo al dibattito sulla ricostruzione post-bellica: nei tre intensi giorni di lavori si affronterà per la prima volta il tema dell’industrializzazione di un’area che, fino a quel momento, aveva visto nell’agricoltura la propria unica risorsa.
Il profumo di Puglia è nei vicoletti: il racconto di un flâneur. Che meraviglia essere «flâneur» in Puglia. Il Romanico t’abbraccia da ogni parte, in un gioco composito di spigoli, bifore, cornicioni, rosoni, ballatoi, ippogrifi, leoni lucidi di grasso secolare. Claudio Mezzina su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Agosto 2022
Verde, azzurro, fili d’oro e di nichel su scogli riluccicanti, piscine comunali senza cloro, piedi impanati a guisa di pollo, turchese, nuvole alla Constable, calce viva, portoni cobalto, carta indurita dal sale, spiegazzata, bimbi che passano e t’impataccano d’acqua di braccioli e di chiasso, persiane di amazzonite, siesta, panama bianchi, pinocchietti, pelle arsa, schiene sinuose, monoliti proteici ed eteroliti «pasticciottici», tentacoli crudi, birre bisbiglianti, grondaie di sudore piene di melanina e «Bilbao»: estate.
Maledetta estate. Pietosa estate.
Io «ipersudo», per cui agosto è un nemico crudele. Pur sempre il migliore dei miei nemici.
Una canzone strilla: «che figata andare al mare quando gli altri lavorano…». È un po’ perfida. Tiro fuori dalla tasca, allora, le mie cuffie da quattro scellini e mezzo e comincio a camminare con Duke Ellington nelle orecchie. Ho lasciato i miei amici in spiaggia, tra un tressette e un goccio di cocomero e, con la camicia inzaccherata di salsedine, mi metto a scivolare, come Fred Astaire, sul selciato di chianche della città vecchia.
Qui il caldo è più clemente e, i miei occhi, fatti più dolci lontani dal barbaglio, cominciano a soffermarsi sulle cose: è tutto calcareo, anche il naso «triste da italiano allegro» dei signori, tufo giallognolo ricolmo di fossili, il tufo meno ottuso che abbia mai visto.
Mi becco una doccia, che non fa mai male, causa signora che innaffiava gerani, fiori di cera e basilico: «mi scusi, mi scusi… Sono mortificata! La vulit ‘na tazzuliell ‘e cafè? Salit! Salit!».
Donna Ernesta, di Salerno, una domina sulla settantina, luminosa e riccioluta, scende ogni anno giù in Puglia, controtendente: «sapit, accà, ma mo’ parl italian ca m’so scucciat… Qua il vento è così indulgente, i vicini dolci come il latte di mandorla, le parole lambiscono… E, soprattutto, posso permettermi di stare sola, in santa pace, col mio bel libro di Tolstoj, le mie piantine che mi consigliano senza interesse e mio marito Massimo. Ci godiamo la vecchiaia! Sapit… Io ho fatto, per una vita, la gioielliera ma avrei voluto fare l’università! Lettere! Come mi piace stare sulla veranda, col mare che mi scruta il respiro e mi tiene compagnia, a leggere… E voi, voi che fate? Chi siete? Mi sembrate nu brav waglion…».
Le racconto bonariamente di me, mentre bevo uno dei caffè più densi e ammutolenti che abbia mai bevuto: «Sono Claudio signora, uno dei tanti esistenti sulla terra, Claudio come Baglioni, Claudio come Villa ma se doveste volermi associare ad un imperatore, ve ne prego, a Claudio il Gotico!». La signora scoppia in una risata roboante. Scopro che è una grande appassionata di storia romana (mi racconta che casa sua, su al sud, infatti, si erge su dei resti del I secolo d.c.) e mi dice: «battute di un certo spessore, fate eh!» mentre io tento di spiegarle che l’unico spessore che mi contraddistingue è quello della mia pancia anti-passerella marina.
Mi congedo di lì a poco per non disturbare oltre e lei decide di regalarmi, ancora chiedendo perdòno per un peccato già assolto in partenza, un vassoietto di sfogliatelle che s’era portata giù. Che persone straordinarie i campani.
Riprendo a camminare. Che meraviglia essere «flâneur» in Puglia. Il Romanico t’abbraccia da ogni parte, in un gioco composito di spigoli, bifore, cornicioni, rosoni, ballatoi, ippogrifi, leoni lucidi di grasso secolare: un rinascimento opacizzato. Ci si imbatte in tele seicentesche, reti da pesca, candele di porpora, ossari di gente buona, Pino Pascali, persone valorose, mosaici narranti, abbazie diroccate, cannoni di decorazione, come dovrebbero essere tutti i pezzi da artiglieria, chiesette barocche, pulpiti settecenteschi e signore rococò. Sì, rococò, bellissime, sedute su sedie di legno e spago, seggiole di vimini, «ciane» le definiva fiorentinamente Campana, a ciancicare: «u chenusc a cur, a ci appartën?» – «sacc… Però ten ne facc ca nen m cnveng…», con quelle mani nerborute, caravaggesche, «strascinate», sempre risaltate da qualche oro antico, la permanente, lo sguardo astuto, le labbra pungenti e quei vestitini lunghi a fiori che farebbero invidia anche a Marilyn Monroe.
Il sole apre i palazzi in due come fossero albicocche e mette in scena l’animo umano con una tale franchezza… Mi fermo su di una scalinata e, con l’arsura che mi scava dentro, scribacchino, prendo appunti. I cistercensi avevano tutto chiaro.
Sono un po’ malinconico. Francesca è coi marmocchi a San Gregorio del Matese e mi manca talmente la sua voce che vado a recuperare, su WhatsApp, audio già ascoltati pur di sentirla vicina. Lì un latitante sarebbe al sicuro: non piglia manco l’antenna della tv. Non vedo l’ora che torni. Ci sono le stelle da vedere. Che poi è una frase buffa… Come se le stelle d’inverno non pagassero la bolletta (coi prezzi di oggi, porelle, le capirei) e fossero impervie all’occhio.
D’inverno sono più belle, secondo me, come il mare. Sono solo tue. È solo tuo quando, prepotente, ti nebulizza l’aria dei pesci. In estate, di particolare, c’è solo la sfida di tuffi annuale del 10-11-12 agosto: «Capriole in atmosfera». Un evento curato magistralmente dalla società antinquinamento luminoso «Sciame meteorico». Una bella iniziativa. Abbiamo, noi due, un posto tutto nostro dove vederle: c’è una caletta, fra Giovinazzo e Santo Spirito, dimenticata anche dagli ossi di seppia. Lì, lontani dal baccano dei gelatai, degli spritz, del reggaeton, ci godiamo il profumo delle stelle, che dal borgo non si sente.
Concludo la mia «passiata» sotto l’arco quadrupede di Traiano, lì accendo uno zampirone di tabacco che mi protegge, per qualche minuto, dalle zanzare e osservo: «acchjemendo» (occhio + mente: «squadro») i passanti, sgocciolanti come dipinti di Dalì ma felicissimi, felici di essere pugliesi, felici di esserlo anche solo pro tempore. Qualcuno ha fra i denti le orme inconfondibili della focaccia, altri giocano a nascondino con gli impegni che, così ingenti e senza salario minimo, non meritano, non meritiamo.
In fondo anche al sud, terra della lentezza, elogio della quiete, mosaico di popoli, sono sicuro che se non dovessimo faremmo comunque, tesi costantemente, da secoli, a dare il nostro contributo a questa fetta di globo, perché ci va. Siamo belli noi al sud, mai languidi. Sono belli tutti al sud perché, immersi in questa cartolina che dovrebbe essere anche sostanza, perché la materia prima c’è, eccome, l’anima si gonfia e diventa invincibile. Terra del cuore. Terra di verità. Unica terra possibile.
Valentina Iorio per corriere.it il 3 agosto 2022.
Il mare più pulito d’Italia si trova in Puglia, al secondo posto c’è la Sardegna e al terzo la Toscana. A stilare la classifica è il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, sulla base del monitoraggio effettuato dal personale delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell’ambiente, gli enti pubblici che, insieme a Ispra, formano il sistema.
Arpa Puglia: «Controlli periodici»
«Ogni anno le acque di balneazione vengono sottoposte a periodici controlli per garantire la salute dei bagnanti — spiega Vito Bruno, direttore generale di Arpa Puglia — e siamo lieti di constatare che anche quest’anno la Puglia è prima in Italia per la qualità delle acque balneabili. Non solo. È prima anche per il numero di campioni analizzati in laboratorio e seconda solo per il numero di punti monitorati, dopo la Sicilia che gode di un litorale molto più esteso».
La classifica
Anche quest’anno sono molte le regioni in cui oltre il 90% di acque è considerato eccellente, sommando anche le buone, si arriva a livello nazionale al 94%. In particolare la Puglia ha il 99% di acque eccellenti, la Sardegna il 97,6% e la Toscana il 96%. Seguono Emilia-Romagna con il 93,8% di acque eccellenti, Veneto con il 91,4%, Friuli- Venezia Giulia con il 90,9%. Tra le regioni che hanno oltre l’80% di acque eccellenti ci sono: Marche (89,8%) Basilicata (86,7%), Liguria (86,3%) , Calabria (85,5%), Lazio (84,1%), Molise (83,3%), Campania (82,8%) e Sicilia (80,6%). In fondo alla classifica c’è l’Abruzzo con il 71,9%.
Come vengono fatte le analisi
In totale ogni anno vengono effettuate le analisi su circa 30.000 campioni prelevati nei mari e nei laghi italiani, spiega il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente. I dati del quadriennio 2018-2021, pubblicati sui siti delle diverse Arpa/Appa, sul portale acque del Ministero della Salute e dalla Agenzia Europea dell’ambiente, che ha realizzato anche una mappa interattiva, hanno portato al giudizio che resterà in vigore per tutta la stagione balneare 2022: da scarso (meno del 2% dei casi) a eccellente (89%).
Con i controlli della balneazione vengono monitorare anche le alghe potenzialmente tossiche, la cui presenza è correlata al riscaldamento globale. I controlli sulle acque di balneazione riguardano anche laghi e (in pochi casi) fiumi, dove alcune regioni raggiungono il 100% di acque eccellenti.
Puglia prima in Italia per la qualità delle acque di balneazione, eccellenti al 99%. L'esito del monitoraggio Snpa e Arpa Puglia. La regione è seguita da Sardegna (97,6%) e Toscana (96%). Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Agosto 2022.
La Puglia si conferma prima in Italia per l’eccellenza delle acque di balneazione, seguita da Sardegna e Toscana: i dati rilevati da Snpa e Arpa Puglia. Le acque di balneazione sono eccellenti al 99%, seguita da Sardegna (97,6%) e Toscana (96%).
È quanto emerge dal lavoro di controllo e monitoraggio condotto dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente la rete che coordina le varie Agenzie regionali per l’ambiente presenti sul territorio nazionale tra cui l’Arpa Puglia. Una attività disciplinata dalla direttiva comunitaria 2006/7/CE, che stabilisce le regole della classificazione in tutta la Comunità Europea delle acque di balneazione nelle quattro classi di qualità: eccellente, buona, sufficiente e scarsa.
“Accogliamo con soddisfazione gli esiti del monitoraggio delle acque di balneazione pugliesi – ha detto l’assessore regionale all’Ambiente, Anna Grazia Maraschio -, condotto in maniera efficiente e preziosa da Arpa Puglia, riferimento per le politiche ambientali della Regione Puglia, risultate "eccellenti" per il secondo anno consecutivo e prime in Italia per qualità. Siamo consapevoli che questi risultati non si raggiungono per caso o per fortunate congiunture, ma sono frutto di anni di programmazione ed attuazione, in piena collaborazione con tutti gli Enti coinvolti: da Acquedotto Pugliese ad Autorità Idrica Pugliese fino ad Arpa che non smetteremo mai di ringraziare per professionalità ed abnegazione nella tutela della nostra Regione. Siamo altrettanto consapevoli però che la tutela e la valorizzazione delle risorsa idrica non possono conoscere punti di arrivo nella politica regionale ma sono il faro della nostra missione per la nostra terra”.
“Ogni anno le acque di balneazione vengono sottoposte a periodici controlli per garantire la salute dei bagnanti – spiega Vito Bruno, direttore generale di Arpa Puglia - . Siamo lieti di constatare che anche quest’anno la Puglia è prima in Italia per la qualità delle acque balneabili. Non solo. È prima anche per il numero di campioni analizzati in laboratorio (4056, ndr), e seconda solo per il numero di punti monitorati (676, ndr), dopo la Sicilia che gode di un litorale molto più esteso”.
A livello nazionale anche quest’anno sono numerose le regioni in cui oltre il 90% di acque è nella classe eccellente; sommando anche le buone, si arriva a livello nazionale al 94%. I controlli sulle acque di balneazione riguardano anche laghi e (in pochi casi) fiumi, dove alcune regioni raggiungono il 100% di acque eccellenti.
Lungo i 1000 km circa di costa pugliese la Regione Puglia ha individuato, ai sensi dell’attuale normativa di riferimento, ben 676 “acque” (tratti) destinate alla balneazione, che corrispondono ad un totale lineare pari a circa 800 km: in particolare sono state individuate n. 254 acque di balneazione in provincia di Foggia, n. 46 in provincia di Bat, n. 78 in provincia di Bari, n. 88 in provincia di Brindisi, n. 139 in provincia di Lecce e n. 71 in provincia di Taranto (gli elenchi di tali acque, distinti per provincia, sono riportati nelle delibere di Giunta regionale dal n. 2465 al n. 2470 del 16 Novembre 2010 e s.m.i.). Arpa Puglia effettua il monitoraggio delle acque di balneazione regionali controllandone la qualità. Durante il periodo stagionale di monitoraggio in ogni “punto stazione” sono misurati in campo diversi parametri meteo-marini, mentre in laboratorio sono analizzati i campioni per la determinazione della carica batterica, calcolata rispetto a valori soglia di due parametri microbiologici: “Enterococchi intestinali” ed “Escherichia coli”, indicatori di inquinamento di origine fecale; in relazione ai campioni raccolti, si stima che ogni anno l’Agenzia regionale per la prevenzione e la protezione dell’ambiente effettui circa 8.500 determinazioni analitiche di laboratorio.
Per quanto riguarda la Puglia, l’1% di acque di balneazione in classe di qualità “non eccellente” riguarda i monitoraggi dei seguenti siti: tre nel territorio di Lesina (classificazione ‘Buona’ per il canale La Fara, ‘Sufficiente’ per la Foce De Pilla e ‘Buona’ per Foce del Canale La Fara), tre di San Nicandro Garganico (classificazione ‘Buona’ per Fiume Lauro e Foce Zanella, ‘Sufficiente’ per Foce Fiume Lauro) e uno di Manfredonia (classificazione ‘Sufficiente’ per il tratto in prossimità della Foce del Fiume Candelaro). Si fa comunque notare che dei sette siti sopra descritti solo uno riguarda le acque marino-costiere (la foce del fiume Candelaro), gli altri sei fanno invece riferimento ad acque di transizione (nella fattispecie la laguna di Lesina).
Tutti i dati sono comunque disponibili sul sito istituzionale di Arpa Puglia dove è possibile, utilizzando una mappa interattiva, visualizzare la localizzazione geografica delle acque di balneazione nonché dei singoli punti di monitoraggio, a cui sono associati i risultati analitici più aggiornati; alla stessa pagina web sono inoltre riportati i dati, in forma tabellare e sotto forma di bollettino mensile, anche per i periodi precedenti a quello visualizzato. Proprio in virtù del monitoraggio effettuato, Arpa Puglia ha in disponibilità e elabora una notevole mole di dati, che consente di fornire un quadro sulla situazione annuale e sulla serie storica (quadriennale) a proposito dello stato di qualità delle acque di balneazione pugliesi.
Puglia regina del turismo, ma per gli inglesi è tra le mete più costose al mondo. La classifica del Post Office britannico che fa dire addio ai turisti. Secondo il report dell’agenzia britannica, la regione si piazza appena due posti dopo New York e uno da Vancouver. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Agosto 2022.
La Puglia indossa la corona di regina del turismo, ma allo stesso tempo conquista un primato particolare: secondo l'agenzia britannica del Post Office Travel Money, il Tacco d'Italia è tra le mete più costose al mondo. A far riflettere il terzo settore sono stati i dati di luglio, con un calo rispetto alle previsioni del 30% circa, ma nelle ultime settimane, gli sfoghi dei turisti sul caro prezzi sono diventati virali sul web e hanno puntato i riflettori sull'aumento costante dei prezzi a fronte di servizi sempre più scarsi e inadeguati.
Secondo quanto riportato dall'agenzia inglese (e come ricostruito dal Corriere della Sera) in questa classifica vengono omologate le varie mete delle vacanze in base a un carrello della spesa che comprende otto voci, tra beni e servizi, uguali per tutte: un caffè, il ristorante, una birra, la crema solare, il vino, una lattina di coca cola, una bottiglia d’acqua.
Stando a questa classifica la meta più cara è Reykjavik, la capitale dell’Islanda media di 188,4 euro. Seguono le Barbados, Dubai e Caraibi, e ai margini della top 10 ci sono New York e Vancouver. Poco sotto, la Puglia, decima con una spesa media singola di 126.25 euro, dietro di due posti rispetto a Orlando, in Florida, dove si spende di meno.
La pandemia che ha bloccato le attività turistiche assottigliando i profitti delle imprese non giustifica - secondo gli utenti - in Puglia degli aumenti così spropositati e non giustificati come se gli stipendi degli italiani e degli stranieri fossero nel frattempo stati adeguati a questi incrementi nei prezzi. La Puglia non compare infatti tra le 19 località al mare più convenienti d’Europa. L'agenzia Post Office Travel Money le ha elencate in base ai prezzi medi giornalieri per due persone, pernottamenti, pasti e prodotti essenziali per il viaggio. Così nella classifica stilata la prima meta – e quindi la più economica – è Sunny Beach, sul mar Nero in Bulgaria, dove due persone spendono 44 euro al giorno, poi Algarve, Costa del Sol, Marmaris, Cipro, la prima a superare i 100 euro è Majorca (105), Sorrento è 18esima con 140 euro.
Un primato che non giova affatto all'immagine di regina del turismo che la regione si è costruita negli anni. Un paradosso visto che secondo i dati odierni il mare pugliese è uno dei più belli e più "sani" d'Italia. Che sia l'inizio di una controtendenza per il turismo internazionale verso il Salento, la Valle d'Itria e il Gargano? Ai turisti l'ardua sentenza.
L'hotel a Vieste non era come nelle foto su internet: giudice dà ragione a turista, sarà rimborsato. L'uomo, 44 anni, nel 2018 aveva sborsato in anticipo 2.250 euro per alcuni giorni di relax e benessere. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Agosto 2022
Piscina e palestra dell’hotel sono diverse dalle immagini pubblicate sul sito di prenotazioni, così il turista milanese decide di fare ricorso e il giudice di pace gli dà ragione e la vacanza in Puglia gli viene rimborsata.
E’ la vicenda, riportata oggi dal Corriere della Sera, di un turista milanese che, arrivato in Puglia nel giugno del 2018 nell’hotel che aveva prenotato sulla piattaforma Booking, ha trovato al posto di una piscina una vasca poco profonda e nella palestra un solo attrezzo e un tapis roulant sotto il sole. Così l'uomo, 44 anni, che aveva sborsato in anticipo 2.250 euro per alcuni giorni di relax e benessere a Vieste, nel Foggiano, ha annunciato al titolare dell’hotel la sua intenzione di andarsene e l’albergatore gli ha risposto che avrebbe potuto cambiare aria ma così facendo avrebbe perso i suoi soldi. Il rimborso sarebbe arrivato infatti solo in caso di nuova prenotazione della sua camera, nel frattempo rimessa su Booking.
Il turista ha rifiutato l’offerta della piattaforma di prenotazioni, che ha messo sul piatto 100 euro, e ha deciso di appellarsi alla magistratura per riavere il suo denaro e dopo un contenzioso di tre anni, il giudice di pace di Milano Alexia Dulcetta ha accolto il ricorso e ordinato alla struttura di rimborsare i sette giorni già pagati e non goduti, oltre alle spese processuali.
ACCADDE OGGI. S’insedia in Puglia il nuovo parlamentino. Alle Regionali grande trionfo della Dc. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Luglio 2022.
È il 14 luglio 1970. Su «La Gazzetta del Mezzogiorno» la foto-notizia in prima pagina titola: «Si è insediato il Primo parlamentino di Puglia». La stampa e i lettori devono ancora prendere dimestichezza con il nuovo glossario dedicato alla nuova istituzione regionale. Il 16 maggio 1970, infatti, con circa vent’anni di ritardo dalle prescrizioni della Costituzione, sono nate finalmente le Regioni a Statuto ordinario.
Nel giugno si sono svolte le elezioni per le composizioni dei primi Consigli regionali: in Puglia grande, naturalmente, è stato il trionfo della Dc. La storica foto dello studio di Michele Ficarelli immortala la prima riunione del Consiglio regionale della Puglia nel salone dell’Amministrazione provinciale di Bari. In mancanza di una propria sede ufficiale, le riunioni dell’assemblea regionale, infatti, saranno spesso ospitate nei luoghi istituzionali dei due enti locali già esistenti: il Comune e la Provincia. Passerà ancora un po’ di tempo prima che gli uffici e l’aula consiliare si trasferiscano, rimanendovi per diversi anni, nel palazzo dell’estramurale Capruzzi.
«Cinquanta nomi, cinquanta “presente!”. “La seduta è valida”, ha detto l’avv. Abbadessa, chiamato a presiederla come consigliere più anziano. Si è avviata, così con solennità nell’aula della Provincia di Bari (sovraffollata e accomodata alla meglio), la vita della regione Puglia», si legge sulla «Gazzetta». Il capogruppo democristiano Matteo Fantasia, anche a nome degli altri gruppi del centrosinistra, ha chiesto la sospensione della riunione, che è stata aggiornata al lunedì successivo: all’ordine del giorno ci sarà la costituzione dell’ufficio di presidenza.
I rappresentanti della Dc, del Psi e del Pri hanno affermato la volontà politica di dare vita ad un governo regionale organico di centrosinistra, «che affronti i problemi pugliesi con programmi che abbiano contenuti avanzati capaci di rinnovare le strutture socio-economiche della Regione». Il primo presidente del Consiglio regionale pugliese sarà il socialista Beniamino Finocchiaro. Sulla «Gazzetta», oltre all’elenco completo dei consiglieri, si riportano le parole commosse del democristiano Abbadessa: «Il 13 luglio è una data non solo indimenticabile per coloro che la vivono, ma storica per la Puglia e per le popolazioni che guardano con fiducia al nuovo Ente. Il Consiglio regionale potrà far valere le sue qualificanti doti di esperienza e di dottrina per rendere la Regione una vera società intermedia tra gli Enti locali e lo Stato, sì da risultare organo di autogoverno popolare, di effettiva sburocratizzazione, di partecipazione della base alla formazione della volontà di Governo».
Lettere anonime e veleni i gialli del processo Sud-Est il caso. Udienza preliminare a carico dei vertici Bnl accusati di bancarotta. La difesa del manager Pignataro: ecco cosa accadde davvero il crac della ferrovia pugliese. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Giugno 2022
Chi scrisse la lettera anonima che innescò l’indagine sui vertici di Bnl? E chi incaricò una società romana di pubbliche relazioni di sondare le intenzioni di voto dei creditori nel concordato di Ferrovie Sud-Est? Martedì, davanti al gup Isabella Valenzi, riprenderà l’udienza preliminare per il secondo filone dell’indagine sul crac Fse, quello che coinvolge l’ex numero uno dell’azienda ferroviaria, Luigi Fiorillo, e 19 persone tra dipendenti e amministratori dell’istituto bancario francese, accusati a vario titolo di concorso in bancarotta. L’uomo chiave della vicenda, il manager Giuseppe Maria Pignataro (all’epoca responsabile dei rapporti con i clienti della pubblica amministrazione), ha depositato una memoria che rilegge i fatti e li avvolge in un alone di mistero: Ferrovie Sud-Est - è la tesi di Pignataro - non era in stato di decozione, eppure fu presentato un concordato preventivo per caricare sui creditori il costo del salvataggio. E Bnl alla fine fu costretta a votare a favore del piano di concordato...
DOPO 17 ANNI. Soldi al partito di Fitto, nessun danno alla Regione Puglia. Per la Corte Appello di Bari, «il finanziamento illecito non alterò elezioni». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Aprile 2022.
L’europarlamentare di Fratelli d’Italia Raffaele Fitto non dovrà risarcire la Regione Puglia per l’illecito finanziamento di 300 mila euro al partito "La Puglia Prima di Tutto" erogato dalla società Tosinvest dell’imprenditore romano Gianpaolo Angelucci. Il reato di illecito finanziamento è stato dichiarato prescritto in sede penale anni fa e risale al 2005, quando Fitto era presidente uscente della Regione, ricandidato. Il «no» al risarcimento lo ha stabilito, 17 anni dopo i fatti, la terza sezione civile della Corte di Appello di Bari, pronunciandosi in sede di rinvio, dopo l’annullamento parziale da parte della Cassazione nel 2017. «A differenza della somma di 200 mila euro (anch’essa erogata da Tosinvest e per la quale vi è già stata condanna al risarcimento, ndr) in cui vi è la prova dell’elemento soggettivo, ossia della consapevolezza da parte di Fitto di ricevere una erogazione per interposta persona - scrivono i giudici - , per le ulteriori erogazioni per 300 mila euro non risultano elementi da cui desumere tale consapevolezza». Nella sentenza i giudici, rigettando il ricorso della Regione, motivano anche la insussistenza di un danno non patrimoniale. La Regione sosteneva che «la violazione delle norme sul finanziamento dei partiti, commessa da Fitto in occasione delle elezioni regionali pugliesi dell’anno 2005, avrebbe alterato le regole della sana competizione democratica tra i partiti e avrebbe arrecato un grave danno sia quale ente destinatario di quelle elezioni, sia quale ente rappresentativo dell’intero elettorato attivo pugliese».
Secondo la Corte di Appello di Bari, però, «manca la prova di tale danno effettivo perché, nonostante il finanziamento illecito, le elezioni regionali del 2005 furono vinte dal candidato del centrosinistra, Nichi Vendola, il quale, facendo riferimento a un partito alquanto marginale ed estremo (Prc), attraverso il metodo innovativo e democratico delle primarie, si affermò nella propria coalizione e sconfisse un candidato certamente autorevole come Fitto, già da 10 anni presidente della Regione, così rendendo evidente il fatto che la sperequazione di mezzi non abbia svolto alcun ruolo inquinante della competizione, e tanto meno del suo risultato elettorale». «Risulta, peraltro, - aggiungono i giudici - che i pagamenti ricevuti dal partito "La Puglia prima di tutto", da parte delle società del gruppo Tosinvest, furono erogati nel periodo compreso tra il 4 aprile 2005 e il 4 maggio 2005, durante il cosiddetto "silenzio elettorale", per cui difetterebbe anche la prova del nesso eziologico tra le suddette erogazioni e il lamentato danno da alterazione delle regole della competizione elettorale»
“Zero danni da Fitto”. La Corte di Appello assolve Raffaele Fitto dalle accuse di aver danneggiato la Regione Puglia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Giugno 2022.
La vicenda giudiziaria risale al 2004, quando Raffaele Fitto era presidente della Regione Puglia. la sentenza di ieri ha posto definitivamente la parola fine su un'accusa che si protraeva da diciassette anni, attestando la correttezza con la quale l'onorevole Raffaele Fitto ha amministrato la cosa pubblica, durante il suo mandato di rappresentante regionale
La Corte d’Appello Civile di Bari nel collegio presieduto dal giudice Vittorio Gaeta, relatrice la giudice Paola Barracchia, chiamata dalla Corte di Cassazione a pronunciarsi sul potenziale danno causato alla Regione dalla condotta di Raffaele Fitto quando presiedeva la Regione Puglia, ha ritenuto che non vi fu alcuna illegalità nella gestione del fondo di rappresentanza in quanto le scelte furono tutte compiute nell’ambito dell’esercizio di un potere discrezionale, e quindi in modo non imputabile. La Corte d’ Appello ha anche sentenziato come le iniziative ritenute meritevoli di sostegno regionale non siano apparse “inutili o comunque non prioritarie rispetto a spese più urgenti, oppure non equilibrate quanto ai profili del rapporto costi-benefici o qualità-prezzo o disponibilità di migliori soluzioni alternative“.
I difensori di Raffaele Fitto hanno sottolineato con soddisfazione “la qualità della valutazione e conseguente decisione della Corte, che con la sentenza di ieri ha posto definitivamente la parola fine su un’accusa che si protraeva da diciassette anni, attestando la correttezza con la quale l’onorevole Raffaele Fitto ha amministrato la cosa pubblica, durante il suo mandato di rappresentante regionale“.
La vicenda giudiziaria risale al 2004, quando Raffaele Fitto era presidente della Regione Puglia. Nel procedimento penale intrapreso per iniziativa della Procura della repubblica di Bari a carico dell’onorevole Fitto, come si legge nella sentenza, veniva contestata una condotta di peculato in concorso con le funzionarie regionali Colafati e Marzo “perché con più atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso, il Raffaele Fitto nella qualità di Presidente della Regione Puglia, pubblico ufficiale, titolare del potere di autorizzazione delle spese, la Colafati Anna Maria quale dirigente dell’Area Gabinetto della Regione Puglia, Giovanna Rita Marzo quale funzionario istruttore, si appropriavano della complessiva somma di euro 189.700,00, facente parte del Fondo di rappresentanza del Presidente della Giunta regionale di cui avevano la disponibilità per ragione del loro ufficio“.
In particolare secondo la Procura “in violazione delle norme sulla contabilità, autorizzavano a partire dal 4 febbraio 2005 sino al 30 marzo 2005 periodo della campagna elettorale per le lezioni amministrative regionali l’attribuzione in favore dei soggetti elencati nelle determine dirigenziali della complessiva somma suindicata, per finalità private e, comunque, estranee a quelle previste dalle norme regionali e dello Stato sulle spese di rappresentanza”. Comportamento, che, invece, per i giudici della Corte d’Appello civile non prefigurava alcun danno per l’ente, anzi rientrava fra le prerogative proprie del presidente. Ed ancora una volta le iniziative delle toghe “rosse” di turno della Procura di Bari naufragano sugli scogli della giustizia “giusta” e non politicizzata. Redazione CdG 1947
Puglia, processo ad Emiliano: «Togliete il nome del governatore dalla fattura». Il riferimento è a una ricevuta fiscale nella campagna elettorale. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Settembre 2022.
Eliminare il riferimento a Michele Emiliano da una fattura: questa fu la richiesta che da un collaboratore di Margherita srl, azienda foggiana che opera nel settore delle energie alternative, venne rivolta a Eggers, la società di Torino che nel 2017 curò la campagna elettorale del presidente della Regione Puglia alle primarie del Pd. Il particolare è stato rievocato oggi in tribunale nel capoluogo piemontese al processo in cui Emiliano è chiamato a rispondere di finanziamento illecito insieme a suo capo di gabinetto Stefanazzi e agli imprenditori Giacomo Mescia (responsabile per Margherita) e Vito Ladisa (dell’omonima azienda barese di ristorazione).
A parlarne è stato uno dei luogotenenti della guardia di finanza che svolsero l’indagine. Sostiene l’accusa che Margherita e Ladisa si accollarono due fatture emesse da Eggers, che aveva curato la campagna elettorale di Emiliano. Il sottufficiale della guardia di finanza ha fatto riferimento in particolare a una fattura da 24mila euro che la società torinese indirizzò a Margherita: «Nella prima email l’oggetto era "consulenza comunicazione Michele Emiliano". Un commercialista di Margherita rispose chiedendo se si poteva modificare. Nel messaggio successivo il nome di Emiliano non compariva più».
Le lamentele di Emiliano perché riteneva che la campagna elettorale fosse stata scopiazzata
Dopo il voto per primarie del Pd nel 2017 Michele Emiliano «si lamentò della qualità del lavoro svolto da Eggers», la società torinese che aveva svolto una consulenza per la sua campagna elettorale. A riferire il particolare è stato oggi in tribunale nel capoluogo piemontese un sottufficiale della Guardia di Finanza che svolse le indagini: l’occasione è stata la ripresa del processo in cui il presidente della Regione Puglia è chiamato a rispondere di finanziamento illecito insieme ad altre tre persone.
Rispondendo a una domanda dell’avvocato difensore, Gaetano Sassarelli, il sottufficiale (richiamandosi al contenuto di messaggi acquisiti nel corso degli accertamenti) ha detto che "Emiliano riteneva che la campagna fosse stata scopiazzata da quella di un altro candidato in una diversa occasione elettorale». Quindi ha precisato che questo personaggio era "Debora Serracchiani».
Tangenti e voto di scambio. Crolla il "sistema Emiliano". Annarita Digiorgio l'11 Luglio 2022 su Il Giornale. Dimissioni, arresti per mazzette, concorsi truccati: ma il governatore pugliese e la sinistra tacciono.
Il primo a sentire puzza di bruciato era stato il professor Pierluigi Lopalco, che dopo aver fatto per quasi due anni l'assessore alla sanità della Regione Puglia, decise improvvisamente di rassegnare le dimissioni e allontanarsi dal sistema Emiliano.
Pochi giorni dopo venne arrestato il capo della protezione civile regionale mentre prendeva una tangente nascosta in una fetta di manzo. Secondo la procura speculava sia sui migranti che sui malati Covid. Come accaduto con l'ospedale della Fiera del Levante dove i costi degli affidamenti diretti in forza dello stato d'emergenza sono lievitati dai 9 milioni previsti a 25. Ma mentre tutta Italia attaccava la Lombardia per colpire il centrodestra, gli scandali che vedono protagonista la politica di centrosinistra vengono trattati come una questione locale per nasconderli.
Così è per l'ennesima inchiesta che in questi giorni ha travolto uomini nominati da Michele Emiliano: concorsi pubblici truccati in cambio di voti e posti di lavoro, ma anche sesso, aragoste, cozze, e orate.
L'indagine è stata svelata proprio mentre Enrico Letta e Giuseppe Conte erano a Bisceglie ospiti del delfino di Emiliano, Francesco Boccia. Ma non una parola è arrivata dai progressisti, così intenti a combattere le destre che tacciono su ciò che li riguarda.
«È strano, quasi incredibile, che il Pd, a cominciare dall'onorevole Boccia, continui a non esprimersi sul sistema Emiliano ha detto l'onorevole Mauro D'Attis di Forza Italia Lo stesso sistema che impedisce lo svolgimento di elezioni libere dalla maglia clientelare e che sbarra la strada alle altre forze».
L'ordinanza parla di «desolante panorama di sistemica corruttela che prospera negli affari della Regione Puglia» e spiega che oltre la sanità coinvolge i consorzi di bonifica, carrozzoni con un buco di bilancio di 160 milioni in cui venivano assunti «amici» truccando i concorsi.
«Il silenzio di Emiliano è imbarazzante ha detto Raffaele Fitto e sarei molto curioso di conoscere il giudizio di tante anime belle che in passato, alla semplice notizia di un avviso di garanzia, si ergevano a giudici supremi sputando sentenze e che ora sono diventati afoni».
Rispondono da sinistra i vendoliani: «In Regione Puglia serve una profonda bonifica amministrativa e politica. C'è un pezzo di classe dirigente convinto di una sostanziale impunità». Il gip infatti scrive nell'ordinanza: «Sui criteri di scelta della misure cautelari deve rilevarsi come le richieste formulate dalla procura di Lecce appaiono ben al di sotto della linea di adeguatezza e proporzionalità in relazione alle cogenti esigenze preventive da fronteggiare».
Non a caso proprio in questi giorni Emiliano, che del pm conserva solo il ruolo e l'impunità, ha chiesto di spostare su una procura pugliese il processo per cui è imputato a Torino per finanziamento illecito durante le primarie contro Renzi. «Se la stessa condotta l'avesse avuta un presidente di centrodestra, a quest'ora l'avremmo visto lapidato in pubblica piazza dice Gemmato da Fratelli d'Italia Emiliano sa vincere le elezioni? Col suo metodo saprebbero vincerle tutti».
Le stesse critiche della destra arrivano anche dalla Cigl: «È assordante il silenzio delle più alte cariche politiche. La giustizia deve far il suo corso ma fra documenti e intercettazioni parliamo di inchieste solide dice il segretario regionale del sindacato Al di là della questione penale preoccupa una politica che abbandona gli ideali e cerca solo il consenso elettorale, e cura solo l'interesse particolare se non criminale».
Il sottosegretario all'Interno Ivan Scalfarotto chiede se «davvero Michele Emiliano pensa che il suo metodo di costruzione del consenso sia quello giusto per la Puglia e per il Paese».
Ma da Bisceglie, Letta e Conte dicono di sì. Col solito spauracchio: «Altrimenti arrivano le destre».
Emiliano a processo per diffamazione: “Insinuò legame tra criminalità e l’ex consigliere Cipriani”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Aprile 2022.
Il governatore pugliese, in occasione della trasmissione televisiva "Viva l' Italia" trasmessa su Rete 4 il 13 settembre 2018, commentando la visita a Bari proprio quel giorno dell'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini, avrebbe diffamato l'ex consigliere comunale Luigi Cipriani responsabile del movimento "Riprendiamoci il futuro
Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano è stato mandato a processo dinanzi al Tribunale Penale di Bari, accusato del il reato di diffamazione a mezzo stampa ( 595 co. 3) . La prima udienza del processo è fissata dinanzi al giudice monocratico Mario Mastromatteo per il prossimo 22 settembre.
Stando al capo d’ accusa imputato dal pm Marcello Quercia, il governatore pugliese, in occasione della trasmissione televisiva “Viva l’ Italia” trasmessa su Rete 4 il 13 settembre 2018, commentando la visita a Bari proprio quel giorno dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, avrebbe diffamato l’ex consigliere comunale Luigi Cipriani responsabile del movimento “Riprendiamoci il futuro” , il quale accolse Salvini nella sede del movimento, nel quartiere Libertà, dove l’ex ministro tenne anche un comizio, “insinuando negli spettatori l’esistenza di un legame tra Cipriani, il suo movimento politico e la criminalità organizzata”.
Luigi Cipriani assistito dall’avvocato Roberto Eustachio Sisto, querelò per tali affermazioni il presidente Emiliano ed adesso nel processo, che si svolgerà a seguito di citazione diretta a giudizio, potrà costituirsi parte civile. Redazione CdG 1947
Emiliano a processo per diffamazione a ex consigliere comunale. Il governatore è stato citato a giudizio dinanzi al Tribunale di Bari. L’udienza dinanzi al giudice monocratico Mario Mastromatteo è fissata per il 22 settembre prossimo. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Aprile 2022.
Per il reato di diffamazione a mezzo stampa il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, è stato citato a giudizio dinanzi al Tribunale di Bari. L’udienza dinanzi al giudice monocratico Mario Mastromatteo è fissata per il 22 settembre prossimo.
Stando all’imputazione formalizzata dal pm Marcello Quercia, il presidente Emiliano, nel corso di una trasmissione televisiva in onda su Rete 4 il 13 settembre 2018, commentando la visita dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, a Bari proprio quel giorno, avrebbe diffamato l'ex consigliere comunale e responsabile del movimento "Riprendiamoci il futuro» Luigi Cipriani, che accolse Salvini nella sede del movimento, nel quartiere Libertà, dove l’ex ministro tenne anche un comizio, «insinuando negli spettatori l'esistenza di un legame tra Cipriani, il suo movimento politico e la criminalità organizzata».
Cipriani, assistito dall’avvocato Roberto Eustachio Sisto, querelò il presidente per quella affermazione e nel processo, dopo la citazione diretta a giudizio, potrà costituirsi parte civile contro di lui.
Migranti: nel 2020 in Puglia vivevano 135mila stranieri. I dati della Cgil: i cittadini stranieri provengono da 167 paesi diversi. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.
Erano 135.356 i cittadini stranieri presenti in Puglia al 31 dicembre 2020. Il dato è contenuto nel rapporto sull'immigrazione 2021 presentato dalla Cgil Puglia. La provincia in cui vive il maggior numero di cittadini stranieri è Bari con 40.955, seguita da Foggia con 31.180, Lecce con 26.206, Taranto con 14.405, Brindisi con 11.707 e la Bat (Barletta-Andria-Trani) con 10.903.
Secondo il censimento della sigla sindacale, i cittadini stranieri provengono da 167 paesi diversi: il 54,8% è di origine europea di cui il 33,9% proviene da paesi aderenti all’Ue.
Il secondo continente di provenienza - si apprende dal report della Cgil - è l’Africa con il 23,7% delle presenze, seguito dall’Asia con il 18,1%. La pandemia da Covid - emerge - ha inciso notevolmente sulle dinamiche migratorie regionali. Diminuiti infatti gli spostamenti dall’estero verso la Puglia. Nel 2020 le iscrizioni anagrafiche dall’estero sono diminuite di 2564 unità (-27%) passando da 9501 dell’anno precedente alle 6937 del 2020; così come è calato il numero del rilascio dei permessi di soggiorno. Nel 2019 i permessi rilasciati per la prima volta erano 4909 mentre nel 2020 sono scesi a 3716 con una contrazione del 24%.
«Puglia autentica meraviglia», lo spot è costato 340mila euro. Zullo: «Soldi erogati con affidamento diretto». La replica: «C'era avviso pubblico». Il capogruppo di Fratelli d’Italia nel Consiglio regionale chiede audizione del direttore di Pugliapromozione, Luca Scandale, perché rendiconti nel dettaglio la spesa sostenuta e l’iter del finanziamento. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.
Lo spot promozionale 'Puglia autentica meraviglia' sarebbe costato circa 340mila euro. Soldi pugliesi, di cui 247,8mila con procedura negoziata senza previa autorizzazione, e quindi con affidamento diretto ad una società di produzione audiovisiva leccese, la 'Passo Uno'. La soglia massima per gli affidamenti diretti per i servizi è 215mila euro più Iva, una soglia che permette a Pugliapromozione, ma non solo, di affidare finanziamenti cospicui». A sostenerlo è Ignazio Zullo, capogruppo di Fratelli d’Italia nel Consiglio regionale pugliese. «Un metodo - prosegue - che in Regione Puglia viene tantissimo utilizzato, per cui il sospetto che possano essere sempre gli stessi, o questi più di altri, è forte. Siamo certi che, con una procedura aperta - fermo restando la regia di Sergio Rubini - non si sarebbero potuti scegliere progetti di promozione turistica con più meraviglia?». "Per questo - annuncia Zullo - abbiamo chiesto al presidente della commissione regionale al Turismo, Francesco Paolicelli, di audire il direttore di Pugliapromozione, Luca Scandale, perché venga a rendicontarci nel dettaglio la spesa sostenuta e l’iter del finanziamento».
LA REPLICA: NESSUN AFFIDAMENTO DIRETTO
Per la realizzazione dello spot promozionale della Regione Puglia «non c'è stato affidamento diretto, tutto è stato realizzato con avviso pubblico» e «la documentazione è on line». Così Pugliapromozione replica alle dichiarazioni di questa mattina del capogruppo di Fratelli d’Italia, Ignazio Zullo, che ha sostenuto che «lo spot Puglia autentica meraviglia è costato circa 340mila euro», «soldi pugliesi, di cui circa 250mila euro, esattamente 247,8mila, con procedura negoziata senza previa autorizzazione e quindi con affidamento diretto». «La società di produzione Passo Uno Cinema srl - risponde Pugliapromozione - ha risposto ad un avviso pubblico di Pugliapromozione per la produzione di contenuti multimediali e audiovisivi coerenti con il brief di comunicazione, anch’esso pubblico e, come tale, aperto a tutti gli operatori economici interessati, che l’Agenzia intende mettere in atto. A seguito della presentazione di quattro proposte di differenti operatori economici, si è riunita una commissione tecnica che ha proceduto ad un’articolata valutazione delle stesse, ritenendo la proposta della predetta società congrua ed efficace per la realizzazione dello spot scritto e diretto da Sergio Rubini». «L'affidamento e l'acquisizione di servizi di produzione artistica - spiegano ancora dall’Agenzia regionale - non è avvenuta, dunque, attraverso un affidamento diretto, come sostiene il consigliere Zullo, bensì attraverso una procedura negoziata, nel rispetto dei principi pubblicistici come auspicato proprio dal consigliere Zullo».
IL COMMENTO DI ZULLO
“Ringraziamo PugliaPromozione per la solerzia con la quale ha risposto. Ma i nostri dubbi restano per questo è bene che il confronto avvenga nella sede istituzionale della Commissione regionale dove abbiamo già presentato la richiesta di audizione del direttore Luca Scandale”, ha commentato così il capogruppo regionale di Fratelli d’Italia, Ignazio Zullo, all’ente regionale.
«Puglia buona a tutto ma prima in nulla». La piaga secolare del clientelismo. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Aprile 2022.
«Su questa terra di Puglia regna il grigio della mediocrità»: tuonano pesanti in prima pagina sul «Corriere delle Puglie» del 12 aprile 1922 le parole dello studioso Giuseppe Alberto Pugliese, insigne avvocato, nato a Toritto, deputato per diverse legislature.
Le forze della gente di Puglia sono ottime, varie, numerose, esse dovrebbero conseguire un prodotto eccellente, un risultato ottimo: e, invece, scarso è il rendimento nelle arti, nelle scienze, nelle lettere, nelle industrie. «Mai un genio, buoni a tutto, in nulla teniamo il primo posto». Come si spiega tutto questo? Col predominio delle consorterie, delle fazioni, delle clientele, che eliminano i migliori e accolgono i peggiori, tessono una così fitta rete d’intrighi e di interessi da soffocare ogni libertà e indipendenza. Il clientelismo divide per regnare, domina tutto. Per fare l’Italia, conclude il giurista, occorre disfare le clientele politicanti, le consorterie regionali, «bisogna aprire le finestre per dare aria alla casa, promuovere legami liberi, spontanei, onesti, non catene di interessi fra gli individui, i gruppi, i partiti, lo stato».
Esiste una Puglia letteraria? Almeno in campo letterario, Mario Colucci prova a difendere in terza pagina l’onore dei pugliesi.
I settentrionali – che definiscono la nostra regione «la terra di Salandra», facendo riferimento all’illustre presidente del Consiglio nato a Troia – sanno per caso che il celebre commediografo Luigi Chiarelli è di Trani? Che Carlo Veneziani, autore de La finestra sul mondo, non è napoletano, come si crede, ma tarantino? Che il musicista Umberto Giordano ha mosso i suoi primi passi a Foggia?
Ma forse, conclude amaro Colucci, non è da prendersela con i forestieri, piuttosto con questi stessi autori, che sembrano aver dimenticato le proprie origini, tanto vivono lontano dalla loro terra. Rimangono qua e là, «come fari non nel deserto, ma tra gli uliveti e le vigne e le ridenti case del Salento», alcuni solitari innamorati dell’arte. Chi sono?
Romolo Caggese, storico nato ad Ascoli Satriano, autore di una fortunata storia di Firenze; Michele Saponaro, romanziere leccese, diventato celebre con il suo «Fiorella». Ci sono poi il poeta di Rodi Alfredo Petrucci, il tarantino Cesare Giulio Viola, e molti altri autori all’attivo in Puglia nel ‘22. Vale, infine, la pena di citare il filologo ed erudito Nicola Zingarelli, nato a Cerignola, ma stabilitosi a Milano: diventato celebre per la monumentale opera del «Vocabolario della lingua italiana», ha in preparazione, rivela l’elzevirista, anche una nuova edizione dell’opera dantesca.
Ecco la parentopoli dell’Arpal Puglia dove lavorano politici e parenti alleati di Massimo Cassano. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Aprile 2022. Sul profilo Facebook di Massimo Cassano, direttore generale dell’Arpal, c’è un post del 10 marzo in cui «il coordinamento regionale di Italia Popolare ed il sen. Massimo Cassano salutano l’ingresso in Italia Popolare del quinto Municipio» di Bari. Ed è da questo post che conviene partire per raccontare cosa sta avvenendo da mesi nell’Agenzia per il lavoro della Regione Puglia.
La foto che ritrae il quartetto di appartenenti a Puglia Popolare è infatti scattata all’interno della direzione generale dell’Arpal. E tra i quattro, non citato nel post, c’è Alessandro Lapenna, avvocato, consigliere al Municipio Palese, di cui è stato candidato presidente per la Lega. Lapenna è anche cugino della moglie del senatore Cassano, e lavora in Arpal tramite una agenzia interinale.
Perché mentre tutti guardano ai concorsi organizzati dall’Arpal (oggetto di polemiche infinite) nessuno si accorge che l’agenzia, attraverso una Ati tra due enti di formazione (Epcpec e Ageform) e una società interinale (Job Italia) impiega a chiamata diretta quasi 500 persone. È il personale addetto ai centri per l’impiego con i relativi formatori. E tra loro tanti sono «amici di» o «parenti di».
Prendiamo un’altra foto, sempre del 21 marzo. Ritrae due dei tre consiglieri del Comune di Bari che quel giorno sono ufficialmente transitati nel partito di Cassano: Francesca Ferri (eletta in una civica di centrodestra), Giuseppe Di Giorgio (eletto con Sud Al Centro, che fa capo al marito dell’assessore regionale Anita Maurodinoia) e Giuseppe Neviera (eletto nella lista dell’ex assessore regionale Alfonso Pisicchio). Di Giorgio ha due figli, entrambi assunti tramite Ecpep: Annamaria, assegnata alla direzione generale Arpal, e Pasquale (detto Livio), «collaboratore mirato», quest’ultimo peraltro collega di lavoro di Alessandro D’Ambrogio, cugino del direttore generale anche lui preso tramite Ecpep. Neviera ha una figlia, si chiama Gaia: è stata assegnata al Centro per l’impiego di Rutigliano.
Già senza addentrarsi troppo, chi conosce le cose della politica ha ben chiaro un punto: in Arpal hanno trovato spazio i quadri dirigenti della formazione politica fondata dal direttore generale dell’agenzia. Puglia Popolare a Bari ha un coordinatore provinciale, Simona Vitucci, che è anche consigliere comunale a Modugno. L’avvocato Vitucci (che nel frattempo ha presentato le dimissioni da coordinatore provinciale della lista) risulta assunta, tramite Ecpep, nella direzione generale dell’Arpal. Cassano ha poi uno storico riferimento politico a Terlizzi, il vicesindaco Francesco Tesoro detto Franco: la figlia, Mariangela, è stata assegnata al Centro per l’impiego di Bitonto. A Triggiano il riferimento politico di Cassano si chiama Mauro Battista, consigliere comunale già candidato alle elezioni regionali: anche lui lavora nella direzione generale dell’Arpal, fianco a fianco con il direttore.
Torniamo al Comune di Bari che è - per ovvi motivi - il cuore dell’attività politica sul territorio. Nella segreteria cittadina di Puglia Popolare c’è l’ex consigliere comunale Mimmo Sciacovelli. Il figlio si chiama Michele, consigliere del Primo Municipio, che è stato assunto al Centro per l’impiego di Barletta. Un altro ex consigliere è Francesco De Carne, ora nella segreteria cittadina di Puglia Popolare: il figlio Gaetano ha avuto un contratto interinale nella sede di Molfetta. Tra gli interinali (che politicamente valgono meno, perché i contratti sono a scadenza e quasi certamente non verranno rinnovati) ci sono diversi altri rappresentanti cittadini di Puglia Popolare della provincia di Bari (Mola, Santeramo), ma non solo: assunzioni interinali sono state fatte in tutte le province. Ad esempio a Lecce dove, ad esempio, ci sono quattro residenti dell’area di Copertino, il feudo elettorale dell’assessore al Lavoro, Sebastiano Leo, che oltre ad essere l’alleato di Cassano alle Regionali è anche l’assessore da cui dipende l’agenzia Arpal. Lui, però, smentisce ogni collegamento e del resto nulla autorizza a fare illazioni sulla paternità delle assunzioni: «Copertino è un paese piccolo - dice - ma di quello che accade in Arpal non so assolutamente niente. I somministrati termineranno tra un mese perché ormai non ci sono più risorse».
In queste assunzioni formalmente non c’è alcuna irregolarità, anche perché non sono assunzioni dirette in Arpal e gli enti di formazione hanno assoluta autonomia. E alcune delle persone di cui abbiamo parlato hanno partecipato ai concorsi pubblici e non sono risultate idonee. Certo, attraverso l’accordo con Epcpep-Ageform è stata allargata la platea dei formatori storici, passata da 77 a 120 dipendenti: quelli della vecchia guardia aspirano alla pensione, i nuovi invece puntano all’assunzione in Arpal. Che non potrà prescindere da un nuovo concorso pubblico, quello per «orientatori», bandito con le procedure semplificate (prova unica) e soprattutto con la valutazione dei titoli: e chi ha lavorato in un centro dell’impiego ottiene punti in più. L’affidamento a JobItalia della fornitura del personale somministrato è avvenuta (almeno in parte) senza gara d’appalto. Il «sales manager» di JobItalia è Paola Scrimieri, sorella di Pietro Scrimieri, direttore delle risorse umane di Acquedotto Pugliese, manager molto stimato anche da Cassano che presta la sua opera come presidente di alcune commissioni di concorso dell’Arpal (oggi, 12 aprile, ha comunicato la rinuncia agli incarichi). Entro aprile nell’agenzia prenderanno servizio oltre 1.000 vincitori di concorso tra tempi determinati e indeterminati. Ma i concorsi Arpal (così come alcuni appalti) meritano un’altra puntata di questa interessante storia.
CONSIGLIERI DI MAGGIORANZA: FAR CADERE DG ARPAL
Dopo l’inchiesta pubblicata stamattina dalla “Gazzetta” il centrosinistra chiede di cacciare il direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. E lo fa nel modo più violento possibile. Depositando una proposta di legge (primo firmatario Antonio Tutolo, poi Fabiano Amati, Michele Mazzarano e Ruggiero Mennea del Pd) con cui chiede la decadenza del dg e la nomina di un amministratore unico alla guida dell’agenzia regionale. La proposta di legge vuole evitare che Cassano possa rimanere alla guida dell’Arpal: impone che l’amministratore unico abbia un "titolo culturale" più aderente alla competenza in diritto del lavoro (laurea in giurisprudenza o economia) e l’esperienza per oltre cinque anni come dirigente nella pubblica amministrazione ("che peraltro è il criterio minimo d’esperienza per la partecipazione ai concorsi pubblici afferenti la dirigenza”, dicono i firmatari), o all’incarico di professore universitario di ruolo nelle materie giuridiche o l’iscrizione da almeno dieci anni nell’elenco degli avvocati cassazionisti.
Bufera parentopoli Arpal Puglia, ai politici pure incarichi legali. Spunta una consulenza al consigliere barlettano Bufo: la figlia presa come interinale. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Aprile 2022.
La prima coincidenza è stata già raccontata negli scorsi giorni. Teresa Rita Bufo, figlia del consigliere comunale barlettano Giuseppe Bufo, è una delle 230 persone che hanno superato la selezione interinale indetta dall’agenzia per il lavoro pugliese Arpal. La seconda coincidenza riguarda il padre, uno degli esponenti politici che hanno aderito alla lista Puglia Popolare del direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. Anche il padre, come la figlia, ha ottenuto un incarico dall’Arpal.
Coincidenze. O, per dirla con il presidente della Regione, Michele Emiliano (che giorni fa ha minimizzato il caso delle parentele rinvenute nelle liste del personale Arpal), «ricorrenze». Fatto sta che il 22 febbraio scorso l’avvocato Giuseppe Bufo ha ottenuto dal direttore generale Cassano l’incarico per assumere il patrocinio legale dell’Agenzia davanti alla sezione Lavoro del Tribunale di Trani, in un procedimento (udienza prevista il 13 giugno) di accertamento tecnico preventivo attivato da un dipendente, procedimento in cui è parte anche la stessa Regione.
Dal punto di vista tecnico si tratta di una consulenza professionale da circa 1.016 euro, in sé assolutamente legittima. Resta, appunto, la doppia coincidenza. Giuseppe Bufo è passato con Puglia Popolare il 7 agosto 2021, quando ha esordito nel nuovo ruolo politico con la richiesta di azzeramento della giunta. Tre mesi dopo, il 13 ottobre 2021, il sindaco di Barletta, Mino Cannito, è stato sfiduciato con il voto decisivo dell’avvocato 58enne eletto nel 2018 con la coalizione di maggioranza. Il 9 novembre 2021 l’agenzia interinale JobItalia pubblica il bando per la ricerca del personale da impiegare in Arpal (un bando che doveva rimanere aperto 4 giorni ma che poi è stato prorogato dopo la pubblicazione di un articolo su «Repubblica»): tra i vincitori c’è appunto Teresita Bufo, 25 anni, laureata, assunta con contratto di somministrazione di categoria D, che è stata destinata al Centro per l’impiego di Corato e che ora potrà partecipare a un concorso propedeutico alla stabilizzazione. L’8 febbraio l’Arpal chiede all’avvocato Bufo un preventivo «per affidamento di incarico di rappresentanza e difesa in giudizio» dell’agenzia davanti al Tribunale di Trani. L’incarico si perfeziona quattro giorni dopo, giusto in tempo per il deposito della memoria in Tribunale.
Il caso della Parentopoli, con l’assunzione in Arpal (tramite agenzia interinale, o nelle liste dei «formatori» dell’ente di formazione Epcpec) di consiglieri comunali, circoscrizionali (o loro parenti) che hanno aderito alla lista di Cassano, è stato sollevato la scorsa settimana dalla «Gazzetta». L’elenco delle coincidenze è lungo. A partire dal Comune di Bari, dove Puglia Popolare ha costituito il gruppo politico a Bari: all’Arpal sono entrati come formatori i due figli del consigliere Giuseppe Di Giorgio (Annamaria, in direzione generale, e Pasquale detto Livio, «collaboratore mirato») e la figlia del consigliere Giuseppe Neviera, Gaia (al Centro per l’impiego di Rutigliano). Al 5° Municipio la lista di Cassano può contare sul consigliere Alessandro Lapenna (cugino della moglie del dg), che ha avuto un contratto interinale così come il consigliere Michele Piscopo. Anche la (ex) segretaria provinciale barese di Puglia Popolare, Simona Vitucci, che è anche consigliere comunale a Modugno, ha un avuto un contratto da formatore con Epcpep, così come Mauro Battista, consigliere comunale di Triggiano, e Mariangela Tesoro, figlia del vicesindaco di Terlizzi, Franco. Tutti esponenti politici che hanno aderito alla lista di Cassano. Situazioni simili ci sono anche in altri Comuni dove si voterà a giugno, e dove Puglia Popolare presenterà le liste. Anche per questo, quattro consiglieri regionali di maggioranza (Tutolo, Amati, Mazzarano, Mennea) hanno presentato una proposta di legge per far decadere Cassano. Emiliano, a prescindere dalle «ricorrenze», ha aperto alla possibilità che l’Arpal possa essere affidata a un consiglio di amministrazione.
I NODI DELLA POLITICA. Arpal, quelle assunzioni dopo i cambi di casacca. Oltre a Bari anche Barletta: piazzata pure la figlia di Bufo (passato con Cassano) che ha sfiduciato il sindaco Cannito. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.
Il 13 ottobre 2021 il sindaco di Barletta, Mino Cannito, è stato defenestrato con una mozione di sfiducia. A risultare decisivo è stato il voto di Giuseppe Bufo, consigliere all’epoca appena transitato dalla maggioranza in Puglia Popolare, la formazione politica del direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. Anche la figlia di Bufo, Teresita, come i figli dei due consiglieri comunali baresi che a marzo hanno scelto di passare con Cassano, ha ricevuto un contratto interinale all’Arpal.
Nulla autorizza a ipotizzare nessi di causa ed effetto, e tantomeno accordi illeciti. Ma dall’esame delle liste delle persone che - tramite due enti di formazione, o attraverso una agenzia interinale - stanno lavorando in Arpal, emerge forte la coincidenza già evidenziata ieri: tanti esponenti politici (o loro parenti) che aderiscono alla formazione politica di Cassano hanno trovato posto nell’agenzia per il lavoro.
Della giovane Teresita Bufo si ricorda, a dicembre 2019, l’assunzione nella Barsa, la municipalizzata di Barletta, con la mansione di netturbino. I social restituiscono tante foto della 25enne barlettana ai concorsi di bellezza, mentre le cronache locali raccontano che a luglio 2020 la Barsa ne ha disposto il licenziamento per giusta causa: avrebbe abusato dei permessi ex legge 104. Poco dopo, tramite una società interinale, la dottoressa Bufo è entrata in Arpal, assegnata al centro per l’impiego di Corato. Il padre, nel frattempo ricandidato al consiglio comunale di Barletta, nei giorni scorsi ha annunciato che Puglia Popolare sosterrà il candidato sindaco del Pd. Nel frattempo, in parallelo al licenziamento dalla Barsa, Teresita Bufo è stata rinviata a giudizio per truffa aggravata ai danni dell'Inps: il processo davanti al Tribunale di Trani partirà il 17 maggio.
Anche a Bari, a marzo, Puglia Popolare ha costituito il suo gruppo. Ne fanno parte la capogruppo Francesca Ferri (eletta in una civica di centrodestra), Giuseppe Di Giorgio e Giuseppe Neviera. All’Arpal sono entrati come formatori i due figli di Di Giorgio (Annamaria, in direzione generale, e Pasquale detto Livio, «collaboratore mirato») e la figlia di Neviera, Gaia (al Centro per l’impiego di Rutigliano). Ma a Bari è ancora più particolare quanto avvenuto nel 5° Municipio, dove - anche grazie alla campagna acquisti di Cassano - il centrosinistra non ha più opposizione. Con Puglia Popolare sono passati la grillina Teresa Valerio e i meloniani Michele Piscopo e Alessandro Lapenna: l’accordo è stato suggellato con una foto nella sede dell’Arpal. Di Lapenna, candidato presidente per il centrodestra e cugino della moglie di Cassano, abbiamo detto ieri: contratto interinale. Stessa cosa è avvenuta per Piscopo: anche per lui contratto interinale, sempre a Bari. Entrambi, a febbraio, sono stati espulsi da Fratelli d’Italia.
Il direttore Cassano si è difeso dicendo che Epcpec è un «ente privato» e assume chi vuole, mentre la società interinale ha fatto regolari selezioni di cui il direttore generale non si è interessato. Ma Cassano ha detto che non poteva impedire ad esempio a suo cugino, Alessandro D’Ambrogio, di presentare il curriculum.
Ieri i formatori assunti da Epcpep-Ageform per prestare servizio in Arpal erano riuniti in assemblea. L’agenzia ha comunicato loro che il contratto di appalto (6 milioni l’anno) scadrà il 22 maggio e non verrà rinnovato. Dovrà essere la Regione adesso a occuparsi del futuro dei 140 formatori, che hanno la clausola sociale: l’argomento finirà sul tavolo della task force per l’occupazione. I formatori storici temono - con qualche ragione, visto ciò che è emerso - che l’inserimento nei ranghi di persone collegate alla politica induca la Regione a non rifinanziarne l’attività, con il rischio di rimanere senza lavoro. I 236 interinali, invece, termineranno il servizio alla fine della prossima settimana, senza possibilità di rinnovi: sono stati scelti attraverso una selezione lampo, pubblicata l’11 novembre e chiusa due giorni dopo: il requisito principale per partecipare era proprio sapere della selezione...
Arpal Puglia nel caos Parentopoli: spunta bando su misura per assumere parenti. Ma Tutolo attacca: «I politici assunti? Uno schiaffo ai disoccupati pugliesi». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2022.
Michele Emiliano difende l’operato del direttore generale Massimo Cassano ma allo stesso tempo apre alla possibilità di affidare l’Arpal a un consiglio di amministrazione. La risposta del presidente della Regione sul tema della parentopoli nell’agenzia per il lavoro viene letta come un tentativo di mediare con il Pd, che ha depositato una proposta di legge per la decadenza di Cassano e che - non a caso - ha rinviato ogni decisione sul punto a martedì prossimo.
Emiliano ha preferito parlare di concorsi, che sono una questione diversa: «Come sempre in questi casi - ha detto Emiliano - ci sono delle ricorrenze, io me le ricordo per tutte le agenzie della Regione Puglia, me le ricordo in ogni situazione, noi stiamo cercando di fare in modo che ci sia la trasparenza e la regolarità più assoluta. Dopodiché non so se ci sono parentele, amicizie, connessioni di partito all’interno di questi concorsi. Credo che la cosa più importante sia rispettare il principio dei concorsi, in ogni caso ho visto anche che molti dei soggetti che avevano avuto contratti interinali non hanno superato il concorso pubblico, quindi questo mi dice che la legge funziona». Emiliano ha poi detto di non avere «cognizione» della proposta di legge firmata dal civico Antonio Tutolo e dai dem Fabiano Amati, Michele Mazzarano e Ruggiero Mennea. «C’è una discussione aperta - ha aggiunto Emiliano - sulla possibilità di costituire un consiglio di amministrazione dell’Arpal e poi di individuare un amministratore delegato o un direttore generale all’interno del consiglio. Nella fase fondativa abbiamo adottato per l’Arpal le regole che sono proprie anche di altre agenzie, non c’è nulla di male se si ritiene di inserire anche un consiglio di amministrazione nell’Arpal e se questo tranquillizzerà tutti quelli che si sentono inquietati dal fatto che obiettivamente abbiamo assunto tantissime persone». Infine, sulle assunzioni, un messaggio che va interpretato: «Anche in sanità stiamo assumendo migliaia e migliaia di persone. Anche lì non escludo che ci siano parenti di sindacalisti, di politici. Può essere, anche perché non esiste la regola che la parentela impedisca la partecipazione a un concorso pubblico».
Le decisioni sono rinviate a dopo Pasqua. Ma se si dovesse trovare l’accordo sull’istituzione di un cda, la difesa formale dell’operato di Cassano fatta da Emiliano non ne potrebbe impedire l’avvicendamento o la «sterilizzazione». Perché il malcontento del Pd sulla gestione dell’Arpal fa il paio con i mal di pancia più o meno espliciti del centrodestra. E con il voto segreto tutto può accadere.
«Non mi innamoro delle mie proposte - è il commento del consigliere Tutolo, primo firmatario della legge per la decadenza di Cassano -, ma quello che è accaduto in Arpal è offensivo per le decine di migliaia di disoccupati della Puglia. Se si vuole immaginare un nuovo modello di governance per l’agenzia, possiamo discuterne. Ciò che non è derogabile sono le competenze, perché chi guida l’Arpal non può essere un politico». Tutolo insiste sulla Parentopoli: «Quello che è accaduto - dice - è davvero brutto: una enorme schifezza. Cosa pensano di noi i disoccupati? Mi vergogno e chiedo scusa io ai pugliesi per quello che sta accadendo. L’Arpal doveva occuparsi di gestire gli uffici di collocamento ma è diventata l’ufficio di collocamento dei figli dei consiglieri comunali. I casi sono documentati. E non so come faccia Emiliano a definirli “ricorrenze”».
I formatori presi in Arpal attraverso l’ente Ecpep termineranno il servizio il 22 maggio, mentre per gli interinali la scadenza dei contratti è la prossima settimana. È tra questi circa 500 lavoratori che si concentra il maggior numero di politici e loro parenti, e forse anche per questo l’orientamento della Regione è di non concedere ulteriori proroghe. Ma sembrerebbe che l’Arpal abbia già aperto una porta secondaria per sistemarne alcuni. Il 3 marzo è stato infatti pubblicato un bando per assumere a tempo indeterminato 6 «orientatori specialisti», funzionari che (è scritto proprio nel bando) sono equivalenti allo «specialista in mercato e servizi per il lavoro». Per questo ultima figura, giusto cinque giorni dopo il nuovo bando, l’Arpal ha pubblicato la graduatoria del concorso bandito ad agosto 2020: contiene 178 vincitori e 90 idonei. Vista l’equivalenza tra le due figure, sarebbe stato più logico (e più economico) far scorrere la graduatoria già vigente e assumere come «orientatori» i primi sei idonei del concorso per «specialisti»: l’Arpal si è accorta di avere bisogno degli «orientatori» proprio cinque giorni prima che uscisse la graduatoria degli «specialisti», ed evidentemente nessuno si è reso conto che sarebbe bastato aspettare. Ma a guardare bene, tra i due bandi c’è una differenza non secondaria. Quello per gli orientatori, infatti, assegna fino a 30 punti ai titoli. E di questi, 15 punti sono riservati all’esperienza lavorativa. Ogni trimestre trascorso come formato- re in Arpal vale un punto. Se dunque gli interinali dovranno accontentarsi di uno o due punti, i formatori ex Epcpep ne avranno otto (quelli storici anche 15). E otto punti, in un concorso pubblico, sono un bel vantaggio.
IL BANDO. Arpal Puglia, a Bari c'è un altro concorso per aiutare i «politici». In palio 31 posti a tempo determinato, previsti punti in più per chi ha lavorato come interinale o formatore. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Aprile 2022.
C’è un bando dell’Arpal Puglia, appena scaduto, che mostra plasticamente il possibile percorso disegnato per consentire ai lavoratori interinali e ai formatori (i cui contratti sono in scadenza) di avere un posto stabile all’interno dell’agenzia per il lavoro. Si tratta, come è facile verificare, di una procedura assolutamente legittima, che consente a chi è stato selezionato con modalità discrezionali di avere una chance in più degli altri partecipanti ai concorsi pubblici.
Negli scorsi giorni è infatti scaduto il termine per partecipare al concorso per 31 posti di funzionari e impiegati a tempo determinato. Si tratta di uno di quei concorsi «semplificati» (previsti dalle nuove normative) in cui la selezione avviene per titoli e colloquio. Sui 70 punti complessivi per i titoli, quelli riservati ai «titoli di carriera» sono 40. E - proprio come per l’altro concorso di cui la «Gazzetta» ha parlato ieri - anche in questo caso c’è un consistente premio: 2 punti per ogni bimestre, pari a 12 punti l’anno, per chi ha già lavorato in Arpal «con contratti di lavoro flessibile (a tempo determinato, di formazione e lavoro, di somministrazione, di collaborazione)», 3 punti l’anno per chi ha fatto il formatore nelle società di formazione professionale.
Negli scorsi giorni la «Gazzetta» ha mostrato la presenza, negli elenchi di interinali e formatori, di consiglieri comunali e municipali (e relativi parenti) che aderiscono a Puglia Popolare, la formazione politica del direttore generale di Arpal, Massimo Cassano. Situazioni che il presidente della Regione ha definito «ricorrenze» (coincidenze), pur mostrandosi disponibile ad affidare l’agenzia a un consiglio di amministrazione che «sterilizzi» il ruolo di Cassano. Interinali e formatori possono legittimamente partecipare ai bandi dell’Arpal, come quello per i 31 posti, e infatti lo hanno fatto (le liste degli ammessi sono pubblicate su Internet). Tra i concorrenti (ripetiamo: legittimamente) ammessi al concorso ci sono ad esempio Teresa Rita Bufi, figlia del consigliere comunale di Barletta che ha aderito alla lista di Cassano e ha poi fatto cadere il sindaco Cannito, o anche Simona Vitucci, consigliere comunale di Modugno e segretaria provinciale (ex, secondo Cassano) di Puglia Popolare, o anche Cosimo Boccasile, consigliere del 1° Municipio di Bari, altro fedelissimo di Cassano.
Il concorso avrà il suo iter, senza ombra di dubbio regolare, con la commissione che sarà individuata dopo la girandola di rinunce degli ultimi giorni. Sono in palio contratti di 18 mesi. Ma mentre interinali e formatori stanno per tornare a casa, chi entrerà a tempo determinato grazie a questo concorso potrà poi essere prorogato e (dopo 36 mesi) anche stabilizzato. E chissà se quei punti in graduatoria conquistati grazie ai titoli di carriera faranno la differenza nella conquista dell’agognato posto di lavoro.
Il Distretto aerospaziale pugliese, eccellenza italiana sul canale televisivo Chilevisión. Da oggi a venerdì la troupe dell’emittente cilena si muoverà tra l’aeroporto di Grottaglie, il porto di Brindisi e Bari per la realizzazione di sei servizi. la Gazzetta del Mezzogiorno il 6 aprile 2022.
C’è la Puglia dell’aerospazio nel racconto che il canale televisivo nazionale cileno Chilevisión, su iniziativa dell’Ambasciata d’Italia e in collaborazione con la Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sta realizzando sulle eccellenze tecnologiche e produttive dei distretti industriali italiani.
Oltre al Distretto aerospaziale pugliese, gli altri distretti industriali coinvolti nel progetto, selezionati in collaborazione con Confindustria nazionale, sono: in Lombardia, la filiera Design-Arredo e il distretto della Cosmetica; nel Veneto il distretto dell’Occhialeria e il distretto della Giostra del Polesine; in Emilia Romagna la Motor Valley e la Food Valley: nelle regioni Marche e Umbria il distretto Calzaturiero Fermano-Maceratese e la filiera del Cachemire; in Campania il distretto Orafo/Corallo e il distretto della Pasta.
PERCHE' LA PUGLIA - La Puglia contribuisce in maniera determinante al significativo ruolo che il nostro Paese svolge nel settore aerospaziale. Lo descrivono i numeri delle aziende (oltre 80), degli addetti (inclusi i ricercatori oltre 7.000) e il valore delle esportazioni che nel 2018 è stato di 561,6 milioni di euro, con un'incidenza sull'export nazionale che ha superato il 9,7%, e nel 2019 un fatturato export di 738 milioni di euro, in crescita del 31,8 per cento nel 2019 rispetto all’anno precedente e un’incidenza sul risultato delle esportazioni nazionali dell’11,9% Grazie all'alto livello di competenza le imprese pugliesi sono presenti in molti dei programmi internazionali sia di natura industriale che istituzionale. Le competenze riguardano la progettazione, costruzione, integrazione e supporto a sistemi complessi di aeromobili ed elicotteri; la progettazione e manutenzione di propulsori per l’aeronautica militare e civile e lo spazio; la progettazione e lo sviluppo di componentistica hardware e sistemi software avanzati per applicazioni aerospaziali, civili e militari, la progettazione e produzione di microsatelliti, lo sviluppo di applicazioni nel settore dell’osservazione della Terra, della navigazione satellitare e le telecomunicazioni. Ricerca, innovazione e formazione sono stati determinanti per la crescita ed il consolidamento dell’aerospazio pugliese ed hanno contribuito a rafforzarne la reputazione a livello internazionale.
Il programma di Chilevisión si struttura in 6 episodi della durata di 30 minuti ciascuno, articolati in visite in loco presso stabilimenti produttivi dal Nord al Sud del Paese, con interviste a imprenditori e lavoratori. La missione pugliese della Tv cilena è cominciata oggi, 6 aprile, a Grottaglie, e si concluderà a Bari venerdì, 8 aprile. Nella prima giornata le riprese della Tv cilena hanno riguardato l’aeroporto di Grottaglie « Marcello Arlotta », dove Giuseppe Acierno, presidente del Distretto Tecnologico Aerospaziale, è stato intervistato e ha raccontato delle attività svolte per rafforzare il sito in una attività di sistema. “Siamo oltremodo soddisfatti per essere stati individuati da Confindustria nazionale come una delle eccellenze italiane da presentare nei servizi sul Made in Italy per la televisione cilena e per essere stati indicati come l’eccellenza pugliese”, sottolinea Acierno. “Si tratta di un riconoscimento per la crescita ottenuta nel corso degli anni dal settore aerospaziale pugliese che, seppure colpito dagli effetti della pandemia, conferma il suo alto tasso di dinamismo e di innovazione, e continua a operare in una logica di sistema per raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi a livello nazionale ed internazionale”, conclude il presidente del Dta.
“La troupe cilena ha visitato successivamente lo stabilimento di Leonardo, dove sono stati intervistati: Jimmy Pelaez, Senior Manager di Boeing Global Field Operations per l’area Emea e della catena di approvvigionamento per l’Europa ; Raffaele Gargiulo, vicepresidente dei programmi Boeing di Leonardo che a Grottaglie realizza le fusoliere per il Boeing 787. Sono state programmate anche attività di volo di droni, posto che Grottaglie è stato riconosciuto come airport test bed per le attività dei velivoli senza pilota, e dell’idrovolante con le ali ripiegabili “Seagull” che sta realizzando Novotech, azienda con stabilimento produttivo ad Avetrana. L’idrovolante in questo periodo sta effettuando proprio presso l’aeroporto di Grottaglie le prove per ottenere le certificazioni alle attività di volo. Le attività di volo dei droni e del Seagull sono programmate per oggi pomeriggio.
Domani, giovedì 7 aprile, in mattinata, la troupe della Tv cilena sarà a Brindisi, dove è stato organizzato un tour nell’area portuale con l’obiettivo di rappresentare al meglio le potenzialità dello scalo sul piano delle infrastrutture, della logistica e delle attività turistico-culturali collegate. Sarà anche l’occasione per far conoscere ai cileni alcune imprese del territorio. Al tour parteciperanno; Alessandro Delli Noci, Assessore regionale allo Sviluppo Economico; Giuseppe Danese, presidente del Distretto della Nautica Pugliese; Teo Titi, Presidente Nazionale della sezione Yacht di Federagenti. Venerdì, ultimo giorno dedicato all’aerospazio pugliese, la troupe cilena si sposterà a Bari per una intervista a Mariella Pappalepore, presidente di Planetek, azienda barese che si occupa tra l’altro di: Elaborazione di dati satellitari, aerei e da droni per la produzione di cartografia e informazioni geografiche e di progettazione e sviluppo di infrastrutture di dati spaziali (SDI) per l'archiviazione dei dati geospaziali e la loro gestione e condivisione.
Teatro Petruzzelli a Bari, quando il pm scrisse «Ricostruzione, costi gonfiati». Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 2 aprile 2022.
Che il teatro Petruzzelli fosse privo del certificato di agibilità era cosa nota anche alla Procura di Bari. La circostanza spunta da un fascicolo impolverato aperto nel lontano 2014 a seguito di un esposto dei Messeni sulla asserita «sistematica lievitazione esponenziale dei costi» per ricostruire il politeama.
Il pm procede così per abuso d’ufficio. Nel mirino della magistratura inquirente barese finisce l’operato del Commissario delegato alla ricostruzione, Angelo Balducci. Diciamolo subito, le posizioni di quest’ultimo, della delegata al Commissario e dell’allora responsabile del procedimento in relazione ipotesi inizialmente formulate sono state a suo tempo tutte archiviate. Il decreto a firma dell’allora gip del Tribunale di Bari Roberto Olivieri del Castillo, firmato nel lontano 26 luglio 2016, va in questa direzione. La prescrizione, infatti, ha estinto l’eventuale reato, sempre ammesso fosse stato commesso.
«Gli elementi acquisiti integrano gli estremi del reato» di abuso d’ufficio «con il requisito della cosiddetta doppia ingiustizia», scriveva anche il pm Domenico Minardi nella richiesta di archiviazione «ma il reato è estinto per decorso del termine di prescrizione».
Recuperare quanto la Procura aveva ricostruito nel fascicolo iscritto al numero 17422/2014 delle notizie di reato, diventa interessante alla luce di quanto la Gazzetta ha raccontato ieri sulle complesse vicende urbanistiche e catastali che ruotano intorno al teatro. Ad oggi, infatti, il politeama è accatastato come «unità collabente», ovvero un rudere. Inoltre, dal 2010, quando il Consiglio comunale deliberò in autotutela di revocare unilateralmente la propria adesione al Protocollo d’Intesa del 2002 sulla ricostruzione, il bene è rimasto in un limbo, dal momento che, annunci a parte, non è mai diventato demaniale. Del resto, nonostante il proclama dell’allora sindaco Michele Emiliano («Il Consiglio comunale di Bari ha affermato che il Petruzzelli è di proprietà pubblica e che appartiene al Comune di Bari»), non sarebbe mai potuto diventarlo. Avvocatura dello Stato e Agenzia delle Entrate hanno frenato sul punto sin da subito. Facile intuire che una delibera di Consiglio comunale non è sufficiente per andare in Conservatoria dei registri immobiliari e intestare un bene. Ma, soprattutto, il politeama è tuttora privo di agibilità edilizia e urbanistica.
Quanto alla «assenza tout court del certificato di agibilità», si legge nella richiesta di archiviazione del vecchio fascicolo, nessun rilievo penale. Al massimo la fattispecie è prevista come un mero «illecito amministrativo». Illecito che, però, non risulta sia stato mai perseguito né sanzionato, come prevede il Testo unico sull’edilizia. In teoria, chi doveva perseguirlo sarebbe stato lo stesso Comune che faceva e fa usare tuttora il teatro Petruzzelli alla Fondazione.
Per ricostruire quella lontana vicenda, la guardia di finanza sente all’epoca alcune persone informate sui fatti. Tra i testimoni figurano naturalmente alcuni dirigenti del Comune. A fine ottobre 2015, il responsabile della Ripartizione urbanistica ed Edilizia privata spiega: «Questo ufficio, per quanto rilevabile in atti, non ha rilasciato alcun certificato di agibilità relativamente alla parte del compendio che costituisce il teatro Petruzzelli né tanto meno, dalla consultazione al data base dell’Amministrazione, risultano pervenute istanze in tal senso». Il tenore è identico a quanto due settimane fa lo stesso dirigente ha scritto alla famiglia proprietaria del teatro. I militari sentono anche il dirigente della ripartizione Infrastrutture, Viabilità e Opere pubbliche. Chissà che loro non ne sappiano qualcosa. Macché. «Questo ufficio non ha svolto alcun ruolo nell’ambito di riqualificazione e risanamento del teatro Petruzzelli e, nello specifico, non ha rilasciato alcun certificato di agibilità», dichiara il dirigente interpellato nel novembre 2015.
Gli investigatori ricostruiscono in quel fascicolo anche gli appalti e la messa in opera di arredi, attrezzature, impianti di illuminotecnica e macchina scenica. Il pm, nella richiesta di archiviazione annota: «I lavori di ricostruzione, osservava la guardia di finanza nella analitica nota d’indagini, erano proseguiti a totale carico dello Stato, con aggravi di spesa correlati alle varianti in corso d’opera in assenza della detta copertura finanziaria con un significativo danno erariale». Sarebbe, dunque, spuntato persino un profilo suscettibile d’interesse da parte della corte dei Conti.
Ma se, tornando al profilo penale, non è stato possibile approfondire i sospetti visto il decorso del tempo, fa riflettere che, tra i 41 milioni di euro che i proprietari debbono restituire allo Stato come stabilito dalla Corte d’Appello, c’è una quota che, per la Procura venne gonfiata illecitamente. E pensare che proprio gli stessi Messeni, assistiti dall’avvocato Ascanio Amenduni, nel lontano 2007, avevano invitato tutti i soggetti coinvolti ad «evitare danni per il pubblico erario».
A Bari hanno lo stesso Codice Penale di Perugia?. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Aprile 2022.
Legittimo chiedersi quando arriverà anche in Puglia un procuratore rigoroso come Raffaele Cantone, o almeno qualcuno che si vada a rileggere il Codice Penale e finalmente lo applichi ?
Ieri pomeriggio alle 16:33:32 l’ AGI, Agenzia Italia ha diffuso una notizia dal titolo: “Pubblicazione verbale, procura Perugia apre fascicolo” , scrivendo” “Questa mattina il quotidiano Libero ha pubblicato un articolo in cui erano riportati stralci di dichiarazioni rese da Fabrizio Centofanti in data 31/03/2021 a questo ufficio pubblicando anche la foto della prima pagina del relativo verbale. Siccome non risulta che copia del verbale sia mai stata rilasciata ad alcuno, si e’ ritenuto necessario iscrivere un fascicolo contro ignoti per rivelazione di notizie riservate per accertare se l’atto sia giunto legittimamente alla stampa“. L’articolo in questione riportava la firma di Filippo Facci.
Lo ha reso noto la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone. Il verbale di dichiarazioni riguarda l’inchiesta sull’Acqua Marcia, di cui Fabrizio Centofanti era all’epoca responsabile delle relazioni istituzionali e degli affari legali.
Resta da chiedersi come mai in altre procure, fra cui il primato quella di Bari, città in cui negli ultimi tempi esce di tutto e di più… dagli uffici giudiziari per la gioia dei cronisti giudiziari locali diventati ormai portavoce-ventriloqui dei magistrati “amici” titolari dei vari fascicoli d’indagine, non si proceda come a Perugia . Sarà forse perchè il procuratore Roberto Rossi è troppo occupato ad intervenire in qualche forum giornalistico “amico” o ad apparire in interviste video, rifiutandosi di parlare con il nostro giornale “reo” di aver rivelato un suo vecchio procedimento dinnanzi alla sezione disciplinare del Csm ?
Basti pensare che in una vicenda processuale dinnanzi al Tribunale Penale di Bari, ancor prima che Rossi diventasse procuratore capo, nella quale era coinvolto il quotidiano La Repubblica, proprio per violazione del segreto istruttorio, un giudice barese si appropriò della competenza territoriale sostenendo che a suo dire l’edizione pugliese era stampata a Bari si appropriò di una competenza che era del foro di Bari. Infatti, piccolo particolare, il quotidiano romano è registrato a Roma e viene stampato a Roma. E non a Bari!
Per non parlare poi delle fughe di notizie avvenute durante l’asta giudiziaria per La Gazzetta del Mezzogiorno, in cui i curatori della società editrice Edisud fallita con una massa di oltre 40milioni di euro di debiti, l’ avvocato Castellano ed il commercialista Zito erano (persino dichiarandolo al Tribunale ) sul libro paga del gruppo CISA spa di Massafra, attuale socio-co-editore al 50% del quotidiano barese, senza che questa società abbia mai partecipato all’ asta pur versando oltre un milione di euro dal proprio conto corrente societario, e quindi illegalmente. Inquietante fu la presenza del procuratore Rossi all’udienza di convalida dell’assegnazione dinnanzi al Tribunale Fallimentare di Bari in cui depositò una relazione preliminare delle Fiamme Gialle che documentava la provenienza dei 4 assegni circolari per un milione di euro totale dal conto bancario della società massafrese. Dopodichè il silenzio più assoluto. Ed ancora più imbarazzante l’operato in aula del giudice che convalidò l’asta, il quale è l’ ex-marito della cognata dell’attuale amministratore delegato (socio al 50%) della Gazzetta. Conflitti d’interesse ? Coincidenze ? Vallo a capire!
Che fine hanno fatto le inchieste sulle fughe di notizie pubblicate sulla Gazzetta del Mezzogiorno dai cronisti Massimo Scagliarini e Nicola Pepe indagati e perquisiti nel 2019 ( cioè tre anni fa !) per la fuga di notizie che permise al governatore della Regione Puglia Michele Emiliano di sapere in anticipo di una indagine a suo carico
Tutto regolare ? Chissà… ! Nel frattempo la Procura Generale di Bari dorme sonni indifferenti…Legittimo chiedersi quando arriverà anche in Puglia un procuratore rigoroso come Raffaele Cantone, o almeno qualcuno che si vada a rileggere il Codice Penale e finalmente lo applichi?
Redazione CdG 1947
Aziende pugliesi sul tetto d’Europa: ecco la classifica del Financial Times. Sono dieci le imprese con la crescita più rapida entrate nella top 1000. Antonio Galizia su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Marzo 2022.
Il quotidiano economico-finanziario britannico Financial Times ha inserito 10 aziende pugliesi nella sua classifica FT1000 che ogni anno individua le mille aziende europee con la crescita più rapida. L’ultima edizione registra l’ingresso della Pegaso Security di Molfetta al 23° posto (azienda pugliese e tra le italiane più performanti), mentre la Pharma Grin di Lecce si è piazzata al 291°, la Kuadra cucine di Modugno (Ba) al 367°, la Prometeo Telecomunicazioni di Locorotondo (Ba) al 430°, la società ingegneristica Selfberg con sedi a Bari e Matera al 553°, la Sidea Group di Fasano (Br) al 603°, la Manelli Costruzioni di Monopoli al 626°, la Brainpull di Conversano al 739°, il Gruppo Gda di Galatina (Le) al 752° e la società di ingegneria New Euro Art di Grumo Appula all’832°. La lista, realizzata dal quotidiano in collaborazione con l’azienda tedesca Statista, ha analizzato i dati pubblici di decine di migliaia di imprese in tutta Europa. Alla fine sono state incluse le realtà più dinamiche, il cui tasso annuo di crescita composto (CAGR – Compounded Average Growth Rate) è superiore al 36,5%, un punto in più rispetto al criterio usato per lo scorso anno. In termini assoluti, le 10 eccellenze pugliesi hanno messo a segno una straordinaria crescita di fatturato e occupazione nel periodo preso in esame dal Financial Times, dal 2017 al 2020, che comprendono il periodo pandemico. Essere inclusi in una classifica europea è un riconoscimento importante alla qualità del lavoro di queste aziende, che in molti casi non si fermano al solo mercato regionale e nazionale.
Ma quali sono le ricette che hanno permesso a queste aziende resilienti di accelerare la propria crescita, in un momento sfavorevole per la maggior parte delle imprese italiane? Dal report di Financial Times e Statista emerge che in realtà non c’è alcun segreto, se non quello di credere nel valore generato dall’innovazione e dalla trasformazione digitale. Ciò ha permesso alla Pegaso di Molfetta, società specializzata nella gestione dei sistemi di video-sorveglianza, di segnare una straordinaria crescita del fatturato, pari all’85,59 per cento. E’ una start up, invece, la Pharma Grin di Lecce che segna il più 85,9 per cento, nata nel 2015 e già conta su 21 dipendenti che si occupano di marketing e logistica in campo sanitario. Cresciuta del 74,92 per cento la Kuadra Cucine di Modugno, azienda giovane, fondata sei anni fa occupa 20 dipendenti rispetto ai 9 iniziali. Si occupa di telecomunicazioni la Prometeo, sede a Locorotondo (Ba) azienda che, negli anni presi a riferimento dal report, nel suo specifico settore ha fatto registrare la crescita più rapida in Europa: più 67,16 per cento. Selfberg è invece un’impresa, con sedi a Bari e Matera, specializzata nella riqualificazione ambientale e nella realizzazione di impianti fotovoltaici ed eolici per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Occupa 60 dipendenti ed è cresciuta del 56,78 per cento. I cambiamenti dell’era digitale sono alla base del successo di due aziende che si occupano di marketing e comunicazione, la Sidea Group di Fasano (Br) segna una crescita del 52 per cento e occupa 49 dipendenti e Brainpull di Conversano con filiale a Milano (azienda nata in un garage dalla condivisione tra 10 amici) che registra una crescita da 1,3 a 4,3 milioni di euro (più 46 per cento) e occupa 29 dipendenti. Non mancano esperienze di successo nel campo ingegneristico e delle costruzioni: la Manelli di Monopoli (Ba), società impegnata nei settori delle infrastrutture e delle costruzioni civili e industriali, ha fatto segnare il più 53,36 per cento per un fatturato di 42 milioni; la New Euro Art di Grumo Appula (Ba) ha registrato il più 42,36 per cento (9,3 milioni di fatturato e 77 dipendenti). Nel campo della produzione di dispositivi medici e test rapidi per la diagnosi del Covid, il Gruppo Gda di Galatina (Le) ha registrato un incremento di fatturato del 46per cento (20,7 milioni e 205 dipendenti). Questo è quanto emerso dalla classifica annuale che dimostra quanto, queste aziende, nonostante le restrizioni e la pandemia, abbiano acquisito nuovi clienti, segnando una crescita importante.
Emiliano perde la "Disfida di Barletta" e la segreteria regionale. GABRIELE DE CAMPIS su Il Foglio il 23 marzo 2022.
Il Nazareno aveva chiesto che si lavorasse per una coalizione modello “campo largo progressista” ma il governatore ha presentato il candidato del Pd e dei civici che avevano governato cinque anni con la destra. Ora il Pd Puglia è commissariato: potrebbe arrivare l’ex ministro Boccia
Costa cara la “Disfida di Barletta” a Michele Emiliano. Il governatore, ignorando gli inviti alla prudenza giunti dal Pd nazionale - con interventi di Francesco Boccia, responsabile Enti locali, e Marco Meloni, coordinatore della segreteria - ha imposto nella città del nord Barese un candidato sindaco non condiviso con Roma, proponendo una coalizione dei dem solo con i civici transfughi dal centrodestra (vicini storicamente al capogruppo regionale Pd Filippo Caracciolo), senza però ricevere sostegno da sinistra e M5s. Da qui il braccio di ferro con il Nazareno, costretto alle maniere forti per affermare il centralismo democratico in una Puglia finora autogestita dagli emilianisti come un emirato autonomo: in arrivo c’è il commissario, che potrebbe essere proprio Francesco Boccia.
La reazione di Enrico Letta, dopo la sconfessione dei suggerimenti nazionali - non si è fatta attendere e così il segretario regionale uscente, invece di essere defenestrato, ha preferito comunicare sui social il suo “passo indietro”, gesto che non aveva ritenuto opportuno fare nei mesi scorsi, quando era stata commissariata (con un ignoto funzionario romano) la procedura congressuale per gravi irregolarità che ne limitavano partecipazione e pluralismo. Lacarra, punto d’incontro tra Emiliano e il sindaco di Bari Antonio Decaro, ha giustificato la sua uscita di scena spiegando che il suo è stato un gesto “utile a favorire un percorso chiaro verso la celebrazione dei congressi e affinché questi possano svolgersi in un clima di sano e sereno confronto e di ampia partecipazione”.
La realtà è differente: il partito nazionale aveva chiesto che anche a Barletta si lavorasse per una coalizione sul modello del “campo largo progressista” indicato da Enrico Letta, ma Emiliano - affiancato dal segretario Lacarra e dal sottosegretario Assuntela Messina - ha accelerato e presentato il candidato del Pd (l’ex dirigente comunale Santa Scommegna) e dei civici che avevano governato cinque anni con le destre. “Una forzatura”: hanno tuonato in coro M5s con il senatore Ruggiero Quarto, ma anche Sinistra italiana e Articolo Uno. Sul tema Boccia si era speso con una lettera aperta ai vertici dem pugliese, auspicando che ci fosse una concertazione con il Pd nazionale, e soprattutto si evitasse la “degenerazione” politica praticata dando spazio alle civiche trasformiste. Marco Meloni era stato altrettanto tranchant sulla querelle barlettana, parlando di “un confuso coacervo di liste civiche”. Parole cadute nel vuoto.
Sullo sfondo c’è il tentativo del Pd nazionale di regolamentare la cosiddetta “coalizione dei pugliesi”, ovvero l’invincibile armata di Michele Emiliano, fondata su uno schema politico ampio che va dal sindaco di destra di Nardò Pippi Mellone agli ex berlusconiani come il neoassessore alla Sanità Rocco Palese, alla sinistra identitaria e antifascista. Emiliano, però, non se ne cura e tira dritto, perché, sussurrano dal suo entourage, con questo schema “si vincono regionali e amministrative da più di dieci anni di fila…”.
Il Pd del mezzogiorno succube di De Luca e Emiliano. Puglia è una Repubblica autonoma di Emiliano, Letta prova a riprendersi il Pd. Annarita Digiorgio su Il Riformista il 24 Marzo 2022.
Enrico Letta vuole finalmente dare un nuovo ruolo alla segreteria nazionale, e prendere in mano la situazione del Pd al mezzogiorno succube dei potentati di De Luca ed Emiliano, i quali hanno già annunciato il loro terzo mandato. Alcuni intellettuali partenopei nei giorni scorsi hanno inviato una lettera molto forte al segretario nazionale chiedendo di aprire un dibattito sul deluchismo, e Letta ha fatto sapere di occuparsene presto. Dopo qualche giorno il segretario regionale del Pd campano Leo Annunziata si è dimesso. A distanza di due giorni, ieri, lo ha fatto anche Marco Lacarra segretario del Pd Puglia, già commissariato dallo scorso anno per violazione allo statuto nazionale.
A differenza di De Luca qui Michele Emiliano non può partecipare al partito, perché Csm e Corte Costituzionale glielo hanno vietato essendo ancora magistrato. Eppure continua a presenziare a tutte le riunioni nonostante sia dentro che fuori dal Pd sono tutti uomini suoi. Solo qualche mese fa infatti il governatore ha ufficializzato, alla presenza di Francesco Boccia, la federazione delle civiche a lui riconducibili formate o da fuoriusciti del Pd per frizioni locali, o da uomini di centrodestra cooptati dal suo sistema di potere. Alle amministrative in molti Comuni queste civiche si presentano contro il Pd. Il casus belli è scoppiato a Barletta, città della disfida. Emiliano ha prima provato a sostenere il sindaco di centrodestra uscente, poi ha costruito una coalizione con parte di quell’amministrazione mascherata nei simboli della sua federazione, ma senza i 5 stelle e la sinistra.
In questo limbo si è trovato incastrato Francesco Boccia, in Parlamento perché inserito nel listino bloccato in quota Michele Emiliano, ma ora responsabile degli enti locali nominato da Enrico Letta che gli ha dato mandato di costruire il famoso campo progressista con i 5 stelle in tutta Italia. Boccia, famoso per il suo “combattere le destre”, ha inviato una lettera al circolo di Barletta per “sospendere ogni ulteriore iniziativa contraria all’alleanza progressista voluta dal Pd nazionale” e sottolineando che “alcuni movimenti civici ritengono di poter agire come se la Puglia fosse un territorio a parte”. Come se non bastasse Letta ha fatto intervenire direttamente il suo braccio destro Marco Meloni: “Riteniamo sia un grave errore che a Barletta si tenti di intraprendere una strada fondata su un confuso coacervo di liste civiche che sembrano prescindere da qualsiasi discrimine tra centrosinistra e centrodestra, e dunque privo di alcuna connotazione progressista”. La risposta del segretario regionale Lacarra a Letta era scontata: “Sono 15 anni che con questo metodo in Puglia vinciamo tutte le elezioni”.
E così il giorno dopo, come se nulla fosse, Emiliano, Lacarra e la sottosegretaria Assuntela Messina hanno presentato il loro candidato sindaco di Barletta, ignorando anzi sfidando il richiamo della segreteria nazionale. Ieri Letta ha incontrato Lacarra, che non ha potuto far altro che mettere a disposizione il mandato.
Ora pare che Letta voglia nominare commissario del Pd pugliese Francesco Boccia, che però è sempre stato complice di questo sistema e fedelissimo di Emiliano. Cosa cambia? Sarebbe come se in Campania togli Enzo De Luca e metti il figlio Piero. Infatti la corrente Orlando chiede che, come si è sempre fatto, il commissario sia uno di fuori. Anche perché nessuno crede alla messa in scena della lite tra Boccia ed Emiliano sull’altare di Barletta o delle amministrative, che è piuttosto un gioco dei ruoli per dimostrare autonomia a Roma e poi gestire in autonomia la vera posta in gioco: il listino per le politiche.
Infatti nella guerra è intervenuto anche Articolo1: «Merita attenzione la nota romana sulle scelte politiche del PD pugliese, perché evidenzia che in Puglia il PD non sta lavorando alla costruzione di un progetto politico e sta prediligendo alleanze occasionali senza alcun discrimine tra centrosinistra e centrodestra». Emiliano infatti oltre a decidere i candidati del Pd, e delle sue civiche, come a Taranto mette uno dei suoi anche come sindaco del centrodestra. E mentre Letta sembra prenderne le distanze, la (finta) opposizione pugliese ne condivide i candidati e il metodo, e il Governatore se ne vanta: “Il centrodestra ha preso questa abitudine di candidare a sindaco uno di noi cercando di imitare il metodo Emiliano”. Terzo mandato garantito. Annarita Digiorgio
Lessico meridionale: Una moneta per una parola d’argento. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 febbraio 2022.
Non si può scrivere un libro al giorno, né leggere un libro al giorno. Questione di ozi troppo risicati che non permettono dibattiti o riflessioni prolungati. Ma un giornale, sì, si può leggere giorno per giorno. Si deve farlo. E benedicendo l’industrie genialità dell’orafo Gutenberg si può anche scriverlo e stamparlo. Se si è in molti. E in molti che non vadano troppo d’accordo, così discutono a maggior vantaggio per la verità.
Il giornale che stiamo leggendo si chiama «La Gazzetta del Mezzogiorno»: sono stato invitato a scrivervi e il direttore mi propone di scegliere, ogni domenica, una parola su cui meditare liberamente e scegliere la via dell’etimologia o quella della stimolante riflessione sugli usi del lemma.
Ho scelto la parola «Gazzetta» per cominciare, anzi, per ricominciare. L’etimo è molto dibattuto: la parola gazzetta, per come la usiamo, nasce nella seconda metà del 1500, dal nome del giornale veneziano «La gazeta dele novità» che prese questo nome perché costava giusto una gazeta che era una monetina d’argento.
Nel tempo moderno gazzetta divenne un nome comune di periodico, di giornale, in tutta Italia. La nostra è «La Gazzetta del Mezzogiorno», bello! E lo Stato Italiano addirittura promulga le sue leggi pubblicandole sulla Gazzetta Ufficiale.
Ed è ingente l’editoria di giornali che difendono il nome Gazzetta (segue il nome di una o più città). Più che un nome, una graziosa antonomasia. I giornali erano gli altri, quelli nazionali, che si stampavano in altre città o i periodici. Me li ricordo bene perché io, da bambino, ho sognato di fare il giornalaio. Non il giornalista, il giornalaio. Volevo troneggiare su di uno scranno in mezzo alla carta di tutti i colori e di inebriarmi di quel profumo scomparso che allora aveva la carta stampata. Pensavo: «Leggerò gratis tutti i giornali e i giornalini». Mio padre comprava «La Gazzetta del Mezzogiorno» tutti i giorni andando al lavoro e la portava a casa all'ora di pranzo ancora intatta. Era il segno certo che mio padre in ufficio lavorava. Forse dopo aver dato solo una «scorsa» ai titoli della prima pagina. Il mio turno per sfogliarla veniva dopo la sua siesta. Leggevo i titoli, mi avventuravo anche nella lettura di qualche articolo, guardavo le fotografie, soprattutto quelle che riprendevano fatti e persone stranieri e mi soffermavo sulle locandine dei cinematografi tutte incastrate in un ben ordinato cartellone: prima, seconda e terza visione.
Anche il mio maestro di scuola, un uomo buono e saggio munito di alteri baffi da bersagliere ciclista, comprava la «Gazzetta» che lui chiamava, per antonomasia irremovibile, «il giornale». L’acquistava e la riponeva nella tasca laterale della giacca, maestosamente informe anche di inverno. Il giornale, ripiegato in quattro, trovava posto verticalmente sempre nella stessa posizione e io potevo leggere la parte finale della testata: «iorno». Ricordo di aver letto talora «La Gazz», il che voleva dire che il maestro una squadernata sbrigativa al giornale l’aveva data. «La gazzetta» nostra ha un nome così lungo che, comunque la pieghi, riconosci la testata.
Più tardi scoprii che quel giornale si «faceva» in un bel palazzo vicino alla stazione dei treni. A me sembrava un vanto della città con quell’aria cosmopolita e quella cupola maestosa.
Ora quel palazzo magniloquente non c'è più. Peccato. Ricordo dei Telamoni pletorici e raccolti nello sforzo tremendo di reggere le finestre del primo piano e delle bocche di lupo a filo della strada da cui si vedeva il lavoro dei tipografi che si davano da fare intorno a macchine nere e lucide. Pensavo che reggessero tutta la «Gazzetta del Mezzogiorno». E al bimbo che ero, sfuggiva la metafora. Sono certo che, oggi, «La Gazzeta» farebbe una campagna per salvare quell’opificio.
Capitò anche a noi, giovanissimi teatranti, di aspettare lì davanti, con ansia, la critica ai nostri debutti tirando tardi la notte per gettarci sulle prime copie della «Gazzetta» e leggere e commentare. Eravamo cresciuti: la leggevamo da cima a fondo. Eravamo cresciuti e, finché si fosse rimasti a Bari, allora lo sapevamo bene, nessuno ci avrebbe fatto sconti. Oggi i teatranti sanno fare i conti.
Dopo, solo dopo, una volta partiti per la vita, saremmo stati benvoluti e aspettati: non rese di conti, ma rimpatriate. Capita di leggere, infatti, e sorrido di cuore, del «nostro Michele Mirabella». Ci tengono alla «Gazzetta». E, detto apertamente, ci tengo tanto anch'io
Quanti comizi sul Mezzogiorno. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 febbraio 2022.
Che bella parola: «Mezzogiorno». Evoca scampanii e luce. Prelevata dalla rosa dei venti, ci ricorda il sole a picco e ombre cortissime. Sull’orologio delle devozioni domestiche indica ore preziose di un tempo perduto in cui la giornata cominciava all’alba e si chiudeva al tramonto ed era il tempo della fatica umana.
Il mezzogiorno segnava la metà di un orario che non aveva sirene né allarmi o sveglie: era scandito dal sole e dalla notte. Pascoli acquerella il «santo desco fiorito d’occhi di bambini» cui il suono delle campane di mezzodì chiamava radunando al «rezzo, alla quiete».
La mia generazione ha famigliarizzato con questa parola in un suo versatile sfruttamento geopolitico che stava ad indicare il Sud d’Italia. Dal dopoguerra si parlò di Mezzogiorno in questa accezione non astronomica, ma sociale ed economica e io ne ho un ricordo bizzarro legato ad un aneddoto che vissi da adolescente.
In una piazza di Bitonto, durante un’ennesima campagna elettorale, un tale si infervorava sul palco per un comizio. A quel tempo pretelevisivo i comizi erano un passatempo per molti, me compreso, e nelle piazze si avvicendavano tribuni d’ogni tacca e rango, sullo stesso palco cui venivano cambiati il panneggio, le bandiere e i cartelli secondo i partiti di turno. Si cambiava anche l’inno e lo spettacolo proseguiva per l’identico pubblico che celebrava, così, non l’appartenenza personale, ma solo una rustica democrazia appena ritrovata. Coppole, dunque, a profusione e cappe scure di braccianti delusi dal «compratore».
La musica era gracchiante, ma l’effetto dell’Inno dei Lavoratori o di Bianco fiore garantito. Il MSI aveva rinunciato al repertorio del bieco ventennio e optava per un Inno a Roma di Puccini, allusivo, ma inoffensivo: bellissimo. I comunisti ostentavano il loro Bandiera Rossa. Il comizio cominciava con entusiasmo. Rarissime le intemperanze, ma frequenti le interruzioni, anche pittoresche.
Una sera parlava un rappresentante dei lavoratori (se lo disse da solo) e delle donne. Anche questo titolo se lo attribuì lui, senza alcuna tema di essere smentito dato che di donne non ve n’erano che tre o quattro: taciturne e un poco spaesate: al tempo, era raro che assistessero ai comizi. Incipit protocollare: ringraziamenti alle locali autorità del partito. Seguì la parte più politica nella quale il nostro sembrò accalorarsi, individuando il nodo dei problemi da risolvere: il «Mezzogiorno».
Notai il comico stridore tra la prosa marmorea e tribunizia e l’inconfondibile dizione pugliese così cantilenante e piena di o strette e di e spalancate dove non ci vogliono che funestava l’affabilità dell’oratore.
«La questione del Mezzogiorno è in testa ai programmi del partito che rappresento» avvertiva, rude. E poi ammoniva «Se non si risolve il dramma del Mezzogiorno non si risolve il dramma del Paese». E proseguiva con esempi efficaci avviandosi a concludere con un commovente «Per le famiglie del Mezzogiorno arrivano solo fame e povertà», destinato ad infiammare gli animi.
Un tale che aveva ascoltato sotto il palco, col naso all’insù per tutto il tempo, non perdendo una parola, una minaccia, un auspicio, alzò la mano e disse «Scusa compare!». Cortese, ma perentorio. Ottenuto il silenzio, proseguì in un dialetto italianizzato che traduco: «Il Mezzogiorno ancora ancora arrangiamo. È la sera che non teniamo niente da mangiare». La questione meridionale era servita.
Mi sono chiesto, anni dopo, cosa pensasse l’anonimo bracciante della «Cassa per il Mezzogiorno». Anche lui, come tanti, avrà trovato obliquamente iettatoria la denominazione. Da noi, popolo frugale, si sa, la cassa di rado è quella cui si erano riferiti De Gasperi e Saraceno. Più tardi alcuni vollero equivocare e la chiamarono «Cassa DEL Mezzogiorno».
Ancora si torna a parlare del Mezzogiorno e ancora con il codazzo di sigle e parole d’accompagnamento: tavolo, agenzia, piano per il Mezzogiorno. E si parla, si parla e si discute. Qualche volta si evita di discutere per evitare di litigare, più spesso si litiga e basta. E rispuntano polemiche, dispute, conflitti di competenza. Spariti i comizi. Ci sono i «social». Meno attendibili e molto meno divertenti.
E se questa volta il Sud cominciasse a fare da sé preoccupandosi di far da mangiare al mattino, al Mezzogiorno e alla sera?
Mi risulta che lo stia cominciando a fare. Con coraggio e allegria. Il titolo di questo giornale, oggi, vuol dire anche questo. Se si lavorerà con quella convinzione e quella tenacia che i meridionali dimostrano quando vanno a lavorare a casa d’altri, potremo invitare a pranzo i detrattori e i litigiosi. Scelgano loro: di sera o a mezzogiorno.
Auguri, vecchia mia: la Gazzetta del Mezzogiorno compie 135 anni. La Gazzetta è una comunità, crediamo fermamente sia così, noi tutti e Lei. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Novembre 2022
C’è Aldo Moro nel piccolo slargo davanti alla chiesa di Bari Santo Spirito, due campanili, una strada dritta in salita verso la stazione e un borgo di pescatori. Metà anni Sessanta, noi bambini delle Elementari siamo lì a festeggiare il passaggio o la visita del presidente del Consiglio con le bandierine tricolore di carta, senza enfasi né polemiche, perché era l’Italia ancora memore della guerra, divisa da grandi passioni, ma sempre felice di esserci. Lui ha il ciuffo bianco, il cappotto di lana pesante (in quel tempo esisteva il freddo) e, piegata sotto un braccio, La Gazzetta del Mezzogiorno. Molti alunni conoscono la Gazzetta, in casa la leggono i padri, cercando innanzitutto i necrologi e la squadra di calcio o il partito politico del cuore; anche le madri, certo, ma spesso non prima della sera. La lettura, una tregua. Sì, la Gazzetta è una questione di famiglia e non è solo un giornale, è una certezza, una tradizione, una serie di racconti rituali persino quando suonano beffardi. «Ci incarto le cozze», dicono qualche volta pensando di offendere. Ma dai, le cozze, è un onore…
Passa il Giro d’Italia, maglia rosa Felice Gimondi, chi altri in quegli anni? Vinceva persino in salita sulle montagne di Coppi, in pianura era un lampo di colore sotto lo striscione bianco e nero teso tra una casa e l’altra lungo la strada principale dei paesi, un nastro dal Salento al Gargano, ai borghi fra i calanchi lucani: La Gazzetta del Mezzogiorno. “Buongiorno Luna”, il titolo leggendario della Gazzetta nel luglio 1969, la notte in cui nessuno andò a dormire per aspettare il futuro. E arriva il 1978, rapiscono e assassinano Moro, insieme agli uomini della scorta l’agnello sacrificale di un’Italia che cambiava, assemblee nei licei e nelle scuole, cortei, nell’eskimo Lotta Continua e la Gazzetta. Corrono «gli anni di piombo», l’Italia martoriata dalle stragi di Ustica e Bologna, quando Pietro Mennea trionfa a Città del Messico e a Mosca, record del mondo e oro olimpico sui 200 metri, un dito alzato verso il cielo, il riscatto da Barletta all’eternità. Trema il Sud, 23 novembre 1980, i giornalisti della Gazzetta accorrono e raccontano - anche con le telecamere - le rovine e il coraggio, la disperazione e la tenacia. 11 luglio 1982, Italia-Germania a Madrid, «campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!» urla Nando Martellini: la corsa impazzita di felicità di Tardelli e un popolo intero in campo. 1991, in estate la nave “Vlora” nel porto di Bari con ventimila albanesi a bordo, prima avvisaglia dell’esodo, delle migrazioni in arrivo, del Mediterraneo via di fuga, esilio e speranza. Poi in autunno il Petruzzelli in fiamme, uno choc. La Gazzetta c’è sempre stata, anche prima delle esperienze di ciascuno… Oggi accenniamo ai nostri ricordi per festeggiare senza retorica e presentarvi questo fascicolo da conservare, se vorrete.
«C’è sempre stata» non è una formula cerimoniale. Lo scrive lo storico della stampa Paolo Murialdi: «A Bari, nel clima di grande confusione dell’8 settembre 1943, e nonostante i gravissimi scontri accaduti subito dopo il 25 luglio tra antifascisti e badogliani, La Gazzetta del Mezzogiorno era riuscita a non interrompere le pubblicazioni neppure per un giorno. Un caso unico» (Laterza 1995). L’avventura s’inizia 135 anni fa oggi con un editoriale non firmato del fondatore, il ventiseienne Martino Cassano, un tipo che «non scrive né parla molto» secondo l’amico Armando Perotti. Il titolo è “Ho l’onore” e appare sul Corriere delle Puglie del 1° novembre 1887. Leggiamone un breve stralcio: «Ma, se il giornale nuovo non crea la vita nuova, non è a dirsi per questo che un nuovo giornale quotidiano in Bari, non possa né debba riuscire del tutto inutile agl’interessi, alle ragioni, alle aspirazioni e ai bisogni del grande pubblico”. Così è stato lungo l’intero ‘900 e oltre, per Bari, la Puglia e la Basilicata.
La Gazzetta del Mezzogiorno, che dal 1928 in avanti raccoglie l’eredità del Corriere delle Puglie e della Gazzetta di Puglia, è una storia di cittadini e di istituzioni, di protagonisti e di famiglie legate al giornale. Una bella impresa meridionale cui tutt’oggi contribuiscono in tanti a cominciare dagli editori: i giornalisti e i poligrafici, la stampa e la distribuzione, le edicole e la pubblicità, il marketing e la comunicazione sui social. E naturalmente i Lettori. Dietro ogni notizia e analisi c’è il lavoro, un lavoro da tutelare al pari di qualsiasi altro, evitando lo sfregio della pirateria e della diffusione gratuita della informazione. La Gazzetta del Mezzogiorno è rinata lo scorso 19 febbraio dopo il trauma del fallimento e quasi sette mesi di assenza dalle edicole e dal web, una notte unica in rotativa insieme ai vecchi tipografi con le lacrime agli occhi e l’alba magica del ritorno. La Gazzetta è una comunità, crediamo fermamente sia così, noi tutti e Lei. Auguri, vecchia mia!
Buon compleanno Gazzetta: lo storico quotidiano di Puglia e Basilicata. Cassano e il «Corriere» così inizia 135 anni fa la storia della «Gazzetta». Il 1° novembre 1887 è dato alle stampe il primo numero de «Il Corriere delle Puglie. Giornale quotidiano di Bari». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Novembre 2022
N.1, Anno I. Il 1° novembre 1887 è dato alle stampe il primo numero de «Il Corriere delle Puglie. Giornale quotidiano di Bari». «Ho l’onore di presentare al pubblico il nuovo Corriere»: così esordisce il direttore Martino Cassano. Nato dalle ceneri del periodico «La Settimana», fondato due anni prima dallo stesso Cassano appena ventiquattrenne, il «Corriere» si propone come un giornale indipendente e imparziale, che non sia espressione di una particolare fazione politica, che raccolga le voci della città, della provincia, della regione, rispecchi le profonde trasformazioni socio-economiche del territorio e rappresenti gli interessi della società civile. Il primo vero quotidiano barese in senso moderno. Un obiettivo ambizioso per il giornalista che - nato a Bari nel 1861 - dopo aver rifiutato la carriera forense cui era destinato, si era formato a Roma nella redazione della «Gazzetta d’Italia» e di altre fortunate testate nazionali. Come molti suoi conterranei, però, nonostante il successo nella capitale, Cassano aveva deciso di tornare nella sua città natale, dove ancora non avevano preso piede veri e propri quotidiani, ma solo esperienze effimere, perlopiù legate a partiti. «Il Corriere delle Puglie è l’unico giornale quotidiano che si pubblica nelle Puglie: ha speciali corrispondenti dai centri più importanti delle province di Bari, Foggia e Lecce», si legge in ultima pagina. La prima sede dell’amministrazione e della direzione è nel borgo nuovo, in via Abate Gimma 59. «Il nostro», scrive Cassano, «è un molto modesto Corriere. […] Si propone di vivere dal pubblico e per il pubblico; quindi non è disposto ad arruolarsi sotto nessuna bandiera di condottiero».
Il giornale presenta, nella sua prima edizione, notizie di politica nazionale e internazionale e dedica un approfondimento allo sviluppo industriale di Bari degli ultimi trent’anni. Si occupa, naturalmente, di cronaca locale e ospita anche la recensione di un concerto in cui si è esibita la giovane pianista Eugenia Castellano: la quarta e ultima pagina è riservata agli annunci commerciali, tra i quali compare quello dello «Stabilimento musicale Fratelli Giannini di Angelo». Cassano dirigerà il giornale fino al 1921, anno in cui subentrerà Leonardo Azzarita. Nel ‘22, dopo una travagliata crisi che porterà il «Corriere» a chiudere i battenti, la redazione verrà assorbita da «La Gazzetta di Puglia», fortemente voluta da Raffaele Gorjux, già condirettore di Cassano nella prima testata. Solo nel 1928 il quotidiano assumerà definitivamente il nome attuale. Centotrentacinque anni fa iniziava, così, la lunga storia di queste colonne, che ancora oggi raccontano con passione la città, la regione, il Mezzogiorno.
“Giù le mani della Gazzetta” ? Per gestirla come vuole il nuovo “padrone” e fare carriera…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Maggio 2022.
Che fine hanno fatto quegli accertamenti della Guardia di Finanza di Bari sull'asta fallimentare per l'assegnazione della Gazzetta del Mezzogiorno, piena di conflitti di interesse e presunte irregolarità. Asta in cui sono comparsi assegni per un milione di euro tratti illegalmente dai conti della CISA spa che non partecipava all'asta, la cui assegnazione è stata deliberata da un giudice ex-cognato dell' attuale amministratore delegato della nuova società editrice di cui Albanese detiene il 50%.
Vi ricordate le manifestazioni dell’ Assostampa di Puglia e dei sindacalisti della Gazzetta del Mezzogiorno durante la fase di assegnazione post-fallimento ? Gli striscioni “Giù le mani dalla Gazzetta” erano solo tentativi di ostacolare la gara fallimentare sulla quale secondo fonti confidenziali del Palazzo di Giustizia di Lecce sarebbe in corso un’indagine della magistratura salentina competente sugli eventuali reati d’ufficio della magistratura barese. Anche perchè ci risulta che un giornalista-sindacalista che votava nel comitato creditori del fallimento, abbia fatto più di qualcosa di anomalo, come la stessa Assostampa di Puglia denunciava in una mail in nostro possesso.
Nel frattempo accadeva di tutto e di più, e cioè che i due curatori fallimentari della EDISUD spa, ex-società editrice della Gazzetta del Mezzogiorno fallita con un passivo di oltre 40 milioni di euro operavano indisturbatamente nonostante avessero rapporti professionali ed economici con le attività societarie del rag . Antonio Albanese presidente della CISA spa di Massafra, , diventato socio al 50% della EDIME srl, la nuova società editrice del quotidiano barese dal modesto capitale sociale di appena 10mila euro.
Il vero obiettivo di Albanese nell’entrare nel capitale sociale, era quello di “piazzare” ai vertici un giornalista da sempre a lui molto “vicino”, l’attuale capo redattore centrale Cosimo (Mimmo) Mazza, che addirittura voleva imporre come vicedirettore a Giovanni Valentini, l’ ex-direttore del settimanale L’ ESPRESSO e condirettore del quotidiano LA REPUBBLICA (sotto la direzione di Eugenio Scalfari) a cui Albanese aveva proposto la direzione del quotidiano barese, ricevendo un garbato ma secco rifiuto con l’aggiunta “il mio vice me lo sono sempre scelto io”.
Ed infatti sin dal primo giorno dalla ripresa delle pubblicazioni la Gazzetta del Mezzogiorno, giornale che anni fa proprio il quotidiano LA REPUBBLICA definì con un proprio titolo”la Mazzetta del Mezzogiorno”, ha iniziato ad attaccare Michele Emiliano e la Regione Puglia. Il motivo ? I più maliziosi ma bene informati sostengono che sia una ripicca conseguente al nuovo piano regionale dei rifiuti che di fatto ha estromesso ogni appetito di allargamento o apertura di nuove discariche che sono il “business” principale di Albanese.
Se ne è accorto persino il FATTO QUOTIDIANO che proprio ieri nella rubrica “Fake news” ha smascherato un articolo imbarazzante della Gazzetta del Mezzogiorno scrivendo testualmente:
“Parte da oggi 25 maggio il “reddito energetico” in Puglia, la prima in Italia ad applicarlo, stanziando 6,8 milioni a fondo perduto a favore dei nuclei familiari al di sotto dei 20 mila euro annui, per incentivare l’acquisto ed installazione di impianti per la produzione di energia rinnovabile fino ad un contributo di 8.500 euro. Un provvedimento che si ispira al modello del “reddito di cittadinanza” caro al M5S. Si apre così una fase di sviluppo delle energie “pulite” in una regione particolarmente ricca di sole e di vento. Ma proprio alla vigilia di questa operazione La Gazzetta del Mezzogiorno ha sferrato un duro attacco al progetto di un parco di pale off shore con un titolo sparato in prima pagina: “Eolico nel mare del Salento, anche Legambiente dice no“
“Il piano presentato da Odra Energia” – continua l’articolo – “prevede l’installazione di turbine galleggianti fra Otranto e Santa Maria di Leuca, per una potenza di 1300 megawatt. Naturalmente il progetto è sottoposto all’esame ed eventuale approvazione del Ministero per la Transizione Ecologica. Un altro parco eolico intende realizzarlo la Kaila Energia al largo di Brindisi. Entrambi i progetti fanno capo alle società Falk Renewables e BlueFloatEnergy.“
In realtà però scrive il Fatto Quotidiano, Legambiente non ha emesso finora nessun “no“, ne ha preso posizione. I suoi dirigenti regionali hanno presentato osservazioni puntuali chiedendo al ministero di approvare una procedura per i progetti offshore. Mancano infatti, il piano per delimitare lo spazio marittimo, le linee guida per i progetti e l’introduzione di una procedura per il confronto con i territori. Al momento dunque si tratta di una questione di metodo più che di merito.
“Perchè allora questa “guerra sulle rinnovabili” in Puglia ?” aggiunge il Fatto Quotidiano. “E perchè la Gazzetta forzando la mano a Legambiente ha sparato a zero ? Si da il caso che il giornale sia passato in mano a due imprenditori locali, uno dei quali è Antonio Albanese, considerato il “re dei rifiuti” in Puglia: a suo carico sono stati aperti due processi dalla Procura di Taranto e da quella di Lecce” processi dei quali il quotidiano barese, sotto la nuova gestione “monnezzara”, finge di non conoscerne l’esistenza e non informa i suoi lettori non scrivendo nulla, preferendo attaccare il suo ex editore Ladisa (famiglia che controlla la Ledi srl) inventando fatti e circostanze inventate di sana pianta dal giudice barese De Benedictis (arrestato e condannato) assolutamente prive di alcun fondamento alle quali nessuna procura ha dato alcuna credibilità.
“Da tempo Albanese vuole realizzare un inceneritore nel “tacco d’ Italia” – spiega il Fatto Quotidiano – ma la Regione finora non ha concesso l’autorizzazione. E nell’attesa, il quotidiano di Bari non ha risparmiato critiche ed attacchi al governatore Emiliano. C’ è chi pensa, perciò, che l’eventuale installazione di un grande parco eolico, al largo del Salento, cioè a 10-12 miglia dalla costa, potrebbe interferire con il progetto e la realizzazione dell’inceneritore di Albanese”.
Quello che però ci chiediamo noi, è che fine abbiano fatto quegli accertamenti della Guardia di Finanza di Bari sull’asta fallimentare per l’assegnazione della Gazzetta del Mezzogiorno, piena di conflitti di interesse e presunte irregolarità. Asta in cui sono comparsi assegni per un milione di euro tratti illegalmente dai conti della CISA spa che non partecipava all’asta, la cui assegnazione è stata deliberata da un giudice ex-cognato dell’ attuale amministratore delegato della nuova società editrice di cui Albanese detiene il 50%. Ma forse qualcuno in Procura a Bari, particolarmente sensibile ad apparire sui media locali, è distratto…ed allora per fare clamore si indaga l’editore Mario Ciancio di Sanfilippo. Redazione CdG 1947
Il caso Martellotta: il “giornalista…sindacalista” che invoca il reato di opinione. Povero giornalismo! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Aprile 2022.
Archiviato dall’Ordine il suo esposto nei confronti del collega Antonello Valentini, che era molto bene informato in quanto la nuova proprietà aveva proposto la direzione della Gazzetta del Mezzogiorno, a suo fratello Giovanni, già condirettore del quotidiano La Repubblica (direttore Eugenio Scalfari) e del settimanale L' Espresso, anticipandogli però che avrebbe dovuto avere come vice-direttore il suo caro "amico" e sodale Mimmo Mazza ed a caporedattore Bepi Martellotta. Ottenendo un cortese ma secco rifiuto.
Il consiglio di disciplina dell’ Ordine dei giornalisti del Lazio ha archiviato l’esposto presentato nei mesi scorsi contro Antonello Valentini, dal giornalista Giuseppe Martellotta, da qualche settimana promosso come per incanto vice capo redattore della nuova gestione de La Gazzetta del Mezzogiorno sindacalista militante… e presidente dell’ Assostampa di Puglia, cioè l’organismo che dovrebbe rappresentare la categoria sul fronte sindacale pugliese, ma che in realtà pensa più alle carriere che all’occupazione.
Martellotta aveva accusato Valentini denunciandolo al Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio sostenendo di aver violato alcune norme di carattere professionale perché in alcuni post su Facebook aveva scritto a suo tempo (a novembre del 2021) che si prospettava per lui e di un altro suo collega sindacalista in carica, Mimmo Mazza, la promozione nel nuovo organigramma della Gazzetta, nell’ambito di una trattativa sindacale con i nuovi editori.
Come si legge nella motivazione della decisione dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio “Valentini si sarebbe limitato a esprimere la sua opinione personale in merito alla vicenda legata alla Gazzetta del Mezzogiorno”. E per questi motivi il Collegio “votando all’unanimità, decide di archiviare il procedimento”. “Il disinformato Valentini…” scriveva Martellotta nel suo esposto . Invece Antonello Valentini era molto bene informato in quanto la nuova proprietà aveva proposto la direzione della Gazzetta del Mezzogiorno, a suo fratello Giovanni, già condirettore del quotidiano La Repubblica (direttore Eugenio Scalfari) e del settimanale L’ Espresso.
Secondo una nostra fonte bene informata il “re della monnezza“ pugliese Antonio Albanese (meglio noto come Tonino o “Surgicchio“) socio al 50% della nuova società editrice de La Gazzetta del Mezzogiorno, si sarebbe presentato a Roma con una fiammante Lamborghini per convincere Giovanni Valentini ad assumere la direzione del giornale barese propostagli, anticipando però che avrebbe dovuto avere come vice-direttore il suo caro “amico” e sodale Mimmo Mazza ed a caporedattore Bepi Martellotta. Richieste che erano state peraltro fatte dai sindacalisti al precedente editore della Gazzetta del Mezzogiorno Ladisa durante la votazione per accettare le proposte durante l’asta fallimentare (nella quale Mazza votava…)
Le anticipazioni di Antonello Valentini che era molto bene informato hanno trovato pieno riscontro nei fatti: Bepi Martellotta, presidente del sindacato regionale, è stato promosso vice capo redattore; Mimmo Mazza ( allora componente del CdR, il sindacato interno della Gazzetta) è stato promosso redattore capo centrale, cioè al momento n.2 del giornale, continuando a essere il “vice” di Martellotta nell’ Assostampa di Puglia. Una vita da “gregario”.
Nel suo post su Facebook, Valentini così commenta l’ archiviazione dell’esposto di Martellotta nei suoi confronti: “Su queste vicende avevo espresso -e confermo- la mia opinione: nessuna illegittimità nelle promozioni, ma una questione che attiene all’opportunità, all’immagine della categoria giornalistica, in particolare quando si ricopre un ruolo sindacale. Esposto quindi archiviato dall’Ordine, ma resta una grande amarezza e uno sconcerto profondo. Non avevo mai visto che un reato di opinione venisse invocato e sostenuto da un sindacalista, per giunta presidente dell’Associazione regionale di categoria. Con quale faccia e quale coerenza, Martellotta si è schierato in sostanza contro tutte le battaglie durissime e coraggiose della Federazione Nazionale della Stampa contro politici o editori che chiedevano di perseguire i giornalisti anche in tribunale con l’arma arcaica e fascista dei reati di opinione, cioè contro le idee e la libertà di pensiero garantita dalla Costituzione? E di fronte a questa sentenza dell’Ordine, qual è la reazione e quali sono saranno i comportamenti e le decisioni di Martellotta ?“
Richiesto il processo per Antonio Albanese nuovo co-editore de La Gazzetta del Mezzogiorno. Che tace…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Marzo 2022.
Migliaia di tonnellate di rifiuti trattati con un'autorizzazione illegittima. Richiesto il processo per Antonio Albanese, 58 anni di Massafra (Taranto), legale rappresentante della Progetto Ambiente Bacino Lecce Tre (società del gruppo CISA spa di Massafra) co-editore della Gazzetta del Mezzogiorno
Era l’ 11 luglio dello scorso anno quando i procuratori aggiunti di Lecce Elsa Valeria Mignone e Guglielmo Cataldi, che hanno chiuso le indagini svolte dalla Polizia Provinciale e con i Carabinieri della sezione di polizia giudiziaria distaccata in Procura, sui presunti illeciti commessi nell’impianto “Ecolio 2” di Presicce – Acquarica in provincia di Lecce che aveva recuperato e smaltito migliaia di tonnellate di rifiuti pericolosi e non pericolosi senza una regolare autorizzazione
Il prossimo 13 settembre si svolgerà dinnanzi al Tribunale di Lecce l’udienza preliminare dell’inchiesta condotta dal procuratore aggiunto di Lecce, Elsa Valeria Mignone, con le indagini per verificare la fondatezza dell’accusa che la società Ecolio 2 di Presicce-Acquarica (Lecce). La tesi accusatoria avanzata dalla Procura di Lecce è che l’autorizzazione integrale ambientale rilasciata a Ecolio 2 con la determina regionale del 18 maggio del 2011 fosse macroscopicamente illegittima, poichè sempre secondo la Procura , avrebbe dato per certo l’esistenza di condizioni, prescrizioni e adempimenti richiesti.
Sarà il Gip del Tribunale di Lecce Sergio Tosi a valutare e decidere se mandare a processo i 16 imputati, fra i quali titolari di aziende del settore rifiuti e vari tecnici, nonché le istanze delle difese di non luogo a procedere. Le contestazioni riguardano Italo Forina, 73 anni di Canosa di Puglia (Bari), legale rappresentate della società Ecolio 2 ; Toni Fernando Alfarano, 52 anni di Racale (Lecce), quale responsabile tecnico dell’impianto; Andrea Giubileo, 52 anni di Milano, vice presidente dell’impianto di estrazione trattamento idrocarburi ENI di Viggiano (in provincia di Potenza), e Walter Rizzi, 61 anni di San Donato Milanese, vice presidente dell’ ENI di Viggiano; Attilio Dabbicco, 55 anni di Bari, direttore tecnico della Siderurgica Signorile; Maurizio Cianci, 63 anni di Bari, dirigente di Aqp, amministratore unico dello stabilimento Aseco Spa di Ginosa (Taranto) ; Vittorio Petrucco, 63 anni di Trieste, legale rappresentante della Icop di Basiliano (Udine); Antonio Albanese, 58 anni di Massafra (Taranto), legale rappresentante della Progetto Ambiente Bacino Lecce Tre (società del gruppo CISA spa di Massafra) , che gestisce la discarica “Burgesi” di Ugento ; il direttore tecnico dello stesso impianto Carmine Carella, 68 anni di Bari; Mario Montinaro, 76anni di Campi Salentina (Lecce), legale rappresentante della Monteco; Antonio Saracino, 47 anni di Soleto, responsabile tecnico dell’Area 2 Discarica di Ugento; Antonio Leone, 45 anni di Manduria (Taranto) , responsabile tecnico dell’impianto Eden 94, e poi Uber Barbier, 69 anni di San Martino in Rio, presidente della società Manduriambiente; l’ad Luca Galimberti, 52 anni di Fosnovo (Massa Carrara) ed il direttore generale Antonio Morea, 52anni di Noci.
Secondo la Procura di Lecce sarebbe mancata l’approvazione del progetto di variante da impianto di trattamento di acque di vegetazione a impianto di smaltimento di rifiuti, una delle circostanze che dovrà analizzare il giudice per l’udienza preliminare. Altra circostanza su cui si basera l’accoglimento o meno della richiesta di rinvio a giudizio è l’accusa di carenze strutturali, emissioni maleodoranti e smaltimento dei rifiuti in violazione alle prescrizioni fra i quali l’omessa copertura delle vasche di trattamento, l’instabilità del processo di combustione e l’impossibilità di garantire le verifiche sui fumi, l’insalubrità dei luoghi di lavoro, acque piovane stagnanti, sforamento dei limiti di emissione dell’azoto e del mercurio.
Consentita la costituzione parte civile del Comune di Presicce-Acquarica e di Salve, della Provincia di Lecce, della Regione Puglia, del ministero dell’Ambiente e della Lilt-Lega italiana per la lotta ai tumori.
Incredibilmente mentre nel luglio 2021 sotto la direzione di Michele Partipilo e la gestione editoriale della Ledi srl, la notizia dell’ avviso di conclusione delle indagini, venne pubblicata anche dalla Gazzetta del Mezzogiorno, oggi che il ragionier Antonio Albanese da Massafra è entrato come socio nell’ azionariato della Edime, la nuova società che insieme al gruppo Miccolis di Castellana Grotta, attraverso la partecipata Ecologica s.p.a., edita il quotidiano barese, la notizia viene nascosta ed autocensurata.
E meno male che la redazione della Gazzetta inneggiava alla libertà di stampa ed al diritto dei lettori di Puglia e Basilicata ad essere informati…evidentemente oggi i soldi provenienti dalle discariche di Albanese profumano di sopravvivenza, e certe notizie non si danno. E’ la stampa “monnezza” ! Redazione CdG 1947
Il lavoro che uccide: nel 2021 in Puglia 96 morti e 24mila infortuni. I dati della Cgil e la proposta per i giovani: «Costruiamo una carta dei diritti degli studenti in alternanza». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Marzo 2022.
Di lavoro si continua a morire. È un bilancio drammatico quello fornito dalla Cgil Puglia. Nel 2021 in Puglia ci sono stati 65 infortuni al giorno e complessivamente 96 morti sul lavoro in un anno. I numeri sono emersi nel corso dell’iniziativa «Al Sicuro!» promossa dalla Cgil Puglia nel dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari. Hanno partecipato, tra gli altri, il segretario della Cgil Puglia, Pino Gesmundo; la segretaria confederale nazionale della Cgil, Rossana Dettori; e Maria Giorgia Vulcano, coordinatrice del Nidil Cgil Puglia.
«Fermare la strage sui luoghi di lavoro. Favorire una giusta transizione tra istruzione, formazione e luoghi della produzione», è il sottotitolo dell'evento promosso nell’ambito della mobilitazione nazionale lanciata dalla Cgil dopo le morti di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, due giovani di 18 e 16 anni, che hanno perso la vita rispettivamente durante un percorso di alternanza scuola lavoro e durante un tirocinio. «Numeri e storie - ha detto Gesmundo - che ci dicono quanto urgente sia, e questa è la proposta che avanziamo, un osservatorio permanente su formazione e lavoro, coinvolgendo le associazioni studentesche, per monitorare un fenomeno che oggi sfugge alla conoscenza e valutazione».
Dettori ha sottolineato l'importanza di «confrontarci con le scuole e le università per comprendere diversità dei bisogni formativi e gli studenti devono poter decidere percorsi. Lavoriamo a costruire una carta dei diritti degli studenti in alternanza: ai ragazzi dico conquistiamo insieme questi diritti».
Maria Giorgia Vulcano, coordinatrice del Nidil Cgil Puglia, ha ricordato che risultano non in regola con percentuali che oscillano tra il 60 e l’80 per cento, le aziende «del trasporto e magazzinaggio, attività di servizi, alloggio e ristorazione, attività sportive e di intrattenimento, attività professionali, scientifiche e tecniche e commercio».
Le mille consulenze della Regione: venti pareri costano 1,6 milioni. Amati «Eccessivo il costo di quel comitato, è necessario trovare una soluzione». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Marzo 2022.
Certo fa effetto, in cima all’elenco delle 1.052 consulenze che la Regione e le sue partecipate hanno affidato nel 2021, leggere nove nomi da 126mila euro e uno da 144.900 euro. Sono il presidente e i nove componenti del Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici, un organo inventato da Vendola nel 2007, che ogni triennio costa ai pugliesi (lo prevede la delibera 37 del 12 marzo 2021, in cui è definito lo stanziamento) un milione e 600mila euro. E non è ben chiaro a cosa serva.
Va però detto che la responsabilità non è né del presidente Vito Rocco Peragine, docente universitario, né dei suoi colleghi. Che documentano pubblicamente l’attività di analisi e approfondimento svolta sui progetti finanziati dalla Regione. Un’attività complessa e (si suppone) approfondita che però all’atto pratico non incide, visto che ai circa 20 pareri (quelli su cui il Nucleo sta lavorando in questo momento) la legge regionale attribuisce un valore obbligatorio ma non vincolante: a prescindere da ciò che dicono i professori (42mila euro lordi l’anno per tre anni ai componenti, 48.300 al presidente per un totale di 1.278.900 euro), insomma, la politica può andare avanti lo stesso. «Tempo fa - dice il consigliere regionale Fabiano Amati (Pd), che ha da sempre nel mirino i vari comitati della Regione - con una legge ho ridimensionato i pareri del nucleo, che con le loro lungaggini servivano solo a disinvestire e perdere finanziamenti. Non ho mai creduto negli organismi consultivi, soprattutto se così onerosi, anche se resta da risolvere il problema relativo alle previsioni della legge statale. Ma di fronte a questo tipo di costi di funzionamento, credo sia necessario trovare una soluzione».
Le consulenze affidate nel 2021 dalla Regione e dalle partecipate e controllate ammontano in totale a poco più di 7 milioni di euro. Nell’elenco, ottenuto dall’estrazione dei dati dal sito della Funzione pubblica su cui vanno riversati per legge, c’è ovviamente di tutto: dagli incarichi legali a quelli artistici, dalle commissioni di gara ai «co.co.co.» degli assessorati. Nel registro delle consulenze finiscono tutti i contratti che, a vario titolo, non costituiscono lavoro subordinato. Detto della mancanza dei dati di PugliaPromozione (turismo), mentre Ager (rifiuti) non rientra tecnicamente nel perimetro delle agenzie regionali, l’agenzia che spende di più è la Apulia Film Commission (877mila euro per 161 contratti), seguita da Puglia Sviluppo (761mila euro per 428 consulenti, alcuni dei quali ricevono poco più di un gettone di presenza). I contratti più ricchi sono quelli stipulati dall’Aress, l’agenzia per la sanità guidata da Giovanni Gorgoni (ne ha fatti 20 per 472mila euro), davanti a quell dell’Asset, l’agenzia per il territorio, che ne ha fatti 9 (ma per un totale di 219.800 euro), quasi tutti collegati ai laboratori urbani di Taranto.
Il consulente più «ricco» è Leo Caroli, ex assessore ed ex consigliere regionale, che riceve 91.678 euro come presidente del Sepac (il tavolo per le «aree di crisi», i cui 11 componenti costano in totale 211mila euro), davanti a una giornalista di Mesagne, Serena Mingolla, che sommando tre incarichi dell’Aress e uno del progetto Interreg lo scorso anno ha portato a casa 89.475 euro lordi. Al terzo posto l’avvocato salentino Giovanni Maglio che ha ricevuto 72mila euro dall’Aress per una consulenza sulle nuove tecnologie collegate alla sanità. I consulenti con il maggior numero di incarichi sono, ovviamente, gli avvocati: l’amministrativista Guido Rodio (sei cause da InnovaPuglia per 30.246 euro), il civilista Luca Vergine (quattro fascicoli da Arca Sud Salento e uno da Arpa per 23.897 euro) e via via tutti gli altri. In totale la spesa per il contenzioso (nel senso di incarichi affidati nel 2021) è di poco più di 1,1 milioni di euro per 116 fascicoli (tra Regione, Aqp, Puglia Sviluppo, Aeroporti...), pareri pro-veritate e consulenze stragiudiziali. Altri 560mila euro si spendono per il supporto alla gestione del Piano di sviluppo rurale (i finanziamenti europei dell’agricoltura), per il quale c’erano 20 contratti da 28mila euro ciascuno. La presidenza della Regione, infine, spende 30mila euro ciascuno per Mino Borracino e Angelo Riccardi, non eletti alle Regionali e finiti a fare i consiglieri del governatore Emiliano.
Lopalco: "Ospedale in Fiera e vaccini, gli scivoloni di Emiliano. Ecco perché serve la commissione d'inchiesta". Antonello Cassano su La Repubblica il 2 marzo 2022.
L'ex assessore regionale alla Sanità non risparmia critiche al governatore: "Serviva più condivisione. Non mi ha coivolto e sulla campagna vaccinale mi ha commissiarato, uno sgarbo nei miei confronti".
Una commissione d'inchiesta sulla gestione dell'emergenza pandemica può essere utile a fare chiarezza anche sulle vicende giudiziarie della Protezione civile. Quanto al presidente Michele Emiliano, avrebbe dovuto garantire maggiore collegialità per limitare i danni. Ne è convinto Pier Luigi Lopalco, che da assessore regionale alla Sanità ha gestito il periodo più difficile dell'emergenza pandemica: dai primi mesi del 2020 fino a novembre scorso, quando si è dimesso in polemica con la linea del governatore.
Prefetto Bari: «L’ospedale in Fiera va chiuso». Abusivo dal 1° aprile se cessa stato d'emergenza. La lettera alla Regione: «L’autorizzazione è temporanea e provvisoria, vale soltanto per il periodo in cui vige lo stato di emergenza». Massimiliano Scagliarini il 03 Marzo 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.
Se non ci saranno proroghe dello stato di emergenza (che al momento scade il 31 marzo) l’ospedale in Fiera dovrà essere smantellato. Il prefetto di Bari, Antonella Bellomo, lo ha ribadito ieri al governatore Michele Emiliano e al nuovo capo della Protezione civile, Nicola Lopane. Lo ha fatto in risposta a una lettera con cui la Fiera del Levante il 15 febbraio aveva chiesto il rimborso di oltre 1,2 milioni di euro per le spese di acqua ed energia elettrica.
La questione non è nuova (il prefetto aveva scritto una nota di senso analogo già a luglio) ma rischia di creare gravi difficoltà amministrative anche alla stessa Regione.
Bari, «Così hanno truccato l’appalto per l’ospedale della Fiera». Le carte dell’indagine sulla Protezione civile: «Favoriti gli amici di Lerario». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Marzo 2022.
L’appalto dell’ospedale della Fiera del Levante come un enorme puzzle. Un disegno in cui i pezzi centrali sembrano sapientemente predisposti. Gli atti che la Procura di Bari ha depositato al Tribunale del Riesame permettono di illuminare i contorni dell’indagine sugli appalti della Protezione civile della Regione Puglia, quella che il 23 dicembre ha portato in carcere (dove tuttora si trova) l’ex dirigente Mario Lerario, preso in flagrante mentre incassava la mazzetta natalizia da 10mila euro. Spiccioli, in confronto ai milioni di cui parliamo.
Il sospetto del procuratore Roberto Rossi e dell’aggiunto Alessio Coccioli è che gli appalti dell’emergenza affidati da Lerario e dall’ex responsabile del procedimento Antonio Mercurio (indagato per concorso in falso e turbativa d’asta) rispondano soprattutto all’esigenza di accontentare gli amici.
«Io, magistrato, ho vissuto l’onta del carcere e la ferocia della giustizia». Parla Michele Nardi, condannato dal Tribunale di Lecce a 16 anni e 9 mesi per concorso morale in corruzione in atti giudiziari, con una sentenza poi annullata in appello. Valentina Stella su Il Dubbio il 10 luglio 2022.
Qualche mese fa la Corte d’appello di Lecce, dichiarando la propria incompetenza territoriale in favore della Procura di Potenza, ha annullato la sentenza di primo grado con la quale il magistrato Michele Nardi era stato condannato dal Tribunale salentino a 16 anni e 9 mesi per concorso morale in corruzione in atti giudiziari, nell’ambito di una inchiesta che ha visti coinvolti altri magistrati, avvocati, poliziotti. Difeso da Domenico Mariani e Carlo Taormina, Nardi si proclama innocente.
Chi era Michele Nardi prima di questa vicenda?
Ho vinto il concorso in magistratura a 24 anni. Sono figlio di un magistrato, diventato a fine carriera Procuratore generale di Cassazione. Ho dedicato circa 30 anni della mia vita a questo lavoro: sono stato pretore, poi giudice a Trani fino al 21 febbraio 2006 quando mi sono trasferito a Roma. Lì sono stato il più giovane ispettore generale del Ministero della Giustizia, poi nel 2012 sono passato alla Procura di Roma.
Passiamo al momento dell’arresto.
Il 14 gennaio 2019 mi stavo recando in auto a Scandicci (FI) per un corso di aggiornamento. All’uscita del casello autostradale sono stato accerchiato da diverse auto dei carabinieri che, armi in pugno, mi hanno arrestato.
L’hanno trattata come Carminati.
Sì, come se fossi il peggiore dei criminali. Avrebbero potuto convocarmi in caserma e notificarmi il provvedimento. Hanno preferito fare questa sceneggiata. Poi mi hanno condotto in macchina al carcere di Lecce dove sono rimasto in isolamento per una settimana perché lì ci sono diversi ergastolani condannati da me nel maxiprocesso Dolmen contro la mafia pugliese. Poi mi hanno trasferito nel carcere di Matera: sono rimasto in cella oltre un anno senza quasi mai uscire per l’ora d’aria perché non potevo condividerla con gli altri detenuti. Dopo un mese di detenzione mi hanno certificato uno stato di depressione con pericolo suicidario e trasferito per 30 giorni nel reparto psichiatrico del carcere di Taranto in una cella di 5 mq insieme ad altre due persone, talmente piccola che dovevamo fare a turno per stare in piedi. Fuori intanto i miei figli ricevevano minacce sui social: “vi bruceremo vivi”. Per non parlare del linciaggio massmediatico subìto da me e dalla mia famiglia. Addirittura prima ancora che finisse una perquisizione a casa della mia ex moglie, che fu negativa, in alcune emittenti avevano detto che erano state trovate ingenti somme di denaro in contanti.
Lei ha scritto dal carcere anche una lettera al Presidente Mattarella.
Sì, dopo oltre un anno di custodia cautelare gli scrissi per descrivergli che girone infernale fossero le nostre carceri. Le condizioni di detenzione in Italia sono a dir poco vergognose. Mi sono convinto che il carcere nella maggior parte dei casi è inutile, non ha alcuna funzione risocializzante né incide sulla deterrenza. E poi è inconcepibile che il 30% dei reclusi non abbia una condanna definitiva ma sia comunque ristretto in attesa di giudizio.
Lei è stato 30 mesi in custodia cautelare, di cui 18 in carcere.
Si tratta di un record: dalla fondazione dello Stato italiano, 1861, nessun magistrato è stato trattenuto in custodia così tanto tempo. Il gip ha ritenuto che io dovessi stare in carcere perché avrei potuto uccidere i testimoni! Non ho ancora capito sulla base di quale elemento probatorio abbia ritenuto una cosa del genere. Ed infatti La Cassazione ha annullato per ben tre volte la misura cautelare ma il Tribunale del Riesame, presieduto sempre dallo stesso giudice, per due volte l’ha reiterata. Alla terza volta si sono arresi, ma c’era già stata la sentenza di primo grado.
Entriamo nell’inchiesta e nel processo. Quali sono le anomalie dal suo punto di vista?
Le anomalie sono talmente tante che sono state oggetto di una istanza di rimessione del processo ad altra sede per legitima suspicione. Vengo indicato come capo di una associazione a delinquere ma agli atti non risultano contatti tra me e questi associati. Lavoravo e vivevo a Roma quando i fatti contestati si sarebbero svolti a Trani a partire dalla fine del 2010, cioè cinque anni dopo che ero andato via da quel Tribunale. Nessuno mi ha visto con gli altri associati né ci sono intercettazioni fra me e loro. Tenga conto che sono stato intercettato sia nella mia autovettura che per telefono per circa un anno ma non è emerso nulla di rilevante. Inoltre non ho mai firmato alcun provvedimento a favore dei corruttori. Hanno analizzato i beni patrimoniali miei e della mia famiglia e non hanno trovato nulla. Hanno persino fatto due rogatorie internazionali perché il presunto corruttore aveva riferito che mi accompagnava allo Ior in Vaticano per depositare valigette colme di mazzette di denaro. Ovviamente non è emerso nulla di tutto ciò.
Sta parlando del suo grande accusatore, Flavio D’Introno.
Si tratta di un testimone, anzi di un correo, le cui dichiarazioni andrebbero vagliate con la massima attenzione cercando i riscontri. Appartiene ad una famiglia di imprenditori che ho avuto modo di conoscere e apprezzare quando ero pretore a Corato. Con lui avevo rapporti personali perché era inquilino di una villa della mia ex moglie. Questo signore è stato condannato in via definitiva per usura. Il giorno in cui è arrivata la condanna definitiva invece di presentarsi in carcere si reca dai carabinieri di Barletta – e lui abita e vive a Corato! -e lì inizia una presunta collaborazione fatta di continui interrogatori in cui, cambiando anche spesso versione, costruisce un quadro accusatorio contro di me. Nel frattempo evita di finire dietro le sbarre perché produce documentazione medica da cui risulta che è un alcolista cronico e affetto da sindrome paranoica. Durante il processo abbiamo dimostrato che ha mentito su 135 circostanze fattuali. Ad esempio, si è inventato che mi aveva regalato un Rolex ma poi in aula è venuta la sua amante e lo ha mostrato dicendo che le era stato regalato al suo 40° compleanno. Gli accertamenti bancari hanno dimostrato che non aveva le ingenti disponibilità di denaro per corrompere me ed altri come da lui riferito. Eppure è stato ritenuto credibile.
Però i suoi colleghi l’hanno condannata.
Voglio credere con tutte le mie forze nella loro buona fede. Anche se in questa vicenda ci sono molte cose incomprensibili. In una intercettazione del 2015 a carico di un soggetto a me sconosciuto, viene detto da costui che D’Introno aveva rapporti con un magistrato “alto e brizzolato”. I carabinieri di Barletta scrivono che l’unico magistrato con quelle caratteristiche, da loro conosciuto, sono io. Ma già da dieci anni lavoravo e vivevo a Roma. Non basta: un anno prima, nel 2014 un compagno di scuola di mio figlio gli profetizzò che sarei stato arrestato per corruzione proprio dai Cc di Barletta, come poi avvenuto. Mio figlio nel 2021 ha poi registrato di nascosto quel compagno di liceo, nel frattempo diventato sottufficiale dei carabinieri, che alla fine della conversazione ammette che il padre aveva amicizia con un carabiniere di Barletta. Questo elemento sarà oggetto del nuovo processo ed è stato già segnalato nella istanza di remissione inviata alla Corte di Cassazione.
Quando inizia?
Ancora non ho ricevuto alcun avviso di conclusione indagine. Non punto alla prescrizione perché sono innocente e voglio difendermi nel processo convinto delle mie ragioni, perchè le evidenze probatorie sono a mio favore. Le dico solo questo: nella sentenza di primo grado c’è scritto che non ci sono prove a mio carico perché sono un magistrato troppo intelligente e scaltro per lasciare tracce.
Però se avesse ragione lei sarebbe preoccupante essere condannati senza prove.
Lei crede che il mio sia l’unico caso?
Ma alla sua difesa è stato consentito di effettuare il controesame?
Come denunciato nell’atto di appello, il Presidente del collegio si è costantemente inserito durante l’esame e il controesame ammonendo i testimoni che non dicevano quello che voleva la Procura spezzando anche il ritmo del controesame.
Come si spiega tutta questa vicenda?
All’inizio ho pensato che eravamo dinanzi ad un eccesso di zelo, come se i magistrati leccesi volessero dimostrare di non fare sconti ai colleghi. Poi ho visto un accanimento che non mi spiego. Le faccio un esempio: nel periodo covid dal Dap chiedono di segnalare detenuti a rischio sanitario. Vengono fatti 4 nomi, tra cui il mio, ma mentre venivano scarcerati boss mafiosi in tutta Italia per via del Covid io sono stato lasciato in carcere a rischio della mia vita.
Magistrati arrestati: in appello annullata condanna Nardi. ANSA l'1 aprile 2022. La Corte d'appello di Lecce, dichiarando la propria incompetenza territoriale in favore della Procura di Potenza, ha annullato la sentenza di primo grado con la quale l'ex gip tranese Michele Nardi era stato condannato dal Tribunale salentino a 16 anni e 9 mesi per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Nardi era accusato di aver garantito esiti processuali favorevoli in più vicende giudiziarie e tributarie in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini dei pm di Trani in cambio di danaro, gioielli e varie utilità. La sentenza è stata annullata anche nei confronti degli altri 4 imputati. La Corte d'appello di Lecce, presidente Vincenzo Scardia, ha così accolto una delle eccezioni preliminari presentate nella scorsa udienza dal legale di Nardi, Domenico Mariani, e contestate dalla pubblica accusa. Tra queste c'era la competenza territoriale con la quale si chiedeva di spostare a Potenza il procedimento perché collegato - secondo la difesa - alle funzioni di Carlo Maria Capristo, l'ex procuratore di Trani e di Taranto, indagato nel capoluogo lucano. Oltre a Nardi il Tribunale di Lecce, il 18 novembre 2020, aveva condannato a 9 anni e 7 mesi di reclusione l'ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, ritenuto complice dell'ex pm tranese Antonio Savasta (condannato in primo grado con rito abbreviato in un processo-stralcio a 10 anni); 6 anni e 4 mesi erano stati inflitti all'avvocatessa barese Simona Cuomo; 5 anni e 6 mesi a Gianluigi Patruno; 4 anni e tre mesi a Savino Zagaria, cognato di Savasta. (ANSA).
Giustizia truccata, a Lecce annullata la condanna a Nardi: «Processo da rifare a Potenza». Oggi davanti alla Corte d’appello era prevista la requisitoria del procuratore generale di Lecce che avrebbe concluso per la conferma della condanna. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Aprile 2022.
Il processo a carico dei giudici di Trani non doveva svolgersi a Lecce. Per questo, accogliendo la questione di competenza territoriale avanzata dagli avvocati dell’ex gip Michele Nardi, la Corte d’appello di Lecce ha annullato la sentenza di primo grado che aveva condannato il magistrato a 16 anni e 9 mesi di reclusione, disponendo la trasmissione degli atti a Potenza dove si dovrà ricominciare da capo. Nardi, presente in aula al momento della lettura del dispositivo, è scoppiato in lacrime. La sentenza è stata annullata anche nei confronti degli altri quattro imputati.
Nel processo di appello di Lecce erano imputati anche l'ex ispettore di Polizia, Vincenzo Di Chiaro (9 anni e 7 mesi), l’avvocato barese Simona Cuomo (condannato in primo grado a 6 anni e 4 mesi), l’ex cognato dell’ex pm Antonio Savasta, Savino Zagaria (4 anni e 3 mesi) e Gianluigi Patruno (5 anni e 6 mesi).
«Sono stato trattenuto due anni e mezzo in custodia cautelare in carcere da una Procura e un Tribunale incompetenti territorialmente, così come avevo eccepito sin dal primo momento dell’arresto, anzi ancora prima, in una memoria difensiva che è stata definita un tentativo di depistaggio e, invece, avevo ragione io». Lo afferma in lacrime l'ex gip di Trani, Michele Nardi, commentando la decisione della Corte d’appello di Lecce che oggi ha annullato, rilevando l'incompetenza territoriale della magistratura salentina in favore di quella di Potenza, la sentenza di primo grado con la quale Nardi era stato condannato a 16 anni e 9 mesi di reclusione per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari.
«E' stata distrutta la mia vita, quella della mia famiglia - accusa - da un Tribunale, una Procura che non aveva alcuna competenza in materia. Io voglio far emergere la verità perché la verità è dalla mia parte. Io sono innocente, l’ho sempre urlato e, nonostante 30 mesi di custodia cautelare, non mi sono mai piegato ad ammettere qualcosa che non avevo fatto perché io non l’ho fatto, perché non ho commesso reati e ho avuto il coraggio di andare avanti e di testimoniarlo sulla mia pelle, con 30 mesi di tortura».
LA DIFESA: CONDANNA IGNOBILE - «Queste decisioni si prendono quando si è convinti che nel merito le cose non stanno come dice l'accusa, altrimenti non si arriva a queste conclusioni che riportano il processo alle sue fondamenta». Lo dicono i legali dell’ex giudice di Trani Michele Nardi, Domenico Mariani e Carlo Taormina. I difensori si riferiscono alla decisione della Corte d’appello di Lecce che oggi ha annullato la sentenza di primo grado a carico dell’ex magistrato e di altri quattro imputati rilevando l’incompetenza territoriale dei magistrati salentini. I giudici hanno quindi trasmesso gli atti alla Procura di Potenza, ritenendola competente ad indagare. "Noi combatteremo in questo processo per far emergere l’assoluta innocenza del dottor Nardi, a cui dovrà essere restituita la dignità che gli è stata tolta senza un fondamento, da una sentenza ignobile».
La Corte d’appello di Lecce: “ Incompetenza territoriale”. Annullata la condanna dell’ex magistrato Michele Nardi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Aprile 2022.
Nardi era presente in aula a Lecce sia il 18 novembre 2020, quando i giudici lo avevano condannato, che ieri, quando la Corte d’appello ha sovvertito la decisione di primo grado annullandola per incompetenza territoriale disponendo la trasmissione degli atti alla Procura di Potenza, che adesso dovrà ricominciare tutto da capo, celebrando un'eventuale ma necessaria udienza preliminare per poi incardinare un nuovo processo
Il collegio presieduto da Vincenzo Scardia ha annullato la sentenza di primo grado “per incompetenza funzionale del tribunale di Lecce” accogliendo le eccezioni e richieste dai difensori Avv. Carlo Taormina e Avv. Domenico Mariani dell’ex gip Nardi magistrato sospeso dal Csm e che non si è mai dimesso. L’annullamento della Corte di Appello di Lecce riguarda l’intera sentenza, comprendendo anche anche le posizioni degli altri quattro imputati: l’avvocatessa Simona Cuomo assistita dagli avvocati Luca Bruno e Andrea Sambati, che era stata condannata a 6 anni e 4 mesi; il poliziotto Vincenzo De Chiaro condannato a 9 anni e 7 mesi, assistito dall’avvocato Mauro Giangualano , Gianluigi Patruno la cui pena era di 5 anni e 6 mesi; l’ex cognato del pm Antonio Savasta, Savino Zagaria condannato a 4 anni e 3 mesi, assistito dall’avvocatessa Antonella Parrotta.
I difensori di Nardi hanno eccepito che, poichè la vicenda Nardi è in qualche modo collegata a un’altra inchiesta simile, quella che ha riguardato l’ex procuratore della Repubblica di Trani Carlo Maria Capristo, nel frattempo diventato procuratore a Taranto, dovessero occuparsene i colleghi di Potenza. La questione è a dir poco complessa: si parla di “competenza funzionale“, cioè delle competenze territoriali delle varie procure, che stabiliscono chi deve procedere nel caso in cui sia un magistrato ad essere indagato o persona offesa . Per il foro di Trani e Bari è competente Lecce. Per quello di Taranto, Brindisi e Lecce è competenza di Potenza. Quindi tutte da rifare le precedenti indagini condotte dalla procura salentina che adesso dovranno ripartire dal principio, ma a Potenza.
Il procedimento nei confronti del magistrato in quiescenza Capristo è radicato a Potenza in quanto è stato considerato il luogo in cui il magistrato esercitava le funzioni al momento dell’apertura dell’inchiesta (nel caso che lo riguarda Taranto) e non il luogo invece in cui è stato commesso il fatto. Quindi secondo il collegio della difesa di Michele Nardi, anche per quest’ultimo avrebbe dovuto procedere la procura di Potenza in virtù della connessione con Capristo.
L’ex gip tranese Michele Nardi era stato arrestato nel gennaio 2019 assieme all’allora pm tranese Antonio Savasta il quale ha optato per il processo con rito abbreviato (che riduce ad 1/3 la pena in caso di condanna ) venendo condannato a 10 anni di reclusione. Nei confronti di Savasta ed i computati, che avevano optato per il rito alternativo, è attualmente in corso il processo d’appello che riprenderà il prossimo 26 aprile, cioè quando le motivazioni della Corte d’Appello sul “troncone” Nardi potrebbero non essere state ancora depositate. Qualora si dovesse ritenere che anche fra Savasta che attualmente si trova agli arresti domiciliari, e Capristo ci sia stata “connessione”, probabilmente si riproporrà la questione e dovrà essere nuovamente valutata.
Tutto ha origine da una sola inchiesta condotta dai pm Roberta Licci e Alessandro Prontera, coordinata dal procuratore della Repubblica di Lecce, Leonardo Leone De Castris. Le contestazioni formulate dalla procura salentina erano di “associazione per delinquere finalizzata a compiere reati contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica e contro l’autorità giudiziaria“. Nello specifico la corruzione in atti giudiziari, falso ideologico, calunnie, falsa testimonianza. L’ipotesi di reato sostenuta dai pm della procura di Lecce sarebbe stato quella di acquisire guadagni illeciti da imprenditori coinvolti in vicende giudiziarie, manipolando i meccanismi dei processi e delle indagini preliminari, facendo anche state trapelare notizie sull’esistenza di inchieste della procura di Trani.
Michele Nardi ha sinora trascorso 18 mesi in carcere e 12 agli arresti domiciliari, fino alla condanna di un Tribunale a 16 anni e nove mesi di reclusione per essere stato il capo di un’associazione per delinquere “finalizzata alla corruzione in atti giudiziari“. Nardi era presente in aula a Lecce sia il 18 novembre 2020, quando i giudici lo avevano condannato, che ieri, quando la Corte d’appello ha sovvertito la decisione di primo grado annullandola per incompetenza territoriale disponendo la trasmissione degli atti alla Procura di Potenza, che adesso dovrà ricominciare tutto da capo, celebrando un’eventuale ma necessaria udienza preliminare per poi incardinare un nuovo processo.
“È stata distrutta la mia vita e quella della mia famiglia da una Procura ed un tribunale, che non avevano alcuna competenza in materia” ha commentato Nardi in lacrime di emozione, gioia e dolore all’uscita dal Palazzo di giustizia salentino. “Sono stato trattenuto due anni e mezzo in custodia cautelare da magistrati incompetenti territorialmente — ha aggiunto Nardi — così come avevo eccepito fin dal primo momento dell’arresto. Anzi, ancora prima“. “Il lavoro che è stato fatto – specifica l’ex gip – non andava fatto in quel modo. Del resto ho subito un processo in cui non sono stati ammessi testimoni, mi è stato negato di produrre le prove della mia innocenza“.
Adesso Michele Nardi tornato libero da questa condanna potrà rinnovare al Csm la propria richiesta di tornare a fare il magistrato, sulla quale la commissione competente dovrebbe decidere a maggio.
Soddisfatto il collegio difensivo di Nardi, composto dagli avvocati Domenico Mariani e Carlo Taormina. “Queste decisioni si prendono quando si è convinti che nel merito le cose non stanno come dice l’accusa, altrimenti non si arriva a queste conclusioni che riportano il processo alle sue fondamenta” hanno commentato i due legali .”Noi combatteremo in questo processo per far emergere l’assoluta innocenza del dottor Nardi, a cui dovrà essere restituita la dignità che gli è stata tolta senza un fondamento, da una sentenza ignobile” hanno proseguito. Secondo l’ avv. Mariani la responsabilità di quanto accaduto “è della procura di Lecce, che è colpevole, e non del Tribunale che ha emesso la sentenza di primo grado, perché i giudici non avevano tutti gli elementi per decidere” sulla questione specifica che era già stata precedentemente rappresentata.
Nel frattempo vi è stata un’altra sentenza importante, questa volta del Tribunale di Potenza che ha raso al suolo l’impianto accusatorio imbastito dalla Procura potentina guidata da Francesco Curcio, che aveva mandato a processo il magistrato Antonino Di Maio, all’epoca dei fatti procuratore capo di Trani, accusandolo di “favoreggiamento“. Il Tribunale ha smantellato le accuse della procura di Potenza ed assolto il dr. Di Maio con formula piena decidendo che “il fatto non sussiste“.
Una decisione questa che potrebbe avere un’influenza non indifferente nel processo in corso a Potenza a carico del dr. Capristo , avviato a seguito delle accuse del magistrato Silvia Curione, prima pm a Trani ed ora a Bari dove si è ricongiunta con suo marito Lanfranco Marazia, ex pm a Taranto ed ora in servizio presso la Procura di Bari.
Se non vi è stato alcun “favoreggiamento” del Di Maio, adesso sarà ancora più difficile per la procura di Potenza continuare sostenere il castello delle proprie discutibili accuse mosse al dr. Capristo, le quali stanno svanendo udienza dopo udienza come neve sotto il sole, a seguito anche delle testimonianze sinora ascoltate e delle evidenze processuali.
Redazione CdG 1947
IL PROCESSO. Magistrati arrestati, per la Procura di Lecce l'impianto accusatorio rimane integro. Dopo che Corte d’appello ha annullato le condanne di primo grado. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2022.
Per il procuratore di Lecce, Leonardo Leone de Castris, «il complessivo impianto» accusatorio del processo a carico dell’ex giudice tranese Michele Nardi e di altri imputati è «rimasto assolutamente integro e non travolto dall’annullamento della sentenza di primo grado e dal trasferimento del processo per competenza funzionale ad altra sede; sarà ora l’autorità giudiziaria di Potenza a valutare gli aspetti procedurali e/o di merito». Il riferimento del capo della Procura salentina è al processo a carico dell’ex gip Nardi, condananto il primo grado dal Tribunale di Lecce (il 18 novembre 2020) a 16 anni e 9 mesi di reclusione per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Per lo stesso magistrato, il primo aprile scorso, i giudici della Corte d’appello di Lecce, accogliendo un’eccezione preliminare della difesa, hanno emesso sentenza di incompetenza funzionale e hanno disposto l’invio degli atti alla Procura di Potenza perchè i fatti contestati sarebbero collegati alla posizione processuale dell’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo, sotto inchiesta nel capolouogo lucano.
«Pare il caso di sottolineare - scrive Leone de Castris -, anche avuto riguardo ad alcune dichiarazioni difensive di diverso avviso, che il complessivo impianto rappresentato da questo ufficio, costituito da elementi di prova (tra cui intercettazioni di comunicazioni, registrazioni di conversazioni tra coimputati, dichiarazioni di persone informate sui fatti, poi divenute testimonianze, perquisizioni e sequestro) e prove assunte in sede di incidente probatorio, in base alle quali il Tribunale si era espresso nel merito, a opinione dello scrivente e per giurisprudenza costante, sia rimasto assolutamente integro e non travolto dall’annullamento della sentenza di primo grado e dal trasferimento del processo per competenza funzionale ad altra sede; sarà ora l’autorità giudiziaria di Potenza a valutare gli aspetti procedurali e/o di merito».
«Rimango pienamente convinto - sottolinea il procuratore - della bontà del lavoro dell’ufficio da me diretto» e rinnovo "piena fiducia ai pm che hanno lavorato al caso». «Lo scrivente e l’ufficio della Procura delle Repubblica di Lecce - conclude - nutrono rispetto per la sentenza della Corte d’Appello e stima personale per i magistrati che ne compongono il collegio; tali considerazioni valgono in egual misura anche per la sentenza di primo grado, per i provvedimenti del Gip, del Gup, del Tribunale del Riesame e per i colleghi tutti che sono stati impegnati in questo complesso procedimento».
Nardi, i veleni dell’ex gip: «Io vittima di complotto. A Lecce giudici ricattabili». L’Anm dopo la condanna annullata: frasi inaccettabili. La difesa del magistrato aveva chiesto alla Cassazione di spostare il processo. Massimiliano Scagliarini su la Gazzetta del Mezzogiorno il 6 aprile 2022.
Avrebbe voluto che fosse la Cassazione a decidere dove celebrare il suo processo. Il 1° aprile l’ex gip Michele Nardi ha ottenuto anche di più: la Corte d’appello di Lecce ha direttamente annullato la sentenza con cui il magistrato tranese è stato condannato in primo grado a 16 anni e 9 mesi, riconoscendo l’incompetenza territoriale della Procura di Lecce e disponendo il trasferimento degli atti a Potenza dove ora bisognerà ricominciare dall’udienza preliminare. Ma con una istanza di remissione depositata il 23 marzo, Nardi ha lanciato la sua bomba, dichiarandosi vittima di un complotto e lanciando accuse pesantissime a tutti.
Quelle 46 pagine di veleni faranno discutere. Già dopo la sentenza della Corte d’appello la sezione di Lecce dell’Anm è insorta a difesa dei colleghi,parlando di «attacco gratuito verso il lavoro dei magistrati». Stavolta Nardi ne ha per tutti: per i carabinieri che hanno fatto le indagini, per i giornalisti e soprattutto per i magistrati. Partendo dal «totale scadimento della cultura della giurisdizione che connota i magistrati pugliesi»: da quelli di Lecce (che «non sono stati, non possono essere, e tanto meno apparire, imparziali e sereni nella decisione del processo») fino al presidente della Corte d’appello di Bari, accusato (in maniera avventata) di essersi pubblicamente espresso sugli arresti «senza la dovuta prudenza». Una situazione figlia, secondo la difesa di Nardi, dell’«aggressiva e abnorme campagna giornalistica condotta dalla stampa locale nei confronti dell’imputato» e delle «dinamiche in seno all’ambiente giudiziario pugliese di cui tale campagna è sicuramente, almeno in parte, causa».
Nardi aveva ricusato, per grave inimicizia, il presidente di sezione di Corte d’appello, Vincenzo Scardia, lo stesso che ha poi accolto le sue richieste annullando tutto. Nella istanza di rimessione del processo la difesa dell’ex gip ha attaccato anche il presidente del collegio di primo grado, Pietro Baffa, per via di «una certa ricattabilità da parte dell’ambiente giudiziario leccese» poiché il suo nome compare nelle chat dell’ex segretario dell’Anm, Luca Palamara. «Questo - sempre secondo la difesa di Nardi - ha reso la posizione di Baffa particolarmente ricattabile e sottoposta alla influenza anche della Procura della Repubblica locale e ciò ne spiega l'atteggiamento ostile e preconcetto rispetto alla difesa e il continuo pronarsi acritico nei confronti dell’accusa».
Nardi, che ha una condanna passata in giudicato per calunnia, adombra complotti. Racconta che nel 2014 un compagno di scuola di suo figlio «fece la “profezia” che suo padre - cioè l’attuale istante - sarebbe stato arrestato per corruzione dai Cc di Barletta», come poi avvenuto 5 anni dopo. Il figlio di Nardi a inizio 2021 ha poi registrato di nascosto quel compagno di liceo, nel frattempo diventato sottufficiale dei carabinieri, che «alla fine della conversazione registrata è costretto ad ammettere che il padre aveva amicizia con un carabiniere di Barletta».
Ma ce n’è anche per i giornalisti. A partire dalla «Gazzetta», accusata di «un’autentica attività costante di diffamazione e denigrazione», oltre che di contiguità con i magistrati perché «l’entità abnorme della richiesta di pena della Procura (vent’anni) era anticipata dalla stampa prima dell’inizio del dibattimento». Ma non soltanto. Nardi ha registrato di nascosto un giornalista televisivo, che avrebbe ammesso di aver taciuto un fatto sostanziale: «I signori Ferri e Casillo, i due accusatori del Nardi, all’epoca dei fatti si erano rivolti a lui (cioè al giornalista, ndr), quando temevano di essere arrestati, riferendogli che avevano ricevuto una richiesta di tangenti dal dr Savasta e non certo dal Nardi. Nel corso di tale incontro i signori Ferri e Casillo chiedevano a quest’ultimo (al giornalista, ndr) di fare da intermediario con il Savasta per ridurre l’entità della tangente (...). Ma [il giornalista] non aveva sentito la necessità di riferire quanto a lui noto circa l’estraneità del Nardi all’autorità giudiziaria lasciando che questi, in carcere all’epoca di quelle deposizioni testimoniali, venisse linciato pubblicamente».
Già dopo l’annullamento della sentenza le polemiche sono state roventi. «Definire la sentenza emessa dal Tribunale di Lecce “ignobile”, tacciare di incompetenza, o quantomeno di superficialità, lo studio e l’analisi delle carte processuali compiute da quei magistrati rappresentano messaggi fuorvianti per la collettività e sono frasi gravemente lesive della loro professionalità, e dunque di quella dei tanti colleghi che ogni giorno, in silenzio, svolgono il proprio lavoro nel rispetto delle parti e dei principi imposti dalla Costituzione e dalla Legge, primo fra tutti quello della presunzione di innocenza», ha detto la segretaria dell’Anm distrettuale, Laura Orlando, che ha espresso «piena solidarietà» ai magistrati «ingiustamente lesi dai toni di talune dichiarazioni».
Annullata la condanna per Nardi, ex gip di Trani: "Una tortura come la Santa Inquisizione". La Corte d’appello di Lecce ha dichiarato l’incompetenza territoriale. Lo sfogo di Nardi contro i suoi colleghi: "Mai nessun magistrato italiano, dalla fondazione della nostra Repubblica, è stato tenuto 30 mesi in custodia cautelare". Il Quotidiano del Sud il 2 Aprile 2022.
«Ero stato condannato a 16 anni e 9 mesi, una sentenza senza precedenti nella storia giudiziaria italiana, tenendo presente che le accuse non erano di omicidio ma di corruzione. Peraltro un’ipotesi di corruzione molto particolare, perché sono stato condannato in quanto sarei stato l’ “ispiratore morale” della corruzione di altri magistrati. Un “ispiratore morale che lavorava a 500 km di distanza, cioè a Roma, mentre queste corruzioni erano perpetrate dai colleghi di Trani. Una di quelle cose incomprensibili prive di qualsiasi logica».
Così all’AdnKronos l’ex Gip di Trani Michele Nardi, dopo che la Corte d’appello di Lecce ha dichiarato la propria incompetenza territoriale, trasmettendo gli atti alla Procura di Potenza e annullando la condanna a 16 anni e 9 mesi inflitta in primo grado per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari.
«La Corte d’appello di Lecce – osserva Nardi – ha annullato la sentenza perché ha accolto quello che noi abbiamo sempre sostenuto fin dall’inizio delle indagini, prima ancora che io venissi arrestato, e cioè che la procura di Lecce, appunto, era incompetente territorialmente a condurre quelle indagini. Lo era perché fin dall’inizio era emerso il coinvolgimento di altri magistrati che poi erano passati a lavorare nel distretto di Lecce, e quindi non poteva essere Lecce a decidere e a condurre queste indagini».
«Quando abbiamo evidenziato questo fatto – sottolinea l’ex giudice – ci è sempre stata sbattuta la porta in faccia, fino a quando non abbiamo trovato un giudice a Berlino, in questo caso a Lecce, che si è letto le carte. Per noi è stato addirittura sorprendente, perché non ci aspettavamo che oggi pronunciassero la sentenza. Evidentemente si sono letti bene le carte e dopo una sola udienza ci hanno rinviati ad oggi, alla seconda udienza, decidendo sulla competenza. Questo la dice lunga sul fatto che l’incompetenza della procura del tribunale di Lecce era evidente, ma hanno continuato nonostante tutto a persistere nella loro attività costante nei miei confronti».
«Mai nessun magistrato italiano, dalla fondazione della nostra Repubblica, è stato tenuto 30 mesi in custodia cautelare – si sfoga Nardi con l’AdnKronos -, io ne ho passati 18 in carcere, continuamente gridando di essere innocente. Ne ho passati altri 12 agli arresti domiciliari, ho passato un mese anche in un ospedale psichiatrico giudiziario. Io mi sono sempre professato innocente perché sono innocente, ma loro hanno continuato questa tortura nella speranza di estorcermi una confessione. Come ai tempi della Santa Inquisizione».
«Di idee sulla mia condanna me ne sono fatte tante – confessa Nardi -, ma preferisco al momento tenerle per me per evitare di beccarmi qualche altra denuncia per diffamazione o calunnia. Fatto sta che molto spesso, e ciò al di là del comportamento dei colleghi di Lecce, i magistrati hanno un grosso difetto sul quale bisognerebbe riflettere a livello collettivo, e cioè che quando prendono una strada, ritengono che sia un segno di incapacità o debolezza ammettere di avere sbagliato, e quindi persistono nei loro errori, nelle loro accuse e nella loro azione anche a costo di sacrificare un innocente».
«Il trattamento mediatico che ho ricevuto, soprattutto a livello locale, è stato drammatico – aggiunge l’ex Gip -, un linciaggio costante e continuo. I miei figli, che adesso sono maggiorenni, ma al momento in cui sono stato arrestato uno era minorenne, sono stati minacciati varie volte di essere bruciati vivi in casa per il solo fatto di essere i miei figli. Noi abbiamo vissuto più di tre anni, da quando sono stato arrestato il 14 gennaio 2019 ad oggi, in uno stato costante di terrore. Io stavo in carcere, non potevo sentire i miei figli se non dieci minuti a settimana, non potevo vederli, con la paura che gli facessero del male. Una tortura psicologica».
«Purtroppo – sottolinea Nardi – c’è un asservimento, soprattutto per quanto riguarda le testate locali, rispetto alle procure della Repubblica. Ma bisogna riflettere anche su un altro aspetto. Nel nostro Paese si è creato una sorta di regime composto da alcune procure, alcuni magistrati, i mass media e alcune forze di polizia. Questo regime, che è un regime autoritario e non democratico, mette in pericolo la libertà di tutti. Oggi è toccato a me, ma domani toccherà a qualcun altro. Ogni anno in Italia mille innocenti vengono incarcerati. Ma la cosa peggiore è che la stampa, che dovrebbe essere portatrice e difensore dei principi di libertà, primo fra tutti la considerazione di non colpevolezza, è la prima a dare addosso alle persone, ai presunti colpevoli. Evidentemente perché fa piacere».
«La mia vicenda non si è conclusa, perché adesso si dovrà rifare il processo a Potenza – sottolinea Nardi all’Adnkronos -, noi speriamo veramente che con il più ampio approfondimento possibile, il più ampio dibattimento e la più ampia possibilità di acquisire nuove prove, si accerti la verità. Perché la verità non la temiamo, anzi, l’abbiamo invocata costantemente per tre anni. Io sono innocente e non ho paura di nulla. Ma spero che questa mia vicenda faccia riflettere tutti quanti. Hanno fatto questo a me che pure non ero l’ultimo di questa comunità. Ero sostituto procuratore Roma, mio padre è stato procuratore in Cassazione, mio zio anche in Cassazione, una famiglia di magistrati professionisti».
«Io che non ho fatto nulla, ed è materialmente provato che non ho fatto nulla, ho subito questo, dunque possono fare qualsiasi cosa a chiunque – chiosa Nardi -, spero che il mio caso sia un’occasione di riflessione collettiva su quello che stiamo diventando come Paese». Fin qui la reazione del magistrato.
Il processo è quello chiamato “Giustizia svenduta” e riguarda presunti illeciti compiuti anche dall’allora pm di Trani Antonio Savasta, ritenuto complice di Nardi e di altri imputati. Proprio Savasta (condannato in primo grado con rito abbreviato a 10 anni) potrebbe ora sollevare in appello l’incompetenza funzionale dei magistrati salentini e provare ad azzerare il processo a suo carico e a trasferirlo al tribunale di Potenza. Nardi e Savasta sono accusati di aver garantito esiti processuali favorevoli in più vicende giudiziarie e tributarie in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini dei pm di Trani in cambio di danaro, gioielli e varie utilità.
Alla fine del processo di primo grado il Tribunale di Lecce, il 18 novembre 2020, aveva condannato l’ex giudice Nardi a 16 anni e 9 mesi per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, a 9 anni e 7 mesi l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, ritenuto complice dell’ex pm tranese Savasta; 6 anni e 4 mesi erano stati inflitti all’avvocatessa barese Simona Cuomo; 5 anni e 6 mesi a Gianluigi Patruno; 4 anni e tre mesi a Savino Zagaria, cognato di Savasta.
Nardi, il rebus del nuovo processo: il fascicolo andrà a Potenza, ma anche le intercettazioni rischiano di essere stralciate. In settimana le motivazioni della sentenza: potrebbero far saltare l’intera indagine di Lecce. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Aprile 2022.
La Procura di Lecce attende le motivazioni della sentenza con cui, il 1° aprile, la Corte d’appello ha annullato la condanna di primo grado a 16 anni e 9 mesi dell’ex gip Michele Nardi. Soltanto dopo provvederà a trasmettere le 40mila pagine di atti alla Procura di Potenza che, in base alla decisione del collegio, ha la competenza per far ripartire il processo a carico del magistrato sospeso e di altre quattro persone. Accusate, a vario titolo, di aver truccato sentenze in cambio di soldi.
La decisione della Corte guidata dal dottor Vincenzo Scardia segna un punto importante, in rito, per la difesa di Nardi. Che adesso punterà a far annullare anche gli atti di indagine, ponendo di fatto il processo su un binario morto. L’incompetenza territoriale - che i difensori dell’ex gip avevano già sollevato in tutte le sedi - è «funzionale»: significa che i magistrati di Lecce non erano competenti a trattare questa indagine. Normalmente l’annullamento di una sentenza travolge tutti gli atti ripetibili (le testimonianze), e fa salvi quelli irripetibili (le intercettazioni). Ma cosa accade in un caso come questo, nemmeno normato dal codice di rito, in cui è stato fatto un processo che non doveva essere fatto in quella sede?
A rendere le cose ancora più complicate c’è il fatto che a fine 2019 la Procura generale della Cassazione, chiamata in causa da Nardi su motivazioni simili a quelle che hanno portato all’annullamento, ha stabilito che «la Procura della Repubblica di Lecce ha competenza alla prosecuzione delle indagini». Era già stato celebrato l’incidente probatorio in cui sono state cristallizzate le dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno (l’uomo che con le sue confessioni ha fatto scattare l’indagine) e dell’ex pm Antonio Savasta (che ha parzialmente ammesso alcuni episodi corruttivi e ha scelto il giudizio abbreviato): quelle dichiarazioni - secondo la Procura generale - non erano sufficienti a imporre alla Procura di Lecce l’obbligo di iscrivere come indagato anche Carlo Capristo, all’epoca dei fatti procuratore di Trani e nel frattempo diventato procuratore di Taranto. Dunque l’inchiesta poteva rimanere a Lecce. Tre anni dopo, però, la Procura di Potenza ha chiesto il rinvio a giudizio di Capristo e Nardi per una ipotesi di corruzione relativa ai tempi di Trani. Da qui probabilmente (bisogna attendere le motivazioni, attese già in settimana) la decisione della Corte d’appello di mandare tutto a Potenza.
La Procura di Potenza (che dovrà studiare gli atti da zero, notificare gli avvisi di conclusione, valutare se chiedere i rinvii a giudizio) potrà nuovamente rivolgersi alla Cassazione per chiedere un regolamento di competenza. Senza le intercettazioni, le accuse a Nardi dovrebbero basarsi quasi soltanto sulle dichiarazioni di D’Introno. Che tra non molto avrà finito di scontare la sua pena e soprattutto, essendo già stato condannato per gli stessi fatti (ha patteggiato) non è obbligato a parlare. Il nuovo processo, insomma, non sarà una passeggiata. E nel frattempo potrebbero essere travolte anche le condanne in abbreviato di Ragno, Savasta e Scimè. [m.scagl.]
«Capristo corrotto da Laghi per favorire l’Ilva»: Taranto, l’ex procuratore verso il processo-ter. L’ex procuratore di Trani e Taranto avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» all’avvocato siciliano Piero Amara, all’ex commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Laghi, e al suo consulente Nicola Nicoletti. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Giugno 2022.
L’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Capristo, avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» all’avvocato siciliano Piero Amara, all’ex commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Laghi, e al suo consulente Nicola Nicoletti in cambio «del costante interessamento» per la sua carriera e «per ottenere i vantaggi economici e patrimoniali in favore del suo inseparabile sodale» Giacomo Ragno, l’avvocato che dall’Ilva ottenne lucrosi incarichi di difesa. Ed è per questo che la Procura di Potenza ha chiesto di mandare Capristo a processo per la prima volta insieme ad altre cinque persone, tra cui anche l’ex pm tranese Antonio Savasta. Ma senza Amara che, nel frattempo, ha chiesto e ottenuto di patteggiare tre mesi in continuazione con le sue altre condanne. E senza nemmeno Nicoletti che fin da subito ha scelto di collaborare (si era detto disponibile anche a un confronto con Laghi): anche lui ha patteggiato 16 mesi (pena sospesa) ed è uscito da questa storia.
L’inchiesta è quella che a giugno dello scorso anno portò all’arresto in carcere di Amara e di Filippo Paradiso, il poliziotto-amico del magistrato, mentre Nicoletti e Ragno finirono ai domiciliari e per Capristo (nel frattempo andato in pensione) venne disposto l’obbligo di dimora. Laghi finì invece ai domiciliari a settembre (fu liberato un mese dopo dal Riesame), dopo gli interrogatori fiume di Amara. Capristo, Paradiso, Laghi, Savasta, Ragno e l’altro avvocato Pasquale Misciagna dovranno comparire il 30 giugno davanti al gip Annachiara Di Paolo: rispondono, ciascuno secondo le rispettive responsabilità, di concorso in corruzione in atti giudiziari tra il 2015 e il 23 luglio 2019. Tra le contestazioni a Capristo e Paradiso c’è pure il falso e la calunnia per il falso esposto sul complotto contro Eni presentato alla Procura di Trani con la regia di Amara. L’ex procuratore, con Ragno e Laghi, risponde anche di concussione: avrebbero costretto alcuni dirigenti dell’Ilva a nominare Ragno come proprio difensore.
Il contesto resta quello tratteggiato dal procuratore Francesco Curcio e dai pm Piccininni e Borriello nelle oltre 20mila pagine di atti depositati lo scorso anno. Ovvero un presunto accordo corruttivo orchestrato da Capristo che, mentre era procuratore di Trani, avrebbe sfruttato i rapporti di Amara e Paradiso per ottenere raccomandazioni al Csm «in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti». In cambio Capristo avrebbe curato gli interessi di Amara: dal falso esposto presentato a Trani, che serviva ad accreditare l’avvocato siciliano con i vertici Eni, agli incarichi ottenuti dai vertici dell’Ilva che a loro volta avrebbero potuto contare sulla disponibilità del procuratore di Taranto rispetto alle inchieste sullo stabilimento siderurgico.
Nell’inchiesta risultano parti offese, tra gli altri, l’ex ministro Paola Severino e l’ex presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, di cui si parla nell’esposto sul complotto, ma anche l’imprenditore salentino Roberto De Santis, tirato in ballo da Amara in una strana storia di compravendite con l’Eni. Capristo è già a processo per l’inchiesta che il 19 maggio 2020 lo portò ai domiciliari con l’accusa di tentata induzione indebita nei confronti di una pm di Trani. Ieri, invece, davanti al gip di Potenza, Rossella Magarelli, si è svolta l’udienza preliminare a carico di Capristo, Nardi e Savasta per la «giustizia truccata» di Trani: è stata aggiornata al 14 luglio.
«Processo ai giudici di Trani, ecco perché passa a Potenza». E anche Savasta può salvarsi. Le motivazioni della condanna annullata a Nardi. D'Introno in carcere deve scontare i due anni e mezzo patteggiati per la corruzione dei magistrati. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Aprile 2022.
È «l’evidente connessione» emersa in corso d’opera tra la vecchia indagine di Lecce e quella nuova di Potenza in cui è coinvolto anche Carlo Capristo che «determina la necessità che i due processi vengano trattati unitariamente presso l’ufficio giudiziario potentino», comportando quindi anche la dichiarazione di incompetenza del Tribunale di Lecce e l’annullamento della sentenza di primo grado. Con le motivazioni depositate ieri, a tempo di record, la Corte d’appello salentina (presidente Scardia, relatori estensori Biondi e Colitta) ha spiegato perché il 1° aprile ha azzerato il procedimento a carico dell’ex gip Michele Nardi e altre quattro persone, cancellando così la condanna a 16 anni e 9 mesi inflitta in primo grado al magistrato tranese tuttora sospeso.
La velocità nel deposito delle motivazioni è probabilmente collegata al fatto che martedì prossimo, davanti a un differente collegio, a Lecce è previsto l’appello dell’ex pm Antonio Savasta, che a differenza di Nardi aveva scelto il rito abbreviato (10 anni) e che nella nuova indagine di Potenza è considerato concorrente di Nardi e di Capristo. L’indagine di Lecce sulla «giustizia truccata» di Trani ha ipotizzato (con conferma in primo grado) che Nardi, Savasta e l’altro ex pm Scimè (4 anni) abbiano preso denaro e regali dall’imprenditore Flavio D’Introno in cambio di decisioni giudiziarie favorevoli. La Procura di Potenza, pur non contestando l’associazione a delinquere ma il semplice concorso, ha allargato lo sguardo: nello stralcio del «fascicolo Amara» per cui ha già chiesto il rinvio a giudizio, ipotizza che in cambio di una «raccomandazione» per la nomina a procuratore di Trani, Capristo (nel frattempo diventato procuratore di Potenza) avrebbe garantito a Nardi «protezione» per sé e per gli ex pm Savasta e Luigi Scimè. Da qui l’accusa di corruzione in atti giudiziari.
Al di là della qualificazione giuridica, il collegio salentino ha riconosciuto «la medesimezza del disegno criminoso» ipotizzata dai due uffici di Procura, «poiché è evidente che l’attività corruttiva nei confronti del Capristo era stata posta in essere proprio al fine di assicurare piena operatività al sodalizio criminoso». E dunque la Corte d’appello è andata addirittura oltre le richieste della difesa di Nardi, che aveva invocato la rimessione degli atti alla Cassazione affinché decidesse sulla competenza. Quella «medesimezza» della contestazione è infatti la condizione giuridica richiesta per determinare uno spostamento di sede del processo: va a Potenza perché quello è il Tribunale competente sui magistrati del distretto di Taranto (come lo era Capristo al momento della contestazione), con conseguente ritorno al punto di partenza delle accuse mosse da Lecce.
La stessa Corte d’appello prova però a fare salvi gli atti di indagine compiuti fino a questo momento specificando che la competenza di Potenza è, per così dire, sopravvenuta, perché fino al 15 gennaio 2020 «non esisteva la pendenza presso la Procura della Repubblica di Potenza di un procedimento connesso» con quello di Lecce, né tantomeno i pm salentini avevano mai ipotizzato accuse a carico di Capristo. «Fino alla pronuncia della sentenza di primo grado - è detto in motivazione -, anche a rendere noti tutti gli atti fino a quel momento disponibili per valutare la fondatezza della prospettata questione di incompetenza, la stessa non sarebbe stata meritevole di accoglimento, mancandone i presupposti».
Lette le motivazioni, la Procura di Lecce procederà a trasmettere a Potenza le oltre 40mila pagine di atti dell’inchiesta. E saranno i pm lucani a decidere se e come procedere a notificare un nuovo avviso di conclusione e una nuova richiesta di rinvio a giudizio. È ipotizzabile che Potenza accorpi le «nuove» accuse (per le quali l’udienza è slittata al 15 maggio) con le «vecchie» di Lecce.
Martedì prossimo toccherà dunque a Savasta, tuttora ai domiciliari. Il ragionamento che il collegio ha fatto per Nardi vale, ovviamente, anche per l’ex pm, che a questo punto potrebbe invocare le stesse motivazioni per chiedere l’annullamento della sentenza di primo grado. Difficilmente potranno fare lo stesso i suoi coimputati (escluso forse Scimè): mentre quelli di Nardi rispondevano di associazione, nei confronti degli altri imputati che hanno scelto l’abbreviato le contestazioni erano infatti circoscritte.
Nel frattempo alla vigilia di Pasqua è tornato in carcere Flavio D’Introno. I due anni e 6 mesi che l’imprenditore coratino ha patteggiato a Lecce per la corruzione dei magistrati di Trani sono diventati infatti definitivi, e si sono sommati con il residuo di pena (un anno e 8 mesi) che D’Introno stava scontando ai domiciliari per usura. Anche D’Introno (portato nel penitenziario di Trani) è tra gli imputati nel nuovo filone di Potenza, seppure per una differente ipotesi di concussione che vede coinvolti anche Capristo, Nardi, Savasta, e che potrebbe essere coperta dalla prescrizione.
Concussione: assolto ex pm di Trani Savasta. Già condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel processo sulla «giustizia svenduta». La vicenda risale al 2014 e riguarda la presunta pretesa di 350mila euro all’imprenditore Giuseppe Dimiccoli. Redazione online su La Gazzetta del mezzogiorno il 27 Maggio 2022.
Il gup del Tribunale di Lecce Sergio Tosi ha assolto «perché il fatto non sussiste» l’ex pm di Trani Antonio Savasta, imputato con l’accusa di concorso in tentata concussione. La vicenda contestata risale al 2014 e riguarda la presunta pretesa di 350 mila euro - secondo la Procura di Lecce - da parte di Savasta all’imprenditore Giuseppe Dimiccoli - che poi lo ha denunciato per questo - tramite il costruttore barlettano Raffaele Ziri e l’avvocato barese Dimitri Russo.
Il denaro - stando all’impostazione accusatoria non condivisa dal giudice, il quale ha invece accolto la tesi difensiva - doveva servire a chiudere una controversia relativa alla masseria Sanfelice di Savasta ed evitare così procedimenti penali nei confronti dell’imprenditore.
Per Savasta (già condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel processo sulla «giustizia svenduta» a Trani) la Procura aveva chiesto la condanna a 4 anni di reclusione. Stessa condanna era stata chiesta per il coimputato Ziri, anche lui assolto. La sentenza di assoluzione è stata emessa al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato. Contestualmente si è conclusa con il proscioglimento l’udienza preliminare nei confronti del terzo imputato, Russo, che non aveva scelto riti alterativi e per il quale la Procura aveva chiesto il rinvio a giudizio.
GLI AVVOCATI - «La vicenda giudiziale - ricorda il difensore di Savasta, l’avvocato Massimo Manfreda - prende le mosse da una denunzia dell’imprenditore Dimiccoli che è stata in un primo momento archiviata ma successivamente riaperta. La formula dell’assoluzione è perché il fatto non sussiste». Per gli avvocati Roberto Eustachio Sisto e Italia Mendicini (studio FPS), difensori di Dimitri Russo, prosciolto dalla stessa accusa di tentata concussione, «era naturale che il gup prosciogliesse l'avvocato Russo: la soluzione era già negli atti del processo e noi l’abbiamo solo offerta al giudicante». Il co-imputato Ziri è assistito dall’avvocato Antonio Mancarella.
Caso Bellomo: sospensione più corta per Nalin, pm dei corsi in dress code. Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.
In procura era nel pool dei reati sessuali, ma nella scuola delle aspiranti magistrate costrette a minigonne e umiliazioni collaborava con l’ex consigliere di Stato. Il Csm riduce da due anni a sei mesi la sanzione. Può rientrare da subito.
Nel 2017 la scuola di magistratura di Francesco Bellomo con le borsiste obbligate per contratto a minigonne, tacchi a spillo e clausole umiliate aveva scandalizzato l’Italia. Bellomo era stato destituito da Consigliere di Stato. E il Csm aveva sospeso per due anni il pm del pool dei reati sessuali di Rovigo, Davide Nalin, che secondo le denunce premeva sulle ragazze affinché si accontentassero i desiderata dell’«Agente superiore» Bellomo (incluso inviare una foto osé che una ragazza si rifiutava di fare). Ieri la sezione disciplinare del Csm ha rivisto il caso e ridotto a sei mesi la sospensione per il magistrato, trasferito al Tribunale di Bologna. In attesa che la sanzione diventi definitiva, con la pronuncia della Cassazione, viene intanto revocata la misura cautelare. Quindi, da subito Nalin può tornare in servizio. Deve attendere solo che gli sia destinata una sede. O la vecchia a Rovigo o la nuova a Bologna.
La procura di Piacenza che aveva chiesto un anno e 4 mesi per Nalin, indagato per lesioni volontarie e stalking, Ma il gip ha archiviato l’accusa di lesioni volontarie perché il fatto non sussiste e ha ritenuto l’accusa di stalking non procedibile perché la borsista vessata aveva ritirato la querela. Così nel settembre 2020, il magistrato era stato sanzionato dal Csm per uno dei capi di incolpazione formulati nei suoi confronti dalla procura generale della Cassazione, quello relativo alla partecipazione scientifica alla scuola diretta da Bellomo, mentre era stato assolto dal capo riguardante le sue condotte nei confronti delle allieve dei corsi. La disciplinare ha confermato l’assoluzione del magistrato da questa incolpazione e ha ridotto la sanzione per l’altra accusa, stabilendo la sospensione di Nalin per 6 mesi e non per 2 anni.
Ora per il magistrato resta l’incognita del Tar. Lui nel 2021 ha vinto il concorso come giudice amministrativo. Ma è stato escluso dalla graduatoria per mancanza del requisito della «buona condotta». Ma ha fatto ricorso al Tar del Lazio.
Caso Bellomo, il Csm riduce la sanzione all’ex pm di Rovigo Davide Nalin. L’ex pm di Rovigo Davide Nalin era uno stretto collaboratore di Francesco Bellomo, l’ex consigliere di Stato destituito da Palazzo Spada dopo le denunce secondo cui avrebbe imposto ad aspiranti magistrate un "dress code" con tacchi alti e minigonna e regole sui fidanzati. Il Dubbio il 14 febbraio 2022.
Sanzione più lieve per l’ex pm di Rovigo Davide Nalin, stretto collaboratore di Francesco Bellomo, l’ex consigliere di Stato destituito da Palazzo Spada dopo le denunce secondo cui avrebbe imposto ad aspiranti magistrate, che frequentavano i corsi della scuola di formazione giuridica “Diritto e Scienza” da lui diretta, un “dress code” con tacchi alti e minigonna e regole sui fidanzati. È quanto disposto oggi dalla sezione disciplinare del Csm, che ha riesaminato il procedimento nei confronti di Nalin dopo un annullamento con rinvio disposto dalle sezioni unite civili della Cassazione.
Nalin, nel settembre 2020, era stato sanzionato dal “tribunale delle toghe” per uno dei capi di incolpazione formulati nei suoi confronti dalla procura generale della Cassazione, quello relativo alla partecipazione scientifica alla scuola diretta da Bellomo, mentre era stato assolto dal capo riguardante le sue condotte nei confronti delle allieve dei corsi.
Con la pronuncia odierna, la disciplinare ha confermato l’assoluzione del magistrato da questa incolpazione e ha ridotto la sanzione per l’altra “accusa”, stabilendo la sospensione di Nalin per 6 mesi e non per 2 anni (come era stato invece deciso nel primo procedimento). Confermato, infine, il trasferimento dell’ex pm di Rovigo al tribunale di Bologna con funzioni di giudice.
Traffico di armi, l'ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis condannato a 12 anni e 8 mesi. Redazione Tgcom24 il 28 Giugno 2022.
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce ha condannato a 12 anni e 8 mesi l'ex gip di Bari, Giuseppe De Benedictis, accusato - in concorso con l'imprenditore agricolo Antonio Tannoia e il caporal maggiore capo scelto dell'Esercito Antonio Serafino - di traffico e detenzione di armi ed esplosivi, anche da guerra, del relativo munizionamento e di ricettazione. Tannoia è stato condannato con la stessa pena. Nei confronti di Serafino è stato, invece, ratificato il patteggiamento a 5 anni di reclusione. Nel 2021 De Benedictis fu arrestato dalla Dda di Bari per corruzione.
De Benedictis, chiesti 12 anni per ex gip Bari e 65mila euro di multa: confermata condanna. L'accusa ha chiesto 12 anni e 8 mesi (e 78mila euro di multa) per l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia, nella cui masseria fu trovato l’arsenale e ha prestato il consenso per il patteggiamento a 5 anni del caporal maggiore dell’esercito Antonio Serafino. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Giugno 2022.
La Procura di Lecce ha chiesto la condanna a 12 anni di reclusione e 64.800 euro di multa per l’ex gip di Bari, Giuseppe De Benedictis, nel processo con il rito abbreviato davanti al gup Laura Liguori in cui tre persone sono accusate a vario titolo di detenzione di armi comuni e da guerra. L’accusa, rappresentata dal pm Alessandro Prontera, ha chiesto invece 12 anni e 8 mesi (e 78mila euro di multa) per l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia, nella cui masseria fu trovato l’arsenale, e ha prestato il consenso per il patteggiamento a 5 anni del caporal maggiore dell’esercito Antonio Serafino. La sentenza è prevista nel pomeriggio, dopo l’arringa dei difensori degli imputati. De Benedictis è stato già condannato, sempre a Lecce, a 9 anni e 8 mesi per corruzione in atti giudiziari.
CONFERMATA CONDANNA A 12 ANNI
Il gup di Lecce, Laura Liguori, ha condannato a 12 anni e 8 mesi di reclusione l’ex gip Giuseppe De Benedictis e l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia (difeso dall’avvocato Mario Malcangi) per detenzione di armi comuni e da guerra e del relativo munizionamento e di ricettazione. Il gup, al termine di un processo con rito abbreviato, ha confermato il patteggiamento a 5 anni di reclusione per il caporalmaggiore dell’esercito Antonio Serafino (difeso dagli avvocati Viola Messa e Antonio La Scala). Entro 48 ore il gup si pronuncerà sulla richiesta di revoca degli arresti domiciliari presentata dalla difesa di Serafino.
IL COMMENTO DELLA DIFESA
«Questa difesa non è adusa a commentare le sentenze fuori dalle aule di giustizia, ritenendo che le decisioni dei giudici vadano impugnate nelle sedi competenti, ma non può esimersi dall’evidenziare la assoluta illogicità e irrazionalità di questa sentenza». Lo dichiarano gli avvocati Saverio Ingraffia e Gianfranco Schirone, difensori dell’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis, condannato oggi dal gup del Tribunale di Lecce alla pena di 12 anni e 8 mesi di reclusione per la detenzione di un arsenale con armi anche da guerra.
I difensori ritengono la condanna «illogica e irrazionale, tenuto conto - spiegano - che lo stesso giudice ha avallato un patteggiamento a 5 anni di reclusione per un co-imputato persino gravato da un capo di imputazione in più».
L'ex giudice De Benedictis e le armi: medici e avvocati nella rete segreta degli acquirenti. Chiara Spagnolo La Repubblica il 10 Aprile 2022.
Una parte delle armi sequestrate nella masseria di Andria.
I nuovi verbali del secondo processo in cui è imputato l'ex gip insieme con un imprenditore agricolo e un militare dell'Esercito. L'arsenale fu trovato in una masseria ad Andria.
"Il colonnello voleva qualcosa di nuovo, allora ho chiamato il dottore e gli ho detto "Ce l'hai ancora la Ap2000?". Abbiamo fatto una finta cessione e poi lunedì l'ho venduta al colonnello. Io l'ho pagata 500 euro, nuova costa 700. Sono rimasti tutti e due contenti... ": parlavano così il 27 settembre 2020 l'ex giudice barese Giuseppe De Benedictis e un caporal maggiore dell'Esercito, Antonio Serafino.
Sentenza truccate, ora processo-bis per le armi: Serafino patteggia cinque anni, l’ex giudice ne rischia più di 10. «Blitz a Pavia per cercare i fucili dei partigiani». Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Marzo 2022.
Chiuso il processo per le tangenti, ci sarà quello per le armi. Ieri in apertura dell’udienza preliminare il gup Laura Liguori ha detto sì al patteggiamento a 5 anni per il caporale Antonio Serafino, ma non lo ha concesso per Antonio Tannoia, custode dell’arsenale dell’ex gip Giuseppe De Benedictis. E così a giugno ci sarà un nuovo rito abbreviato, in cui l’ex magistrato rischia una condanna addirittura più alta di quella per le tangenti.
De Benedictis, Serafino e Tannoia rispondono di detenzione e porto abusivo delle armi (comuni e da guerra) ritrovate nelle rispettive abitazioni. I primi due rispondono anche di ricettazione. Serafino, ormai ex sottufficiale dell’esercito, veterano di guerra con compiti di intelligence, è uno dei fornitori di armi di De Benedictis e ha pienamente ammesso le sue responsabilità: in un lungo interrogatorio del 21 giugno, in parte ancora omissato, il militare ha ricostruito la genesi dei rapporti con l’ex gip. La posizione di Tannoia, proprietario della masseria di Andria in cui sono stati ritrovati oltre 160 esemplari tra pistole, fucili e mitragliatrici anche da guerra, è invece più delicata.
De Benedictis ha dato la sua versione sull’arsenale in un interrogatorio del 10 giugno scorso: «Tutto ciò che è appartenuto a militari di qualsiasi nazione può essere mio... è mio sicuramente. Tutto ciò che non è appartenuto a militari non è mio, perché non mi interessa. Io non ho interesse a prendere fucili da caccia». Ha riconosciuto il possesso di una mina anticarro («Quella era di mio zio, buonanima, ma non funziona perché è priva di spoletta») e dei silenziatori artigianali («Alcuni erano miei, altri li abbiamo fabbricati insieme io e Tannoia»), e ha detto che le armi trovate ad Andria non venivano utilizzate: «Tutto ciò che andava a finire lì dentro moriva lì, non veniva più riesumato». Ha poi raccontato come trovava le armi: «Non mi sono mai rivolto a malavitosi. Non ne avevo bisogno... Sempre le divise e in qualche raro caso Tannoia».
Dalle indagini è emersa anche una suggestione che, allo stato, non ha avuto sviluppi. Quella in base a cui Tannoia fosse in odore di Servizi segreti e avesse contatti con militari (o ex militari) con base in Friuli e in Slovenia, e che fossero queste le fonti di approvvigionamento delle armi. I carabinieri hanno anche ricostruito due sopralluoghi che De Benedictis e Tannoia avrebbero fatto tre anni fa in un cimitero di Casoni Borroni, frazione di Mezzana Bigli, provincia di Pavia, alla ricerca di armi interrate dai partigiani. «Io e Antonio Tannoia - ha detto l’ex gip - tornammo, ma non col metaldetector ma con il sistema dei tombaroli, cioè lo spadino che si infila nel terreno per cercare le antiche tombe». Ne è emersa una storia quasi da film. Un commercialista di Sannazzaro, ha detto l’ex magistrato, «ci ha narrato di questo che era l’ultimo custode di questo deposito comunista. “Una volta che è morto questo, adesso possiamo fare quel che vogliamo” (...) Ci disse di cercare lì perché in quel punto ci disse che gli era schizzato il metal detector e che... ci disse che il nonno di 93 anni aveva detto che le armi erano chiuse in bidoni da latte». Fatto sta che il recupero non è andato in porto: i bidoni - ha spiegato De Benedictis - erano impilati l’uno sopra l’altro, e l’ultimo («Come facevano i partigiani») era pieno di esplosivo, per cui - pur avendoli individuati - non sono stati tirati fuori «per non saltare in aria».
Tannoia, arrestato in flagranza il giorno della scoperta dell’arsenale, ha dato una versione completamente opposta. Ha detto che le armi nascoste nel pozzo dell’acqua piovana della masseria erano tutte dell’ex gip De Benedictis: «Io avevo capito una cosa e anche perché me l’aveva detto, che queste armi prevalentemente erano armi che dovevano andare in distruzione dal Tribunale come corpi di reato». Anche sulla vicenda del cimitero, Tannoia ha dato una versione fumosa: «Il dottor De Benedictis mi diceva che aveva saputo che c’era un altro deposito di armi partigiane vicino a un cimitero (...), queste armi erano state nascoste per anni in un castello lì vicino che poi erano state spostate». La polizia di Bari, che ha fatto un sopralluogo sul posto, ha riconosciuto il cimitero, il muro di cinta e la strada descritta dall’ex giudice ma non è riuscita a confermare la presenza dei bidoni di latta con le armi.
Tangenti giudiziarie. Condannati a Lecce ex gip di Bari De Benedictis e l’ ex avvocato penalista Chiariello.
Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Marzo 2022.
L' ex giudice De Benedictis con un memoriale scritto a mano, e nell'interrogatorio dello scorso 23 giugno 2021, voleva denunciare presunte inchieste insabbiate e cene fra magistrati e imprenditori, sui rapporti tra degli imprenditori ed i vertici della politica regionale coinvolgendo persino esponenti della magistratura
E’questa la decisione del gup del Tribunale di Lecce, Laura Liguori, che ha convalidato la richiesta dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, avanzata dal procuratore capo di Lecce Leonardo Leone de Castris e dai pm Roberta Licci e Alessandro Prontera, al termine del processo svoltosi con il rito abbreviato al termine del quale ha condannato l’ex Gip barese Giuseppe De Benedictis a 8 anni e 9 mesi, con la stessa pena condannato l’avvocato Giancarlo Chiariello dichiarato colpevole per quattro dei cinque episodi di corruzione nel Tribunale di Bari. De Benedictis e Giancarlo Chiariello, che vennero arrestati ad aprile 2021, si trovano tuttora agli arresti domiciliari in quanto l’aggravante di aver favorito un clan mafioso comporta che la pena definitiva debba essere scontata in carcere.
Condanne più lievi per l’avvocato Alberto Chiariello, figlio di Giancarlo, a 4 anni di carcere ed il il pregiudicato foggiano Pietro Danilo Della Malva che nel frattempo si è pentito collaborando con la giustizia, a 3 anni e 8 mesi . L’accusa, per tutti, era di corruzione in atti giudiziari con l’aggravante di aver favorito i clan mafiosi.
Il Gup Liguori ha invece assolto giudice e avvocato “perché il fatto non sussiste” dalle accuse di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e rivelazione di segreto d’ufficio in relazione a una quinta accusa, cioè quella inerente alla presunta fuga di notizie sulle dichiarazioni del pentito Domenico Milella nei confronti dell’ex gip De Benedictis. Assolti, con varie formule, l’avvocato Marianna Casadibari (all’epoca membro dello Studio legale Chiariello) e l’altro avvocato Pio Michele Gianquitto del Foro di Foggia (l’unico per il quale la Procura di Lecce aveva chiesto l’assoluzione), il carabiniere Nicola Vito Soriano, ed i pregiudicati Antonio Ippedico e Roberto Dello Russo: tutti accusati a vario titolo, di aver partecipato alle attività corruttive.
Il Gup ha stabilito l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per i quattro condannati ed anche quella legale per 5 anni per De Benedictis e Giancarlo Chiariello . Nei confronti dell’ ex giudice De Benedictis è stata disposta la confisca di 30.000 euro, e di 1,3 milioni a Giancarlo Chiariello soldi trovati in contanti durante le perquisizioni in casa. I quattro condannati dovranno inoltre risarcire con 30.000 euro il ministero della Giustizia che si era costituito parte civile. Giancarlo e Alberto Chiariello sono stati condannati anche al risarcimento dei danni nei confronti dell’Ordine degli avvocati di Bari, costituitosi parte civile nel procedimento giudiziario.
Il processo “bis” a De Benedictis
L’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis verrà processato con rito abbreviato il prossimo 28 giugno , per rispondere delle accuse in concorso con il caporal maggiore capo scelto dell’Esercito Antonio Serafino e l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia di “traffico e detenzione di armi ed esplosivi, anche da guerra, del relativo munizionamento e di ricettazione“.
Il procedimento trae origine dal ritrovamento di un arsenale da guerra, occultato nel deposito sotterraneo di una villa di Andria, composto da più di 200 pezzi tra fucili mitragliatori, fucili a pompa, mitragliette (6 mitra pesanti Beretta MG 42, 10 MAB, 3 mitragliette UZI, 2 kalashnikov e 2 fucili d’assalto AR15 ) armi antiche e storiche, pistole di vario tipo e marca, esplosivi, bombe a mano ed una mina anticarro, oltre a circa 100.000 munizioni.
E’ cominciata oggi un’altra udienza preliminare nei confronti dell’ex giudice barese, sempre davanti alla Gup Laura Liguori, la stessa che lo ha condannato oggi per corruzione per il caso-tangenti . De Benedictis e l’imprenditore agricolo Tannoia hanno chiesto il rito abbreviato, mentre il terzo co-imputato, il caporal maggiore capo scelto dell’Esercito Serafino, ha chiesto di patteggiare la pena, ottenendo il consenso dei pm, a venendo condannato 5 anni di reclusione .
L ’avvocatura dello Stato si è costituita parte civile in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della Giustizia.
La presunta “collaborazione” di De Benedictis con la giustizia
L’ex giudice Giuseppe De Benedictis con un memoriale di dodici pagine scritte a mano, e nell’interrogatorio dello scorso 23 giugno 2021, voleva denunciare presunte inchieste insabbiate e cene fra magistrati e imprenditori, sui rapporti tra degli imprenditori ed i vertici della politica regionale coinvolgendo persino esponenti della magistratura, parlando di episodi specifici: l’indagine sulle primarie del Pd nel 2017, quella sul voto di scambio alle elezioni amministrative di Bari del 2019, sul resort di Costa Ripagnola a Polignano e sulla realizzazione dell’Ospedale Covid realizzato alla Fiera del Levante.
Il memoriale di De Benedictis inizialmente era stato indirizzato alla Procura di Potenza (non si capisce per quale competenza) e successivamente depositate a Lecce, inizia così: “Non voglio e non posso passare da capro espiatorio nel diffuso malcostume dell’ambiente giudiziario barese“. Seguito da 111 pagine del verbale di interrogatorio nel quale ha parlato degli argomenti più disparati manifestando la disperazione di un uomo da mesi in carcere il quale da ex-giudice cercava di accreditarsi con gli inquirenti per cercare di avere credibilità ed usufruire di un atteggiamento da “collaboratore di giustizia“.
Tutto ciò in parte privo degli omissis, è stato depositato agli atti del processo a Torino in cui sono imputati per finanziamento illecito ai partiti il governatore Michele Emiliano, il suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi e gli imprenditori Vito Ladisa e Giacomo Mescia.
Un tentativo quello di De Benedictis che non è mai stato creduto dai pm Roberta Licci e Alessandro Prontera , come si evince dalla pesante richiesta di condanna a 8 anni e 9 mesi integralmente accolta dal Tribunale di Lecce nel processo appena conclusosi per corruzione in atti giudiziari. L’ex-giudice cerca disperatamente di accreditarsi (in perfetto “stile Amara”) nei confronti di diverse Procure. Infatti alcuni giorni fa i suoi avvocati hanno presentato una istanza per essere ascoltato come persona informata sui fatti al pm di Torino che ha coordinato l’inchiesta sul finanziamento illecito a Emiliano. Quale Procura darà mai credibilità ad un giudice corrotto e condannato ?
L’ex Gip barese vorrebbe parlare a Torino dei suoi rapporti con Ladisa il quale sulla base dei racconti fantasiosi di De Benedictis, che non hanno trovato alcun riscontro e conferma secondo i magistrati salentini, gli avrebbe fatto delle rivelazioni, millantando una frequentazione con Ladisa che sarebbe stata interrotta dopo la perquisizione subita lo scorso 9 aprile 2021. Contatti questi che secondo le dichiarazioni del giudice corrotto, sarebbero avvenuti proprio mentre il giudice De Benedictis era sotto intercettazione.
Affermazioni queste prive di alcuna veridicità che non hanno potuto far emergere qualsiasi ipotesi di reato, e l’ex-giudice ora potrebbe rispondere anche del reato di calunnia. Un mare di invenzioni rivolte anche nei riguardi di alcuni colleghi magistrati di Bari e Matera, chiamati in causa da De Benedictis per delle vicende che per i pm di Lecce sono totale frutto di fantasia ed invenzioni strumentali. Redazione CdG 1947
Tangenti per scarcerazioni, a Lecce condannati a 9 anni e 8 mesi ex gip De Benedictis e ex avvocato penalista Chiariello.
Quattro anni al figlio di Chiariello, Alberto, 3 anni e 8 mesi a Della Malva, assolti tutti gli altri. La difesa: «Sentenza molto dura». Rito abbreviato per l'altro processo sulla detenzione di armi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Marzo 2022.
Otto anni e nove mesi ciascuno all'ex gip Giuseppe De Benedictis e all'avvocato Giancarlo Chiariello per quattro dei cinque episodi di corruzione nel Tribunale di Bari. E' questa la decisione del gup di Lecce, Laura Liguori, al termine del processo con il rito abbreviato in cui ha condannato a quattro anni di carcere l'avvocato Alberto Chiariello, figlio di Giancarlo, e a 3 anni e 8 mesi il pregiudicato foggiano Pietro Danilo Della Malva (nel frattempo pentito). L'accusa, per tutti, era di corruzione in atti giudiziari con l'aggravante di aver favorito i clan mafiosi.Il gup ha assolto giudice e avvocato "perché il fatto non sussiste" dalle accuse di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio e rivelazione di segreto d'ufficio in relazione a una quinta accusa, relativa alla presunta fuga di notizie sulle dichiarazioni del pentito Domenico Milella a carico dell'ex gip De Benedictis. Totalmente assolti, con varie formule, l'avvocato Marianna Casadibari (all'epoca dello studio Chiariello), il carabiniere Nicola Vito Soriano, Roberto Dello Russo, Antonio Ippedico e l'altro avvocato Pio Michele Gianquitto (l'unico per il quale la stessa Procura di Lecce aveva chiesto l'assoluzione): erano accusati, a vario titolo, di aver preso parte alle attività corruttive.
Per i quattro condannati il gup ha stabilito l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e (per De Benedictis e Giancarlo Chiariello) anche quella legale per 5 anni. Per De Benedictis è stata disposta la confisca di 30.000 euro, per Giancarlo Chiariello dei soldi (1,3 milioni) trovati durante le perquisizioni in casa. I quattro condannati dovranno inoltre risarcire con 30.000 euro il ministero della Giustizia. De Benedictis e Giancarlo Chiariello, arrestati nell'aprile 2021, sono tuttora ai domiciliari. L'aggravante di aver favorito un clan mafioso comporta che la pena definitiva dovrà necessariamente essere scontata in carcere.
«E' una sentenza molto dura dal punto di vista sanzionatorio, soprattutto per il conoscimento dell’aggravante mafiosa. La rispettiamo ma non la condividiamo ed è per questo che, dopo il deposito delle motivazioni, proporremo appello». Sono le dichiarazioni degli avvocati Saverio Ingraffia e Gianfranco Schirone, difensori dell’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis.
L'ALTRO PROCESSO - Sarà processato con il rito abbreviato a partire dal 28 giugno l’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis, accusato - in concorso con il caporal maggiore capo scelto dell’Esercito Antonio Serafino e l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia - di traffico e detenzione di armi ed esplosivi, anche da guerra, del relativo munizionamento e di ricettazione. Nei confronti dell’ex giudice barese, condannato oggi dal gup di Lecce a 9 anni e 8 mesi di reclusione per il caso-tangenti, è cominciata oggi un’altra udienza preliminare dinanzi alla gup Laura Liguori, la stessa che lo ha condannato per corruzione. De Benedictis e Tannoia hanno chiesto il rito abbreviato. Il terzo co-imputato, Serafino, ha chiesto di patteggiare la pena a 5 anni di reclusione ottenendo il consenso dei pm. Si è costituita parte civile l’avvocatura dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della Giustizia. Il procedimento nasce dal ritrovamento nel deposito sotterraneo di una villa di Andria di un arsenale da guerra composto da più di 200 pezzi tra fucili mitragliatori, fucili a pompa, mitragliette (tra cui 2 kalashnikov, 2 fucili d’assalto AR15, 6 mitra pesanti Beretta MG 42, 10 MAB, 3 mitragliette UZI), armi antiche e storiche, pistole di vario tipo e marca, esplosivi, bombe a mano ed una mina anticarro, oltre a circa 100.000 munizioni.
Caso De Benedictis, le verità dell'ex gip nel nuovo memoriale: dall'inchiesta sulle primarie Pd all'ospedale in Fiera. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 23 Marzo 2022.
Nel documento inviato a Torino l'ex giudice parla anche del resort Costa Ripagnola e delle elezioni del 2019 a Bari. Ma in Piemonte è stato inviato anche il verbale con le dichiarazioni nell'interrogatorio del 23 giugno in cui racconta fra l'altro dei rapporti fra magistrati, imprenditori e politici.
Inchieste bloccate e presunte cene fra magistrati e imprenditori, rapporti tra questi ultimi e i vertici della politica regionale e tra politici e pezzi della magistratura. E poi casi specifici: l'indagine sulle primarie del Pd nel 2017, quella sul voto di scambio alle amministrative di Bari del 2019, sul resort di Costa Ripagnola a Polignano e sulla realizzazione dell'ospedale Covid alla Fiera del Levante.
Il giudice chiede di parlare su Emiliano e gli imprenditori. La Procura: «Irrilevante». Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Marzo 2022.
L’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis si sarebbe lasciato corrompere dall’ex penalista Giancarlo Chiariello per concedere scarcerazioni ai clienti dell’avvocato in almeno tre occasioni, ma mai lo avrebbe fatto per favorire la mafia.
BARI - La Procura di Lecce ha tolto gli «omissis» a una parte delle dichiarazioni di Giuseppe De Benedictis, l’ex gip di Bari accusato di corruzione in atti giudiziari. Un documento di 140 pagine che i pm Roberta Licci e Alessandro Prontera hanno trasmesso al pm Giovanni Caspani di Torino, dove è in corso il processo per illecito finanziamento ai partiti nei confronti (tra gli altri) del presidente Michele Emiliano e dell’imprenditore barese Vito Ladisa. Ed è proprio a Caspani che l’ex magistrato arrestato il 24 aprile si è rivolto chiedendo di essere interrogato.
La novità è emersa alla vigilia dell’udienza davanti al gip di Lecce, Laura Liguori. Oggi è infatti il turno della difesa di De Benedictis, arrestato per tangenti e tuttora ai domiciliari: la Procura ne ha chiesto la condanna a 8 anni e 9 mesi per corruzione in atti giudiziari. Gli avvocati dell’ex magistrato, Gianfranco Schirone e Saverio Ingraffia, vogliono dimostrare (anche) la piena volontà collaborativa di De Benedictis, sperando così di ottenere il riconoscimento dell’attenuante che comporta uno sconto di pena. Ed è in questo senso che va letta la richiesta di rendere dichiarazioni anche a Torino.
Le dichiarazioni di cui parliamo sono state rese da De Benedictis il 23 giugno, proprio nell’ambito del procedimento per il quale è in corso il giudizio abbreviato a Lecce. I pm salentini hanno inviato a Torino sia il verbale (in cui sono leggibili quattro pagine della parte riassuntiva e circa 70 della trascrizione stenografica), sia una parte del memoriale dell’ex magistrato (da pagina 5 a pagina 9, sono diventati leggibili due capitoli intitolati «Fatti appresi da terzi» e «Altre indagini bloccate»). Venerdì scorso, nell’ambito dell’udienza di Torino (conclusa con un rinvio a giugno), la Procura sabauda - secondo alcune difese - si sarebbe espressa informalmente nel senso di non considerare attendibili le propalazioni contenute nel verbale di De Benedictis e di essere orientata a non procedere all’interrogatorio chiesto dall’ex gip.
Nel verbale De Benedictis riferisce quanto a suo dire appreso da Vito Ladisa a proposito di (presunte e non verificate) confidenze che l’imprenditore avrebbe ricevuto da Michele Emiliano. Si tratta di un lungo racconto, in cui si tirano in ballo anche altri protagonisti della vita pubblica barese, che la Procura di Lecce non ha finora ritenuto rilevante e sul quale non sarebbero stati trovati riscontri, tanto da non fare parte del compendio di accusa. Negli atti dell’indagine sull’ex magistrato barese, peraltro, è documentato un incontro con Emiliano a cui De Benedictis (il 19 agosto 2020) avrebbe chiesto di intervenire per una problematica relativa a Villa Anita, il centro diurno di Terlizzi in cui l’ex giudice ha una partecipazione societaria: la richiesta non ha avuto alcun seguito, così come hanno documentato i carabinieri su delega della Procura di Lecce.
Nella precedente udienza davanti al gup di Lecce, il 1° marzo, a esibire il verbale privo di omissis è stata invece la difesa di Giancarlo Chiariello, l’avvocato accusato di aver pagato De Benedictis per il quale l’accusa ha chiesto 8 anni e mezzo. La difesa di Chiariello, con l’avvocato Gaetano Sassanelli (che è anche il difensore di Emiliano a Torino), ha chiesto di depositare il documento perché rafforzerebbe la tesi difensiva: quella in base a cui sarebbe stato De Benedictis a indurre Chiariello a pagarlo per ottenere la scarcerazione dei suoi clienti. La Procura di Lecce, però, si è opposta, e il gup Liguori ha respinto la richiesta rilevando che il procedimento è ormai in fase avanzata e dunque il verbale sarebbe irrilevante. Tra le dichiarazioni «scoperte», anche quelle in cui De Benedictis parla dei propri rapporti con le persone che gli chiedevano favori giudiziari: «Confermo che di fatto io mi ero messo a disposizione di (...) e dei suoi amici rispetto a vicende penali che erano di loro interesse, preciso che non ho mai parlato con i magistrati titolari dei vari procedimenti che mi venivano segnalati nonostante richieste in tal senso, i miei interventi consistevano nel leggere le carte, dare consigli giuridici e suggerire avvocati, a volte andare io stesso a parlare con gli avvocati». De Benedictis conferma anche alcuni favori ricevuti: «In effetti per la mia macchina usavo quasi esclusivamente gasolio agricolo che facevo da (...) e che non pagavo. In effetti (...) mi ha dato generi alimentari e caseari di sua produzione»). La sentenza di Lecce per i quattro presunti episodi di corruzione (contestati a vario titolo a otto persone) è prevista per martedì prossimo. Sempre martedì, a Lecce comincerà l’udienza preliminare per le altre accuse a carico di De Benedictis, quelle di traffico d’armi e ricettazione.
De Benedictis sul caso-tangenti: «Non ho aiutato i clan». Massimiliano Scagliarini e Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Marzo 2022.
I rapporti tra magistrati. I favori chiesti e ottenuti da (e per il tramite di) amici e imprenditori. Pagine e pagine in cui si parla di appalti, riferendo le (presunte) confidenze dell’imprenditore Vito Ladisa che tirano in ballo anche il presidente Michele Emiliano. Circostanze in massima parte non riscontrate o non riscontrabili. È per questo che il memoriale dell’ex gip Giuseppe De Benedictis viene ritenuto da chi indaga un distillato di veleni. Ma questo non significa che tutti i racconti dell’ex magistrato, arrestato per tangenti nell’aprile 2021 e tuttora ai domiciliari, siano considerati inattendibili.
Ieri gli avvocati di De Benedictis, Saverio Ingraffia e Gianfranco Schirone, hanno discusso per ultimi nell’udienza davanti al gup Laura Liguori, durata oltre sette ore: la Procura di Lecce ha chiesto in abbreviato la condanna dell’ex giudice a 8 anni e 9 mesi per quattro episodi di corruzione in atti giudiziari. Il principale coimputato - l’avvocato Giancarlo Chiariello - aveva sostenuto che fu il giudice a chiedergli denaro a fronte della scarcerazione dei suoi clienti. La difesa di De Benedictis (che ha depositato una nuova memoria) ha respinto questa ricostruzione, chiedendo l’assoluzione per due degli episodi contestati, l’esclusione dell’aggravante di aver favorito dei mafiosi (le scarcerazioni riguardano processi di criminalità organizzata). Soprattutto, per accorciare la condanna hanno invocato l’attenuante della collaborazione, puntando (anche) sulla genuinità di quanto raccontato ai pm di Lecce in decine e decine di ore di interrogatorio. Ed è anche per questo che l’ex giudice ha chiesto di essere interrogato a Torino, dove Emiliano e Ladisa (insieme al capo di gabinetto Claudio Stefanazzi e all’imprenditore Mescia) sono a giudizio per finanziamento illecito ai partiti in relazione alle primarie Pd. De Benedictis ritiene di avere qualcosa di specifico da dire su Emiliano e Ladisa, ma la Procura di Torino - che a febbraio ha avuto da Lecce il memoriale e l’interrogatorio - appare scettica sulla rilevanza della sua narrazione. Questo perché l’ex gip molfettese ha raccontato ciò che dice di aver appreso da Vito Ladisa, un «riferito» che non è ritenuto riscontrabile e a tratti sconfina nel pettegolezzo (vedi l’incontro in una tenuta salentina con un noto politico del centrosinistra). Ha parlato a lungo, ad esempio, dell’appalto dell’ospedale della Fiera del Levante (nei giorni precedenti al suo arresto sui giornali infuriavano le polemiche sui costi): De Benedictis ha detto che fu Emiliano a ordinare all’ex dirigente della Protezione civile, Mario Lerario, di portare le carte dell’appalto alla Finanza (è vero, ma lo avevano scritto i giornali), mentre tutto il resto del racconto non ha trovato riscontri. Poi l’ex giudice ha parlato di appalti del mondo delle mense (con riferimento a Ladisa) e di alcune delle indagini aperte sulla Regione: un misto di fatti noti e valutazioni personali sue e (a suo dire) di Ladisa. Ancora, le vicende relative alla scelta del nuovo procuratore di Bari e le asserite «preferenze» di Emiliano a questo proposito.
Quando ha chiuso le indagini sulla presunta corruzione in atti giudiziari, la Procura di Lecce ha coperto con «omissis» tutte le parti degli interrogatori di De Benedictis non attinenti alle sentenze comprate. Ma non tutte le ulteriori dichiarazioni sono state ritenute irrilevanti. Su quelle che riguardano gli avvocati del foro di Bari c’è stata una continua interlocuzione con i magistrati del capoluogo: lo dimostra il fatto che i pm salentini ieri hanno depositato in udienza un verbale del pentito di mafia Domenico Milella, in cui si parla di Chiariello ma anche di un altro avvocato il cui nome è coperto da «omissis» (probabilmente perché sottoposto a indagini). Il gip si è riservato di ammettere il nuovo documento.
Nelle «nuove» dichiarazioni di De Benedictis è emerso il nome di un ex magistrato della Corte d’appello di Bari che sarebbe stato in rapporti stretti con Chiariello («Da lui - avrebbe detto l’avvocato all’ex gip - posso avere tutto»). Ancora, De Benedictis ha parlato di un avvocato da lui definito «il principe del continuato» (un meccanismo giuridico che consente al condannato di ottenere sconti di pena), ma ha allo stesso tempo negato di aver avuto soldi da due dei legali baresi di cui aveva parlato un pentito di mafia. La sentenza per la corruzione nel Tribunale di Bari dovrebbe essere pronunciata martedì. Nei prossimi giorni la Procura di Lecce deciderà se replicare alle arringhe difensive degli imputati.
La difesa dell'avvocato ha puntato il dito contro l'ex gip De Benedictis. Prossima udienza il 22 marzo, quando saranno i legali del magistrato a parlare. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Marzo 2022.
Non sarebbe stato l'avvocato Giancarlo Chiariello a corrompere il giudice De Benedictis ma quest'ultimo avrebbe indotto l'avvocato a pagare per ottenere le scarcerazioni. È quanto ha sostenuto oggi Gaetano Sassanelli, difensore di Giancarlo Chiariello, l’ex avvocato penalista imputato con l’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis per corruzione in atti giudiziari, con riferimento a presunte tangenti pagate dall'avvocato al giudice in cambio di scarcerazioni. La difesa di Chiariello ha inoltre insistito perché non venga riconosciuta al suo assistito, come invece richiede la Procura, l’aggravante mafiosa.
Nel corso dell'udienza la difesa ha sostenuto che quelle vicende che l'avvocato Chiariello ha in parte ammesso nell'interrogatorio reso dopo l’arresto, circa un anno fa, non erano episodi di corruzione in atti giudiziari bensì induzione indebita a dare o promettere utilità. L'avvocato - secondo il suo difensore - non avrebbe corrotto il giudice per ottenere le scarcerazioni ma sarebbe stato indotto a pagare le tangenti.
Secondo la difesa, la chiave di lettura di questa interpretazione sta in alcune dichiarazioni fatte da De Benedictis ai pm salentini, nelle quali l'ex gip avrebbe detto di aver chiesto più soldi a Chiariello anche per capire fino a che punto l'avvocato sarebbe stato disposto ad accontentarlo.
La Procura di Lecce ha chiesto condanne a 8 anni e 9 mesi di reclusione per l’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis e a 8 anni 5 mesi di reclusione per l’ex avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello. Si tornerà in aula il 22 marzo per la discussione dei difensori di De Benedictis. Nel processo, in corso a Lecce con il rito abbreviato, sono imputate, oltre a Chiariello e De Benedictis, altre sette persone.
È di 6 milioni il tesoro di Chiariello: sigilli a 3 immobili nel centro di Bari. Dopo la sentenza di Lecce, la Finanza ha trovato altri 3,6 mln su un conto corrente. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Aprile 2022.
BARI - Il sequestro preventivo che il 7 marzo la Finanza ha eseguito sui conti dell’avvocato Giancarlo Chiariello ha portato a mettere le mani su quasi sei milioni di euro tra contanti, titoli e immobili. Sono i soldi ritenuti provento dell’evasione fiscale che il legale barese - appena condannato a Lecce, insieme all’ex gip Pino De Benedictis, per corruzione in atti giudiziari - avrebbe messo in atto nella più che trentennale carriera in cui ha assistito tra l’altro alcuni pezzi da novanta della criminalità pugliese.
Ad aprile, quando Giancarlo Chiariello fu arrestato per corruzione insieme all’ex gip, i carabinieri trovarono a casa del figlio Alberto altri 1,1 milioni di euro in contanti, imbustati sottovuoto e nascosti in tre zaini. La sentenza di Lecce (che ha condannato il padre e l’ex gip a 9 anni e 8 mesi, e il figlio a 4 anni) ha disposto la confisca di quel denaro. Ora la Procura di Bari ha messo i sigilli anche a quell’immobile, insieme ad altri due: la casa in cui vive l’avvocato, a due passi dall’Università, e l’appartamento poco lontano in cui aveva sede lo studio nel frattempo chiuso.
Su un conto della dipendenza barese di Banca Generali, l’avvocato Chiariello aveva 3,6 milioni di euro tra disponibilità liquide e investimenti mobiliari. I finanzieri hanno tracciato la genesi di quella provvista: il denaro proveniva da un conto Ubs, ma non veniva movimentato da tempo. Sintomo, secondo gli investigatori, del fatto che il professionista maneggiasse soprattutto contanti. Lo dimostrerebbe - sempre secondo l’impostazione accusatoria, non ancora passata dal vaglio di un giudice - anche la modalità con cui Chiariello ha acquistato l’abitazione del figlio: un immobile valutato circa 400mila euro e preso attraverso un finanziamento di tipo Lombard, una particolare tipologia di credito in cui non c’è ipoteca sul bene ma viene costituito un pegno su un portafoglio mobiliare. Il punto, comunque, è che Chiariello avrebbe regolato le rate del finanziamento direttamente in contanti: un altro indizio - secondo chi indaga - della grande disponibilità di fondi rinvenienti da evasione fiscale.
L’inchiesta per evasione fiscale condotta dal pm Gaetano Dentamaro è partita dalle parole di un pentito di mafia, Domenico Milella, secondo cui Chiariello avrebbe chiesto fino a 100mila euro per difendere una persona accusata di omicidio. Un secondo pentito ha raccontato di aver corrisposto al legale numerosi acconti per la difesa di un boss barese, Giuseppe Misceo, arrestato nel 2014 per omicidio. Un pezzo grosso della mafia foggiana ora pentito, Danilo Della Malva, ha confermato di aver pagato a Chiariello 30mila euro per ottenere i domiciliari dall’ex gip De Benedictis. Il collaboratore di giustizia Adriano Pontrelli ha parlato di 15mila euro versati cash per un appello. Eppure - secondo la Procura - tra il 2016 e il 2019 Chiariello ha dichiarato redditi tra i 26mila e i 60mila euro annui, a fronte però di un livello di spesa «particolarmente elevata»: auto, gioielli, titoli di credito, obbligazioni e conti correnti su quali sono stati registrati depositi milionari in contanti e assegni. E dunque, attraverso l’esame dei 239 fascicoli sequestrati nello studio dopo l’arresto, una consulenza chiesta dalla Procura ha ricostruito il valore dell’attività professionale svolta da Chiariello: e dunque, per differenza con quanto effettivamente fatturato, una seconda consulenza ha valutato in 10,8 milioni di euro il totale dell’Iva e delle imposte che l’avvocato avrebbe sottratto al fisco tra il 2014 e il 2019. Una buona parte di quei soldi, adesso, sono finiti sotto sequestro.
I difensori di Chiariello, professor Vito Mormando e avvocato Filiberto Palumbo, hanno presentato ricorso al Riesame contro il decreto di sequestro preventivo firmato dal gip Valeria Isabella Valenzi. Lo stesso Chiariello aveva riconosciuto che i contanti trovati in casa del figlio erano i proventi in nero «di vent’anni» dell’attività professionale. Ma adesso anche la difesa potrebbe predisporre una consulenza per dimostrare che le cifre ricostruite dall’accusa sono più alte del reale: pure gli avvocati migliori, nei fatti, hanno difficoltà a farsi pagare dai clienti per le cifre previste dai massimi di tariffa. L’udienza non è ancora stata fissata.
Bari, 11 milioni di euro sequestrati all’ex avvocato Chiariello: reddito da operaio ma onorari milionari. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Marzo 2022.
Gli ex clienti del penalista, successivamente diventati collaboratori di giustizia, hanno rivelato il suo tariffario per processi pilotati e scarcerazioni "facili". Lo scorso 22 febbraio al termine della requisitoria del processo con rito abbreviato a carico dei due e di altre sette persone la Procura della Repubblica di Lecce ha chiesto per De Benedictis una pena a 8 anni, 9 mesi e 10 giorni di reclusione e per l'avvocato barese una pena a 8 anni, 5 mesi e 23 giorni
La Guardia di Finanza ha sequestrato all’ex noto penalista barese Giancarlo Chiariello beni per 10,8 milioni di euro con l’accusa di evasione fiscale, ha accertato che avrebbe intascato compensi per attività forense fino a 100mila euro per ogni cliente, dichiarando redditi annui tra i 26mila e i 60mila euro.
Nel corso dell’interrogatorio di garanzia dopo l’arresto per corruzione in atti giudiziari effettuato dai Carabinieri ed il rinvenimento a casa di suo figlio di zaini contenenti 1,1 milioni di euro in contanti, l’ormai ex-avvocato Giancarlo Chiariello aveva già riconosciuto come proprie le somme di denaro sequestrate, giustificandole ai finanzieri , come i risparmi derivanti dai pagamenti dei clienti per l’attività professionale prestata in vent’anni.
Sono stati dei suoi ex clienti diventati in seguito collaboratori di giustizia a rivelare che pagavano 10 mila euro di onorario al penalista per ciascuno procedimento, compensi che potevano arrivare a 100 mila euro per il patrocinio in Cassazione a fronte di un’accusa per omicidio. Pagamenti effettuati tutti in contanti in violazione della normativa antiriciclaggio e senza il rilascio di alcun documento fiscale secondo la ricostruzione della Guardia di Finanza.
La quantificazione delle imposte evase è stata possibile grazie all’ acquisizione e sequestro dell’elenco dei clienti dell’avvocato, tra i quali diversi pregiudicati alcuni dei quali diventati poi collaboratori di giustizia. E’ stato grazie alle loro dichiarazioni è stato possibile ricostruire il “tariffario” degli onorari del legale: tra i 4 e i 7 mila euro solo per accettare la nomina difensiva, 15 mila euro per un ricorso in appello, “su un omicidio ci volevano 100 mila euro” ha testimoniato Domenico Milella ex boss del “clan Palermiti” di Bari , 30 mila euro per una scarcerazione secondo le dichiarazioni di Danilo Pietro Della Malva, co-imputato a Lecce per le presunte tangenti all’ex gip.
Le successive verifiche patrimoniali disposte dal pm Giuseppe Dentamaro della Procura di Bari, hanno accertato e documentato redditi dichiarati tra i 26mila e i 60mila euro annui nel periodo tra il 2016 e il 2019, a fronte di una “effettiva capacità di spesa del nucleo familiare dell’indagato, risultata particolarmente elevata, come dimostrato dall’acquisto e dal possesso di auto di lusso, di gioielli e di consistenti disponibilità finanziarie derivanti da titoli di credito, obbligazioni, depositi e conti correnti“.
Il denaro incassato in nero dall’ex avvocato barese Giancarlo Chiariello per gli incarichi legali veniva parzialmente custodito in buste sottovuoto, in quanto destinato ad essere occultato altrove. Ne sono convinti i magistrati baresi che hanno disposto il sequestro preventivo di beni per oltre 10,8 milioni di euro, per il “rischio che le somme corrispondenti all’imposta evasa, invero ingenti, potrebbero essere disperse o distratte“.
Un anno fa l’ex penalista venne arrestato dalla Procura di Lecce per alcuni episodi di corruzione in atti giudiziari relativi a presunte tangenti versate all’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis per ottenere scarcerazioni di clienti, ed in casa di suo figlio vennero trovati dai Carabinieri durante una perquisizione soldi in contanti per circa 1,1 milioni di euro “suddivisi in tre zaini per agevolarne il trasporto e una parte sottovuoto per assicurarne la conservazione in caso di umidità”. La gip di Bari Valeria Isabella Valenzi, accogliendo la richiesta della Procura di Bari, ha ritenuto che il penalista tentasse di “sottrarre alle investigazioni” i “pagamenti in contanti ricevuti dai propri clienti nel corso del tempo che, per ovvie ragioni, non poteva depositare in banca“, come Chiarello stesso ha dichiarato in un interrogatori dinanzi ai magistrati inquirenti della Procura di Lecce. Redazione CdG 1947
Evasione fiscale: sequestro per 10,8 milioni ad avvocato barese. È Giancarlo Chiariello, già imputato per tangenti a ex gip. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 marzo 2022. Beni del valore di 10,8 milioni di euro, fra i quali prestigiosi immobili a Bari e disponibilità finanziarie, sono stati sottoposti a sequestro preventivo dalla Guardia di Finanza nei confronti dell’ex avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello per dichiarazione infedele dell’Iva e delle imposte sui redditi dovute all’Erario tra il 2014 e il 2019. Chiariello è imputato a Lecce con l’ex gip del Tribunale di Bari per diversi episodi di presunte corruzioni in atti giudiziari. Quando fu arrestato nell’ambito di quella indagine, circa un anno fa, in casa del figlio Alberto, coimputato a Lecce, furono trovati tre zaini contenenti 1,1 milioni di euro in contanti. La Procura di Bari aprì quindi un’altra indagine fiscale sul penalista. Durante una perquisizione nello studio legale è stata sequestrata documentazione relativa a 239 fascicoli processuali a fronte di compensi dichiarati al fisco per importi «largamente inferiori rispetto a quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia», ex clienti dell’avvocato.
Evasione fiscale: sequestro per 10,8 milioni ad avvocato barese. I soldi nascosti anche sottovuoto. È Giancarlo Chiariello, già imputato per tangenti a ex gip. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Marzo 2022.
Beni del valore di 10,8 milioni di euro, fra i quali prestigiosi immobili a Bari e disponibilità finanziarie, sono stati sottoposti a sequestro preventivo dalla Guardia di Finanza nei confronti dell’ex avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello per dichiarazione infedele dell’Iva e delle imposte sui redditi dovute all’Erario tra il 2014 e il 2019. Chiariello è imputato a Lecce con l’ex gip del Tribunale di Bari per diversi episodi di presunte corruzioni in atti giudiziari. Quando fu arrestato nell’ambito di quella indagine, circa un anno fa, in casa del figlio Alberto, coimputato a Lecce, furono trovati tre zaini contenenti 1,1 milioni di euro in contanti. La Procura di Bari aprì quindi un’altra indagine fiscale sul penalista. Durante una perquisizione nello studio legale è stata sequestrata documentazione relativa a 239 fascicoli processuali a fronte di compensi dichiarati al fisco per importi «largamente inferiori rispetto a quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia», ex clienti dell’avvocato.
Avrebbe intascato compensi per attività legale fino a 100mila euro per ogni cliente, dichiarando redditi annui tra i 26mila e i 60mila euro. E' quanto ha accertato la Guardia di Finanza di Bari che oggi ha sequestro all’ex penalista barese Giancarlo Chiariello beni per 10,8 milioni di euro con l’accusa di evasione fiscale. Nel corso dell’interrogatorio di garanzia dopo l’arresto per corruzione in atti giudiziari e il rinvenimento a casa di suo figlio di zaini contenenti 1,1 milioni di euro in contanti, Giancarlo Chiariello aveva già «riconosciuto come proprie» le somme di denaro sequestrate, «indicandole - spiegano i finanzieri - come i risparmi di vent'anni derivanti dai pagamenti dei clienti per l’attività professionale prestata». I suoi ex clienti poi diventati collaboratori di giustizia hanno rivelato che al penalista pagavano 10mila euro di onorario per ciascuno procedimento, che potevano raggiungere i 100 mila euro per il patrocinio in Cassazione a fronte di un’accusa per omicidio. «Pagamenti effettuati tutti in contanti - hanno ricostruito i finanzieri - , in violazione della normativa antiriciclaggio e senza il rilascio di alcun documento fiscale». Le successive verifiche patrimoniali, coordinate dal procuratore di Bari Roberto Rossi con il sostituto Giuseppe Dentamaro, hanno documentato redditi dichiarati tra il 2016 e il 2019 tra i 26mila e i 60mila euro annui, a fronte di una «effettiva capacitaà; di spesa del nucleo familiare dell’indagato, risultata particolarmente elevata, come dimostrato dall’acquisto e dal possesso di auto di lusso, di gioielli e di consistenti disponibilità finanziarie derivanti da titoli di credito, obbligazioni, depositi e conti correnti».
I SOLDI NASCOSTI ANCHE SOTTOVUOTO - Il denaro incassato in nero dall’ex penalista barese Giancarlo Chiariello per gli incarichi legali era parzialmente suddiviso in buste sottovuoto, perché "destinato ad essere occultato altrove». Ne sono convinti i magistrati baresi che oggi hanno disposto il sequestro preventivo di beni per oltre 10,8 milioni di euro, per il "rischio che le somme corrispondenti all’imposta evasa, invero ingenti, potrebbero essere disperse o distratte». Quando circa un anno fa l’ex penalista fu arrestato dalla magistratura salentina per alcuni episodi di corruzione in atti giudiziari relativi a presunte tangenti pagate all’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis per ottenere scarcerazioni di clienti, in casa del figlio furono trovati circa 1,1 milioni di euro in contanti "suddivisi in tre zaini per agevolarne il trasporto - spiega la Procura di Bari - e una parte sottovuoto per assicurarne la conservazione in caso di umidità».
La gip di Bari Valeria Isabella Valenzi, accogliendo la richiesta del procuratore Roberto Rossi, ha ritenuto che il penalista tentasse di «sottrarre alle investigazioni» i "pagamenti in contanti ricevuti dai propri clienti nel corso del tempo che, per ovvie ragioni, non poteva depositare in banca», come da lui stesso dichiarato in un interrogatori dinanzi ai pm di Lecce. La quantificazione delle imposte evase è stata possibile grazie al sequestro dell’elenco dei clienti dell’avvocato, tra i quali alcuni pregiudicati diventati poi collaboratori di giustizia. Grazie alle loro dichiarazioni è stato possibile ricostruire il «tariffario» degli onorari del legale: tra i 4 e i 7 mila euro solo per accettare la nomina difensiva, 15 mila euro per un ricorso in appello, «su un omicidio ci volevano 100 mila euro» ha detto l’ex boss de clan Palermiti di Bari Domenico Milella, 30 mila euro per una scarcerazione secondo Danilo Pietro Della Malva, co-imputato a Lecce per le presunte tangenti all’ex gip.
"Parcelle a nero sino a 100mila euro", la Finanza sequestra 11 milioni a noto avvocato barese. La Voce di Manduria lunedì 07 marzo 2022
I Finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Bari stanno dando esecuzione a un decreto di sequestro preventivo - emesso, su richiesta di questa Procura della Repubblica, dal competente G.I.P. del locale Tribunale - di beni, fra i quali prestigiosi immobili ubicati a Bari, nonché cospicue disponibilità finanziarie, del valore complessivo di oltre 10,8 milioni di euro. Nel provvedimento è stata riconosciuta l’esistenza di un concreto quadro indiziario (accertamento compiuto nella fase delle indagini preliminari che necessita della successiva verifica processuale nel contraddittorio con la difesa) a carico di un noto avvocato penalista del Foro di Bari, in relazione all’ipotesi di reato di dichiarazione infedele dell’i.v.a. e delle imposte sui redditi dovute all’Erario. L’operazione odierna costituisce l’epilogo di articolate e complesse investigazioni svolte dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Bari - su delega di questa Procura della Repubblica - in seguito all’esecuzione di una misura cautelare personale nei confronti del predetto legale disposta dal Tribunale di Lecce per vari episodi di corruzione in atti giudiziari e al contestuale rinvenimento, presso l’abitazione del figlio, della somma pari a circa 1,1 milioni di euro in contanti, contenuti in tre zaini e in parte sigillati all’interno di buste sottovuoto. Nel corso dell’interrogatorio di garanzia l’indagato ha riconosciuto come proprie tali somme di denaro, indicandole come i risparmi di vent’anni derivanti dai pagamenti dei clienti per l’attività professionale prestata. In tale contesto, alla presenza del Procuratore della Repubblica e del Presidente dell’Ordine degli avvocati di Bari, le Fiamme Gialle baresi hanno perquisito lo studio legale del penalista, ubicato in questo capoluogo, rinvenendo e acquisendo copiosa documentazione (tra cui 239 fascicoli processuali) utile all’identificazione della sua clientela e alla quantificazione del volume dei compensi professionali effettivamente percepiti. Considerato che tra i numerosi assistiti vi erano anche soggetti divenuti collaboratori di giustizia, si è proceduto ad acquisirne le pertinenti dichiarazioni, secondo le quali l’onorario del penalista - per il solo studio del procedimento - ammontava a 10 mila euro, per raggiungere l’importo di 100 mila euro per il patrocinio in Cassazione a fronte di un’accusa per omicidio. Pagamenti, questi, effettuati tutti per contanti, in violazione della normativa antiriciclaggio e senza il rilascio di alcun documento fiscale. Le dichiarazioni, tutte convergenti (allo stato, salvo la verifica successiva in fase dibattimentale con il contraddittorio della difesa), sono state riscontrate dalla documentazione in atti.I conseguenti approfondimenti hanno, quindi, permesso di appurare la dichiarazione al Fisco di compensi per importi largamente inferiori rispetto a quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia e rispetto ai parametri indicati nelle cosiddette “tabelle professionali”. In esecuzione di una specifica delega di indagine emessa da questa Procura della Repubblica, il Gruppo Tutela Mercato Capitali del Nucleo PEF di Bari ha poi eseguito anche accurate indagini patrimoniali finalizzate a ricostruire l’effettiva capacità di spesa del nucleo familiare dell’indagato, risultata - nonostante i modesti redditi dichiarati, oscillanti nel periodo 2016-2019 tra i 60 e i 26 mila euro - particolarmente elevata, come dimostrato dall’acquisto e dal possesso di auto di lusso, di gioielli e di consistenti disponibilità finanziarie derivanti da titoli di credito, obbligazioni, depositi e conti correnti. Secondo l’impostazione accusatoria accolta dal competente G.I.P. presso il Tribunale di Bari (fatta salva la valutazione nelle fasi successive con il contributo della difesa), come emerso dall’incrocio delle risultanze degli approfondimenti investigativi svolti, alla cui esecuzione hanno partecipato anche consulenti tecnici nominati da questa Procura della Repubblica, il penalista - tra il 2014 e il 2019 - avrebbe evaso l’i.v.a. e le imposte sui redditi dovute all’Erario per oltre 10,8 milioni di euro. Tale condotta ha integrato il “fumus” del delitto di dichiarazione infedele, tenuto conto del superamento delle soglie di punibilità previste dalla norma violata. Ciò è risultato corroborato anche dagli esiti delle indagini finanziarie svolte dai Finanzieri di Bari nei confronti del professionista e dei componenti del suo nucleo familiare, che hanno evidenziato il versamento sui conti correnti ispezionati di denaro contante e assegni per un valore di oltre 1 milione di euro. Il competente G.I.P. del Tribunale di Bari - condividendo l’analoga proposta avanzata da questa Procura della Repubblica, basata sul solido compendio indiziario acquisito dalla p.g. operante - ha ora emesso un decreto di sequestro preventivo di beni, anche nella forma per equivalente, per un importo di oltre 10,8 milioni di euro, pari alle imposte evase. Contestualmente all’esecuzione del provvedimento di sequestro è altresì in corso la perquisizione dell’abitazione dell’indagato finalizzata all’individuazione di ulteriori beni da sottoporre a vincolo. Gli esiti dell’attività d’indagine costituiscono un’ulteriore testimonianza del costante presidio economico-finanziario esercitato dalla Procura della Repubblica di Bari - in stretta sinergia con il locale Nucleo PEF Bari - per la repressione del grave fenomeno dell’evasione fiscale, a tutela dei cittadini, degli imprenditori e dei professionisti rispettosi delle regole, al fine di assicurare l’equità sociale quale condizione fondamentale del benessere della collettività, soprattutto nell’attuale periodo di crisi finanziaria correlata all’emergenza sanitaria da Covid 19.
Tangenti per scarcerazioni a Bari. Chiariello: “Indotto a pagare da De Benedictis”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Marzo 2022.
La Procura di Lecce ha chiesto condanne a 8 anni e 9 mesi di reclusione per Giuseppe De Benedictis ex Gip del Tribunale di Bari , e una condanna a 8 anni 5 mesi di reclusione per l’ex avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello. Si tornerà in aula il prossimo 22 marzo per la discussione dei difensori dell' ex giudice De Benedictis.
Nell’udienza di ieri dinnanzi al Tribunale di Lecce del processo con rito abbreviato l’ avv. Gaetano Sassanelli, difensore dell’ex avvocato penalista Giancarlo Chiariello, imputato con l’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis per corruzione in atti giudiziari, con riferimento a presunte tangenti pagate dall’avvocato al giudice in cambio di scarcerazioni, ha sostenuto che non sarebbe stato il legale a corrompere il giudice ma il contrario al fine di ottenere dei pagamenti per accogliere delle richieste scarcerazioni. Insieme all’ avvocato Chiariello ed al giudice De Benedictis sono imputate altre sette persone. Il difensore di Chiariello ha insistito affinchè non venga riconosciuta come invece richiede la Procura, l’aggravante mafiosa al suo assistito.
La Procura di Lecce ha chiesto condanne a 8 anni e 9 mesi di reclusione per Giuseppe De Benedictis ex Gip del Tribunale di Bari , e una condanna a 8 anni 5 mesi di reclusione per l’ex avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello.
La difesa ha sostenuto nel corso dell’udienza che i fatti ammessi in parte circa un anno fa dall’ormai ex avvocato Chiariello nell’interrogatorio subito dopo l’arresto, non erano episodi di corruzione in atti giudiziari ma induzione indebita a dare o promettere utilità. Secondo l’ avv. Sassanelli, Chiariello non avrebbe corrotto il giudice per ottenere le scarcerazioni ma sarebbe stato indotto a pagare le tangenti. La chiave di lettura di questa interpretazione starebbe in alcune dichiarazioni rese dall’ex Gip De Benedictis ai magistrati inquirenti della procura salentina salentini, nelle quali avrebbe detto di aver chiesto più soldi a Chiariello per capire fino a che punto l’avvocato sarebbe stato disposto ad accontentarlo.
Si tornerà in aula il prossimo 22 marzo per la discussione dei difensori dell’ ex giudice De Benedictis. Redazione CdG 1947
Per la Procura di Bari, all’Asset “davano appalti alle ditte amiche”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Marzo 2022.
Più di 3mila pagine tra denunce, intercettazioni e informative presenti negli atti depositati dalla Procura di Bari con la chiusura delle indagini. Il giallo dei fondi per le elezioni. Molteplici sospetti ed ipotesi di reato sui comportamenti di Elio Sannicandro, Gianni Stea e Salvatore Campanelli.
Negli atti depositati con la chiusura delle indagini dai pm Claudio Pinto e Savina Toscani della Procura di Bari titolari del fascicolo d’indagine, coordinati dall’ aggiunto Alessio Coccioli, compaiono più di 3 mila pagine tra denunce, intercettazioni e informative, all’interno delle quali la Guardia di Finanza ritiene che il tenore di alcune delle conversazioni captate confermi le ipotesi investigative, “ ovvero che all’interno della struttura commissariale vi sia una struttura interna gestita da Campanelli e Sannicandro”, che “ fraudolentemente attribuirebbe gli appalti a ditte amiche”.
C’è un passaggio utilizzando le parole scritte dalla Guardia di Finanza condivisi per comprovare i presunti tentativi di accordi illeciti intercorsi tra la struttura commissariale per la gestione del rischio idrogeologico della Regione Puglia e la società Areva Ingegneria di Noci, per risolvere un contenzioso in corso. Gli indagati le avrebbero provate tutte pur di aggiustare la vicenda fuori dal Palazzo di Giustizia “temendo che un’azione legale da parte dell’azienda che si era vista revocare gli incarichi per inadempienza avrebbe potuto determinare una serie di ripercussioni giudiziarie nei loro confronti”.
La questione coinvolge l’assessore al Personale della Regione Puglia, Gianni Stea, iscritto nel registro degli indagati della Procura di Bari per concorso in tentata induzione indebita a dare o promettere utilità, per fatti risalenti al 2019, quando ricopriva l’incarico di assessore all’Ambiente. Insieme a Stea con la stessa accusa sono indagati Elio Sannicandro, direttore generale dell’ Asset l’ Agenzia strategica per lo sviluppo del territorio della Regione Puglia, e l’avvocato penalista barese Salvatore Campanelli, consulente amministrativo e legale nominato per il supporto al Rup ( responsabile unico del procedimento) per il fondo di progettazione per gli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico.
Indagato il funzionario regionale Daniele Sgaramella, ritenuto ruolo chiave dell’inchiesta, per falso materiale e per soppressione, distruzione e occultamento di atti è infine . Negli atti si legge di “minacce” agli imprenditori da parte di Sgaramella, assistito dall’avvocato Francesco Digilio, “ sia di ripercussioni economiche” sulla società sia personali.
Le “condotte persecutorie” nei confronti della società sono state riassunte in diverse denunce relative a “palesi irregolarità nella gestione di appalti”, delle denunciate richieste di denaro da parte di Campanelli e Sannicandro con inequivocabili riferimenti ai fondi necessari per finanziare la campagna elettorale di quell’anno per le elezioni amministrative al Comune di Bari. In una delle decine di informative depositate nei due anni di indagini 2019 e 2020, gli investigatori delle Fiamme Gialle scrivono di “un quadro criminoso allarmante”.
Accuse che gli indagati Stea, Sannicandro e Campanelli, hanno negato e contestato e che, stando al contenuto delle stesse intercettazioni, non vengono mai esplicitamente confermate, seppure poi formalizzate nei capi d’imputazione a loro carico. Le conversazioni intercettate e riportate negli atti sono quelle registrate durante due incontri avvenuti uno negli uffici della Regione Puglia ed uno all’interno di un bar di una stazione di servizio di Adelfia, grazie a delle microspie nascoste addosso all’imprenditore Conforti. In uno di questi colloqui, del 25 giugno 2019, sono presenti tra gli altri l’assessore Stea e l’avvocato Campanelli e quest’ultimo “ riferisce di parlare in nome e per conto della struttura commissariale, asserendo addirittura — trascrive la Guardia di Finanza — che è la stessa cosa se parla lui o Elio Sannicandro”.“
Gli investigatori affermano che Campanelli pur non avendo mai fatto una proposta esplicita lasciava intendere con il suo atteggiamento che accogliendo delle sue richieste “si sarebbero risolte tutte le controversie con la Regione”. Ma non solo, secondo i finanzieri, avrebbe anche invitato a rimettere la denuncia “Se pur indirettamente, ma in maniera chiara ed incontrovertibile” che l’imprenditore aveva fatto nei confronti di Sgaramella “nell’ottica di questa rinnovata collaborazione”.
Successivamente qualche settimana più tardi in un incontro anche questo intercettato, sempre stando alla ricostruzione investigativa che si basa essenzialmente sul contenuto delle denunce è l’assessore Stea a dimostrarsi interessato al “ buon esito” del confronto, rassicurando l’ingegner Conforti prima dell’arrivo dell’avvocato Campanelli, che era anche lui atteso all’appuntamento. “ Tale incontro aveva palesemente l’obiettivo di sistemare definitivamente le pendenze tra questa società e la Regione Puglia attraverso una transazione ad hoc che eliminasse le cause ostative per la Areva a partecipare a successivi bandi di gara della struttura commissariale”, che testualmente l’ avvocato Campanelli definisce “assegnati a rotazione” dicono i finanzieri.
Domani imperterrito Sannicandro vola negli Emirati Arabi a Dubai, dove all’interno del Padiglione Italia dell’Esposizione Universale si terrà “L’Italia mondiale dello Sport” , una vetrina dei grandi eventi sportivi che si svolgeranno in Italia nei prossimi anni, fra i quali i “Giochi del Mediterraneo TA2026″ che al momento però rimangono un progetto sulla carta privo di finanziamenti pubblici e privati. Evento al quale, contrariamente a quanto pubblicato dalla stampa pugliese, non parteciperà il presidente del CONI Giovanni Malagò. Redazione CdG 1947
Imputazione coatta per Elio Sannicandro direttore dell’Asset della Regione Puglia. Deve rispondere di abuso d’ufficio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Febbraio 2022.
Tra i cinque ex assessori del Comune di Giovinazzo compare anche Elio Sannicandro direttore dell'Asset Puglia e del Comitato Organizzatore dei Giochi del Mediterraneo 2026. La Procura di Bari aveva chiesto l' archiviazione, ma il Tribunale non è stato d'accordo, mandando tutti a processo che da anni viene richiesto da Vincenzo Turturro un ex funzionario del settore Paesaggio.
La Gip del Tribunale di Bari Anna Perrelli ha disposto l’imputazione coatta per un presunto abuso d’ufficio commesso per il demansionamento di un funzionario che da architetto finì per essere mandato a rilasciare carte di identità. Tra i cinque ex assessori del Comune di Giovinazzo compare anche Elio Sannicandro direttore dell’Asset Puglia e del Comitato Organizzatore dei Giochi del Mediterraneo 2026 . La Procura di Bari aveva chiesto l’ archiviazione, ma il Tribunale non è stato d’accordo, mandando tutti a processo che da anni viene richiesto da Vincenzo Turturro un ex funzionario del settore Paesaggio.
Il procedimento giudiziario che ha fatto finire Sannicandro in Tribunale insieme agli ex colleghi assessori a Giovinazzo, ha origine da un intreccio complicato tra le vicende amministrative della discarica della cittadina e quelle professionali dell’architetto Turturro, il quale si era opposto al progetto di ampliamento dell’impianto e, successivamente, era stato trasferito e demansionato ad altro settore e secondo quanto ha denunciato, sarebbe stato minacciato.
Elio Sannicandro, ex assessore del Comune di Bari
Dalla denuncia di Tuturro era nata l’inchiesta condotta dal pm Baldo Pisani, che aveva chiesto il rinvio a giudizio nei confronti del sindaco Tommaso De Palma, del presidente del Consiglio comunale Vito Domenico Favutto e degli assessori: oltre a Sannicandro, Marianna Paladino, Antonia Pansini, Michele Sollecito attuale vicesindaco e candidato sindaco nel 2022) e Salvatore Stallone. Il Gup Marco Galesi aveva disposto il rinvio a giudizio per i primi due per violenza privata mentre aveva escluso di poter attribuire ai componenti della giunta il reato di abuso d’ufficio, rinviando quindi gli atti al pm. Secondo il giudice ad avere arrecato un danno a Turturro non erano state le delibere della giunta ma bensì i decreti del sindaco, con i quali l’architetto “a scopo di ritorsione o vessazione” era stato trasferito ad un altro settore.
La Procura di Bari ricevuti gli atti aveva chiesto l’archiviazione di tutti e cinque gli assessori, ma Turturro si era opposto, e le ragioni della sua opposizione erano state accolte e condivise dalla Gip Perrelli, che si è convinta che la lesione della posizione del funzionario sia avvenuta sia con le decisioni del sindaco ma anche con la successiva delibera di giunta n° 94/2015, con la quale si è concretizzata la vera e propria “sottrazione delle competenze ” con il trasferimento dell’architetto Turturro dal settore Paesaggio a quello Patrimonio, “con il completamento del disegno vessatorio e discriminatorio della persona offesa, prima spostata in un ufficio privo finanche di scrivanie e postazioni telematiche e successivamente ad occuparsi del rilascio di carte di identità”.
Locorotondo, il borgo pugliese dalle case bianche. Angela Leucci il 14 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Locorotondo è una delle città bianche di Puglia: qui le case sono esternamente coperte di calce, come vuole un'antichissima tradizione.
Locorotondo è una città nota su tutto lo Stivale per via di un vino Doc, prodotto nel cuore della Valle d’Itria. Per molti altri è però un centro suggestivo per via della sua storia, della sua architettura, oltre che per le bontà enogastronomiche.
Il nome di Locorotondo
Il nome della città dice già qualcosa di fondamentale in merito al suo centro storico. L’etimologia trova la sua base in “locum rotundum”, che fa riferimento a propria volta alla forma tonda del centro storico a pianta greca. Le prime testimonianze di una civiltà che si stabilì qui si devono infatti ai greci, in un’epoca che si colloca presumibilmente tra il IC e il VII secolo a.C.
Le case bianche
“Tu non conosci il Sud, le case di calce da cui uscivamo al sole come numeri dalla faccia d'un dado”. È un verso celeberrimo di una poesia di Vittorio Bodini che racconta con un’immagine immediata le case bianche delle città pugliesi. Come Ostuni, Cisternino, Alberobello e naturalmente Locorotondo.
Quella delle case bianche in Puglia non è una semplice suggestione, ma risponde a diverse caratteristiche che hanno a che fare con la storia e con il territorio. La calce a Locorotondo viene usata non solo per le pareti delle case del centro, ma anche per il lastricato solare di queste abitazioni, chiamate in dialetto locale “cummerse”.
Ma perché, anticamente, queste case furono realizzate in questo modo? C’è una ragione storica, una ragione igienica e una ragione climatica. La ragione storica consiste nel fatto che le coste della Puglia - Locorotondo dista dal mare meno di 20 chilometri in linea d’aria - erano spesso meta delle incursioni saracene, a cavallo tra il Medioevo e l’Età Moderna. Le case bianche, riflettendo la luce del sole, potevano accecare gli invasori provenienti dal mare. La ragione igienica ha a che fare con il fatto che le facciate di calce possono essere ripristinate facilmente, perché la calce è di facile reperibilità: nel Medioevo si riteneva infatti che questo materiale tanto rinnovabile sulle case potesse tenere lontana la peste. Infine la ragione climatica risiede nel fatto che queste case sono realizzate in materiali che consentano l’isolamento termico, e la calce bianca, come detto, respinge appunto i raggi solari. Il risultato: abitazioni fresche d’estate e calde in inverno.
Le leggende di Locorotondo
Un fatto è che Locorotondo possieda diversi beni culturali di pregio, come chiese in diversi stili, dal barocco al basiliano, ex palazzi gentilizi suggestivi tra cui quello che ospita il municipio, e il Trullo Marziola, ritenuto il più antico di tutta la Valle d’Itria.
Ma accanto ai fatti, a ciò che è tangibile e che si può ammirare con gli occhi, ci sono anche fantasiose leggende. Una di queste riguarda il “Monacidd”, ossia il Monachello, uno spirito benevolo e al tempo stesso dispettoso, abbigliato con un saio rosso e tanti campanelli, le cui abitudini sono ricalcate su mitologie simili e comuni in tutto il Mezzogiorno. Ce n’è anche una versione femminile, le “Jurie”, che sono invece spiriti malvagi che tolgono il fiato nel sonno, mordono o pizzicano, e intrecciano indissolubilmente i capelli degli esseri umani.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Emiliano, Sannicandro, Melucci, il triangolo delle spese “folli”. Il Corriere del Giorno il 18 Gennaio 2022.
Dietro le quinte dell’ennesima operazione a rischio legalità, patrocinata dal Governatore Emiliano e del suo ex assessore Sannicandro a capo dell’ agenzia regionale Asset, che non contento si è auto-nominato direttore dei Giochi del Mediterraneo 2026, senza che ci sia ancora la copertura finanziaria. Emiliano dimentica che Sannicandro fu beccato dal CONI con le mani nella marmellata. E domani va in scena l’ennesima pagliacciata elettorale pro-Melucci, mentre il Commissario Prefettizio sembra essere venuto in vacanza gratis….
L’ultima diretta del nostro Direttore Antonello de Gennaro trasmessa martedì 18 gennaio 2022 nel programma “DENTRO LA NOTIZIA-Fatti per essere ascoltati” in diretta streaming dal CORRIERE DEL GIORNO fondato nel 1947™ e diffusa anche sulle nostre pagine “ufficiali” presenti sulle piattaforme dei socialmedia Facebook, Twitter ed Instagram.
Dietro le quinte dell’ennesima operazione a rischio legalità, patrocinata dal Governatore pugliese Emiliano e del suo ex assessore comunale Elio Sannicandro “piazzato” a capo dell’ agenzia regionale Asset , il quale non contento del suo lauto stipendio regionale, si è fatto nominare anche Direttore dei Giochi del Mediterraneo 2026, senza che ci sia ancora la copertura finanziaria.
Una manifestazione che in tutti i Paesi del Mediterraneo nessuno voleva organizzare ! Emiliano ha forse dimenticato che proprio Sannicandro anni fa fu beccato dal CONI con le mani nella marmellata e fu di fatto costretto alle dimissioni dal CONI pugliese (leggi QUI) per non essere cacciato via dal CONI nazionale. E domani va in scena l’ennesima pagliacciata elettorale di Emiliano pro-Melucci, mentre il Commissario Prefettizio Cardellicchio sembra essere venuto in vacanza gratis….
Tutta la verità sui fatti raccontata a documentata senza filtri o censure. I retroscena della vita politica, economica e giudiziaria. Le inchieste. Gli approfondimenti. Tutto quello che gli altri non vi possono o vogliono raccontare .
Chi è la “gola profonda” dell’addetto stampa spione della Regione Puglia, Nico Lorusso ? Riusciranno la Procura e le Fiamme Gialle a scoprirlo? Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 18 Gennaio 2022.
I finanzieri hanno perquisito questa mattina la casa, l’ufficio nella Regione e l’auto dell’addetto stampa, sequestrando supporti informatici, pc e telefoni cellulari “al fine di verificare – si legge nel decreto – se nei giorni precedenti rispetto al rinvenimento delle cimici, Lorusso abbia intrattenuto chat o effettuato chiamate Voip con individui che, come dichiarato nel corso della conversazione, gli abbiano fatto leggere il decreto dispositivo delle intercettazioni ambientali in tre stanze”.
Finalmente la Procura di Bari cerca di fare chiarezza sui giornalisti “spioni” e “ventriloqui”, che sinora sono sempre stati protetti e spalleggiati dall’ Assostampa di Puglia, di cui spesso e volentieri fanno parte. Questa mattina i militari della Guardia di Finanza di Bari hanno eseguito una perquisizione nei confronti del giornalista Nico Lorusso membro della consulta sindacale dell’ Assostampa di Puglia e redattore del servizio stampa Agierrefax della Giunta regionale della Puglia, indagato per concorso in rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale.
“Il provvedimento è finalizzato all’acquisizione di elementi probatori utili alla compiuta identificazione di un pubblico ufficiale che avrebbe rivelato al redattore l’esistenza di dispositivi di captazione ambientale in uffici della Regione Puglia in uso a Mario Antonio Lerario” spiega la Procura di Bari. L’ addetto stampa della Regione Puglia Nico Lorusso sarebbe stato informato, da un pubblico ufficiale in corso di identificazione, della presenza delle cimici installate dalle Fiamme Gialle in tre stanze degli uffici della Protezione Civile della Regione Puglia e, come emerge da una intercettazione ambientale, Lorusso lo avrebbe comunicato all’ex capo della Protezione civile Mario Lerario, attualmente detenuto in carcere dallo scorso 23 dicembre per corruzione.
Nel decreto di perquisizione eseguito oggi dalla Guardia di Finanza su disposizione del procuratore Roberto Rossi e dell’aggiunto Alessio Coccioli, c’è una intercettazione ambientale del 3 settembre 2021 avvenuta nell’ufficio di Lerario. “Il decreto che disponeva la faccenda – diceva Nico Lorusso a Mario Lerario – che una manaccia me l’ha dato, me lo ha fatto leggere – disponeva qui; e non ho capito bene in quale altra stanza, boh”.
I finanzieri hanno quindi perquisito questa mattina la casa, l’ufficio nella Regione e l’auto dell’addetto stampa, sequestrando supporti informatici, pc e telefoni cellulari “al fine di verificare – si legge nel decreto – se nei giorni precedenti rispetto al rinvenimento delle cimici, Lorusso abbia intrattenuto chat o effettuato chiamate Voip con individui che, come dichiarato nel corso della conversazione, gli abbiano fatto leggere il decreto dispositivo delle intercettazioni ambientali in tre stanze”.
Non è la prima volta che un giornalista “barese” si prostituisce al potere politico ed affaristico. Il pioniere di questa “specialità” fu Michele Mascellaro, all’epoca dei fatti direttore responsabile del quotidiano Taranto Buonasera, intercettato nell’ambito dell’inchiesta “Ambiente Svenduto“, scoperto a vendersi a Girolamo Archinà responsabile delle relazioni esterne a Taranto del Gruppo Riva, ma nei confronti di Mascellaro incredibilmente il Consiglio di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia non mosse un dito. Il giornalista barese fu incredibilmente “premiato” dalla politica finendo a fare il “portaborsette-addetto stampa” nel Gruppo PD della Regione Puglia, diventando un fedelissimo del consigliere regionale Pd Michele Mazzarano, recentemente condannato per voto di scambio.
Nel 2019 sulla base delle ipotesi investigative della Procura a seguito della denuncia presentata dallo stesso Emiliano, vi fu un’altra fuga di notizie coperte da segreto istruttorio che consenti’ al governatore pugliese di venire a conoscenza di un’ indagine a suo carico ancor prima della notifica dell’avviso di garanzia per abuso d’ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilita’ e false fatture. In quell’occasione ad avvisare Emiliano delle indagini in corso nei suoi confronti erano stati due altri giornalisti baresi Scagliarini e Pepe redattori di quella che fu la “fallita” Gazzetta del Mezzogiorno. Immediatamente i sindacati insorsero contro la Magistratura : “Un fatto molto grave che incide pesantemente sulla liberta’ d’informazione”, scriveva in una nota il Comitato di redazione della Gazzetta del Mezzogiorno esprimendo “solidarieta’ ai colleghi Massimiliano Scagliarini e Nicola Pepe destinatari di un decreto di consegna e decreto di perquisizione personale e locale emesso dalla Procura di Bari“. Chissà che fine hanno fatto quelle indagini…
Avendo saputo dell’inchiesta ancor prima che la Guardia di Finanza si presentasse alla Regione, Emiliano si recò di persona in Procura per denunciare la violazione del segreto istruttorio. “Lunedì 8 aprile 2019 – raccontò – sono infatti venuto a conoscenza che giovedì 11 sarei stato oggetto di una attività di acquisizione di documenti e dati da parte della Guardia di finanza in relazione ai finanziamenti percepiti in occasione della mia campagna per le primarie del Pd del 2017. La fuga di notizie in piena violazione del segreto istruttorio precisava ulteriori fatti e circostanze”.
Pertanto Emiliano denunciò l’accaduto “al fine di ottenere la massima tutela da possibili violazioni del segreto istruttorio di natura strumentale atteso il mio ruolo pubblico”. “Questa mattina alle ore 9 – proseguiva Emiliano – come anticipato dalla fonte indicata al Procuratore della Repubblica il giorno prima, la Guardia di finanza di Bari mi chiedeva di potere verificare alcune chat del mio telefono e mail relative agli scambi di messaggi con alcuni soggetti di interesse dell’ufficio. Contemporaneamente identica acquisizione è stata effettuata al mio capo di Gabinetto”.
“Abbiamo fornito piena collaborazione – aggiunse il governatore pugliese – al fine di consentire l’acquisizione di tutti gli elementi utili, nella convinzione di avere operato con assoluta correttezza e rispetto delle leggi”.
Chissà se anche questa volta i “sindacalisti-giornalisti” avranno il coraggio di proteggere e difendere il loro “compagnuccio” di merende Nico Lorusso, autore di ben 296 articoli sul loro sito dell’ Assostampa di Puglia. Non è un caso che nessuno li abbia mai commentati. Il”niente” non si commenta. Mai.
Apulia Film Commission, dopo le polemiche denunce e dimissioni strumentali , l’assemblea soci nomina un nuovo CDA. Il Corriere del Giorno il 26 Gennaio 2022.
L’ Apulia Film Commission in due anni e mezzo con la presidenza Dellomonaco ha ricevuto diversi premi, l’ultimo al Senato della Repubblica, in Puglia sono arrivate tantissime produzioni d’eccellenza, i Comuni soci sono raddoppiati, è stata aperta la Film House, trasformando la Fondazione in un organismo intermedio.
L’ex presidente Simonetta Dellomonaco avrebbe dovuto riferire ieri all’assemblea dei soci l’attuale situazione dell’Apulia Film Commission, entrata in una fase di stallo dopo le dimissioni notificate sabato scorso da tre consiglieri di amministrazione, i quali ieri avrebbero dovuto discutere la proposta di licenziamento del direttore generale Antonio Parente avanzata dalla stessa presidente in seguito a una presunta aggressione subita nel suo ufficio lo scorso novembre. “Siamo in una situazione di impasse amministrativa che va superata“, dice la Dellomonaco, che si augurava una pronta ripartenza dell’Afc. Che è arrivata ma senza di lei !
Incredibilmente i Comuni soci della Fondazione Apulia Film Commission, su indicazione della Regione Puglia stessa, hanno accolto l’invito a ricostituire immediatamente il CdA nominando all’unanimità i nuovi membri del consiglio di amministrazione nelle persone dei brindisini Carmelo Grassi, nominato dalla Regione Puglia, ex direttore del Teatro Pubblico Pugliese e ora direttore artistico del Nuovo Teatro Verdi di Brindisi, l’architetta Marina Samarelli (indicata dai piccoli Comuni) e l’avvocato barese giuslavorista Ettore Sbarra, indicato dal Comune di Bari. La nomina dei tre consiglieri, che si aggiungono a quelli rimasti in carica (Simonetta Dellomonaco e Giandomenico Vaccari) rende nuovamente operativo il Cda dell’Afc.
Ma cosa era successo in precedenza ? C’era un procedimento disciplinare in corso. C’era, perché le dimissioni simultanee di tre consiglieri di amministrazione hanno di fatto invalidato un procedimento disciplinare avviato dalla presidente Simonetta Dellomonaco, nota giornalista culturale, nei confronti dell’ ex direttore, a seguito dell’aggressione subita e della denuncia penale presentata. in quanto i termini indicati dall’art. 58 del CCNL contratto Federculture parlano chiaro: le sanzioni vanno erogate entro 30 giorni dalla deposizione del dipendente.
I 30 giorni sarebbero scaduti oggi mercoledì 26 gennaio, per questo il CdA era stato da loro stessi fissato per lunedì 24 gennaio dopo essere stato rimandato, sempre da loro, per ben due volte. I consiglieri di amministrazione si sono dimessi contemporaneamente in 3 alle 20:00 del venerdì 21 gennaio “per motivazioni personali”. Appare evidente che in realtà le dimissioni siano arrivate per impedire che venissero assunte decisioni definitive entro i termini procedurali previsti dalle norme.
Le circostanze nelle quali Simonetta Dellomonaco ha subito l’”aggressione” da Parente motivavano in maniera analitica, come da disciplina giuslavoristica, il suo licenziamento. Tali circostanze non riguardano una “lite”, come è stata raccontata dall’aggressore, ma in realtà un atto ritorsivo. Chi conosce la Dellomonaco sa molto bene che è una persona pacifica ed equilibrata.
L’ex presidente Dellomonaco con una lettera “aperta” pervenuta anche al nostro giornale, così ha ricostruito l’ accaduto: “Ero nel mio ufficio e ho convocato il direttore dopo avergli contestato una procedura illegittima per iscritto. Il direttore si è presentato dopo ben 4 ore dalla convocazione ed è entrato nella mia stanza minacciandomi con frasi tipo “ti faccio cacciare”, “si fa come dico io”, ecc. Constatato il suo evidente stato alterato, ho avuto paura che la situazione degenerasse, come purtroppo era già accaduto in passato (non era la prima volta che mostrava atteggiamenti violenti nei miei confronti), ho raccolto quindi i miei effetti personali e mi sono diretta verso la porta. Non è servito a nulla perché dal divano dov’era seduto è balzato in piedi, ha bloccato la porta e mi ha spinta, mi ha stretto le braccia, tenendo la porta bloccata con il suo corpo e impedendomi di uscire. Mi sono divincolata e mi ha afferrata di nuovo. Quando sono riuscita ad aprire la porta l’ha richiusa sulla mia mano, poi sono scappata e uscendo mi ha spinta e sono caduta. Ho vissuto un incubo“.
Il Cda dimissionario era perfettamente a conoscenza di tutto questo avendo ricevuto copia della denuncia-querela e del referto ospedaliero e avendo sentito i testimoni che hanno confermato. Continua la Dellomonaco: “Del resto sono finita in ospedale con 10 giorni di prognosi. Ho trovato il coraggio di sporgere immediatamente denuncia.
In questo contesto la consigliera regionale di parità ha depositato agli atti del Cda un esposto per grave episodio di discriminazione e di violenza nei miei confronti in qualità di presidente della Fondazione. L’accaduto è così grave da aver poi determinato l’obbligo di avviare il procedimento disciplinare contro il responsabile della violenza, aggravata dal ruolo dirigenziale dell’aggressore che non ha alcuna giustificazione in un ambito pubblico di grande visibilità come la prestigiosa Fondazione pugliese“.
“Per questo motivo duole constatare le dimissioni dei consiglieri – conclude – che ne hanno certamente tutto il diritto, ma risultano ora quanto mai sconcertanti. Tali dimissioni, infatti potevano arrivare un mese fa, dando ai soci della Fondazione il tempo per rieleggere i loro sostituti. Oggi, alla viglia della scadenza dei termini, appaiono quanto meno sospette, dato che sono provvidenziali per evitare il giudizio verso un dipendente, uomo, che ha usato violenza contro il suo datore di lavoro, donna, Presidente di una Fondazione“.
Tutte le associazioni femministe regionali pugliesi, si sono rivolte al governatore Michele Emiliano e si sono schierate con la giornalista culturale. A parere delle associazioni, Parente avrebbe condizionato parte del CdA inducendo alcuni componenti a dimettersi per evitare la decisione sul provvedimento disciplinare. Dall’esterno le dimissioni dei tre consiglieri sembrerebbero una evidente presa di posizione in favore di Parente, ma tutti assicurano che non sia così. Interpellati i vari consiglieri dimissionari si sono detti “obbligati al riserbo” (quale riserbo quando le cariche sono pubbliche ?), vista la delicatezza della questione.
L’ Apulia Film Commission in due anni e mezzo con la presidenza Dellomonaco ha ricevuto diversi premi, l’ultimo al Senato della Repubblica, in Puglia sono arrivate tantissime produzioni d’eccellenza, i Comuni soci sono raddoppiati, è stata aperta la Film House, trasformando la Fondazione in un organismo intermedio, ripristinando condizioni di lavoro rispetto a situazioni di precariato. Il nuovo CdA così reintegrato dovrà decidere sulla ipotesi di licenziamento di Parente.
A seguito dell’esposto della presidente Dellomonaco, il precedente CdA ha richiesto all’avvocato Carmela Garofalo un parere “pro veritate”,che ha ricostruito il caso, ascoltando anche le dichiarazioni di Parente che, come riportato nel parere proveritate, inizialmente ha negato “un contatto fisico” , ma successivamente durante la sua audizione dinanzi al CdA nel rispondere ad una domanda formulata dal consigliere Vaccari “ha precisato di non avere un ricordo preciso dell’accaduto e di non escludere che, nel tentativo di calmare la presidente e di invitarla a non abbandonare la riunione, le abbia poggiato “un palmo della propria mano sulla spalla… tanto non in forma violenta ma nella normale gestualità tra persone che ben si conoscono e che lavorano insieme giornalmente da tanto tempo”“.
L’avvocato Garofalo nel suo parere riporta le dichiarazioni di una testimone che ha assistito alla denunciata aggressione, evidenziando che il referto medico del pronto soccorso del Policlinico di Bari parla di “contusione alla spalla e stato ansioso da aggressione fisica sul luogo di lavoro da persona nota” . Sempre nel parere pro veritate, l’avvocato ha indica delle possibili decisioni che il CdA può intraprendere: la più grave è quella del licenziamento ed in questa eventualità consiglia di “evidenziare che non possono accogliersi integralmente le giustificazioni del Parente perché è stato accertato che lo stesso ha fisicamente aggredito e bloccato la presidente per impedirle di uscire dalla stanza”. Parente per salvarsi dal licenziamento potrebbe dimettersi dall’incarico ricoperto di direttore generale, così mantenendo il posto di lavoro (ma non di direttore) e lo stipendio, dopo un periodo di sospensione.
Lerario, appalti urgenti per tv e frigoriferi: così l'ex dirigente usò i soldi della Protezione civile. Tra gli appalti per i quali la Procura di Bari contesta la corruzione a Lerario e ai due imprenditori (il processo comincerà il 16 giugno) c’è quello per la ristrutturazione dell’ala affidata ai volontari della Protezione civile nella caserma di Jacotenente, nella Foresta Umbra. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Maggio 2022.
Gli appalti per la Protezione civile possono utilizzare procedure semplificate e accelerate, pensate per fare fronte alle emergenze. Ma è proprio in questo contesto - secondo la Finanza - che si annida il vulnus degli affidamenti effettuati dall’ex dirigente regionale Mario Lerario ai due imprenditori Donato Mottola e Luca Leccese, arrestati il 23 dicembre e tuttora ai domiciliari. Perché - questo è il tema dell’indagine, non ancora conclusa - le regole sono state piegate o ignorate: con la scusa dell’emergenza, ad esempio, Lerario ha comprato anche televisori e frigoriferi.
Tra gli appalti per i quali la Procura di Bari contesta la corruzione a Lerario e ai due imprenditori (il processo comincerà il 16 giugno) c’è quello per la ristrutturazione dell’ala affidata ai volontari della Protezione civile nella caserma di Jacotenente, nella Foresta Umbra. Un intervento da 85mila euro affidato a luglio 2019, in «somma urgenza», alla Edil Sella di Leccese: da un sopralluogo era emerso che la struttura versava in condizioni precarie, con in servizi igienici non utilizzabili. La Finanza ha acquisito gli atti del procedimento, e in particolare la copia del computo metrico. Nell’elenco degli acquisti figurano l’antenna satellitare, la centralina satellitare, quattro kit Tv-sat, quattro lavatrici da 6 kg, quattro televisori da 32 pollici con sintonizzatore satellitare e 16 frigoriferi Hisense da 150 litri per un totale di circa 19mila euro. Tutto materiale per il quale, annota la Finanza, «sembrano difficilmente ipotizzabili le ragioni che sottendono la somma urgenza».
Ma non è l’unico esempio di procedura in somma urgenza su cui la Finanza ha sollevato dubbi. Nell’elenco ci sono ad esempio i lavori per la realizzazione della tendopoli nel ghetto di Rignano Scalo, affidati il 6 dicembre 2019 sempre alla Edil Sella per 190mila euro. La spesa per allestire la struttura destinata ai migranti è stata quantificata con un preventivo della ditta di Leccese che i militari hanno trovato nel server durante le perquisizioni in Regione. È allegato a una mail del giorno precedente l’affidamento, e prevede la sistemazione di un piazzale di circa 10mila metri quadrati. La Finanza ha fatto però notare che il preventivo «reca la data del 04/11/2019 sebbene dagli atti posti in essere dalla stazione appaltante emerge che l’esigenza a base della somma urgenza si sia palesata solo in data 04/12/2019»: potrebbe essere un errore, oppure - esattamente come è stato rilevato in altri appalti della Protezione civile - era stato preparato prima. Fatto sta che l’anno successivo alla stessa impresa viene affidato un altro appalto da 180mila euro per la manutenzione della strada di accesso al ghetto: in questo caso, secondo chi ha svolto le indagini, dagli atti non è nemmeno possibile capire quale sia la procedura amministrativa adottata. «Ove la stazione appaltante abbia proceduto ad affidamento diretto, si ritiene di dover valutare la violazione del principio di rotazione», quello che impone - anche in urgenza - di non utilizzare sempre le stesse ditte.
Oltre alle tangenti per 30mila euro (che sono alla base dell’accusa di corruzione contestata dal procuratore Roberto Rossi e dall’aggiunto Alberto Coccioli), l’inchiesta ha ricostruito anche i favori e i regali ricevuti dall’ex dirigente. Il 1° giugno 2021 ad esempio Lerario si è incontrato con Mottola a Barletta, per un sopralluogo finalizzato a installare dei container. Poco dopo l’imprenditore lo richiama e gli chiede di tornare indietro per consegnargli «una cosa». Cosa fosse lo racconta lui stesso al telefono: «Mi hanno regalato del cannoli siciliani per la nostra dieta (...) e una cassettina di pomodori».
«Protezione civile, Lerario truccò l’appalto per la sede di Foggia». La Finanza: un errore sull’Iva fece recuperare il ribasso all’impresa. Il funzionario intercettato: «Marescià, noi non c’entriamo niente...». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Maggio 2022.
A un certo punto anche i più stretti collaboratori di Mario Lerario si erano resi conto che qualcosa non andava. «Io posso capire le cose piccole sì, ma su queste grosse forniture, bisogna cambiare... Dmeco...», diceva il 21 settembre, tre mesi prima dell’arresto del suo capo, il funzionario regionale Antonio Mercurio riferendosi all’azienda foggiana Dmeco. «Gli abbiamo dato venti milioni di euro... trenta milioni di euro», gli ribatteva un collega. E poi, ancora Mercurio: «Marescià, se stai ancora là, noi non c'entriamo niente».
Sul punto («Non c’entriamo niente») la Procura di Bari sta svolgendo approfondimenti, perché pure Mercurio risulta indagato (turbativa d’asta e falso) nel filone che riguarda i lavori per l’ospedale covid della Fiera del Levante, quello da cui è partita l’inchiesta sugli appalti della Protezione civile. E che, grazie alle intercettazioni, ha portato all’arresto in flagranza di Lerario e dei due imprenditori che il 16 giugno andranno a processo per corruzione. Uno è appunto Donato Mottola, di Noci, cui fa capo la Dmeco, che ha fornito moduli prefabbricati in mezza Puglia. «Io - dice in quella intercettazione Mercurio, riferendosi a Lerario e all’appalto per il campo Covid del Cara di Borgo Mezzanone che poi la Regione ha rescisso riconoscendo le irregolarità procedurali - gli dissi “fatti un indagine di mercato, non li devi prendere per forza da Dmeco (...) Non so perché quello si è innamorato di Dmeco». La Finanza ritiene che il motivo siano i soldi: i 20mila euro in contanti che Mottola ha messo tra i regali di Natale, il giorno prima che l’altro imprenditore arrestato, Luca Leccese, consegnasse a Lerario altri 10mila euro in contanti facendo scattare il fermo della Finanza.
Nei capi di imputazione su cui il procuratore Roberto Rossi e l’aggiunto Alessio Coccioli hanno chiesto il giudizio immediato di Lerario e dei due imprenditori, l’accusa ritiene che l’ex dirigente della Protezione civile abbia truccato gli appalti (tra cui quello per il Cara) a favore delle società di Leccese e Mottola. Utilizzando espedienti poi emersi a seguito dell’esame degli atti sequestrati dalla Finanza in Regione.
Una delle situazioni più clamorose è quella che riguarda la sede della Protezione civile nel nuovo aeroporto di Foggia, aggiudicata alla Edil Sella di Leccese a seguito di una procedura cui Lerario ha invitato 24 imprese, tra cui tre riconducibili all’imprenditore foggiano (tutte senza i requisiti specifici necessari). Ebbene, non solo i finanzieri ritengono di avere accertato che la commissione di gara ha aggiustato ex-post i punteggi per far sì che la Edil Sella superasse l’unica altra impresa partecipante (che aveva offerto un ribasso del 23,98% contro). Ma hanno verificato che, grazie a un trucco, Lerario avrebbe fatto recuperare alla Edil Sella il ribasso del 5% offerto in gara.
Ad aprile 2020, infatti, Lerario ha approvato il quadro economico dell’appalto commettendo un singolare errore. «A fronte dell’importo imponibile di 755.007,37 (soggetto ad un’Iva del 10%) - scrive la Finanza nell’informativa conclusiva -, viene indicata un’Iva errata (con aliquota del 15%) pari ad euro 113.251,10, anziché quella corretta del 10% pari a 75.500,74. Va quindi evidenziato che, nei fatti, il ribasso offerto in fase di gara dall’aggiudicataria dell’appalto, viene poi completamente assorbito dall’errata indicazione dell’Iva». Infatti poi «in sede di pagamento, l’Iva è stata correttamente calcolata con aliquota 10% ma l’impegno di spesa è rimasto quello sovrastimato». In questo modo all’impresa è stato liquidato «un importo superiore rispetto a quello dovuto pari ad euro 28.251,53».
Anche su quell’appalto, come in molti degli altri finiti sotto indagine, la Protezione civile ha poi fatto crescere la spesa totale da 755mila a oltre 1,2 milioni di euro attraverso due ordini di servizio in tre mesi. «Si può ipotizzare - scrive la Finanza - che le due varianti disposte siano in realtà parte di un unico lavoro e pertanto il relativo frazionamento è stato verosimilmente inteso ad aggirare il codice degli appalti». Lerario chiederà il giudizio abbreviato.
Scatterà il 16 giugno il processo per l’ex dirigente regionale e due imprenditori. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 aprile 2022.
I 30mila euro in contanti che Mario Lerario incassò a pochi giorni dal Natale 2021 dagli imprenditori Luca Leccese, di Foggia, e Donato Mottola, di Noci, non erano solo un regalo per le feste, ma soprattutto il corrispettivo di una corruzione che andava avanti almeno dal 2019. È per questo che l’ex capo della Protezione civile pugliese, arrestato in flagranza il 23 dicembre con 200 banconote da 50 euro tra le mani, avrebbe truccato almeno cinque appalti per 2,8 milioni a favore di Leccese e altrettanti per 2,5 milioni a favore di Mottola, aggiudicando loro gare che non avrebbero dovuto vincere. Ed è di questo che adesso tutti dovranno rispondere il 16 giugno davanti al Tribunale di Bari.
All’ex dirigente della Regione e ai due imprenditori è stata notificata ieri la fissazione del giudizio immediato cautelare disposta dal gip Anna Perrelli. Il procuratore Roberto Rossi e l’aggiunto Alessio Coccioli hanno scelto il percorso accelerato, consentito nei sei mesi dalle misure cautelari se gli imputati sono ancora in custodia (nel caso specifico, ai domiciliari). In questi mesi l’accusa è stata perfezionata ed è ora di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (l’arresto era avvenuto per corruzione impropria) anche grazie a una consulenza sugli appalti affidati alle società di Leccese (il 57enne che all’antivigilia di Natale fu registrato dalle microspie della Finanza mentre consegnava a Lerario 10mila euro) e a quelle di Mottola, 55 anni, che invece i suoi 20mila euro pensò bene di nasconderli in una «manzetta» di carne vantandosene pure al telefono («La mazzetta nella manzetta»).
Lerario, 49 anni, nato e residente ad Acquaviva, secondo l’accusa avrebbe affidato a Leccese la messa in sicurezza urgente della ex caserma Jacotenente di Vico del Gargano (85mila euro), la manutenzione della sala lettura della biblioteca Magna Capitana di Foggia (inizialmente 149mila euro, poi arrivati in totale a 226mila euro), la manutenzione della strada di accesso al ghetto di Rignano (180mila euro), la realizzazione della sede foggiana della Protezione civile (755mila euro, poi cresciuti di altri 504mila) e quella dell’insediamento per i migranti di Borgo Mezzanone (2,2 milioni). Tutti lavori giustificati con l’urgenza, e - dice la Procura - truccando le carte. Non solo perché sugli affidamenti diretti è obbligatoria la rotazione tra le imprese. Ma anche perché - ad esempio - per i lavori alla biblioteca sarebbero stati chiesti tre preventivi ad altrettanti operatori economici (Edil Sell.a, In Opera e Tecnoedge) «tutti riconducibili a Leccese», scegliendo poi il primo e affidandogli anche lavori aggiuntivi. Sono esattamente le stesse tre ditte invitate per l’appalto della sede della Protezione civile (nonostante in provincia di Foggia - annota la Procura - ce ne fossero 27 «che pur avendo entrambe le categorie Soa non erano invitate»): Edil Sell.a vince «solo a seguito di una nuova attribuzione di punteggi» necessaria per superare un altro concorrente, pagando poi una cifra più alta rispetto a quella di aggiudicazione e «arrotondando» con lavori supplementari per un altro mezzo milione. La solita Edil Sell.a è anche l’unica impresa locale invitata (in mezzo ad altre 22) per i lavori al Cara di Borgo Mezzanone, luogo che «poneva problemi per le imprese ubicate fuori regione». Un’impresa, quella di Leccese, che al pari di quella dell’altro imprenditore imputato non era nemmeno inserita nella white list (i controlli antimafia) della Prefettura.
La Dmeco Engineering di Mottola a marzo 2020 ha fornito i prefabbricati per la terapia intensiva covid del Perrino di Brindisi e per quella del Moscati di Taranto, tutti a trattativa privata: i primi affidati per 1,1 milioni e pagati poi 1,242 milioni, i secondi affidati per 803mila euro e pagati 901mila, «senza alcuna giustificazione di spesa rilevabile dagli atti». Stessa storia per i prefabbricati destinati ai reparti di emergenza covid e le strutture pre-triage dei Pronto soccorsi pugliesi, che dovevano costare rispettivamente 2,1 milioni e 285mila euro e sono invece stati pagati 2,383 milioni i primi e 291mila euro i secondi, o ancora per i container destinati all’associazione Anglat di Barletta, che nell’estate 2021 la Regione ha pagato 53.200 euro nonostante l’affidamento ne prevedesse 47mila. In più, dice l’accusa, Lerario fece pressioni su una funzionaria regionale affinché rilasciasse alla Dmeco una certificazione di esecuzione lavori necessaria ad ottenere «un’attestazione Soa (di categoria Os13 o Og11) il cui possesso avrebbe accresciuto di molto il valore dell’azienda di Mottola».
Le indagini sul «sistema Lerario» vanno avanti, concentrandosi in particolare sull’ospedale Covid della Fiera del Levante di Bari ma anche sugli altri lavori che l’ex dirigente ha affidato con i poteri di emergenza: gli indagati sono complessivamente più di 20. Nel frattempo ci sarà il processo per i primi due episodi davanti alla Prima sezione collegiale del Tribunale di Bari (presidente Marrone), dove la Regione dovrà costituirsi parte civile. L’immediato cautelare lascia agli imputati poco tempo per organizzare le difese. Anche per questo è probabile che sia Lerario (avvocato Michele Laforgia) che Leccese (avvocati Zangrillo e Ursitti) e Mottola (avvocati Bruno e Tolentino) possano tentare la strada del patteggiamento.
L’indagine della Finanza sulla Protezione Civile si allarga a tutti gli appalti. Nel mirino anche la fabbrica delle mascherine. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 aprile 2022.
BARI - In due settimane giorni la Guardia di Finanza ha portato via dalla Regione decine di faldoni di atti. Sono tutte le carte, nessuna esclusa, degli appalti assegnati con la firma dell’ex capo della Protezione civile pugliese, Mario Lerario, arrestato quattro mesi fa dopo aver incassato due tangenti e tuttora ai domiciliari. L’indagine coordinata dal procuratore Roberto Rossi e dall’aggiunto Alessio Coccioli ha deciso di passarli al setaccio tutti, partendo da quanto hanno accertato gli stessi uffici regionali: ogni singolo procedimento è infatti risultato viziato per qualche motivo.
Ed è per questo, ad esempio, che nel mirino sono finiti gli appalti per la ristrutturazione del teatro Kursaal di Bari e per la realizzazione della sala radio della Protezione civile di Castellaneta Marina, su cui la Regione ha disposto parziali annullamenti in autotutela. Ma per lo stesso motivo sono partiti anche gli accertamenti sulla fabbrica pubblica delle mascherine, un’altra «creatura» di Lerario fortemente voluta dal presidente Michele Emiliano. Dalle verifiche sono infatti emerse varie irregolarità sulle forniture di materiali, oltre che sulla completezza e rispondenza dei progetti alle necessità (è emerso ad esempio che una intera linea produttiva costata diverse centinaia di migliaia di euro non è mai stata utilizzata), per non parlare dei dubbi sulle consulenze (ad uno dei co-indagati di Lerario, l’imprenditore barese Sigismondo Zema, è stato affidato un incarico da 3.500 euro al mese come «direttore» della fabbrica). Tutti aspetti che la Finanza dovrà verificare insieme ai circa 200 atti di annullamento, revoca e contestazione che la task-force regionale (composta anche dai componenti del Nirs, il Nucleo ispettivo sanitario) ha predisposto dopo l’esame di tutti gli affidamenti effettuati con le procedure di emergenza dalla struttura di Lerario.
L’indagine è finora stata divisa in due parti. La prima riguarda le due accuse di corruzione mosse a Lerario in concorso con gli imprenditori Luca Leccese, di Foggia, e Donato Mottola, di Noci, che hanno ammesso di aver pagato mazzette (rispettivamente di 10 e 20mila euro) al dirigente regionale. La seconda parte si è concentrata in generale su una decina di appalti della Protezione civile, e in particolare sulla realizzazione dell’ospedale covid della Fiera del Levante (da cui tutto è cominciato dopo gli articoli che hanno illustrato l’aumento dei costi da 8,9 a oltre 25 milioni) e dello stesso Kursaal Santalucia di Bari. Dagli approfondimenti della Finanza sono emerse le presunte cointeressenze tra Lerario, il funzionario regionale Antonio Mercurio e alcuni degli imprenditori che hanno ottenuto gli affidamenti: la ristrutturazione di un immobile del dirigente, le cene e gli incontri. Il riesame degli atti effettuato dalla Regione ha fatto emergere i vizi del procedimento: appalti affidati senza preventivo impegno di spesa, illegittimo frazionamento degli affidamenti per evitare l’obbligo di gara d’appalto, mancato rispetto delle norme in materia di rotazione tra gli operatori economici. Tutte irregolarità che hanno portato, tra l’altro, alla sostituzione dei responsabili dei procedimenti e - in alcuni casi - anche a contestazioni disciplinari nei loro confronti.
Ospedale nella Fiera del Levante a Bari, nel mirino altre 10 aziende. Indagine sui subappaltatori. L’ipotesi: furono avvertiti prima della firma del contratto. La Regione avvia verifiche. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 febbraio 2022.
La realizzazione dell’ospedale covid in Fiera del Levante è (effettivamente) avvenuta a tempo di record, rispettando le scadenze contrattuali. Ma a due mesi dall’arresto in carcere dell’ex capo della Protezione civile pugliese, Mario Lerario, che di quella procedura è stato il deus ex machina, la Procura di Bari sta lavorando su una pista che rende un po’ più chiara l’accusa di turbativa d’asta e di turbata libertà degli incanti: chi ha lavorato sul cantiere dell’ospedale era così certo di vincere l’appalto da aver pre-avvertito i subappaltatori.
I nuovi accertamenti riguardano infatti una decina di ditte, con sede prevalentemente nelle zone di Acquaviva, Noci e Altamura, che hanno effettuato lavorazioni secondarie o forniture per il cantiere della Fiera del Levante. Alcuni piccoli imprenditori sono stati ascoltati come testimoni dalla Finanza, e avrebbero confermato una circostanza già emersa nei mesi scorsi: ovvero che erano stati preallertati con largo anticipo rispetto alla necessità di effettuare gli ordini dei materiali necessari a completare i lavori. Per esempio: all’epoca (gennaio 2021) le consegne di un determinato materiale necessario ad allestire le pareti mobili dell’ospedale richiedevano circa 90 giorni. Il relativo ordine sarebbe stato effettuato ancora prima della pubblicazione del bando della Protezione civile, tanto che la Regione aveva - per qualche strano motivo - anche acquisito le copie dei preventivi dalle stesse imprese che poi sarebbero state chiamate come subappaltatori.
L’appalto per l’ospedale «Grandi emergenze» della Regione è stato vinto dalla Cobar di Altamura (in Ati con la Item Oxygen) al termine di una gara a inviti cui ha preso parte solo un’altra società: pur avendo offerto il prezzo più alto (8,3 milioni a fronte di una base d’asta di 8,46 milioni) l’impresa pugliese ha vinto grazie a una valutazione migliore sulla qualità (nella commissione c’era, irritualmente, lo stesso Lerario). Il costo dell’opera è poi lievitato ufficialmente a 18,9 milioni, per via di cinque ordini di servizio firmati dal Rup, Antonio Lerario (indagato e nel frattempo sostituito) che hanno autorizzato opere inizialmente non previste come ad esempio i bagni costati da soli 2 milioni. Il conto finale è però molto più alto, perché nei mesi successivi alla conclusione dei lavori Lerario ha autorizzato ulteriori spese (dall’allestimento di una reception ai parcheggi, dall’acquisto di altre attrezzature fino alla manutenzione) per diversi milioni di euro.
L’indagine della Procura di Bari, coordinata dal procuratore Roberto Rossi e dall’aggiunto Alessio Coccioli, riguarda da un lato la corruzione (le due mazzette con cui Lerario è stato sorpreso quasi in flagranza) e dall’altro le irregolarità negli appalti della Protezione civile. A partire, appunto, da quello dell’ospedale della Fiera. Il 7 febbraio la Finanza ha effettuato perquisizioni nelle sedi della Cobar e di altre imprese coinvolte nei lavori: si è così appreso che il procuratore della Cobar, Domenico Barozzi, 31 anni, è indagato per concorso in turbata libertà del procedimento (la costruzione sartoriale di un bando di gara). I militari hanno anche sequestrato l’iPhone e l’iPad del patron dell’impresa altamurana, Vito Barozzi, che allo stato non risulta indagato. Dopo le perquisizioni la Cobar ha respinto seccamente l’accusa di aver commesso qualunque tipo di irregolarità: «È fuori discussione - secondo il professor Vito Mormando, avvocato di Domenico Barozzi - che l’opera che è stata realizzata secondo le indicazioni contenute nell’appalto, in tempi rapidissimi e con il più elevato standard qualitativo».
Oltre alla turbativa, alcuni degli indagati (tra cui Mercurio e Lerario) rispondono anche di falso ideologico: l’ipotesi è in questo caso che abbiano attestato falsamente le condizioni necessarie a ricorrere alle procedure semplificate previste nei casi di emergenza. Le stesse verifiche effettuate internamente dalla Regione hanno infatti accertato irregolarità formali, a partire dal progetto posto a base di gara che sarebbe stato carente tanto da richiedere poi integrazioni fatte a colpi di ordini di servizio. Ulteriori irregolarità riguarderebbero altri affidamenti effettuati da Lerario in carenza di presupposti piuttosto che senza rispettare le procedure (ci sono parecchi contratti senza codice Cig, obbligatorio per legge): in alcune situazioni la Regione ha provveduto alla rescissione contrattuale. E ora bisogna decidere cosa fare, perché l’ospedale della Fiera è stato realizzato in deroga rispetto alle norme edilizie e urbanistiche: alla scadenza dell’emergenza sarà a tutti gli effetti un’opera abusiva.
Le tangenti e gli appalti di Lerario capo della Protezione civile ai soliti “amici degli amici”. Il Corriere del Giorno il 27 Gennaio 2022.
La politica che non ci sta fa sapere di non voler mollare il tema. Il M5S sollecita la massima trasparenza sulle spese . Fratelli d’Italia con Ignazio Zullo chiama in causa la giunta, e Saverio Tammacco (Gruppo misto) che fa notare ripetutamente la “discrasia” cioè la non corrispondenza tra gli importi delle spese portate lo scorso luglio in commissione da Lerario e quelle presentate adesso nelle ultime ore dal suo successore
di Redazione Cronache
Dal contenuto della prima informativa della Guardia di Finanza depositata a ridosso di Natale alla Procura di Bari sul “sistema Lerario” emerge “La carenza di rotazione fra gli imprenditori assegnatari di appalti dalla Protezione civile è emersa già durante la prima fase delle indagini, focalizzata sull’edificazione dell’ospedale Covid alla Fiera del Levante” evidenziando la circostanza che “Taluni imprenditori sembrano poter vantare rendite di posizione in relazione al numero di affidamenti, di cospicuo valore economico, ottenuti sfruttando la discrezionalità della pubblica amministrazione nei casi di procedura negoziata”, annotano ancora gli investigatori”.
Affermazioni che si trovano allineate alla documentazioni presentate dal nuovo capo della Protezione civile, Nicola Lopane, alla Prima commissione regionale, dalle quali è venuta alla luce la ricorrenza delle ditte incaricate dal “sistema Lerario” e in cui compaiono una serie spese sostenute durante l’emergenza Covid che non corrispondono con quelle presentate pochi mesi fa dall’ex dirigente della protezione Civile Antonio Mario Lerario ai consiglieri . Ma non solo. Infatti analizzando e verificando nomi e numeri emerge che delle voci di spesa sarebbero sproporzionate rispetto alle reali attività svolte.
Questo modus operandi era applicato e reiterato anche con altri imprenditori, secondo le evidenze agli atti degli investigatori, con i quali Lerario intratteneva “abituali rapporti di frequentazione“, che sono stati documentati grazie a servizi di pedinamento e dall’ ascolto delle conversazioni intercettate Legami e rapporti che gli avrebbero fatto superare la legge che invece prevede ed impone la rotazione degli affidamenti, quando si utilizzano procedure semplificate come nell’emergenza, e vieta testualmente di invitare “il contraente uscente” di un determinato servizio o fornitura. Il “sistema Lerario” disapplicava queste norme, facendo sedere alla remunerativa tavola degli appalti della Protezione civile regionale sempre le stesse aziende.
Le aziende “preferite” da Lerario
La Item Oxygen di Altamura che in raggruppamento con la Cobar ha realizzato l’ospedale Covid alla Fiera della Levante, alla quale sono stati versati 3 milioni di euro per apparecchiature per la telemedicina, la cooperativa sociale Aliante di Bari onnipresente nei servizi domiciliari di tamponi dell’ASL Bari che è costato circa mezzo milione di euro, la Pubbliange Group, Spazio Eventi e Romano Exhibit) società queste alle quali Lerario aveva affidato degli appalti “spacchettandoli” sempre per l’allestimento degli hub, come si è scoperto da un’intercettazione delle Fiamme Gialle, in linea a quanto emerso dagli atti illustrati ai consiglieri regionali dai quali compaiono 488mila euro alla Pubbliange, 280mila euro alla Spazio Eventi e 391mila euro alla Romano.
Presente anche la società Elio Zema il cui attuale titolare Sigismondo Zema è stato oggetto perquisito il 24 dicembre), che ha incassato 18mila euro per attrezzature dell’hub vaccinale la cui spesa totale nei due anni si è attorno ai 2 milioni di euro e 28mila per i frigoriferi. Sono spuntati fuori 167mila euro per la “manutenzione” di un magazzino non identificato oltre a numerosi affidamenti per gli arredamenti della la sede della Protezione civile e della fabbrica di Dpi.
Fra le varie imprese a cuore del “sistema Lerario”, le aziende chiamate più frequentemente a realizzare strutture prefabbricate di emergenza, costate 9,5 milioni di euro in due anni compaiono la Cobar e la Dmeco Engineering aziende presenti anche nel capitolo di spesa per l’acquisto di dpi.
Le contraddizioni nascoste al Consiglio Regionale
Persino nei rapporti con le associazioni di volontariato emergono le incongruenze notate in Commissione sulle spese per altri ulteriori 2 milioni di euro. Per non parlare sugli oscuri 28,8 milioni di euro utilizzati per acquisti all’estero, dal noleggio di aerei cargo, agli accordi con poco trasparenti fornitori cinesi per portare i Dpi (le mascherine) in Puglia. Anche in questa circostanza guarda caso ricorrono molto spesso alcuni nomi ricorrenti come quello della Eifs Belt and Road, dalla quale sono stati acquistati materiale e macchinari per la produzione, per un conto totale di 18,4 milioni di euro.
Il presidente della commissione, Fabiano Amati, ha preannunciato che l’accertamento su voli dall’estero è qualcosa su cui “sarà necessario approfondire ulteriormente gli atti, poiché potrebbero presentare modalità diverse da quelle praticate negli affidamenti nazionali”, chiedendo al nuovo dirigente della Protezione Civile di fornire ulteriori dati sui preventivi di ogni appalto ed affidamento diretto.
Le spese per i Covid Hotel (fra vitto ed alloggio) arrivano a 7,4 milioni di euro . Anche in questo come di consueto sono stai assegnati degli affidamenti diretti per garantire ristorazione e pulizia negli alberghi. Nel primo caso l’appalto viene garantito da Il Casolare di Puglia, mentre nel secondo caso è la PuLisan che si occupa delle pulizie. Senza dimenticare 450mila euro versate alla Makingroup per garantire i pasti al personale in servizio presso l’ospedale Covid alla Fiera del Levante.
La politica che non ci sta fa sapere di non voler mollare il tema. Il M5S sollecita la massima trasparenza sulle spese per Covid hotel, hub vaccinali e associazioni di volontariato. Fratelli d’Italia con Ignazio Zullo chiama in causa la giunta: “Possibile che non sapeva e chi ha controllato che le forniture di beni e servizi siano arrivate tutte a destinazione?” a cui si aggiunge il consigliere Saverio Tammacco (Gruppo misto) che fa notare ripetutamente la “discrasia” cioè la non corrispondenza tra gli importi delle spese portate lo scorso luglio in commissione da Lerario e quelle presentate adesso nelle ultime ore dal suo successore Nicola Lopane.
Regione Puglia, tangenti appalti Covid: in aula il racconto delle mazzette. Al Tribunale di Bari avviato ascolto dei testimoni dell’accusa. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Novembre 2022.
La consegna del pacco contenente la presunta tangente da 10mila euro che fu consegnata il 23 dicembre 2021 all’allora dirigente della Protezione civile pugliese, Mario Lerario, dall’imprenditore Ciro Giovanni Leccese, e l’intercettazione della conversazione tra l'imprenditore Donato Mottola e la moglie nella quale l’uomo 'confessava' alla donna, il 22 dicembre 2021, di aver consegnato a Lerario una mazzetta da 20mila euro, sono state al centro della deposizione del luogotenente della Gdf Giacomo Gargano al processo-stralcio per corruzione a carico di Mottola. Il giudizio è in corso dinanzi al Tribunale di Bari che ha avviato oggi l’ascolto dei testimoni dell’accusa. Mottola è accusato di corruzione per una presunta tangente da 20mila euro consegnata a Lerario il 22 dicembre 2021, all’interno di un cesto natalizio con un pezzo di manzo pregiato, in cambio - ritiene la Procura di Bari - di appalti legati anche all’emergenza Covid. Per questa vicenda Mottola è stato arrestato il 26 dicembre 2021 assieme a Leccese ed entrambi sono tuttora agli arresti domiciliari. Anche Lerario, arrestato in flagranza di reato il 23 dicembre 2021 mentre incassava la tangente da 10mila euro, dopo un periodo di detenzione in carcere, è attualmente 'ai domiciliarì e viene giudicato con rito abbreviato assieme a Leccese.
A carico di Mottola ci sono, oltre ai tre interrogatori resi dall’imputato, alcune intercettazioni telefoniche. Una di queste è stata ricostruita oggi in aula dal teste Gargano. Si tratta della conversazione nella quale l'imprenditore diceva alla moglie di aver consegnato a Lerario "la manzetta", intendendo un pezzo di carne particolarmente pregiato, e «la mazzetta», cioè i 20mila euro ritenuti dagli inquirenti una tangente. Il teste ha riferito che, subito dopo l'arresto di Lerario, fu compiuta una perquisizione nell’abitazione del dirigente dove furono trovati oltre 19mila euro in contanti: 11mila in una cassaforte e la restante nel comodino della camera da letto. Ha inoltre riferito delle bonifiche che furono compiute negli uffici di Lerario alla Regione Puglia alla ricerca delle microspie, alcune delle quali furono trovate dai tecnici dell’indagato. Nel processo è costituita parte civile la Regione Puglia. L’udienza è stata aggiornata al 12 gennaio 2023 per l’ascolto dei consulenti del pm e di altri testimoni d’accusa.
Sanità, ex dg Dattoli indagato per gli appalti truccati a Foggia nominato direttore sanitario al Miulli. La Repubblica il 7 gennaio 2022.Vitangelo Dattoli, già direttore generale e poi commissario del Policlinico di Bari, è stato agli arresti domiciliari fino al 30 dicembre per l'inchiesta su turbativa d'asta agli ospedali Riuniti di cui era dirigente. La scelta dell'ente ecclesiastico: "Figura di comprovata esperienza".
L'Ente Ecclesiastico Ospedale generale tegionale Miulli di Acquaviva delle Fonti (Bari) "sta procedendo alla nomina" di Vitangelo Dattoli come direttore sanitario della struttura. Dattoli, ex direttore generale del Policlinico Riuniti di Foggia, è stato detenuto agli arresti domiciliari dal 13 al 30 dicembre nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Foggia su presunti episodi di turbativa d'asta relativi ad una gara d'appalto per il sevizio aereo di trasporto organi ed equipe medica. Dopo le dimissioni da dg a Foggia e la revoca della misura cautelare, pur rimanendo indagato, l'ospedale Miulli ha "ripristinato" con lui "il rapporto di servizio".
"Si precisa - spiega il Miulli in una nota - che il dottor Vitangelo Dattoli è dipendente dell'ente, ove ricopriva il ruolo di direttore dei presidi distaccati. Dal settembre 2002 ha fruito di periodi di aspettativa in relazione ai plurimi incarichi rivestisti all'interno di realtà sanitarie della Regione Puglia, aspettativa interrotta con le recenti dimissioni dell'incarico di direttore generale del Policlinico Ospedale Riuniti di Foggia. Dovendo selezionare il nuovo direttore sanitario del Miulli, come da prassi la direzione generale del nosocomio di Acquaviva ha cercato all'interno del proprio organico la professionalità idonea a ricoprire tale ruolo, individuandola nella figura di comprovata esperienza del dottor Dattoli".
"L'incarico di direttore sanitario - precisa il difensore di Dattoli, l'avvocato Antonio La Scala - non ha nulla a che vedere con il ruolo di direttore generale che ha ricoperto a Foggia, non ha i rapporti con la pubblica amministrazione. Dattoli ha ripreso il lavoro che faceva prima degli incarichi pubblici".
Appalti truccati: a giudizio Dattoli, l'ex dg del Riuniti di Foggia e altri 8. Al centro dell’inchiesta l'Alidaunia, società di trasporto aereo operativa sul territorio dagli anni 70, che vinse la prima gara, poi revocata in seguito all’inchiesta, e perse la seconda. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Ottobre 2022
Il gup del Tribunale di Foggia, Antonio Sicuranza, ha rinviato a giudizio gli otto imputati, tra cui l’allora direttore generale del policlinico di Foggia, Vitangelo Dattoli, nell’inchiesta 'Icaro' sulle gare bandite da Asl Foggia e Policlinico Riuniti, tra il 2019 e il 2020, per l'affidamento del servizio quadriennale di elisoccorso da 36 milioni di euro e il servizio quadriennale di trasporto di organi da 2 milioni e 600 mila euro.
Al centro dell’inchiesta l'Alidaunia, società di trasporto aereo operativa sul territorio dagli anni 70, che vinse la prima gara, poi revocata in seguito all’inchiesta, e perse la seconda. La procura, che chiese e ottenne gli arresti domiciliari per sei indagati nel blitz del 13 dicembre del 2021, contesta agli 8 imputati, a vario titolo, i reati di turbativa d’asta, falsità ideologica e rivelazione dei segreti di ufficio. Secondo l’accusa era stata «creata una corsia parallela e riservata per rendere l’Alidaunia predestinata ad aggiudicarsi le gare all’insaputa dei concorrenti».
A sei mesi (pena sospesa) è stato condannato con rito abbreviato Attilio Dal Maso, dipendente del policlinico. Per gli altri otto imputati il processo inizierà il prossimo 12 gennaio a Foggia. Oltre all’ex direttore Dattoli, saranno a processo Roberto e Roberta Valentina Pucillo, padre e figlia, rispettivamente amministratore unico e procuratore di Alidaunia; Antonio Apicella, cognato di Pucillo; Rita Acquaviva, funzionario Asl Foggia; Costantino Quartucci, Salvatore D’Agostino e l’avvocato Luigi Treggiari.
I “fuorilegge” di Emiliano, novello garantista. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 2 gennaio 2021. Michele Emiliano dovrebbe secondo molti, e noi fra questi, iniziare a questo punto a porsi qualche domanda sui metodi con cui seleziona e sceglie il management e le persone di sua fiducia, e seguire con maggiore più coraggio gli ideali di giustizia che dovrebbero ispirare un Magistrato seppure in aspettativa. Nessuno va ritenuto colpevole sino ad una sentenza definitiva, ma in presenza di flagranza di reato o di ammissione dei reati commessi, il garantismo è inutile e peraltro dannoso. Nei suoi comizi in occasione delle campagne elettorali ho spesso sentito Michele Emiliano autoproclamarsi di “custode” della legalità, a partire dal noto processo “Ambiente Svenduto” sull’ ILVA di Taranto, così come l’ho visto arrampicarsi sugli specchi delle eccezioni procedurali dinnanzi alla Commissione Disciplinare del Csm guidata dal suo suo compagno di partito Legnini all’epoca dei fatti vicepresidente dell’organismo di autocontrollo…della Magistratura, che lo processava per il suo impegno “politico” che è notoriamente vietato ad un magistrato in servizio (seppure in aspettativa).
Ma quel suo millantato inno alla legalità si è infranto come un’onda sugli scogli, circondandosi di persone che tutto hanno fatto fuorchè rispettare la legalità. Basta andare un pò indietro nel tempo, e ricordarsi quanti assessori si sono dimessi perchè coinvolti in vicende giudiziarie poco chiare. Come quella del consigliere regionale del Pd Michele Mazzarano, entrato nella 1a giunta regionale di Emiliano, nonostante un processo da cui si è salvato per intervenuta prescrizione. I fatti risalgono al 2008 quando Mazzarano, originario di Massafra (Taranto), era vicesegretario regionale del Partito Democratico. La vicenda riguarda i diecimila euro che Gianpaolo Tarantini (il noto “Gianpi” che procurava le escort a Berlusconi) aveva consegnato nell’aprile 2008 a Michele Mazzarano, per pagare il concerto di Eugenio Bennato in occasione dell’evento di chiusura della campagna elettorale del Pd a Massafra per le elezioni politiche.
Il gup del Tribunale di Bari Sergio Di Paola a settembre del 2014, cioè un anno prima delle Elezioni Regionali del 2015, aveva deciso per il rinvio a giudizio di Mazzarano ed il il processo a suo carico nei confronti di Mazzarano, e dell’imprenditore (fallito) Gianpaolo Tarantini, entrambi accusati di illecito finanziamento ai partiti, iniziato tre mesi dopo, cioè 9 dicembre 2014. Mazzarano venne inoltre rinviato a giudizio anche per un episodio di millantato credito , mentre sempre per un altro millantato credito, il Giudice si dichiarò incompetente e dispose l’invio degli atti riguardati il politicante massafrese alla Procura della Repubblica di Taranto.
“Dopo due anni di indagini e altrettanti di udienza preliminare – dichiarò Mazzarano – finalmente un giudice di merito potrà raccogliere le prove che confermeranno la mia correttezza e la mia totale innocenza. Rimane l’agonia mia e delle persone a me più care per questi lunghi cinque anni di vera e propria via crucis. Quando la giustizia agisce così, rovina la vita delle persone oneste“. Peccato che il “giudice di merito” abbia potuto soltanto applicare l’intervenuta prescrizione, e Mazzarano non abbia rinunciato alla prescrizione e si sia così salvato, da una condanna pressochè certa ! Che è arrivata più tardi per altre vicende giudiziarie.
Infatti Mazzarano ha subito una pesante condanna a 9 mesi ma sopratutto a 5 anni di sospensione dal diritto elettorale e da tutti i pubblici uffici, con la sospensione della pena, il giudice monocratico Paola D’amico ha emesso lo scorso 26 maggio 2021 una sentenza nei confronti di Michele Mazzarano, colpevole di aver promesso lavoro in cambio di voti e sostegno durante la campagna elettorale per le Regionali 2015. L’accusa rappresentata dal procuratore aggiunto facente funzione Maurizio Carbone , aveva chiesto 1 anno di reclusione.
Appena eletto Emiliano nominò assessore regionale della Puglia all’Industria turistica e culturale, il tarantino Gianni Liviano che dopo pochi mesi dalla sua nomina dovette consegnare una lettera di dimissioni al presidente della Regione, Michele Emiliano, dopo la pubblicazione di un servizio del quotidiano La Repubblica in cui si parlava di un appalto per organizzare gli Stati generali della cultura affidato dalla Regione con procedura diretta ad una società esterna di cui era responsabile un amico di Liviano, che aveva partecipato all’organizzazione e finanziamento della sua campagna elettorale .
L’appalto per l’organizzazione degli Stati generali della Cultura ammontava a 39mila euro ed era stato assegnato, con un ribasso di appena duemila euro, alla societa’ ‘Dijinima kiki consulenti & partners srl’, di cui è responsabile Massimo Calò (il quale in realtà lo aveva subappaltato e fatto realizzare dalla società Software s.n.c. di Taranto) , il quale aveva organizzato con Liviano numerosi eventi politico-culturali durante il corso della sua campagna elettorale.
A seguire fu il turno dell’ ex assessore Filippo Caracciolo, già capogruppo del Pd alla Regione Puglia indagato nel 2018 per corruzione e turbativa d’asta nell’ambito di una indagine della Procura di Bari su una gara d’appalto per 5,8 milioni di euro per la costruzione di una scuola media a Corato, nel Barese, nei confronti del quale la pm Savina Toscani ne ha chiesto il rinvio a giudizio, al termine dell’inchiesta della Guardia di finanza nata come costola di quella sugli appalti truccati all’Arca Puglia. Lo scorso gennaio 2021 la Gip Ilaria Casu ha fissato l’udienza per l’inizio di quest’anno.
Subito dopo è stato il turno dell’ ex assessore regionale Giovanni Giannini, che secondo la Guardia di finanza e Carabinieri sarebbe stato coinvolto in un episodio di corruzione che lo coinvolgeva con un imprenditore di Polignano a Mare, Modesto Scagliusi, titolare del noto ristorante ‘Grotta Palazzese‘ e del salottificio Soft Line srl di Modugno. Quest’ultimo avrebbe – secondo quanto emerso dalle indagini – corrotto Giannini con arredi domestici per la figlia dell’amministratore, “in cambio del suo interessamento per agevolare pratiche in corso con la Regione a beneficio del ristorante, riguardanti un finanziamento regionale pari ad oltre 2 milioni di euro.“
Per arrivare ai nostri giorni con l’eclatante arresto di Antonio Mario Lerario, capo della Protezione civile in Puglia, preceduto pochi giorni prima dal direttore generale degli Ospedali riuniti di Foggia Vitangelo Dattoli, a lungo “osannato” dirigente del settore sanità della Regione, che era stato nominato da Emiliano dapprima commissario al Policlinico di Bari e per questo aveva collaborato alla realizzazione dell’ospedale Covid alla Fiera del Levante. L’ospedale per la cui realizzazione con costi raddoppiati è finito in manette Lerario.
Un’altra “perla” delle nomine di Emiliano è quella del manager lucano Pietro Quinto, ex direttore generale dell’Asm e dirigente dell’attività territoriale dell’azienda materana condannato a due anni e mezzo di carcere per la cosiddetta “Sanitopoli” lucana. il quale non pensava a doversi preoccupare del proprio futuro perché Emiliano lo ha recentemente nominato commissario dell’istituenda azienda sanitaria per la prevenzione della regione. Nomina “congelata” dopo la condanna. In ogni caso essere nominato al vertice di qualcosa che non esiste ancora dovrebbe far riflettere sullo “stipendificio” di Emiliano utilizzando i soldi dei contribuenti pugliesi.
Sempre per restare sull’attualità è necessario soffermarsi su un altro “nominato” da Michele Emiliano: è il caso di Gianfranco Grandaliano indagato nell’ agosto 2020 perché accusato di essersi fatto pagare il ricevimento per il suo cinquantesimo compleanno da un imprenditore del settore, e ciò nonostante riconfermato da Emiliano all’ Ager l’agenzia regionale pugliese che si occupa dei rifiuti, con una proroga di tre anni del contratto nonostante sia coinvolto in un’inchiesta della Procura di Bari.
Lo scorso 6 luglio 2020 è stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini e la pm Chiara Giordano aveva chiesto gli arresti domiciliari nei confronti degli indagati. Misura cautelare che è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari, Marco Galesi che si è soffermato sulla condotta di Grandaliano scrivendo nel provvedimento che “egli ha comunque venduto la propria funzione anticipando ai vertici della Er. Cav. srl la preziosa notizia relativa che di lì a qualche giorno avrebbe emesso un bando per finanziamenti di cui l’impresa privata avrebbe potuto beneficiare, in evidente violazione dei principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione“. Dopo il rigetto di tale richiesta da parte del Gip, a fine settembre, ha insistito, proponendo ricorso al Riesame: insistendo sulla richiesta di arresto.
Va ricordata in conclusione l’inchiesta della Procura di Bari sui voti comprati a 50 euro ciascuno a Triggiano che vede indagato Sandro Cataldo a cui viene contestata dalla procura di Bari il reato di “associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale“. Cataldo è il marito dell’ attuale assessore regionale ai trasporti Anita Maurodinoia, definita “Lady preferenze” appellativo sulla cui origine adesso più di qualcuno ha un ragionevole dubbio .
Non c’è da meravigliarsi se ormai a questo punto alle urne a votare si presenta solo la metà della popolazione pugliese. Ha ragione chi sostiene che quando la “fedeltà” viene valorizzata più del merito e delle competenze, quando la spasmodica ricerca del consenso prevale sulla qualità del buon governo.
Prendere i voti di chi non si fida più dei partiti attraverso l’uso di molteplici liste spacciate come civiche scavalcando ideologie, coerenza, impegno politico e civile in nome di una politica che ha trovato la necessaria e redditizia folgorazione sulla strada del potere.
Michele Emiliano dovrebbe secondo molti, e noi fra questi, iniziare a questo punto a porsi qualche domanda sui metodi con cui seleziona e sceglie il management e le persone di sua fiducia, e seguire con maggiore coraggio gli ideali di giustizia che dovrebbero ispirare un Magistrato seppure in aspettativa. Chiaramente nessuno va ritenuto colpevole sino ad una sentenza definitiva, ma in presenza di flagranza di reato o di ammissione dei reati commessi, il garantismo è pressochè inutile e peraltro dannoso. Qualcuno lo spieghi ad Emiliano.
· Succede a Bari.
La Regina Bona. Il prof. Babudri ne fa un ritratto sulla Gazzetta. Annabella De Robertis D'Alò su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Novembre 2022.
«Sono passati 400 anni dalla morte della regina Bona»: il 20 novembre 1957 «La Gazzetta del Mezzogiorno» dedica un lungo articolo, a firma dello studioso Francesco Babudri, alla duchessa di Bari, regina di Polonia: Bona Sforza. «Era nata a Vigevano, in quel di Pavia, il 26 gennaio 1493 da Gian Galeazzo Sforza (duca spodestato di Milano, vittima dello zio Lodovico il Moro che poi pagherà cara la sua azione proditoria degna della Caina dantesca) e della leggiadra, coltissima e altera Isabella d’Aragona, figlia di Alfonso II, re di Napoli».
Dopo alcuni anni trascorsi tra Pavia e Milano, Bona Sforza arriva nella città pugliese nel momento in cui sua madre prende possesso del ducato di Bari e vi si insedia con un largo seguito di dame e funzionari milanesi e napoletani. L’educazione di Bona fanciulla si svolge, dunque, con la guida di illustri letterati. «Bari ha su questa donna stupenda diritti di affetto, di dolcezza e di ospitalità. [...] Salvo le saltuarie sue soste a Napoli, la principessina visse a Bari e a Bari allietò con la sua presenza le feste intellettuali, che sua madre Isabella dava nel castello comunale detto poi normanno-svevo, e crebbe bella e colpita al fulgore del bel cielo di Bari».
Il 6 dicembre 1517, nel giorno della festività di san Nicola , si celebrano a Napoli le nozze per procura con Sigismondo I Jagellone, re di Polonia: Bona si trasferisce, pertanto, per alcuni anni a Cracovia, ma da lì continua a occuparsi dei feudi italiani ereditati dalla madre Isabella, morta nel 1524. A Bari attua un intenso programma di opere pubbliche: vengono ristrutturate le mura, ampliato il torrione di San Domenico, edificati il bastione di Santa Scolastica e il fortino di Sant’Antonio, a guardia del molo; sono costruite cisterne, fontane, palazzi pubblici ed edifici sacri.
Il 13 maggio 1556 Bona torna definitivamente a Bari, accolta dal popolo festante, con un carico di di tesori: oreficerie, arazzi, tappeti, paramenti sacri offerti alla basilica di San Nicola e ad altre chiese del ducato. A 63 anni, si ammala gravemente: si diffondono voci su un probabile avvelenamento. Il 19 novembre 1557 Bona Sforza muore nel Castello di Bari. «Come duchessa di Bari, Bona ha completato con la madre sua Isabella una delle più belle parentesi storiche delle vicende baresi: una vera aurora, in cui parve rivivere l’era fredericiana, e che dopo Bona doveva lungamente impallidire sotto la dominazione spagnola e austriaca dal 1557 al 1734. Ebbe ragione il non mai abbastanza compianto Francesco Carabellese di affermare: “con Bona Sforza la storia di Bari finisce”», conclude Babudri.
Ancora un’inchiesta inutile della procura di Bari. Archiviazioni per l’ on. Stefanazzi, sua moglie ed i fratelli Ladisa. Redazione CdG 1947 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Novembre 2022.
I finanzieri perquisirono la sede della Ladisa e gli uffici di una società di formazione a Lecce dove si era svolto il corso alla ricerca di prove che non sono mai state nè reperite nè tantomeno accertate.
Ritenendo infondata la notizia di reato, Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, dr.ssa Angela Salerno, ha condiviso ed accolto ieri la richiesta di archiviazione del procedimento penale a carico di Claudio Michele Stefanazzi, ex capo di gabinetto del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ed attuale deputato eletto nelle liste del Pd, di sua moglie Milena Rizzo e degli imprenditori baresi Sebastiano e Vito Ladisa.
Le indagini della Guardia di Finanza coordinate della pm barese Savina Toscano ipotizzavano le accuse dei reati di “truffa aggravata” ed “abuso di ufficio”, per la gestione di un Pfa (piano formativo aziendale) cioè di un corso di formazione negli anni 2016-2018 , finanziato dalla Regione Puglia e gestito, secondo l’accusa, da Milena Rizzo, moglie di Stefanazzi. I finanzieri perquisirono la sede della Ladisa e gli uffici di una società di formazione a Lecce dove si era svolto il corso alla ricerca di prove che non sono mai state nè reperite nè tantomeno accertate. Tutto si era svolto legalmente.
Il Piano Formativo Aziendale è uno strumento di finanziamento di iniziative di formazione della Regione Puglia a beneficio di tutte le aziende per la riqualificazione delle competenze dei propri lavoratori. Il bando in questione è a sportello, cioè non sottoposto a scadenze, e i requisiti di ammissibilità delle imprese sono: essere micro, piccola media o grande impresa secondo la definizione comunitaria; garantire il cofinanziamento obbligatorio a carico dell’azienda previsto nel bando; presentare la documentazione amministrativa e contabile prevista dal l’istruttoria (tra cui certificato antimafia); presentarla secondo le modalità telematiche previste dall’avviso. Tutti coloro che richiedono un PFA e che rispettano i requisiti menzionati, vengono finanziati. Tutta la documentazione relativa al piano, ovvero i calendari dell’attività di formazione, l’indicazione delle sedi di svolgimento, dei docenti, dei discenti, del personale coinvolto oltre alla descrizione del piano formativo e documentazione amministrativo/contabile sono inseriti e custoditi in una piattaforma informatica della Regione Puglia, quali atti pubblici. Contestare la effettività dell’attività formativa effettuata significherebbe coinvolgere nell’eventuale reato una miriade di pubblici funzionari.
l’on. Claudio Michele Stefanazzi ex capo di gabinetto della Regione Puglia
“Stasera, appena rientrato come ogni sera a Lecce da Bari, sono stato raggiunto da una telefonata di un giornalista che mi chiedeva notizie di una indagine a mio carico e di una perquisizione avvenuta presso la sede della società dove lavorava, fino ad un anno fa, mia moglie. Non avendone avuto notizia mi sono informato ed effettivamente mi è stato riferito che, stamattina la Guardia di finanza si è recata presso la società. Ho così scoperto che io e mia moglie siamo indagati, senza però aver avuto alcuna notifica in merito. Io sarei accusato di essere “amministratore di fatto” della società. Ovviamente non sono mai stato amministratore di fatto di quella società. Ci mancherebbe” commentò a suo tempo con giustificata rabbia ed amarezza Stefanazzi.
Resta da chiedersi a quante indagini, perquisizioni inutili delle forze dell’ordine disposte da qualche magistrato, dovremo assistere ? L’ atto giudiziario che riguardava Stefanazzi e sua moglie era avvenuto a 150 km da Bari, quindi commentò Romanazzi “esclusa la accidentale scoperta da parte di qualche passante occasionale, debbo constatare che, ancora una volta, la stampa viene a conoscenza di vicende che riguardano una sfera molto riservata della vita di ognuno di noi, prima dei diretti interessati”.
Adesso per fortuna con la riforma Cartabia verranno analizzate le indagini dei pubblici ministeri ed il numero dei processi portarti a termine con rinvio a giudizio, parametri sui quali si baseranno le valutazioni sull’operato delle procure. Ed i numeri non tengono conto della “cordata” o corrente di appartenenza…è arrivato il momento di valutare il lavoro ed i meriti dei magistrati, e non di che corrente sono ! Redazione CdG 1947
Quando «si jazzava» nei tempi di guerra. Non ci furono solo i concerti per l’Eiar. Tra i tanti eventi anche un tour pugliese di Frank Sinatra nel giugno ’45. Ugo Sbisà su La Gazzetta del Mezzogiorno l’08 Novembre 2022.
La rubrica «La Macchina del Tempo – Accadde oggi», curata su queste pagine dalla brava Annabella De Robertis, ha ricordato nei giorni scorsi i concerti che, a cura dell’Eiar, l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche poi trasformatosi in Rai, si tennero al teatro Piccinni di Bari a partire dalla fine del 1943. Per l’occasione, l’Eiar aveva allestito una propria orchestra sinfonica che tenne concerti radiodiffusi affidati ad alcuni tra i principali musicisti pugliesi dell’epoca. Fra i tanti, ci piace ricordare la violinista di Martina Franca Gioconda De Vito, senza dubbio tra le «signore dell’archetto» del Novecento europeo.
Il motivo di questa vivacità culturale è presto detto. Com’è noto, Bari venne liberata dagli americani il 15 settembre del 1943 e più o meno contemporaneamente presero il via le trasmissioni dell’ex Eiar, ribattezzata dopo la Liberazione «Radio Italia Libera» e successivamente trasformatasi in Radio Bari, un’emittente che, tra le altre cose, svolse un ruolo fondamentale anche per la diffusione della musica jazz in Italia. In molti casi, appunto, le trasmissioni proponevano musica eseguita dal vivo, ora dalla grande orchestra di musica leggera diretta dall’indimenticato maestro altamurano Carlo Vitale (1912 – 1989), futuro animatore delle stagioni liriche baresi e salentine, ora invece da complessi di estrazione più squisitamente jazzistica come ad esempio quello guidato dall’indimenticabile pianista barese Bruno Giannini (1919 – 2001).
Nello stesso periodo, del resto, l’attività di intrattenimento a favore delle truppe americane era particolarmente intensa e andava ben oltre le semplici trasmissioni radiofoniche, comprendendo anche spettacoli con la partecipazione artisti statunitensi. È il caso di un ancora poco noto – da questa parte dell’Oceano - Frank Sinatra che, giunto in Italia ai primi del mese di giugno del 1945, tenne ben due concerti in Puglia, esibendosi prima in un hangar dell’aereoporto di Foggia, città che era stata pressoché rasa al suolo dai bombardamenti, quindi anche a Bari, al Petruzzelli. E sempre durante l’occupazione, giunsero a Bari anche le Andrews Sisters, Marlene Dietrich e formazioni di jazzisti statunitensi.
Una testimonianza preziosa della vivacità musicale pugliese durante il periodo dell’occupazione è stata tra l’altro offerta dall’attore di origini brindisine Giustino Durano (1923 – 2002) il quale, di rientro in licenza nella sua città natale, ebbe modo di notare che al Gran Caffè Savoia «si jazzava» e a suonare erano diversi musicisti locali. Successivamente Durano venne trasferito a Bari, dove gli americani, oltre ad aver requisito il Petruzzelli per tenervi gli spettacoli riservati alle truppe, avevano preso possesso anche del ristorante e dell’albergo Oriente. Fu lui, peraltro, a organizzare uno spettacolo per gli Alleati, che andò in scena al Gran Teatro Dopolavoro delle Forze Civili, presentando una band guidata da Bruno Giannini e completata da Santino Tedone al sax e clarinetto, Antonio De Serio al contrabbasso ed Enrico Cuomo alla batteria. Il concerto ebbe un tale successo che la formazione venne invitata ad esibirsi in diversi centri militari alleati, ma la cosa più singolare fu che gli americani decisero di trasformare i nomi dei musicisti, così da renderli più «pronunciabili» nella loro lingua; di conseguenza, Durano divenne Justin Duran e Tedone San Tedoni!
Giannini fu quindi tra i primi a suonare liberamente questa nuova musica sulle frequenze di Radio Bari. Fu anzi proprio a Radio Bari che debuttò a capo di un quintetto nel quale suonavano con lui Nicola Vendemia al contrabbasso, Enrico Cuomo alla batteria e i fratelli Principe di Monte Sant’Angelo, Peppino alla fisarmonica e Leonardo al clarinetto. In realtà però non fu la sua l’unica formazione di jazz a farsi apprezzare: c’era anche un sestetto guidato dal pianista Vincenzo Esposito (padre di Nico Esposito, ingegnere e anch’egli pianista) e poi c’era la grande orchestra del maestro Vitale. Quest’ultima, che eseguiva un repertorio prevalentemente leggero, contava all’incirca una quarantina di elementi «raccolti» in tutta la regione e fra questi c’erano anche i fratelli Principe, il contrabbassista molfettese Nico Lisena o il cantante veneto Enrico Nosek, un ex pilota dell’aviazione militare che aveva scelto di restare a Bari. In quegli anni quindi, in Puglia si suonò incredibilmente moltissima musica jazz e da quella scena vivace dovette presumibilmente trarre ispirazione anche il crooner di Squinzano Nicola Arigliano (1923-2010) che grazie a un concorso di Radio Bari trovò nel 1946 il trampolino di lancio per trasferirsi al Nord. Anche quanti non lo hanno mai ascoltato nella veste di balladeur dalla calda voce baritonale, lo ricordano probabilmente come «volto» di un carosello televisivo in cui pubblicizzava un digestivo «così comodo che si può prendere anche in tram»!
Edizione straordinaria il Petruzzelli in fiamme. Il racconto e le immagini del 27 ottobre ‘91. Annabella De Robertis il 27 Ottobre 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.
È il 27 ottobre 1991. L’edizione straordinaria del pomeriggio de La Gazzetta del Mezzogiorno titola «Petruzzelli in fiamme». Uno dei teatri più grandi d’Italia, costruito per iniziativa dei fratelli Antonio e Onofrio Petruzzelli, commercianti baresi, e inaugurato il 14 febbraio 1903, sembra completamente distrutto. Pochi giorni prima dell’incendio, un nuovo allestimento della Norma di Bellini, che si chiude proprio con un rogo, ha inaugurato la stagione lirica.
In prima pagina la foto di Luca Turi parla da sola: la cupola è completamente crollata e dai palazzi di fronte si riesce a guardare l’interno del Teatro che ancora brucia. Ecco la cronaca di quanto avvenuto quella mattina: «Il Teatro Petruzzelli è stato devastato, forse distrutto, da un furioso incendio all’alba di stamane. Le mura esterne sono ancora in piedi. All’interno il disastro sembra totale. La cupola è crollata. Del prezioso soffitto di Armenise, degli storici sipari, delle poltrone, insomma di tutto ciò che rendeva l’edificio un Teatro non rimane più nulla. Tali almeno le notizie che si possono desumere da un primo sopralluogo, mentre ancora i Vigili del Fuoco sono in piena azione e non è permesso accostarsi più di tanto alla drammatica fornace. Forse si riuscirà a salvare l’ala orientale, quella che ospita le sale del Circolo Unione. L’incendio è scoppiato poco dopo le 4.30. L’incendio sembra aver avuto origine dal palcoscenico, ma mentre le prime squadre entravano in azione, il fuoco aveva già attraversato la platea ed aveva fatto irruzione nel foyer. Alle prime luci dell’alba il Teatro appariva come un sinistro vulcano. Dalla voragine, che aveva inghiottito la cupola, un pennacchio denso di fumo si levava contro il cielo ancora livido, mentre i Vigili, al comando dell’ing. Biscardi, continuavano l’impari lotta contro le fiamme. Dall’esterno un gruppetto di poche persone assisteva alla consumazione del dramma con la disperazione sul volto. Il prefetto De Mari è il primo ad abbracciare Ferdinando Pinto. Piangono. Ma Ferdinando si scuote e reagisce: “Lo ricostruiremo. Subito!”. Una speranza…disperata. Una dura prova per la città. Le cause della sciagura? Chi può dirle. Al momento nulla fa pensare si sia trattato di un incendio doloso e nulla lo esclude. Di certo c’è soltanto che per Bari, per la Puglia, per la cultura italiana, oggi è una giornata di lutto».
Dopo quattordici anni di inchieste, processi, sentenze, appelli sono stati condannati in via definitiva soltanto gli esecutori materiali dell’incendio. La verità resta ancora un mistero. Soltanto nel 2009, dopo complessi restauri, il Teatro è stato finalmente restituito alla città.
Mafia, droga e voto di scambio: 19 arresti, in carcere consigliere comunale di Bari, ai domiciliari presidente Foggia Calcio. L’inchiesta riguarda le ultime elezioni comunali di Bari. Le ordinanze coinvolgono, tra gli altri, esponenti di un clan mafioso operante a Valenzano collegato con i Parisi di Bari. Giovanni Longo, Isabella Maselli, Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Ottobre 2022
Diciannove persone, 17 in carcere e due ai domiciliari, sono state arrestate oggi tra Bari, Palermo e Taranto, accusate di associazione di tipo mafioso, estorsione, associazione finalizzata allo spaccio, finalizzata alla corruzione elettorale e scambio elettorale politico-mafioso. L'ordinanza è emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari di Bari, su richiesta della Procura della Repubblica/Direzione Distrettuale Antimafia di Bari. Le misure sono state eseguite da parte di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza. L’inchiesta riguarda le ultime elezioni comunali di Bari, e in carcere è finita anche Francesca Ferri, di Valenzano, capogruppo di Italia Popolare. Ai domiciliari, tra gli altri, l'imprenditore barese Nicola Canonico, attuale presidente del Foggia Calcio ed ex consigliere regionale. Nelle elezioni comunali di Bari, Canonico era il referente della lista del centrodestra in cui venne eletta la Ferri, poi passata con la maggioranza. In carcere anche Filippo Dentamaro, compagno della Ferri. Tra gli indagati figura anche Michele D’Atri, ex sindaco di Grumo.
Le indagini e le intercettazioni
L'inchiesta, battezzata «Valenza», prende le mosse dalle indagini svolte per lo scioglimento del Comune di Valenzano, ed è coordinata dai pm Fabio Buquicchio e Michele Ruggiero. Le ordinanze sono firmate dal gip Rossana De Cristofaro e riguardano, tra gli altri, esponenti di un clan mafioso operante a Valenzano collegato con i Parisi di Bari.
Nelle intercettazioni la Ferri si lamenta del fatto che alcune persone che avevano promesso il voto le mandavano la foto fatta da qualcun altro: «È successo pure a me alle Regionali. Sono dei truffatori». La funzione di Canonico è sostanzialmente quella di garante. Viene riconosciuta la sua partecipazione all’associazione a delinquere per le elezioni comunali di Bari del maggio 2019. Secondo l’indagine, risolveva le piccole contese tra candidati nella lista “Sport Bari Dirella Sindaco” (in cui è stata eletta la Ferri) e gli elettori, e garantiva la copertura economica rispetto alle promesse di voto. Sono state documentate le riunioni a casa di Canonico per definire la strategia.
Durante le intercettazioni, andate avanti fino a tutto il 2019, è emerso anche che la Ferri, dopo l’elezione, ha fatto depositare una enorme quantità di rifiuti prodotti durante una festa a casa sua il 30 maggio 2019, in un’area vicina alla zona di Barialto. «Noi - diceva la donna al telefono - comandiamo più a Casamassima che a Bari». Secondo l’indagine in una discussione tra il compagno della Ferri e il boss Buscemi, verso le elezioni di Valenzano, quest’ultimo racconta: «Ho detto sì a tutti tranne che a uno, che ho fatto andare via pallido, che durante la campagna elettorale diceva di essere il paladino della giustizia. Gli ho detto che gli avrei dato 100 voti se si fosse fatto una foto con me da mettere su Facebook».
C’è un episodio che - secondo l’accusa - potrebbe spiegare la caduta della giunta di Valenzano. Ferri e il compagno, insieme al boss, avrebbero programmato di infiltrare due consiglieri in maggioranza e due in opposizione. «Se non ci seguono - spiega il compagno della Ferri, Filippo Dentamaro, al boss Buscemi - io non avrò difficoltà a tirare la catena». La coppia avrebbe fatto elenchi dei votanti, cercando di mapparne la residenza sul territorio. In alcuni casi - secondo le indagini della Finanza coordinate dal colonnello Luca Cioffi - avrebbero proceduto addirittura al ritiro della tessera elettorale. I voti costavano tra i 25 e i 50 euro.
I NOMI: In carcere sono finiti Salvatore Buscemi, Vito De Caro, Ottavio Di Cillo, Giuseppe Di Lorenzo, Filippo Esposito, Danilo Fusco, Erasmo Labarile, Giovanni Pasca, Matteo Radogna, Davide Russo, Alessandro Speziga, Antonia Stramaglia, Michele Terlizzi, Luca Ventrella, Filippo Dentamaro, Francesca Ferri. Ai domiciliari Giuseppe Buscemi e Nicola Canonico.
Voto di scambio, arresti a Bari, l'ex sindaco di Valenzano: «Caduto perché non ho fatto accordo con la Ferri». C’è un'intervista televisiva tra le prove del presunto accordo politico-mafioso. Giovanni Longo, Isabella Maselli, Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Ottobre 2022
C’è un'intervista televisiva tra le prove del presunto accordo politico-mafioso sul Comune di Valenzano. «Se lei avesse accolto due mesi fa il movimento Italia Popolare nella maggioranza lei sarebbe rimasto a ricoprire il ruolo di sindaco», è la frase che Francesca Ferri (finita in carcere oggi su richiesta della Dda di Bari) rivolge a Giampaolo Romanazzi, sindaco di Valenzano caduto da poco. Il 5 ottobre Romanazzi è stato sentito in Procura proprio per spiegare cosa è accaduto a Valenzano con lo scioglimento del Consiglio comunale dovuto alle dimissioni di 10 consiglieri, di cui 4 della sua maggioranza. «Sono stato eletto sindaco a Valenzano, supportato da un gruppo di liste civiche, fra le quali Valenzano-Trasparenza-Legalità il cui fautore era Vincenzo Tritto (candidatosi ma non eletto in consiglio comunale); nelle fila di questa lista si candidò e non fu eletta la signora Maddalena Carlizzi, che personalmente non conoscevo e non conosco. Poco prima che iniziasse la mia avventura di candidato sindaco, fui destinatario di una proposta da parte di Filippo Dentamaro, compagno di Francesca Ferri, all’epoca già consigliera comunale a Bari, a capo di un sostanzioso movimentismo politico in Valenzano, mi proponeva di creare anche a nome della compagna una coalizione con me, utilizzando il loro serbatoio di voti tramite l’appoggio delle loro liste. Rifiutai la proposta di Dentamaro poiché non intendevo far entrare alcuna delle personalità che avevano fatto parte della consiliatura precedente con il sindaco Lomoro».
«Verso la fine della campagna elettorale - ha aggiunto Romanazzi - venni a sapere che il duo Dentamaro/Ferri sponsorizzava un voto disgiunto in favore di Amoruso (mio competitor) come candidato sindaco e per i consiglieri Carlizzi e Montefusco. Questa informazione mi fu manifestata chiaramente una sera, forse l’8 novembre 2019 (due giorni prima delle elezioni) da Dentamaro Filippo che mi incontrò all’uscita dalla pizzeria, nell’occasione lo stesso mi si rivolse dicendo: ”Visto che non hai voluto parlare prima con noi dovrai farlo adesso o dopo il ballottaggio”. Accompagnò questa sua frase all'esibizione di un “santino” che riportava un fac-simile della scheda elettorale riportante l’effige del candidato sindaco Amoruso ed i nominativi dei consiglieri Carlizzi e Montefusco. A fronte di quella sua dichiarazione che altro non era un secondo tentativo di portarmi dalla sua parte, dopo quella prima proposta che avevo declinato tempo prima, ribadii di non essere disponibile a reclutare nella mia maggioranza persone facenti riferimento alla Ferri. (…) Al termine delle elezioni i due sponsorizzati da Dentamaro/Ferri ossia Carlizzi e Montefusco non furono eletti. Da quel momento non ebbi altri contatti con la Ferri».
Romanazzi racconta di aver rivisto la Ferri «i primi di quest’anno 2022 quale referente locale del movimento politico Puglia Popolare (facente capo al direttore dell’Arpal Cassano) e nell’occasione è diventata riferimento politico di due consiglieri comunali di Valenzano di minoranza (Amoruso Ugo e De Sario Leonardo) che, eletti nella maggioranza, erano negli ultimi due anni passati all’opposizione.
«Sostanzialmente, dunque, la Ferri è diventata dai primi mesi del 2022 mio avversario politico. Poco prima della caduta dell’Amministrazione da me presieduta, sei consiglieri di maggioranza mi proposero di allargare la nostra maggioranza a due consiglieri di Puglia Popolare; la richiesta mi arrivò dai consiglieri Volpe ed Amoruso. Io mi dissi contrario sempre per la ragione di non consentire l’ingresso in maggioranza di persone riconducibili politicamente alla Ferri. Il 9 settembre ho appreso che la Ferri era stata delegata a depositare presso il comune l’atto notarile che raccoglieva le firme di 10 consiglieri comunali dimissionari (dieci tra consiglieri di maggioranza ed opposizione, tra cui Amoruso ed il consigliere di riferimento di Volpe). L’11 settembre fui contattato da Volpe il quale dicendosi perplesso o pentito sulle sue dimissioni mi invitò a raggiungere casa della Ferri a Casamassima per ridiscutere l’allargamento della maggioranza in precedenza propostomi in modo da non far cadere l’Amministrazione. Andai a casa della Ferri dove incontrai quest’ultima, Dentamaro, Volpe la moglie di quest’ultimo Partipilo Lucia ed un mio amico di nome Domenico De Santis. Nell’occasione mi fu ribadita la proposta che avevo a suo tempo rifiutato (allargamento della mia maggioranza ai due di Puglia Popolare) e me ne andai, dicendomi pronto a fare una verifica in consiglio comunale l’indomani mattina. Il nome della Carlizzi intervenne da parte degli esponenti della lista Trasparenza e Legalità all’inizio dell’Amministrazione per un’eventuale nomina in giunta; ma io rifiutai questa indicazione».
19 arresti per scambio di voti fra politica e mafia a Bari: coinvolto l’ex consigliere regionale Canonico e la consigliera comunale Ferri. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Ottobre 2022
L’operazione condotta da Carabinieri Guardia di Finanza e Polizia e nelle provincie di Bari, Palermo e Taranto. La Ferri è stata vicesindaca di Valenzano, mentre il costruttore Canonico è attualmente presidente del Foggia calcio.
Alla base dell’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Bari, condotta dai Carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo di Bari, che ha fatto finire arrestate dalle prime luci dell’alba 17 persone in carcere e 2 poste agli arresti domiciliari, per l’ ipotesi di scambio di voti fra politica e mafia in occasione delle elezioni amministrative del 2019 a Bari e di Valenzano, comune della provincia barese. L’ordinanza è emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari di Bari dott.ssa Rossana De Cristofaro, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari.
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In particolare, l’esecuzione dell’ordinanza nei confronti di 15 soggetti indagati da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Bari e di altri 4 soggetti indagati congiuntamente da parte del personale della Polizia di Stato della Questura di Bari e del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Bari) costituisce l’epilogo di una complessa attività di indagine, coordinata da questo Ufficio giudiziario, articolata in 2 filoni investigativi – distinti, ma legati fra loro da profili di connessione soggettiva e oggettiva. Il primo, delegato alla Compagnia Carabinieri di Triggiano , ha riguardato, tra l’altro, un’associazione di tipo mafioso operante sul territorio di Valenzano (BA), propaggine del noto e storico clan Parisi. Il secondo , codelegato alla Polizia di Stato (Squadra Mobile e DIGOS) e al Nucleo P.E.F./G.I.C.O di Bari – ha avuto ad oggetto, tra l’altro, un episodio di scambio elettorale politico-mafioso, nonché l’individuazione di un sodalizio delinquenziale finalizzato al reato di corruzione elettorale.
L’ operazione denominata “Valenza” ha origine dalle indagini svolte per lo scioglimento del Comune di Valenzano, ed è coordinata dai pm Fabio Buquicchio e Michele Ruggiero riguardano anche esponenti di un clan mafioso operante a Valenzano collegato con il clan Parisi di Bari. Con riferimento al primo filone investigativo, oltre 100 Carabinieri del Comando Provinciale di Bari stanno dando esecuzione – nei comuni di Bari, Cassano delle Murge (BA), Valenzano (BA), Ginosa (TA) e Palermo – a misure cautelari personali nei confronti di 15 soggetti indagati, a vario titolo, per le ipotesi di reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso in minacce, porto e detenzione di armi comuni da sparo, estorsione, usura, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita.
Le ipotesi di reato contestate dagli inquirenti sono associazione di tipo mafioso, estorsione, associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale e scambio elettorale politico-mafioso.
Tra le persone arrestate il consigliere comunale di maggioranza in carica Francesca Ferri, capogruppo di Italia Popolare che al Consiglio comunale di Bari era stata eletta a sostegno del candidato civico Pasquale Di Rella e successivamente diventata capogruppo di Puglia Popolare (movimento politico che fa capo all’ex senatore Massimo Cassano, direttore generale uscente dell’ Arpal, candidatosi alle ultime elezioni politiche nelle liste di Azione, fortemente “sponsorizzato” dall’ on. Mara Carfagna (estranea alle indagini ). In passato nel 2015 la Ferri si era candidata alle Regionali nelle liste di Forza Italia in cui militava Cassano a cui è sempre stata “legata” politicamente”
Massimo Cassano, Mara Carfagna e Francesca FerriFrancesca Ferri candidata nel 2015 con Forza Italia
Agli arresti domiciliari il costruttore Nicola Canonico, 50anni attuale presidente del Foggia calcio, in passato consigliere comunale Bari, dal 2004 al 2009 eletto nella lista Udeur ed in seguito consigliere alla Regione Puglia, dal 2005 al 2010 nel gruppo misto e poi nel Pd. Nel 2017 Canonico venne nominato nel consiglio d’amministrazione di Acquedotto Pugliese, diventandone successivamente il vice presidente. Entrato in conflitto con il governatore della Regione Puglia Michele Emiliano al rinnovo dell’organismo non venne riconfermato. Gli arresti sono stati eseguiti nelle province di Bari, Palermo e Taranto dai Carabinieri , Guardia di finanza e Polizia di Stato.
Francesca FerriNicola Canonico
Gli indagati Salvatore Buscemi, Filippo Dentamaro e la sua convivente Francesca Ferri compaiono nell’ordinanza cautelare in relazione al delitto p. e p. dall’art. 416 ter c.p. – Scambio elettorale politico-mafioso (tanto nella riformulazione in vigore dall’11/6/2019, quanto nel testo immediatamente precedente) poiché “pattuivano uno scambio elettorale politico-mafioso nei termini appresso descritti, nella consapevolezza- da parte della coppia Dentamaro-Ferri (compagni conviventi)- del ruolo criminale rivestito nel Comune di Valenzano dal Buscemi (capo dell’omonimo clan ed “affiliato” a Ottavio Di Cillo, a sua volta capo dell’omonimo clan operante nel limitrofo Comune di Cassano delle Murge ed affiliato al boss mafioso Savino Parisi) e del suo “metodo” mafioso di procurare i c.d “voti della malavita” ( così denominati da Buscemi e Dentamaro nel corso di una conversazione in data 8/11/2019, oggetto di intercettazione)”.
Francesca Ferri e Filippo Dentamaro
La coppia composta da Francesca Ferri e Filippo Dentamaro, finiti entrambi in carcere risponde anche di un altro reato altrettanto grave, di maltrattamenti nei confronti di un bambino bielorusso, avuto in affido temporaneo quando era solo undicenne . Gli investigatori della Squadra Mobile e della Digos della Questura di Bari hanno assistito attraverso le intercettazioni telefoniche, a numerosi episodi di maltrattamenti nei confronti del bambino, prima di intervenire per farli smettere. Il bambino bielorusso, avrebbe subito umiliazioni davanti al figlio della coppia, venendo offeso e picchiato: “Deficiente, cretino, coglione, bastardo, sei una vergogna” arrivando a minacciarlo di rispedirlo “in Russia a calci in culo“, e se si fosse lamentato lo avrebbero “spaccato in due, ammazzato”.
il boss Savino Parisi
Nell’ordinanza si legge che “In particolare 1) in previsione ed occasione delle elezioni amministrative del consiglio comunale di Bari fissate per il 26 maggio 2019, Dentamaro Filippo – sostenitore della campagna elettorale della propria compagna e convivente Ferri Francesca, candidata come consigliere comunale a Bari, accettava da Buscemi Salvatore la promessa di procurare voti “mafiosi” in favore della predetta Ferri, in cambio della promessa (fatta dal Dentamaro con la piena adesione di Ferri Francesca) di erogazione di varie e future utilità per gli affari del Buscemi;
2) in previsione ed occasione delle elezioni amministrative del consiglio comunale di Valenzano fissate per il 10 novembre 2019, Dentamaro Filippo – sostenitore della campagna elettorale di alcuni soggetti a lui legati, candidati come consiglieri comunali e da lui infiltrati nella lista civica “Valenzano – Trasparenza – Legalità” costituita a supporto del candidato sindaco Giampaolo Romanazzi (tra essi, Carlizzi Maddalena e Claudio Montefusco, consapevoli del supporto del Dentamaro, ma ignari del patto di quest’ultimo con il Buscemi) – accettava da Buscemi Salvatore la promessa di procurare voti “mafiosi” (“voti della malavita”, così denominati dal Buscemi in data 8/11/2019 nel corso di una conversazione con Dentamaro, oggetto di intercettazione) in favore dei predetti candidati legati e riferibili al duo Ferri-Dentamaro, in cambio della promessa (fatta dal Dentamaro con la piena adesione di Ferri Francesca) di erogazione di varie utilità (tra cui la futura acquisizione di terreni da rendere edificabili in occasione della predisposizione del piano regolatore generale del Comune di Valenzano). comunque. della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze del gruppo mafioso del Buscemi“.
Per quanto riguarda la posizione dell’imprenditore Nicola Canonico, attuale Presidente del Foggia Calcio si legge che risponde insieme a Vito Caggianelli, Michele D’ Atri, Filippo Dentamaro, Lorenzo Dentamaro, Francesca Ferri, Luciano Marinelli, Gaetano Muscatelli, Carmine Pastore, Luigi Ressa, Giovanni Zaccaro, Vito Michele Zaccaro, Francesco Zizza per essersi associati fra loro al fine di commettere sistematiche attività delittuose di corruzione elettorale funzionali a conseguire illecitamente l’elezione di Francesca Ferri (candidata nella “LISTA CIVICA – SPORT BARI – DI RELLA SINDACO“) alla carica di consigliere comunale di Bari, in occasione delle elezioni amministrative del 26 maggio 2019 (nonché – limitatamente a Canonico, Ferri e Filippo Dentamaro – la affermazione elettorale della stessa Ferri nelle future competizioni elettorali, ivi comprese le elezioni regionali in Puglia programmate per l’anno 2020), attraverso un’attività organizzata di selezione e reclutamento di elettori con successiva acquisizione dei loro voti in favore della candidata Ferri in cambio prevalentemente di somme di denaro.
Le somme di denaro costituenti il “prezzo” del voto in favore della Ferri (pari ad euro 25 o 50 per ogni singolo voto) venivano, quindi, offerte o promesse ad un imprecisato numero di elettori, in esecuzione degli accordi e dei programmi del sodalizio criminoso direttamente dalla stessa candidata Ferri, ovvero sempre a vantaggio e nell’interesse della candidata dal Dentamaro ( compagno convivente della Ferri), dal Canonico o dai partecipi del sodalizio criminoso (Vito Caggianelli, Michele D’ Atri, Lorenzo Dentamaro, Luciano Marinelli, Gaetano Muscatelli, Carmine Pastore, Luigi Ressa, Giovanni Zaccaro, Vito Michele Zaccaro, Francesco Zizza ) aventi il ruolo di “portatori di voto” decisivo per finalizzare il programma del sodalizio, ossia quello di individuare, contattare e reclutare il maggior numero possibile di elettori da cui, infine, compravano i voti verso il pagamento di corrispettivo in denaro loro anticipato o successivamente rimborsato dai promotori Ferri, Dentamaro e Canonico).
L’Associazione a delinquere secondo la Procura di Bari era “promossa, costituita ed organizzata dal Canonico (fondatore, promotore e finanziatore della “LISTA CIVICA – SPORT BARI – DI RELLA SINDACO“) e dalla coppia Ferri–Dentamaro, cui aderivano quali partecipi i sopra menzionati “portatori di voto” e strutturata con una precisa distribuzione di compiti e funzioni” in relazione al ruolo di ciascuno, per cui “Nicola Canonico costituiva – per carisma, forza economica ed esperienza politica – la figura di “vertice” del gruppo; “garante” del risultato dell’illecita impresa e degli equilibri economici sottesi agli accordi corruttivi; “risolulore e decìsore finale” delle controversie personali ed economiche insorte tra il duo Ferri-Dentamaro e i vari “portatori di voto” (solitamente, questioni di restituzione delle somme di denaro anticipate per pagare i voti agli elettori compravenduti)” mentre Filippo Dentamaro e Francesca Ferri, compagni e conviventi “erano organizzatori del sodalizio unitamente al Canonico; incaricati di curare le relazioni, soprattutto quelle negoziali (quanto all’illecito mercimonio dei voti) con elettori o con singoli collaboratori/portatori di voto“.
Canonico, è stato definito nella conferenza stampa della procura barese “garante e partecipe dell’associazione per le elezioni comunali di Bari”. Secondo l’ipotesi accusatoria sarebbero avvenuti a casa sua gli incontri per pianificare le strategie di ricerca dei voti, avrebbe “risolto le contese tra gli associati e svolto funzioni di garante, dal punto di vista finanziario, per la copertura dei debiti contratti per comprare i voti”. Redazione CdG 1947
LA MACCHINA DEL TEMPO. Da Punta Perotti a Michele Fazio. La «Gazzetta» di 21 anni fa prima dell’11 settembre. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Settembre 2022
Èl’11 settembre 2001. «Giornata nera per le Borse europee» titola in prima pagina La Gazzetta del Mezzogiorno. La crisi della Silicon Valley ha ripercussioni anche nel vecchio continente: Tronchetti Provera, amministratore delegato del gruppo Pirelli, promette azioni legali contro le voci ribassiste.
Proseguono, inoltre, le indagini sui fatti di Genova: sette avvisi di garanzia sono stati consegnati ad altrettanti dirigenti della Polizia per la morte di Carlo Giuliani e le altre violenze commesse nei confronti dei manifestanti durante il G8.
«Fa discutere l’invito di Silvio Berlusconi ad abbattere l’ecomostro di Punta Perotti», si legge inoltre nelle pagine della Cronaca di Bari. In un’intervista alla Gazzetta il procuratore della Repubblica Emilio Marzano giudica positivamente le parole del Presidente del Consiglio e invita il Comune di Bari ad accelerare le procedure per la demolizione della cosiddetta «saracinesca». Così venivano chiamati gli scheletri dei tre grattacieli sul lungomare Sud del capoluogo pugliese, la cui costruzione era stata dichiarata illegittima dalla Cassazione. Il Comune di Bari, guidato dal sindaco Di Cagno Abbrescia, non sembra per il momento avere intenzione di eseguire la sentenza contro la famiglia Matarrese.
Parla Raffaela Fazio, la mamma del ragazzo di 16 anni, ucciso per errore a Bari vecchia due mesi prima: un omicidio che ha sconvolto la città intera. «La morte di Michele appartiene a tutte le madri di Bari vecchia», si legge nell’intervista.
Sono queste, dunque, le notizie in primo piano su La Gazzetta del Mezzogiorno di ventuno anni fa, questi i principali argomenti di discussione nella nostra regione, mentre dall’altra parte del mondo si consumano attimi drammatici, che segneranno per sempre la storia dell’umanità. La mattina dell’11 settembre 2001 diciannove attentatori legati alla rete terroristica islamista di Al Qaida, che fa capo a Osama Bin Laden, prendono il controllo di quattro voli di linea partiti dagli aeroporti di Boston, Newark e Washington. Il primo aereo si schianterà contro la Torre nord del World Trade Center, il più affollato centro finanziario d’Occidente, nel cuore di New York; a distanza di un quarto d’ora un secondo aereo impatterà la Torre sud. Alcuni minuti dopo altri dirottatori dirigeranno un terzo aereo contro la facciata ovest del Pentagono. Precipiterà invece Pennsylvania, in aperta campagna, un ultimo velivolo che avrebbe dovuto colpire la Casa Bianca o il Campidoglio a Washington.
Quel giorno si conteranno circa tremila morti: la tragedia cancella per sempre il mito dell’inviolabilità del suolo americano e aprirà una lunga stagione di conflitti, inaugurata pochi giorni dopo gli attentati dal presidente Bush, che porterà all’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq.
Chiara Spagnolo per repubblica.it 12 settembre 2022.
La Corte d’appello di Bari ha condannato il Comune di Bari, la Regione Puglia e il Ministero Beni Culturali a risarcire per circa 9 milioni di euro la Sudfondi s.r.l. della famiglia Matarrese (oggi in liquidazione) per l'abbattimento dei palazzi di Punta Perotti.
La sentenza – a firma dei giudici Michele Prencipe, Emma Manzionna e Paola Barracchia è stata depositata oggi, in parziale accoglimento dell’appello presentato da Sudfondi contro la sentenza con cui il Tribunale aveva rigettato la richiesta di risarcimento.
La società era assistita dai professori Vincenzo Vito Chionna e Michele Lobuono con l’assistenza tecnica del dottor Ignazio Pellecchia e del professor Pierluigi Morano. Per valutare l’entità del presunto danno subito, la Corte d’appello si è avvalsa di una perizia dalla professoressa Gabriella De Giorgi dell'Università di Lecce, dall'ingegnere Raffaele Dell'Anna e dal commercialista Franco Botrugno, tutti salentini, per evitare possibili condizionamenti, come era stato evidenziato nell'affidamento dell'incarico.
Otranto e Punta Perotti: i tempi della giustizia disallineati dalla realtà. Capita, spesso e non volentieri, che decisioni e provvedimenti arrivino ad anni e anni di distanza dai fatti, lasciando così spesso interdetto l’uomo della strada. Mimmo Mazza su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Settembre 2022.
I tempi della giustizia non corrono praticamente mai paralleli a quelli della politica, della pubblica amministrazione e dei privati cittadini. Capita, spesso e non volentieri, che decisioni e provvedimenti arrivino ad anni e anni di distanza dai fatti, lasciando così spesso interdetto l’uomo della strada, estraneo per sua fortuna ai riti giudiziari e in qualche caso fuorviato da chi (stra)parla di giustizia a orologeria.
Gli ultimi due episodi giudiziari made in Puglia non fanno eccezione alla regola. A Otranto, carabinieri e finanzieri, su mandato dall’autorità giudiziaria leccese, hanno arrestato politici e imprenditori, accusati di far parte - addirittura - di una vera e propria associazione a delinquere per compiere vari reati contro la pubblica amministrazione, tentando di condizionare la vita politica cittadina e perfino quella nazionale, con ombre riguardanti le elezioni politiche nazionali del marzo del 2018, cinque anni fa. Anche buona parte degli ipotizzati reati fine della supposta associazione a delinquere sono datati nel tempo (2017-2018) pur essendo alcune delle vicende amministrative citate negli atti ancora in corso di svolgimento. Dunque, ci si chiede, perché tanta distanza tra i presunti reati e gli arresti? Bella domanda alla quale manca una risposta, soprattutto in punta di diritto perché tra le tante riforme della giustizia annunciate e fatte, nessuna ha mai toccato la carne viva della materia, ovvero i termini di rito. Continua ad essere possibile, senza che la cosa costituisca fonte di problematiche di alcun tipo, che un giudice per le indagini preliminari possa decidere su una richiesta di emissione di ordinanza di custodia cautelare, e cioè di privazione della libertà personale dell’indagato, in un giorno o in due anni, una tempistica che influisce, spesso irrimediabilmente, sia sulle esigenze cautelari stesse (pericolo di fuga, rischio di reiterazione del reato, inquinamento delle prove) che sul futuro processo, i cui termini di prescrizione camminano inesorabilmente dalla data di commissione del presunto delitto (ovvero dal 2017, nel caso di Otranto). Quindi, spesso va a finire che l’unica pena realmente scontata dagli indagati futuri imputati sia quella pre-sofferta nella fase delle indagini preliminari.
Attenzione, nessuno vuole sostenere che gli arresti di Otranto non andavano eseguiti; l’occasione, al contrario, serve a sollecitare maggiore sollecitudine nell’azione giudiziaria, munendola di tempi certi, di strumenti e risorse adeguate, per dare risposte celeri a chi chiede giustizia e maggiore tutela al bene pubblico giacché proprio nel caso di Otranto sembra emergere la persistenza di una gestione deviata della pubblica amministrazione per anni e anni malgrado i riflettori accesi dalla polizia giudiziaria.
Sempre ieri, la Corte d’Appello di Bari ha condannato Ministero della Cultura, Regione Puglia e Comune di Bari, in solido tra loro, al pagamento di quasi 8,7 milioni di euro (più rivalutazione in base agli indici Istat dal 2001 ad oggi) in favore della società Sudfondi srl in liquidazione, degli imprenditori Matarrese, come risarcimento del danno patrimoniale subito dall’abbattimento - avvenuto nel 2006 - dei palazzi di Punta Perotti, sul lungomare di Bari. A 16 anni di distanza, insomma, dall’abbattimento-show che fu trasmesso in diretta televisiva e a ben 27 anni dall’inizio dei lavori della lottizzazione, arriva una nuova decisione giudiziaria in una vicenda contrassegnata da sentenze spesso contrastanti. La lottizzazione fu ritenuta abusiva ma gli imprenditori furono tutti assolti (nel 2001) perché avevano ottenuto una regolare autorizzazione edilizia. I palazzi furono confiscati e demoliti nel 2006 ma quella confisca fu dichiarata illegittima dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La sentenza di ieri riconosce che il risarcimento stabilito dalla Cedu non copriva tutti i danni, riguardando unicamente la illegittimità della confisca e non l’accertamento della responsabilità in capo alle amministrazioni che avevano rilasciato le concessioni edilizie e autorizzazioni che avevano dato il via libera ai cantieri, e quindi dispone un ulteriore il ristoro per le spese sostenute per la progettazione, i costi pubblicitari, i pagamenti di Ici e oneri di urbanizzazione, gli oneri finanziari e parte dei costi di esecuzione dei lavori.
Una roba da far girare la testa e da generare confusione anche nei cittadini meglio informati. Senza considerare che la sentenza di ieri non è definitiva.
IL CASO. Punta Perotti, Comune di Bari, Regione e Ministero Cultura condannati a risarcire 8,5 mln. Corte d'Appello ribalta sentenza di primo grado, accolto ricorso della Sudfondi s.r.l. in liquidazione. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Settembre 2022
La Corte d’Appello di Bari (terza sezione civile) ha condannato Ministero della Cultura, Regione Puglia e Comune di Bari, in solido tra loro, al pagamento di quasi 8,7 milioni di euro (più rivalutazione in base agli indici Istat dal 2001 ad oggi) in favore della società Sudfondi srl in liquidazione, degli imprenditori Matarrese, come risarcimento del danno patrimoniale subito dall’abbattimento - avvenuto nel 2006 - dei palazzi di Punta Perotti, sul lungomare di Bari. I giudici hanno parzialmente accolto il ricorso della società, che aveva impugnato la sentenza con la quale il Tribunale di Bari, nel 2014, aveva rigettato la domanda dei costruttori. La vicenda ha inizio nel 1995, quando iniziarono i lavori della lottizzazione che poi fu ritenuta abusiva, ma gli imprenditori furono tutti assolti (nel 2001) perché avevano ottenuto una regolare autorizzazione edilizia. I palazzi furono comunque confiscati e demoliti nel 2006. L’illegittimità della confisca era già stata dichiarata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha riconosciuto un risarcimento complessivo di 49 milioni di euro (37 alla sola Sud Fondi), già liquidati, per il mancato godimento dei suoli negli anni della confisca, dal 2001 al 2010. L'odierna sentenza, come sollecitato dalla società, riconosce che il risarcimento stabilito dalla Cedu non copriva tutti i danni, riguardando unicamente la illegittimità della confisca e non l’accertamento della responsabilità in capo alle amministrazioni che avevano rilasciato le concessioni edilizie e autorizzazioni che avevano dato il via libera ai cantieri, e quindi dispone un ulteriore il ristoro per le spese sostenute per la progettazione, i costi pubblicitari, i pagamenti di Ici e oneri di urbanizzazione, gli oneri finanziari e parte dei costi di esecuzione dei lavori.
A rappresentare Sudfondi s.r.l. in liquidazione, il prof. avv. Vincenzo Vito Chionna e il prof. avv. Michele Lobuono con l’assistenza tecnica del dott. Ignazio Pellecchia e del prof. Pierluigi Morano. Il Comune è difeso nel giudizio dal prof. avv. Giorgio Costantino, e dall’avv. Nino Matassa.
IL SINDACO: “IL GIUDIZIO RICONOSCE UNA MINIMA PARTE DELLA CIFRA RICHIESTA DALL’AZIENDA E CHIARISCE RESPONSABILITÀ DI ATTI RISALENTI AGLI ANNI 90”
La Corte d’Appello di Bari ha reso pubblica la sentenza nel giudizio di secondo grado proposto dalla SudFondi con riferimento ai presunti danni derivanti dalla nota vicenda di Punta Perotti.
La sentenza, molto articolata e corposa, è in fase di esame da parte del collegio difensivo del Comune di Bari. Preme tuttavia far presente che la Corte d’Appello ha enormemente ridimensionato la richiesta della società costruttrice che ammontava a circa 540 milioni di euro. La Corte ha, inoltre, respinto la maggioranza delle richieste avanzate dalla SudFondi, accogliendo solo una parte della domanda, limitando il danno risarcibile a poco più di 8 milioni euro, oltre interessi.
La condanna - così limitata - è nei confronti in solido del Ministero dei Beni Culturali, della Regione Puglia e del Comune per atti amministrativi, adottati agli inizi degli anni 90. All’esito dell’esame della sentenza, il Comune valuterà l’eventuale impugnazione del provvedimento, il cui limitato esito negativo è ampiamente coperto dai fondi rischi appostati da questa amministrazione nel proprio bilancio.
“Nella fattispecie - spiega il sindaco - è bene chiarire che il Comune di Bari oggi è chiamato a farsi carico di responsabilità ascrivibili all’epoca in cui vennero rilasciati i titoli edilizi, risalenti agli anni 90. La sentenza chiarisce però inequivocabilmente che la richieste esorbitanti proposte dalla società costruttrice erano infondate per il 98%. Sarebbero infatti dovuti solo 8 milioni rispetto ai 540 milioni richiesti”.
IL PUNTO DI VISTA DEL PRESIDENTE EMILIANO
“Nessun dubbio sulla demolizione di Punta Perotti. La sentenza della Corte d’Appello di Bari ha condannato gli Enti convenuti in giudizio (Comune, Regione e Ministero) per aver consentito agli inizi degli anni '90 la realizzazione di Punta Perotti e non certo per aver disposto l’abbattimento. Quindi parliamo di responsabilità amministrative risalenti nel tempo.
Infatti, la Corte territoriale ha ritenuto che all’epoca della adozione (1990) e della approvazione (1992) delle due lottizzazioni e relativo rilascio della concessione edilizia (1994) il Comune non potesse farlo, perché lì non si poteva costruire, per la presenza dei vincoli di inedificabilità previsti dalla normativa regionale e statale vigente. Quindi i piani di lottizzazione non erano legittimi, perché privi della necessaria autorizzazione paesaggistica.
La Corte d’Appello ha ritenuto responsabili anche la Soprintendenza per i beni culturali ed ambientali (organo periferico del Ministero) e la Regione, per aver consentito il rilascio della concessione edilizia. Finalmente una parola chiara e, spero, definitiva sulle responsabilità politiche e amministrative di questa vicenda”. Lo dichiara il Presidente della Regione Puglia.
Punta Perotti: la famiglia Matarrese sarà risarcita per 9 milioni di euro dal Comune di Bari, Regione e ministero. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Settembre 2022.
La sentenza della Corte d'Appello di Bari ha accolto parzialmente l’appello presentato da Sudfondi contro la sentenza con cui il Tribunale aveva rigettato la richiesta di risarcimento per l'abbattimento dei palazzi
I giudici Michele Prencipe, presidente e relatore, Emma Manzionna e Paola Barracchia consiglieri della terza sezione civile della Corte d’Appello di Bari ribaltando la sentenza di primo grado del 2014 con cui Tribunale di Bari aveva rigettato la richiesta risarcitoria dei costruttori Matarrese, con una sentenza di ben 234 pagine, hanno condannato Comune di Bari, Regione Puglia e Ministero Beni Culturali al pagamento della somma di 8,5 milioni di euro in favore della Sud Fondi s.r.l. (società della famiglia Matarrese attualmente in liquidazione) assistita dall’ Avv. Prof. Vincenzo Vito Chionna e dall’ Avv. Prof. Michele Lobuon, che si sono avvalsi della consulenza tecnica del dottor Ignazio Pellecchia e del professor Pierluigi Morano, quale risarcimento dovuto per l’abbattimento dei palazzi di Punta Perotti, del danno patrimoniale subito, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal 2001 ad oggi.
La sentenza è arrivata oggi dopo un anno e mezzo da quando i giudici civili di secondo grado si erano riservati la decisione, avvalendosi di una perizia tecnica effettuata dalla professoressa Gabriella De Giorgi dell’Università di Lecce, dall’ingegnere Raffaele Dell’Anna e dal commercialista Franco Botrugno, tutti professionisti salentini, scelti al fine di evitare possibili condizionamenti, come era stato evidenziato dai giudici nell’affidamento dell’incarico.
La società Sud Fondi srl che faceva capo al gruppo Matarrese, era stata ammessa alla procedura del concordato per liquidazione di beni. L’azienda che aveva costruito una parte del complesso edilizio per salvarsi dalla bancarotta dovette vendere i suoi beni. E fra i beni che i commissari liquidatori volevano mettere sul mercato c’erano appunto i suoli di Punta Perotti, dove dopo la demolizione dei palazzi è stato realizzato il parco. I terreni di fatto sono di proprietà dei costruttori, tranne una parte come prevedeva il piano di lottizzazione sottoscritto fra il Comune e le aziende nel 1993 che era stata ceduta a Palazzo di città per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primarie e secondarie, come strade o aree verdi.
La teoria sostenuta dai Matarrese si basava sulla considerazione che in base al piano regolatore i suoli di Punta Perotti erano edificabili, ed i costruttori avevano legittimamente ottenuto le autorizzazioni in buona fede salvo scoprire, successivamente, che su quella lingua davanti al lungomare di Bari non si poteva costruire. L’elenco dei danni subiti è molto lungo: dall’acquisto dei suoli alle spese di progettazione sostenute dagli imprenditori; dall’Ici agli oneri di urbanizzazione pagati al Comune di Bari; dai lavori di costruzione alle fideiussioni in favore degli acquirenti, ai mancati ricavi, ecc.
Nel 2018 la Corte europea dei diritti umani aveva deciso il risarcimento per un appezzamento di 10.365 metri quadri a Punta Perotti, adiacente a quello dove sorgeva l’ecomostro (per la cui confisca l’Italia è stata condannata a Strasburgo nel 2009). “Si tratta di una sentenza uguale a quella del 2012 con cui già la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato lo Stato italiano a risarcire con 49 milioni di euro la società che aveva realizzato il complesso edilizio sul lungomare di Bari“, commentò a suo tempo l’ingegnere Michele Matarrese.
La vicenda di Punta Perotti
Risale al lontano 1979 il primo progetto di lottizzazione di Punta Perotti , ma furono necessari 13 anni per l’approvazione dei piani proposti dalle aziende dei gruppi imprenditoriali Andidero, Matarrese e Quistelli. La concessione edilizia per la realizzazione dei vari blocchi, destinati a residenza e terziario, venne rilasciata nel 1995 e con l’avvio dei cantieri si attivarono le polemiche e le proteste di cittadini e di presunti movimenti ambientalisti.
Nel 1997 la Procura di Bari dispose il sequestro del il cosiddetto ecomostro “saracinesca sul mare” come la definirono, bloccando i lavori nei cantieri e disponendo il dissequestro dei suoli dopo il ricorso degli imprenditori, . Ma due anni più tardi al termine di un processo celebrato con rito abbreviato, venne ordinata la confisca del complesso edilizio, ritenendo la costruzione “abusiva”, mentre incredibilmente gli imprenditori furono assolti “perché il fatto non costituisce reato” con una sentenza più che controversa.
L’ assoluzione venne confermata anche in appello nel 2000, con revocatoria del precedente provvedimento di confisca. La demolizione venne autorizzata nel 2005, effettuata in tre giorni: il 2, 23 e 24 aprile 2006. Quell’area diventò in seguito il “Parco di Punta Perotti”. Nel 2010 la confisca dei suoli venne revocata e restituiti alle imprese, con una sentenza che impose il risarcimento a queste ultime.
Il Gup dispose la restituzione dei terreni alle imprese che subirono la confisca, al termine del processo per lottizzazione abusiva, mentre era passata in giudicato la sentenza che aveva dichiarato abusiva la lottizzazione. Nel maggio 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo si era già pronunciata sulla vicenda e aveva condannato lo Stato italiano a pagare 49 milioni alle imprese che avevano progettato Punta Perotti. Redazione CdG 1947
Viaggio assolutamente incompleto dei locali notturni della città negli anni ‘80. Roberto Calpista e Francesca Di Tommaso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Agosto 2022
I tempi lontani della Milano del Sud tra divertimento, soldi e notti esagerate
«Ognuno di noi ha un ricordo sbagliato dell’infanzia. Sai perché diciamo sempre che era l’età più bella? Perché in realtà non ce la ricordiamo più». Jean-Luis Trintignant nel film «Il Sorpasso», riporta in qualche maniera ai vitelloni della Bari da bere degli anni ‘80-‘90. Quelli che quasi mezzo secolo fa stazionavano davanti agli stessi bar davanti ai quali stazionano oggi, meno capelli, panzetta, ma tra le rughe volti noti.
Lontano il tempo della Milano del Sud, con i commercianti che accumulavano patrimoni bestiali, le Porsche, le ville perse a carte. La Bari by night, con la città vecchia considerata, spesso a torto, un buco nero da cui tenersi alla larga. Dopo il lavoro, se c’era, si andava dal Camelot allo Snoopy, dal Renoir allo Stravinsky al Cellar. Ma all’inizio fu quel locale in corso Vittorio Emanuele, roba da strafighi/fatti. Ragazzine in cerca del buon partito, madri pronte al «sacrificio» pur di farglielo trovare. I soldi giravano mescolati all’alcol e alla cocaina, roba da ricchi.
Dentro i vip, tra arricchiti e sanguisughe, fuori il grigio di tempi malati. L’eroina in vena quotidianamente si portava via qualcuno. I fascisti sprangavano i rossi e i rossi rispondevano con ferocia. C’erano i topini e le Vespe Special con l’adesivo di Tomato o Fruit of the loom andavano a ruba. Dentro si sudava protetti da uno stuolo di «lei non sa chi sono io» per bloccare sul nascere eventuali controlli. C’erano le discoteche nere per l’acchiappo. E quelle della sinistra, dove pure. E c’erano i locali «misti», levantini, amici per una sera, poi si vede.
Oggi la Gazzetta di Bari dedica un’intera pagina a quei templi, ormai sbarrati, del divertimento notturno. E lo fa con un amarcord che riporta ad un’altra frase del «Sorpasso». Vittorio Gasmann: «Robè, che te frega delle tristezze. Sai qual è l’età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno c'ha giorno per giorno». [roberto.calpista]
BARI - Era il 1980 o giù di lì: Bari ballava. Non tanto la febbre del sabato sera, non solo giovanissimi, non per forza disperati e sballati. Nasceva il popolo della notte. Città e provincia fremevano di locali che aprivano dalla sera alla mattina e spesso con la stessa rapidità si reinventavano, cambiavano gestione, età della clientela, genere musicale. Le discoteche, i club, i privè: sono gli anni del Cellar, del Raimbow, del Renoir, dello Snoopy, del Camelot. E dell’Altro sottano, del Cellar, del Kabuki.
A quei tempi gli assembramenti non facevano paura tanto meno erano vietati. Un’onda di professionisti, di cultori della musica, di imprenditori che quasi non si rendevano conto del valore aggiunto che hanno dato, ognuno a suo modo, alla città e a generazioni ora nostalgicamente cullate dai ricordi. E dalla musica, quella che ti resta dentro comunque.
Ma Bari adesso non balla più?
LA NOTTE E' CAMBIATA - «La Notte non è morta, è solo cambiata - è il commento di Pasquale Trentatre, storico dj e non solo -. E forse non sono le discoteche ad essere morte, è il popolo delle discoteche che è scomparso. Sono cresciute le comunità virtuali, la musica online ha fatto sì che non ci fosse più bisogno di luoghi specifici per ritrovarsi e riconoscersi. È caduto il mito delle cattedrali del divertimento notturno. Ora che ci sono le piazze del web a che serve pagare un biglietto, passare la selezione all’ingresso, mettersi in macchina e rischiare punti sulla patente?».
I LUOGHI - Una delle prime grandi discoteche di quegli anni è lo Snoopy, a Bitritto. Si contende presto gli «spazi» con il Camelot, a Mungivacca. «Lo Snoopy è nato il 4 ottobre 1980 e ha chiuso l’estate del 1997 - racconta Michele Ranieri. Con Vito Saliani, aprirono la discoteca, tra le prime all’avanguardia, in quello che era un ex cinema. -. Aveva una capienza omologata per 800 persone, e si cominciava alle nove di sera. Ma la fila, fuori, era già lunga da ore». «Maxi luci, scenografie d’effetto, consolle frequentata da dj come Marco Trani, scomparso nel 2013, Enzo Veronese, Maurizio Laurentaci… Il nostro compito era stupire i clienti. La musica era dance, funky, discomusic. Il sabato ci inventammo i due turni, dalle 20 alle 12 per i minori entro i 18 anni dall’una in poi». Lo Snoopy ‘80 poi diventò ‘90 e infine cedette il posto al Demode. Che in seguito si è ulteriormente trasferito, da Bitritto è arrivato a Modugno.
La girandola dei locali, non solo del cambio di nome, non potrà mai essere precisa e soprattutto esaustiva: dove prima c’era il Rainbow (poi Stravinsky), in corso Alcide de Gasperi, ora c’è un ristorante etnico. Villa Renoir, dalle parti di Santa Caterina, è diventata una Gaming Hall. A Poggiofranco, di fronte all'ospedale Giovanni Paolo II, un garage ha preso il posto del Neo-club. Il Kabuki, zona ateneo, si occupa solo di feste private; L'altro sottano, elegante e cittadino su corso Vittorio Emanuele, poi Privè, non c'è più. Resiste dopo fasi alterne The Cellar Club, pare risalga al '54 e si sia esibita anche Rita Pavone. «In città, i locali dove si ballava avevano quasi tutti la formula del club privato: socio tesserato che poi pagava il biglietto di ingresso - spiega Pasquale Dioguardi, organizzatore eventi, presidente Asso operatori locali da ballo e locali notturni aderente al Cna -. Non sempre avevano l'autorizzazione per pubblico spettacolo, motivo per cui i controlli portavano a chiusure o multe».
Spoetizzando in maniera spietata, erano scantinati deluxe nei quali, con la tessera di socio, si aggirava il rispetto della capienza e dell’eventuale presenza o assenza di uscite di sicurezza. Ma prima di tutto erano luoghi di aggregazione, di condivisione, di socialità. Dove gestori, organizzatori, dj muovevano il popolo della notte negli anni in cui i film si guardavano noleggiando i VHS, le foto si «portava il rullino a sviluppare» e si aspettavano settimane prima di poterle vedere; le telefonate si facevano dal telefono fisso di casa oppure a gettone dalla cabina telefonica. E i dischi erano in vinile. «Nel '93 edizione Panini ha realizzato persino un album di figurine “Discoteche d'Italia” - racconta divertito Pasquale Trentatre -. C'è da dire che già con l'apertura del gOrgeOus, (2000-2007) di cui ho curato la direzione artistica per 7 anni, benché il locale, anche ristorante, facesse sold out tutte le sere, mi accorsi che qualcosa stava cambiando. Le grandi discoteche le tentavano tutte per realizzare spazi ridotti o privè selezionati con ospiti noti del mondo del cinema, teatro, moda. Piano piano la maxi discoteca rimaneva sempre più solo un involucro vuoto e il suo brand veniva utilizzato come simbolo più che come reale offerta artistica».
Ora la formula è quella delle feste private, in buona pace dei diritti d'autore. «Adesso - continua Trentratre -, per funzionare devi creare l’occasione, il grande evento, il pretesto per radunare clienti che non arrivano più in automatico. Con l’avvento dei social network, i ragazzi si organizzano molto velocemente, magari acquistano voli low cost e con gli stessi soldi di un sabato sera in discoteca di qualche anno fa, ora raggiungono luoghi e piazze in diversi paesi Europei.
LA PROPOSTA - Un'idea potrebbe essere la gestione condivisa delle maxi discoteche con le grandi organizzazioni internazionali, come fanno in Spagna. In pratica si cedono "le mura" del locale a gruppi che organizzano feste e incontri di grande richiamo per rendere le discoteche dei templi provvisori, dei contenitori che si riempiono di volta in volta con gli appassionati più diversi riuniti grazie ai social network». Bari e le sue notti non smetteranno mai di ballare.
Il Consiglio di Stato boccia il sindaco di Bari sul termovalorizzatore. Annarita Digiorgio il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.
Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso del Sindaco di Bari Antonio Decaro contro la realizzazione del termovalorizzatore Newo il cui iter autorizzativo era stato presentato nel 2016.
Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso del Sindaco di Bari Antonio Decaro contro la realizzazione del termovalorizzatore Newo il cui iter autorizzativo era stato presentato nel 2016. Eppure proprio Decaro due giorni fa sul palco della kermesse organizzata da Nicola Porro lamentava l'accoglimento del Tar dei ricorsi dei comitati contro i progetti del Pnrr, poi velocizzati con un decreto del governo Draghi. Contrario anche il governatore Emiliano, che in un tweet scriveva: «Sono contrario all'impianto Ossicombustione di Modugno e alla sua realizzazione che stiamo cercando di scoraggiare in ogni modo». Eppure la Puglia ne ha estremo bisogno: da settimane gli impianti sono saturi e costretti a rallentare il conferimento dei rifiuti per il sottodimensionamento dei termovalorizzatori pugliesi, e a ogni emergenza Michele Emiliano emana un'ordinanza contigibile e urgente per mandare il css in discarica invece di recuperarlo a energia.
Gli unici due termovalorizzatori furono realizzati dalla giunta Fitto. Mentre continuano a farla da padrone le discariche, che accolgono persino i rifiuti di Roma. Per questo sarebbe utilissimo il termovalorizzatore di Bari, osteggiato da tutti i sindaci della zona, compreso il draghiano Decaro, uno dei primi ad aver firmato l'appello per spingere il premier a restare al governo. Che si è dimesso proprio per le proteste di Conte contro il termovalorizzatore di Roma.
Tra l'altro quello di Bari è un progetto a ossicombustione, ovvero senza fiamma, che consente la cattura e lo stoccaggio dell'anidride carbonica con meno emissioni: è il modello preso a riferimento da Beppe Grillo e Virginia Raggi per Roma. E invece cosi ha commentato ieri Decaro la sentenza del Consiglio di Stato: «Ho chiesto ai legali di convocare una riunione con tutte le parti che come noi si sono opposte al provvedimento. Insieme valuteremo compiutamente gli effetti della sentenza e le azioni da intraprendere». Farà dimettere il prossimo governo
Tossicodipendenza da frutti di mare. Al Pronto Soccorso del Policlinico hanno cercato di far ragionare un posseduto giovane che continuava a spolpare cozze tra una vomitata e l’altra. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2022
Difficilmente un drogato sarà chiaro con sé stesso definendosi dipendente dalla sostanza. È così con l’eroina, cocaina, alcol. E lo stesso vale anche per i frutti di mare. Il tossico perduto nei paradisi ittici artificiali si cela nell’ambiguità. Eppure, basta guardarlo, seguire l’itinerario al quale lo piegano il taratuffo, la tagliatella e il riccio di mare per capire che le spese astronomiche con cui s’è rovinato, altra peculiarità da tossicodipendenza conclamata, celebrano una schiavitù negata perfino al pusher che gli gabella cozza greca per mitile di Taranto.
Signore, aiuta questi lieti infelici dalle viscere infettate. Per quanto anche San Nicola avalli il peccato, da quando i sacerdoti russi per primi sono diventati la cuccagna degli spacciatori di Nderre a’ la lanze. Il tossicomane spende fino a 20-30 euro due o tre volte a settimana. Il tossicodipendente – grado di malattia radicata – sei (il lunedì ‘sti stronzi di pescivendoli chiudono): 400-700 euro ogni mese che passa. Lo riconosci dallo sguardo febbrile con cui esamina i cadaveri coriacei o arricciati, di negozio in negozio, illudendo ogni titolare di essere «l’unico di cui ci si può fidare». Se al mattino si è ripromesso che è l’ultima volta, a pranzo è già in piedi sul lavabo a impestarsi la bocca di magnotte a 24 carati con bruto digrignare. Senza citare l’alleanza che, al pari degli eroinomani e dei cocainati, stringe con la criminalità: spaccio illegale di taratuffi (driin, «dottore la vaschetta di patelle sta pronta»), di schiuma di mare (drìn-drìn, «dottore è arrivata la paranza»), e finanche di datteri (drin, «dottore, ho messo da parte i limoni»).
Il tossicodipendente dai frutti di mare non è un ominicchio. È un uomo che sa soffrire, persevera anche quando per le coliche o la nausea, che domina con tempra d’Aiace, dovrebbe sospendere per poi ricominciare. Al Pronto Soccorso del Policlinico hanno cercato di far ragionare un posseduto giovane che continuava a spolpare cozze tra una vomitata e l’altra. E io ti lodo, ragazzo! Perché se pure morremo a causa di complicazioni gastrointestinali, se pure finiremo sul lastrico, quand’anche stramazzassimo su un tappeto di tarantine a mezzo guscio (più belle e seduttive delle stesse ragazze di quelle parti), o di aculei che difendono polpa di corallo, fratelli, amici, compagni, camerati, questa per noi sarà la fine più grande. Perché nascemmo e morimmo di Bari.
Quando si ululava a Bari «uè la biòoond’!» Il grido si perse nel vuoto. Tanti anni fa, quando Lino Banfi non poteva essere denunciato per omofobia, né l’antifascista Charlie Chaplin processato per maschilismo. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Luglio 2022.
«Uè la biòoond’!». Il grido si perse nel vuoto. Tanti anni fa, quando Lino Banfi non poteva essere denunciato per omofobia, né l’antifascista Charlie Chaplin processato per maschilismo, a Bari si udiva il verso belluino «uè la biònd’!» emesso da gole topinesche (di ladruncoli giovani), ma anche di onesti cittadini. La bionda non era un essere umano bensì un mito. E nasceva dalle radici della nostra interpretazione del bello, la grecità che ne diffuse il culto nelle armi e nell’aspetto, e quindi la cristianità che ne ampliò il solco nel simbolismo del Rinascimento, la mistica elisabettiana, fino ai Trenta e ai Cinquanta del Novecento. Perciò le bionde, avanzando come sirene nelle strade ancora prive delle strisce blu utilizzate per estorcere pedaggi agli automobilisti, controllate da vigili urbani comprensivi, venivano richiamate con esaltazione dai ragazzi sui Vespini, obbligate a una reazione pressoché divistica (naso all’insù e sguardo dritto, o un vaff… con tanto di offese ai morti), quando non sfiorate sui glutei da mani adesive con piegamento acrobatico sulle selle, simile a quello dei giocatori di polo intenti a colpire la palla di legno con le stecche.
«Uè la bbbiòoond’!» con le tre bi indicava chiaramente, più che l’arrapato, il corteggiatore disperato che anelava colei che agli occhi suoi era Afrodite di Cnido, se non meglio. Ma tale culto aveva una motivazione molto semplice. Fino agli Anni ’90 e oltre le ragazze a Bari non erano belle e spesso vichinghe come adesso. Raggiungevano in media il metro e mezzo, erano nere, le mutazioni auree rarissime, e se ossigenate lo si arguiva dal platinato anticorodal riflettente. Se poi ci si spostava nell’entroterra, Noci, Altamura (patria del nanoforme Homo neanderthalensis), Turi, si scendeva all’1,30, e in quella misura ci stava tutto, seno, sedere (uniche cose di interesse per il maschio tufo e primitivo) e pure un feto, se il fidanzato aveva «sbagliato», come si diceva.
Oggi se ululi «uè la bionde!» nelle strettoie (ex strade) sulla bici elettrica ecologica dalle batterie inquinanti, prima di tutto nessuno capisce: che ha detto, che vuole quello? Subito dopo ti incatenano per stupro preterintenzionale. Ma non si dimentichi che se ci sono stati scultori e pittori, aedi e trovieri che hanno esaltato nudità sericee, chiome irradianti bagliori d’ambra, cascami di riccioli avvolti in riflessi di zecchino, vi furono pure poeti di strada fra i baresi.
L’antropologia della «Schifa». La «Schifa» è un soggetto diverso dalla comune moglie arricchita. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Giugno 2022
La «Schifa» è un soggetto diverso dalla comune moglie arricchita. Eroina del darwinismo utilitaristico, d’estate frequenta lidi a portata di zampa quando sta a Bari, appena parte, sabbie costose quanto granelli di argento. Non divorzia, non può essere single. Belloccia, mediocre o bruttina ha dai 40 ai 60 anni, ma anche sui 35 se ha programmato il futuro agiatissimo con preveggenza di pizia. Non pensa: agisce, l’azione in lei è filosofia. Si espone sul lettino per ore ai raggi che le conferiscono un colorito da mummia egizia. Mascella immota, braccia conserte, deretano atteggiato a guisa di trono che ondeggia quando cammina lungo la battigia. Gambe modellate da schiave estetiste, un tatuaggio piccolo o niente, unghie laccate dalla moda del giorno, della settimana o nei casi peggiori del mese. Anelli squillanti di griffe e soprattutto un marito sfondato di euro, dal QI 0,7, sorriso furbo ebete, andatura fra il tubista e il laureato-post mediante mazzetta.
Viene dalle classi bassa o media dalle quali si eleva bigliettone di euro su bigliettone di euro. Da quando Putin è spuntato nelle nostre esistenze, con le amiche «Schife» lamenta tirchiaggini del consorte dai polsi carichi di braccialetti: «Siamo arrivati a 11.000 euro per una vacanza. E se risparmiamo 4.000 rispetto a prima che cambia?». «Io sono una persona di stimoli, non posso andare sempre allo stesso posto». «Sono sicura che Antonio tiene la commara, se ne andasse da quella». «Scusa, che te ne frega?». «Niente, tanto sempre a me mi deve portare i soldi. Ma va sempre in Romania: e ai figli l’affetto?!».
Se ti avvicini alla Schifa ella ti squadra schifandoti con sopracciglio di strega: chi sei? Quanti soldi tieni? Che macchina tieni? Se le regali un libro ti denuncia ai carabinieri: «Un molestatore si è avvicinato offrendomi una cosa strana di carta, credo un toy per fare sesso». È semi-fedele: meglio i soldi del sesso. Ha un perpetuo grugno di seccatura sul muso bronzeo che tiene. In vacanza mangia soltanto aria, sali marini, espressino: è sempre a dieta. Anche se si trova a Dubai per fare i selfie con gli sceicchi, vola a Bari dal visagista per rimpinguarsi lo zigomo di botulino. Se litiga con il consorte si sfoga con l’amica Schifa e si cazza in shopping 3.000 dei di lui euro (tiene la carta). Ha papille di fiele, di tutti i baresi che contano sa tutto il peggio che c’è da sapere. Del meglio, briciole. Arcigna, basica, irresistibile, immarcescibile nella sua statua di «Schifa».
Bari, l'impero Matarrese crolla nella lite di famiglia: cosa c'è dietro l’indagine per bancarotta. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 ottobre 2022.
Solo dieci anni fa dominavano il mondo delle costruzioni del Sud, sedevano in Parlamento, tiravano le redini del calcio da Bari fino all’Europa. Amavano definirsi i Kennedy di Puglia, acquartierati nella palazzina di Japigia in cui a ciascun piano corrispondeva un fratello, un fortino dove per generazioni sono stati decisi affari e destini. Ma la parabola discendente dei Matarrese ha toccato il fondo in una calda mattina d’autunno. Il punto d’arrivo, o forse quello di partenza, di una amara faida di famiglia.
È da qui che conviene partire per capire cosa è accaduto negli ultimi due anni e perché ieri mattina la Guardia di Finanza, su ordine dei pm baresi Lanfranco Marazia e Desirèe Digeronimo, ha perquisito le abitazioni e gli uffici dei fratelli Amato e Antonio, 79 e 82 anni, e dei nipoti Salvatore, 60 anni, e Marco, 49, entrambi figli di Michele, accusati di concorso in quattro episodi di bancarotta fraudolenta insieme a quattro amministratori delle società del gruppo (Valerio De Luca, 61 anni di Surbo, Oronzo Trio, 42 anni di Lecce, Lello Pellecchia, 53 anni di Bari, e Marco Mandurino, 49 anni di Bari). Secondo chi indaga avrebbero provocato il fallimento di una delle società del gruppo, la Icon, e avrebbero tentato di svuotare la Finba, la holding di famiglia che fa capo ai quattro fratelli maschi e che a cavallo degli anni 2000 controllava un impero da mille miliardi di lire...
Perquisizioni nelle sedi e nelle abitazioni dei costruttori. L’indagine nata dopo l’avvio del concordato. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 4 ottobre 2022.
Il fallimento di alcune società della famiglia Matarrese di Bari sarebbe stato causato da atti contrari alla legge, con un «buco» da oltre 20 milioni ai danni del fisco e dei fornitori che si somma ad altri debiti già accertati per oltre 300 milioni. Per questo la Finanza sta eseguendo perquisizioni nelle abitazioni e negli uffici degli imprenditori baresi, accusati a vario titolo e secondo le rispettive responsabilità di quattro episodi di bancarotta fraudolenta per dissipazione. L’inchiesta è condotta dalla Procura di Bari con i pm Lanfranco Marazia e Desiree Digeronimo. Le indagini sono partite a seguito dell’istanza di concordato preventivo presentata per la società Icon di Acquaviva, fornitrice di materiali da costruzione alle altre società del gruppo Matarrese, dichiarata fallita in aprile su richiesta degli stessi commissari nominati dal Tribunale di Bari, che hanno rilevato la «svendita» di alcuni beni della società . Gli indagati sono otto: Amato, Antonio (ex presidente della Figc e della Lega calcio, nonché vicepresidente della Fifa e della Uefa), Salvatore (nato nel 1962) e Marco Matarrese, insieme ad altri amministratori delle società del gruppo: Valerio De Luca, 61 anni di Surbo, Oronzo Trio, 42 anni di Lecce, Lello Pellecchia, 53 anni di Bari, e Marco Mandurino, 49 anni di Bari. I militari stanno acquisendo tutta la documentazione contabile prodotta dal 2016 a oggi, sequestrando anche pc e cellulari.
Dall’indagine che ha portato oggi alle perquisizioni nei confronti degli imprenditori Matarrese emerge - secondo la Guardia di Finanza - che l’esposizione debitoria del gruppo edile barese è di circa 70 milioni, mentre le distrazioni patrimoniali ammontano ad oltre 20 milioni. Secondo l’accusa, attraverso alcune operazioni straordinarie fatte dal gruppo Matarrese sono stati trasferiti asset di rilevante valore economico a un prezzo notevolmente inferiore a quello di mercato. Trasferimenti a favore di società riconducibili sempre alla famiglia e ad un imprenditore leccese ritenuto compiacente che opera nello stesso settore.
LA FAMIGLIA MATARRESE: NOSTRI COMPORTAMENTI LEGITTIMI
«La famiglia Matarrese, ribadendo l'assoluta legittimità e liceità dei comportamenti tenuti dalle società interessate e dai relativi organi di gestione, confida pienamente nell’operato dell’autorità giudiziaria». Lo affermano in una nota gli imprenditori del gruppo edile barese dopo le perquisizioni e le acquisizioni compiute oggi dalla Guardia di Finanza che indaga su un presunto crack di oltre 20 milioni di euro. «La famiglia Matarrese - prosegue la nota - a chiarimento delle notizie apparse sugli organi di stampa in merito alle iniziative investigative e giudiziarie che interessano alcune società del Gruppo stesso, precisa che queste iniziative hanno comportato la sola acquisizione di documentazione ritenuta utile ai fini dell’indagine. Pertanto, le società del Gruppo interessate sono e restano pienamente operative nella loro autonomia».
Perquisizioni delle Fiamme Gialle nelle abitazioni ed uffici della famiglia Matarrese: ipotesi di bancarotta fraudolenta. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Ottobre 2022.
Le indagini odierne della Procura di Bari sono scaturite in conseguenza dell’istanza di concordato preventivo presentata per la società Icon di Acquaviva, fornitrice di materiali da costruzione alle altre società del gruppo Matarrese, dichiarata fallita in aprile su richiesta degli stessi commissari nominati dal Tribunale di Bari, che hanno rilevato la "svendita" di alcuni beni della società .
La Guardia di Finanza su delega dei pm Desiree Digeronimo e Lanfranco Marazia della Procura di Bari sta eseguendo perquisizioni nelle abitazioni e negli uffici degli imprenditori baresi, acquisendo tutta la documentazione contabile prodotta dal 2016 a oggi, sequestrando anche pc e cellulari, accusati a vario titolo e secondo le rispettive responsabilità di quattro episodi di bancarotta fraudolenta per una presunta dissipazione nel fallimento di alcune società della famiglia Matarrese di Bari che sarebbe stato causato da atti contrari alla legge, con un “buco” da oltre 20 milioni ai danni del Fisco e dei fornitori che si aggiunge ad altri debiti già accertati per oltre 300 milioni. I pm hanno disposto il sequestro dei supporti informatici al fine di ricostruire le operazioni finanziarie, natura e destinazione dei fondi impiegati, e con lo scopo di definire il ruolo degli indagati e di eventuali altre persone.
Doveroso ricordare i circa 150 milioni di patrimonio familiare complessivo messi a disposizione nel 2013 dalla famiglia Matarrese per la ristrutturazione del debito (che era in totale 120 milioni) e per il rilancio dell’attività industriale. Due operazioni che andavano di pari passo e per le quali il gruppo si era affidato a consulenti di provata esperienza: Vitale & Associati, banca d’affari milanese, advisor finanziario per la definizione di una proposta di ristrutturazione del debito coerente con le aspettative di sviluppo definite dal piano di risanamento; e Kpmg Corporate Finance, che a quel piano industriale sta lavorando sul fronte della «sostenibilità numerica». Un piano che prevedeva un accorpamento societario delle oltre 50 società in tre divisioni principali: costruzioni; conglomerati bituminosi e asfalti; immobiliare.
Quella illustrata a suo tempo alla banche creditrici, le tre più esposte erano Mps, BancApulia e Bnl , era una vera e propria “manovra finanziaria”. A introdurla agli interlocutori fu il capostipite della famiglia, cioè Michele Matarrese che dando la parola al figlio Salvatore gli ha anche passato il testimone: dal 2014, una volta avviato sui binari giusti il piano (che esplicherà i suoi effetti in 4-5 mesi), ha assunto la carica di amministratore delegato e formalmente le redini del gruppo.
Salvatore Matarrese, secondo quanto trapelò dalle stanze della sede del gruppo, garantì alle banche che avrebbero onorato ogni impegno. Per garantire il buon fine della ristrutturazione del debito (sia nei confronti delle banche, sia nei confronti dei fornitori) e rilanciare la Salvatore Matarrese spa, venne messo a disposizione l’intero patrimonio familiare, tutte le risorse disponibili all’interno e all’esterno del gruppo, chiedendo fiducia e tempo. Fiducia, perché invita gli istituti di credito ad astenersi dall’intraprendere «azioni ostili» nei confronti delle società del gruppo, volte al recupero dei crediti; tempo, perché con la promessa di pagare tutto, chiede anche di allungare la debitoria.
Un esempio su tutti: circa la metà dei 37 milioni di risarcimento per la vicenda Punta Perotti vennero anticipati da due istituti di credito, ma successivamente Matarrese chiese di non restituire subito quei 20 milioni, nonostante la disponibilità, proprio per faf fronte all’appesantimento finanziario generato dall’abbattimento di quelle costruzioni. Nel debito da ristrutturare non era compreso quello dell’ A.S. Bari Calcio che ha avuto un peso non irrilevante nella crisi del gruppo, considerato che ogni anno è stata necessaria una ricapitalizzazione di 5-6 milioni di euro, fino a un massimo di 11, che ha sottratto risorse alla Salvatore Matarrese spa.
La crisi del gruppo Matarrese era una crisi di liquidità e per questo il nodo principale era quello di rinegoziare i rapporti con banche e fornitori, avendo un portafoglio commesse pieno per un totale di 350 milioni e quindi, come Salvatore Matarrese coadiuvato dal responsabile legale Giuseppe Matarrese aveva spiegato alle banche occorreva solo del tempo. Tanto più che le principali commesse sono ripartite, dall’ampliamento a tre corsie dell’A14 Bologna-Taranto nel tratto tra Senigallia e Ancona Nord (in precedenza bloccato per 15 mesi) all’ospedale di Alba, in provincia di Cuneo.
La famiglia Matarrese, mettendo a disposizione l’intero patrimonio per la ristrutturazione del debito e il rilancio, dimostrò di credere nella ripresa del settore industriale, nelle prospettive dei grandi lavori pubblici. Nel nuovo piano si prevedeva anche un importante rilancio dello sviluppo immobiliare, in particolare a Bari: aspettando Punta Perotti (se e quando sarà possibile ricostruire), sono pronti a essere sviluppate — così come venne spiegato agli istituti di credito — importanti volumetrie: dalla zona industriale al lungomare (di fronte al porto).
Le indagini odierne della Procura di Bari sono scaturite in conseguenza dell’istanza di concordato preventivo presentata per la società Icon di Acquaviva (fornitrice di materiali da costruzione alle altre società del gruppo Matarrese) dichiarata fallita in aprile su richiesta degli stessi commissari nominati dal Tribunale di Bari, che hanno rilevato la “svendita” di alcuni beni della società .
Gli indagati sono otto in totale: Amato Matarrese, Antonio Matarrese (in passato ex presidente della Figc e della Lega calcio, ed ex vicepresidente della Fifa e della Uefa), Salvatore Matarrese (nato nel 1962) e Marco Matarrese, insieme ad altri amministratori delle società del gruppo: Valerio De Luca, 61 anni di Surbo, Marco Mandurino, 49 anni di Bari, Lello Pellecchia, 53 anni di Bari, e Oronzo Trio, 42 anni di Lecce. Le società finite al centro degli accertamenti della finanza sono state la Betonimpianti srl, Ecoambiente srl, Finba spa, Immobiliare costruzioni spa, Icon srl, Matarrese srl, Sodelva srls, Super Beton srl, Strade e condotte spa.
L’iniziativa odierna della Procura di Bari avviene dopo la sentenza favorevole ai Matarrese per la vicenda dell’illegittima demolizione di Punta Perotti, e dopo che nel 2018 la Corte europea dei diritti umani aveva deciso il risarcimento per un appezzamento di 10.365 metri quadri a Punta Perotti, adiacente a quello dove sorgeva l’ecomostro (per la cui confisca l’Italia è stata condannata a Strasburgo nel 2009). “Si tratta di una sentenza uguale a quella del 2012 con cui già la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato lo Stato italiano a risarcire con 49 milioni di euro la società che aveva realizzato il complesso edilizio sul lungomare di Bari“, commentò a suo tempo l’ingegnere Michele Matarrese. Solo una coincidenza ?
La replica dei Matarrese
A chiarimento delle notizie apparse sugli organi di stampa in merito alle iniziative investigative e giudiziarie che interessano alcune società del Gruppo stesso, la famiglia Matarrese con una nota precisa che “queste iniziative hanno comportato la sola acquisizione di documentazione ritenuta utile ai fini dell’indagine. Pertanto, le società del Gruppo interessate sono e restano pienamente operative nella loro autonomia“.
La famiglia Matarrese, “ribadendo l’assoluta legittimità e liceità dei comportamenti tenuti dalle società interessate e dai relativi organi di gestione. Confida pienamente nell’operato dell’autorità giudiziaria“.
Redazione CdG 1947
Crac per fondi a Bari Calcio, a giudizio imprenditori Matarrese. Michele, Antonio e Amato saranno processati dal 5 novembre per il reato di concorso in bancarotta fraudolenta e documentale. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Giugno 2022.
La gup del Tribunale di Bari Valeria Isabella Valenzi ha rinviato a giudizio i tre imprenditori baresi Michele, Antonio e Amato Matarrese, rispettivamente presidente, amministratore delegato e consigliere della società 'Salvatore Matarrese spà (SM), e Antonio anche nel suo ruolo di vicepresidente della AS Bari Calcio dal luglio 2010 al giugno 2011. I tre saranno processati dal 5 novembre per il reato di concorso in bancarotta fraudolenta e documentale. Contestualmente all’udienza preliminare la giudice ha assolto "per non aver commesso il fatto» l’unico imputato che aveva chiesto il rito abbreviato, il 60enne Salvatore Matarrese, procuratore della società SM dal 2008 e consigliere della AS Bari Calcio dal 2002 al 2011, assistito dagli avvocati Domenico Di Terlizzi e Amleto Carobello.
La stessa pm, Larissa Catella, aveva chiesto l’assoluzione. I co-imputati rinviati a giudizio, secondo l’accusa, avrebbero contribuito a causare il dissesto della società FM per finanziare tra il 2011 e il 2013 la società AS Bari Calcio, controllata prima all’89,99% e poi al 99,99% dalla SM e in stato di crisi già dal 2010, con l’obiettivo di consentirle «il rispetto dei termini e delle condizioni previste dalle norme organizzative interne della Figc per l’iscrizione della squadra al campionato nazionale».
I fratelli Matarrese a processo per il fallimento della Sm, che aveva investito e distratto oltre 20 milioni nel Bari calcio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Giugno 2022.
il Gip Valeria Isabella Valenzi contestualmente ha assolto "per non aver commesso il fatto" l’unico imputato che aveva chiesto il rito abbreviato, Salvatore Matarrese, 60 anni, procuratore della società Sm (Salvatore Matarrese) dal 2008 e consigliere della As Bari Calcio dal 2002 al 2011.
Tre noti imprenditori baresi Michele, Antonio e Amato Matarrese rispettivamente presidente, amministratore delegato e consigliere della Sm (società Salvatore Matarrese): Antonio anche nel suo ruolo di vicepresidente della As Bari Calcio dal luglio 2010 al giugno 2011, sono stati rinviati a giudizio per i reati di concorso in bancarotta fraudolenta e documentale, e verranno processati il prossimo5 novembre.
Nell’udienza preliminare che ha disposto il giudizio il Gip Valeria Isabella Valenzi contestualmente ha assolto “per non aver commesso il fatto” l’unico imputato che aveva chiesto il rito abbreviato, Salvatore Matarrese, 60 anni, procuratore della società Sm (Salvatore Matarrese) dal 2008 e consigliere della As Bari Calcio dal 2002 al 2011. L’assoluzione di Salvatore Matarrese era stata richiesta nell’udienza della scorsa settimana dalla pm Larissa Catella .
assolto Salvatore Matarrese
La Procura di Bari nella stesura dei capi di imputazione ha sostenuto che gli indagati “In concorso tra loro nelle rispettive qualità sottraevano e distraevano dal patrimonio della società e dalla garanzia patrimoniale ingenti somme di denaro mediante erogazioni di finanziamenti in favore della società controllata As Bari Calcio, società dichiarata fallita con sentenza del 10 marzo 2014 e di cui la Sm deteneva nel periodo dal 2009 al 2013 la titolarità di una quota pari all’89, 99 % del capitale della As Bari calcio, partecipazione divenuta poi totalitaria (99,99 per cento) – finalizzati a consentire alla As, società in stato di crisi già dall’anno 2010, il rispetto dei termini e delle condizioni previste dalle norme organizzative interne della Figc per l’iscrizione della squadra al campionato nazionale, finanziamenti erogati nel corso degli anni 2011-2013 in periodo in cui entrambe le società manifestavano evidenti segnali di tensione finanziaria e crisi anticipatoria del dissesto».
Le indagini effettuate dalla Guardia di Finanza hanno ricostruito che la Sm avrebbe erogato in tre anni in favore del Bari Calcio, attraverso bonifici o accollandosi debiti con le banche, più di 20 milioni di euro, solo in minima parte restituiti, raggiungendo una esposizione debitoria per oltre 11,4 milioni di euro al luglio 2013 e “a causa dei risultati economici negativi della controllata soffriva perdite per complessivi 42 milioni di euro“.
Così facendo, a luglio 2013 avrebbe raggiunto una esposizione debitoria per oltre 11,4 milioni di euro e “a causa dei risultati economici negativi della controllata soffriva perdite per complessivi 42 milioni di euro” come si legge nell’imputazione
Un’operazione che però non servì all’ As Bari Calcio ad evitare, solo un anno dopo, il fallimento della società (dichiarata fallita dal tribunale di Bari il 10 marzo 2014). Nel capo di imputazione che elencava le varie fasi della presunta bancarotta, si fa riferimento, al giro di bonifici fatti (in particolare nel 2013) in favore della società controlla Finba, che aveva la stessa compagine societaria della Salvatore Matarrese.
Ad esempio, la società SM-Salvatore Matarrese, “nell’anno 2011 erogava in favore della As finanziamenti per complessivi 11.704.118, 78 sia a mezzo bonifici disposti con prelievi dai conti correnti intestati alla Sm, sia a mezzo di anticipazioni eseguite per conto della controllata As in pagamento di debiti di quest’ultima e 5.300,00 milioni oggetto di rinuncia, essendo stato tale importo girocontato per rinuncia e destinazione al patrimonio della As a riserva in c/c in futuro aumento capitale sociale».
Ed ancora negli atti dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Bari, si legge che la Salvatore Matarrese ammessa alla procedura di concordato preventivo nel maggio 2016, “distraeva somme mediante accollo delle obbligazioni della As Calcio Bari costituenti crediti che la Sm vantava nei confronti della As Bari calcio e oggetto di rinuncia“.
Breve trattato sull’arte del «tuzzo». Grazie all’ars tuzzandi anche i baresi, come quel montato di Bruce Lee che propalò il kung fu del fischietto, si sono guadagnati una fama, ben più dei sardi, competitori isolani. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Aprile 2022.
Non meno importante del citatissimo De artis venandi cum avibus, trattato della falconeria di Federico II sovrano, è questo De artis tuzzandi, che non prevede rapaci ma la sola crapa, fra glabella e osso frontale.
Il tuzzo, la capocciata sleale assestata per stendere l’avversario è un tratto denotativo della baresità e delle sue arti marziali. Siamo cresciuti osservando gli scassati di capa afflosciarsi davanti all’ariete che nel «chi sono io e chi sei tu» ha avuto la meglio. Ed è così da sempre, tanto che nostre erudite ricerche, che non riveliamo a voi brutte capre (sappiamo che Luciano Canfora ci contesterà), provano (forse) che già Antonio Beatillo nell’Historia di Bari (1637), ed Emmanuele Mola nelle settecentesche Memorie dell’illustre città di Bari, in brani apocrifi ne hanno parlato.
L’arte del catatuzzo si rivela attraverso canoni immutati. Appena il craniato viene colpito sul setto nasale, reggendosi la protuberanza sbomballata, pronuncia sempre la stessa frase: «Ti denuncio». E se già la natura gli aveva appioppato un profilo da Federico da Montefeltro, brutale, ne approfitta giustificando con gli amici l’operazione di chirurgia plastica: «L’ha detto il medico, dopo il trauma respiravo male». Il tuzzante, dal canto suo, resoconta al bar: «Bum! Manco la bocca gli ho fatto scocchiare». In qualche caso antepone un «bu-bum!», raddoppiato. Mah. Vabbè.
Come nell’Amleto di Gianrico Carofiglio vi sono segnali rivelatori che la vittima può cogliere pria di venir rintronata. Il muflone solitamente si tocca il naso quando sta per martellare. O s’aggiusta la camiciuola sì da concedere al collo rinculante massimo agio. Oppure prelude con ingannevole confronto verbale avvicinandosi al bavero della vittima. Non si ricordano (e qui torniamo al Beatillo et al Mola) casi di taratuzzi, cioè di capocciate ripetute a martello pneumatico. Il colpo è uno e risolutivo.
Grazie all’ars tuzzandi anche i baresi, come quel montato di Bruce Lee che propalò il kung fu del fischietto, si sono guadagnati una fama, ben più dei sardi, competitori isolani. Tempo fa un romanaccio ci oscurò scassando il muso a un giornalista davanti alla telecamera. Ma, francamente, non lo stimiamo. Centrò l’importuno secondo scuola krav maga, compatto, bilanciato. Niente a che fare con la creatività estemporanea, con lo stile del tuzzatore di Bari, che impreca morti stramorti e sepolte fess’ d’ màmt’, disarticolando l’asse tronco-bacino in forme convulse di danza (uno-due, uno-due) che John Travolta se le sognava.
Bari, tra i condomini in costruzione e la sede della Regione: viaggio nel quartiere Japigia. Enrico FILOTICO su la Gazzetta del Mezzogiorno Mercoledì 23 Febbraio 2022.
Japigia è uno dei quartieri di Bari con estensione più ampia. Nell’ultimo decennio ha cominciato un vero e proprio processo evolutivo, passando da quartiere "delicato" per la presenza radicata della criminalità organizzata a zona residenziale caratterizzata dalla fortissima presenza di verde urbano. Quest’ultimo uno dei patrimoni da preservare.
Il viaggio nel quartiere
Il quartiere, oggi, si sviluppa verso sud lungo le direttrici viale Japigia - via Gentile che corre parallelamente alla ferrovia Bari-Lecce, e via Caldarola. La mediana rappresentata dal Torrente Valenzano o “Canalone” divide la parte vecchia dalla parte nuova. Il limite sud è costituito dalla tangenziale cittadina, coincidente con la Strada statale 16. La parte nuova del quartiere si sviluppa intorno a strade larghe e scorrevoli, spesso alberate, alternate ad aree di verde attrezzate, grandi spiazzi di verde incolto, ampi piazzali di parcheggio “campi”, complessi edilizi dotati di ampi giardini, tra cui le caratteristiche torri del quartiere Japigia.
Proprio dalla viabilità parte il racconto di un’area cittadina che, senza fatica, può essere simbolicamente definita in bianco e nero. Nel corso del suo primo mandato il sindaco, Antonio Decaro, ha iniziato un lavoro di rilancio del distretto, aiutato anche dagli interventi della regione che ha individuato l’area in cui sarebbe sorta la nuova sede proprio sul lungomare di competenza del Municipio I.
«Sicuramente il rifacimento di via Caldarola migliorerà la vita del quartiere. Prima le radici degli alberi distruggevano le auto, ora per fortuna si potrà camminare più serenamente. Speriamo che non sia un palliativo e di non vedere tra uno o due anni nuove buche». «Siamo comunque fiduciosi – racconta Stefano, residente del quartiere -. Negli ultimi anni hanno valorizzato alcune zone rifacendole, introno all’Ipercoop hanno costruito nuove piazzette arricchendole con giostrine per i bambini. Certo è che negli spazi in possesso della criminalità organizzata, è cambiato davvero poco. Sembra che ci sia una Japigia A e una B. E questo non va bene. Non si può dire che il quartiere al momento offra moltissimo. L’Ipercoop per fortuna ha raccolto diverse attività, ora hanno aperto anche una palestra. Le attività commerciali continuano ad essere poche, però temo che sia un problema di tutte le periferie.
Anche dal punto di vista della mobilità sono state fatte cose positive. Nei prossimi mesi aprirà il park&ride dal polivalente in direzione centro, questo agevolerà i residenti del quartiere».
Anche Eleonora, 23enne che abita nei pressi del nuovo palazzo della Regione ha di che lamentarsi: «Sinceramente qui una delle più grosse mancanze che vivo è di un marciapiede sicuro nel tratto di strada tra viale Japigia e via Gentile».
«Tra il sacrario e l’autolavaggio – racconta la ragazza -. Il marciapiede è piccolissimo, ho paura a camminare su quel ponte. Lo si fa, perché si deve fare però la gente in auto corre dato che la strada è tutta dritta e il marciapiede è microscopico. Spesso e volentieri c’è poi un bellissimo albero di fico che non viene potato e quindi neanche quel piccolo passaggio si può utilizzare. Se arrivi alla fine del ponte hai il diritto di sentirti fortunato. Anche il nuovo mercato, è si molto bello ma non immaginato troppo per chi deve parcheggiare. Per andare a fare la spesa i posti scarseggiano, rimane appannaggio solo di chi può raggiungerlo a piedi».
Sono tanti gli interventi realizzati. Basta un rapido sopralluogo per capire che quelle strade per anni pericolose e contraddistinte da profonde buche in grado di poter rovinare i veicoli, lentamente stanno lasciando spazi a manti stradali nuovi. Non solo l’usura dell’asfalto della prima parte di via Caldarola, anche l’emersione delle radici dei pini hanno costretto con il tempo i residenti a chiedere con voce ferma di potersi spostare per tramite di una viabilità efficiente. A preoccupare i residenti è però il grande tema dell’edilizia aggressiva. Alcune delle aree verdi che nel quartiere intervallavano i palazzi stanno progressivamente diventando esse stesse dei palazzi, togliendo spazi di area pulita in una zona periferica e contestualmente rappresentando un pericolo geologico per l’intero quartiere. Certo la presenza di strutture come il Palaflorio o il nuovo maestoso palazzo della Regione, sia pure per motivi diversi, hanno portato quella parte del primo municipio al centro della quotidianità barese rendendolo di fatto un’estensione del centro. Rimane il tema dell’edilizia popolare, ormai vetusta e mai al centro di progetti di riammodernamento sebbene dovrebbe essere tra le priorità delle autorizzazioni concesse dal comune per nuove costruzioni.
Bari, da «Le pon pon» a «Feltrinelli»: benvenuti in via Melo. La storica via del Murattiano, tra negozianti, bar di culto e rituali cittadini. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Febbraio 2022.
Lungo via Melo sono passati innumerevoli passi ma sono andati tutti perduti. Una folla di suole svanita giù verso l’eleganza di corso Vittorio. È fra le strade nobili del Murattiano disegnato con compasso massonico. È raro incontrare topini cowboy con le Peroni nelle fondine e il tuzzo pronto. Questo significa che se risiedi qui, chiacchierando a un party in villa a Bitonto, puoi lasciar cadere la frase, «ti sconsiglio di trasferirti in centro a Bari, bello ma caotico, abito in via Melo da vent’anni», e tirartela un poco. E se sei anche proprietario di un buco commerciale nel quale entrano a stento i piedini di un cittadino di Lilliput, puoi sguainare i canini e strozzinare un fracco di soldi, piegando il negoziante all’affitto che lo ridurrà sotto i ponti.
Melo da Bari fue (arcaismo inutile che significa fu) il primo capo della rivolta contro i bizantini in Puglia. Non lo sapevo prima di copiarlo da Wikipedia come non lo sapevate voi. Ciucci. La zona ricade nel cap 70121, ma anche di questo suppongo vi impipi poco. È importante apprendere invece che, camminando lungo i marciapiedi sconnessi, talvolta maculati di deiezioni di jack russell stupidi, è facile inciampare in qualche avvocato che schizza trafelato dallo studio. A Bari, lo sapete, sono milioni. Ma questo discorso vale per il centro fichetto tutto.
Beh, allora, che stavo dicendo..? Mi sono dimenticato… Ah sì, allora: via Melo incomincia in zona stazione, un po’ decadente come ogni scalo ferroviario. Sulla sinistra potete osservare (‘sta frase è un po’ da guida turistica, vabbè) un orinatoio pubblico, o verso i portici, ad uso di infelici giunti da altri mondi (negroni superdotati e musi gialli armati di scimitarre, questo tanto per venire denunciati per istigazione all’odio razziale o arrestati tosto). A destra l’ingresso del liceo Scacchi, uno dei tre migliori istituti negli anni buoni, nel quale insegnò Ernesto De Martino, studioso napoletano passato alla storia anche per le ricerche sul tarantismo, che purtroppo poi ci hanno portato inesorabilmente alla pizzica zinghe e zanghe che dilaga ovunque. Non se lo era mai filato nessuno, finché – ecco, mirate un po’ più su - l’associazione culturale Maylab fece apporre una targa all’ingresso della scuola, 9 maggio 2015, cinquantenario della morte.
Proseguendo c’è il colorato locale Arnold’s, americanissimo, Anni 50, Happy Days dop, inservienti vestite di pois sognanti, reperti rari di un sorriso a stelle e a strisce che non è tornato più. Svariati negozi di orientali in fotocopia, vincenti nuovi, nuovi padroni.
Eh, adesso sì che iniziamo a ragionare. Non soltanto per i taratuffi succosi nella pescheria di Mimmo, ometto bruno e verace, ma soprattutto per il negozio che ha fatto la storia di ogni arrapato, cioè d’ogni homo. Il sexy shop Le Pon Pon, primo a Bari, primo in Puglia, mito del mondo, tutti in ginocchio, prosternatevi dianzi alle videocassette porno che furono, agli aggeggi vibranti anni Ottanta gnic-gnic, alla biancheria cicciolinosa (da Cicciolina). Pionieri, maestri: tutto. La cittade vi onora.
Ancora un po’ e sono cavoli tuoi. Novantanove chili di barista, Massimo, del frequentatissimo Mozart, ti prenderanno al laccio del «buongiornooo!», richiamo ossessivo compulsivo gridato dall’omone, e sorbirai il caffettino anche se non vuoi. Di fronte c’è monsignor Raphael, negozio storico d’abbigliamento e di gusto. Peccato che non produca più le camicie fresche a manica corta, così rare e comode. L’isolato seguente è Feltrinelli, e questo è un altro discorso.
Feltrinelli è un contenitore di varie cose: tazze da tè o altro beverone, tappetini per la casa, matite e pennucce, libri, anche, compresa una Bibbia e una copia de Il giovane Holden della cui vecchiaia non s’è mai fregato nessuno, una Divina Commedia, anche se tra i gruppi Facebook Dante è in discesa in quanto i critici digitali dicono che scrive maluccio, una cascata multicolore di volumi per bambini, un parco giochi nel quale è permesso giocare a staccio, camminamenti con dischi impolverati quanto la cultura decaduta. Schieramenti luccicanti di volumi sui fiori, affiancati da guanti per giardinaggio tempestati di coccinelle e api operaie. C’è pure un bar, comodo e buono come del resto tutto, salotti ove poggiare il deretano di bertuccia, o scosciarsi sfogliando un Bauman decotto.
Segnaliamo al visitatore i volumi ciclopici del reparto Moda, però i mascara allegati non li vendono ancora.
All’interno della Feltrinelli si consumano presentazioni di libri, tristucce come in ogni altro luogo. Brevi pause, in fondo, nell’attesa del Fedez o della Ferragni gattamorta di turno, o del trapper tufo che trasforma un sacrario di carta in orgia oceanica di analfabeti della musica. All’ingresso invece nelle mattinate di sole si usava far capannello menandosela su vari autori, da Pindaro al tuo idraulico, perché ha pubblicato pure lui. C’erano anche dei cinefili stretti in drappello stracolto. Poi ognuno rientrava a casa a guardare video porno.
Via Melo è serena. Sulla destra puoi visitare il covo ligneo odoroso di pellami De Astis, nel quale Danilo, bonario Hulk giammai verdognolo, si aggira scrollando muscoli da pallanuotista duro.
Se non sei un morto di fame che sbaglia i congiuntivi e verrebbe pertanto scacciato dai salotti della sinistra chic come un infettivo a colpi di scamorza, puoi pure acquistare qualcosa da Numeri Primi, supermercato di qualità. Più avanti si allungano le vetrine di Mimma Ninni, perché è arte anche la moda donna, Quadra, con scarpe del valore di una cornea, altre attività (non mi azzardo a citarle perché da un giorno all’altro a Bari, tra fallimenti e chiusure disastrose, trovi insegne che con le vecchie non c’entrano nulla, da cui una gioielleria si trasforma in rivendita di lupini all’ingrosso).
Superi il Glamour caffè frequentato da giovani sessantenni vitelloni, finché, lemme lemme, ti fermi davanti a una vetrina piccola stipata di cose. Volgi gli occhi al cielo e l’insegna Mercoledisanto ti si pianta negli occhi. Escursionismo, arrampicata, adventure, roba da eroi. Il negozio venne avviato – si va a memoria, non fidatevi troppo – da un capo-scout dalla barba dura, serio, capace con i suoi lupetti, intensamente cattolico. Così che si può dire che via Melo conserva un avamposto di Dio lungo il suo percorso, cioè della natura.
A Bari via Argiro fa le scarpe a via Sparano. Negozi in tiro e vetrine chiuse; prosegue il nostro viaggio alla scoperta della città. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Marzo 2022
Drogarsi di Tonino Asselta, che proprio ieri (auguri) ha festeggiato 75 anni. Imbevere le anse cerebrali dei Pintucci decani da 122 anni, del ricordo degli Sciccosi, i due Gemelli che gemelli non sono ma lo sembravano nonostante i tratti, fantascientifici azzimati dell’ei fu negozio omonimo multi-piani, ancora attivi sul mercato.
Negozi in tiro e vetrine chiuse. Caffè morti o vivi come Jerome. Puntigliosi ragionieri della vendita al dettaglio. Danarosi protestati, ex paperoni in gramaglie che hanno perduto con le mutande pure la commara, personaggi che ti restano in fronte come marchi pantagruelici della baresità. Questo e altro è via Argiro, che contende il serto a via Sparano. Gente che mangia e che non sciala, e che pur se ci freca siamo portati ad amare.
Essere Tonino Asselta, cinque boutique tra Bari e la sua Andria col Cinema Opera barlettano, è più difficile che Essere John Malcovich, come recita il titolo di quel film raffinato. Dopo che hai incontrato a Tonino, il jack russell di via Argiro, e ti ha narrato la sua esistenza da romanzo, tra fughe dal seminario direzione Torino e Milano a undici anni, commercio di limoni e di santini sui bus dei pellegrini verso i santuari, tornando a casa ti meni gli schiaffoni in faccia: non è possibile essere come a quello là. Tu sei capace? L’Asselta, scafato e ficcante come le tre fiere di Dante, ha eretto pure al Murat un negozio moda alto alto, strutturato più o meno come la piramide di Akhenaton. Difatti pure li ladroni, quando vi penetrano, finiscono direttamente negli scarichi di fogna illegali della Lanza. I costruttori, esili come geroglifici, sono stati ritrovati accecati, vagolanti per le strade del San Paolo. Ora egli, o esso, Tonino nostro, che torreggia in via Argiro con tanto di «Asselta 1970», ha ristretto parzialmente i ranghi. Certo rilucono sempre le scarpe a punta identitarie di quest’uomo santo, assicurate come i glutei di Kim Kardashian.
La strada che Decauro (Antonio Decaro sindaco) ha reso pedonale è solcata, come l’intiera cittade, da monopattini silenti e insidiosi come loffe di missili lanciate contro l’Ucraina. Sono guidati da decerebrati (li odio: li odiamo) che ticchettano «sei una porca» via Facebook sul cellulare mentre in controsenso ti resecano un alluce con le rotelle dure come acciaio. È un rettilineo rasserenante, ma incomincia male. Il buongiorno lo danno la Bnl, che appunta diligentemente le scadenze non onorate, e Dentix, ai cui ferri odontoiatrici tanti si offrono con espressioni di cavalli da domare. Segue un rigurgito vegetale, cioè il bar Tiffany affrescato di fiori, guidato dai coniugi Francesca e Gianni, preso d’assalto da qualche scambista inconfesso, politici pentiti in quanto non ladri, cornuti che se ne fregano, fedifraghe che se ne calano peggio, tanti professionisti in, al massimo due psicolabili out: la Bari bene che non pronuncia «ho stato ho andato».
Dal primo isolato Franco Cassano, intellettuale del quale in questi giorni si parla parecchio, piegava verso via Dante 25, casa che l’editore Alessandro Laterza ha lasciato da qualche anno. Mimma Ninni (chi è? Donna? Griffe?) si manifesta con un doppio cristallo che fronteggia un fortilizio angolare, si ripropone con una terza postazione più avanti. Non c’è nessuna vineria frequentata da alcolisti e tossicodipendenti. Peccato. C’è invece Alla Barese, pizzeria ristorante di cucina verace; nella bella stagione sparge all’aperto innumerabili tavoli, che possono arrivare fino a Santo Spirito, domenica e sabato, e a Monopoli dall’altra parte, anche quando si festeggia la Madonna della Madia. Ci sono poi due chicche che vanno menzionate. Il negozio per bambini Fiori Blu, che può essere osservato come un’opera d’arte di impronta commerciale, connotato dal tipico gusto che hanno alcune signore del centro di Bari, e Dmail, esposizione di inutilità colorate, e proprio in quanto tali, indispensabili.
Proseguiamo con animo radioso la promenade mussorgskiana, anche perché dopo la precedente puntata dedicata a via Melo per questa serie sulle strade, ci sono piovuti, come guiderdone dai titolari degli esercizi lecchinamente menzionati, solitamente scorze, accessori moda, prosecco biologico (due bottiglie), latticini da recuttari comprovati, oltre a un’ambigua camiciola floreale (per favore, non mandate più merce in redazione ma a casa, non voglio certo condividere i doni con i colleghi sgrosciatori sfessati).
A un certo punto si incoccia nel mausoleo della Nike (scusate, perché non avete apposto almeno un cacchio di insegna all’ingresso ma soltanto il marchio?), che ha le dimensioni del Sacrario dei caduti Oltremare. C’è pure la Lego, meraviglia plastica nella quale anche involuti di 50 o 60 anni pescano il bel tempo andato. C’è Maldarizzi colosso delle auto. C’è l’Atelier Emé dedicato alle divorziate e separate, cioè alle spose che scelgono l’abito nuziale che poi malediranno. C’è Dante 5, salotto moda dal quale fuoriesci finetto pure se sei un emerito cozzalo. C’è Saicaf cafè sull’ultimo isolato, dove il Comune ha snudato le scivolose basole, nere come zoccole del Lungomare: vende ancora chicchi al peso, baluardo della gloria di una città sopravvissuta soltanto negli annali. Ma soprattutto c’è uno dei negozi di scarpe di due monumenti del commercio locale. I baresissimi Pintucci, figlio Nicola e Raffaele patriarca.
Armonizzati anche quando passeggiano a braccetto per il centro confrontandosi, discendono da un altro Raffaele (fondatore nel 1900) e un altro Nicola, e confermano il primato che vede nella Pantofola Pintucci il simbolo sacro. Parecchio simpatici. Di tradizione iconograficamente documentata. Amanti del mestiere: dal 1968 in cui ereditò la titolarità Raffaele non perde una giornata, e dal 1989, data d’insediamento in via Argiro, alle 7.30 Nicola (è identico al Vescovo di Myra da quando s’è fatto crescere la barba) sta già in postazione a scartabellare ordini, uscite ed entrate. Inarrivabili soprattutto nella proposta inglese, i cui modelli espongono come rubini birmani (ricordatevi che porto misura 6 delle Tricker’s stringate. L’indirizzo ve l’ho lasciato).
Quella volta in via Re David, viaggio nelle strade di Bari. Caffè e Politecnico, storici bar e una lunga pista ciclabile. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Marzo 2022
Appena uscito dalla chiesa di San Marcello, svolti a destra pregando e ti ritrovi in via Re David, asse di riferimento di San Pasquale Bassa. Costeggi i precipizi del Politecnico, nelle cui radici di cemento e di acciaio procedono i lavori da tanto, una delle rare eccellenze di Bari. Spunta la vetrina piccola di una ferramenta, segue il cafè-bistrot Dehors dall’aroma alternativo e con spazio all’aperto per i tavoli. Sulla sinistra una teoria di cristalli segue le esposizioni di Materica Falegnamo: sei a destra sulla pista ciclabile lungo la quale ti sfiorano i gomiti, e le recchie anche, bici a pedalata assistita lanciate a tutta velocità, bici a propulsione miotica ossia muscolare, carrozzine con dentro neonati non ancora dediti all’hashish, monopattini con sopra coppie, figliolette con madri. Per cui ti consiglio di attraversare sul prospicente marciapiede d’antan dove si cammina come quando stavamo meglio e lasciare che i suddetti fra loro si ammazzino.
Alla girata con Pixel, riferimento dei nuovi ingegni appiattiti dal digitale, c’è l’Osteria di Mario, ristorante con pizza anche a pranzo, gestito dal rosso Tommy Tedone, mito radiotelevisivo locale. Sull’angolo opposto spicca un locale da visitare: il Monocle cafè, dall’arredo bizzarro, invaso a ondate da ciurmaglie educate di iscritti al Campus, futuri ingegneri che pagheranno mazzette per gli appalti, architetti addestrati al cavillo per lo spreco, biologi che vedranno l’alba transumanista di un dominio sul gene affermato.
Distinti dal livello igienico classico da fuorisede (non fietano ma non olezzano manco) sudano freddo ripassando sui tavolini prima dell’esame testi veramente pesanti, ridacchiano sedendosi e alzandosi in pantaloni mezza stagione che accolgono inguini non ancora annaspanti nelle sabbie mobili atarassiche. Sono là vividi, magari in coppia con ragazzette belle, freeèsche… (sto mutuando il linguaggio dai compagni di merende del maniaco Pacciani), pronti a congiungersi nel peccato di stanze in affitto comunitarie. Si molleggiano su ginocchia non erose dalla gonalgia bilaterale, allungano (maledetti..!) i tendini elastici verso i frutti erogeni delle compagnuzze non scalpellati dai chirurghi plastici, che preservano la consistenza della grazia.
Via Re David è disseminata di copisterie, data la concentrazione universitaria e scolastica, e per la stessa ragione di panifici, quali quello Dello Studente, storico, istituzionale. A un certo punto ti trovi davanti un inspiegabile busto cesariano in pietra, che come tutti quelli di derivazione greca dà insieme di tempra e di piacere omosessuale. Segna l’ingresso smilzo del Sesar, dalle cui vetrine sopraelevate gli avventori possono contare i capelli sulle crape dei passanti. Le pareti del bar sulla strada sono costellate di cartelli che i cani, ci auguriamo, dovrebbero leggere con maggiore attenzione: «La pipì non la faccio qui».
E si arriva al 14° Circolo didattico Re David, che si apre con una rampa più abnorme che brutta. Vi entrano mamme con al fianco cappellini che contengono teste di bimbi recalcitranti. La scuola si interseca con via Celso Ulpiani, fascinosa, serpentina e vegetale, dove gli ex giovani che oggi sono in coda per lasciarsi cadere nella bara andavano a fare le cose sporche con le innamorate. Seguono l’alberghiero Armando Perotti, il monolitico ITT Panetti che guarda l’Accademia di Belle Arti, che oggi sono bruttarelle alquanto. Accanto sopravvive dal 1970 la cartoleria Fortunato, 74 anni di attività messi a rischio dalla crisi e dalla morsa dello Stato. La Farmacia Capezzuto è gestita da un pool femminile con gentilezza dinamica. Ma c’è qualcosa sull’altro angolo che ha fatto la storia di Bari: il Bar Nico, recentemente ristrutturato, eppure intoccato nella memoria degli studenti del Salvemini, un tempo liceo scientifico attorno al quale ronzavano Vespini dalla testata abbassata, rari Aspes, Caballero 50. Oggi, ridotto a Provveditorato, viene cinto d’assedio dai prof, cioè i peggiori sfigati.
Dopo il semaforo, andiamo avanti. Di notte davanti all’eccellente panificio San Pasquale, lungo il giardino prediletto dai cani, si agitano spiriti ebraici, essendo stata questa area cimiteriale. Al civico 138, angolo via Enrico Toti, ci sono le vestigia della Cartoleria Morea, riferimento dell’intero quartiere in passato, dall’istituto D. Cirillo ai catechisti della parrocchia San Pasquale. Tabacchi Arena conserva l’insegna originaria. E adesso, scusate, ci inginocchiamo: siamo di fronte al Bar Rubino, quello col brillante granata come puntino della i, di fronte all’Odeòn, cioè il cinema Odeon che ha assunto le sembianze di un palazzo. Un tempio perfettamente conservato come nei cupi e splendidi Anni ’70.
Grazie. Noi, Bar Rubino, ti amiamo. Così come sei, uguale. Con quel titolare che forse ha sorriso una volta o non ha sorriso mai. Luogo di ritrovo di gente che fu particolarmente vivace e che tutti i sanpasqualesi tengono fra le tempie stampata. Vov, Amaretto di Saronno, Petrus, Biancosarti. Panzerotto nel Panificio Re David, oggi Pan per focaccia. Dall’angolo precedente alla vicina pasticceria fino abbasso all’Estramurale (via Capruzzi) circolavano tomi e bestie meccaniche che il destino ci aveva regalato e che il tempo non avrebbe più restituito. Alfa Romeo Super sconfinanti sui marciapiedi in assoluta liceità, Kawasaki Mach III potenziate in impennata, catenazze d’oro con volti di Cristo dagli occhi rubino o patacca pencolanti sui petti di oranghi. Manate in faccia e musi schiantati sui cofani delle auto nelle risse tra ceffi, pistole e coltelli utilizzati di rado. C’erano P., l’immoto ‘u S. (ancora oggi non è il caso pronunciare il nome di questo monoblocco delinquenziale), A. l’acconciato, l’australopitecoide ‘u Sg. e sopra tutti P.P., il cui nome veniva preannunciato ululando nelle sale biliardo, mentre gli apripista sbatacchiavano per gioco, senza cavare sangue, i figli di una borghesia che niente sapeva di strada.
Il mercato di via Nizza ha traslocato lasciando sentori di pesce, frutta e pollo squartato per anni. Lungo il corso principale, che sta fra il popolare e il grado mediano, si susseguono poche realtà straniere, tante nostrane, come il Digital Print di Nico, bruno vitale e ultra-rapido, Pastificio Ancora & Fiore, Bar Bianco, un supermarket a prezzi stracciati. Nella Salumeria lavorava Toki col padre, rapper molto seguito (3.7 milioni di visualizzazioni YouTube con Iì so de Bbare) e prematuramente scomparso. C’è perfino la Federazione provinciale del Partito democratico, essendo questa la culla di Michele Emiliano e del fratello Alessandro: il padre vendeva affettatrici rare. Un quartiere teatro di un enigma che fece parlare nei Settanta, tanto da ispirare la band demenziale Bangla Boys che prese a prestito i nomi dei protagonisti di quanto andiamo a raccontare.
Da via Re David, verso via Francesco Muciaccia, un palazzo diroccato e abitato limitava una stradina buia di tentati stupri e scippi seriali. Sulla parete di tufi marci che guardava il largo della Farmacia Bellisario un mattino comparve una gran scritta spray: «Mariella & Tonia fu igulata». Firmato, «Tonino F. & Michele G.» (i cognomi erano per esteso), con sotto disegnata una bara. Per risolvere il rebus basta essere sufficientemente cozzali. E soprattutto di Bari.
Dio benedica viale Europa: tour esistenziale nella periferia di Bari. Un serpentone d’asfalto lungo quasi nove chilometri tra natura selvaggia, fabbriche fantasma, umanità. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Marzo 2022 .
Dopo via Argiro, via Melo e via Re David, prosegue con questa quarta puntata il viaggio per le strade di Bari.
Viale Europa è un serpente senza occhi, senza anima, che si lascia schiacciare il dorso dalle macchine, dai camion, dai Tir per nove chilometri o quasi. È frutto dell’immensità urbana che snatura i cittadini in elementi numerari. Viale Europa, lungo quanto una vita, uno dei simboli del quartiere San Paolo di Bari, che significa C.E.P. Centro di edilizia popolare, non dà nulla e non prende niente. Come le persone dal cuore stretto, sta lì nel suo non significato. Percorrerla può cambiarti la vita, se a questo punto della vita ancora non l’hai fatto. Procedi tranquillamente, tanto Dio dall’alto non ti guarda.
Tu probabilmente vivi a Bari, cioè in quell’agglomerato esteso alle periferie contigue dove non si immagina l’esistenza di un mondo distante anche fisicamente da quello abitualmente frequentato. E se parti da lì imboccherai viale Europa da strada Bruno Buozzi, scendendo il sottopasso attraverso il quale sfuggiamo ai richiami dei seppelliti nel cimitero monumentale.
Il rettilineo d’accesso è costellato da buche, voragini, lombrichi d’asfalto che si agglomerano in dossi sulle vecchie lesioni del manto, veri attentati ai danni del cittadino che il Comune perpetra in ogni parte della città. Ti rendi conto che c’è un B&B da queste parti, c’è giusto l’Autoparco Anas. Ci sono le rovine di una fabbrica che fagocita eserciti di operai ectoplasmatici e sopravvive per gli esteti avvezzi a succhiare delizia dal marcio, celando su un fianco nascosto alla strada balconi presi a cazzotti dai giganti metropolitani.
Omini arancio di fronte alla Sita svolgono lavori stradali, e di là già alla svolta si apre quel mondo diverso a cui accennavamo. Viale Europa inizia, inizia il viaggio. È una sofferenza che si fa esperienza e si anima di una campagna incolta d’erba fluttuante, ingiallita dai laterizi, fanoni di amianto, e quasi ti parla mentre il polistirolo capitombola al vento più avanti e il velo della solitudine insaziabile dell’uomo si stende raffreddandoti l’anima.
Sei solo in questa notte, anche se è giorno e brilla il sole. Questa è la bellezza di posti del genere. A destra una cisterna e una casupola abbandonate dal contado di contrada Sopramarzo. Sul ciglio della strada il cuore di una macchina industriale divorato dal cancro. Tralicci per l’energia elettrica, antenne, resti animali, due pecore al pascolo. Mentre a sinistra, eretti su altri appezzamenti di terra sterile, scorrono cartelloni senza volto, svuotati di fasto e di caccia al denaro, che mostrano la loro pelle grigia di vecchi.
Le dimensioni ti fanno partire qualcosa nel cervello. Tutto in quest’altro mondo è per i giganti. E tu sei piccolo, fuori e dentro di te con quel poco che ti è rimasto. Scopri che la Q8 è luogo di socialità. Scopri l’enoteca Vinarius. Un marmista che non c’è, e quando c’è si muove nell’immensa fabbrica mangiata dal vento sotto un traliccio giallo parallelo al selciato, lungo e alto tanto da poter sorreggere una nave.
Su viale Europa puoi divertirti. Qui è tutto un inseguirsi di macchine e moto lanciate ad alta velocità, verso il San Paolo, o verso altre colonne d’Ercole; ti sfiorano lungo il canale Lamasinata per farti capire quanto è facile al mondo passare da una all’altra parte. La Statale 16 è già sopra il tuo cranio. Osservi un trullo dalla testa molle, affianca depositi sulla terra bruciata, in lontananza le ciminiere stinte della Stanic. La Esso sta sveglia 24 ore, vende metano e come tutte le pompe di benzina cerca di sfuggire ai fucili dei rapinatori. Ti rendi conto che in questi dieci chilometri quadrati può accadere qualunque cosa, sono di proprietà di chi se li piglia. Negli anni Novanta i ragazzini tra gli alberi sparavano ai cani per esercitarsi, le moto, le auto e i cavalli gareggiavano nelle corse illegali, i baby-killer correvano con il piombo nelle gambe, mostravano i segni agli assistenti sociali.
A sinistra più avanti si staglia un gigantesco casale divorato da edere secche e radenti come zampe di geco, sul retro si addossano case sorte per caso come i funghi ai piedi dei castagni. Giù puoi scorgere catapecchie di fattoria con animali, mentre l’asfalto incomincia a salire, mentre l’asfalto continua a guidarti, portandoti su un altro ponte, sospeso nell’aria, lungo un canale invellutato di prato, percorso da bretelle smilze, parallele alla strada, sguarnite di protezioni, lingue di camaleonte proiettate verso spazi inviolati. Finché arrivi a una fabbrica che si è fermata a una vecchia fermata degli autobus, e lì è rimasta. Senza più nome, insegna o traccia, svuotata d’uomini e aspirazioni s’è consegnata alla ruggine dell’eternità.
Superato il Gran Garage Europa al semaforo c’è una palma accasciata sul marciapiede, esangue, c’è l’Europa Park delle barche, ci sono aziende malmesse, fabbriche dismesse, capannoni che contengono aria, box auto, esposizioni, aziende operanti, sigle, Somed, Dammacco, rimessaggi, meccanici. Ma soprattutto una valle arcaica ti si apre davanti, nella quale potrebbero agevolmente inseguirsi i dinosauri, oppure sdraiarsi a dormire lungo i binari senza destinazione che intersecano a perpendicolo il viale. Oltre questa distesa compare l’Impianto depurativo Bari Occidentale che contiene tutta la nostra verità. Lo inquadri bene dalla IP che offre anche lavaggio, angolo scommesse sportive inneggiante al biancorosso più amato. E nella quale abbiamo fatto una grande scoperta: dentro una fioriera all’ingresso del Più Bar sta una tartaruga di plastica dalla zampa destra amputata e dall’espressione veramente strana.
Arrivare al Quartiere, in Paese, come gli ex 30000 ceppisti lo chiamano (Wikipedia ha censurato il termine discriminatorio) è facile: basta seguire la via retta per l’illuminazione, senza badare alle Strade vicinali del Tesoro che ti portano fino a San Girolamo al mare, o a bretelle dismesse pericolanti. Viale Europa si ficca dritto dentro i primi palazzi di dieci piani che non sanno parlare. Sei qui, ci sei già: il tabacchi, il panificio, il market 100 Vetrine che inneggia «No War», la Macelleria Gastronomia Gallo con i polli sfrigolanti che piangono grasso, un piccione vagante, le tende oscuranti del Paradise luxury gaming hall più giù all’angolo, un posteggiatore autarchico che sulla Traversa 71 regola il traffico: «Fermati all’angolo, viene sempre gente fuori dal Paese, fino alle 13.30 sta casino assai», perché c’è coda dopo il semaforo davanti al palazzo plumbeo dell’Ufficio del giudice di pace e dell’Inps, dall’Amico dentista, centro che offre anche Tac e telecranio. Gente che scende, gente che sale dalla torretta d’accesso degli uffici pubblici, comoda anche per urinare in nottata, ne porta le tracce. Come tutto quanto qui sembra avere la consistenza dell’eroina e della coca, s’è già sfarinata tra le maglie a brandelli di plastica. Nel ’71 e nell’81 ci furono le maggiori abbuffate di appalti: il Cep è un boccone di chi se lo mangia.
L’androne sotto le aule giudiziarie, al cui ingresso stanno citofoni sradicati con qualche cognome che ancora si presenta alla stampa, è agghiacciante. Vi circola un cane, vi inneggia l’amore a spray, odore d’hashish, a sinistra una parete enorme in truciolato chiude l’anello di ingressi al primo piano, che si estende libero invece dall’altra parte. E vedi grate, e vedi reti su pianerottoli sconfinati stese per arginare l’assalto dei colombi bastardi, e vedi panni stesi, e vedi una vecchia, una bella ragazza, una bambina obesa che grida e divora focaccia, e vedi avvocati, e vedi persone, dipendenti pubblici e occhi che ti scrutano se registri qualcosa anche soltanto con lo sguardo, chi cerchi?, dove vai?, e vedi il mondo diverso da come pensavi ed è questo il mondo, non il tuo: è questo qua.
Dio, che esperienza. Dio benedica viale Europa. Lui prosegue, lui ci ama, lui ci porta dall’altra parte, è la grande vena che divarica i complessi edilizi, che prosegue oltre il palazzetto sigillato che non trasalirà mai per le grida di tifoserie scalmanate, oltre campetti sportivi insabbiati prima di nascere, oltre il fruttivendolo allestito sotto tende sghimbesce di plastica, il fornitissimo giornalaio, oltre la Farmacia Lozupone e la metro sopraelevata dai semicerchi gialli, oltre la colonna di una villa scomparsa che regge un pino, oltre l’ennesimo parco di nessuno con segnale pericolo cinghiali e sul quale trottano runner solitari e uomini soli che non hanno la macchina, oltre la colossale caserma sabbia della Guardia di Finanza davanti al deserto dei Tartari, oltre le quattro stelle dell’Hotel Parco dei Principi e il cubo del multisala Ciaki, al termine della notte di cui non si scorge un significato.
Viaggio nelle strade di Bari: la via per Sant’Anna, dritti verso il nulla. Tra Japigia e San Giorgio via Fratelli Prayer porta a un borgo sospeso nell’aria che esiste ma non esiste. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Marzo 2022.
Dopo via Argiro, via Melo, via Re David e viale Europa, prosegue con questa quinta puntata il viaggio per le strade di Bari
Partire da un luogo per arrivare in un altro dove non sei da nessuna parte. Fermarsi in uno spazio che niente ha a che fare con gli altri, sulla groppa di una tartaruga o di qualche gigante come in certe cosmogonie pagane, dove nessuno può vederti, nessuno sa come cercarti, a meno che non sia un residente del quartiere Sant’Anna, tra Japigia e San Giorgio sospeso nell’aria, e imbocchi abitualmente da via Gentile la vecchia Strada Sant’Anna, complanare lato mare della Statale, per rientrare a dormire nella casa che possiede e non ha.
Strada Sant’Anna ha cambiato nome in via Fratelli Prayer, pittori veneziani stabilitisi a Bari, visto che in questi Campi Elisi dell’edilizia inesausta hanno dedicato più di una targa a esponenti dell’arte. Abbiamo l’attore Marcello così cognomato e il percorso stesso parte dalla fu villa, grigio topo come negli ’80 e un tempo munita di fiumiciattolo artificiale, di Emilio Solfrizzi, il Toti di Tata. Termina laggiù verso le onde rovinando tra i binari orlati un tempo da materassi di pietre bianche sui quali le coppie amoreggiavano.
Dal collo della Non Strada Sant’Anna, o Prayer, o come vi pare, si osservano palazzi di media statura, come persone né alte né basse, una fermata d’autobus, campi verdi sotto l’azzurro spazio dai quali erompono escrescenze d’alberi spogliati, e sui quali si staglia una gru che volge le spalle al quartiere che conforma l’irrealtà al reale.
Il lungo tracciato porta al Mini market Sant’Anna, ricavato a piè di un palazzo lustro, nuovo e abbandonato al deserto come tutto quanto. Il negozio contiene all’interno un titolare giovane e affabile. All’ingresso su un tavolino sono esposte verdure di giornata scrutate dall’alto da un’ape che zigzaga. Non si vedono inquilini nei palazzi curati, anche se ci sono o torneranno nell’isola fondata poco più di dieci anni fa. Non succede nulla. Niente si guarda. E non si ascolta altro se non l’armonia lontana di vento, treno e mare.
Passa un tale ogni tanto, e tu non lo conosci, e io non lo conosco. Ciao. Al termine di via Prayer fu Strada Sant’Anna, dopo l’ultimo mozzicone asfaltato, si apre un varco attraverso la recinzione in metallo. Porta al silenzio che lascia parlare un grande pino più solo di un passero. Un cuculo canta. Al termine dello sterrato si stagliano in perpendicolare due lingue d’asfalto affiancate che si perdono all’orizzonte. E a margine, lungo la ferrovia, un capolavoro del dogmatismo progressista che supera l’assurdità stessa del luogo che lo ospita: la pista ciclabile che rovina nel cemento brullo, sulla quale non si posano neppure le mosche schifate, murata all’estremità opposta da dissuasori e da un segnale di divieto d’accesso dal quale pencolano quattro pneumatici buoni per la boxe.
Dal confine i più dinamici, tramite un sottopasso ora sigillato, o attraversando i binari dalla porzione priva di protezioni, raggiungevano le spiagge. Due uomini coperti da giacconi fiacchi si incamminano proprio verso il passaggio. Non sono lì per amarsi. Parlano cupo, saranno due divorziati. Un atleta, ragazzo, digrigna negli scatti. È tempo di tornare indietro risalendo via Prayer Artisti, nella landa che non è di nessuno, men che mai di chi la abita. Fino all’arteria che la interseca, via Germania, sul cui dorso bitorzoluto e senza asfalto ballonzolano auto di professionisti che procedono piano. La Striscia di Gaza, priva di illuminazione, è un’insidia per ammortizzatori e pneumatici: perfino un Suv nero come la morte che scintilla fa lo slalom per non subire danni. Fango in inverno e polvere da mascherina protettiva d’estate. Passa un uomo delle pulizie sul marciapiede e guarda. E che guardi? Non sai che ci sono dei pazzi in giro? Non sai che esistono i pazzi?
Via Belgio, via Austria, via Danimarca con un cumulo di terra, che si ingolfano una per una senza asfalto negli sbarramenti che isolano dal marcio inesplorabile. Fino a via Francia, derivata terminale, con la selva di Sherwood che si fa discarica.
Fazzoletti di prato brillantati di fiori gialli. Campi di perdizione con resti di condutture, muretti di tufo essiccato, tombini sopraelevati Aqp fognatura, e due cani a guardia dell’uno e dell’altro lato della strada che si guardano con espressioni da disoccupati.
Nell’altra direzione, attraversata via Prayer, via Lorenzo Vitale, ritornano l’asfalto, i cassonetti, i pali della luce. È il primo comparto, che comprende anche piacevoli costruzioni popolari. Il secondo, che lasciamo alle spalle con il fantasma del terzo che potrebbe nascere, è condannato da inghippi burocratici, quali l’ultimo tratto di fogna pluviale, fra le dannazioni del Comitato. Sant’Anna è un caso clinico irrisolto perché non ha neppure una ragione da sanare.
Davanti al complesso residenziale Porta di Mare 1 scorre una carrozzina spinta da un signore zoppo. Dal residence Borgo Marea spunta un bambino senza moccio portato per mano. Hida, zingara di quelle che piacevano a Charles Baudelaire, ma a distanza, 15 figli in 43 anni, sorride nel sole: ha ricevuto una bella casa dal sindaco Antonio Decaro e in grembo cova altri due esseri umani. Sfila una macchina ben acconciata, dopo un quarto d’ora l’abitacolo di un’altra risuona di salsa. Si materializza un fuoristrada silenziato. E parcheggia. Dove vuoi, quando puoi, come ti pare, anche se rientrassi dal Murat con il tuo Boeing 747 Alitalia. Il problema è che lo spazio è troppo qua.
Campi di perdizione connettono lingue d’asfalto alle strade di breccia bombardate. Voragini si aprono sotto i piedi di palazzoni che non nasceranno, nella città invisibile entro la quale stanno nascosti 3-4000 abitanti che se sono di Bari non sono di nessuna parte.
Per crederci bisogna vedere. E vedere non basta. L’uomo creò il Sant’Anna prima che la cacciata dall’Eden lo precipitasse. E Dio sta lì, quasi all’angolo del nostro tracciato, via Fratelli Spizzico Maestri d’Arte, nel locale commerciale di vetri e pareti basse che è Parrocchia Sant’Anna, sotto all’inquilino del primo piano che lungo i balconi cura le piante, proprio davanti al gatto giallo striato che prega all’ingresso del porticato e guarda, perché ha Cristo in croce sulla parete fondo sala, proprio davanti. E perché i parrocchiani lo foraggiano con croccantini a cascate, empiono la fonte sacra della sua doppia ciotola d’acqua, sistemata nel giardino inutile che affianca il nitore, la gradevolezza di questo tempio cattolico che consegna altra pace a troppa pace.
Percorrendo l’ex Strada Sant’Anna a piedi o in bici o in auto la gravità lunare non cambia. E trovi comunque, di fronte al Palazzo Prayer solido di materiali d’alto lignaggio, la casetta in legno dei «Vendesi trivani cantinola e posto auto», toc-toc, nessuno apre, nessuno ovunque, ovunque chiuso, vedi altri vendesi buttati lì con poca convinzione, anche se c’è gente che continua ad acquistare, trecentomila euro un quadrilocale.
Niente negozi, se non il Panificio Sant’Anna di Fiore Onofrio con il bar, Casalù casalinghi e il piccolo market. Niente visagiste, niente ristoranti e pub, la pizzeria caffetteria Da Nico è in letargo, niente gourmet da pizzicagnoli, se non la Bottega dei sapori chiusi, nel senso che ha le saracinesche abbassate, niente droga, niente tassi di interesse, niente banche e prestiti negati, niente ufficio postale e farmaci, niente massaggiatrici in centri estetici erotizzanti, soltanto qualcuno di fuori, del mondo altro, ha affittato un pied-à-terre per far sesso in zona imperscrutabile senza procreare. Niente palestre, niente nail stylist, solamente colossali monadi residenziali perdute nel vacuo, eco-edifici da manuale che si specchiano in altri interrogativi, misteri del mondo dei quali essi stessi sono rappresentazioni.
I materiali dell’edilizia privata, coop e popolare ristagnano da ogni parte. Abbaia un cane che non dorme su un balcone al quinto piano. Giunge un grido lacerato, dialetto barese, di lontano. Lungo fu Strada Sant’Anna, che prosegue in linea d’aria proprio con questo nome oltre la ferrovia e si imbocca dal lungomare, scorre l’autobus 2. Basta. Se guardi attraverso il binocolo capisci che c’è altro da esplorare in direzione Bari, un campo da basket che sovrasta l’avvallamento di alberelli nani, il parco giochi con l’altalena, un salice senza confini, oppure è un acero. Via Spagna l’hai saltata, via Mimmo Conenna Artista 1942-1988 l’hai notata. Il coprifuoco delle 17 non è ancora scoccato. Le prostitute sulla complanare stanno lavorando. E in ex Strada Sant’Anna Via Fratelli Prayer sei stanco di consumare il tuo coito interrotto esistenziale.
Viaggio nelle strade di Bari, qui via Lattanzio e il Cirillo culla di Toti e Tata. Le prime prove dei comici, l’Orfeo, i negozi, miti e bar. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Aprile 2022.
Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa e via Prayer (Sant'Anna), prosegue con questa sesta puntata il viaggio per le strade di Bari
Effettivamente può sembrare strano ma l’unica maniera per connotare la striscia d’asfalto di cui parliamo stavolta è chiamarla via Toti e Tata, anzi via Tata e Toti, nello specifico di Tata, che qui ha vissuto fin da bimbetto dopo il trasferimento con i genitori da Napoli, che qui si è malamente formato scrivendo su un taccuino Pigna i primi testi comici e inscenando gag casalinghe assieme al compare dal naso esibizionista e dalla pelle asiatica.
Via Lattanzio è strana. Non sai come definirla, alla pari di certe persone con le quali vieni in contatto domandandoti ancora, dopo anni, di quale pasta sono fatte. Parte dall’estramurale Capruzzi, San Pasquale bassa, il quartiere della mediocrità, né carne sordida da periferia criminale né pesce scintillante delle professioni e della baronia locale. E si perde in via Postiglione, larga e percorsa dalle macchine e dall’aria.
TUTTI INTASATI
Si ingolfa sempre. Tu bestemmi perché il circolo sanguigno del traffico ristagna tra un bus 10 e il furgone fermo per lo scarico, tra gente che protesta per le auto in doppia fila e i clacson che suonano la sinfonia della vita metropolitana di Bela Bartok, di Stravinskij e di Stockhausen, della scuola nuova operistica venuta dopo i grandi che ancora oggi sono gli unici a fare la fortuna dei teatri.
Via Lattanzio, già via Gondar, area di fonderie e artigianale, è anche un termometro, una rappresentazione toponomastica dell’economia di Bari. Dopo il covo militante Focacce, si apre con Oro 2000, penultima spiaggia per morti di fame o semplicemente per avidi adusi a vendere le mutande stesse della defunta madre. All’altro angolo c’è Finanziatutti, srl che soffonde fumi di speranza. Poco più avanti, superato un bar Cremoso, la bottega innominata che acquista oggetti, mobili nuovi e vecchiardi, statue di santi, resti di diavoli se hanno valore di mercato. E, prima delle tintorie a prezzo stracciato, l’hard discount Primo Prezzo, altro polso di uno stato delle cose che un tempo scolava invece per tutti grasso.
FILM E VELLUTI
È un luogo importante per i lattanziani, intendendo con il termine non i seguaci del leader democristiano scomparso Vito Lattanzio ma i residenti più maturi che portano sul cranio capelli tinti di scuro o più sinceramente bianchi. Perché nell’ampiezza del supermercato popolare riposava un tempo come un enorme gatto persiano il cinema Orfeo dei Saponara, il più bello e lussurioso di Bari, sul cui schermo hanno lasciato le loro tinte illusorie prime visioni che soprattutto nei Settanta coniugavano appeal commerciale e qualità per intenzione naturale. Nei suoi velluti affondavano spettatori rapiti, spesso anche in trasferta dalle province di Bari, come Michele Peragine, del Tgr Rai Puglia, partito dallo scalo ferroviario di Grumo Appula per vedere l’esordio di «La prima notte di quiete» di Valerio Zurlini, o come Sergio Rubini, suo amico compaesano, che di quella stessa stazione fece «La stazione», il suo film da non dimenticare.
Era tutto un frusciare di moquette e poltrone nelle quali gli amori nascenti delle coppie mano nella mano si inabissavano. Là dove oggi una signora di Bari chiede l’elemosina su una panca all’ingresso del market, girava nervosamente sui tacchi una signora della ricca borghesia smarcandosi dalla ressa per entrare. Là dove è esposta sui banconi refrigerati zucca gialla a 2.60 euro fumavano due zoccole (così venivano ancora definite in quei tempi) che si strusciavano in coltri di costosi animali ammazzati tra le nevi o nelle savane non da qualsivoglia bestia più grande ma da una che cammina su due zampe. Là dove allunghi la mano ad afferrare pomodori Piccadilly a 2.49 sostava in zona bagni l’untuoso commerciante che al Circolo della Vela teneva all’ormeggio due barche. Là dove la scamorza Sanguedolce si presenta inespressiva nei suoi 6.95 euro al chilogrammo, stava seduto un prete cinefilo della parrocchia vicina San Pasquale a guardare due volte di fila «Jesus Christ Superstar», il più bel musical mai proiettato, e meditava, qualcosa nella sua fede non tornava. Là dove acquisti pelati Rosso Gargano a 0.85, l’ingegnere saltava la coda per pagare in lire il biglietto e farsi una vasca in sala salutando i conniventi consiglieri comunali come in via Sparano. Là dove la vecchia arranca sui passi cercando a 1.19 Roberto il Tramezzino bianco che lascia la sua dentiera in pace, c’è lo spirito di una donna che è morta quando doveva morire, nel «Novecento» che ha visto all’Orfeo senza capirci tanto e che il compagno Bertolucci affrescò in film per due puntate. Là dove stanno allineati i BeautyCase tappetini assorbenti per animali si stiracchiava sulla poltrona un famoso ginecologo con moglie occhi verdi in visone, noto per compiere aborti illegali. Là dove la madre giovane pesca Salati Preziosi a 1.05 euro per il figlio in modo da tappargli la bocca, si aggiravano professionisti di varie entità e natura in cerca di un posto senza numero, frenando il ciondolio dei borselli in coccodrillo scuoiato o di bove abbattuto con una pistolettata in fronte. Là dove si aprono i corridoi per il deposito passavano furtivamente commesse amanti a scrutare meglio le fattezze della moglie del loro datore di lavoro che sputava dalla bocca il denaro dello scambio. E lassù dove oggi si elevano colonne d’acqua Mangiatorella, o dove barattoli di digestivo effervescente Bellanca si offrono come mercenari all’esercito di succhi gastrici, si diradavano molli di sensualità fumi di Marlboro e di Muratti Ambassador che in quegli anni, inspiegabilmente, non causavano il cancro.
IL MITO DEGLI ACETO
Questa è via Lattanzio. È ciò che è e quello che è stato. È la farmacia di Vincenzo Buccino, la lavanderia self service Lava Subito con sei lavatrici e sei asciugatrici schierate. È un B&B inatteso Al Settimo Piano. È il parrucchiere donna Alex Myra, accanto al centro estetico solarium L’Angolo del Sole, dove il vostro volto grazie alla radiofrequenza risorgerà. È il Vespa Club colorato, punto fermo delle due ruote storiche in città. È la Bottega, associazione culturale che offre corsi di pittura e scultura e lascia filtrare dalle saracinesche odore di tempere impastate. È il veterano, fornitissimo Gallo, ferramenta e prodotti dell’arte. È Francesco Aceto, che con il fratello Paolo dal 1962, nella bottega originaria circoscritta dal «murocinto» lungo viale della Repubblica, ha riparato e unto di grasso ogni bici e ogni scooter, marchiando l’immaginario. Ed è il vicino balcone azzurro di casa di Tata, al primo piano, una delle basi logistiche della scapigliatura decerebrata e dalle cui viscere è nato tutto del quartetto comico U.S.T. poi diventato un duo.
Quella casa, dopo la prematura morte del padre, aveva un solo nume, Titina, madre del ricciuto, che andavano a trovare anche in assenza del figlio i compagni di scuola. E guardava a un mondo animato da mille spunti. Topini (ladruncoli immaturi) volteggianti su Vespa 50 truccate più veloci dei Concorde, circoli ricreativi che sono stati tutti chiusi, frequentati da aspiranti inquilini del carcere minorile Fornelli e del gabbio adulto di corso Benedetto Croce. La pizzeria Da Donato, presa d’assalto da folle inesauste come il fuoco sacro, nella quale passava e passa di tutto.
SKETCH
In quel tratto, vicino al Garage Lattanzio (più avanti c’è il reiterativo Garage Lattanzio 2), si consumarono episodi talmente singolari da diventare storia. Tata ancora ragazzetto, munito di espadrillas fetenti nella buona stagione, soffriva di vene varicose, ma non si complessò per questo, no, anche perché alle ragazzette piaceva ancora. Emilio Solfrizzi non ancora Toti era il più equilibrato del gruppo partorito attorno al ‘61. Gli altri erano più peggiori, come suole dirsi con errore da matita blu.
Una volta un amico magretto e isterico, più che nervoso, sferragliò pugni a velocità ultrasonica sui musi di due topinastri tramortendoli, prima del fuggi fuggi per la conseguente colata lavica di delinquenti vendicatori. Taluni (tutti) del gruppo menavano rutti. Altri crepitavano turbando il sollucchero di coppiette al buio dei pomiciatoi. Un ceffo gresso (grosso) e umidoso una volta balzò sul Gitan Special Cross di uno sgraziato compagno di classe di Tata-Antonio Stornaiolo: becco d’aquila torto, occhi iniettati di maniacalità sessuofila e ravvicinati al modo delle bertucce, gambe da trampoliere e torso nano ipotonico. Si trattava del 50 cc più brutto mai prodotto, tanto che non ne è rimasta traccia manco nelle raccolte web dei nostalgici Anni ‘70, se non due foto di carcasse bruciate affinché non turbino altri occhi. Concepito teoricamente per il fuoristrada, era munito di pneumatici di plastica contundente e di ammortizzatori efficaci quanto quelli delle barelle del Policlinico di allora, cioè quelle d’oggi.
Con il proprietario spepitante dietro, incapace di opporsi, il tomo percorse ululando l’intera via Lattanzio in controsenso, consuetudine diffusa allora, sgasando, impennando nonostante la ripresa floscia e minacciando gli automobilisti che espettoravano, «cornuto!». Finché un bel mattino Tata trovò la pupù sulla maniglia della sua macchina, lato guida, deposta da un ignoto defecatore che evidentemente seppe compiere l’azione che a Icaro costò la morte: volare. Se non era il cestista della squadra basket dei watussi.
CRESCENZIO E IL CIRILLO
Via Lattanzio significa anche convitto nazionale Domenico Cirillo, là a un tiro di schioppo, scuola più antica dell’Urbe (1771) frequentata da quasi tutti gli appartenenti alla comitiva del Tata e del Toti. E da via Cirillo, in diretta, pochi secondi, si giunge infatti al bar Crescenzio, ottimo dal 1958 in poi, storico fornitore di merendine e panini per gli studenti all’ora della ricreazione. Li consegnava il titolare Crescenzio Pastoressa in persona in guantiere elastiche come bob. Figura amata dai ragazzi per la sua bonomia, dai prof, da chiunque. Barista dall’età di sette anni nel locale dei fratelli, dopo innumerabili sveglie alle 4 per lavoro, lasciò il testimone al figlio Michele, che guida l’impresa coadiuvato dalla sorella Lucia.
Superati il bar Crescenzio, la gioielleria Giacomo Pesce con gli Hamilton e i John Dandy, la Bnl per un mondo che cambia, le vetrine del Centro Ottico Ruggiero Lavermicocca, via Francesco Lattanzio, politico 1836-1897, esonda in via Gaetano Postiglione, 1892-1935, ingegnere, politico, presidente Aqp, foggiano famoso al fianco del Duce. Manca ancora una via Ficarella, idraulico stimato e abbastanza noto.
Viaggio nelle strade di Bari, ecco Via Mazzitelli: salotto sull’abisso. Zona chic, reame dell’edilizia: movida e arte-ingegneria. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Aprile 2022.
Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa, via Prayer (Sant'Anna) e via Lattanzio prosegue con questa settima puntata il viaggio per le strade di Bari
Via Orfeo Mazzitelli ha avuto un destino strambo. Nel senso che dentro Poggiofranco nuova si trasforma nel suo contrario, nel suo competitor, dopo la rotonda in linea d’aria. Cioè in via Salvatore Matarrese, fondatore pure lui di una grande impresa di costruzioni, come lui attivo dacché l’Italia perse il «De Monarchia» e si improvvisò repubblicana, e il cui nome s’insinua con ostinazione addirittura in mozziconi di strada già consegnati a fama altrui: «Prolungamento di via Salvatore Matarrese», «Via Orfeo Mazzitelli già via Salvatore Matarrese». Fra i due si interpone Largo Emanuele Degennaro (1920-1988), terzo costruttore.
D’altronde lo vedi, limpido, chiaro, quando percorri questi rettilinei immessi uno nell’altro: è area per edificazioni, senti le finestre friggere sul forno dei raggi, il cemento che spande e sorge in bastioni di un nuovo Creato. Guardi il metallo, i rampicanti che piangono sversandosi dai balconi hi-tech, roof garden 600.000 euro pentavani, edifici top di gamma, lucenti di ascensori cromo e di marmi lustrati, e che sembrano ridere nel vento come il denaro che scintilla.
Ai piedi di ogni condominio si apre un caveau a ingresso elettronico (garage) che tiene in deposito auto di valore senza erogare interessi bancari. Tante quante altrove non se ne vedono. E compaiono ancora all’esterno nel carico-scarico davanti ai portoni prima di discendere nei loro ricoveri d’ombra.
Su via Mazzitelli il Noema Parking e il Garage Mazzitelli al - 3 stanno affiancati. Si sviluppano progetti di verde verticale consegna 2024. De Finibus Terrae di quanto a Bari ci è dato. E una grande, ininterrotta tavolata sulla quale mangiare luculliano, ristoranti, giapponesi e patriottici, pizze gourmet, bar, secondo intervalli melodici di triadi o coppie, linearmente armonizzati nello chic che oggi assoggetta il palato.
Ma si sa che anche gli occhi masticano. La gola guarda. Tutto è concorde nell’edonismo occidentale che ha invaso via via anche i sentieri ottuplici orientali, le filosofie di chi teorizzava altro da ciò che proponiamo, e che si è fatto religione impossessandosi della dimensione spirituale. Per cui si può dire che via Mazzitelli è in tutto il suo essere un fortilizio del nostro tempo. Un modello vincente. Tanto che continua a espandersi, lungo i marciapiedi, e alle spalle, gru, bitumatrici, voragini; e ad accogliere anime fasciate da Burberry e da Adidas, deambulanti su Tod’s e su Asics modello Metaspeed Sky, e che si sentono bene.
SALOTTO
Via Mazzitelli è uno dei salotti di Bari. Forse più salotto fra tutti. Si lascia alle spalle il disco volante sormontato dagli specchi dell’hotel Nicolaus marca Degennaro, i pilastri lungo i quali in senso ascendente s’irradiano rampicanti secchi come mani di vecchia sulla gamba di un giovane e prosegue per i fatti suoi in direzione opposta di marcia. Che silenzio, squarciato da urlo di macchina. Che pace: attento al Monster Ducati lanciato come uno sparviero con le ali tagliate.
Il principio è un triangolo di verde indipendentista centrato dal sole che non si riappropria di nulla, alberi colmi di capelli, buoni per poter urinare nascosti: sappiamo che i bagni pubblici tutti li hanno chiusi perché tutti lo fanno. Così si usa nel mondo. Questo facciamo per vivere, anche vivere peggio di prima, ma comunque vivere.
Un marciapiede, una corsia discendente, lo spartitraffico che separa la parallela che sale, pista ciclabile per padroni con cani, una bretella smilza che orla dal principio al finale del centro sportivo Angiulli i complessi residenziali abitati con lo stesso rispetto e la stessa cura con cui sono stati recentemente costruiti.
Diamine, via Mazzitelli. Chissà se è passaggio di cinghiali che hanno imparato a masticare asfalto e ad aspirare polveri sottili come le persone civili. Chissà se quaggiù nel declivio a destra profondo, dietro silos e macchinari e capannoni ammantati di ruggine viaggiano volpi dagli occhi lampeggianti con canini che insanguinano il corpo dei pennuti.
Sulla destra ci sono il collegio universitario di merito Poggiolevante, che ha in testa pannelli fotovoltaici, Intesa sport club scuola calcio ufficiale del Bari che si inoltra in areole di ulivi cinti di serenità bucolica. Palazzo AltaBari, il cui nome stesso ribadisce l’aspirazione a elevarsi del posto, guarda di fronte alla lottizzazione 22/91 fabbricato B2 ad uso abitativo, al bar Asgard foderato di marmo bianco tagliato a fette larghe e con bagni brillanti. Accanto a questo, il primo assaggio di movida nel sushi fusion Basho, sotto portici pieni d’immensità ariosa, alti come principi di Danimarca, algidi come tetti lustrati dalla neve, e che sul retro si aprono in spazi meditativi nei quali sciacquare i panni di qualsivoglia produzione.
INGEGNERIA E ARTE
Stanno bene i lavoratori, stanno bene i residenti, giardini pensili, palme, ulivi pettinati come bambini prima di andare a scuola, panche di pietra sulle quali fermarsi e, non visti, non pensare. A che serve, poi? Dove andiamo a parare? Bisogna andare oltre il pensiero, avevano ragione gli indiani.
Sono puliti perfino i parapetti delle rampe dei garage. Così questo rettilineo si è fatto la fama di uomo ricco. Poi ricco quanto non sappiamo. Così si è fatto bianco come gli abiti da sposa, s’è imbellito con allestimenti linfatici da pranzo nuziale e ha attratto una gioventù modaiola e mangereccia nuova di notte.
Via Mazzitelli non fa sesso con nessuno. Non si contamina. Camminando nella luce del mattino si vedono begli attacchi motopompa rosso mattone. Passerelle per disabili a posto. Ingressi trasparenti, o di faggio nudo. C’è lo Studio odontoiatrico Carlaio al 120, con i dottori R. Carlaio e M. Virginia Bux. Accanto sta crescendo come un allievo della scuola militare Nunziatella Palazzo Vesta per Ricci Costruzioni, circondato da gru. Viene fuori una ragazza con un cane amorfo. Si ferma un Suv tinto tomba e deposita una signora dai capelli di fuoco. Belli.
Dall’altro lato della strada, sotto palazzine più basse e ordinarie, prima che la natura proceda nell’abbandono di macchinari edili, c’è il celebre Cicli De Marzo, con sospesa in vetrina una baby bici Bianchi. In cielo, sopra al giallo dei fiori, il buco dell’ozono. Di qua Matsu tasting emotion e sushi roll style, nome che corre sulle labbra dei ragazzi, proprio sotto i dentoni dello studio odontoiatrico Tempesta, che prosegue ad angolo sopra l’ingresso di Stocotto «a fuoco lento». La Marisqueria, pescheria e cucina, è attigua al bar Mood, tavolini all’aperto affollati di abiti blu. Viene fuori una ragazza madre con due gemelli nella carrozzina che sembrano dolcissimi cani shih tzu e difatti abbaiano. Il civico 160 A è trapezioidale, ingresso in cristallo che si fa trapassare dall’occhio, cinto da aiole laviche di fiori viola. E sulla fiancata, in prima fase dell’opera di costruzione, è possibile scorgere che cosa nasconde un palazzo sotto. L’enormità. Il precipizio. La forza non più umana, lo sbigottimento di fronte alle facoltà umane che sanno giostrare tra giganteschi equilibri. La prova che fra le arti decadute scienza e tecnica si conservano espressioni migliori, il Politecnico di Bari è il nostro Conservatorio musicale delle ruspe, gli ingegneri e gli informatici unici veri spiriti guida. E laggiù tra gli escavatori che aprono il cuore della terra, fra operai ridotti a pulci, possiamo lanciare la nostra ammirazione, l’umiltà di sudditi davanti ai padroni del compasso e dei numeri.
ABISSI
Il Talento Caffè nella grande piazza si è spogliato di tutto. Gli altri locali sono aperti: l’Officina di Soal, pizzeria gourmet braceria, Osteria del porto, Sensi restaurant, Giotto pizzeria a 360 gradi, nome fra i nomi. Dopo Venus Estetica, al 264, c’è un mosaico di targhe servizi offronsi, il commercialista revisore legale Giuseppe Matarrese, il cardiologo Maurizio Nastasi, la psicologa Roberta De Robertis, nel caso decidiate di diventare agorafobici. E, senza soluzione, Le Véronique, Tabula Rasa, pizza, spaghetti, risata, digestione.
Sul balcone di un primo piano del 270 spicca il blasone tribunalizio di una falange armata di avvocati del lavoro, Gismondi, Lella, Didonna, Cascione, D’Addario. Sul citofono sta piantata la psicologa clinica Maddalena Mesto che è psicanalista pure, e quanto la collega consegnata all’intraducibile, all’insondabile e all’imprevedibile sopratutto. A destra c’è una professionista in tailleur, graziosa, che non saluta anche perché procede spedita con i polpacci in tensione su tacco 12; sarebbe viva, se viva fosse là dov’è dipinta sul muro; è impegnata in una conversazione, ti risponderà dopo al telefonino per conto della BCC Cassano delle Murge e Tolve.
Via Mazzitelli termina con l’attiguo spazio giochi, forse ad uso dei bancari più tristi e immaturi. A metà percorso sul Largo Degennaro c’è un altro parco, con scivoli e altalene, di dimensioni maggiori. Ma ovunque sui marciapiedi stanno distese enormi grate di areazione, che aprono sotto di noi abissi di verità di cui non si intravede il fondo, rivelatori della vertigine che ci segue passo per passo, in ogni momento del giorno, che ci fa sfiorare l’infinità della morte, salto nel buio che ci divide dalla realtà sensibile per unirci fra noi.
Bari, viaggio da un Varco all’altro nella via del Porto che porta al mare. Nell’altro mondo, tra gabbiani e cantieri, navi e finanzieri. La penna di Alberto Selvaggi e le foto di Teresa Imbriani raccontano il porto di Bari. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Aprile 2022.
Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa, via Prayer (Sant'Anna), via Lattanzio e via Mazzitelli prosegue con questa ottava puntata il viaggio per le strade di Bari
Se vuoi lasciare il mondo perché il mondo è stato mal costruito, se vuoi respirare un’aria che in parte si disfa delle impurità librandosi in vapori viola di numero atomico 53, simbolo dello iodio, potresti navigare sull’asfalto qui dove non puoi accedere se non hai una buona ragione, lungo la bretella che costeggia il lungomare di corso Vittorio Veneto, altra parte del mondo che si chiama Porto, porto non vecchio ma nuovo.
Pensa un po’ se fossi un conducente di TIR e avessi lasciato a casa la moglie, i figli e il resto del fardello di vita che ci portiamo sulle spalle tutti. E fossi libero e celenterato come un anemone, idra, corallo o medusa, diretto a vuotare un container di qualche cosa. Potresti infilarti nel Varco della Vittoria, quello che apre a una lingua di strada sottile poco prima del Cus Bari e dell’ingresso della Fiera del Levante che è morta. E mandare a quel paese tutti, in particolare l’anima tua, che ti pesa, per percorrere in direzione Varco Dogana, verso il Castello Svevo, una realtà più vicina alle onde, che ti era sfuggita sempre di là oltre il muro che divide la prigione urbana dalla culla di barche e navi da crociera lunghe e alte quanto complessi edilizi moderni, dove non ti vede nessuno e dove non guardi nessuno, disincagliato dai dissapori.
PACE E SALSEDINE
La tranquillità è una grande cosa e chiunque qua sta tranquillo. Fin dal principio della Strada del Porto scorgi a destra un viottolo che dà su un prato buono per i picnic o per sonni ingiusti, perché quelli giusti spettano soltanto a poche persone. Ma non è questo il punto. L’importante è comprendere che da questo momento in poi fai parte di un’altra autorità, di una infrastruttura marittima imponente della quale scorgi i confini soltanto con il binocolo. Pertanto ti si presentano cartelli quali Veicoli autorizzati, auto servizio, Autorità, Imbarco Grecia crociere, ticket check-in, Accesso concessioni diporto nautico, Free truck parking, e poco dopo una rotonda dai brutti lampioni.
Non passa molto e al casello doganale ti fermano degli uomini, e devi pur dirgli qualcosa: perché sei qui?, e cosa pensi?, che ne sai della vita?, sei sicuro della direzione intrapresa?, da dove vieni e verso quale delle tante, troppe rotte con le quali il destino inganna intendi andare avanti?, hai un preciso orientamento filosofico?, sai chi sei e conosci il motivo per il quale agisci in un certo modo?, hai capito oppure no che sei entrato in una dimensione diversa dalla solita?, non vedi che questo è il Porto sotto il cielo di Dio e sotto lo sguardo degli uomini? Aiutaci, anche noi come te non navighiamo consapevolmente, eseguiamo degli ordini ma non abbiamo ragioni. E questi custodi hanno ragione, sei finito in un’area protetta, piena di finanzieri che qua hanno tante basi, le caserme si susseguono pure di là sulla via parallela cittadina, non soltanto a sinistra in bocca alle onde, ci sono aree sensibili come la pelle e che per la loro fragilità necessitano di controlli e di protezione.
Però c’è lo spazio libero che ti aiuta a respirare. Se ti accettano come cittadino del regno salato, seguirai un andamento esistenziale che esula dalle tue abitudini, lancerai lo sguardo su piazzali rarefatti, e che poi sono in realtà destinati ai camion e ai tir poco importa. Guarderai deperire edifici bassi e dimenticati che si lasciano divorare senza troppa sofferenza dai venti maestrale e tramontana, da raffiche di polvere, dai raggi e dal freddo che concorrono nella sinfonia d’erosione.
Compagni sulla tua Strada del Porto in questa stagione di mezzo sono soprattutto i camionisti che vanno a deporre la merce dopo aver percorso una misura innumerabile di leghe. Di là oltre le cancellate vedi sfilare macchine e moto, a sinistra non vedi muoversi nulla, se non persone sole, poche, e chissà se hanno qualcosa da fare. Sotto tensostrutture aguzze come cappelli di gnomi stanno allineati sportelli Montenegro Lines, per Bari-Bar, Jadrolinija, Dubrovnik-Bar, European Seaways, Gnv, Ventouris Ferries, Corfù Cefalonia, Adria Ferries, Durazzo, per Venezia Grimaldi Group. Dietro i vetri delle postazioni raramente vedi muoversi teste di uomini, siano femmine o maschi, siano veri o impressioni, sistemati uno per uno davanti al senso di vuoto, a uno spazio lunare che non fa paura.
PELLEGRINI DELL’ONDA
E prosegue il cammino verso Santiago in versione insapore, espurgato delle suggestioni di fede e di sogno. E che ha tuttavia tappe di sosta per rifocillarsi, come lungo le vie di pellegrinaggi più nobili. Per cui non trovi una locanda con ritratti di personaggi famosi e di santi protettori dei deambulatori, bensì lo sbrigativo Ninì drive & street food La Taverna del Porto, con all’ingresso un albero espulso dal mare, spogliato della sua scorza miserabile, decorato dal titolare con reti da pesca e una cassetta verdognola. O Panini pizza kebab, funzionale al riempire gli stomaci in pochi minuti.
Per i bagni non ci sono problemi. Tanti, di prefabbricato tecnologico. Stanno piantati come fortezze della necessità sul fronte di una selva alta di alberi e pennoni di barche che ondeggiano nello spazio azzurro. Ogni tanto si vede un gabbiano poco convinto; non so dire di cosa. Non tutti sono a conoscenza del fatto che sono crudeli come tutti gli animali della terra, compresi noi. Si portano sulle ali il nostro immaginario fiabesco, ma in realtà decapitano pesci proprio là nella conca di mare conchiusa come gli orti dai moli, e scotennano nel sangue, soprattutto in volo, i colombi che si ingozzano di infezione.
Che grande mare. Bacino Grande. Lontano, atarassico, là di fronte, privo di lussuria, descritto dalla sua assolutezza piatta, si lascia scivolare sulla testa lentissima la chiglia di un cargo che gli scava i capelli d’acqua in una riga di schiuma, e lascia vivere nel suo neutrale atteggiamento di osservazione le verdesche, gli sciriè, vecchi scorfani dalla pelle butterata dall’acne sommerso, le perchie, le bavose che hanno pelle di geco e sono i gechi del mare nel loro aderire viscidamente alle superfici e nel loro orrore, scarpe con suole di gomma immobilizzate da grovigli di alghe in labirinti senza sbocco, qualche occhiata e sarago nobili, qualche cefalo grasso di poltiglia, e occhi sgomenti di piccoli pesci ributtati nel mare dopo avere abboccato perché troppo giovani e che si sono spenti. E fra questi cadaveri di squame portati a zonzo dalle correnti, i goggioni sopravvissuti, i più facili a prendersi all’amo, educati a credere nell’onestà per venire sconfitti.
Sulla destra, continuando sulla strada, c’è qualche cantiere datato, un’area spenta termina in uno stagno sulla cui riva si affacciano due bocche che paiono fogne. E c’è il Parrucchiere per uomo, nel quale ci si può offrire al taglio con la devozione che ispira il posto. A sinistra si susseguono sedi di varie istituzioni terrestri e sottomarine, che nel mattino non visita nessuno. Perché tutto è placido nel porto nuovo, non è un grido di cozze e Peroni come il porto vecchio del molo San Nicola, tra il Barion, il Circolo della Vela, con scheletri di bici e di scooter giacenti nella tomba di mare senza memoria. È un luogo di silenzi e di gente lontana nel quale sarebbe piacevole vivere, ritirarsi il pomeriggio o la notte dopo il lavoro per dirsi che è finita, finalmente, che finalmente comincia la vita nuova. Ogni giorno tra i moli foraneo e San Cataldo, a specchiarti gli occhi nelle quattro Darsene in cui dai tre metri ti inabissi a dodici. Dove tutto cambia nel via vai di seicentomila crocieristi all’anno, oltre un milione di passeggeri in traghetto, ma tutto rimane.
ALTRI FASCISMI
Continuando a veleggiare sull’asfalto, ogni tanto vedi gli estranei del mondo altrove, di là dalla cancellata, solitamente al trotto perché i runner si allenano sul marciapede di corso Vittorio Veneto, strada fascista nobile, piena di cose fasciste, di fasci fascisti, di palazzi con corti verdi fascisticamente scavate tra i palazzi solidi. Belli. Varco Caracciolo propone quasi una condivisione fra queste due abitudini di vita così diverse, quella metropolitana, quella marinaresca. Ma non c’è obbligo di commistioni, basta non guardare a destra e di quei cittadini non ti rimane più nulla.
Dopo Varco Brigata Regina, anch’esso chiuso, quasi all’incrocio con la via omonima, c’è l’Arpa Puglia, la linearità da battello del Parcheggio Saba di fronte al liceo ginnasio Orazio Flacco. Arriva Varco Pizzoli, al molo omonimo, con un’altra casetta della Gdf in rosso. La Lega navale, il Nucleo Sommergibilisti, l’Associazione nazionale Marinai d’Italia, la Stazione navale delle Fiamme Gialle, Ramar cantiere e diporto, infine Varco Dogana, dove hanno protestato gli aderenti a Fronte del Porto che si oppone al progetto di cementificazione dell’Ansa di Marisabella, che con due sbarre separa il mondo che frequentavi da questo che hai conosciuto.
Viaggio nelle strade di Bari: la via del Castello ai piedi di Federico. Il mito Gigino Gentile, le orecchiette e plotoni di turisti. Il reportage di Alberto Selvaggi e di Teresa Imbriani. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Maggio 2022.
Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa, via Prayer (Sant'Anna), via Lattanzio, via Mazzitelli e la strada interna al Porto nuovo, prosegue con questa nona puntata il viaggio per le strade di Bari.
Un mozzicone di strada che è un concentrato di bellezza e di patrimonio umano. Si stende ai piedi di un sovrano che ha illuminato la nostra esistenza di sudditi culturali, Federico II, lungo l’ottava meraviglia del castello normanno-svevo che rimaneggiò lasciando l’aquila scolpita sull’archivolto del portale e quindi lungo il fossato brillante di verde da divorare.
Ha una corazza irregolare di scaglie scure di drago norreno, sul cui dorso arrancano ballonzolando treruote invecchiati con i ferrivecchi, automobili silenziate dall’energia elettrica, biciclette rattoppate con il nastro adesivo e con lo spago, piedi di persone dai bacini basculanti sui dislivelli che s’affiancano, flussi di turisti guidati da illustratori di costumi e di antichità, che risalgono il ponte a sud verso l’ingresso principale del maniero, dato che Bari è diventata la città più frequentata e con un giro d’affari che stacca di gran lunga quelli delle località più rinomate. Una via che solca le mezzelune della piazza Federico II e che gente in monopattino elude nelle sue asperità per non venire disarcionata.
L’ambiente è ridente, perché arioso, perché costituito interamente di pietra plasmata dalla capacità artistica dei secoli, quella di Michelangelo e non di Cattelan, ma anche perché attraversata dal pulviscolo d’oro di un certo buonumore, che come i malanni si trasmette di persona in persona, e invece che fare danno corrobora. La via di Federico è piena di storia, cioè di quella dimensione temporale che ti spia fissamente dagli oculi delle torri del castello disteso come una nave dada, e sprizza quella che chiamavamo umanità, persone vicine allo stato di natura, ancora non discoste dall’essenza originaria, vivide di certa genuinità carnale, il popolo insomma, il popolo nella sua manifestazione spontanea, e che abbiamo perduto per le cause che conosciamo un po’ tutti, fra le quali i social, funzionali ad allontanarci uno dall’altro, a digitalizzare le solitudini nella perdita delle nostre unicità di singoli, di comunità, di razza.
Per cui qui è tutto un «tu» e un «ehi» immediati. E non è fantastico? A che serve mediare? Il popolo, il popolo vero di piazza Federico II, ovvero della strada vulcanica che la percorre, è ancora qui, incardinato nel luogo di origine, per includerti direttamente nella sua anima, senza pensarci, per virtù naturale. E allora capisci che sei di Bari, accidenti, capisci che sei dei loro anche se non sanno manco come ti chiami. Sei tu, non lei, sei prendi la busta, sei sposta il motorino per piacere che deve salire il camion.
Santo popolo di San Nicola. Il migliore, probabilmente, che esista in città. Sfaccettato, umorale, composto da personalità caratterizzate, da diversi uno dall’altro, pirotecnico e vociante come i fuochi d’artificio per il patrono di maggio. È festa e festa facciamo.
C’è la farmacia Dalessandro all’angolo con piazza Massari. Il bar pizzeria Federico II dopo l’omonimo vico, che ingozza russi, inglesi, statunitensi e ucraini di pasta fresca con ragù e cime di rape. Sullo stesso isolato la Caffetteria del Castello, poi Magicaterra che richiama nel logo ottagonale federiciano le sue ceramiche e piccole opere ispirate a Bari. E nel sole spunta Lady Franca, con le bancarelle delle orecchiette davanti al basso che abita, bianco di calce, concavo come il ventre dell’Immacolata. Lavora velocemente la massa, sorride, simpatica, parecchi sono simpatici qua, farina di grano duro, integrale, arso, chiancarelle, orecchie del prete, strascinati, pasta nota anche all’estero ormai. Arco Basso, Arco Alto, ambedue titoli di opere teatrali in vernacolo che segnarono la città. Più giù di là, dopo vari telai e massaie diventate figure mediatiche, capaci di produrre ognuna fino a dieci kg di pasta al giorno, c’è la signora Lina, che è stata in America per esportare il verbo delle orecchiette fatte in casa. C’è anche folklore turistico, il soldo serve, ci si sveglia e si mangia. Ma tutto è nella verità.
Un altro esempio da cercatori d’oro del comunismo cancellato è la signora Teresa che armeggia davanti a casa, piano rialzato, va e viene lungo i tre metri che la separano dalle tende tra le quali spuntano un volto di figlia e un volto di maschio. Vende sottoli, taralli con glassa, pomodori essiccati, orecchiette grandi come padiglioni auricolari di nano, altre piccole giallo sfumato, e si porta in giro i capelli ventosi come una corona spogliata di valenza regale.
Ci sono turisti ovunque, cineoperatori, tv straniere, fotoreporter, fotografi d’arte, qualche pittore vagante con pennelli secchi come rami di vite, consapevole che gli anni vanno sfumando e che i prossimi sono pochi rispetto a quanti ne furono. E la piazza si allarga, si apre alle case affastellate dalla necessità. Porticine sepolte, la cartoleria Intralot, la pizzeria El Castillo, con la sua gettata notturna di tavoli. Caffetteria pizzeria Templari, l’esoterismo spirituale della Chiesa della Santissima Trinità. Il parrucchiere, i souvenir made in Bari, Puglia Ceramiche, Jewelry con una pregevole selezione di Hamilton. L’arca di tinte La bottega del detersivo, posto fantastico, piazza dell’Odegitria che si apre sulla Cattedrale, Salumeria Favia, Caffetteria Vanny e Mary, il signor Tonio, maturo pezzato con baffi, che sarebbe un gatto randagio a pensione nella Tabaccheria Loseto, dove può miagolare due chiacchiere con il titolare Tommaso e il figlio Massimo. E infine l’ansa con Ladisa arredo idrosanitari, e il Pescatore, famoso ristorante con B&B che ha saziato i personaggi più famosi capitati a Bari.
La fortezza prospicente, ‘u Castìdd’ che chiude gli occhi del borgo antico sul nord del mare, è sede museale visitata da scolaresche alle quali le maestre si sforzano di insegnare, da stranieri che conciliano lo svago da vacanza con la volontà degli accompagnatori di informare di vasi mitici o di Aurelio Amendola fotografo. Composto dal mastio, baluardi a scarpata con torrioni a lancia sul fossato in cui i ragazzini barivecchiani si tuffavano per recuperare il pallone senza funi né altro, è sede della Soprintendenza per i beni ambientali architettonici e storici della Puglia. Ma è soprattutto magnifico e dominante come un concetto di governo politico che non potrà più tornare.
Potenza incombente dei vari regnanti sulla cittadinanza, fu anche cattedrale dell’imperatore Federico II laico, ignaro che, secoli dopo, sulla stessa strada si sarebbe affacciato un pur piccolo papa dei poveri, privo di potere temporale, impresso ancora a caldo nella memoria della comunità.
Giggino Gentile, ed è il caso per pronuncia barese eccedere con la seconda gi, abitava di fronte al sovrano, al civico 37, primo piano, balcone sulla bottega sua e di Mimì il macellaio. Nel 1947 aprì il buco di pizzeria che forgiò - è dire poco sfornava - le pizze migliori della storia di Bari. Inebrianti di un poderoso succulento croccante non soltanto in virtù dell’impasto e per il forno di pietra, ma anche perché utilizzava quanto oggi è vietato: lo strutto, l’anima e la forza impressa con quelle pialle di mani.
Stava dietro al bancone, fiero e inamovibile come un capitano, piedi a papera sulla pedana di mezzo metro, data la sua altezza limitata. Pinuccio «Nasone» infornava, la moglie Laura Lopez dava una mano anche per i panzerotti che sfrigolavano. Là davanti seduti sul muretto del fossato della fortezza imperiale, stavano ricchi, poveri, falliti, ladri, avvocati, eroinomani appena tornati da un estemporaneo spaccio internazionale a Londra nei primi anni Ottanta, schifati come lebbrosi dai mediorientali terroristi con i quali consumavano affari. Per poi morire. Li riconoscevi perché mangiavano la pizza tenuta su quella carta liscia, che poi volava nel vento di perdizione per imbiancare fra le lattine e le Peroni il fossato. Piegati su un fianco con i meravigliosi occhi rotanti nel buio del mondo, in quanto più lenti nell’afferrare coi denti la mozzarella colante che Gigino, nostro unico santo, tagliava intera e fresca, una per pizza.
Nei primi dieci anni il covo produsse anche gelati: Pizzeria Gelateria Gentile, insegna originaria. Ma dai Sessanta, quando la pizza cessò di essere un prodotto di lusso per la domenica, feste e compleanni, l’ometto di ferro dismise la sua Carpigiani, oggi restaurata nel nuovo locale.
Figura carismatica e rispettata anche nel ruolo di paciere dai barivecchiani, Gigino apparteneva a una stirpe di pasticcieri e gelatai le cui origini risalgono al 1880, con negozio nella strada del Carmine che dalla Basilica porta alla Cattedrale. Là apprese il mestiere del dolce, ma anche del salato quando Domenico Ficarella, zio materno, prese a sperimentare impasti di pizza che faceva assaggiare. Nel 1988 un tumore dietro un bulbo oculare strappò Gigino in pochi mesi dalle braccia di Bari, 58 anni. La moglie proseguì l’attività fino al ’91, quando depositò la licenza in Comune per non venderla a estranei, nel rispetto della memoria del marito scomparso.
Il locale divenne un deposito per il parentado. Finché nel 2007 Fabio e Francesco, nipoti di Gigino che giocavano fra le sue scarpe mentre lavorava, figli della maggiore Chiara che da piccola dormiva talvolta sui telai con la sorella minore Luciana, decisero di rilevare l’attività puntando unicamente sulla tradizione dolciaria originaria. La ex Pizzeria Gentile il 2009 riaprì come gelateria Gentile d’alta qualità, presa comprensibilmente d’assalto da turisti e cittadini che hanno a cuore l’umore del palato, estendendosi nella ex macelleria attigua che i fratelli titolari hanno voluto onorare con le Bombette zuccherose invece che di carne. Nonno Gigino è là fuori sul cartellone in poker fotografico. Piantato sotto il balcone, affianco all’ingresso di casa per lasciarci inchinare.
Viaggio nelle strade di Bari: Corso «Càvour», dalla BpB al Petruzzelli al fu «Saicàf». Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Maggio 2022.
Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa, via Prayer (Sant’Anna), via Lattanzio, via Mazzitelli, la strada interna al Porto nuovo, la via del Castello piazza Federico II, prosegue con questa decima puntata il viaggio per le strade di Bari
BARI - Corso Càvour è la rappresentazione urbanistica del levantinismo bottegaio che connota Bari. Il che mica è un difetto: anche la pratica dello speculare, se non è fare impresa, è un’impresa comunque. Provaci tu, soprattutto adesso che ‘sti poveretti, da negozianti liberi di mangiare a quattro ganasce, sono diventati equilibristi che manco possono trovare riparo sotto il seno fiorito di Moira Orfei buonanima.
Lungo questi isolati pallidi, e tuttavia vividi di gente che va e che viene, scorgi lapalissiano, sgranato il sorriso suadente che fra i denti tintinna moneta. Magari quest’etica da commerciante non piacerà a te che leggi quella cosa piuttosto noiosa che sono i libri, che da secoli si industriano inutilmente a diffondere nella massa. Tuttavia devi convincerti che la capziosità, in un modo o nell’altro, è il metro condiviso da chiunque si industri per vivere. Non sono tutti nobili ricchi come Lord Byron, che teorizzava quanto la letteratura sia l’arte di chi può permettersi di non fare un cavolo. Non tutti sono falliti miserabili genere Baudelaire, unico fra i suoi contemporanei a non entrare nell’Académie Française, anche se sovrastava tutti di immensi spazi.
Pensa a come vivi, prima di pronunciare sentenze. Non sbagli se constati che su via Càvour quella a accentata, sintonica con il sermo plebeius, si è impressa per sempre perché la zona non si è elevata tanto rispetto allo standard originario: è rimasta sé stessa come i figli che nascono con un certo stampo e se lo portano dietro. Però avrai notato anche un certo affinamento, uno sviluppo portato in dote dal ritmo montante della Bari turistica e viepiù crocieristica, e pazienza se il glorioso Saicaf ha assunto dopo la chiusura l’aspetto del Sacrario dei Caduti d’Oltremare.
CORSO CRESCENTE - Quelli che cascano meglio sono arroccati come patelle negli isolati più vicini al circuito barivecchiano delle navi e dei trenini che portano a zonzo le natiche di sbarcati per nulla morti affogati bensì con portafogli impinzati di lardo. Lì i negozi si empiono le garze sul serio, e diciamo garze perché lo slang, se non si esprime meglio, esprime sicuramente di più dell’italiano. Allora, diciamo che partiamo dalla fine, o dal principio di via o corso Càvour, lungo il lato di strada meno affollato, in quanto più povero di vetrine ma più ricco di edifici nobili e di valenza capitale. Sotto al ponte di viale Unità d’Italia c’è una ferramenta di un veterano, Cuccovillo, dove abbiamo acquistato un barattolino di stucco per rattoppare i buchi di chiodo nei muri di casa. Diciamo questo per fornire un’informazione socialmente utile, come impone il Codice deontologico dei giornalisti. Ma ci sono soprattutto parrucchieri quali Xin Chao Liu e Shanmei, uno azzeccato all’altro, che cercano pure personale qualificato: menomale che sono arrivati i cinesi a portare lavoro in Italia.
Se attraversi e nessuna auto o nessun monopattino truccato ti cionca le gambe, sei sulle vetrine di Marco Colonna, abbigliamento, lunga militanza. Segue il punto vendita cittadino Royal Enfield, storico marchio che ha rilanciato le moto monocilindriche nella stessa Bari. E così incocci nel bar «dobbiamo fare appello, ci conviene in ogni caso», nel bar «il giudice ha il covid, l’udienza è rinviata a babbo morto», insomma, nel Caffè Italiano zeppo di avvocati, soprattutto penalisti. Si dirà, ma a Bari sono praticamente tutti avvocati, a parte me. Vero ma qui la densità per centimetro quadrato è tale che diventi avvocato pure tu.
Segue l’ampia esposizione di SportClub con in bella mostra un bambolotto poppante già griffato Adidas manco è nato e un altro uguale ma diversamente bianco (di colore, negro), ché non si sa mai. Ed ecco qua dal civico 98 alla fine isolato la Banca Popolare di Bari. Eh. Cioè la Bippibbì, Bippibbì-Bippibì, Bippibbì Bippibì. Adunque, vi aspettate che dica qualcosa. Che pensate si dica? Sicuro lo state pensando. Ma io non penso, i detti sono sfuggiti dalla cocozza, anzi. E andiamo avanti.
Parrocchia greco ortodossa San Nicola di Myra, Patriarcato ecumenico di Costantinopoli di padre Nikitas, con cellulare per i contatti appeso davanti al portale. Gente seria questa qua. Seria come non siamo. Le chiese sono realtà importanti. Hanno una funzione puramente aerea che si evidenzia in questa via del denaro. Ma tutto ciò che resta è ciò che nella vita non ha valore. Ecco una delle ragioni per le quali i suoli sacri sono importanti. E perché è importante chi crede. L’utile è l’inutile, come direbbero le streghe di Macbeth. E una volta entrati in una dimensione buddica o di minorità francescana le ricchezze eccedenti e la fama si rivelano espedienti di compensazione di insufficienze interiori, che in quanto tali non bastano mai.
Al 60 c’è un palazzo singolare, signorile come tutto ciò che sa di passato. Reca a sinistra le targhe dei medici, Rosa Lenoci biologa nutrizionista, Rosaria Leuci medico chirurgo, Cosimo Ficco specialista in oculistica convenzionato in medicina generale, Reinhard Wilhelm Prior, che esiste, non è un fake dal cognome strano, ha occhi teutonici chiari ed è un neurologo bravo. E a destra avvocatura e notariato, studio legale Tobia Racanelli, studio legale associato Chianura, notaio Umberto Maria Ceci, notaio Francesca Lorusso, notaio Maria Alessandra Stellacci. Quindi, si sono messi d’accordo: voi medici di là, e noi da quest’altra parte.
IL TEMPIO ROSSO Ricordate il Mokador, detto Mokadòr come corso Càvour? È là rinato, d’oro brunito, bar classe 1937, con ancora i due chicchi piantati nelle o dell’insegna che dà di fez e di colonia d’Africa. Un tempo era stipato di fascisti aggregati da slogan miliziani, e oggi quindi da elettori del Pd. Pochi passi e si apre il sagrato del Petruzzelli, il più bel tempio laico di Bari, nella sua architettura, nella tinta splendida, e anche il più importante: per la cittadinanza, per valenza mediatica. Amarlo, bello com’è fatto. Contenitore dell’arte diretta, unica, universale che travalica le altre. Tiene ficcato nel costato il bar di Salvatore Petriella, creatore di dolcezze e insieme imprenditore che ha saputo rischiare.
Dentro il monumento rosso, nel foyer, stanno tutti lì in statua a guardarci Paisiello, Piccinni, Mercadante, De Giosa. E all’esterno il Bellini, Rossini, Peppino (Verdi, come lo chiamano alcuni del Club dei 27, appassionati), a riprova che la lirica tota nostra est quanto e più della «satura» sbandierata da Quintiliano, in virtù della superiorità della melodia sull’armonia nell’orecchio umano.
Dentro il pachiderma che arse stanno gli uffici del sovrintendente Massimo Biscardi, traslocato dal Lirico di Cagliari dopo aver vinto il premio internazionale Abbiati che ha bissato al Petruzzelli giorni fa. È nato a Monopoli, città vescovile e nobiliare che con le note ha parecchio a che fare. Ed è un musicista datosi alla managerialità, pianista e direttore d’orchestra con esperienze che vanno da Santa Cecilia all’Arena al San Carlo.
Il politeama, che ha accolto i massimi nomi della musica, del teatro, della danza, oggi scomparsi, magari non avrà più raggiunto i fasti dell’era Ferdinando Pinto, straordinario pr col baffo. Ma si consideri che in quell’epoca la politica rendeva possibile l’impossibile, che i tenori, i baritoni, soprani, mezzosoprani, bassi non erano mica questi nostri un po’ ordinari, e che lo stesso valeva nelle arti restanti. Campava ancora Sciascia, Fabio Volo aveva 17 anni. Era una terra di giganti e giganteggiava. La Banca d’Italia è un bel palazzo di pietra e di marmo guardato da uomini con mitraglia. La Camera di Commercio è un altro bel palazzo di pietra e di marmo, Mecca dei commercianti fedeli di Bari, contiene un uomo dai capelli solitamente ordinati, anzi un po’ tutto in Alessandro Ambrosi evoca equilibrio mentale. Meglio così. Pensate se il presidente fosse come la camicia di Michele Emiliano dopo la festa di compleanno del figlio, o come il cespuglio ad alto voltaggio di Caparezza. Sarebbe peggio per tutti.
FIABE E CAFFÈ - Dal versante monumentale passiamo a quello dei negozi, capeggiato dal convitato di pietra americano McDonald’s che anche sul corso Vittorio Emanuele smercia schifezze irresistibili per noi bertucce assetate. Ha dentro marchingegni digitali «tocca per ordinare». Ma è una condanna che viene inflitta un po’ ovunque ormai, e continuerà a dilagare. Segnaliamo l’abbacinante Lama Optical con teorie d’occhiali. Ci sono lungo i marciapiedi alcune edicole non chiuse; strano. C’è il famoso Banana Moon, concept store di riferimento per tutti i giovani che vogliono figacciare, tappa dei tour di rapper griffati che richiamano fan sillabanti negli incontri di musica e moda di strada. C’è Gasperini gelati, davanti al quale migliaia di golosi oggi invecchiati hanno lappato vaniglia e soprattutto banana con cirro apicale. La farmacia di Piernicola Treglia, Tezenis dove abbiamo acquistato al prezzo di due tre mutande, e meno male che sta. Negozi di consumato mestiere sapore Anni ’80, quali Tris, fornito di tutti i classici. L’arrembante Foot Locker, sneaker e sportswear, affollato di ragazzi ma anche di bacucchi dai piedi doloranti. E tanti altri, troppi da elencare, venditori sull’uscio con la lenza in mano. Fino a Jérôme, il bar più bello del mondo firmato da Francesco Lavermicocca, tutto fatato di rosa d’infanzia, con cinque orsacchiotti giganti ai tavoli, zampotte incrociate, e altri due fratellini uno mesto in un angolo e l’altro imbucato nella cabina telefonica grondante fiori di fiaba, davanti alla parete dietro al bancone di acqua piatta che casca. E ci fermiamo qui. Per sempre.
LE STRADE DI BARI. Da Santo Spirito alla rivale Palese: campanilismo e pace fra mare e papere. L'undicesima puntata del viaggio per le vie più iconiche del capoluogo e dintorni. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Maggio 2022.
Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa, via Prayer (Sant’Anna), via Lattanzio, via Mazzitelli, strada interna al Porto nuovo, la via del Castello piazza Federico II, e corso Cavour prosegue con questa undicesima puntata il viaggio per le strade di Bari
L’importante è che ci siano le papere. Il resto non conta: la riqualificazione, la viabilità sgozzata dalle piste che si intersecano e si accavallano. Quando ci sono le papere c’è tutto e tutto cambia, così superiormente inutili, così divinamente candide, collo eretto o capa sotto nel mare pesante d’oli di barche e di alghe squagliate, forti dell’essere indifese nell’arrivo del pericolo che affrontano con la fuga e lo starnazzo.
Pace. Nel porto di Santo Spirito, quartiere di Bari, sono intoccabili assieme alle anatre, ultime arrivate due dal becco rosso, portafortuna dei marinai, alle quali si aggiungono i becchi curvi dei pappagalli assiepati in condomini sui pini, i randagi accuditi con dedizione dal noto gattaro. Un fronte animalista metropolitano rappresentato dalla statua sulla fontana zampillante della piazza principale: San Francesco con uccelletto fra le mani. L’illuminato passato di qua verso Terra Santa che diffuse attraverso la poesia il senso di amore universale fra bestie a due e a quattro zampe, la compassione che nell’interdipendenza ci associa in un elemento palpitante, e che gli orientali analizzarono con modalità scientifiche millenni prima del Poverello di Santo Spirito.
La vita nostra è lunga grosso modo quanto un palmo di mano, segnato difatti da linee che la rappresentano in dettaglio. E probabilmente è meglio condurla in una comunità ristretta nella naturalità di case basse, di pochi luoghi di riferimento e di aggregazione, marine classiche, meno stress, spostamenti, necessità facilitate, almeno finché l’inferno dell’estate non divorerà tutto quanto. Fortunati quelli che hanno vegetato d’inverno e in primavera nei paraggi, o nel proseguo di Palese più giù verso Bari, altra accolita di senzienti, distinta dall’appartenenza territoriale, villeggianti, stanziali, pendolari fra la linea del mare e il Murat distante undici chilometri da qua.
ME NE FREGO È gente che se ne frega e fa bene a fregarsene. Magari si può dire che alla fine, sia che si campino tranquillamente gli anni che ci hanno imposto di vivere, sia che ci si ostini perversamente a infliggerci il male, non cambia molto, dato che il finale è sempre uguale. Però ci si può divertire a stare meglio, può essere un divertimento anche questo, non c’è solamente il drogarsi. Per cui uno può prendere la decisione di trasferirsi a Santo Spirito, nella Marineria originaria frequentata un tempo dai bitontini, oppure a Palese, già teatro di modugnesi in vacanza, e allungarsi fino al porto principale dove c’è la sede dell’Associazione Armatori e in cui fa palafitta l’Asd Nautica, per guardare le papere, e guardare che guardano, o pensare che pensano, o fissare i punti di vuoto come fanno questi pennuti dalle ali immacolate, e non coglierci niente esattamente come loro senza fare qua-qua.
A occhio, sulla via costiera da Palese a Santo Spirito, benedetta dalla chiesa dello Spirito Santo, la gente sta meglio che in città. Tanto che ambedue le fazioni, che non si detestano ma neppure si amano, condividono almeno l’abitudine di sgradire Bari.
Chi ne ha fatto il suo albergo, o un punto di riferimento, insomma qualcosa di importante nell’organizzazione degli anni solari, stabilisce solitamente un atteggiamento duplice in due emisferi del cranio: si considera di Bari, lo resta, ma è pure santospiritese e con i santospiritesi fa comunità. O ancora è di Bari, lo resta, ma è pure palesino e con i palesini e il loro campanile fa comunità. Chi ne usufruisce invece come residenza stabile e magari ci è nato ha un pensiero unico, ben piantato: è di Santo Spirito, non di Bari, e di Palese men che mai. O è di Palese, non di Santo Spirito, e di Bari giammai.
CONFINI FRA STATI Sono cose diverse. I due agglomerati marittimi sono divisi dal torrino del Titolo, che è pure il nome di un lido. Venne eretto con tetto a cuspide nel 1585 come confine fra Bitonto e Bari, dopo il porticciolo di Palese, che risuona delle campane della chiesa Stella Maris, dei guaiti dei cani nell’Ambulatorio veterinario. E già su questo tratto di Lungomare capisci che la gente se la passa bene, o perlomeno meglio di te. Da perpendicolari striminzite tipo vico Nicola Massaro o via Attilio Alto fu Rettore di Bari, umani in tutto simili a noi fuoriescono in ciabatte, lasciando andare i piedi secondo l’estro di Dio. Alle 18.30 nel porticciolo palesino ci sono ancora bagnanti sbracati sull’arenile o sul cemento irregolare che scende nell’acqua, nelle cui banchine ha lasciato il segno l’ostinazione del moto ondoso, cioè di quel qualcosa che agisce in maniera persistente secondo una volontà estranea alle sue stesse intenzioni. Non c’è ragione per muoversi senza soluzione di continuità.
Il mare non è spettacoloso ma non è neppure male. Può andare. C’è una coppia che amoreggia con gli inguini immersi. C’è divieto di balneazione per cui tutti fanno il bagno. Ci sono panchine orientate diligentemente in direzione dell’orizzonte, sulle quali si può guardare il mare perché c’è il mare e non c’è altro. Su una di esse sta una signora sui cinquant’anni con un bambino ed ha sicuramente denaro e sicuramente non è a digiuno del pane soffiato che chiamiamo cultura.
Ci sono casette dalle cui finestre ognuno può scorgere nell’orizzonte l’occhio fendente di Dio. Tutte a piano strada, e pure questa è una comodità essendo l’ascensore niente più che un rimedio al danno dell’altezza. Ma soprattutto ci sono i gozzi in secca, coperti da traverse matrimoniali che un tempo hanno visto coniugi avanti con gli anni abbozzare gli ultimi approcci sessuali, o che custodiscono ancora nelle loro fibre di scrigno gli ultimi rantoli di vegliardi in agonia.
Questo risulta evidente per come i tessuti sono sfatti. E come nel loro sbiadire sono disegnati. Barche tristi fatte di legno. Barche dimenticate nel loro squallore. Barche rinnegate dal mare che respinge qualsiasi cosa gli si regali.
UN UOMO IN NERO Vicino al porticciolo che si è fatto lido sta il cuore nero del ristorante L’Ancora carbonizzato dalle fiamme. Ci sono altri ruderi più avanti, locali finiti male. Chiusi alla bene e meglio da assi di legno, spogliati di parecchie cose perché il mare ha un orientamento distruttivo e perché anche l’uomo ha la stessa propensione.
Dopo il naif sabbioso del Lido Moretti e il ristorante Ai due sapori che a menti eccessivamente immaginative può evocare ciak da film western di cassetta, sulle piattaforme di roccia che degradano in acqua compare un tizio che dà da pensare. Legge con orecchi tappati da auricolari. Sicuramente scorre i pensieri di Heidegger che s’inseguono sulle pagine. È vestito di nero, ha capelli biondi razzisti a spazzola, tiene serrato negli occhi uno sguardo Azov, potrebbe essere un suprematista bianco, nazifascista come il filosofo sopracitato. È così.
Stanno facendo pulizia nella Boutique dei frutti di mare, che sarebbe Gagang, nomignolo di un famoso pescivendolo che, data l’espansione commerciale, possiamo associare tranquillamente a una multinazionale della lisca. Anche qui, come un chilometro prima e tre chilometri avanti, passano runner molesti, convinti come tutti i loro simili di avere diritto di non avere regole se non quelle imposte all’intero universo dai loro cronometri e da scadenze di marcia, dalle scarpette ammortizzate, senza riconoscere alcun diritto agli altri. Un paio, vecchi e anchilosati, arrancano: è evidente che stanno collassando. Però non muoiono.
Una bici elettrica con gomme d’autocarro diffonde melodie neomelodiche criminose. E Santo Spirito è nostro, e pure vostro, ed è una bella cosa. Sì che lo è. Con la sua tradizione di pesca, con i pescherecci e i natanti di varia stazza, piacere aggiunto per ogni abitante. Lo annesse al capoluogo nel ’28 quel fascio di Araldo Di Crollalanza, quando via Napoli giungeva diretta al Castello e a piazza Massari. Perciò è rimasta separatista e separata. Non per le varianti.
Tiene una piazza principale, San Francesco, di cui abbiamo parlato, con una giostra che sembra una girandola grande dipinta con i colori dello zucchero filato. Una piazza minore, Roma, ancora sul Lungomare Cristoforo Colombo, sulla quale si affacciano il Mercato coperto con Gabriele il Jolly della frutta e la pescheria Nonno Peppe. Tiene le pensiline dei pescivendoli sotto le quali sconfinano anatre dirette a bere Dreher dal frigo dismesso utilizzato come deposito volante. Ristoranti quali il Beluga o il Bolina, o il Mangia e bevi con barca, incistato nel porto come il Blue cafè pub ristorante. Pucciaria di terra e di mare, accanto alla 1ª Corte Cristoforo Colombo e alla 2ª. Ghiaccio bollente, uno dei bar di ritrovo dei santospiritesi spesso messi bene a professione e a contante, assieme al bar Azzurro e al Gabbiano, prospicente alla rotonda attrezzata con sedili per riproporre la pubblicità di Carosello, Cynar. Qualche emporio colorato, tipo Elisir su un esterno di mattonelle d’un verde schiattante. Birra Terrona nelle due sedi del pub Berravia, la pizzeria Da Donato, il Qui si gode che con il sesso non ha a che fare. E il pianoterra carta da zucchero dell’Associazione Costa del Sole, il Circolo nautico «Il Maestrale», in via Verdi l’arte in vetrina del Centro Leonardo da Vinci.
Santo Spirito è imparentato con il cinema. Ci è cresciuto Domenico Procacci, produttore parecchio bravo, lo frequentavano occasionalmente i Lonigro, con Luigi eletto all’unanimità presidente nazionale Distributori Anica. I cinefili bazzicano per Il Piccolo del Circuito d’Autore, recentemente ristrutturato. E poi non possiamo aggiungere altro.
Il porto, di gran lunga più vasto di quello di Palese e attrezzato, ha accolto qualche affogato. Custodisce due enigmi nell’acqua. Il segnalatore luminoso alieno dello scoglio affiorante. E paratie emergenti mezze sciancate, scheletri di un frangiflutti incapace. Da quella disfatta in poi spetta solamente al mare se lasciar vivere Santo Spirito o se sommergerlo per l’eternità.
Un articolo omaggio per onorare la festa del patrono. Oscar Iarussi su la Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Maggio 2022
San Nicola è il nostro Oriente, letteralmente ci orienta. È la leggenda che si concreta in una città, è il Mediterraneo sulla terra ferma: Bari indomita e levantina, trafficante e vivace, verace e talora vorace. Scuro di pelle e «amante dei forestieri», San Nicola è l’icona della mediazione con culture lontane ed è il messaggero di una tregua negli affanni e nei traffici, speriamo anche nella guerra. La Festa di Maggio mette insieme devozione e fede, storia e mito, famiglia e amici, fuochi nella notte e Frecce Tricolori. Rinnova il matrimonio di Bari con il mare grazie al quadro e alla statua del Patrono che ondeggiano a bordo dei motopescherecci sorteggiati... Terra e mare, anzi Terramare – scrive Michele Mirabella in queste pagine – potrebbe essere il motto dei baresi. «Nel nome, il verbo all’infinito: amare». Il rito finalmente torna dopo il grande gelo del Covid e il recente furto sacrilego degli ori nella Basilica. La «Gazzetta», a sua volta rinata da poco, celebra la Festa di quest’anno con le magnifiche immagini in bianco e nero di un grande fotoreporter, il milanese Uliano Lucas, che da molti anni conosce, ama e frequenta Bari, scandagliandone il volto e i volti «a passo lento». Buon San Nicola ai Lettori!
La festa di San Nicola tra i pellegrini e i carretti. Cent’anni fa come oggi: Bari e il suo Patrono nel racconto della «Gazzetta». Annabella De Robertis su la Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Maggio 2022.
«Tra le annerite, antiche, screpolate case della città vecchia, quasi sorreggendosi a vicenda, confuse insieme, come agitate da uno strano ciclone, si alzano, nel cielo azzurro di maggio, i muri severi, antichi, austeri della chiesa di San Nicola». Così, il 7 maggio di cento anni fa, inizia il racconto della celebrazione della festa di San Nicola che allora, come oggi, catturava l’attenzione dei baresi e dei tanti forestieri presenti in città. «Intorno alla Chiesa gruppi di pellegrini attendono: conversano, guardano i muri severi e religiosi. Hanno gli sguardi smarriti. Su di un carretto, trainato da un ragazzino scalzo e scamiciato, è sdraiato su di un mucchio di cenci un individuo. Non ha le gambe, sul mucchio di cenci il corpo tarchiato, robusto, sembra una tragica offerta ad una divinità fantastica ed inesorabile».
È ancora interdetto, continua il racconto, l’ingresso in Basilica: si sta procedendo alla vestizione con i paramenti della statua di San Nicola. Gli abili cronisti del «Corriere» riescono, però, a introdursi nella Chiesa: sull’altare maggiore, sotto la cupola, in mezzo ad un gruppo di donne, si erge la statua del Santo, «dal cranio lucido, color di cioccolato chiaro, dalla barba brizzolata e dalla zazzera identica». Adesso tutti possono entrare. Ecco le devote baresi: «i loro capi sono stretti da fazzoletti neri, legati a pizzo, sotto il mento. E mormorano preghiere. Poi si inginocchiano, abbassano gli sguardi stanchi con compassione religiosa. L’una accanto all’altra. L’una identica all’altra, i volti rugati stranamente, quasi assenti».
Si distinguono da loro le pellegrine: «sembrano tutte identiche, tutte vestite in una medesima foggia: gonne pesanti, gonfie ai fianchi, fazzoletti annodati sotto il mento, corsetti colorati, volti stanchi, piccole donne quasi tutte munite di bastoni, ricavati dai rami di alberi, freschi ancora. Tutte rassomiglianti: sembrano venire da un medesimo posto, nate all’ombra di uno stesso campanile. Mormorano le medesime preghiere». Nella cripta, illuminata dalla luce rossastra dei ceri, che bruciano lentamente, un mormorio sommerso, lento. Una donna cade svenuta: ha il volto pallido, è scalza, ha i piedi pieni di fango. Un gruppo di pellegrine piange, si odono singulti, si chiedono grazie: «è tutto un tumulto arcano di desideri, di invocazioni di speranze e di tormenti. Non si respira. Si è avviluppati da quest’atmosfera, che dà le vertigini, che irrita, che sembra folle, fantastica, ma che è reale, terribilmente reale».
Rubati oggetti statua San Nicola: ucraine piangono fuori Basilica. ANSA il 22 marzo 2022. Erano venute a pregare San Nicola per i loro famigliari in Ucraina, ma hanno trovato le porte della Basilica nel cuore di Bari Vecchia sbarrate con le macchine della Polizia. Ksenia, 51 anni, è arrivata in Italia cinque giorni fa in fuga dalla guerra, mentre suo marito è rimasto a combattere a Mariupol, una delle città più bombardate. La sua amica Irina, invece, viene da Napoli dove vive da tempo, mentre le sue due figlie e i due nipotini stanno a Mariupol. Per loro, dei quali non ha notizie dal 9 marzo, era venuta a pregare stamattina San Nicola. "Mia figlia quel giorno era uscita per cercare un telefono e chiamarmi - racconta in lacrime - poi hanno bombardato l'ospedale delle donne e da allora non sono più riuscita a mettermi in contatto con loro". Le due donne avevano scelto oggi perché "in Ucraina - spiegano - è la festa dei 40 santi e volevamo pregare nella cripta di San Nicola per proteggere i nostri cari". Nella stessa piazza, di fronte all'ingresso della Basilica, c'è un'altra statua di San Nicola, donata anni fa dal presidente russo Putin alla città di Bari. "A quella statua non vogliamo neanche avvicinarci - dicono - perché l'ha regalata Putin, che sta uccidendo le nostre famiglie e distruggendo le nostre città". (ANSA).
Bari, furto in Basilica: rubati anello di San Nicola, collana reliquiaria e offerte. Individuato il ladro. Ignoti si sono introdotti in chiesa e hanno portato via gli oggetti sacri dalle mani del Santo. Indagini in corso. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Marzo 2022.
Bari, furto San Nicola, Mons. Satriano: «Ladro si ravveda. Beni catalogati, sarà difficile venderli»
«Ciò che lascia perplessi e amareggiati – ha aggiunto mons. Satriano – è l’incapacità di fermarsi e avere il senso del limite»
Intorno alle 4 di questa notte, ignoti si sono introdotti all’interno della Basilica di San Nicola a Bari rubando tutto quello che era nelle mani della statua del Santo: il libro con tre palle d’argento ed una croce in argento con alcune gemme; l'anello in oro con alcune pietre, una collana reliquiaria, nonché il contenuto delle cassette delle offerte, gli ori della pastorale e il Vangelo in oro massiccio. Il valore della refurtiva è di circa 7mila euro (e non 70mila come erroneamente riportato in precedenza). Le indagini sono a cura della squadra mobile.
I ladri (o molto più probabilmente un singolo ladro) avrebbero potuto portare via qualunque oggetto in oro: se fosse stato un furto organizzato, avrebbe portato via tutto l’oro dalla statua, invece a quanto sembra ha arraffato a caso, prendendo cose importanti ma non i gioielli più preziosi. In ogni caso aveva attrezzi da scasso perché ha divelto una grata. Così Padre Giovanni Distante, priore della Basilica: «Sono entrati di notte, è qualcosa che dispiace molto». Sarebbe già stato individuato il responsabile: gli investigatori avrebbero già le idee chiare sull’autore, si tratterebbe di una persona che ha agito da sola. Elementi decisivi per l’indagine arrivano dalle telecamere di sicurezza della Basilica che hanno inquadrato un uomo in mascherina e cappuccio. All’esterno si è già radunata una folla di cittadini di Bari Vecchia. La Basilica è stata chiusa, i gruppi di turisti organizzati sono stati costretti a tornare indietro.
(video Donato Fasano)
IL DISAPPUNTO DEL SINDACO - “La notizia del furto di parte degli oggetti sacri della statua di San Nicola in Basilica mi lascia sgomento. Un atto non solo sacrilego ma fortemente offensivo per la comunità di fedeli e devoti nicolaiani e per la città di Bari, che intorno al messaggio del suo Santo patrono ha costruito gran parte della sua identità - ha commentato il sindaco Antonio Decaro -. Aver sottratto i simboli più evocativi della vita e della missione del vescovo di Myra significa aver ferito profondamente la città. Spero che l'autore di questo gesto meschino e inqualificabile si ravveda immediatamente restituendo ai padri domenicani gli oggetti sacri. Perché non ci può essere nessuna giustificazione per chi compie un furto nel luogo che custodisce il simbolo e la storia di tutti noi”.
LE PAROLE DEL VESCOVO - A Roma, dove sono in riunione con il Consiglio Permanente della CEI, al lavoro su tematiche delicate quali la tragedia che si sta consumando in Ucraina, vengo informato dell’avvenuto furto sacrilego operato nella notte.
È triste e doloroso prendere atto che non c’è alcun limite all’oltraggio del sacro. In un contesto già faticoso, in cui la sacralità della vita viene abusata dalla guerra, anche un’immagine simbolica, quale la Basilica del Santo di Myra e la sua Icona più rappresentativa, realtà fortemente identitaria per la comunità barese, viene ferita dalla violenza di alcuni che sembrano aver smarrito qualunque senso del pudore verso l’uomo e del timore verso Dio. Quanto accaduto mi lascia fortemente preoccupato non tanto per gli oggetti e il denaro sottratti, ma per la mancanza di rispetto che si è consumata al cuore della fede dei baresi.
In questo tempo di quaresima, propizio per la conversione dei cuori, invito tutta la comunità cristiana a invocare la misericordia di Dio su chi ha commesso questo atto miserevole e auspico che chi ha operato nell’oscurità della notte possa ravvedersi e restituire quanto trafugato.
Avverto urgente, e non più rinviabile, un lavoro serio e sinergico sulla sfida educativa che vada a recuperare valori umani e religiosi fondamentali per la crescita di una società che sia realmente civile.
I PADRI DOMENICANI - Potrebbe aver avuto un complice il ladro che questa notte ha commesso un furto nella Basilica di San Nicola a Bari rubando alcuni oggetti dalla statua del patrono della città che «non ha subito danni eccessivi». Il furto sarebbe avvenuto dalle 3 alle 5.30, «come testimoniano le telecamere installate all’esterno e all’interno della Basilica», fanno sapere i padri domenicani. Le immagini hanno immortalato "un uomo dall’aspetto giovanile, aiutato molto probabilmente da un complice non visibile nelle telecamere», il quale «dopo aver divelto un inferriata addossata alla torre campanaria e sfondato la porta d’ingresso in Largo Abate Elia, si è furtivamente intromesso nel tempio nicolaiano con il preciso intento di svuotare le cassette delle offerte». «Nell’impossessarsi delle offerte contenute nella teca trasparente in piedi della statua del santo - ricostruiscono i padri domenicani - entrato in contatto con la statua del santo si è impadronito dell’anello alla mano destra, dell’evangeliario con le tre sfere sulla mano sinistra, e di un medaglione contenente una fiala della manna. Fortunatamente non è stata trafugata la croce pettorale dono dell’arcivescovo Mariano Magrassi». «In attesa di conoscere ulteriori sviluppi - prosegue la nota - informiamo i devoti e i pellegrini di San Nicola sparsi nel mondo che la statua del santo non ho subito eccessivi danni» e che «quanto prima sarà effettuato un intervento di restauro particolarmente alle mani del Santo».
«Và-a rrubbe a Sanda Necòle»: con il furto sfatata la massima del dialetto barese. Il racconto di Felice Giovine, noto cultore della baresità, facendo riferimento a quanto accaduto ieri all’alba in Basilica. Ninni Perchiazzi La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Marzo 2022.
«C’era una volta un tale, pare un pastore, che si divertiva a lanciare allarmi “al lupo al lupo” e, all’inizio, tutti accorrevano, credendolo attendibili, ma dopo alcuni e ripetuti episodi, ridendosela sotto i baffi, smisero di correre», racconta Felice Giovine, noto cultore della baresità, facendo riferimento a quanto accaduto ieri all’alba in Basilica. «È un’analogia perfetta con il nostro detto “Và-a rrubbe a Sanda Necòle”», spiega richiamando il furto dei «preziosi doni che adornano la statua del nostro Patrono».
Ma come nasce il detto, che ogni barese doc ha pronunciato almeno una volta nel corso della vita?
«Il detto nacque, per la verità, per liberarsi di “fastidiose” richieste di denaro da parte di amici e parenti, in difficoltà, rivolte a chi, credevano loro, fosse in condizioni migliori. Ma dopo un paio di richieste, nonostante le giustificazioni, peraltro imbarazzanti, per non poterle soddisfare e per chiudere definitivamente la questione, si raccomandava di andare a fare il sacrilego furto».
Insomma un modo spiccio di liberarsi da una richiesta che non si intende o non si può soddisfare.
«Non si trattava di un vero incitamento, ma una dichiarazione di non florida posizione o alla pari col richiedente, in quanto, il Santo coi suoi tesori, era il vero “ricco” cui rivolgersi e che disponeva di un certo patrimonio».
Il significato s’è poi un po’ allargato.
«Poi, col tempo, il detto è stato usato per situazioni, le più disparate, allargando il proprio raggio di riferimento e al tempo stesso perdendo così, buona parte del suo significato. In pratica, si è generalizzato e non si è più tenuto in debito conto il significato originario».
L’assalto alla statua del santo sa di beffa.
«Evidentemente qualcuno, cui difetta la materia grigia e il rispetto per le cose sacre, ha raccolto l’invito e lo ha messo in atto. Ma sarebbe giustificato se fosse stato compiuto per un effettivo e forzato “bisogno” estremo. Mah!»
Se così fosse, San Nicola perdonerà l’autore dell’incauto gesto.
«San Nicola non lo perdonerà come non perdonerà Putin per quello che sta facendo. Il principio è lo stesso».
Valeria D'Autilia per La Stampa il 23 marzo 2022.
Nelle ultime settimane era stato più volte invocato come simbolo di pace. Perché, attorno alla figura di San Nicola, si ritrovano cattolici e ortodossi. A lui, simbolo di unione tra i popoli, è dedicata l'omonima Basilica a Bari, città che lo venera come patrono e che ora è sgomenta. Nella notte tra lunedì e martedì, infatti, sono stati rubati gli oggetti sacri che impreziosivano la statua del santo: l'anello in oro con pietre, il libro con tre sfere d'argento, un medaglione reliquiario, ma anche offerte.
«Un atto sacrilego - ha commentato il sindaco Antonio Decaro - e offensivo per la comunità. Aver sottratto i simboli più evocativi della vita e della missione del vescovo di Myra significa aver ferito profondamente la città». Non il valore economico, ma quello fortemente simbolico, dato il contesto internazionale. Sconcerto in città e anche tra turisti e fedeli che non hanno potuto accedere alla chiesa, chiusa per l'accaduto. Tra loro anche alcune donne ucraine, fuggite dalla guerra, che volevano pregare per i loro familiari rimasti in patria.
L'autore del furto sarebbe stato individuato dopo alcune ore. Ha divelto un'inferriata, forse con l'aiuto di un complice all'esterno. Nonostante mascherina e cappuccio, gli investigatori della squadra mobile lo avrebbero identificato grazie alle telecamere di sicurezza della chiesa. Le indagini si erano subito concentrate sull'ipotesi che non fosse un professionista, dal momento che non ha portato con sé gli altri oggetti di valore.
«Triste e doloroso - ha detto l'arcivescovo Giuseppe Satriano - prendere atto che non c'è alcun limite all'oltraggio del sacro. In un contesto già faticoso, in cui la sacralità della vita viene abusata dalla guerra, anche un'immagine simbolica viene ferita dalla violenza di alcuni». La notizia del furto l'ha raggiunto a Roma, dove era impegnato in un incontro della Cei proprio sull'emergenza in Ucraina. Intanto, i padri domenicani assicurano che le mani del santo - ora danneggiate - saranno immediatamente restaurate.
La notizia del furto ha scosso l'intera città e la stessa Bari vecchia, dove si trova il luogo di culto. È stato il primo cittadino, dalla sua pagina Facebook, a comunicare l'accaduto. Nel giro di poco tempo, nella zona si sono radunati anche alcuni curiosi. Altri si sono fermati a pregare all'esterno. Sotto quella statua violata, alcuni giorni fa, si era svolta un'iniziativa di pace tra esponenti delle comunità russa e ucraina.
Nella stessa piazza della Basilica, proprio di fronte all'ingresso, c'è un'altra statua di San Nicola. Un dono di alcuni anni fa di Vladimir Putin in persona alla città di Bari con tanto di cerimonia, insieme a una targa finita da alcune settimane al centro di una petizione online. A migliaia chiedono venga rimossa. Ma Decaro aveva replicato: «Non sono favorevole a cancellare pezzi di storia, si potrà magari mettere accanto un'epigrafe per spiegare la posizione della città».
Furto in Basilica Bari, si stringe il cerchio sul presunto autore: sarebbe un senzatetto marocchino. Nessuna traccia degli ori di San Nicola. Il pm contesta l’aggravante della violazione del luogo di culto. Una persona è stata portata in questura. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Marzo 2022.
Si stringe il cerchio attorno al ladro di San Nicola, l’autore del furto sacrilego che all’alba di ieri ha strappato dalle mani del santo di Myra, patrono di Bari, introducendosi nella Basilica nel cuore della città vecchia, un anello in oro, l’evangeliario con le tre sfere d’argento e un medaglione contenente una fiala della sacra manna, oltre a svuotare le cassette delle offerte. I poliziotti della squadra mobile e delle volanti sono sulle sue tracce da ieri, sulla base dell’identikit ricostruito grazie alle immagini estrapolate dalle telecamere della Basilica che lo hanno immortalato. Potrebbe essere un senza fissa dimora, con ogni probabilità non barese. Le indagini sono coordinate dalla pm Angela Maria Morea, che ha aperto un fascicolo per furto con scasso aggravato dall’aver violato un luogo di culto. Oltre ad aver rubato denaro e oggetti sacri, il ladro per entrare in chiesa ha divelto una inferriata, ha sfondato un portone laterale in legno e ha danneggiato le mani della statua di San Nicola.
ACCERTAMENTI IN CORSO UOMO PORTATO IN QUESTURA - La Procura di Bari sta valutando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico di un 50enne di nazionalità marocchina, sospettato del furto commesso la notte tra lunedì e ieri nella Basilica di San Nicola. Nel colpo sono stati trafugati, oltre agli spiccioli delle offerte, un anello in oro, l’evangeliario con le tre sfere d’argento e un medaglione contenente una fiala della sacra manna, strappati dalle mani della statua del santo. L’uomo, un senza fissa dimora, si trova da ore negli uffici della Questura di Bari dove viene interrogato. È stato trovato dagli agenti delle Volanti nascosto in un casolare nel quartiere Japigia. Lì sono stati trovati anche alcuni elementi utili a ritenerlo l’autore del furto, immortalato dalle telecamere della Basilica. Ancora nessuna traccia, invece, degli oggetti sacri rubati.
Bari, furto dei gioielli di San Nicola: arrestato un 50enne. Chiara Nava il 24/03/2022 su Notizie.it.
Gli agenti della squadra mobile hanno ricostruito l'identikit del presunto ladro analizzando le immagini delle telecamere. Un 50enne è stato arrestato.
Gli agenti della squadra mobile hanno ricostruito l’identikit del presunto ladro analizzando le immagini delle telecamere. Un 50enne di nazionalità marocchina è stato arrestato.
Bari, furto dei gioielli di San Nicola: arrestato un 50enne
Un uomo di 50 anni, di nazionalità marocchina, ha ricevuto un fermo di polizia.
Potrebbe essere lui l’autore del furto avvenuto all’alba dello scorso martedì all’interno della Basilica di San Nicola a Bari. La statua di San Nicola è stata depradata degli oggetti che si trovavano nelle mani del santo, tutti molto preziosi. L’uomo di 50 anni è stato arrestato e condotto in carcere ed è a disposizione dell’autorità giudiziaria. L’uomo è indagato per furto con scasso aggravato dall’aver violato un luogo di culto.
Per il momento la refurtiva non è ancora stata ritrovata.
Identikit ricostruito grazie alle registrazioni delle telecamere
Secondo gli accertamenti sono stati rubati un anello in oro, l’evangeliario con le tre sfere d’argento e un medaglione che contiene una fiala della sacra manna, oltre al contenuto delle cassette delle offerte. Gli agenti della squadra mobile e delle volanti hanno ricostruito l’identikit del presunto ladro, analizzando le immagini registrate dalle telecamere.
Per riuscire ad entrare in chiesa è stata divelta una inferriata e sfondato un portone di legno. La statua del santo di Myra ha subito un danneggiamento alle mani.
Furto in Basilica San Nicola a Bari, parla il 48enne tunisino fermato: «Non ero io». Nel colpo, oltre agli spiccioli delle offerte, sono stati rubati un anello di oro, l’evangeliario con le tre sfere d’argento e un medaglione contenente una fiala della sacra manna, strappati dalle mani della statua del santo. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Marzo 2022.
Ha negato di essere l’autore del furto nella Basilica di San Nicola a Bari, commesso la notte tra il 21 e il 22 marzo scorsi, il 48enne tunisino Farid Hanzouti, in stato di fermo in carcere da due giorni con l’accusa di furto con scasso, aggravato dall’aver violato un luogo di culto. Nel colpo, oltre agli spiccioli delle offerte, sono stati rubati un anello di oro, l’evangeliario con le tre sfere d’argento e un medaglione contenente una fiala della sacra manna, strappati dalle mani della statua del santo. Alla identificazione del 48enne i poliziotti sono arrivati grazie alle immagini delle telecamere che hanno immortalato il ladro in sella ad una bicicletta all’esterno della Basilica e mentre scavalcava la grata accanto alla torre campanaria, dove c'era anche una sua impronta digitale. Nel casolare dove si nascondeva, poi, gli agenti hanno trovato banconote per complessivi 1.750 euro, ritenute il guadagno della vendita degli oggetti sacri, e tra le altre cose un anello con scritte in cirillico.
Comparso dinanzi alla gip del Tribunale di Bari Antonella Cafagna per l’udienza di convalida del fermo, Farid Hanzouti, assistito dall’avvocato Maurizio Rogliero, ha respinto le accuse. «Non sono io l’uomo ripreso dalle telecamere la notte del furto» ha detto alla giudice. L’impronta l’ha giustificata spiegando che frequenta spesso la Basilica per chiedere cibo e aiuti. Quanto al denaro trovato nel casolare, ha spiegato che deriva dalla sua attività occasionale di parcheggiatore abusivo, mentre gli altri oggetti ha detto che non gli appartengono perché «quel luogo è frequentato anche da altri senza tetto». Il difensore ha chiesto che il 48enne sia rimesso in libertà. La pm che coordina l’indagine sul furto, Angela Maria Morea, ha insistito per il carcere. La gip si è riservata e deciderà nelle prossime ore.
IL CASO. Bari, ritrovati gli ori di San Nicola rubati dalla Basilica. Il gip: «Non escluso colpo su commissione». Redazione online su la Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Marzo 2022.
Gli oggetti sacri trafugati dalla teca che ospita la statua del santo patrono di Bari, San Nicola, anello, evangelario, medaglione contenente la manna, rubati dalla Basilica, sono stati ritrovati.
Resta in carcere il 48enne tunisino Farid Hanzouti, ritenuto l’autore del furto con scasso commesso la notte tra il 21 e il 22 marzo scorsi. La gip Antonella Cafagna, condividendo la ricostruzione fatta dalla pm Angela Morea, che coordina le indagini della Polizia, evidenzia che «le riprese delle telecamere, le impronte sulla grata della cancellata diventa per procurarsi un varco di accesso in un punto non raggiungibile se non da chi si apprestasse a scavalcarla, l’esito dell’accertamento sull'identità dattiloscopica, i risultati di una prima comparazione antropometrica e l’esito della perquisizione, offrono elementi di notevole valore indiziario». Nel casolare dove il 48enne si nascondeva, infatti, sono stati trovati alcuni monili in argento con incisioni in alfabeto cirillico, circostanza pienamente compatibile con il trafugamento di doni dei fedeli russi ortodossi, comunemente offerti in omaggio del santo durante le visite nella basilica. Secondo la gip, inoltre, sussistono anche le aggravanti contestate dell’aver commesso il fatto «su cose destinate a reverenza» e «agendo con volto travisato» con una mascherina FFp2 il cui utilizzo, ricorda la gip, «non è più obbligatorio negli spazi aperti».
Bari, ecco il casolare dove sono stati trovati gli ori rubati a San Nicola. La Repubblica il 27 Marzo 2022.
Ecco il casolare di Bari dove sono stati trovati gli oggetti sacri rubati dalla Basilica di San Nicola. Erano stati sotterrati in una campagna nel quartiere Japigia di Bari, alle spalle della costruzione dove si nascondeva anche il presunto ladro. Colui che secondo i poliziotti e la Procura è l'autore del furto sacrilego, commesso nella notte tra il 21 e il 22 marzo, il 48enne tunisino Farid Hanzouti, è in carcere da giovedì anche se continua a negare. All'interno della baracca già nei giorni scorsi i poliziotti avevano trovato altri oggetti sospetti, come "alcuni monili in argento con incisioni in alfabeto cirillico, circostanza pienamente compatibile - secondo il gip che ha convalidato il fermo del 48enne disponendo che resti in carcere - con il trafugamento di doni dei fedeli russi ortodossi, comunemente offerti in omaggio al santo durante le visite nella Basilica
Da “La Stampa” il 27 marzo 2022.
L'oro di San Nicola tornerà presto tra le mani del santo, nella Basilica nel cuore di Bari vecchia. Cinque giorni dopo essere stati trafugati, gli oggetti sacri sono stati ritrovati sotterrati in una campagna nel quartiere Japigia di Bari, alle spalle del casolare dove si nascondeva anche il presunto ladro.
Secondo la procura, l'autore del furto avvenuto nella notte tra il 21 e il 22 marzo è Farid Hanzouti, 48 anni, in carcere da giovedì, che nega di aver sottratto gli oggetti sacri.
La notizia del furto aveva scosso profondamente la città e le comunità ortodosse che vi abitano, perché San Nicola, patrono dei baresi, è anche simbolo di unione tra popoli e religioni, più volte invocato per la pace in Ucraina.
Gli inquirenti ritengono di aver raccolto prove sufficienti: fotogrammi della notte del furto all'esterno della Basilica, impronte digitali, denaro e oggetti trovati nel casolare dove si nascondeva e ora la refurtiva ritrovata nello stesso luogo.
Ma c'è un aspetto da chiarire: come mai un parcheggiatore abusivo senza fissa dimora aveva 1.750 euro in contanti. Se al momento del ritrovamento delle banconote, il giorno dell'arresto, l'ipotesi era che si trattasse del provento della vendita degli oggetti sacri, con il loro ritrovamento il sospetto è che quei soldi costituissero l'acconto di un furto su commissione.
Le indagini continuano e si concentreranno ora sul telefono dell'arrestato. Seguendo le celle agganciate dal cellulare del 48enne, gli investigatori sono arrivati al luogo dove era nascosta la refurtiva.
E potrebbero essere gli ulteriori accertamenti sui tabulati a condurli all'eventuale mandante. Intanto l'anello di oro sfilato dal dito della statua, il medaglione e l'evangeliario, sono stati messi al sicuro.
Bari, recuperata refurtiva di San Nicola: il momento del ritrovamento nelle campagne. Gli oggetti sacri sono stati ritrovati sotterrati in una campagna nel quartiere Japigia di Bari, alle spalle del casolare dove si nascondeva anche il presunto ladro. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Marzo 2022.
L’oro di San Nicola tornerà presto tra le mani del santo per essere custodito nella Basilica nel cuore di Bari vecchia. Cinque giorni dopo essere stati trafugati, gli oggetti sacri sono stati ritrovati sotterrati in una campagna nel quartiere Japigia di Bari, alle spalle del casolare dove si nascondeva anche il presunto ladro. Colui che secondo i poliziotti e la Procura è l’autore del furto sacrilego, commesso nella notte tra il 21 e il 22 marzo, il 48enne tunisino Farid Hanzouti, è in carcere da giovedì anche se continua a negare. La notizia del furto aveva scosso profondamente la città e anche le comunità ortodosse che vi abitano. Perchè San Nicola, oltre ad essere il patrono dei baresi, è simbolo di unione tra i popoli e religioni. Nelle ultime settimane è stato più volte invocato per la pace in Ucraina e ogni anno le sue reliquie conservate nella basilica sono meta di migliaia di turisti e fedeli russi.
Gli inquirenti ritengono di aver raccolto prove schiaccianti sull'uomo arrestato: fotogrammi della notte del furto all’esterno della Basilica, impronte digitali, denaro e oggetti trovati nel casolare dove si nascondeva e ora anche la refurtiva ritrovata nello stesso luogo. Il caso sembrerebbe chiuso. Eppure c'è un aspetto ancora da chiarire: come mai un parcheggiatore abusivo senza fissa dimora aveva 1.750 euro in contanti. Se al momento del ritrovamento delle banconote, lo stesso giorno in cui il 48enne è stato fermato, l’ipotesi era che si trattasse del provento della vendita degli oggetti sacri, con il loro ritrovamento il sospetto è che quei soldi costituissero l'acconto di un furto fatto su commissione. Le indagini, quindi, continuano e si concentreranno ora sul telefono del presunto ladro. Seguendo le celle agganciate nelle ore successive al furto dal cellulare del 48enne, gli investigatori sono arrivati al luogo dove era nascosta la refurtiva. E potrebbero essere gli ulteriori accertamenti sui tabulati a condurli all’eventuale mandante del colpo.
Quel che conta, per il momento, è che sono ormai al sicuro quegli oggetti così identitari non soltanto del santo di Myra patrono di Bari ma della stessa città, l’anello di oro sfilato dal dito della statua, e soprattutto l’evangeliario con le tre sfere in argento, che è stato rinvenuto leggermente danneggiato, oltre al medaglione contenente una fiala della sacra manna. Portati via nel cuore della notte da un uomo che, come documentato dalle telecamere di videosorveglianza, scavalcando la grata accanto alla torre campanaria, dove ha lasciato anche una impronta digitale, è entrato in chiesa sfondando una porta laterale in legno e lì riempiendo uno zaino con le monete che erano custodite nelle cassette delle offerte nella navata e nella cripta e con gli oggetti sacri presi dalla teca del santo, per poi fuggire in sella ad una bicicletta, zaino in spalla. Quello stesso zaino che oggi è stato trovato sotterrato sul retro del casolare dove si nascondeva Farid, in una zona con erba alta e difficile da scovare.
All’interno della baracca, invece, già nei giorni scorsi i poliziotti avevano trovato altri oggetti sospetti, come «alcuni monili in argento con incisioni in alfabeto cirillico, circostanza pienamente compatibile - secondo il gip che ha convalidato il fermo del 48enne disponendo che resti in carcere - con il trafugamento di doni dei fedeli russi ortodossi, comunemente offerti in omaggio al santo durante le visite nella Basilica».
LE PAROLE DEL VESCOVO, MONSIGNOR SATRIANO - «Con grande riconoscenza, desidero esprimere gratitudine profonda per il felice esito delle indagini della Polizia che hanno portato al ritrovamento degli oggetti trafugati nella Basilica di San Nicola, alla statua raffigurante il Santo patrono di Bari, caro a milioni di persone. La professionalità degli agenti, la loro perizia e l’abnegazione vissuta nel portare avanti il proprio lavoro ha riconsegnato alla Città, e non solo, un segno di speranza che ridona fiducia a questi giorni, rattristati dalla guerra che bussa alle porte delle nostre case».
«Dispiace la vicenda del tunisino trovato in possesso della refurtiva. Questa amara storia ci apra il cuore a maggiore solidarietà verso i fratelli che vivono nel bisogno ma anche ad educare a quel senso civico, fatto di rispetto e attenzione alle regole del vivere insieme, a cui nessuno deve sottrarsi. Il Santo di Myra, a cui affidiamo le preghiere di tutti, interceda per questa nostra umanità, ferita e lacerata. A lui chiediamo la grazia e il coraggio di saper attestare relazioni autentiche, protese ad un’etica del dono con la quale rendere generativi i vissuti di ciascuno».
L'annuncio social del sindaco Decaro: "Sono positivo al Covid. Ma i baresi si godano l'apertura del parco Rossani". La Repubblica il 20 marzo 2022.
"Non ho sintomi e sto bene", ha scritto su Facebook a poche ore dall'inaugurazione.
Anche il sindaco Antonio Decaro è positivo al Covid in una Bari che, così come il Salento, è flagellata dalle varianti Omicron e Omicron 2. "Alla fine è toccato anche a me. Sono positivo al Covid", ha scritto Decaro sulla sua pagina Facebook ufficiale. "Non ho sintomi e sto bene. Oggi per sicurezza, prima di partecipare all'inaugurazione tanto attesa del parco Rossani, ho voluto fare un altro tampone. Non vi nascondo il mio rammarico, perché a voi non ho mai nascosto nulla. Ma forse doveva andare così. Forse è giusto che a entrare per primi in quel parco, nel nostro parco, siano stati i cittadini".
Il sindaco si sofferma sull'evento atteso per oltre trent'anni dalla città. "Questa inaugurazione è innanzitutto la vostra. Perché vostro è questo nuovo spazio verde che abbiamo atteso per tanti, troppi anni. A tutti quelli che ci hanno aiutato a realizzare quest'opera vorrei dire 'grazie'. Grazie soprattutto ai cittadini che non hanno mai smesso di crederci. Grazie a quelli che con determinazione ed entusiasmo hanno aperto questo spazio per la prima volta, grazie ai cittadini del Comitato parco Rossani e a quelli che si sono appassionati strada facendo. Sono state le sentinelle di quest’opera. Sono stati progettisti, esecutori, controllori. Sono stati critici ma anche i primi a gioire a ogni passo in avanti. Sono stati loro, i cittadini, la vera forza di questo percorso e sono contento di affidare alle loro cure e di mettere nelle loro mani questo parco".
Poi la conclusione del messaggio di Decaro: "Oggi non potrò essere lì con voi, ma per una volta sarò felice io di godermi tutte le foto e i video del vostro speciale sopralluogo che vorrete inviarmi o pubblicare sui social. Buona vita al nuovo Parco Rossani! Buona domenica, Bari".
Bari, è morto Nicola Di Cagno docente universitario ed ex presidente del consiglio regionale. Aveva 79 anni. Liberale era stato anche assessore regionale al Bilancio. E' stato preside di Economia e commercio all'Unisalento. La Repubblica il 15 Marzo 2022.
E' morto a 79 anni il professore Nicola Di Cagno, docente dell'Università del Salento ed ex presidente del Consiglio regionale e assessore della Regione Puglia. Lo ha annunciato la presidente del Consiglio regionale pugliese, Loredana Capone, in apertura dei lavori in aula.
"Poche ore fa - ha detto - è venuto a mancare il professore Nicola Di Cagno: ha presieduto il Consiglio regionale della Puglia dal 1985 al 1990. È stato assessore al Bilancio e poi agli Affari generali. Dal primo luglio del 2008 al dicembre 2013 ha presieduto l'Istituto pugliese di ricerche economiche e sociali (Ipres)".
Poi Capone, ricordando Di Cagno ha aggiunto: "Un liberale fermo nelle idee ma gentile nei modi, cresciuto culturalmente e politicamente nel prestigioso alveo della famiglia Cassandro. Dai fratelli Paolo ed Emilio ha assorbito l'amore per il diritto costituzionale; da Manlio, giovane deputato barese, vicesegretario negli anni Settanta del Partito liberale, quello per la politica e l'impegno per il sociale".
E' stato anche preside di Economia e commercio all'Università di Lecce. "Una grave perdita per la Puglia. Un uomo pieno di energia, vivace, generoso, competente. Un uomo di cui noi tutte e tutti sentiremo la mancanza", ha concluso Capone.
· La Banca Popolare di Bari. La mia banca è differente…Jacobini story.
Banca Popolare di Bari, il prefetto De Gennaro si dimette dalla presidenza: «Ricostituita legalità dell'istituto». Gli azionisti increduli e preoccupati: «Invochiamo l'intervento dei politici pugliesi per evitare peggiori conseguenze e danni ai risparmiatori». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Aprile 2022. Il Prefetto Gianni De Gennaro lascia la presidenza della Banca Popolare di Bari a decorrere dal 1 maggio. La decisione, spiega una nota, è stata comunicato, oggi, al Consiglio di Amministrazione di Banca Popolare di Bari,(gruppo Mcc).
«La decisione di rassegnare le dimissioni, maturata anche per motivazioni personali, fa seguito al raggiungimento dell’obiettivo della ricostituzione di una cultura dell’Etica e della legalità nell’Istituto» sottolinea il comunicato. «Quando nell’ottobre 2020 Gianni De Gennaro accettò l’incarico, il compito del Presidente comprendeva anche l’esigenza di costituire un forte presidio di legalità presso l’istituto finanziario uscito da una gestione commissariale, cui era stato necessario ricorrere in ragione del grave squilibrio patrimoniale al quale si erano aggiunte le vicende penali che avevano interessato i precedenti vertici aziendali, colpiti da provvedimenti cautelari dell’Autorità giudiziaria.Il CdA ha preso atto della decisione del Presidente e lo ha ringraziato per l’importante lavoro svolto in questi anni".
De Gennaro ha affermato di essere "grato per l’opportunità che ho avuto di lavorare al fianco di professionisti esperti ed integerrimi. Sono certo che sotto l'equilibrata guida del CdA, del Collegio Sindacale e dell’Organismo di Vigilanza, il nuovo management condurrà la Banca a conseguire quegli obbiettivi e quei traguardi imprenditoriali per il raggiungimento dei quali ci siamo, in questi mesi, tutti intensamente adoperati».
LE REAZIONI - «Per un verso prendiamo atto delle dimissioni del presidente, poiché da tempo chiedevamo la sostituzione dell’intero cda e l’arrivo di amministratori specializzati e competenti di tematiche bancarie; per l’altro siamo increduli davanti allo stillicidio di dimissioni e di fughe dalla nostra Banca». Lo scrivono i risparmiatori del Comitato Indipendente Azionisti Popolare di Bari e AssoBPB, che in una nota si dicono «sconcertati dall’ennesimo capitolo della saga Banca Popolare di Bari/Medio Credito Centrale». «Appena il tempo di terminare l’assemblea ordinaria per l'approvazione del terribile bilancio 2021, con 170 milioni di perdite - dicono - , e per nominare due nuovi componenti del cda e del collegio sindacale in sostituzione dei dimissionari, che arrivano le dimissioni del presidente De Gennaro». «Rinnoviamo la richiesta ai rappresentanti politici pugliesi - concludono - di occuparsi della Banca Popolare di Bari e di intervenire presso MCC per evitare peggiori conseguenze e danni ai risparmiatori dalla lenta agonia della BpB».
IL SISTEMA BARI DA RICOSTRUIRE. La "Milano del Sud" da restituire al Paese. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 26 agosto 2021. Il problema della baresità di oggi è che tutti possono fare tutto, e così il declino della competenza diventa declino del territorio. Persistono e si difendono le eccellenze di impresa, ma sparisce il sistema Bari fatto di competenza organizzata e porta il conto salato alle imprese. Che, a loro volta, non sono del tutto immuni da cattive abitudini, ma pagano più degli altri le due grandi crisi internazionali e il nuovo ’29 mondiale a causa proprio della mancata trasformazione di sistema imposta dalla trasformazione digitale e dalla globalizzazione acciaccata. Scommettiamo sull’inversione possibile del declino, sulla “Milano del Sud” rinata e sul suo sistema territoriale rinnovato. Ho voluto che il Quotidiano del Sud-l’Altravoce dell’Italia fosse in edicola a Bari dal suo primo giorno di uscita che data dieci aprile 2019. Perché non si può provare a raccontare l’Italia e il mondo con gli occhi del Mezzogiorno e chiamare a raccolta per farlo le grandi competenze del giornalismo economico, politico, istituzionale italiani senza parlare alla “Milano del Sud” e alla sua comunità. Ho sempre avuto questo pallino fisso nella testa. Quando dirigevo Il Sole 24 Ore un po’ di tempo fa lanciai il Viaggio nell’Italia che innova: prima tappa Bologna, seconda Bari. Perché se penso all’innovazione penso a Bologna, ma se penso a un Mezzogiorno che rincorre e aggancia il Nord, penso a Bari e alla sua provincia. Penso alla Murgia (Altamura, Gravina, Santeramo) che fa il suo alla grande. Penso ai Pertosa con la Mermec a Monopoli e la Sitael a Mola di Bari dove il primato globale si chiama tecnologia nei parametri di sicurezza dell’alta velocità ferroviaria e nei satelliti spaziali. Penso ai Cannillo (Despar) e ai Casillo (entrambi a Corato). Penso alle grandi aziende agricole, ai Divella di Rutigliano e ai tanti che sanno attrarre turismo internazionale, ma non fanno rete tra di loro. Penso alla “Puglia Imperiale” della provincia di Barletta-Andria-Trani (BAT) e al suo dinamismo economico. Ricordo l’insistenza con cui Franco Tatò più di venti anni fa volle che presentassi a Milano il suo lavoro “Perché la Puglia non è la California” e, ancora prima, gli anni trascorsi da cronista del Mattino di Napoli alla Fiera del Levante di Bari dal primo all’ultimo giorno di ogni sua edizione. Percepivo un’aria di chi vuole costruire qualcosa per l’oggi e per il domani, lo spirito mercantile di chi ha un metodo in testa e uno schema di lavoro che collegano Bari al mondo, ma si avvertivano fin da allora i segni dello sgretolamento dello Stato unitario meridionalista e la crescita di quella politica clientelare degli amici degli amici del mastodonte regionale e del crocicchio di società e di potere a esso collegato che avrebbe così tanto nuociuto agli spiriti vitali baresi. Da oggi per vedere ciò che non si vuole vedere e ascoltare battiti, pulsioni, fatiche e delusioni affiancheremo l’edizione Bari Bat Murge a quella dell’AltraVoce in un unicum di offerta editoriale che vuole unire il massimo di libertà e di giornalismo di inchiesta sul territorio al rigore, alla documentazione comparativa-competitiva e all’orientamento del dibattito della pubblica opinione che vive nel racconto quotidiano delle due Italie. Contro gli stereotipi dei luoghi comuni del Nord sul Mezzogiorno fuori dalla storia e dalla realtà e alleggeriti dal peso insostenibile di un meridionalismo della cattedra che ha fatto molto male e ancora di più può farne alla Puglia e al Mezzogiorno perché li condanna entrambi a un cliché protestatario rassegnato. Vogliamo ripetere l’esperimento di successo attuato da anni in Basilicata affidando la guida di questa nuova edizione alle stesse mani sicure di Roberto Marino e di una straordinaria redazione che conosce Bari, BAT e la Murgia come pochi. Diremo ogni giorno le cose come stanno senza riguardi per nessuno perché è il timbro di fabbrica di questo giornale. Che ha un Editore coraggioso che ha la sana abitudine di leggere il giornale il giorno dopo e “combatte” da più di un quarto di secolo nella trincea editoriale delle terre più svantaggiate d’Italia. Provo a essere brutale: il problema della baresità di oggi è che tutti possono fare tutto, e così il declino della competenza diventa declino del territorio. Persistono e si difendono le eccellenze di impresa, ma sparisce il sistema Bari fatto di competenza organizzata e porta il conto salato alle imprese. Che, a loro volta, non sono del tutto immuni da cattive abitudini, ma pagano più degli altri le due grandi crisi internazionali e il nuovo ’29 mondiale a causa proprio della mancata trasformazione di sistema imposta dalla trasformazione digitale e dalla globalizzazione acciaccata. L’eccellenza, per capirci, non fa il tessuto economico di un territorio di una regione. Per invertire il declino e tornare a essere la Milano del Sud, il territorio deve uscire dal suo nuovo motto “pochi, maledetti e subito” che serve a contrastare un breve termine difficile e darsi un progetto di medio e lungo termine dicendo oggi che cosa saranno Bari e la Puglia tra dieci anni. Diciamoci le cose come stanno. La Fiera del Levante è alla canna del gas. Non riesce ad avere una produzione propria che non sia la campionaria che attrae sempre meno. Non produce più fiere: le quattro o cinque specializzate sono tutte importate perché non ha un management con un minimo di capacità per legare le fiere ai suoi prodotti e a un tessuto di ricerca alle sue spalle bellissimo ma frammentato che a sua volta anch’esso non riesce a fare sistema. I gangli vitali per favorire un tessuto economico regionale che vuole fare sistema come l’Acquedotto pugliese e molti altri di reti immateriali e materiali, di servizi e di ricerca pubblica sono nelle mani di uomini fedeli alla politica regionale dello scambio e non basta il lavoro serio di un bravo sindaco di Bari e di altri buoni amministratori comunali per rimediare ai guasti di struttura prodotti da un sistema deviato che è il frutto malato del federalismo italiano della irresponsabilità. Che qui, come a Napoli e a Palermo, ha dovuto fare anche i conti con gli indebiti prelievi operati dalle Regioni del Nord. La Banca Popolare di Bari è stata travolta dagli scandali che non hanno risparmiato neppure una famiglia simbolo come quella degli Jacobini. Su quello che è accaduto nella gestione del credito saremo vigili e non avremo attenzioni per nessuno, ma ancora di più lo saremo con chi ne ha raccolto l’eredità perché non ci piacciono i gattopardismi a ogni latitudine e perché hanno ricevuto in consegna le chiavi del futuro di sistema da ricostruire. Se lo ricordino bene ogni giorno che Dio manda in terra perché devono sapere distinguere tra i raccomandati a cui devono dire no e gli spiriti vitali che da questo intreccio distorto sono stati penalizzati e a cui devono sapere dire sì senza nascondersi dietro paraventi formalisti. Il Bari calcio è finito in mano alla famiglia partenopea dei De Laurentiis che è a sua volta proprietaria dello storico Napoli calcio. Sul piano dei simboli se penso alle radicate capacità dell’impresa pugliese di difendere i suoi simboli proprio rispetto a quella napoletana che ha già vissuto la sua stagione di disarmo e prova ora a ripartire, questo mi sembra il dato più evidente della strutturalità della crisi barese. Un grande marchio del caffè Saicaf della famiglia Lorusso è stato acquisito da Segafredo. Potremmo continuare, ma fermiamoci qui. Scommettiamo piuttosto sull’inversione possibile del declino, sulla “Milano del Sud” rinata e su un suo sistema territoriale rinnovato. Che saranno a loro modo acceleratori del cambiamento del Mezzogiorno e contribuiranno a salvare l’Italia. L’unica cosa che non manca, qui come in modo diffuso a Napoli e in Calabria con una università che sforna i talenti mondiali dell’algoritmo dell’intelligenza artificiale, è il capitale umano giovanile. La coerenza meridionalista degasperiana del governo di unità nazionale guidato da Draghi punta proprio su quel capitale. Draghi è la carta estrema del Paese, ma proprio per questo è allo stesso tempo l’ultima opportunità che la storia ci consegna per riunire le due Italie. Dobbiamo crederci e essere parte attiva del cambiamento. Bisogna fare l’esatto contrario di quello che si è fatto negli ultimi venti anni. Quelli della crescita zero e delle diseguaglianze crescenti. Quelli del patto scellerato della spesa storica tra le Regioni ricche di Destra e di Sinistra che hanno privato i cittadini meridionali dei loro diritti di cittadinanza e svuotato il primo mercato interno di consumi del Nord produttivo. Un obbrobrio etico e un “capolavoro” da studiare nei manuali per raccontare come si mette fuori gioco un Paese intero.
LA GRANDE CRISI DELL’IMPRENDITORIA BARESE. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 16 Agosto 2021. IL BARI CALCIO IN SERIE C, IL “CRACK” DELLA BANCA POPOLARE DI BARI, IL FALLIMENTO DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, LA FIERA DEL LEVANTE CHE NON SIN FARA’, LA CESSIONE DELLA SAICAF ALLA SEGAFREDO. DOV’E’ FINITA LA BARI CHE “CONTA”? C’era una volta la “razza padrona” di Bari, una classe di imprenditori che avevano portato in alto il capoluogo pugliese facendole conquistare l’appellativo di “Milano del Sud”. Sono passati alcuni decenni e Bari non è più la stessa Bari. Una città dove i costruttori avevano trasformato l’assetto urbanistico sviluppandolo nelle periferie allargando i confini della città, ora diventata metropolitana. La Fiera del Levante era diventata la più grande manifestazione espositiva d’ Italia, surclassando persino quella di Milano, la cui inaugurazione contrassegnava la ripresa della vita politica del Paese, inaugurata dal Presidente del Consiglio in carica. Una Bari in cui chi scrive ha iniziato a muovere i primi passi nel giornalismo sotto la guida e gli insegnamenti di due grandi del giornalismo pugliese: Oronzo Valentini e Mario Gismondi. Una città che andava fiera dell’attività culturale del Teatro Petruzzelli sotto la gestione di Ferdinando Pinto, dove l’economia regionale ruotava intorno alla Cassa di Risparmio di Puglia, sostituita nell’ultimo ventennio dalla Banca Popolare di Bari. Dove le famiglie Romanazzi, Calabrese, Matarrese, Andidero, DeGennaro ecc. dettavano legge nel mondo dell’impresa. Quando negli anni ’80 passeggiavo nella centrale via Sparano, troneggiava il Palazzo della famiglia Mincuzzi, che era il vero regno dell’eleganza pugliese, al cui posto adesso c’è uno dei negozi Benetton. La via più centrale e rappresentativa del capoluogo barese, dove di anno in anno chiudono i negozi di “storiche” famiglie del commercio, lasciando il posto a catene commerciali nazionali, talvolta di basso livello tipo “cash & carry”. Basta quindi fare due passi per le vie del centro per constatare che anche il commercio barese è in forte crisi. Ma come dicevano i greci “se Atene (alias i commercianti) piange” anche “Sparta (cioè gli imprenditori) non ride…“
La cessione della Saicaf ai bolognesi. Il gruppo Massimo Zanetti Beverage Group Zanetti, leader a livello mondiale nella produzione, lavorazione e distribuzione di caffè tostato con la presenza in 110 Paesi ha acquisito circa il 60% dell’azienda barese Saicaf nata nel 1932, fondata dalla famiglia Lorusso, con qualche problema da risolvere. Cioè il destino di una decina di dipendenti rimasti tagliati fuori dai giochi dopo la chiusura dello stabilimento avvenuta nell’agosto 2019. Una vertenza sindacale durata esattamente due anni, conclusasi con la la cessione del pacchetto di maggioranza della storica fabbrica di produzione di caffè del capoluogo pugliese alla società bolognese, proprietaria tra gli altri del marchio Segafredo.
La politica barese. I politici espressione del capoluogo barese avevano un “peso” nel Paese. A partire dai democristiani Vito Lattanzio e Tonino Matarrese ai socialisti Rino Formica e Giuseppe Di Vagno, per finire all’indimenticabile Pinuccio Tatarella sicuramente il più amato ed indimenticato dai baresi, che non hanno lasciato “eredi” del loro livello. Una città dove gli esponenti politici cambiano sponda passando dalla destra alla sinistra, con la tranquillità e sfrontatezza come si cambia una cravatta. Non è un caso che un figlio del socialismo “barese” come Antonio Decaro, sia diventato il sindaco più amato d’ Italia, mentre il suo predecessore Michele Emiliano, la cui militanza giovanile nelle file del Movimento Sociale Italiano è nota a tutta la città , magistrato in aspettativa, è diventato il discusso leader regionale del Partito Democratico, da cui è dovuto uscire non rinnovando il proprio tesseramento per evitare di essere espulso dalla magistratura, dal Consiglio Superiore della Magistratura, venendo riconfermato lo scorso settembre alla guida della Regione Puglia grazie ad alleanze trasversali, e trasformisti politici come l’ex-senatore Massimo Cassano che dopo aver militato per anni nel centrodestra facendo il sottosegretario di un Governo Berlusconi adesso si è fatto il suo movimento politico pugliese che appoggia la maggioranza di centrosinistra regionale guidata da Emiliano nella nuova versione “indipendente”…dal Pd, che lo ricompensato con un bell’incarico da oltre 150mila euro l’anno! Michele Emiliano nonostante la sua rielezione alla guida della Regione Puglia si è piazzato solo all’11° posto nella classifica del gradimento dei cittadini sui governatori di regione, recentemente stilata dal Sole24Ore con il sondaggista Noto, un risultato deludente per la sua ambizione di visibilità e peso politico su “scala nazionale”
La triste storia del Bari Calcio. Dopo la storica A.S. Bari Calcio arrivata in serie A sotto la presidenza dell’indimenticabile chirurgo prof. Angelo De Palo, passato alla famiglia Matarrese, società fallita nel marzo 2014 per la quale la Procura di Bari ha chiesto nel 2020 il rinvio a giudizio per il reato di bancarotta fraudolenta nei confronti dell’ex presidente Figc ed ex onorevole Antonio Matarrese, vicepresidente vicario del CdA del Bari dal 2010 al 2011, l’ex parlamentare Salvatore Matarrese, consigliere della società sportiva dal 2002 al 2011, suo cugino omonimo, ad dal 2002 al 2010 e consigliere fino al 2011. La società di calcio risorse per mano di Gianluca Paparesta nel 2014 con la costituzione del F.C. Bari 1908. sulle ceneri dell’A.S. Bari della famiglia Matarrese, venendo rilevata nel 2016 dal molfettese Cosmo Giancaspro, entrato inizialmente come socio al 5% e poi divenuto amministratore unico del club., senza che l’imprenditoria barese abbia fatto nulla per mantenere il controllo della società della propria città. Le vicende del biennio in cui l’imprenditore molfettese è stato al timone della società, sono ben note, con i tifosi che si sono ritrovati in un battito di ciglia dal cullare il sogno della promozione in Serie A fino alla mancata iscrizione al campionato cadetto di luglio del 2018. Uno scenario che ha portato alla revoca del titolo sportivo, poi riassegnato dal Comune di Bari alla famiglia De Laurentiis, che ha rifondato la squadra partendo dalla Serie D, e che adesso milita per il secondo anno consecutivo in serie C (Lega Pro). A volte il destino è a dir poco cinico. Infatti nel 111° compleanno della società biancorossa, fondata il 15 gennaio 1908, venne comunicato il respingimento del concordato preventivo, tentato da Giancaspro per salvare la società. F.C. Bari 1908 che è stata dichiarata fallita con debiti per circa 12 milioni di euro. Vano fu il tentativo di conservare l’affiliazione alla FIGC per provare a riscuotere i presunti crediti per 8 milioni di euro vantati in Lega. Giancaspro venne arrestato per il crack della Finpower.
La Nuova Fiera del Levante non decolla. Nell’ agosto 2017 è stata costituita la Fiera del Levante srl, la newco che deve gestire, per i prossimi sessant’anni, parte del quartiere fieristico di Bari, ovvero 90mila metri quadrati di padiglioni espositivi sui quasi 300mila complessivi. Dopo il sì dell’assemblea di Fiere Bologna spa – che si era candidata insieme alla locale Camera di Commercio è avvenuta alla privatizzazione dell’ente fieristico barese a due anni esatti dalla manifestazione di interesse del luglio 2015. Il progetto di rilancio si è arenato ed infatti quest’anno la Campionaria 2021 della Fiera del Levante ha ceduto il passo alla crisi e al Covid. Solo il 10% di richieste di prenotazione di spazi espositivi, a un mese e mezzo dall’inaugurazione, è davvero poco. Più o meno 50 su 500 disponibili. In verità si attendeva solo l’ufficialità della decisione, arrivata alla fine dello scorso luglio, anche se Regione Puglia e Comune di Bari, sostenevano di non saperne nulla, nonostante le dichiarazioni poco rassicuranti di Alessandro Ambrosi, presidente della Camera di Commercio di Bari e della Nuova Fiera del Levante, la società cui era stata affidata nel 2017 la riqualificazione e gestione del quartiere fieristico di proprietà dell’Ente autonomo, che aveva annunciato “soluzioni drastiche”.
Il crack della Popolare di Bari. La crisi della città si era intravista ed annunciata con il “ciclone giudiziario” che si è abbattuto sulla Banca Popolare di Bari sotto la gestione della famiglia Jacobini. Gli ex vertici della Popolare di Bari, tra cui Marco e Gianluca Jacobini, padre e figlio, rispettivamente ex presidente ed ex condirettore generale dell’istituto di credito, sono stati arrestati a gennaio dell’anno scorso. I reati contestati sono a vario titolo il falso in bilancio, il falso in prospetto, le false comunicazioni e ostacolo alla vigilanza. Sono stati circa tremila i risparmiatori ammessi come parte civile dal Tribunale di Bari nell’ambito del processo per il cosiddetto crack della Banca Popolare di Bari. La maratona giudiziaria della Popolare di Bari è arrivata a una svolta importante per Vincenzo De Bustis, l’ex amministratore delegato 70enne dell’istituto pugliese commissariato due anni fa da Bankitalia e poi salvato dal crack con l’intervento e i soldi pubblici del Mediocredito Centrale. De Bustis, un banchiere di lungo corso in passato al vertice anche del Monte dei Paschi, è stato rinviato a giudizio per il reato di falsa testimonianza. Il processo, fissato per il 2 febbraio dell’anno prossimo, vedrà comparire per la prima volta De Bustis come imputato in un procedimento, tra i tanti, che riguardano la passata gestione della Popolare di Bari. Il procuratore facente funzione della procura di Bari Roberto Rossi ed il pubblico ministero Savina Toscani come racconta l’ottimo collega Vittorio Malagutti del settimanale L’ESPRESSO, hanno infatti chiesto e ottenuto il processo per l’ex amministratore delegato della Popolare perché le sue parole appaiono in contrasto con quanto lo stesso De Bustis aveva a suo tempo disposto nel 2013, in qualità di direttore generale della Popolare di Bari, con un provvedimento da lui stesso firmato. In questo atto interno della banca, che recepiva una circolare di Bankitalia, si attribuiva al Chief Risk Officer (cioè Luca Sabetta) un potere di veto sulle “operazioni di maggior rilievo”, categoria, quest’ultima a cui apparteneva di sicuro un’acquisizione come quella di Tercas. Con la sua testimonianza, De Bustis avrebbe quindi cercato (dicendo il falso, secondo i pm) di sminuire il ruolo di Sabetta, contestando la legittimità del suo intervento come responsabile dei rischi. A gennaio del 2019, quando ha testimoniato nella causa di lavoro, l’allora consigliere delegato della Popolare di Bari sapeva bene che il manager licenziato tre anni prima aveva dato un contributo decisivo alle indagini in corso sulla gestione della banca.
Il fallimento della Gazzetta del Mezzogiorno. Nel giugno 2020 il Tribunale di Bari ha dichiarato il fallimento delle società “Edisud” (che editava la Gazzetta del Mezzogiorno) e della “Mediterranea” proprietaria della testata. Il giudice ha accolto la richiesta della procura che aveva chiesto la dichiarazione di fallimento per i circa 50 milioni di debiti accumulati. I guai per lo storico quotidiano barese cominciarono il 24 settembre 2018 quando la procura antimafia di Catania mise i sigilli ai beni dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo per un valore di 150 milioni di euro: tra questi le quote della Gazzetta del Mezzogiorno, del quotidiano La Sicilia, delle emittenti televisive regionali siciliane Antenna Sicilia e Telecolor e la società che stampa quotidiani Etis. Dopo il fallimento le rispettive curatele fallimentari nominale dal Tribunale di Bari hanno pubblicato un bando per l’esercizio provvisorio per 6 mesi del quotidiano barese, a cui ha partecipato soltanto una società, la Ledi Edizioni srl, società del gruppo Ladisa, colosso della ristorazione aziendale con oltre 6mila dipendenti e 16 sedi sparse su tutto il territorio nazionale, che aveva messo in piedi un vero progetto industriale, con una nuova sede tecnologica, una concessionaria pubblicitaria interna e sopratutto un nuovo direttore degno di essere chiamato tale, e cioè Michele Partipilo. Ma anche in questo caso è successo qualcosa di molto strano. A15 giorni dalla scadenza dell’esercizio provvisorio (il 31 luglio 2020) i curatori fallimentari hanno chiesto alla Ledi una proroga, non di sei mesi come previsto nel bando originale, ma di solo ulteriori 30 giorni e cioè per arrivare alla fine di agosto quando dovrebbe essere presa una decisione sulle due proposte di acquisto della Gazzetta del Mezzogiorno presentate dalla Ledi e dalla società Ecologica, della famiglia Miccolis di Castellana Grotte, che secondo voci attendibili sarebbe affiancata in cordata dal Gruppo CISA di Massafra controllata dal condannato e plurindagato imprenditore Antonio Albanese, specializzato in discariche ed acquisizioni fallimentari. La Ledi srl ha comunicato secondo noi giustamente la propria indisponibilità a prorogare di ulteriori 30 giorni i sei mesi previsti il fitto di azienda, contestando al Tribunale fallimentare e alle curatele di aver seguito tempi troppo lunghi per l’assegnazione definitiva della testata, di proprietà della società Mediterranea, anche questa in procedura fallimentare. Risultato? Dallo scorso 1 agosto, la Gazzetta del Mezzogiorno non esce più in edicola, ed il giornale è rientrato nella disponibilità esclusiva della curatela fallimentare di Edisud e con esso tutti i rapporti di lavoro: 144 tra giornalisti e poligrafici sono stati automaticamente retrocessi senza soluzione di continuità, con effetto dal primo agosto, alla società Edisud in fallimento. Si dovrà ora attendere che si concludano le procedure di votazione sui piani di concordato per Mediterranea presentati dalle società Ledi srl ed Ecologica spa. A questo punto rimane solo da augurarsi che anche la Gazzetta non faccia la fine del Bari Calcio gestione Giancaspro. Anche perchè in un malaugurato caso ci sarebbe il rischio di non poter applicare il detto latino “pecunia non olet” (i soldi non puzzano). Lascio a voi capire il perchè.
Lasciatemi in conclusione una domanda rivolta alla Bari che “conta”: ma dove sono finiti gli imprenditori quelli “veri”, che amano realmente la propria città ed i propri simboli ? Si fa fatica a cercarli e riconoscerli. Esiste ancora la “razza padrona” a Bari?
Popolare di Bari, da accusatore ad indagato: dirigente bancario dinanzi al gip. L’ex responsabile della gestione rischi dell’istituto di credito, Luca Sabetta, è indagato per tentata estorsione ai danni della banca. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Aprile 2022. Il principale accusatore degli ex vertici della Banca Popolare di Bari, l’ex responsabile della gestione rischi dell’istituto di credito Luca Sabetta, è indagato per tentata estorsione ai danni della banca - con richiesta di archiviazione da parte della Procura alla quale l'ex amministratore delegato della banca si è opposto - ed è stato contemporaneamente citato come testimone nel processo in corso a carico di Marco e Gianluca Jacobini, padre e figlio rispettivamente ex presidente ed ex condirettore generale, accusati di falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo all’attività di vigilanza di Bankitalia e Consob. Sabetta ha testimoniato oggi nell’udienza del processo agli ex amministratori Jacobini assistito da un legale, l’avvocato Stefano De Francesco, in quanto indagato in un procedimento connesso che nelle prossime ore il gip del Tribunale di Bari Angelo Salerno deciderà se archiviare.
Nel giorno in cui Sabetta siede al banco dei testimoni nell’aula allestita nella Fiera del Levante, in un’altra aula del Tribunale di via Dioguardi si discute l’opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento a suo carico per tentata estorsione. Sabetta fu denunciato nel giugno 2017, circa un anno dopo essere stato licenziato, dall’allora ad Giorgio Papa, per una lettera nella quale «avrebbe tentato di costringere gli organi di vertice della Banca Popolare di Bari - si legge negli atti - ad instaurare una trattativa finalizzata alla risoluzione consensuale del suo rapporto di lavoro, minacciando che, ove la sua proposta non fosse stata accolta, avrebbe divulgato informazioni che probabilmente avrebbero dato impulso ad un procedimento penale a carico dell’istituto di credito».
Per la pm della Procura di Bari Savina Toscani questo non costituiva una minaccia, tenuto anche conto che anni dopo, nel giugno 2020, il giudice del lavoro ha dato ragione a Sabetta dichiarando illegittimo il licenziamento. Secondo l’allora ad, però, in quella lettera Sabetta aveva usato «toni minacciosi" tipici di un tentativo di estorsione. Il gip si è riservato di decidere. Intanto Sabetta ha risposto per ore alle domande della Procura nel processo nato proprio dalle sue rivelazioni. Ha cominciato a raccontare la fase della sua assunzione, nell’ottobre 2013, e i sospetti sull'operazione che portò all’acquisizione di Banca Tercas, di cui lui sarebbe venuto a conoscenza solo a cose fatte. La sua testimonianza proseguirà nell’udienza del 28 aprile.
Crac Fusillo, per il tribunale la Banca popolare di Bari sarà responsabile civile. La decisione del tribunale di Bari nel processo per il fallimento delle società Fimco e Maiora del gruppo imprenditoriale di Noci: una scelta opposta a quella dell'altro collegio del tribunale chiamato a pronunciarsi sulla medesima questione nel processo agli ex amministratori della banca. La Repubblica l'8 febbraio 2022.
La Banca popolare di Bari sarà responsabile civile nel processo sul crac delle società Fimco e Maiora del gruppo imprenditoriale Fusillo di Noci. Lo ha stabilito il Tribunale di Bari (presidente Rosa Calia Di Pinto), prendendo così una decisione diversa da quella dell'altro collegio dello stesso Tribunale, chiamato a pronunciarsi sulla medesima questione nel processo agli ex amministratori della banca.
In questo caso i giudici hanno ritenuto che la mancata notifica alla banca, durante le indagini, di un accertamento tecnico irripetibile, relativo alla estrapolazione della copia forense di apparecchi informatici, non leda il diritto di difesa perché l'esito di quegli accertamenti è stato ritenuto dalla Procura "irrilevante ai fini della prova dei fatti contestati" e quindi eliminato dal fascicolo del dibattimento. Nell'altro processo, invece, gli accertamenti irripetibili fanno parte del fascicolo e la quale è stata quindi estromessa dalla responsabilità civile.
Per il crac Fusillo, quindi, la banca sarà costituita nella doppia veste di responsabile civile e parte civile per il solo danno all'immagine. Nel processo sono imputate 14 persone, tra le quali Marco e Gianluca Jacobini, padre e figlio rispettivamente ex presidente ed ex condirettore generale della Popolare di Bari, otto imprenditori e altri ex dirigenti dell'istituto di credito, tra i quali l'ex ad Giorgio Papa.
Con la complicità dei vertici della banca, sostiene il pm Lanfranco Marazia, gli imprenditori avrebbero dissipato i beni aziendali con cessioni di quote e immobili per almeno 93 milioni di euro fino al 2019 e accumulato debiti stimati in circa 430 milioni di euro.
I giudici hanno poi escluso la costituzione di parte civile di quattro azionisti della banca, "i quali non possono vantare un danno risarcibile diretto e immediato, bensì un danno, sia sotto l'aspetto patrimoniale che morale, cosiddetto riflesso, in quanto le vicende del socio azionista sono del tutto estranee ai rapporti di credito tra la banca e le società fallite a suo tempo clienti dell'istituto di credito". Inoltre gli azionisti sono costituiti parte civile anche nell'altro processo, quindi ci sarebbe "una duplicazione del risarcimento del danno". Le prossime udienze del processo, dedicate alle audizioni dei consulenti della Procura, si celebreranno, per motivi logistici, nell'aula della Corte di Assise il 3 e il 24 maggio.
«La villa (abusiva) di Jacobini jr costruita a spese di Fusillo». Chiesto il processo per l’ex manager e per l’imprenditore, la casa sul mare di Polignano potrebbe essere demolita. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Febbraio 2022.
La villa con piscina vista mare di Gianluca Jacobini, in uno dei punti più belli di Polignano, sarebbe stata costruita con i soldi dell’imprenditore Vito Fusillo. Senza badare a spese (naturalmente) e senza curarsi troppo delle norme, tanto che l’interrato dell’immobile è totalmente abusivo. Ma per questa storia l’ex condirettore generale della Popolare di Bari e il costruttore di Noci potrebbero dover affrontare un processo: la Procura di Bari ne ha chiesto il rinvio a giudizio per corruzione tra privati. Compariranno a novembre davanti al gup Isabella Valenzi.
Nel fascicolo del pm Lanfranco Marazia era inizialmente iscritto anche Marco Jacobini, ex patron della banca, su cui sono stati svolti accertamenti analoghi per la masseria di Cassano. Ma per il momento l’accusa riguarda solo Gianluca (che in quella villa ha trascorso gli arresti domiciliari) e Vito Fusillo, perché la tesi della Procura di Bari - da verificare all’esito del dibattimento - è che la costruzione della villa di Polignano sia una contropartita dei finanziamenti che la Banca Popolare di Bari ha elargito per oltre un decennio all’imprenditore di Noci. È stato lui stesso, del resto, a raccontare questa storia al procuratore Roberto Rossi mettendo nero su bianco i particolari.
«Gli trovai quella casa lì - ha detto Fusillo della villa di Gianluca Jacobini -, riuscii a trovarla, lui fece... la comprò, fece l’atto, e poi cominciammo i lavori. I lavori, alcuni tecnici erano tecnici, che erano, diciamo, del territorio, però tutta la parte tecnica vera erano i nostri come azienda, o Fimco o Maiora». In effetti la villa è stata venduta nel 2013 con l’intermediazione di una agenzia di Bari con una proposta fatta a nome Fusillo: poi è intervenuto Gianluca Jacobini che ha speso 650mila euro di cui 598mila coperti con un mutuo della PopBari. Poi però l’immobile è stato demolito e ricostruito grazie al Piano casa. E qualcuno si è fatto prendere la mano.
«Indicò il progetto - ha raccontato Fusillo -, andammo avanti, e nell’interrato lui addirittura, perché poi c’è stato anche un procedimento penale, ha messo in difficoltà tutti quanti, perché alla fine fece fare dei lavori nell’interrato che non si potevano fare. Poi intervennero i vigili urbani, perciò è intervenuta anche la magistratura su quella vicenda, fummo costretti a chiudere con dei pannelli di cartongesso tutto ciò che aveva fatto di abusivo, la parte interrata, che era parecchio, perciò è come se avessimo fatto gli scavi di Pompei sotto».
Il consulente nominato dalla Procura, un ingegnere, ha stimato un valore di 829mila euro per le opere effettuate più altri 75mila euro di oneri tecnici. Di questi, soltanto 300mila sono stati pagati dal proprietario dell’immobile. Il consulente ha confermato che il piano interrato della villa è abusivo e non può essere sanato: probabilmente lo «scavo di Pompei» dovrà essere riempito. Ma il punto sono, come sempre, i soldi. La Finanza ha ascoltato tutte le imprese impegnate sul cantiere della villa: le stesse che stavano realizzando, per conto di una delle società di Fusillo, gli immobili del complesso Calaponte di Polignano. Gli appaltatori hanno confermato di essere stati pagati dall’imprenditore di Noci, nell’ambito di quegli altri lavori. Il fornitore della piscina, che aveva contrattato direttamente con il manager bancario, ha raccontato ai militari che le forniture extra (un sistema idromassaggio a 5 posti, le casse acustiche subacquee) per la piscina non gli sono mai state pagate: anche questa spesa, circa 14mila euro, è stata fatturata a Fusillo. E questo - accusa la Procura - nonostante le società dell’imprenditore nocese fosserò già in una situazione precaria.
Le indagini sul crac della Popolare di Bari non si fermano. Stamattina, intanto, un gruppo di azionisti terrà un sit-in davanti alla sede di Bari della Banca d’Italia per manifestare «grande scontento su tutta la vicenda».
Bari, nuova inchiesta per Jacobini jr e Fusillo. Al setaccio i conti per il restyling di una villa a Polignano. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 23 settembre 2021
Una ristrutturazione da quasi un milione di euro costata 300mila a Gianluca Jacobini al centro delle indagini. Il costruttore, secondo il pm, si sarebbe accollato il costoso restyling per avere in cambio dalla banca ulteriori linee di credito.
Una ristrutturazione da quasi un milione di euro, costata al proprietario appena 300mila: diventa caso giudiziario la storia della villa di Gianluca Jacobini (ex condirettore della Banca Popolare di Bari) a Polignano a Mare. E fa finire Jacobini junior nei guai per la quarta volta nel giro di due anni. Questa volta il compagno di sventura è Vito Fusillo, l'imprenditore di Noci che si sarebbe accollato quella costosissima opera di restyling per avere in cambio dalla banca ulteriori linee di credito.
La vicenda è ricostruita nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari per corruzione tra privati fatto notificare a Fusillo e Jacobini del pm Lanfranco Marazia, al termine di complicate indagini che si sono avvalse anche di una consulenza tecnica. I fatti contestati risalgono a inizi 2018, quando alcune società del gruppo nocese erano sull'orlo del baratro e il patron aveva assoluto bisogno di credito.
All'epoca - ha ricostruito la Procura di Bari - il rapporto tra Fusillo e Banca Popolare era strettissimo, in virtù di un legame personale fra Vito e l'allora presidente Marco Jacobini. L'imprenditore chiedeva aiuto e il banchiere glielo dava, in barba agli alert di alcuni manager dell'istituto che evidenziavano la difficile situazione del gruppo.
Proprio in quei mesi la Fimco di Fusillo si era imbarcata nella spericolata operazione di acquisizione di palazzo Trevi a Roma, che doveva essere finanziata grazie al credito della BpB. Aveva quindi necessità di restare nelle grazie degli Jacobini e non a caso nello stesso periodo furono effettuati i lavori alla villa. Interventi di cui Fusillo ha parlato con dovizia di particolari nei memoriali depositati al pm due anni fa: "Con Gianluca Jacobini non c'era alcun contratto, lui mi ha dato un progetto per la villa a Polignano ma né il padre né il figlio hanno fatto mai una sola fattura nei miei confronti. Non hanno mai pagato né Fimco né Maiora. La parte interrata era talmente grande da sembrare che avessimo fatto gli scavi di Pompei. Però era abusiva e dopo che è intervenuta la magistratura fummo costretti a chiuderla con pannelli di cartongesso". Di fronte alla domanda sul motivo per cui non si ribellasse a tale situazione, l'imprenditore ha spiegato: "Faceva parte del gioco, ero convinto che gli Jacobini al momento opportuno mi avrebbero aiutato".
Cosa che è accaduta fino a un certo punto. Indubbiamente, secondo la Procura, l'appoggio dato a Fusillo dalla Popolare andò oltre il dovuto, tanto che gli Jacobini e alcuni manager sono coinvolti nel processo in corso per la bancarotta del gruppo di Noci. A pochi giorni dalla ripresa di quel procedimento, un'altra vicenda sui due imputati. Nel nuovo avviso di conclusione indagini si contesta che Jacobini avrebbe violato "i parametri di merito creditizio" per aiutare Fusillo, ottenendo in cambio utilità quali "una parte rilevante dei lavori di demolizione/costruzione e correlati oneri professionali". Stando ai calcoli del consulente del pm, il proprietario della villa avrebbe corrisposto 300mila euro: le opere e le prestazioni professionali ne valevano almeno 900.
La Regione Puglia “trema”: la Procura adesso indaga sui finanziamenti pubblici concessi al gruppo Fusillo. Il Corriere del Giorno il 27 Ottobre 2020. La Regione Puglia ha contribuito con fondi pubblici alla costruzione della masseria Il Melograno con un finanziamento a fondo perduto di 1,4 milioni di euro, di di ulteriori 7 milioni di euro per la realizzazione del porto turistico Cala Ponte rispetto ai 25 spesi in totale. Contributi questi a fondo perduto che hanno costituito un importante e fondamentale sostegno economico-finanziario per le attività svolte alle società dell’imprenditore Fusillo che da diversi anni versavano in grosse difficoltà e sofferenze finanziarie. Nel corso delle indagini delegate dalla Procura di Bari alla Guardia di Finanza sulla bancarotta delle società Fimco e Maiora sono emersi anche i fondi pubblici concessi dalla Regione Puglia alle società del costruttore Vito Fusillo utilizzati per la realizzazione della masseria Il Melograno a Monopoli e del porto turistico Cala Ponte di Polignano a Mare in provincia di Bari. L’inchiesta in questione ha portato all’interdizione dell’imprenditore Vito Fusillo insieme a Marco Jacobini ex presidente della Banca Popolare di Bari, disposta dal tribunale di Bari lo scorso 29 settembre, con ordinanza di arresti domiciliari dei rispettivi figli, Giacomo Fusillo e Gianluca Jacobini. La Regione Puglia ha contribuito con fondi pubblici alla costruzione della masseria Il Melograno con un finanziamento a fondo perduto di 1,4 milioni di euro, di ulteriori 7 milioni di euro per la realizzazione del porto turistico Cala Ponte rispetto ai 25 spesi in totale. Contributi questi a fondo perduto che hanno costituito un importante e fondamentale sostegno economico-finanziario per le attività svolte alle società dell’imprenditore Fusillo che da diversi anni versavano in grosse difficoltà e sofferenze finanziarie. Difficoltà finanziarie che erano condizionate e conseguenti alle spericolate operazioni concertate con i vertici della Banca Popolare di Bari. Il Nucleo di polizia economico- finanziaria della guardia di finanza di Bari ha ricostruito minuziosamente e dettagliatamente numerose operazioni e giri di milioni di euro da una società all’altra del Gruppo Fusillo, acquisti e vendite di immobili tramite fondi esteri, cessioni di quote, operazioni delle quali Vito Fusillo ha fornito chiarimenti in alcuni interrogatori e nelle diverse memorie consegnate alla Procura. Nel corso dell’ultimo interrogatorio avvenuto lo scorso 6 ottobre dinnanzi alla Gip Luigia Lambriola , firmataria delle ordinanze cautelari, ed al pm Lanfranco Marazia coordinato dal procuratore facente funzione Roberto Rossi, Vito Fusillo ha parlato a lungo sulla questione dei finanziamenti pubblici.”L’operazione della Regione era a fondo perduto — ha detto il costruttore — e finanziava l’albergo e i servizi del porto: gli uffici, il bar, il deposito“. Per il Melograno, invece la Regione aveva finanziato quasi interamente la sua ristrutturazione. Più o meno un anno fa qualcuno aveva esercitato delle pressioni su Fusillo affinché lo vendesse, esattamente come era accaduto per l’immobile di via delle Muratte, adiacente alla Fontana di Trevi di Roma, che venne svenduto a un immobiliarista, non a caso finanziato sempre dalla Banca Popolare barese. Per evitare di dover sottostare a queste pressioni che arrivavano dalla Popolare, Fusillo chiese nel maggio 2019 alla nipote di reperirgli la documentazione attestante che la masseria Il Melograno, essendo realizzata in parte con fondi pubblici, non poteva essere alenata mediante una cessione, ma doveva restare di proprietà della Soiget, la società di suo figlio Giacomo Fusillo. L’imprenditore Vito Fusillo è stato molto preciso e dettagliato nel corso del suo interrogatorio sulla questione finanziamenti pubblici e la relativa documentazione sequestrata dalla Fiamme Gialle nel corso delle perquisizioni è adesso oggetto di verifiche ed accertamenti . Il consulente informatico nominato dalla Procura di Bari ha iniziato oggi a svolgere tutti gli accertamenti tecnici irripetibili sui telefoni e computer degli otto indagati Marco e Gianluca Jacobini, Vito e Giacomo Fusillo, Nicola Loperfido ex dirigente della Banca Popolare di Bari, Vincenzo Giacovelli, Salvatore Leggiero, Girolamo Stabile , ma anche su alcuni supporti informatici di proprietà di Giulia Bruni e Amalia Alicino (cioè le rispettive mogli di Marco e Gianluca Jacobini), che sarebbero stati utilizzati dai mariti. La Gip Luigia Lambriola ha respinto la richiesta di incidente probatorio sui dispositivi avanzata dai difensori degli Jacobini, ma tali richiesta hanno comportato che gli atti relativi ai contenuti di telefoni e computer non potessero essere depositati per le udienze del Riesame. Ieri infatti è stata discussa la richiesta di annullamento dell’ordinanza cautelare per l’ex dirigente Loperfido , il “re” dei dirigenti della Popolare di Bari che Gianluca Jacobini chiamava “the King”, per significare il suo potere all’interno dell’istituto, come sostenuto anche dalla procura barese. Gianluca Jacobini, ex condirettore generale della Banca popolare di Bari, attualmente agli arresti domiciliari per il reato di concorso in bancarotta fraudolenta difeso dagli avvocati Mario Malcangi e Guido Carlo Alleva, lo scorso 6 ottobre si è avvalso della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia dopo l’arresto subito nell’ambito dell’inchiesta sul crac del gruppo imprenditoriale Fusillo di Noci. Con la stessa accusa è stato sottoposto a interdizione suo padre Marco Jacobini, ex presidente dell’istituto di credito barese. Secondo le indagini della Guardia di Finanza di Bari, coordinate dal procuratore facente funzione Roberto Rossi , la Banca Popolare di Bari si sarebbe di fatto resa complice del fallimento delle società del gruppo Fusillo, concedendo continui sconfinamenti ingiustificati sui conti correnti e linee di credito così aggravando ulteriormente il passivo delle società, di fatto gestendo buona parte delle sue operazioni finanziarie, comprese cessioni di immobili, che in circa 10 anni ne hanno portato al crac di Fusillo. Dinanzi alla gip Luigia Lambriola e al pm Lanfranco Marazia, aveva risposto per circa un’ora alle domande Nicola Loperfido, agli arresti domiciliari dal 29 settembre per il reato di “concorso in bancarotta fraudolenta”, nell’ambito dell’indagine della Procura di Bari e difeso dall’avvocato Nicola Quaranta, ex responsabile della Direzione Business della Banca popolare di Bari, all’epoca dei fatti gestore per conto della banca degli affidamenti concessi al gruppo Fusillo spiegando di non avere avuto più contatti con i vertici dell’istituto di credito dopo le proprie dimissioni nel 2018 , che ha cercato di chiarire la propria posizione con riferimento alle esigenze cautelari, riservandosi di sottoporsi ad un nuovo interrogatorio sulle accuse a proprio carico, dover esaminato e studiato i 72 mila atti che compongono l’inchiesta.
Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2019. “Popolare di Bari, la girandola di ville e immobili degli Jacobini”.
L’undici maggio del 2016 un giovane uomo molto sicuro di sé entra nello studio del notaio Michele Buquicchio, non lontano dalla stazione di Bari. L’uomo non ha ancora quarant’anni, si chiama Gianluca Jacobini, e porta nel suo nome un pezzo di storia della città: suo nonno Luigi è fra i fondatori della Banca Popolare di Bari nel 1960, suo padre Marco ne è presidente dal 2011, lui stesso è condirettore generale, mentre il fratello Luigi – di quattro anni più anziano – è vicedirettore generale. (….)
In quel maggio 2016 il più giovane dei figli del banchiere Jacobini, il rampollo considerato più abile nelle operazioni finanziarie, deve compierne una delicata: trasferisce sette immobili in un fondo patrimoniale intestato a se stesso e alla moglie Amalia Alicino, che ha sposato cinque anni prima. L’intenzione dichiarata è di «far fronte ai bisogni della famiglia». La natura dei beni è sicuramente in grado di garantire il futuro di questo ramo degli Jacobini. I primi quattro immobili costituiscono un complesso di circa duemila metri quadri nella splendida cornice di Polignano a Mare. C’è poi la parte di Gianluca della nuda proprietà di un appartamento in un quartiere elegante di Bari che il padre aveva comprato vent’anni prima intestandolo ai figli; e la proprietà pro-quota di un altro appartamento di sette vani non lontano dall’ateneo cittadino.
Costituire un fondo patrimoniale per Gianluca Jacobini è un’operazione legittima per cercare di proteggere i beni di una famiglia, anche se a volte le giovani coppie ci pensano al momento di sposarsi e non anni dopo. Ma stavolta l’atto notarile cade in un momento particolare. Due settimane prima l’assemblea della Popolare di Bari si era rivelata la più dolorosa nella storia della banca: il bilancio approvato riporta per il 2015 una perdita molto pesante, 295 milioni, mentre i requisiti patrimoniali subiscono un’erosione di circa l’uno per cento. Per la prima volta la crisi inizia a farsi conclamata. Soprattutto, l’assemblea era stata il primo innesco del panico fra i quasi 70 mila azionisti della Popolare di Bari: delibera la riduzione da 9,53 a 7,5 euro del titolo della banca, dopo che nei due anni precedenti la banca aveva piazzato azioni alla clientela per 330 milioni. Migliaia di piccoli risparmiatori che cercavano di vendere le proprie quote, senza riuscirci, iniziano a capire che rischiano di perdere molto, o tutto. (….)
Tutto questo non ha nulla a che fare con la mossa di Gianluca Jacobini per mettere in un fondo patrimoniale i propri beni al sole, almeno sulla carta. Ma il risultato di fatto dell’operazione è che il banchiere rafforza le proprie difese contro eventuali azioni di responsabilità e richieste di risarcimenti – fondate o no, lo diranno i giudici — anche con le mosse successive. Nell’autunno 2018 la Consob sanziona infatti venti dirigenti della Bari, fra cui Gianluca Jacobini, per come hanno piazzato a clienti spesso ignari e impreparati dei titoli oggi di fatto azzerati. Il 2018 della banca si chiuderà con la perdita-monstre di 430 milioni. E il 4 gennaio 2019 l’uomo che in quel momento era ancora condirettore della Bari, presieduta da suo padre, ottiene dallo stesso istituto un mutuo ipotecario trentennale da 300 mila euro garantito dalla favolosa residenza di Polignano a Mare già messa nel fondo patrimoniale. (….)
Del resto Gianluca ha degli imitatori. Suo fratello lo segue, benché fra i due i rapporti pare siano pessimi. Una nota dell’Agenzia delle Entrate registra che Luigi Jacobini, primogenito del patron Marco, dal 2011 fino a poche settimane fa vicedirettore generale dell’istituto e anche lui già sanzionato da Consob per come ha trattato i risparmiatori, ha compiuto due operazioni al 25 settembre 2019. Ha creato un fondo patrimoniale dove mette tutti i suoi immobili (compresa la casa al mare a Mola di Bari) e ha acceso un mutuo con la sua stessa banca per 680 mila euro mettendoci a garanzia un immobile dello stesso fondo. Si capirà con il tempo se tutta questa attività sarà riuscita a proteggere i due rampolli della banca di Bari. Di certo non è un problema dell’ultimo amministratore delegato pre-commissariamento, Vincenzo De Bustis (sotto inchiesta e anche lui già sanzionato da Consob). Banchiere di lungo corso, dal 1999 De Bustis non ha a suo nome neanche un mattone.
La mia banca è differente…Dante Barontini su contropiano.org.
Il mondo è dei banchieri, si dice ed è vero. Ma non del tutto. O almeno non dappertutto.
Mettiamo in fila tre notizie. La prima riguarda l’Italia e una storia ormai “stagionata”: il crack di Banca Etruria – l’istituto dove Licio Gelli aveva aperto il conto per le iscrizioni alla Loggia P2.
La novità sta nel rinvio a giudizio, davanti al giudice monocratico del tribunale di Arezzo per bancarotta colposa, di Pierluigi Boschi e altri tredici ex dirigenti e consiglieri dell’ultimo cda dell’istituto di credito prima del fallimento. Secondo l’accusa tutti costoro non avrebbero vigilato su consulenze ritenute “inutili e ripetitive”. In pratica delle elargizioni senza alcun corrispettivo, mascherate come incarichi con parcelle per 4,5 milioni di euro affidati a Mediobanca e Bain e agli studi legali Zoppini di Roma e Grande Stevens di Torino (il cui titolare, Franzo, è stato famoso come “l’avvocato dell’Avvocato”, ossia di Gianni Agnelli).
Un reato minore, per il padre dell’ex ministra iper-renziana Maria Elena, dopo esser stato prosciolto per ben due volte, che non comporta particolari rischi (massimo della pena due anni e mezzo, ma col beneficio della condizionale e della “non menzione” al casellario giudiziario; ossia con la fedina penale che resta “pulita”).
Il caso di Banca Etruria è diventato famoso – oltre che per l’evidente collegamento politico con il “giglio magico” e per l’iperattivismo della ex ministra nel cercare qualche “salvatore” – per le migliaia di normali correntisti che sono rimasti truffati dopo esser stati “convinti” ad acquistare “obbligazioni secondarie” emesse dalla stessa banca, invendibili sul mercato e di valore zero al momento del fallimento.
Per tutto questo, insomma, non pagherà nessuno,
Effettivamente, dunque, si può dire che “il mondo è dei banchieri”. Qui da noi.
Seconda notizia, sempre italiana: il crack della Popolare di Bari, controllata e diretta dalla famiglia Jacobini, che occupava tutti i ruoli dirigenti (presidente, vice, direttore generale, vice, ecc) di una banca anch’essa guidata consapevolmente verso il fallimento.
Scrive il Corriere della Sera nell’articolo “Popolare di Bari, la girandola di ville e immobili degli Jacobini”, a firma di Federico Fubini: “In quel maggio 2016 il più giovane dei figli del banchiere Jacobini, il rampollo considerato più abile nelle operazioni finanziarie, deve compierne una delicata: trasferisce sette immobili in un fondo patrimoniale intestato a se stesso e alla moglie Amalia Alicino, che ha sposato cinque anni prima. L’intenzione dichiarata è di «far fronte ai bisogni della famiglia». La natura dei beni è sicuramente in grado di garantire il futuro di questo ramo degli Jacobini. I primi quattro immobili costituiscono un complesso di circa duemila metri quadri nella splendida cornice di Polignano a Mare. C’è poi la parte di Gianluca della nuda proprietà di un appartamento in un quartiere elegante di Bari che il padre aveva comprato vent’anni prima intestandolo ai figli; e la proprietà pro-quota di un altro appartamento di sette vani non lontano dall’ateneo cittadino.”
Che cosa c’è di strano o illegale? Nulla, secondo la legge. “Costituire un fondo patrimoniale per Gianluca Jacobini è un’operazione legittima per cercare di proteggere i beni di una famiglia, anche se a volte le giovani coppie ci pensano al momento di sposarsi e non anni dopo. Ma stavolta l’atto notarile cade in un momento particolare. Due settimane prima l’assemblea della Popolare di Bari si era rivelata la più dolorosa nella storia della banca: il bilancio approvato riporta per il 2015 una perdita molto pesante, 295 milioni, mentre i requisiti patrimoniali subiscono un’erosione di circa l’uno per cento. Per la prima volta la crisi inizia a farsi conclamata. Soprattutto, l’assemblea era stata il primo innesco del panico fra i quasi 70 mila azionisti della Popolare di Bari: delibera la riduzione da 9,53 a 7,5 euro del titolo della banca, dopo che nei due anni precedenti la banca aveva piazzato azioni alla clientela per 330 milioni. Migliaia di piccoli risparmiatori che cercavano di vendere le proprie quote, senza riuscirci, iniziano a capire che rischiano di perdere molto, o tutto. Proprio nella prima metà del 2016 la Banca d’Italia chiede alla Bari di indagare sulle operazioni “baciate” (prestiti concessi in contropartita di sottoscrizioni azionarie) e da giugno la vigilanza avvierà una nuova ispezione il cui esito sarebbe stato «parzialmente sfavorevole».
Qui il meccanismo della truffa è molto simile a quello usato da Etruria: titoli non commerciabili venduti a clienti inconsapevoli (e non ben informati sui rischi), mentre i dirigenti della banca “si tutelano” da possibili richieste di risarcimento trasferendo le proprie (ricchissime) proprietà immobiliari in un “fondo patrimoniale” formalmente sganciato dalla famiglia stessa.
L’esperto Fubini capisce benissimo il senso e infatti scrive: “il risultato di fatto dell’operazione è che il banchiere rafforza le proprie difese contro eventuali azioni di responsabilità e richieste di risarcimenti – fondate o no, lo diranno i giudici — anche con le mosse successive. Nell’autunno 2018 la Consob sanziona infatti venti dirigenti della Bari, fra cui Gianluca Jacobini, per come hanno piazzato a clienti spesso ignari e impreparati dei titoli oggi di fatto azzerati. Il 2018 della banca si chiuderà con la perdita-monstre di 430 milioni. E il 4 gennaio 2019 l’uomo che in quel momento era ancora condirettore della Bari, presieduta da suo padre, ottiene dallo stesso istituto un mutuo ipotecario trentennale da 300 mila euro garantito dalla favolosa residenza di Polignano a Mare già messa nel fondo patrimoniale. La tenuta di conseguenza diventa ancora più difficile da aggredire con azioni risarcitorie”.
Insomma: anche se la magistratura dovesse infine processare gli Jacobini e condannarli, ai clienti truffati non verrà da loro restituito neanche un centesimo, perché si sono messi al sicuro molto prima che la situazione della banca precipitasse ufficialmente.
Anche in questo caso, dunque, si può dire che “il mondo è dei banchieri”. Qui da noi.
La terza notizia è simile, ma con esito molto diverso. Scrive sempre il Corriere della Sera: il banchiere “Jiang Xiyun, è stato condannato a morte dal tribunale, con una ‘grazia’ temporanea di due anni, per aver incassato illecitamente una somma superiore ai 100 milioni di dollari.”
Cosa ha fatto, concretamente? “L’ex banchiere è stato ritenuto colpevole di aver trasferito 754 milioni di yuan (108 milioni di dollari) in azioni della Hengfeng sui suoi conti personali in un periodo che va dal 2008 al 2013. Avrebbe inoltre incassato mazzette per altri 60 milioni di yuan insieme a un altro manager della stessa banca”.
Le leggi cinesi sono ovviamente molto diverse da quelle italiane, ma il caso concreto non è molto differente. Un banchiere bastardo si carica sul conto personale somme che avrebbero dovuto restare nelle casse della Hengfeng Bank, compromettendone la funzionalità – insieme ad altre operazioni “spericolate” – fino al punto da dover essere salvata dallo Stato.
L’esito finale è però decisamente opposto: in Italia i banchieri “felloni” quasi sempre riescono ad evitare la galera e addirittura cercano di non rimetterci nemmeno un soldo proprio, in Cina vengono condannati a morte.
Come i nostri lettori sanno, siamo decisamente contrari alla pena di morte e persino all’”ergastolo ostativo” (che comunque non è mai stato comminato a nessun banchiere). Però l’impunita dei banchieri ci sembra decisamente inaccettabile.
La diversità di “sistema sociale”, oltre che giuridico, tra mondo occidentale e Cina emerge qui con notevole nettezza. Nonostante un per molti versi utopico tentativo di “utilizzare il capitalismo per creare la ricchezza su cui edificare il ‘socialismo con caratteristiche cinesi’”, che prevede un ruolo importante per le attività delle banche private, il mondo non è lì dei banchieri.
O perlomeno non lo è al punto da garantire loro l’impunità totale. Anzi…
Inutile castellarci sopra lunghi ragionamenti sulle “società di transizione”. Ci sembra sufficiente, per ora, sapere che c’è una certa differenza. E pure abbastanza importante.
P.s. Per chi si dovesse commuovere anzitempo per la sorte del banchiere condannato a morte, riportiamo la precisazione fornita dallo stesso Corriere: “secondo il diritto cinese una condanna a morte con un periodo di “grazia” può essere trasformata in una condanna a vita se la persona colpita dimostra, nel frattempo, una buona condotta”.
Resterà vivo, insomma, ma sconterà l’ergastolo.
Cina, il banchiere truffatore della Hengfeng condannato a morte. Stefano Agnoli su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2019.
La Hengfeng Bank è una delle medie banche cinesi che lo Stato centrale è stato costretto a salvare. Ma uno dei suoi ex presidenti colpevoli di frode, Jiang Xiyun, è stato condannato a morte dal tribunale, con una “grazia” temporanea di due anni, per aver incassato illecitamente una somma superiore ai 100 milioni di dollari.
La «grazia» e la buona condotta
Secondo l’agenzia Bloomberg, l’ex banchiere è stato ritenuto colpevole di aver trasferito 754 milioni di yuan (108 milioni di dollari) in azioni della Hengfeng sui suoi conti personali in un periodo che va dal 2008 al 2013. Avrebbe inoltre incassato mazzette per altri 60 milioni di yuan insieme a un altro manager della stessa banca. Ciò che però potrebbe salvargli la vita è la formula con la quale è stato condannato: secondo il diritto cinese una condanna a morte con un periodo di “grazia” può essere trasformata in una condanna a vita se la persona colpita dimostra, nel frattempo, una buona condotta.
Salvataggio pubblico
La conclusione del processo mette in evidenza i guai finanziari passati dall’istituto di credito del Shandong, che all’inizio del mese è diventata l’ultima delle banche regionali bisognose di un salvataggio pubblico. La banca ha venduto nuove azioni per un valore di circa 14 miliardi di dollari a un gruppo di investitori che comprendeva un filiale del fondo sovrano cinese e una società di asset management facente capo allo Stato. Jiang, si legge nella sentenza, ordinò di distruggere documenti relativi a circa 600 milioni di yuan di transazioni.
Popolare Bari, Jacobini (padre e figlio) hanno trasferito i loro soldi prima del commissariamento. Michelangelo Borrillo, nostro inviato a Bari, su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2019.
Hanno utilizzato lo stesso istituto, Banca Sella, per trasferire i depositi dei loro conti correnti in quelli di familiari. Fin dal giorno precedente al commissariamento. Mentre a Bari si temeva che i correntisti, lunedì 16 dicembre (il primo giorno utile dopo la decisione della Banca d’Italia di venerdì 13 dicembre di commissariare la Banca popolare di Bari) potessero spostare i soldi in altri istituti, qualche giorno prima erano stati proprio i vertici della Pop Bari ad anticiparli. Oltre che l’ex presidente Marco Jacobini, di cui ha parlato Repubblica, ora emerge che anche il figlio, l’ex condirettore generale Gianluca Jacobini, ha spostato soldi dai suoi conti. Le operazioni sono state segnalate dallo stesso istituto — oggi guidato dai commissari Enrico Ajello e Antonio Blandini — così come avviene di solito quando si rilevano transazioni che possono destare sospetti di riciclaggio e autoriciclaggio.
Sulle segnalazioni stanno lavorando Banca d’Italia, Guardia di finanza e Procura. Al decimo piano del Tribunale penale di Bari, in particolare, il procuratore aggiunto Roberto Rossi e i pm Federico Perrone Capano e Lanfranco Marazia stanno acquisendo nuovi elementi da affiancare alle segnalazioni. Dalle quali emerge che Marco Jacobini, nei giorni 12 e 13 dicembre, ha spostato — con sei bonifici — la somma di circa 5,5 milioni di euro; il figlio Gianluca, invece, il 12 dicembre (giorno in cui il cda aveva deciso di avviare nei suoi confronti l’azione di responsabilità, di cui sono destinatari anche l’ex ad Giorgio Papa e l’ex responsabile crediti Nicola Loperfido) ha trasferito mediante assegni circolari una somma complessiva pari a 180 mila euro dal suo conto della Popolare di Bari a uno co-intestato a sé e alla moglie presso Banca Sella.
Intanto l’operatività della banca continua. E per poter rispettare, entro fine anno, i coefficienti patrimoniali minimi imposti dalla Vigilanza, i commissari della Popolare di Bari hanno chiesto al Fondo interbancario di tutela dei depositi di intervenire subito con un’iniezione di circa 400 milioni. Richiesta che impone una nuova riunione straordinaria del Consiglio del Fitd che si terrà, secondo una convocazione informale, il prossimo 30 dicembre. Nella partita del salvataggio della Popolare di Bari — che necessiterebbe di circa un miliardo — è coinvolto anche il Mediocredito Centrale che prima, però, dovrà essere ricapitalizzato da Invitalia per poter poi sottoscrivere il futuro aumento di capitale della Pop Bari che dovrà trasformarsi in società per azioni. Per la parte «pubblica» del salvataggio, il decreto legge «per il sostegno al sistema creditizio del Mezzogiorno e per la realizzazione di una banca di investimento», che in definitiva servirà alla Pop Bari, è stato incardinato in commissione Finanze della Camera: l’esame partirà lunedì 8 gennaio.
Banca popolare di Bari, «Le manovre degli Jacobini hanno truffato i creditori». Dopo il crac i curatori fallimentari di Fimco chiedono 82 milioni di danni. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022.
Il crac della Fimco sarebbe stato causato dalle manovre spericolate effettuate dalla Banca Popolare di Bari sotto la gestione Jacobini. Fiumi di denaro che sarebbero serviti, dietro la regia della banca, per nascondere la reale situazione del gruppo controllato dall’imprenditore Vito Fusillo attraverso operazioni circolari: i finanziamenti, garantiti da ipoteche sul ricco patrimonio immobiliare delle società nocesi, venivano utilizzati per chiudere le esposizioni di conto corrente. E così un credito di cassa, incerto per definizione, veniva trasformato in un credito privilegiato.
Questo è lo schema che ha portato la Procura di Bari a contestare agli Jacobini e ai Fusillo il concorso in bancarotta fraudolenta, e che ha spinto lo scorso anno anche la nuova Popolare (nata dopo il salvataggio dello Stato) ad attivare...
Banca Popolare di Bari risarcirà un cliente per mancata vendita di azioni. Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 28 Novembre 2022
Il Tribunale di Bari, per la prima volta, ha condannato la Banca Popolare di Bari a risarcire un cliente per la mancata vendita delle azioni. Il risarcimento che quest’ultimo ha ricevuto per il danno ha un valore di circa 50 mila euro. Le autorità giudiziarie hanno stabilito che l’ordine di vendita effettuato dal cliente sarebbe stato scavalcato per favorirne altri successivi più “consistenti”, perciò la banca è tenuta pagare un indennizzo.
La vicenda
Il cliente aveva impartito l’ordine di vendita nell’anno 2015 per poi rinnovarlo nel 2016. La Banca Popolare di Bari non ha eseguito per assenza di corrispondenti ordini di acquisto dei titoli. La giustificazione che gli era stata fornita non lo aveva convinto, così il cliente si è rivolto all’Associazione Avvocati dei Consumatori. Con una sentenza, il Tribunale ha posto fine alla questione imponendo alla Banca di fornire una copia del registro cronologico della vendite delle azioni, così che fosse possibile verificare eventuali violazioni a danno di quali clienti.
L’occasione mancata
Sono state individuate numerose criticità nell’esecuzione di consistenti ordini successivi rispetto a quello presentato dal cliente, che sono state confermate nel corso del giudizio di una Consulenza tecnica (Ctu). Successivamente è stata avviata un’azione collettiva in favore di numerosi azionisti per il risarcimento del danno causato dal mancato incasso del prezzo di vendita o, come stabilito dal Tribunale, dalla perdita di un’occasione. Questa, nello specifico, è la prima ad essersi conclusa positivamente per il cliente. Con la sua decisione, il Tribunale ha quindi accertato la presenza di un «danno da perdita di un risultato utile, di un guadagno, che, con ogni probabilità, se la Banca fosse stata adempiente, il cliente avrebbe conseguito».
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Bari, nella Banca popolare sequestrati 103 reperti archeologici di 2.500 anni fa: erano esposti in una sala dal 2009. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 25 novembre 2022.
Uno dei 103 reperti sequestrati dai carabinieri
L'operazione dei carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale di Bari su richiesta della Procura che ha riscontrato la mancanza della dichiarazione di possesso della collezione
Centotrè reperti archeologici risalenti 2.500 anni fa sono stati sequestrati all'interno della Banca popolare di Bari, dove erano esposti dal 2009 in seguito a un'acquisizione avvenuta nell'era Jacobini e oggi ritenuta non del tutto regolare. L'operazione è stata eseguita dai carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale di Bari - guidati dal colonnello Giovanni Di Bella - in esecuzione di un decreto di sequestro preventivo chiesto dalla Procura e disposto dal gip.
Il materiale ceramico, datato tra il V secolo avanti Cristo e il I dopo Cristo, era esposto nella sala riunioni della sede centrale dell'istituto di credito, in corso Cavour. Lì era rimasto anche dopo il commissariamento della banca e l'avvio di una nuova epoca ma la nuova dirigenza non ha nulla a che vedere con le presunte irregolarità.
I fatti risalgono al 2009, quando l'allora amministratore delegato aveva fatto approvare al Consiglio di amministrazione una proposta di acquisto della collezione da un privato, per un controvalore di 100mila euro. La raccolta archeologica, pur essendo stata denunciata dagli originali proprietari alla Soprintendenza, non aveva ottenuto la dichiarazione di legittimità del possesso.
Al 1993 risaliva, infatti, la denuncia di possesso relativa a soli 41 pezzi (tra piatti e vasellame) mentre successivamente la collezione era stata incrementata fino ad arrivare a 103 reperti, poi venduti alla Banca popolare. Mancando la dichiarazione di possesso, stando a quanto hanno ricostruito i carabinieri, l'intera collezione oggi apparterrebbe allo Stato. Per questo motivo, il giudice per le indagini preliminari ne ha disposto il sequestro, che è stato eseguito nelle scorse ore nella sede dell'istituto di credito alla presenza della dirigenza attuale.
Visco, Banca d’Italia: «Popolare Bari? Nulla da nascondere». Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2019.
Sono stati giorni importanti e difficili per la Banca d’Italia e il suo Governatore. Il Consiglio Superiore dell’Istituto ha appena nominato Daniele Franco direttore generale e Piero Cipollone vice direttore. Un passaggio arrivato nel pieno delle polemiche derivate dal commissariamento della Banca Popolare di Bari, dall’intervento deciso dal governo e dalle proteste di coloro che temono di perdere gran parte dei propri investimenti o risparmi affidati alla banca. Ignazio Visco ha dovuto affrontare una tempesta simile a quella vissuta nei giorni della crisi bancaria durante il governo Renzi. Sono state contestate l’efficacia e la tempestività della vigilanza della Banca d’Italia, il suo ruolo nella vicenda che portò la Popolare di Bari ad acquisire una banca in dissesto come Tercas. Con la politica di governo e d’opposizione pronte ad allontanare da sé ogni responsabilità e a sottolineare quelle di altri.
Governatore, sono giorni di attacchi ripetuti nei confronti della vostra azione. Il vicesegretario del Pd, Orlando, solo per citarne uno, ha dichiarato che la Banca d’Italia è sia un giocatore che un arbitro e che le due funzioni vanno separate. Altri, come il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, vi accusano di aver assistito alla caduta della Popolare vigilando in modo inadeguato: avete valutato male, siete stati lenti. Cosa si sente di rispondere?
«Ci sono molte dichiarazioni e andrebbero valutate una per una. Intanto bisogna esaminare individualmente le due attività: quella di vigilanza e quella di gestione e risoluzione delle crisi, che sono cose diverse. La vigilanza sulle banche ha svolto il suo compito, con il massimo impegno e io reputo positivamente. La scelta di porre in amministrazione straordinaria questa banca è il risultato, come sempre in questi casi, di un’attenta analisi, è un atto possibile in termini di legge solo dopo aver rilevato gravi perdite o carenze nei sistemi di governo societario. Ma la vigilanza non può intervenire nella conduzione della banca, che spetta agli amministratori scelti dagli azionisti. La banca deve seguire delle regole, la vigilanza verifica che ciò effettivamente accada.
Dal 2007 abbiamo posto in amministrazione straordinaria circa 80 intermediari: più della metà è tornata alla gestione ordinaria, per quelli liquidati o aggregati con altre banche, non vi sono state, nella generalità dei casi, perdite per depositanti e risparmiatori. La soluzione ordinata delle crisi bancarie, di per sé non semplice, è complicata dal nuovo approccio europeo in materia di gestione delle crisi e aiuti di Stato. Ma questo non ha niente a che fare con l’essere arbitro e giocatore».
Non può negare che in questi anni ci siano state tante crisi che in alcuni momenti sono diventate un’emergenza per il Paese…
«La realtà è che abbiamo avuto la crisi di alcune banche nel contesto della più grave recessione della storia unitaria del nostro Paese. Queste banche rappresentavano, nel complesso, il 10 per cento degli attivi totali, il che vuol dire che il restante 90 per cento ha fatto fronte alle gravissime conseguenze della crisi dell’economia reale. È questo l’inquadramento corretto di quanto è accaduto, anche se sono consapevole che quando le banche non ce l’hanno fatta (per la recessione, per governance inadeguata, per comportamenti scorretti) vi sono stati effetti gravi, soprattutto per gli azionisti. Per i depositanti invece non vi sono state conseguenze e per la gran parte degli obbligazionisti alla fine sono state contenute le perdite. Bisogna garantire la tutela dei clienti delle banche, e su questo moltiplicheremo gli sforzi, ma deve migliorare la comprensione da parte del pubblico che un investimento finanziario comporta sempre un rischio. Da parte delle banche questo rischio deve essere sempre adeguatamente rappresentato».
Questi salvataggi fanno molto rumore quando avvengono in Italia. Perché i salvataggi avvenuti in altri Paesi europei, come la Germania, creano meno problemi?
«Non so se i salvataggi abbiano fatto meno rumore negli altri Paesi; sono costati al contribuente molto più che da noi: l’intervento pubblico in Germania e in Olanda ha accresciuto il debito pubblico di oltre il 10 per cento del Pil, da noi di poco più dell’1 per cento. Quasi tutti questi interventi hanno avuto luogo prima del cambiamento delle regole sugli aiuti di Stato e sul coinvolgimento dei creditori, avvenuto nel 2013, anche come reazione all’alto costo di quei salvataggi».
Si dice che il salvataggio di Tercas, la Cassa di Teramo commissariata dalla Banca d’Italia nel 2012, sia stato la merce di scambio che ha permesso alla Popolare Bari di superare il vostro divieto di fare nuove acquisizioni. E così, siete stati voi a premere per un’acquisizione che è all’origine dei guai della Popolare di Bari?
«Le banche sono imprese e come tali sono trattate dalla vigilanza, nel rispetto della loro autonomia. Decisioni come quella di realizzare un’acquisizione sono di esclusiva competenza e responsabilità del vertice delle banche. Nei casi di difficoltà di un intermediario, qualora non sia possibile una ricapitalizzazione sul mercato, è prassi delle autorità di vigilanza esplorare la possibilità di un acquisto da parte di altre banche. Le acquisizioni, se ben eseguite, possono creare sinergie e risparmi di costi, irrobustendo il sistema bancario e salvaguardando la continuità aziendale della banca in difficoltà.
Nel caso in questione, nell’estate del 2013 la vigilanza ricevette una manifestazione di interesse per Tercas da parte di un’altra banca, che poi rinunciò nell’ottobre 2013. Alla fine dello stesso mese venne considerata la manifestazione di interesse dei vertici della Popolare di Bari, che poi decisero di realizzare l’operazione in base a una autonoma valutazione, negoziando e ottenendo dal Fondo Interbancario di Tutela dei depositi il contributo ritenuto necessario per l’acquisizione. Naturalmente alla fine di un percorso si corre il rischio di emettere giudizi di autoassoluzione o di ragionare con il senno del poi; noi facciamo il massimo per tenere costantemente sotto controllo le diverse situazioni e valuteremo se ci siano stati errori anche da parte nostra».
Cosa non ha funzionato nell’acquisizione di Tercas?
«In primo luogo molto è dovuto a un’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato per lo meno controversa, che solo nel marzo di quest’anno il Tribunale di primo grado della Corte europea ha giudicato impropria, accogliendo il ricorso della Repubblica italiana. Nel caso di Tercas l’intervento del Fondo interbancario è stato ritenuto dalla Commissione europea un aiuto di Stato; per questo motivo l’operazione è stata completata solo quando l’intervento del Fondo è stato realizzato con il cosiddetto “Schema Volontario”. Ciò ha ri-tardato l’integrazione di Tercas nella Popolare di Bari, generando incertezze e con oneri certamente maggiori.
In secondo luogo la ricapitalizzazione della Popolare di Bari non ha potuto avere luogo sul mercato perché la banca non si era trasformata in società per azioni come richiedeva la legge di riforma da noi fortemente caldeggiata e realizzata dal governo nel gennaio 2015. L’assetto delle “popolari” è un problema che abbiamo sempre sottolineato con forza: ostacola l’accesso al mercato e favorisce opacità e autoreferenzialità nella governance».
L’accusa a Banca d’Italia è di aver autorizzato l’operazione perché doveva rientrare da un prestito erogato alla Tercas…
«Questo lo dice chi non conosce le regole. La Banca d’Italia aveva concesso a Tercas un prestito a titolo di liquidità di emergenza, in base alle norme italiane ed europee. Questo tipo di finanziamento, di competenza delle banche centrali nazionali ma sottoposto a valutazioni del Consiglio direttivo della Bce, deve essere assistito da adeguate garanzie, che rendono il rischio per le banche centrali nullo o al più trascurabile. La Popolare di Bari è semplicemente subentrata nel finanziamento, con le medesime garanzie, senza quindi modifiche alla rischiosità del prestito».
Come mai la Banca d’Italia non ha contrastato il rientro al vertice esecutivo della Popolare di Vincenzo De Bustis, già molto contestato?
«La scelta dei componenti degli organi sociali è di esclusiva responsabilità dell’azienda; la Banca d’Italia verifica la sussistenza in capo ai singoli esponenti dei requisiti previsti dalla legge. Le disposizioni in vigore prevedono ipotesi tassative per la determinazione della mancanza di tali requisiti. Il nuovo regime europeo sui requisiti degli amministratori bancari — che concede discrezionalità alle autorità di vigilanza — è stato recepito nell’ordinamento italiano, ma entrerà in vigore solo dopo l’emanazione delle norme attuative da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze. La Banca d’Italia ha segnalato — pubblicamente e ripetutamente — l’importanza di questa materia. Lo ripeto: le regole attuali non ci consentono di intervenire, esercitando discrezionalità, al di fuori dei confini normativi. La vigilanza può ricorrere alla moral suasion, e nel caso della Popolare di Bari ha espresso chiaramente al presidente del consiglio di amministrazione le proprie perplessità sull’opportunità del rientro dell’ingegner De Bustis tre anni dopo che aveva lasciato la banca».
La Popolare di Bari era sottoposta a ispezioni dal 2010. Perché si è fatto ricorso solo ora al commissariamento?
«Tutte le banche sono vigilate continuamente. L’amministrazione straordinaria rappresenta un intervento di vigilanza forte, in cui si destituiscono gli organi amministrativi scelti dagli azionisti; si interviene quando altri meccanismi — quali il vaglio del collegio sindacale, delle società di revisione, dell’assemblea dei soci — non hanno la necessaria efficacia. È per questi motivi che l’amministrazione straordinaria può essere adottata solo quando ne ricorrano i termini definiti con precisione dalla legge. Il commissariamento della Bari è stato disposto quando le perdite hanno ridotto i livelli di capitale al di sotto dei minimi stabiliti dalle regole prudenziali. La discesa del capitale al di sotto dei minimi non si era registrata negli anni precedenti, nonostante le difficoltà della banca; è emersa solo a seguito dell’ultimo accertamento ispettivo effettuato nei mesi scorsi dalla Banca d’Italia. Abbiamo rilevato anche l’insufficiente azione degli organi aziendali in relazione alle criticità del contesto. Il loro scioglimento e la nomina dei commissari pongono le premesse per ripristinare condizioni di ordinata gestione aziendale, alla luce della disponibilità d’intervento manifestata dal Fondo interbancario e dal Mediocredito Centrale».
Come giudica l’intervento di salvataggio del Mediocredito Centrale e del Fondo interbancario?
«L’intervento deve avviare il rinnovamento della banca, mettendola in grado di tornare a sostenere famiglie e imprese. Il progetto sarà aperto ad altre banche che vorranno integrarsi in un nuovo intermediario finanziario dotato di dimensioni adeguate al nuovo contesto tecnologico e concorrenziale, al servizio dell’economia. Per la Popolare di Bari si è individuata una soluzione, ma per rilanciare l’economia meridionale servono interventi di ampio respiro, che riguardano l’ambiente in cui le imprese operano, le infrastrutture, il capitale umano».
Cosa accadrà ad azionisti e obbligazionisti della Popolare?
«L’intervento del Fondo Interbancario e del Mediocredito centrale è volto a evitare scenari liquidatori e possibili perdite per i risparmiatori che detengono depositi e obbligazioni. Gli azionisti partecipano al capitale di rischio: il piano industriale definirà la misura dell’aumento di capitale necessario, le modalità di realizzazione e il coinvolgimento degli attuali azionisti. Ricordo che sono decine di migliaia di persone: la Banca d’Italia negli anni scorsi ha accertato — dandone informazione alla Consob, che ha irrogato sanzioni — irregolarità nell’adeguatezza degli investimenti della clientela; di questo si dovrà tenere conto».
Si parla di un’indagine per corruzione per l’ex presidente della banca. E si avanzano sospetti di connivenza con chi ha svolto vigilanza.
«Voglio sottolineare che noi abbiamo collaborato, stiamo collaborando e continueremo a collaborare con la Procura. Di questa indagine io sono all’oscuro, come lo è l’intera struttura della vigilanza e della consulenza legale della Banca d’Italia. Non intendo quindi commentare voci e illazioni».
Cosa dobbiamo aspettarci ancora dalle banche dopo le crisi di questi anni?
«Se l’economia non tornerà a crescere non possiamo aspettarci che le banche prosperino. Per ora le condizioni del sistema bancario sono mediamente buone: i coefficienti patrimoniali sono raddoppiati rispetto al 2007; l’incidenza dei crediti deteriorati si è dimezzata dal picco del 2015; le banche stanno tornando a fare profitti e questo permette loro di affrontare le sfide che hanno di fronte. Un importante passo in avanti c’è stato con la formazione di due gruppi di banche di credito cooperativo. In pochi anni il numero di gruppi bancari e banche individuali è sceso da circa 600 a 150. Alcune piccole banche sono ancora oggi deboli; le stiamo seguendo con attenzione, ma il problema è che abbiamo un sistema di gestione delle crisi inadeguato. Per poter gestire una crisi non basta saperla prevedere, occorrono strumenti. Chiedo da tempo di intervenire a livello europeo con nuove norme. È necessaria una nostra presenza assidua nel dibattito europeo, che a sua volta richiede una continuità di natura politica che purtroppo non abbiamo. Come Governatore mi sono confrontato con sette ottimi ministri dell’Economia, mentre quelli degli altri Paesi erano quasi sempre gli stessi».
Il ministro dell’Economia Gualtieri ha dichiarato di voler essere messo a conoscenza di ogni passaggio. Questa richiesta dipende solo dal fatto che è appena entrato in carica?
«Lavoriamo a stretto e continuo contatto con il governo, con tutti i governi. Le forti intemperie degli anni successivi alla crisi del 2011-13, a partire dalla vicenda delle quattro banche, sono state affrontate con la piena partecipazione del Ministero dell’economia e delle finanze. Anche al ministro Gualtieri abbiamo fornito e continueremo a fornire, come sempre, tutte le informazioni disponibili. Abbiamo pubblicato sul nostro sito un resoconto sommario della nostra attività sulla Popolare di Bari e altri approfondimenti seguiranno. Siamo pronti a rendere conto del nostro operato, come abbiamo sempre fatto, nelle sedi istituzionali».
Solo una battuta finale sul suo giudizio sulla manovra economica varata dal governo.
«L’Italia deve ricominciare a crescere o ci ritroveremo fra un anno a ripetere le stesse discussioni. Dobbiamo pensare alla manovra come un ponte che sana problemi di breve periodo per passare poi al piano strutturale. Gli investimenti pubblici sono importanti ma è l’investimento privato quello più rilevante. Si fonda sulla fiducia, una fiducia che oggi si misura con lo spread ed è assurdo che noi abbiamo uno spread doppio rispetto a Spagna e Portogallo. Se il tasso d’interesse alto dipende da rischi di tipo sovrano bisogna eliminarli rapidamente. Ci vuole un impegno per una discesa del debito graduale ma progressiva e costante; soprattutto servono azioni strutturali di rilancio dell’economia. Come diceva Ciampi, non abbiamo rinunciato alla nostra sovranità ma abbiamo deciso di condividerla. Per avere successo dobbiamo essere lungimiranti, credibili, coerenti e capaci di dialogare con un’opinione pubblica incerta e che nella sua incertezza coinvolge tutta l’economia, compresa la Banca d’Italia».
Popolare di Bari, Jacobini indagato per corruzione: nel mirino le ispezioni di Bankitalia 2016-2017. Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2019.
C’è un avviso di proroga indagini sulla Banca Popolare di Bari che aggiunge nel filone dell’inchiesta - con dieci indagati a diverso titolo per falso in bilancio, false comunicazioni al mercato, ostacolo alla vigilanza, estorsione - anche l’ipotesi di corruzione. Fonti della Procura di Bari confermano di essere al lavoro per ricostruire i rapporti tra i vertici della Banca Popolare di Bari e la Vigilanza della Banca d’Italia, con riflettori accesi, in particolare, sulle ispezioni del 2016 e del 2017.
Il destinatario dell’informazione di garanzia per corruzione - notificata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e dai sostituti Lanfranco Marazia e Federico Perrone Capano - o più precisamente dell’avviso di proroga indagini di un’inchiesta che risale alla scorsa estate, è l’ex presidente della Banca Popolare di Bari Marco Jacobini, fino all’assemblea dello scorso luglio numero uno dell’istituto barese, commissariato dalla Banca d’Italia il 13 dicembre.
Le sette inchieste che riguardano la Popolare - nelle quali risultano indagati anche i figli di Marco Jacobini, Gianluca e Luigi e l’ex amministratore delegato Vincenzo De Bustis - partono alla fine del 2014 da un’altra inchiesta, di riciclaggio. Si moltiplicano negli anni con l’amplificarsi dei problemi di vendita delle azioni da parte dei piccoli investitori fino al punto di svolta della denuncia di un ex dirigente, Luca Sabetta, assunto come chief risk officer, capo dell’Area rischio, poi licenziato nel 2015.
Crediti a rischio e affari sballati: così è finita nei guai la più grande banca del Sud. Dopo il salvataggio pubblico della Carige ligure, ora anche la Popolare di Bari ha bisogno urgente di nuovi capitali. E si affida a un amministratore delegato appena multato dalla Consob e indagato dalla magistratura, scrive Vittorio Malagutti il 22 gennaio 2019 su "L'Espresso". Ci sono Paesi in cui il capo di un’azienda sanzionato dalle autorità di controllo lascia immediatamente l’incarico. Può anche capitare che il manager in questione faccia un passo indietro, senza perdere il posto, in attesa che la situazione si chiarisca. L’Italia invece, a quanto pare, gioca in un campionato a parte. Un mese fa, la Popolare di Bari, grande banca del Sud che naviga da tempo acque tempestose, ha richiamato in servizio il suo ex direttore generale, multato a settembre dalla Consob. Ci è scappata pure una promozione, mentre un giudice d’appello ha per il momento sospeso l’efficacia del primo verdetto. Vincenzo De Bustis, questa volta con i gradi da amministratore delegato, è così tornato al vertice dell’istituto pugliese che ad aprile del 2015 lo aveva congedato senza troppi complimenti, per altro gratificandolo con una buonuscita vicina al milione di euro. A richiamarlo in servizio è stato Marco Jacobini, patron della famiglia che da decenni tiene in pugno l’istituto pugliese. De Bustis, 68 anni è un banchiere di lungo corso e dalle sette vite. Il suo nome compare nelle cronache di due decenni fa spesso associato a quello dell’allora potentissimo Massimo D’Alema, suo amico personale. L’ascesa del manager era partita dalla Banca del Salento, da cui nel 2000 spiccò il volo verso il vertice del Monte dei Paschi, a lungo riserva di caccia del Pds -Ds-Pd. Una volta lasciata la poltronissima di Siena, dopo alterne vicende professionali l’ex pupillo di D’Alema è approdato nel 2011 alla corte degli Jacobini. L’aspetto più paradossale della vicenda è che proprio De Bustis tra il 2013 e i 2015 gestì l’affare che, oltre a innescare l’indagine della Consob, ha provocato gran parte dei guai in cui ora si dibatte la Popolare pugliese. E cioè l’acquisizione della disastrata concorrente abruzzese Tercas. Dopo un primo stop ordinato dalla Commissione di Bruxelles, la complicata operazione è andata in porto con il pieno sostegno di Bankitalia ai primi del 2016 e ha avuto l’effetto di scaricare sul compratore una montagna di spazzatura finanziaria rivelatasi molto difficile da smaltire. Nessun problema, a quanto pare. Nel dicembre scorso l’ex direttore generale è tornato al comando della Popolare pugliese con il mandato di rimettere in carreggiata una macchina che da anni sbanda vistosamente tra guai di ogni tipo. Compresa un’inchiesta della magistratura che vede indagati, tra gli altri, il presidente Marco Jacobini con i suoi figli Luigi e Gianluca, entrambi vicedirettori generali, oltre allo stesso De Bustis, per una serie di reati (truffa, falso in bilancio ostacolo alla vigilanza, maltrattamenti) che riguardano la gestione dei crediti e la compravendita di titoli ai clienti dell’istituto di credito. Un altro colpo all’immagine della banca è arrivato ai primi di gennaio, quando si è appreso delle dimissioni di Giulio Sapelli, l’economista nominato vicepresidente della popolare pugliese appena un mese prima. La scelta di un professore molto apprezzato dalla Lega come Sapelli, per qualche giorno a maggio addirittura in corsa per la presidenza del Consiglio al posto di Giuseppe Conte, era stata letta come una mossa di avvicinamento al governo in una fase a dir poco cruciale per il futuro dell’istituto. Il consigliere dimissionario non ha reso note le ragioni della sua scelta. Difficile non notare, però, che il vicepresidente ha lasciato l’incarico proprio in coincidenza con l’arrivo di De Bustis.
Azionisti in rivolta. Il nuovo amministratore delegato si trova ora ad affrontare una situazione che ben conosce, se non altro perché, come detto, una parte dei problemi della banca è emersa per la prima volta durante la sua precedente gestione. Un’inchiesta dell’Espresso aveva raccontato, già nel giugno del 2016, le crescenti difficoltà della Popolare guidata da Marco Jacobini e famiglia: i bilanci deludenti, l’aumento delle sofferenze sui prestiti, le manovre sui titoli. Tutto questo mentre migliaia tra i 70 mila soci della Popolare, comprensibilmente preoccupati, non riuscivano a liquidare le loro azioni per mancanza di compratori. Una lunga serie di operazioni straordinarie varate nei mesi scorsi, dalla vendita di crediti deteriorati (in gergo non performing loans, Npl) e il ricorso massiccio al credito interbancario per fare provvista di liquidità, non sono bastati per mettere in sicurezza i conti. La Popolare di Bari ha bisogno urgente di mezzi freschi per uscire dalle secche in cui si è arenata. Indiscrezioni di fonte finanziaria rivelano che servirebbero almeno 500 milioni, da raccogliere sul mercato sotto forma di nuove azioni e di obbligazioni. La banca d’affari Rothschild e la società di consulenza Oliver Wyman sono da tempo al lavoro per contattare possibili investitori e mettere a punto un piano di rilancio. La rimonta, già complicata di per sé, si sta però rivelando ancora più difficile del previsto per via delle crescenti tensioni sul mercato. Da settimane l’attenzione del mondo finanziario è concentrata su Genova dove, con Carige, va in scena un altro salvataggio a spese del contribuente. Questa volta però, dopo i casi delle popolari venete e di Mps, la regia è affidata al governo Lega-Cinque Stelle (quelli che «mai più un euro alle banche»). In Liguria l’esecutivo gialloverde è già intervenuto con un decreto ad hoc che estende la garanzia dello Stato alle obbligazioni emesse dall’istituto in difficoltà. Tutto questo però non basta per tappare una volta per tutte le falle in bilancio. E allora, in una spirale di dichiarazioni che spesso si contraddicono tra loro, c’è chi, come il vice premier Luigi Di Maio, arriva a prospettare la nazionalizzazione di Carige. A Bari non siamo ancora a questo punto, anche se tra gli azionisti che temono di perdere per intero il loro investimento sono in molti a invocare il salvataggio pubblico. Gli Jacobini tirano diritto, per nulla turbati, almeno in apparenza, dalle nubi di tempesta che si stanno addensando intorno alla loro banca, l’unica di peso nazionale sopravvissuta ai fallimenti e alle vendite in serie che negli ultimi decenni hanno fatto piazza pulita degli istituti di credito controllati e gestiti a Sud di Roma. Va detto che la strategia dell’arrocco ha fin qui garantito qualche successo. La Popolare di Bari, insieme a quella di Sondrio, è per il momento riuscita a sottrarsi alla trasformazione in società per azioni così come previsto dal decreto varato dal governo di Matteo Renzi nel gennaio del 2015 per gli istituti (dieci in tutto) con oltre 8 miliardi di attivo. Dopo una lunga serie di ricorsi, la questione è infine approdata alla Corte di Giustizia europea che si pronuncerà nei prossimi mesi. Nel frattempo, un prezioso assist del governo Conte, sotto forma di emendamento al cosiddetto decreto Milleproroghe, aveva già posticipato al 31 dicembre 2018 il termine ultimo entro cui varare la nuova spa.
I conti non tornano. Adesso però sono i numeri, quelli di bilancio, a far vacillare il trono degli Jacobini. I dati dell’ultima relazione semestrale, chiusa nel giugno scorso, sintetizzano una situazione allarmante. Le nuove svalutazioni su voci dell’attivo come crediti e avviamento hanno fatto salire le perdite a 139,2 milioni in sei mesi. Tenendo conto delle rettifiche già messe a bilancio, la quota dei prestiti classificati come deteriorati, cioè quelli che rischiano di non essere rimborsati (in tutto o in parte), si aggirano intorno al 18 per cento dei finanziamenti alla clientela, un livello tutt’altro che rassicurante. Nei primo semestre del 2018 sono peggiorati anche gli indici che misurano l’adeguatezza del patrimonio. Per il momento, comunque, questi valori restano superiori (ma di poco) ai minimi regolamentari prescritti dalle autorità di vigilanza. Appare quantomeno preoccupante un altro dato segnalato dalla semestrale. Il rapporto tra i costi operativi e il margine di intermediazione, cioè gli utili lordi, ha raggiunto quota 83 per cento. Significa che il motore della banca viaggia con il freno a mano tirato, perché le voci di spesa, dal personale agli altri oneri amministrativi, si mangiano quasi per intero i profitti ricavati dalla gestione del denaro. Per gli istituti più efficienti questo indicatore non supera il 50 per cento. In attesa della pubblicazione del nuovo piano industriale, prevista nelle prossime settimane (ma era già stato annunciata per l’autunno scorso), è quindi facile immaginare che eventuali possibili grandi investitori, in Italia e all’estero, non facciano la fila per scommettere il loro denaro sul salvataggio della Popolare di Bari. A maggior ragione in una fase di grande incertezza sui mercati, con le quotazioni dei Btp, risollevatesi solo in parte dopo il crollo dell’ultimo trimestre del 2018, che continuano a zavorrare i conti del sistema bancario italiano. Come se non bastasse, il caso pugliese sembra nascere dallo stesso intreccio perverso tra localismo esasperato, inamovibilità dei vertici e cattiva gestione dei crediti che nel recente passato ha innescato la crisi, e poi il fallimento, della Popolare Vicenza di Gianni Zonin e di Veneto Banca, per quasi vent’anni guidata dal patron Vincenzo Consoli. Come ovvio, i problemi della gestione Jacobini non nascono in questi mesi. I crediti deteriorati si sono accumulati per effetto di scelte compiute in anni lontani, quando nell’annuale assemblea dei soci si sprecavano gli applausi per gli amministratori e le azioni venivano vendute senza problemi a decine di migliaia di clienti convinti di investire in un istituto solido, una banca del territorio lontana dalle trame imprevedibili e pericolose dell’alta finanza. Eppure, già nel 2013, quando i soci facevano la fila allo sportello per comprare i titoli, un’ispezione della Banca d’Italia aveva attribuito alla Popolare di Bari un voto pari a 4, corrispondente a una valutazione “parzialmente sfavorevole”, in una scala che va da 1 (il massimo) fino a 6. Pochi mesi dopo quella bocciatura, la stessa Bankitalia ha però dato via libera, anzi, ha calorosamente sollecitato, l’intervento dell’istituto pugliese per salvare Tercas prossima al crack. Per far fronte agli oneri dell’intervento, Jacobini ha chiamato a raccolta i soci a cui sono state vendute azioni e obbligazioni subordinate per oltre 800 milioni tra il 2012 e il 2015. Gli stessi titoli che si sono poi trasformati in merce invendibile.
Incroci pericolosi. Il sistema ha retto fino a quando la massa dei crediti difficili da recuperare non ha superato il livello di guardia. Ogni prestito ha la sua storia, più o meno fortunata, ma dalle carte che L’Espresso ha potuto esaminare emergono nomi che rimandano ad altre vicende recenti della finanza nazionale. Un filo rosso porta a Sorgente, il gruppo immobiliare controllato da Valter Mainetti. Negli anni scorsi la Popolare di Bari ha investito oltre 100 milioni nei fondi gestiti da Sorgente sgr. La stessa società che in dicembre è stata commissariata su decisione della Banca d’Italia «per gravi violazioni normative e irregolarità nell’amministrazione». Mainetti, che ama ricordare il suo antico rapporto con il barese Aldo Moro, di cui fu assistente universitario, è molto legato alla Puglia. Negli anni scorsi aveva anche acquistato una quota del 30 per cento de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano del capoluogo pugliese. Gli affari con la Popolare di Bari hanno preso forma svariati anni fa e già nel 2013 la Vigilanza della Banca d’Italia, nel rapporto ispettivo sulla banca degli Jacobini, aveva segnalato «la prassi di sottoscrivere quote di fondi comuni che investono in immobili venduti da clienti finanziati dalla banca stessa». Ora che Sorgente sgr è stata commissariata, un provvedimento duramente contestato da Mainetti, si tratta di capire quali potranno essere (se ci saranno) le ripercussioni sui conti della Popolare. Dal groviglio di affari, pegni e garanzie incrociate descritti nei documenti ufficiali dell’istituto pugliese si dipana un’altra trama che porta fino alla Popolare Vicenza, travolta tre anni fa da un crack miliardario. Si scopre infatti che nella lista dei grandi debitori della Popolare di Bari, per un totale che supera i 100 milioni di euro, compare il gruppo che fa capo ai Fusillo, costruttori e immobiliaristi pugliesi con ottimi agganci anche a Roma. Ebbene, come L’Espresso aveva suo tempo svelato, gli stessi Fusillo sono stati finanziati per una cinquantina di milioni anche dalla Popolare di Vicenza. È stato un gioco di sponda. La banca veneta ha sottoscritto quote di fondi maltesi col marchio Futura, che a loro volta hanno comprato obbligazioni emesse da Maiora e Fimco. Il guaio è che queste due società, entrambe controllate dai Fusillo, adesso si trovano sull’orlo del fallimento e al momento non è chiaro se i soldi arrivati da Vicenza, via Malta, potranno mai essere restituiti. Ci si può chiedere per quale motivo un istituto di credito veneto abbia deciso di sostenere aziende così lontane dal proprio territorio. Una risposta chiara ancora non c’è, forse arriverà dal processo per la bancarotta della Popolare che è alle prime battute a Vicenza. Agli atti delle indagini, però, restano decine di telefonate tra De Bustis e manager di vertice della banca di Zonin. In sostanza, tra il 2013 e il 2014, l’allora direttore generale della Popolare di Bari ha avuto contatti frequentissimi con i suoi colleghi di Vicenza, gli stessi che hanno gestito i rapporti con i fondi Futura e quindi i finanziamenti alle società pugliesi dei Fusillo, a loro volta indebitate con la banca degli Jacobini. A fine 2012 De Bustis, da poco approdato a Bari, aveva rilevato azioni di Methorios, società romana di cui all’epoca era influente azionista Alfio Marchini. Il quale, pure, lui è stato finanziato per decine di milioni dalla Popolare di Vicenza, con i soliti fondi Futura che hanno comprato quote di Methorios. Dunque, ricapitolando, De Bustis si era messo in società con i veicoli finanziari maltesi, gli stessi che investivano, con i soldi della Popolare di Zonin, nelle aziende dei Fusillo, indebitatissime con la Popolare di Bari. Un corto circuito piuttosto singolare. E anche sfortunato, visto che quasi tutti i partecipanti a queste giostra milionaria ora sono falliti (Popolare Vicenza) oppure rischiano grosso (le società dei Fusillo). Si salva De Bustis, l’inaffondabile, in viaggio da Bari a Bari. Nel mezzo una banca in crisi e centinaia di milioni bruciati nel gran falò dei prestiti sballati.
Banche, il giallo della Popolare di Bari: le carte segrete che accusano Bankitalia. Migliaia di famiglie non possono più vendere le loro azioni dell'istituto pugliese. Perché la Vigilanza ha fatto comprare alla banca la Cassa di Teramo. Che era già travolta dalle perdite, scrive Vittorio Malagutti il 02 novembre 2016 su "L'Espresso". I risparmi di una vita bloccati in banca. Migliaia di famiglie che non possono attingere al loro tesoretto in titoli. E allora domande, suppliche, ricorsi, esposti in tribunale. Va avanti così da mesi, ormai: da una parte un esercito di piccoli azionisti delusi e inferociti. Dall’altra i vertici della Popolare di Bari, il più grande istituto di credito del Sud, oltre 70 mila soci e, da mezzo secolo, una dinastia al comando: Marco Jacobini, il presidente, entrato in consiglio nel lontano 1978, insieme ai suoi due figli, Gianluca, condirettore generale, e Luigi, vicedirettore generale. Ma dietro questa storia di risparmio tradito, con i soci della Popolare di Bari che non riescono più a vendere le loro azioni, c’è molto di più. C’è un complicato intreccio di prestiti incagliati, conflitti d’interessi, perdite in bilancio. E sullo sfondo il ruolo della Banca d’Italia, che già tre anni fa, dopo una lunga ispezione, aveva segnalato importanti «criticità», per dirla con il felpato linguaggio della Vigilanza, nella gestione dell’istituto pugliese. Eppure, nell’ottobre del 2013, poche settimane dopo quella severa reprimenda, proprio da Bankitalia era arrivato a Bari l’invito a farsi carico di Tercas, la vecchia Cassa di Teramo che dopo un lungo commissariamento stava per affondare travolta dalle perdite. L’intervento della Popolare, con l’esplicito appoggio del governatore Ignazio Visco, è andato in scena l’anno successivo. E così la banca di Jacobini si è trovata a gestire, oltre ai propri crediti incagliati, anche quelli dell’istituto appena comprato con un investimento complessivo di 300 milioni. L’onda lunga di quell’operazione si è scaricata sul bilancio 2015, chiuso con 297 milioni di perdite, che salgono a 475 milioni se si escludono alcune poste una tantum di natura fiscale. Ecco perché, alcune settimane fa, gli ispettori della Banca d’Italia sono tornati a bussare alla porta dell’istituto pugliese. In agenda, tra l’altro, c’è la trasformazione della Popolare in Spa, così come prevede il decreto varato nel gennaio 2015 dal governo di Matteo Renzi. Un appuntamento delicato, che va affrontato, possibilmente, con i conti in regola. Ma andiamo con ordine e torniamo all’inizio 2013, quando i funzionari della Vigilanza si presentarono al quartier generale della banca barese per restarci, nel corso di tre successivi interventi, quasi otto mesi. L’Espresso ha avuto accesso ad alcuni documenti riservati che risalgono a quei giorni. Va detto innanzitutto che il voto finale attribuito alla Popolare di Bari al termine dell’ultima ispezione, quella chiusa ad agosto 2013, è stato pari a 4, corrispondente a “parzialmente sfavorevole”, in una scala che va da 1 (il massimo) a 6. Insomma, la Banca d’Italia non sembrava affatto soddisfatta dell’operato di Jacobini e dei suoi manager. E nelle carte dell’ispezione, che l’Espresso ha potuto consultare, vengono formulati rilievi pesanti. Si parla per esempio di «eccessiva correntezza» nei crediti verso alcuni gruppi. Per correntezza, in gergo bancario, si intende la velocità con cui viene sbrigata una pratica. In sostanza, alcuni prestiti importanti sarebbero stati erogati senza verifiche adeguate sulla solidità del cliente. Gli ispettori segnalano il caso dei gruppi Fusillo e Curci, che insieme controllano la holding Maiora group. A favore di questa società, si legge nelle carte, sono stati accordati finanziamenti «non sempre sufficientemente vagliati» e neppure «esaustivamente rappresentati al consiglio». Insomma, denaro facile. E per importi notevoli. Maiora group, alla fine del 2013, aveva già accumulato debiti per 131 milioni con la Popolare di Bari. I Fusillo, a cui fa capo metà del capitale della holding, sono costruttori molto conosciuti, e influenti, nel capoluogo pugliese. C’è Nicola Fusillo, già parlamentare del centrosinistra, nel 2015 schierato alle regionali con il candidato vincente, Michele Emiliano. Il resto della famiglia è invece cresciuto a gran velocità realizzando centri commerciali, villaggi turistici, un grande polo della logistica a Rutigliano, solo per citare gli interventi più importanti. Tra le attività dei Curci, invece, va ricordata la partecipazione del 30 per cento nel capitale della “Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano di Bari. Questa quota al momento risulta ceduta in pegno alla Popolare guidata da Jacobini. Nel loro rapporto gli ispettori di Banca d’Italia segnalano anche «la prassi di sottoscrivere quote di fondi comuni che investono in immobili venduti da clienti finanziati dalla banca stessa». Una manovra, questa, che consente di fatto all’istituto di credito di azzerare la propria esposizione trasformandola, per così dire, in quote del fondo. Un esempio? Eccolo, tra quelli citati dalla Vigilanza. La Popolare di Bari, già nel 2011, ha sottoscritto tutte le quote del fondo Tiziano, comparto San Nicola, che è gestito dal gruppo romano Sorgente. Lo stesso fondo ha poi acquistato il “Grande Albergo delle Nazioni”, uno degli immobili storici del capoluogo pugliese, affacciato sul Lungomare Nazario Sauro. E chi ha messo in vendita l’hotel? Proprio la società Fimco controllata dai Fusillo, grandi debitori, come abbiamo visto, della Popolare di Bari. Quest’ultima ha quindi sostituito i propri crediti con le quote dei veicoli d’investimento targati Sorgente. La stessa Fimco ha ceduto al Fondo Donatello, anche questo gestito da Sorgente, un altro palazzo di pregio come l’Hotel Oriente, nel centro storico della città di San Nicola. Bilanci alla mano, l’investimento in fondi immobiliari assorbe una fetta importante del portafoglio titoli della Popolare pugliese. Nei conti del 2015 questa voce vale 122 milioni e rispetto all’anno precedente ha già provocato perdite per 13 milioni. Il nome dei Fusillo, invece, ricorre anche nella triste storia della Popolare di Vicenza, schiantata da perdite ben superiori al miliardo e da mesi al centro di un’indagine della magistratura. Alcune società della famiglia di costruttori hanno in passato ricevuto finanziamenti milionari da fondi offshore con base a Malta. E questi erano stati a loro volta foraggiati dalla banca veneta all’epoca guidata da Gianni Zonin. Le coincidenze non finiscono qui. Vincenzo De Bustis, direttore generale della Popolare Bari da fine 2011 ad aprile 2015, nel 2013 ha ceduto una sua società personale alla holding Methorios, partecipata dall’ex candidato sindaco di Roma, Alfio Marchini. E anche Methorios è stata finanziata da quegli stessi fondi maltesi che sono intervenuti per sostenere i Fusillo, grandi clienti della Popolare di Bari. Questo intreccio di prestiti e affari, su cui indagano i magistrati a Roma e a Vicenza, può riservare nuove sorprese. Di certo però, fin dal 2013, la Vigilanza aveva preso atto dei crediti a rischio dell’istituto pugliese. E gli aspetti critici della gestione erano stati sintetizzati in un giudizio, quel “parzialmente sfavorevole”, che avrebbe dovuto stroncare sul nascere i progetti di espansione di Jacobini e del suo direttore generale De Bustis. Tercas però andava salvata. E in fretta. In quello scorcio di fine 2013 la Banca d’Italia era alla affannosa ricerca di un compratore per l’istituto abruzzese. Nessun banchiere però intendeva accollarsi gli oneri dell’operazione, pari ad almeno 600 milioni. A questo punto si è fatto avanti Jacobini. Siamo nell’ottobre 2013. Si è appena conclusa, con esito negativo, l’ispezione della Vigilanza. Nessun problema, a quanto pare. Ad agosto dell’anno successivo, Bari si prende Tercas. Il conto viene saldato per metà dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt), finanziato da tutte le banche nazionali. La stampella di sistema non è però sufficiente per chiudere l’operazione. E così la Popolare Bari non trova di meglio che chiedere soldi ai propri soci. Nel novembre 2014 vengono piazzate azioni per 300 milioni e obbligazioni subordinate per 200 milioni circa. Nella primavera del 2015 va in porto un altro collocamento da 50 milioni. I risparmiatori accorrono in massa. A fine 2013 i soci della banca superavano di poco quota 60 mila. Due anni dopo erano diventati circa 70 mila. Le brutte sorprese cominciano ad aprile di quest’anno. Prima la Popolare Bari annuncia la maxi perdita nei conti del 2015 dovuta in buona parte agli oneri del salvataggio Tercas. E viene tagliato anche il valore delle azioni, stabilito di anno in anno dalla banca stessa con una procedura già oggetto di molte critiche, come nei casi di Popolare Vicenza e Veneto Banca. Il ribasso è del 20 per cento circa: da 9,53 a 7,5 euro. Solo pochi mesi prima, migliaia di investitori avevano sottoscritto l’aumento di capitale pagando le azioni 8,95 euro. I titoli non sono quotati in Borsa e la Popolare, che gestisce in autonomia un mercato ad hoc, è stata travolta dalle domande di vendita. Le aste mensili soddisfano richieste per poche migliaia di azioni. Tutto fermo. O quasi. La banca si è impegnata a ristabilire quanto prima «la fluidità del mercato», ma intanto monta la protesta. Alcune decine di soci, giovedì 20 ottobre, hanno manifestato in piazza a Bari con striscioni e altoparlanti. Niente da fare. Morale della storia: il conto salato del salvataggio Tercas è stato pagato dai piccoli azionisti della Popolare. E la Banca d’Italia, che poteva intervenire per tempo, resta a guardare. Per ora.
Banca nostra che comandi a Bari. La potente Popolare della città, governata da mezzo secolo dalla stessa famiglia, si prepara a trasformarsi in una società per azioni. Tra bilanci in perdita e manovre sui titoli. Perché nulla cambi nel più grande istituto di credito del Sud, scrive Vittorio Malagutti il 02 giugno 2016 su "L'Espresso". Crisi, quale crisi? Marco Jacobini parla di sviluppo, crescita, espansione. L’ultimo erede della famiglia che da oltre mezzo secolo tiene in pugno la Popolare di Bari si aggrappa a un’altra acquisizione per allontanare incubi e fantasmi. «Vogliamo CariChieti», ha detto di recente Jacobini, candidando l’istituto che presiede all’acquisto della piccola banca abruzzese azzerata dal decreto del governo del novembre scorso. Vista dalla Puglia, la crisi delle Popolari gronda promesse e propositi di riscossa. E a dire il vero, fino a poche settimane fa, da queste parti arrivavano solo gli echi lontani della tempesta che nel giro di pochi mesi ha spazzato via Vicenza e Veneto Banca, oltre all’Etruria, frantumando equilibri consolidati nel tempo, come dimostra la prossima fusione tra Popolare Milano e il Banco Popolare con base a Verona. A Bari, però, adesso la musica è cambiata. A fine aprile è arrivato il taglio del valore delle azioni: da 9,53 a 7,5 euro, con una perdita secca del 21 per cento in un sol colpo. Una sorpresa difficile da digerire per gli oltre 70 mila soci della Popolare di Bari, che con quasi 15 miliardi di attivi, 385 filiali, oltre 3 mila dipendenti, è la più grande banca del Sud, una delle poche rimaste indipendenti. Negli ultimi tre anni l’istituto guidato da Jacobini ha raccolto quasi 800 milioni piazzando titoli tra migliaia di risparmiatori. Nel 2014 sono state vendute anche 200 milioni di obbligazioni subordinate, un investimento ad alto rendimento (6,5 per cento annuo) ma anche meno sicuro dei classici bond, come hanno scoperto a loro spese nei mesi scorsi i clienti degli istituti liquidati, primi tra tutti quelli di Banca Etruria. Risultato: le fila dei soci di Popolare Bari si sono ingrossate a gran velocità. Nel 2010 il capitale era diviso tra meno di 50 mila investitori, contro i 70 mila attuali. Il fatto è che le azioni dell’istituto pugliese non sono quotate in Borsa. Chi vuol vendere o comprare, quindi, deve bussare in banca. Anche il prezzo è fatto in casa, nel senso che la quotazione viene stabilita di anno in anno dagli amministratori e poi sottoposta al giudizio dell’assemblea per il via libera definitivo. Insomma, il sistema è lo stesso che ha già dato pessima prova di sé nelle recenti crisi di Veneto Banca e della Popolare Vicenza, letteralmente travolte dalla fuga in massa degli azionisti. A Bari tutto, o quasi, è filato liscio fino al 2015. Poi, messi in allarme da ribaltoni e crisi varie nel mondo bancario, sempre più soci hanno chiesto di liquidare in tutto o in parte il proprio investimento. Del resto, come risulta dagli stessi prospetti informativi degli ultimi aumenti di capitale della Popolare pugliese, il prezzo delle azioni messe in vendita negli anni scorsi era stato calcolato in base a parametri di bilancio simili, anche se di poco inferiori, a quelli di altri istituti non quotati come le già citate Popolare Vicenza e Veneto Banca, che poi non hanno retto alla prova della crisi. Così, per far fronte alle richieste, nel corso del 2015 l’istituto con base a Bari ha comprato azioni proprie messe in vendita dai soci per un valore di quasi 15 milioni. «Tutto sotto controllo», hanno gettato acqua sul fuoco Jacobini e i suoi collaboratori. Il 18 marzo scorso, però, in una sola giornata sono passate di mano oltre 2 milioni di azioni della Popolare. Un boom senza precedenti. Tra gennaio e febbraio il mercatino interno riservato ai soci aveva aperto i battenti solo cinque volte, con scambi al lumicino: poche decine di migliaia di pezzi. La sorpresa aumenta se si considera che l’asta del 18 marzo è stata l’ultima occasione per vendere i titoli al prezzo di 9,53 euro. Gli scambi infatti sono ripresi solo il 13 maggio. Nel frattempo però, il 24 aprile, l’assemblea ha fissato la nuova quotazione, pari, come detto, a 7,5 euro. In altre parole, il fiume dei soci in uscita si è ingrossato proprio alla vigilia del ribasso. Ce n’è quanto basta per alimentare sospetti e interrogativi sull’identità dei fortunati venditori, che hanno incassato in totale circa 20 milioni di euro. A comprare, secondo quanto spiegano a Bari, è stato il gruppo assicurativo Aviva, che poche settimane prima aveva siglato un’alleanza commerciale con l’istituto pugliese. Anche la posizione degli acquirenti appare però piuttosto singolare. In pratica, d’accordo con la banca, Aviva avrebbe comprato titoli che nel giro di un mese si sono svalutati del 20 per cento per decisione della banca stessa. A prima vista non sembra granché come affare per celebrare l’intesa strategica appena firmata. Le manovre sui titoli sono andate in scena pochi giorni prima di un’altra brutta notizia. A fine marzo la Popolare di Bari ha annunciato il bilancio peggiore della sua storia: 475 milioni di perdite, ridotti a 297 milioni grazie ad alcune partite fiscali positive (e una tantum) per 177 milioni. Il vistoso peggioramento rispetto al 2014, che si era chiuso con 24 milioni di profitti, è dovuto in parte (271 milioni) alle rettifiche sui valori di alcune attività in bilancio. Per esempio, la quota di controllo nella Cassa di Orvieto e una rete di filiali comprate a peso d’oro alcuni anni fa e oggi molto svalutate alla luce di una situazione di mercato ben più complicata. Grandi pulizie anche nel portafoglio crediti. Rispetto al 2014, gli accantonamenti sui prestiti a rischio sono più che raddoppiati, arrivando a 246 milioni. A Bari sostengono che la cura da cavallo ha già dato i primi effetti e segnalano, senza però fornire cifre precise, che i risultati dei primi mesi dell’anno si sono fin qui rivelati migliori rispetto alle attese. La salita più difficile, però, deve ancora cominciare. Nel 2014 la Popolare pugliese è sbarcata in Abruzzo per scongiurare il crac di Banca Tercas, sede a Teramo, distrutta da anni di gestione dissennata. Il salvataggio è stato finanziato in parte dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) che ha corretto in corsa il suo intervento (265 milioni di contributi) dopo lo stop della Commissione europea per un presunto aiuto di Stato. L’istituto guidato da Jacobini ha fin qui investito circa 325 milioni nell’operazione Tercas, che però viaggia ancora a rilento. L’anno scorso il bilancio si è chiuso in utile per 10 milioni solo grazie a 56 milioni di benefici fiscali straordinari. La strada verso il rilancio è quindi ancora lunga, ma intanto la Popolare pugliese è attesa al varco della trasformazione in società per azioni. Il decreto del governo che obbliga le 10 maggiori banche cooperative a diventare Spa, risale all’inverno del 2015. A Bari però se la sono presa comoda e l’assemblea per deliberare il cambio di statuto andrà in scena non prima del prossimo ottobre. Dopo di allora, sulla carta, tutto è possibile. Perfino che una cordata di nuovi soci prenda il controllo del gruppo. Al momento, per la verità, il ribaltone appare piuttosto improbabile. Il presidente Marco Jacobini guida un consiglio di fedelissimi e si è già assicurato la successione con la nomina dei suoi due figli: Gianluca (39 anni) è stato da poco nominato condirettore generale e suo fratello Luigi, invece, è vicedirettore generale. Tutto in famiglia, insomma, per un assetto di vertice che non ha eguali nel variegato universo del credito. Nel 2015 è stato promosso amministratore delegato un manager esperto come Giorgio Papa, 60 anni, una carriera con incarichi importanti nel gruppo Banco Popolare e anche in Finlombarda, la holding controllata dalla regione Lombardia. Una nomina politica, quest’ultima, decisa dalla giunta di centrodestra nell’era di Roberto Formigoni. Papa ha preso il posto di Vincenzo De Bustis, un banchiere di lungo corso, partito dalla Puglia (Banca del Salento) per approdare nel 2000 al vertice del Monte Paschi di Siena con la benedizione dell’allora potentissimo Massimo D’Alema. De Bustis, insediatosi nel 2011, ha dato le dimissioni ad aprile 2015 ed è stato liquidato con una buonuscita («incentivo all’esodo», si legge nelle carte) di 975 mila euro. D’altra parte, nell’anno nero della Popolare di Bari, tutti i manager di punta hanno visto aumentare il loro stipendio, a cominciare dal presidente Marco Jacobini, che ha guadagnato 700 mila euro, 50 mila in più del 2014. Busta paga più pesante anche per i figli del presidente: il condirettore generale Gianluca ha guadagnato 453 mila euro contro i 354 mila del 2014, mentre il fratello Luigi è arrivato a 410 mila euro, con un aumento di oltre 50 mila euro rispetto all’anno prima. I manager, insomma, non possono lamentarsi: compensi più alti per tutti. I soci, invece, forse la pensano diversamente. Le loro azioni ora valgono il 20 per cento in meno e con l’aria che tira il futuro pare quanto mai incerto.
Caos Popolare di Bari, Bankitalia la commissaria e il governo litiga sul salvataggio. Il governo si riunisce d'urgenza ma senza gli esponenti di Italia Viva che poco prima della riunione si chiamano fuori: "Rottura nel metodo e nel merito". E Franceschini attacca: "Basta con le minacce agli alleati". Rinviata l'adozione di un decreto. La Repubblica il 13 Dicembre 2019. Accelerazione nella crisi della Banca popolare di Bari e conseguente caos nella maggioranza, prima, dopo e durante un consiglio dei ministri convocato d'emergenza per discutere di un decreto per salvare la banca, mettendo sul piatto una cifra stimata tra 800 milioni e un miliardo di euro. Il cdm che si è tenuto in serata è durato circa un'ora e si è concluso intorno alle 22.40. Non è stato approvato nessun decreto per il momento, ma il governo "è pronto ad assumere le iniziative necessarie alla piena tutela degli interessi dei risparmiatori e a rafforzare il sistema creditizio". La maggioranza però trema, in un tutti contro tutti che scuote Palazzo Chigi. Circola anche la voce che i renziani vogliano aprire una crisi, ipotesi che le stesse fonti del partito dell'ex premier poi smentiscono. Secondo fonti Mef riportate dall'agenzia AdnKronos, il decreto sarà sottoposto al prossimo Consiglio dei ministri "per la sua approvazione". Comune determinazione del governo è quella di "assumere tutte le iniziative necessarie a garantire la piena tutela degli interessi dei risparmiatori e a rafforzare il sistema creditizio a beneficio del sistema produttivo del Sud". Tutto è cambiato in poche ore, dopo che nel primo pomeriggio il premier Conte da Bruxelles aveva rassicurato tutti dicendo "il salvataggio non serve". Prima Bankitalia ha convocato il cda e ha deciso di commissariare l'istituto di credito pugliese, nominando Enrico Ajello e Antonio Blandini commissari straordinari e Livia Casale, Francesco Fioretto e Andrea Grosso componenti del comitato di sorveglianza. "La Banca d'Italia ha disposto lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e controllo della Banca Popolare di Bari e la sottoposizione della stessa alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi degli articoli 70 e 98 del Testo Unico Bancario, in ragione delle perdite patrimoniali", si legge sul sito della banca pugliese. Che rassicura i clienti: "La banca prosegue regolarmente la propria attività. La clientela può pertanto continuare ad operare presso gli sportelli con la consueta fiducia". Nelle stesse ore il cdm veniva convocato per intervenire sulla crisi e adottare provvedimenti straordinari: la banca ha un'esigenza di maxi ricapitalizzazione e nei giorni scorsi ha confermato una richiesta d'aiuto al fondo interbancario e l'avvio di un dialogo con il mediocredito centrale per una partnership.
Scontro politico sul salvataggio di Popolare di Bari. Ma l'accelerazione porta anche una crisi nel governo, con Italia Viva che si chiama fuori e parla di "rottura nel merito e nel metodo". Dichiara Luigi Marattin, vicepresidente deputati di Iv: "La convocazione improvvisa di un Consiglio dei ministri sulle banche, senza alcuna condivisione e dopo aver espressamente escluso ogni forzatura o accelerazione su questa delicata materia, segna un gravissimo punto di rottura nel metodo e nel merito". Continua Marattin: "Stupisce che chi per anni ci ha attaccato demagogicamente su provvedimenti finalizzati a sostenere i risparmiatori - sottolinea- si renda oggi responsabile di una operazione incredibile, finalizzata più a salvaguardare le responsabilità di chi doveva gestire e/o vigilare e non l'ha fatto. Italia viva non parteciperà al consiglio dei ministri e si riserva di valutare in aula quale posizione assumere". Ed Ettore Rosato, coordinatore di Italia viva, rincara: "Dopo che per anni i 5Stelle hanno costruito contro di noi la retorica sulle banche, oggi con il Pd votano in Cdm a difesa di chi avrebbe dovuto ben amministrare. Noi non ci stiamo e non parteciperemo a questo voto. In attesa di vedere come lo giustificheranno". A stretto giro, la risposta di Luigi Di Maio, chiamato in causa insieme a tutto il Movimento. Per il capo politico "c'è un problema con la Banca Popolare di Bari ma noi dobbiamo andare a vedere a chi hanno prestato i soldi: pensiamo a un decreto che aiuti i risparmiatori, non gli amici delle banche. Serve una riflessione sul decreto". E fonti 5s chiariscono: "Non si fanno Cdm risolutivi finchè non c'è un accordo sul metodo. Anche il Pd replica polemico, prima con un tweet di Andrea Orlando e poi con una nota di Dario Franceschini. "I ministri del Pd hanno partecipato al Consiglio dei Ministri. In ogni scelta di governo, e a maggior ragione quando si tratta di tutelare i risparmi dei cittadini, noi mettiamo doverosamente senso di responsabilità. Le minacce, le aggressioni agli alleati, le assenze per fare notizia, le lasciamo ad altri".
Ettore Rosato: Dopo che per anni i #5stelle hanno costruito contro di noi la retorica sulle banche. Oggi con il Pd votano in CdM a difesa di chi avrebbe dovuto ben amministrare. Noi non ci stiamo e non parteciperemo a questo voto. In attesa di vedere come lo giustificheranno.
Andrea Orlando: Quindi escludete che ci siano rischi per i risparmiatori in questo caso?
Salvini-Giorgetti: "Conte incapace o instabile, si dimetta". "Come può nel giro di poche ore il premier sostenere che sulla Banca popolare di Bari non ci sarà nessun intervento salvo convocare un cdm d'urgenza a distanza di poche ore mentre Bankitalia ordina il commissariamento dell'istituto? Un pacato "no comment" avrebbe evitato una farsa e sarebbe stato più serio anche a mercati aperti. Vorremmo capire cosa è successo: dal tutto bene al fallimento. Siamo nelle mani di una persona instabile o incapace che guida il governo del Paese. Conte si dimetta immediatamente: facciamo appello ai partiti di questa maggioranza per far finire al più presto questa disastrosa e pericolosa esperienza". Lo dichiarano Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti.
Fabio Pavesi per affaritaliani.it il 13 dicembre 2019. Ora toccherà alla Popolare di Bari venire salvata. E così si ripropone inalterato il consueto film delle crisi bancarie italiane che finisce per recitare sempre lo stesso copione: crediti allegri agli amici degli amici o comunque a soggetti, spesso immobiliaristi d’assalto, senza capitali propri e con grandi rischi operativi; quei prestiti con il tempo non rientrano, diventano sofferenze, cominciano le svalutazioni ma molta polvere resta sotto il tappeto perché se si svalutasse correttamente emergerebbero gravi perdite che è meglio occultare. Poi la slavina diventa non più contenibile dai semplici magheggi di bilancio. Il bubbone esplode, ma il fuoco divampava da tempo. Con un patrimonio sceso sotto i limiti regolamentari ecco la richiesta di soccorso esterno. Con azionisti e obbligazionisti subordinati che finiscono di fatto azzerati. Un copione che si perpetua e che è andato in scena a Genova alla Carige; a Siena con Mps, in Veneto con le due Popolari. Ora è la volta della Popolare gestita per oltre mezzo secolo dalla famiglia Jacobini. Il canovaccio non si discosta per nulla dalle altre crisi. Crediti facili a chi non sarà in grado di onorarli; sofferenze che superano il livello di guardia; aumenti di capitale, pagati dai soci, a prezzi che valevano due tre volte il vero valore della banca. E la pioggia di svalutazioni sui crediti malati che crea i primi maxi buchi nei conti. Ora senza il solito soccorso esterno la Popolare di Bari è spacciata. I requisiti patrimoniali con il Cet 1 sceso al 6% dopo la maxi-perdita da oltre 400 milioni del 2018 non rispettano più i criteri della Vigilanza. Occorre una nuova iniezione di denaro fresco che non si può chiedere ai martoriati vecchi soci, ma si implora il Cavaliere bianco. Che non può che essere il Fondo interbancario una volta di più e perché no il Tesoro. L’attuale ad della banca quel De Bustis che oggi la guida, dopo esserci già stato come direttore generale dal 2011 al 2014 e indagato in questi giorni a Bari per una vicenda legata a un fondo maltese che avrebbe dovuto immettere denaro nella banca, ha chiamato soccorso a voce alta accusando inoltre di gestione allegra i suoi predecessori. Servono capitali per un miliardo, c’era un comitato d’affari che gestiva in modo opaco la banca ha dichiarato a gran voce Vincenzo De Bustis chiedendo e ottenendo dal Cda l’azione di responsabilità contro la gestione passata. Che la Popolare barese nonostante le continue cessione di sofferenze negli ultimi due tre anni, navighi in acque turbolente non dovrebbe essere un mistero. Tuttora secondo l’ultimo bilancio di giugno 2019 ha in pancia ben 2 miliardi di crediti deteriorati lordi, oltre il 20% degli impieghi, un livello più che doppio della media del sistema bancario italiano. L’ultima svalutazione importante dei crediti ammalorati è del 2018 ed è pesata per 245 milioni. È stato l’anno della perdita per oltre 400 milioni della banca. Quella che di fatto ha scoperchiato la pentola. Ma tardi troppo tardi, dato che la crisi viaggiava in realtà da tempo. Pur cumulando sofferenze e incagli a velocità e intensità del tutto fuori controllo, la Popolare di Bari guidata da sempre dalla famiglia Iacobini, effettuava rettifiche sui crediti ammalorati troppo basse per essere realistiche. Tra il 2016 e il 2017, in interi 2 anni, pur con un quarto del portafoglio crediti di difficile rientro, le rettifiche sono state di meno di 150 milioni cumulati. Per trovare una pulizia più fattiva di oltre 200 milioni occorre risalire al 2015 quando ci fu l’impatto dei crediti marci dell’acquisita Tercas. Molta polvere (leggi sofferenze non adeguatamente rettificate) è stata lasciata sotto il tappeto. Si evitava di far vedere le perdite reali, nel mentre si chiedevano soldi al mercato. Un film che ricorda il disastro delle Venete, di Carige e di Mps. L’ultimo aumento di capitale del 2015 vide i soci comprare le azioni a 8,95 euro, con una valorizzazione della banca barese che superava e di molto il patrimonio netto. Questo quando l’universo delle banche quotate italiane valeva meno della metà del suo patrimonio netto. Ora però il maquillage contabile, quello di sottostimare le rettifiche sui crediti malati, mostra la corda. La Popolare ha tuttora, e ormai non è più credibile, un tasso di copertura dei crediti deteriorati di solo il 39%. Di quei 2 miliardi di sofferenze e incagli lorde sono state svalutati solo 800 milioni, tanto che i crediti malati netti sono di 1,2 miliardi e pesano tuttora per il 15% del portafoglio impieghi: un livello oltre ogni allarme rosso. Tutto ciò significa che la grande pulizia deve ancora arrivare. Non si spiegherebbe la richiesta accorata di De Bustis per coprire urgentemente un deficit di capitale vicino al miliardo. Se solo la Bari si uniformasse alla media del tasso di accantonamento del sistema bancario italiano che è al 49% dieci punti sopra la Bari, si aprirebbe una voragine di almeno altri 200 milioni di perdite. E questo quasi sicuramente avverrà. Il cambio della guardia nel controllo della banca che necessariamente dovrà arrivare non potrà permettersi di non pulire radicalmente l’istituto dalla zavorra delle sofferenze. E allora la maxi-perdita del 2018 sarà di fatto solo l’antipasto di un nuovo grande buco nei conti del 2019. Resta sullo sfondo la pantomima di una crisi visibile da tempo già dai bilanci pubblici che vedevano sofferenze fuori controllo e rettifiche del tutto inadeguate, e su cui molti, a partire dagli organi di Vigilanza hanno preferito soprassedere nell’attesa che qualcosa cambiasse. Ma come si è visto in tutte le crisi lasciar correre il tempo senza intervenire non fa che acuire l’agonia. E come nelle sceneggiature delle crisi ecco andare in onda tutti i capitoli. Clienti in uscita con la raccolta diretta che flette, ricavi in forte calo; impieghi che dimagriscono. E azionisti e obbligazionisti imbrigliati nell’impossibilità di vendere i titoli della banca comprati a caro prezzo. Il mercatino messo in pista per scambiare i titoli della Popolare di Bari non quotata si è di fatto congelato da solo. Dal 2017 sono state scambiate azioni per solo 800mila euro, un’inezia. Con i prezzi di negoziazione da sempre deserti che giravano prima della sospensione dei giorni scorsi a poco più di 2 euro, contro i 9 euro dei prezzi di carico di molti azionisti. Che in questo tragico film come negli altri saranno quelli che con i dipendenti pagheranno il conto più alto.
L'AFFARE "CON I GENTILUOMINI" CHE COSTA IL POSTO A DE BUSTIS il 13 dicembre 2019 su Il Fatto Quotidiamno. Il commissariamento della Banca Popolare di Bari è ormai inevitabile e imminente. Il governatore della Banca d' Italia Ignazio Visco ha deciso che non si può salvare l' istituto pugliese senza togliere di mezzo l' amministratore delegato Vincenzo De Bustis . Solo dopo il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt) darà il miliardo di euro di capitale necessario a salvare la banca. La posizione di De Bustis si è fatta più critica dopo che, un mese fa, è stato destinato ad altro incarico Lanfranco Suardo , l' uomo della vigilanza che aveva seguito con apparente benevolenza le evoluzioni di De Bustis. E dopo le novità nell' inchiesta della procura di Bari sulla banca. Viene proprio da Bankitalia la segnalazione che ha fatto aprire un nuovo filone d' indagine sul tentativo (fallito) di De Bustis di acquisire nuovo capitale da una sconosciuta società maltese. Vigilanza e magistratura vogliono vederci più chiaro dopo aver letto il verbale del cda del 2 gennaio 2019, quando De Bustis spiegò ai consiglieri la brillante soluzione trovata per evitare il commissariamento o, peggio, la risoluzione, volgarmente nota come bail in. Per magnificare la propria abilità, De Bustis arringa i consiglieri: "Delle banche non si fida più nessuno e quindi c'è bisogno di fare ricorso alle migliori capacità relazionali. Capacità relazionali significa investire in conoscenze, coltivarle, sedersi al tavolo e discutere, perché sia ben chiaro che in una operazione commerciale o finanziaria nessuno ti usa una cortesia senza pretendere in contropartita una pari opportunità". Per cui, spiega dando l'operazione per fatta, "ho dovuto chiedere a degli investitori personalmente conosciuti la disponibilità a sottoscrivere questo strumento ibrido di patrimonializzazione". De Bustis è amministratore delegato dal 12 dicembre 2018, e ha dunque cucinato l' operazione in un paio di settimane, Natale compreso, ma probabilmente si era portato avanti con il lavoro: una settimana prima della nomina si era fatto pagare una consulenza da 127 mila euro. A usare a De Bustis la cortesia di mollargli 30 milioni al volo e sull' unghia sarebbe stata, se ci fosse riuscita, la società maltese Muse Ventures Ltd, facente capo a Gianluigi Torzi , intraprendente finanziere italiano residente a Londra. Muse Ventures era stata costituita un anno prima con un capitale non precisamente debordante: 1.200 (milleduecento) euro. Come ha ricostruito il 19 luglio scorso sul Fatto Gianni Barbacetto, "l' istituto di credito coinvolto nell' emissione dei titoli, Bnp Paribas, rileva problemi di compliance, cioè di trasparenza e rispetto delle regole" e blocca l' operazione. Diventa evidente, anche dentro la banca, "la sproporzione tra i mezzi propri del sottoscrittore" (la Muse) e il valore dell' operazione. Non solo. Siccome De Bustis propone anche di investire 51 milioni nel fondo lussemburghese Naxos Sif Capital Plus, nasce il sospetto (respinto seccamente dalla stessa Naxos) che si tratti di un' operazione circolare, cioè che i soldi siano sempre gli stessi che escono dalla banca e ci rientrano da Malta. Ma la sensazione di un collegamento tra le due operazioni nasce in alcuni consiglieri della banca proprio per la presentazione che ne ha fatto De Bustis. Quando il presidente Marco Jacobini gli chiede informazioni "sulla qualità degli investitori", l' ad sfodera il tono della televendita: "Si tratta di galantuomini, gente per bene (), hanno chiesto semplicemente di non dare molto risalto pubblicitario all' operazione, perché le condizioni della stessa sono palesemente favorevoli per la banca". Il consigli