Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2020

 

LA CULTURA

 

ED I MEDIA

 

NONA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Benefattori dell’Umanità.

I Nobel italiani.

Scienza ed Arte.

Il lato oscuro della Scienza.

"Il sapere è indispensabile ma non onnipotente".

L’Estinzione dei Dinosauri.

Il Computer.

Il Metaverso: avatar digitale.

WWW: navighi tu! Internet e Web. Browser e Motore di Ricerca.

L’E-Mail.

La Memoria: in byte.

Il "Taglia, copia, incolla" dell'informatica.

Gli Hackers.

L’Algocrazia.

Viaggio sulla Luna.

Viaggio su Marte.

Gli Ufo.

Il Triangolo delle Bermuda.

Il Corpo elettrico.

L’Informatica Quantistica ed i cristalli temporali.

I Fari marittimi.

Non dare niente per scontato.

Le Scoperte esemplari.

Elio Trenta ed il cambio automatico.

I Droni.

Dentro la Scatola Nera.

La Colt.

L’Occhio del Grande Fratello.

Godfrey Hardy. Apologia di un matematico.

Margherita Hack.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Cervello.

L’’intelligenza artificiale.

Entrare nei meandri della Mente.

La Memoria.

Le Emozioni.

Il Rumore.

La Pazzia.

Il Cute e la Cuteness. 

Il Gaslighting.

Come capire la verità.

Sesto senso e telepatia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ignoranza.

La meritocrazia.

La Scuola Comunista.

Inferno Scuola.

La Scuola di Sostegno: Una scuola speciale.

I prof da tastiera.

Università fallita.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mancinismo.

Le Superstizioni.

Geni e imperfetti.

Riso Amaro.

La Rivoluzione Sessuale.

L'Apocalisse.

Le Feste: chi non lavora, non fa l’amore.

Il Carnevale.

Il Pesce d’Aprile.

L’Uovo di Pasqua.

Ferragosto. Ferie d'agosto: Italia mia...non ti conosco.

La Parolaccia.

Parliamo del Culo.

L’altezza: mezza bellezza.

Il Linguaggio.

Il Silenzio e la Parola.

I Segreti.

La Punteggiatura.

Tradizione ed Abitudine.

La Saudade. La Nostalgia delle Origini.

L’Invidia.

Il Gossip.

La Reputazione.

Il Saluto.

La società della performance, ossia la buona impressione della prestazione.

Fortuna e spregiudicatezza dei Cattivi.

I Vigliacchi.

I “Coglioni”.

Il perdono.

Il Pianto.

L’Ipocrisia. 

L’Autocritica.

L'Individualismo.

La chiamavano Terza Età.

Gioventù del cazzo.

I Social.

L’ossessione del complotto.

Gli Amici.

Gli Influencer.

Privacy: la Privatezza.

La Nuova Ideologia.

I Radical Chic.

Wikipedia: censoria e comunista.

La Beat Generation.

La cultura è a sinistra.

Gli Ipocriti Sinistri.

"Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

Antifascisti, siete anticomunisti?

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Nullismo e Il Nichilismo.

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

La Cancel Culture.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Perché esiste il negazionismo.

L’Inglesismo.

Shock o choc?

Caduti “in” guerra o “di” guerra?

Kitsch. Ossia: Pseudo.

Che differenza c’è tra “facsimile” e “template”?

Così il web ha “ucciso” i libri classici.

Ladri di Cultura.

Falsi e Falsari.

La Bugia.

Il Film.

La Poesia.

Il Podcast.

L’UNESCO.

I Monuments Men.

L’Archeologia in bancarotta.

La Storia da conoscere.

Alle origini di Moby Dick.

Gli Intellettuali.

Narcisisti ed Egocentrici.

"Genio e Sregolatezza".

Le Stroncature.

La P2 Culturale.

Il Mestiere del Poeta e dello scrittore: sapere da terzi, conoscere in proprio e rimembrare.

"Solo i cretini non cambiano idea".

Il collezionismo.

I Tatuaggi.

La Moda.

Le Scarpe.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Ada Negri.

Albert Camus.

Alberto Arbasino.

Alberto Moravia e Carmen Llera Moravia.

Alberto e Piero Angela.

Alessandro Barbero.

Andrea Camilleri.

Andy Warhol.

Antonio Canova.

Antonio De Curtis detto Totò.

Antonio Dikele Distefano.

Anthony Burgess.

Antonio Pennacchi.

Arnoldo Mosca Mondadori.

Attilio Bertolucci.

Aurelio Picca.

Banksy.

Barbara Alberti.

Bill Traylor.

Boris Pasternak.

Carmelo Bene.

Charles Baudelaire.

Dan Brown.

Dario Arfelli.

Dario Fo.

Dino Campana.

Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante Alighieri o Alighiero.

Edmondo De Amicis.

Edoardo Albinati.

Edoardo Nesi.

Elisabetta Sgarbi.

Vittorio Sgarbi.

Emanuele Trevi.

Emmanuel Carrère.

Enrico Caruso.

Erasmo da Rotterdam.

Ernest Hemingway.

Eugenio Montale.

Ezra Pound.

Fabrizio De Andrè.

Federico Palmaroli.

Federico Sanguineti.

Federico Zeri.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Fernanda Pivano.

Filippo Severati.

Fran Lebowitz.

Francesco Grisi.

Francesco Guicciardini.

Gabriele d'Annunzio.

Galileo Galilei.

George Orwell.

Giacomo Leopardi.

Giampiero Mughini.

Giancarlo Dotto.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini.

Giovannino Guareschi.

Gipi.

Giorgio Strehler.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Grazia Deledda.

J.K. Rowling.

James Hansen.

John Le Carré.

Jorge Amado.

I fratelli Marx.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lisetta Carmi.

Luciano Bianciardi.

Luigi Pirandello.

Louis-Ferdinand Céline.

Luis Sepúlveda.

Marcel Proust.

Marcello Veneziani.

Mario Rigoni Stern.

Mauro Corona.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarotti.

Milo Manara.

Niccolò Machiavelli.

Oscar Wilde.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam.

Pablo Picasso.

Paolo Di Paolo.

Paolo Ramundo.

Pellegrino Artusi.

Philip Roth.

Philip Kindred Dick.

Pier Paolo Pasolini.

Primo Levi.

Raffaello.

Renzo De Felice.

Richard Wagner.

Rino Barillari.

Roberto Andò.

Roberto Benigni.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Rosellina Archinto.

Sabina Guzzanti.

Salvador Dalì.

Salvatore Quasimodo.

Salvatore Taverna.

Sandro Veronesi.

Sergio Corazzini.

Sigmund Freud.

Stephen King.

Teresa Ciabatti.

Tonino Guerra.

Umberto Eco.

Victor Hugo.

Virgilio.

Vivienne Westwood.

Walter Siti.

Walter Veltroni.

William Shakespeare.

Wolfgang Amadeus Mozart.

Zelda e Francis Scott Fitzgerald.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Il DDL Zan: la storia di una Ipocrisia. Cioè: “una presa per il culo”.

La corruzione delle menti.

La TV tradizionale generalista è morta.

La Pubblicità.

La Corruzione dell’Informazione.

L’Etica e l’Informazione: la Transizione MiTe.

Le Redazioni Partigiane.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Diritto all’Oblio: ma non per tutti.

Le Fake News.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Satira.

Il Conformismo.

Professione: Odio.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Reporter di Guerra.

Giornalismo Investigativo.

Le Intimidazioni.

Stampa Criminale.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Corriere della Sera.

«L’Ora» della Sicilia.

Aldo Cazzullo.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Andrea Purgatori.

Andrea Scanzi.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Barbara Palombelli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Pizzul.

Bruno Vespa.

Carlo Bollino.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carlo Verdelli.

Cecilia Sala.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Emilio Fede.

Enrico Mentana.

Eugenio Scalfari.

Fabio Fazio.

Federica Angeli.

Federica Sciarelli.

Federico Rampini.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Franca Leosini.

Francesca Baraghini.

Francesco Repice.

Franco Bragagna.

Furio Colombo.

Gad Lerner.

Giampiero Galeazzi.

Gianfranco Gramola.

Gianni Brera.

Giovanna Botteri.

Giulio Anselmi.

Hoara Borselli.

Ilaria D'Amico.

Indro Montanelli.

Jas Gawronski.

Giovanni Minoli.

Lilli Gruber.

Marco Travaglio.

Marie Colvin.

Marino Bartoletti.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Maurizio Costanzo.

Melania De Nichilo Rizzoli.

Mia Ceran.

Michele Salomone.

Michele Santoro.

Milo Infante.

Myrta Merlino.

Monica Maggioni.

Natalia Aspesi.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Crepet.

Paolo Del Debbio.

Peter Gomez.

Piero Sansonetti.

Roberta Petrelluzzi.

Roberto Alessi.

Roberto D’Agostino.

Rosaria Capacchione.

Rula Jebreal.

Selvaggia Lucarelli.

Sergio Rizzo.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Rosati.

Toni Capuozzo.

Valentina Caruso.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.

Vittorio Messori.

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

NONA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Corriere della Sera.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 3 novembre 2021. Gli scaffali delle librerie dovrebbero avere un ripiano apposito dedicato ai volumi sul Corriere della Sera. Ne sono usciti a valanga. Evitate però di chiedere la localizzazione di questi titoli al commesso: se non sono al macero, sono in deposito altrove, nelle cantine degli autori, ansiosi di fame dono a chiunque passi da loro o abbia l'avventura disgraziata di invitarli a cena. Comprensibile il disinteresse del popolo. Si tratta per lo più di memorie che interessano solo a chi le ha scritte, e servono a far sapere: io c'ero. Infatti i giornalisti in Italia si dividevano (adesso non so) tra quelli che sono stati al Corriere e quelli che avrebbero voluto andarci, tra «corrieristi» e resto del mondo. Uno status, prima ancora che un mestiere. Lo so perché io pure c'ero. Ho rinunciato all'insano proposito. Anche perché non riuscirei neppure a sfiorare la qualità letteraria e l'efficacia cristallina della testimonianza di Enzo Bettiza: Via Solferino. La vita del Corriere della Sera dal 1964 al 1974, Rizzoli. Qualcuno mi ha suggerito: racconta il decennio successivo, sei stato in quel turbine. No, grazie. Partire nella certezza di arrivare al massimo secondo è una delusione che risparmio ai lettori ma anzitutto alla mia vanagloria. Detto questo, confessato il mio scetticismo, non ho resistito e ho acquistato Corriere della Sera. Biografia di un quotidiano (il Mulino, pagg. 528, . 30) un volume che promette per l'autorevolezza scientifica della casa editrice, Il Mulino, e per il curriculum degli autori, Pierluigi Allotti e Raffaele Liucci, cattedratici di storia del giornalismo, di essere un bel modo - finalmente non ideologico - di rileggere anni infuocati non solo della mia biografia, ma di quella degli italiani, perché specie allora quel che accadeva al Corriere, omicidi compresi, con le lotte proprietarie e politiche per il suo indirizzo, aveva un peso rilevantissimo per la vita comune degli italiani. Influiva sul potere romano, ma soprattutto un po' rifletteva, un po' dirigeva i costumi quotidiani. Il grosso tomo si legge bene. Racconta a partire dal primo direttore, il napoletano Eugenio Torelli Viollier, e dal primo numero, il 5 marzo 1876, il succedersi di altri 28 direttori, e può far scorgere in profondità anche le vicende finite sepolte negli archivi vastissimi di via Solferino, che i due studiosi hanno esplorato per anni. Grosse scoperte? Non credo. Alla fine i giornali, qualunque cosa si svolga nelle segrete stanze, sono esattamente descritti e interpretabili da quello che vi si legge. Ci sono, marginalmente anch' io, nelle pagine degli autori. Si citano certi documenti da loro rinvenuti a proposito del mio contenzioso con Alberto Cavallari. Scrivono Allotti e Liucci: «Le carte d'archivio conservano traccia dei numerosi attriti sorti fra il direttore e alcuni colleghi (Giovanni Raimondi, Enzo Passanisi, Giulio Nascimbeni, Sebastiano Grasso, Vittorio Feltri, Paolo Isotta, Piero Ostellino)». Non si dice però il merito della vicenda. I due danno la colpa al «carattere spigoloso» e «impossibile» del personaggio. A essere impossibile era la sua tigna ideologica. Non erano fatti personali. Semplicemente Alberto Cavallari era un comunista e praticava una selezione razziale confinando nel gulag del silenzio le firme sgradite. A danno del Corriere che perse 100mila copie. Eppure gli autori si profondano in elogi di questo devastatore delle praterie. L'uomo era stato scelto, dopo Franco Di Bella, ignobilmente liquidato per la sua innocua iscrizione alla P2, proprio perché comunista, con la pantomima imposta all'editore Angelo Rizzoli, tenuto lì con la pistola alla tempia, di lasciare a un garante, un giurista senatore della sinistra indipendente, di sceglier lui il direttore. Tutto così innocente e trasparente? Non mi pare. Di certo, grazie a Luigi Bazoli, banchiere della sinistra democristiana, Agnelli si portò a casa un patrimonio per quattro soldi. La scorreria è ben descritta nel libro, e - citando Massimo Mucchetti si evidenzia la cospicuità del malloppo, ma il tono generale è di chi ritiene tutto questo inevitabile per impedire l'ascesa di Craxi, che si dà per scontato avrebbe impedito al Corriere di essere libero come ai tempi di Piero Ottone...Per parlar bene di Walter Tobagi, essendo craxiano ma anche morto, ammazzato per le sue idee di socialista cristiano anticomunista, i professori di giornalismo citano un episodio in cui il mio amico Walter criticò aspramente un'intervista non firmata e pubblicata da Di Bella per Servilismo a Bettino. Giusto. Ma erano ben altre le cause del formidabile e pericoloso impegno di Tobagi per smantellare democraticamente il soviet comunista che Ottone aveva consentito si insediasse in via Solferino. A proposito di quegli anni, in svariati articoli e libri ho raccontato questo o quell'episodio, sfidando la noia altrui e i ghiribizzi dei detentori a prescindere della verità storica, naturalmente progressista. Fatica inutile visti i risultati. Mi sono impuntato infatti a raddrizzare le gambe ai cani, contraddicendo cioè la vulgata corrente sugli anni della direzione di Franco Di Bella. Un grande cronista. Un giorno sventurato si fece mettere in testa un ridicolo cappuccio, ma più che i garbugli del potere conosceva il guazzabuglio dei cuori umani. Con il suo «vicario» Gaspare Barbiellini Amidei si accorse che non di sola politica vivono i popoli, e aprì il giornale al «privato», a vicende cioè di amori e di corna, ma anche al dolore di Giovanni Testori per i figli di nessuno abbandonati nell'obitorio. Il tutto fu bollato come mediocre «deflusso» dagli intellettuali di Repubblica, che poi rincorsero questo filone con la solita prosopopea. Si capisce che gli autori tifano, con molto garbo, per il progressismo, sotto il manto dell'obiettività, fatti separati dalle opinioni eccetera. Ma con tutte le buone intenzioni a questi scienziati del giornalismo slitta qualche volta la frizione. Capita quando raccontano della direzione di Piero Ostellino, che ospitò con risalto il famoso articolo di Leonardo Sciascia «I professionisti dell'antimafia», e lo difese dalle critiche. Allotti e Liucci al riguardo forniscono elementi idonei a formulare su Sciascia e il suo complice Ostellino un giudizio infamante. Sostengono che fu quel testo, titolato con esagerata enfasi, a provocare l'isolamento di Falcone e Borsellino, la loro mancata promozione da parte del Csm a posti chiave, e alla fine - lasciano intendere - il loro assassinio. Dimenticano, lor professori, che a opporsi e a schiacciare nella solitudine Falcone non fu certo la limpida critica di Sciascia furono prima i giuristi comunisti sull'Unità, indi il plotone di esecuzione di Magistratura democratica in Csm. Questo però chissà perché non lo dicono, e non è una mia opinione, ma un fatto. Il libro comunque è un utile vademecum. Allotti e Leucci consentono, con un poderoso apparato di note, di leggere pagine bellissime e dimenticate. Ce n'è una che riscatta le segnalate sbandate a sinistra. Sul finire del 1987, sotto la direzione di Ugo Stille, Giuliano Ferrara intervistò Renzo De Felice a proposito del fascismo, di cui è stato il sommo storico. In essa il professore «suggeriva di abolire le norme che vietavano la ricostituzione del partito fascista. Secondo De Felice, era giunto il momento di guardare con maggiore serenità al passato littorio, ormai archiviato per sempre». Non esiste più, che senso ha vietare ciò che non esiste. Non ricordavo, ma sono orgoglioso in questi giorni di avergli rubato l'idea. «Per questo», sostenne De Felice «la contrapposizione fra fascismo e antifascismo non aveva più (già allora! ndr) ragion d'essere e Craxi aveva fatto bene a incontrare, per un'ora e mezza di dialogo sulle riforme istituzionali, Gianfranco Fini, giovane delfino di Giorgio Almirante». Scoccarono fulmini e saette. A cui lo storico rispose con un'altra intervista. È quasi irridente: gli avevano mostrato «una rivista in cui è comparsa una fotografia di una nipote di Mussolini completamente nuda: mi pare che siamo ormai davvero lontani dal momento mitico del fascismo europeo e italiano». Concludeva: «L'opposizione concettuale fascismo-antifascismo, nella nostra realtà storica, impedisce proprio di fare un discorso positivo sulla democrazia e di individuarne i veri valori». Me lo intesto come editoriale. 

·        «L’Ora» della Sicilia.

È sempre «L’Ora» della Sicilia. Un volume scritto dai suoi cronisti. Antonio Calabrò su Il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. L’avventura di un giornale che fu protagonista della vita di una regione e dell’Italia. Pubblichiamo la prima parte del ricordo di Antonio Calabrò: un ponte tra le idee. Fare un buon giornale è come costruire ponti, per rendere più facile e frequente lo scambio di idee, valori, progetti e perché no? emozioni tra parti diverse dell’opinione pubblica. La lunga esperienza d’un piccolo grande quotidiano come «L’Ora», in tutto il corso d’un Novecento tumultuoso, ne è la conferma. E Vittorio Nisticò, nei vent’anni della sua direzione, sino al 1975 e poi nella stagione della presidenza della cooperativa editrice de «L’Ora», è stato sicuramente il migliore interprete dell’anima del giornale, orgogliosa, curiosa, autonoma. Legata, comunque, a un’etica del giornalismo, della politica e della cultura tra le più solide e fertili nel panorama italiano contemporaneo. Un ponte, dunque. Tra la sinistra e le altre componenti di un ampio fronte progressista, comprese le correnti più dinamiche del mondo cattolico. Tra la politica, l’economia e la cultura. Tra la Sicilia e il resto del Paese, tra l’isola fiera, il Mediterraneo e l’Europa. «L’Ora» è stato un giornale radicato soprattutto nelle province occidentali siciliane. Ma mai viziato dal provincialismo. Sono caratteristiche forti. Evidenti fin dalla nascita del quotidiano, il 21 aprile del 1900, per iniziativa dei Florio, imprenditori con il gusto dell’innovazione, anche se un po’ appannata nel tempo da un’infausta attenzione per il nazionalismo torbido e pasticcione di Francesco Crispi e, purtroppo, da un’eccessiva passione per i lussi principeschi. Un giornale, comunque, sempre di idee liberali, attraente per le grandi firme (Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao) e pronto alle relazioni con testate internazionali, da «The Times» di Londra a «Le Matin» di Parigi e al «New York Sun». L’impronta aperta si conferma con la gestione dei Pecoraino, imprenditori sapienti e di solide inclinazioni liberali (erano tra gli editori de «Il Mondo» di Giovanni Amendola). Dopo il ventennio del cupo conformismo fascista, riecco un editore democratico, Sebastiano Lo Verde, genero di Filippo Pecoraino, vocazione netta meridionalista e antifascista, impegnato a ispirare «L’Ora» a «quell’antica idea di libertà», saldando lotte popolari contro l’arretratezza del feudo a slanci per dare all’Autonomia regionale siciliana appena nata valori e strumenti di sviluppo economico, sociale, civile. A metà degli anni Cinquanta il rilancio, con il passaggio a una società editrice vicina al Pci (come per «Paese Sera» straordinario quotidiano romano, «Il Nuovo Corriere» di Firenze apprezzato anche dal cattolico Giorgio La Pira e dal grande poeta Giuseppe Ungaretti e «Milano sera» con la redazione guidata da un poeta, Alfonso Gatto, e affollata da politici e uomini di cultura come Giancarlo Pajetta ed Elio Vittorini, Paolo Grassi e Giorgio Strehler). E l’arrivo, alla direzione, di Vittorio Nisticò. Le scelte di senso sono chiare: politica riformatrice, autonomismo regionale con un robusto tono progressista, impegno antimafia e dialogo aperto con tutte le forze culturali e sociali attive sul fronte del cambiamento e con le componenti del mondo politico che sia a sinistra (i socialisti, che avevano comunque rotto dal ’56 il fronte comune con i comunisti) sia sulla sponda del governo (esponenti della Dc e del Partito repubblicano) mostrano comunque un impegno chiaro verso il rinnovamento della Sicilia e del Sud. L’amicizia personale di Nisticò con Aldo Moro, leader Dc, e con Ugo La Malfa, segretario del Pri, ne è stata a lungo un’esemplare testimonianza.

La speranza di spezzare la povertà dell’isola

«Spezzare la povertà della Sicilia e fare di quest’isola un angolo del mondo dove chi nasce possa vivere ringraziando Dio d’esservi nato. Dovremmo pur essere stanchi di sentirci i professionisti dell’esilio, i paria della nazione...» scrive Nisticò in uno dei suoi editoriali, alla fine degli anni Cinquanta, quando l’Autonomia siciliana comincia a mostrare più i guasti delle clientele che le inclinazioni allo sviluppo economico, l’emigrazione verso le fabbriche del Nord è diventata un fenomeno di massa e le famiglie mafiose si sono messe a trafficare per nuovi affari nelle città, dopo avere devastato le campagne: «La mafia dà pane e morte», è il titolo esemplare d’una pagina della straordinaria inchiesta antimafia del 1958. Cronaca, inchieste, denuncia documentata, scrittura severa. Poca retorica. Mai propaganda. Il Pci, editore sensibile a un ampio sistema di relazioni (la migliore lezione della guida togliattiana) è comunque tenuto a rispettosa distanza: tra i provvedimenti di Nisticò, già all’inizio della sua direzione, c’è il divieto di costituire, all’interno de «L’Ora», una «cellula» del Pci e, per i redattori, d’assumere incarichi di responsabilità negli organismi dirigenti di partito. Mai «suonare il piffero per la rivoluzione», per dirla con un’efficace sintesi di Elio Vittorini. Alcuni di noi redattori e dei commentatori politici avevamo in tasca una tessera del Pci. Parecchi, invece, no. E le cronache e i commenti sono in ogni caso poco ortodossi, attenti alle distinzioni tra buon giornalismo e scelte di partito. Semmai, c’è una severità particolare nei giudizi verso la sponda politica che ci è più vicina: la capacità critica senza pregiudizi né obbedienze di schieramento — ha insegnato Nisticò, spesso con durezza — è il miglior servizio che un giornale di sinistra possa fare alla sinistra stessa. Lezione sempre d’attualità.

Ecco perché «L’Ora» è stato un ponte, in continua manutenzione. Un luogo spregiudicato di dialogo e di confronto. Uno spazio per discutere di rinnovamento politico e di economia e dare respiro a quelle imprese che provano a evitare le secche mafiose e le corruzioni clientelari, gli appalti di favore e le più plateali speculazioni immobiliari, i contributi assistenziali e le illegalità rispetto ai diritti dei lavoratori (ce n’erano, imprenditori così: pochi, ma vitali). Una tribuna libera per personalità della società e della cultura anche di estrazioni e appartenenze diverse rispetto al Pci. Un porto accogliente in cui lo storicismo e il progressismo d’impronta comunista si confrontano con l’illuminismo disincantato e ironico di Leonardo Sciascia. Un’originale miscela molto siciliana e dunque aperta, accogliente, critica. Il volume L’Ora. Edizione straordinaria (pagine XVIII+284, euro 18) sarà presentato martedì 9 novembre, ore 18.30, presso la Sala Buzzati del «Corriere» (via Balzan 3, Milano) su iniziativa della Fondazione Corriere della Sera. Partecipano Monica Maggioni, Piergaetano Marchetti, Sergio Buonadonna e Antonio Calabrò. La diretta si può anche seguire sugli account social di «Corriere» e Fondazione. Nato da una proposta del direttore della Biblioteca centrale della Regione Siciliana, Carlo Pastena, che firma anche un contributo, il volume ospita più di 60 testi e di 270 fotografie del patrimonio custodito dall’istituto, oltre ai saluti del presidente Nello Musumeci, dell’assessore Alberto Samonà e del dirigente generale Sergio Alessandro. I testi sono, tra gli altri, di Sergio Baraldi, Daniele Billitteri, Attilio Bolzoni, Sergio Buonadonna, Antonio Calabrò, Giuseppe Cerasa, Matteo Collura, Vittorio Corradino, Tito Cortese, Gian Mauro Costa, Salvatore Costanza, Giuseppe Crapanzano, Enzo D’Antona, Antonio Di Giovanni, Giuseppe Di Piazza, Adolfo Fantaccini, Franco Foresta Martin, Giovanni Franco, Mario Genco, Nino Giaramidaro, Tano Gullo, Francesco La Licata, Roberto Leone, Giuseppe Lo Bianco, Nicola Lombardozzi, Kris Mancuso, Piero Melati, Francesco Merlo, Claudia Mirto, Gabriello Montemagno, Franco Nicastro, Massimo Novelli, Antonio Padalino, Gaetano Perricone, Gianni Pietrosanti, Alessandra Pinello, Silvana Polizzi, Sandra Rizza, Tanino Rizzuto, Umberto Rosso, Agostino Sangiorgio, Gaetano Sconzo, Sergio Sergi, Marcello Sorgi, Giuseppe Sottile, Alberto Spampinato, Alberto Stabile, Bianca Stancanelli, Francesco Terracina, Guido Valdini, Vincenzo Vasile, Piero Violante, Francesco Vitale.

·        Aldo Cazzullo.

Alessia Ardesi per "Libero Quotidiano" il 2 marzo 2021. Una serie di interviste sull'Aldilà non poteva prescindere dall'autore di A riveder le stelle, il libro sull'Inferno di Dante arrivato a 250 mila copie.

Aldo Cazzullo, l'Aldilà è davvero come lo immaginava il poeta?

«Di sicuro per secoli gli uomini, e non solo gli italiani, hanno pensato l'oltretomba come l'aveva raccontato Dante: i dannati tra le fiamme; il Purgatorio come una montagna da scalare; e poi il volo verso i cieli del Paradiso. Anche se la sua costruzione è molto più complessa».

Ad esempio?

«In fondo all'Inferno non c'è il fuoco. Il fuoco dell'amore divino è in Paradiso. In fondo all'Inferno c'è il ghiaccio, simbolo dell'odio e della disperazione. E Dante mette tra i dannati quattro Papi del suo tempo».

Perché?

«Perché per lui il Papa non doveva essere un sovrano assoluto, ma un'autorità spirituale. Altri due sono in Purgatorio. Uno, Martino IV, tra i golosi: era ghiotto di anguille e vernaccia».

Lei ha intervistato i protagonisti degli ultimi trent' anni. Dove finiranno?

«Chi le interessa?».

Bill Gates.

«Purgatorio. Incontrarlo è stato un po' una delusione. Mi aspettavo il Leonardo da Vinci del nostro tempo; ho trovato un business man. Per un'ora ha parlato solo di soldi e affari. Poi mi ha illuminato con tre profezie secche. Tutte avveratesi, a cominciare dal dominio della Rete».

Keith Richards?

«Vorrà sicuramente andare all'Inferno. L'artista maledetto, il chitarrista dei Rolling Stones mi accolse in una suite da sceicco in un albergo del XVI arrondissement, il più chic di Parigi. Come per farsi perdonare la location milionaria, era vestito da satanista, pieno di gioielli con i teschi».

Rafael Nadal?

«Paradiso. È uno dei miei idoli; e di solito evito di intervistare i miei idoli, per il timore di esserne deluso. Ad esempio ho sempre evitato Paolo Villaggio, di cui mi dicevano che fosse cattivissimo. Nadal però non mi ha deluso. E a differenza di molti campioni paga le tasse nel suo Paese».

Vasco Rossi le ha raccontato gli arresti per droga.

«E i due figli avuti negli stessi giorni da due donne diverse. Il che significa che è un uomo sincero e coraggioso. Certo, un po' di Purgatorio vorrà sperimentarlo».

Gianna Nannini invece le ha detto di essere pansessuale.

«Ma l'eroina della sua infanzia era santa Caterina, nata come lei a Siena, nella contrada dell'Oca».

Steven Spielberg?

«È un po' il Dante del nostro tempo. In Schindler' s List ha raccontato il male che è in noi. Come tutti i veri grandi, è una persona cortese, disponibile. A essere maleducati e scostanti sono quelli che valgono poco».

Daniel Day Lewis?

«Qualche anno di Purgatorio, per aver lasciato una splendida donna come Isabelle Adjani con un fax, non glielo leva nessuno. Anche se ha negato di averlo fatto».

Gérard Depardieu?

«Purgatorio pure lui. Non saprei se tra i lussuriosi o tra i golosi, con papa Martino IV. Comunque è un uomo simpaticissimo».

Marine Le Pen?

«Dissento dalle sue idee, ma è una signora. La intervistai alla vigilia del ballottaggio delle presidenziali 2017. Dell'ex premier di destra Fillon e dei suoi, che sostenevano Macron anziché lei, disse che erano delle merde. Il mattino dopo accadde il pandemonio. Dal suo partito mi tempestarono di chiamate perché smentissi. Lei si limitò a sottolineare che si riferiva all'entourage di Fillon, non agli elettori».

Veniamo ai politici italiani. Dov' è finito Andreotti?

«I politici li giudicano gli elettori da vivi, e Dio da morti. D'istinto tendo a pensarli in Purgatorio, come quasi tutti noi. Andreotti era un grande semplificatore; e il confine tra semplificare e banalizzare è labile. Certo, in confronto a quelli di adesso è un gigante».

Cossiga?

«Uomo di intelligenza superiore. Tormentato da due grandi dolori. La morte di Moro: prima di andarsene, mi disse che a un certo punto del sequestro lo considerarono perduto. E la separazione dalla moglie Giuseppa».

Prima di morire, Edgardo Sogno le rivelò in un libro-intervista che voleva fare davvero un colpo di Stato.

«Non fu una confessione, ma una rivendicazione. Eroe della Resistenza, voleva battersi contro i comunisti come aveva fatto contro i nazisti. Detestava passare per vittima. Ci teneva si sapesse che avrebbe volentieri relegato i capi del Pci su qualche promontorio sardo, per istituire una Repubblica presidenziale sul modello gollista. Velleità, ovviamente. Ma l'idea era quella».

Come riesce a farsi dire tutte queste cose?

«A volte per sfinimento. Paolo Sorrentino non aveva mai raccontato la vera storia della morte dei suoi genitori: asfissiati da una fuga di gas nella casa di montagna. Avrebbe dovuto esserci anche lui, ancora ragazzino; ma per la prima volta aveva ottenuto di seguire il Napoli in trasferta, a Empoli. Per questo dice che Maradona gli ha salvato la vita».

Come se lo immagina l'Aldilà?

«Fatico a pensare che ci sia qualcosa. È una domanda che faccio anch' io a tutti i miei intervistati. Molti ci credono».

E cosa le hanno risposto? Rita Levi Montalcini, ad esempio?

«Lei non ci credeva. Diceva che di noi sopravvivono le buone azioni e i buoni pensieri. Quindi Rita Levi Montalcini vive».

Franca Valeri?

«Arrivata a cent' anni rivendicava le sue radici ebraiche, portava una stella di David al collo, ogni tanto con la figlia adottiva recitava una preghiera. Non era religiosa, ma era curiosa di vedere cosa c'era dall'altra parte. È di Franca Valeri il più bel necrologio di tutti i tempi».

Per chi lo scrisse?

«In morte di Alberto Sordi. "Ciao, Cretinetti. Franca Valeri, Milano"».

Aldo Cazzullo non ha avuto una formazione cattolica?

«Certo che l'ho avuta. Sono nato ad Alba, sono cresciuto con nonni convinti dell'esistenza di Dio così come del fatto che il sole sorge e tramonta. Mio padre non perde una messa, mia madre è ministra di Dio, porta l'ostia consacrata a disabili e grandi anziani».

E non pensa che l'anima sia immortale?

«Già questo non è facile. Ma il cristianesimo va oltre. Prevede la resurrezione della carne. E questo è ancora più complicato da credere. Ogni volta che intervisto un uomo di Chiesa, gli chiedo di provare a convincermi».

Chi è stato più bravo?

«Il cardinale Carlo Caffarra, l'ex arcivescovo di Bologna. Disse che vivere è come scalare una piramide. Lungo tutta l'ascesa vedi una sola faccia; poi arrivato in cima scopri anche le altre dimensioni, guardi il panorama, e tutto appare chiaro. Tre anni fa, Caffarra è andato a verificare se la sua intuizione fosse vera».

Lei ha scritto un libro con il cardinale Scola.

«Sarebbe stato uno splendido Papa. Ma dopo un intellettuale come Ratzinger, il cui pontificato purtroppo non si è concluso nel migliore dei modi, il Conclave ha scelto la discontinuità. E poi gli italiani erano troppo divisi».

Guardi che Ratzinger è stato un grandissimo Pontefice.

«Grandissimo teologo. Che ha affidato il governo a persone sbagliate».

E Giovanni Paolo II?

«L'ho incontrato due volte, ad Assisi e a Parigi per le Giornate mondiali della gioventù. Aveva un carisma tanto forte che pareva di poterlo toccare».

Esiste un leader politico con un carisma così?

«Erdogan. Dissento pure da lui. Ma ha quella forza morale che vedi nelle persone che sono state in galera per le loro idee. E una stretta di mano calda, da pranoterapeuta». Cosa pensa di papa Francesco?

«Un uomo abituato a comandare. Diverso da come viene raffigurato. Sarà ricordato come un grande Pontefice, anche se sul tema dei migranti ha perso un po' la sintonia iniziale con gli italiani».

Lei ha scritto che la più grande virtù della Chiesa è aver capito che l'uomo non è un angelo.

«Certo. L'uomo è fatto di carne e sangue, ha bisogni e desideri; e la Chiesa lo sa benissimo. Esistono anche uomini cattivi, però non sono la maggioranza. La maggioranza è egoista; ma può essere indotta al bene, se questo la fa sentire migliore».

Quale altro sacerdote le è piaciuto?

«Don Oreste Benzi. Ho passato una vigilia di Natale con lui e i suoi seguaci sulla tangenziale di Mestre, dove tentava di recuperare le prostitute nigeriane, con la sua tonaca da prete preconciliare, piena di patacche».

Come finì la serata?

«A cena, nell'unico posto ancora aperto: l'autogrill. Stavamo per addentare un panino, sa quelli con i nomi immaginifici tipo Capri o Fattoria, e don Benzi grida: "Fermi tutti, cosa fate?". Ci fece appoggiare i panini sul trespolo dell'autogrill, li benedisse tracciando furiosamente ampi segni di croce nell'aria, poi concluse: "Ora possiamo mangiare". Un pazzo di Dio».

Uno che vorrebbe intervistare?

«Ho passato una bellissima giornata con padre Eligio. Mi raccontò tutto: Rivera, la droga, suo fratello don Gelmini A una condizione: poter rileggere il testo. Il mattino dopo chiamò: "Bellissimo, ma potrà pubblicarlo solo dopo la mia morte". Tra sei mesi fa novant' anni, mi sa che ci seppellisce tutti. Vittorio Feltri ha potuto scrivere alcune sue confidenze, beato lui».

Lei ha paura della morte?

«Abbastanza. Da quando, una decina di anni fa, ho realizzato di non essere immortale».

Chi vorrebbe rivedere nell'Aldilà?

«Nonno Lorenzo, ragazzo del '99 nella Grande Guerra. Nonno Aldo, macellaio. Le nonne. E Lucio Dalla. Era una persona straordinaria. Dio gli avrà senz' altro perdonato il vizio di dire qualche bugia, che diventava nel suo racconto una meravigliosa verità».

·        Aldo Grasso.

Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 6 settembre 2021. Ebbene sì, lo ammetto: «Non è la Rai» non mi piaceva, inutile fingere il contrario. Con gli occhi di oggi (Mediaset ha proposto una maratona sul canale Extra, 163 di Sky, interrotto dalle promozioni di Giorgio Mastrota), è tutto un altro programma ed è possibile condividere molti degli elogi che hanno accompagnato l'anniversario (9 settembre 1991). Allora ero prigioniero di alcuni giudizi e di non pochi pregiudizi. Il programma in sé non era molto diverso dall'intrattenimento facile: cruciverbone, giochini telefonici, canzoni, balletti, discoteca, Enrica Bonaccorti, Paolo Bonolis Per l'esplosione delle cento adolescenti in costume, acerbe e maliziose, si parlava di lolitismo (pregiudizio), di traviamento (al Corriere arrivavano decine e decine di lettere di genitori disperati e un critico alle prime armi ne era colpito), di strategia berlusconiana per intontire il Paese (altro pregiudizio), di deriva televisiva. Pareva che «Non è la Rai» fosse solo la risposta Fininvest a «I ragazzi del muretto» della Rai o alla «Piscina» di Alba Parietti. Tempi in cui per «L'istruttoria» di Giuliano Ferrara si parlava di Circo Barnum. I metri di paragone erano altri: «Avanzi», «Mai dire gol», per qualcuno anche «Twin Peaks». La disputa più avvincente era questa: la famosa coppia Arbore-Boncompagni non lavorava più insieme e in molti credevamo (critici ben più titolati di me) che la «tv intelligente» fosse prerogativa del primo e il suo contrario del secondo (senza capire che quella spudoratezza stilistica stava cambiando la tv, nel suo profondo). E poi i giornali erano pieni della cerimonia che ogni giorno si ripeteva davanti agli studi della Safa Palatino, a Roma. Centinaia di ragazze che aspiravano a far parte del cast, madri agguerrite che cercavano di imporle o di trascinarle via, interventi di psicologi e sociologi, il Telefono Azzurro bollente. Difficile non tenerne conto. Sbagliavo? Amo i film dell'errore.

·        Alessandra De Stefano.

Dagospia il 26 novembre 2021. Dal profilo Facebook di Marino Bartoletti. In questa foto il Direttore di Rai Sport ero io: ma Alessandra De Stefano era una delle scelte professionali più belle che avessi fatto. Ora è il mio quarto "allievo" (il terzo assunto personalmente) che diventa direttore di questa testata così importante, così delicata, così inquieta: ed è una riflessione nella quale l'orgoglio si mescola inevitabilmente con i brividi dell'anagrafe. Alessandra però è la prima donna chiamata a questo incarico: e ciò mi rende doppiamente felice. Quando presi la guida di Rai Sport nel 1994 (proprio in questi giorni) la trovai in un angolo coi pugni chiusi. Pochi mesi dopo la assunsi: alla faccia dei lacciuoli che quest'azienda meravigliosa e a volte scellerata mette sul proprio cammino e su quello degli altri. L'anno successivo (fra un po' di brontolii) era accanto a me alle Olimpiadi. Semplicemente perché lo meritava. È di gran lunga una delle più belle "penne" della redazione: per eleganza, per cultura, per sensibilità, per amore verso quello che fa. Col tempo ha raffinato altre attitudini che sono sotto gli occhi di tutti: sempre all'insegna della qualità, della competenza, della creatività, dell'umanità e all'occorrenza anche della grinta. Il Circolo degli Anelli è stato il suo ultimo gioiello. Ora ha davanti a sé un enorme montagna da scalare. Per esperienza le posso dire che meno compromessi accetterà, meno finti amici accontenterà, meno "brutte abitudini" asseconderà, meno consigli ascolterà (compresi... i miei) e più probabilità avrà di tenere saldo il timone verso la rotta che sceglierà. Ricordo che una volta, nel mio ufficio, da grande - e fiera - appassionata di cose napoletane mi recitò per intero "A livella" di Totò. Le rammento, anzi le "aggiorno" per l'occasione, l'ultimo verso "Nuje simmo serie, appartenimmo à 'o sport". Buon vento amica mia

·        Alessandro Sallusti.

DAGONEWS il 13 maggio 2021. Dopo 2 anni di "Giornale", Sallusti è finalmente ‘’Libero’’! Dal 1 giugno sarà alla guida del quotidiano della famiglia Angelucci al posto di Pietro Senaldi, nonché direttore editoriale de “Il Tempo”. Si tratta di un ritorno a casa: dal gennaio 2007 al 15 luglio 2008, è stato il direttore responsabile di ‘’Libero’’. E si ritroverà Vittorio Feltri al fianco, con cui ha a lungo collaborato e talvolta anche polemizzato, che ha così commentato: "SI È DIMESSO? FORSE SI ERA ROTTO I COGLIONI". E ha aggiunto: "Non ho ricevuto alcuna comunicazione e quindi non posso confermarlo né smentirlo, ma posso dire che se venisse qui sarei molto lieto, perché è un bravo giornalista col quale ho lavorato molti anni, e ne ho sperimentato le capacità". Per la direzione del Giornale, circolano già i nomi di Paolo Liguori e di Augusto Minzolini.

AdnKronos il 13 maggio 2021. "Non ho ricevuto alcuna comunicazione e quindi non posso confermarlo né smentirlo, né non so nulla di un'eventuale trattativa, ma posso dire che se venisse qui sarei molto lieto, perché è un bravo giornalista col quale ho lavorato molti anni, e ne ho sperimentato le capacità". Così Vittorio Feltri all'Adnkronos, commentando i rumors secondo i quali Alessandro Sallusti starebbe per lasciare la direzione del Giornale per passare alla guida di "Libero". "Ho lavorato con piacere con lui sin dai tempi del Resto del Carlino, del Giorno e della Nazione, quindi la sua vicinanza non solo non mi arrecherebbe nessun fastidio, ma forse anche qualche conforto", prosegue Feltri. Che sulla notizia bomba lanciata da Dagospia, secondo cui Sallusti si sarebbe dimesso dal Giornale dopo 12 anni, aggiunge: "Non saprei, ma se si è dimesso, magari semplicemente ne ha pieni i cogl..., la spiegazione potrebbe essere questa. Ma faccio solo ipotesi, non ne ho idea", conclude.

Giovanna Predoni per tag43.it il 13 maggio 2021. Alessandro Sallusti lascia Il Giornale. La notizia, anticipata da Dagospia, ha colto di sorpresa anche gli stessi giornalisti del quotidiano. Un po’ perché, negli ultimi dei suoi 12 anni di direzione, le sue dimissioni erano state più volte evocate, senza che mai nulla si concretizzasse. Sallusti, nell’ordine, veniva dato come candidato di Forza Italia alle politiche, poi candidato sindaco di Milano. Infine, sicuro partente in virtù di una ritrovata intesa con Vittorio Feltri, cui lo lega quel rapporto di odio-amore, che gli psicanalisti chiamerebbero uccisione-esaltazione del padre, in questo caso professionale. Quindi le dimissioni hanno veramente sorpreso tutti. In primis perché dopo tanti falsi allarmi si sono verificate. Poi perché è partita la corsa all’esegesi. Perché adesso, in un momento in cui la pubblicazione del libro intervista a Palamara ne ha aumentato lo spessore e la visibilità? Cosa ha in mente? Quale sarà la sua prossima destinazione? Domande per ora senza risposta se non, giura chi lo conosce bene, che Sallusti ha già in tasca la prossima destinazione. All’interno de Il Giornale, poi, i suoi cronisti si sbizzarriscono: lo fa perché non vuole essere lui a firmare il massiccio piano di tagli post pandemici di cui il bilancio della casa editrice (come di tutte, del resto) necessita. Lo fa perché le sirene di Feltri che lo ha (ri)chiamato erano tali che lui non ha potuto resistervi. Ma, citando il Nietsche del “non si torna mai dove si è stati felici”, questa interpretazione sembra poco plausibile. Ce n’è una terza, ed è forse quella che ha determinato la sua decisione di smettere. L’esperienza politica di Berlusconi è davvero arrivata al capolinea, e senza una guida Forza Italia è un partito destinato a scomparire nella diaspora dei suoi rappresentanti. Altre volte, quando Sallusti manifestava insofferenza, da Arcore arrivava la telefonata che lo convinceva a restare, magari promettendogli magnifiche sorti e rinnovato sostegno al suo giornale. Oggi, purtroppo, Berlusconi non è ad Arcore ma al San Raffaele: e quella telefonata che altre volte ne bloccava e rabboniva le intenzioni non può arrivare.

"Non lo vediamo da una settimana". Dimissioni Sallusti, il comitato di redazione de “Il Giornale”: “Notizia non confermata, nessuno ci risponde”. Redazione su Il Riformista il 13 Maggio 2021. E’ giallo sulle dimissione da direttore de “Il Giornale” di Alessandro Sallusti. La notizia, anticipata da Dagospia, non ha trovato, al momento, conferme all’interno della testata giornalista. “La notizia data da Dagospia (come quella del Covid di Sallusti, se ricordate) non è al momento stata confermata né dal direttore, né dall’ad della SEE (la società editrice, ndr) Andrea Favari – si legge in una nota diffusa dal comitato di redazione-. Come cdr quello che stiamo facendo è chiamare i diretti interessati e, al momento, Sallusti non ha risposto al cellulare, mentre Favari, intercettato in sede, non ha voluto commentare. All’interno della redazione, anche i nostri colleghi che più sono vicini a Sallusti non hanno alcuna informazione, né ci hanno riferito di segnali di questi ultimi giorni”. “Noi stessi del cdr – prosegue la nota -abbiamo visto il direttore giovedì scorso e non avremmo scommesso un centesimo su una cosa di questo tipo. Per quanto riguarda le indiscrezioni, in rete ce ne sono quante volete – si conclude il comunicato -. Il nostro compito resta quello di insistere per avere informazioni verificate e vi terremo informati non appena ne avremo”. Sallusti è direttore dal settembre 2010, quando era subentrato a Vittorio Feltri. Dal 2017 è anche direttore del sito di informazione on line InsideOver, affiliato con il quotidiano. Con Luca Palamara, ex membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ha pubblicato a gennaio il libro “Il Sistema: Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana” che ha generato un vero e proprio terremoto tra le toghe italiane. “Siamo caduti dalle nuvole, lui non ci risponde al telefono. Stiamo facendo il giornale in autogestione”, riferisce all’Agi un giornalista del Giornale. “Non ho ricevuto alcuna comunicazione e quindi non posso confermarlo né smentirlo, né non so nulla di un’eventuale trattativa, ma posso dire che se venisse qui sarei molto lieto, perché è un bravo giornalista col quale ho lavorato molti anni, e ne ho sperimentato le capacità”, ha invece spiegato Vittorio Feltri all’Adnkronos commentando l’eventualità che Sallusti abbia lasciato per passare alla guida di Libero, subentrando al direttore responsabile Senaldi. “Ho lavorato con piacere con lui sin dai tempi del Resto del Carlino, del Giorno e della Nazione, quindi la sua vicinanza non solo non mi arrecherebbe nessun fastidio, ma forse anche qualche conforto”, prosegue Feltri, che sui motivi delle dimissioni ha concluso: “Non saprei, ma se si è dimesso, magari semplicemente ne ha pieni i cogl…, la spiegazione potrebbe essere questa. Ma faccio solo ipotesi, non ne ho idea”.

Editoria: Sallusti lascia la direzione de Il Giornale. (ANSA il 14 maggio 2021) Alessandro Sallusti lascia la direzione de Il Giornale. Lo annuncia la Società Europea di Edizioni, editrice del quotidiano, in una nota. 'La Società Europea di Edizioni, editrice de Il Giornale, e il suo direttore Alessandro Sallusti hanno risolto oggi, dopo dodici anni di proficua collaborazione, il rapporto di lavoro - si legge nella nota - L'editore Paolo Berlusconi e il presidente Alessia Berlusconi ringraziano il direttore Sallusti per l'impegno profuso in tutti questi anni' (ANSA).

Sallusti lascia ilGiornale. Redazione il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. La Società Europea di Edizioni e il direttore Sallusti hanno risolto oggi, dopo dodici anni di proficua collaborazione, il rapporto di lavoro. "La Società Europea di Edizioni, editrice de ilGiornale, e il suo direttore Alessandro Sallusti hanno risolto oggi, dopo dodici anni di proficua collaborazione, il rapporto di lavoro. L'editore Paolo Berlusconi e il presidente Alessia Berlusconi ringraziano il direttore Sallusti per l'impegno profuso in tutti questi anni". Lo annuncia una nota della società.

Da "il Giornale" il 17 maggio 2021. La redazione del Giornale, con professionalità e senso di responsabilità, ha assecondato il management dell'azienda durante questo difficile cambio di direzione, evitando sia di polemizzare per la particolare strategia di comunicazione adottata, sia di dar seguito a inevitabili gossip e alle piccole provocazioni della rete. Abbiamo continuato a produrre il Giornale migliore possibile, esattamente come abbiamo fatto per tutti i mesi a precedere, nonostante la «solidarietà», il trasloco e la difficile situazione di smartworking emergenziale. I risultati si sono visti, anche in termini di copie recuperate in edicola (cosa di cui ringraziamo i lettori). Ora, passato lo choc, siamo fiduciosi del fatto che azienda e proprietà compiranno tutti i passi giusti per scegliere e fornirci un nuovo direttore, adeguato alla sfida con la concorrenza. E al nuovo direttore parliamo fin da subito: ti aspetta un compito impegnativo, perché questa testata ha un patrimonio da difendere. Un marchio portatore di una tradizione prestigiosa, i suoi lettori fedeli e attenti, una redazione che ha saputo affrontare le sfide più impegnative, le stesse che ora attendono anche te, verso il 50esimo compleanno del Giornale, al quale mancano tre soli anni. Ecco perché, per rispetto di questa storia e all'indomani dell'uscita improvvisa del precedente direttore - appresa su internet e rimasta in sospeso per 24 ore contro ogni consuetudine - la nostra fiducia a te non sarà scontata. Dipenderà dal tuo impegno per valorizzare questo patrimonio e per difenderlo da ogni insidia; dalla tua capacità di traghettare il Giornale in un mercato editoriale che cambia con nuove tecnologie; e dal tuo impegno a tutelare l'organico di una redazione che si è fortemente spesa per la salvaguardia dell'azienda e dell' informazione dei lettori, e lo ha fatto nell' unico modo possibile: incrementando la produttività a fronte dei pesanti sacrifici economici e numerici richiesti dall' azienda negli ultimi due anni. Il Comitato di redazione.

Una sfida che mi onora: ora restate al nostro fianco. Livio Caputo il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. Cari lettori sono di nuovo con voi, sia pure per breve tempo. Dopo le dimissioni di Alessandro Sallusti si è venuto a creare al vertice del nostro Giornale un vuoto temporaneo che bisognava colmare nell'attesa dell'arrivo di un nuovo direttore. L'editore e i miei colleghi mi hanno chiesto di uscire temporaneamente dal mio ritiro forzato e di assolvere questo compito. Ne sono non solo onorato, ma anche commosso e spero di poter contribuire a un sollecito ritorno alla normalità. Quale ultimo dei mohicani, come qualcuno mi chiama, sono felice di rendere questo servizio al nostro Giornale, con cui mi sono identificato fin dalla sua nascita e a cui ho dedicato tanta parte della mia vita professionale. Con questo spirito, vi invito a rimanere saldamente al nostro fianco come è tradizione da quasi 50 anni, nella certezza che noi continueremo a batterci per i valori per cui siamo nati. E, come sempre, buona lettura.

La notizia nel giorno dell'ufficialità della direzione affidata a Minzolini. È morto Livio Caputo, l’ex direttore ad interim de “Il Giornale” dopo le dimissioni di Sallusti. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Giugno 2021. È morto Livio Caputo, giornalista, aveva appena ricoperto la carica di direttore ad interim del quotidiano Il Giornale. Proprio oggi era stata data la conferma della nuova direzione affidata ad Augusto Minzolini. A dare la notizia l’agenzia di stampa AdnKronos. Il giornalista aveva 87 anni. Classe 1933, Caputo lavorava dal 1992 lavora al Giornale, dove scriveva di esteri e teneva una rubrica di risposte alle missive dei lettori dal titolo “Dalla vostra parte”. Era nato a Vienna da padre piemontese di ascendenze napoletane e madre triestina. Si era laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Torino. La sua carriera nel mondo dell’informazione era iniziata come corrispondente da Bonn, in Germania, per il Corriere d’Informazione e il settimanale Gente. Quindi a Londra come inviato dei quotidiani Il Resto del Carlino e La Nazione e del settimanale Epoca. Nel 1965 a New York divenne capo della redazione dei periodici della Arnoldo Mondadori Editore, rientrando in Italia cinque anni dopo come inviato di Epoca, di cui diventa per un breve periodo direttore nel 1976. Quindi il primo approdo a Il Giornale guidato da Indro Montanelli, mentre nel 1979 passò al quotidiano La Notte di cui divenne direttore fino al 1984, quando il giornale fu ceduto al gruppo Rusconi. Caputo passò al Corriere della Sera dove divenne capo dei servizi esteri, quindi nel 1992 il ritorno a Il Giornale come vicedirettore, quotidiano per cui collabora ancora oggi. Per oltre 40 anni è stato tra gli esponenti più importante del movimento liberale italiano, prima nel PLI e poi in Forza Italia. Col partito di Berlusconi nel 1994 è stato eletto diventando capogruppo vicario e sottosegretario agli Affari Esteri. Nel 1997 è entrato nel Consiglio comunale di Milano dove è rimasto fino al 2006. Caputo aveva assunto la direzione ad interim dopo le dimissioni a sorpresa di Sallusti, a mettà maggio. Sallusti è diventato direttore di Libero tornando alla casa “che hai già abitato e che vent’anni fa hai contribuito ad arredare, al fianco dell’architetto Vittorio Feltri”, aveva scritto nel suo primo editoriale lo stesso Sallusti commentando una scelta “che fa un certo effetto, anche se da allora il mondo è cambiato assai più di quanto sia cambiato in questi travagliati anni lo spirito di Libero e del suo fondatore”. L’addio dopo 12 anni. A Libero Sallusti è affiancato dal condirettore Pietro Senaldi e il direttore editoriale Vittorio Feltri. “Starà a noi – ha scritto Sallusti nel primo editoriale sulle vicende interne alla destra italiana – raccontare il travaglio necessario per provare a partorire, dopo dieci e passa anni di gestazione, un nuovo e credibile governo alternativo alla sinistra in salsa grillina che già ha fallito al suo primo, recente, tentativo targato Conte due”. A Il Giornale invece la direzione è stata affidata ad Augusto Minzolini.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Fine del risiko nei giornali di destra. Augusto Minzolini nuovo direttore del Giornale: “In redazione timori di un piano lacrime e sangue”. Vito Califano su Il Riformista il 10 Giugno 2021. È Augusto Minzolini il nuovo direttore de Il Giornale. A dare la notizia in esclusiva è stato Dagospia. Lo stesso sito di notizie aveva scritto lo scorso 26 maggio lo scoop della direzione passata a Nicola Porro, vice-direttore del quotidiano e anchorman di Quarta Repubblica. Il conduttore aveva smentito, almeno momentaneamente. A questo punto sembrano non esserci più dubbi: l’erede di Alessandro Sallusti è Minzolini. Livio Caputo ha ricoperto intanto la carica di direttore ad interim. Secondo quanto appreso da Il Riformista la redazione era più propensa al profilo di Porro, percepito come più indipendente, che alla soluzione interna Minzolini, vista invece come più filo-aziendalista. La redazione avrebbe a questo punto timore di un ridimensionamento della testata attraverso un piano lacrime e sangue. Fine dunque del risiko dei giornali di destra, esploso con le dimissioni di Sallusti lo scorso 18 maggio. Sallusti è diventato direttore di Libero tornando alla casa “che hai già abitato e che vent’anni fa hai contribuito ad arredare, al fianco dell’architetto Vittorio Feltri”, aveva scritto nel suo primo editoriale lo stesso Sallusti commentando una scelta “che fa un certo effetto, anche se da allora il mondo è cambiato assai più di quanto sia cambiato in questi travagliati anni lo spirito di Libero e del suo fondatore”. L’addio dopo 12 anni. A Libero Sallusti è affiancato dal condirettore Pietro Senaldi e il direttore editoriale Vittorio Feltri. “Starà a noi – ha scritto Sallusti nel primo editoriale sulle vicende interne alla destra italiana – raccontare il travaglio necessario per provare a partorire, dopo dieci e passa anni di gestazione, un nuovo e credibile governo alternativo alla sinistra in salsa grillina che già ha fallito al suo primo, recente, tentativo targato Conte due”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell'articolo di Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 21 giugno 2021. Minzolingua. "Travaglio...patacca del giornalismo...si diletta a leggere il casellario giudiziario tranne il lungo capitolo dedicato a lui alla voce 'diffamazione'" (Augusto Minzolini, neodirettore del fu Giornale, 16.6). Il mio lungo capitolo consta di una multa di 1000 euro per aver diffamato Previti (reato tecnicamente impossibile). Il suo, oltre alle diffamazioni e a un abuso d'ufficio prescritto, consta di una condanna a 2 anni e mezzo per peculato per aver derubato la Rai di 65 mila euro di spese ingiustificate in 18 mesi. Peculate, peculate, qualcosa resterà.

L'ex direttore del Tg1 è l'erede di Alessandro Sallusti. Chi è Augusto Minzolini, il nuovo direttore del quotidiano Il Giornale. Vito Califano su Il Riformista il 10 Giugno 2021. Fine della rivoluzione dei giornali della destra italiana: Augusto Minzolini è il nuovo direttore de Il Giornale. L’ex direttore del TG1 diventa quindi l’erede di Alessandro Sallusti alla guida del quotidiano della famiglia Berlusconi. A dare il là all’avvicendamento le dimissioni di Sallusti, lo scorso maggio, tornato a Libero. Livio Caputo ha ricoperto il ruolo di direttore ad interim nel frattempo. Dagospia ha riportato per prima la notizia come aveva scritto della direzione affidata a Nicola Porro, vicedirettore vicario del quotidiano e anchorman di Quarta Repubblica, trasmissione di Rete4, poi smentita. Minzolini è nato a Roma nel 1958. Ha svolto il praticantato presso l’agenzia di stampa Asca, e ha collaborato con Panorama. È giornalista professionista dal 1980. Fino agli anni Novanta ha scritto per La Stampa, dove era diventato editorialista nel 1997. “Minzolini si è distinto per il suo giornalismo sensazionalistico, indagatore del retroscena politico (che è stato chiamato “minzolinismo”), attirandosi le critiche di molti (soprattutto di chi lo considera politicamente schierato a destra)”, riporta la Treccani. È diventato direttore del Tg1 dal giugno del 2009 fino al dicembre 2011. Alle elezioni politiche del 2013 è stato eletto Senatore con Il Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi. Si è dimesso dalla carica nel 2017. Minzolini è comparso anche in due film di Nanni Moretti, Io sono un autarchico del 1976 ed Ecce Bombo del 1978. Alcuni suoi scoop: l’accordo per eleggere Massimo D’Alema alla Presidenza della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali; la cena tra Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini, Massimo D’Alema e Franco Marini sul patto della crostata; l’intervista per Passioni a Bettino Craxi ad Hammamet, in Tunisia. Minzolini è stato spesso criticato durante la sua direzione del Tg1, spesso aperto, nell’edizione delle 20:00, con suoi editoriali. Un comunicato congiunto dei comitati di redazione delle tre testate Rai nel 2009 protesta apertamente: “Siamo tutti TG1, siamo tutti, noi giornalisti della Rai, contro le scelte editoriali di chi occulta le notizie e rende agli italiani un pessimo servizio pubblico radiotelevisivo – si legge nella nota – il compito del direttore di una testata del servizio pubblico, tenuta a raccontare e rappresentare, con tutti i punti di vista, i fatti che hanno rilevanza nella vita del Paese. Un impegno che mai può venir meno e mai può permettersi di tacere notizie o impedire una loro corretta e completa lettura”. Minzolini è stato rimosso dalla direzione del TG1 il 13 dicembre 2011, il suo ricorso respinto. È risultato il primo dei non eletti per il Pdl in Liguria, ma viene proclamato senatore subentrante da Berlusconi. Successivamente, con la fine del Pdl, ha aderito a Forza Italia. E’ stato critico nei confronti del Patto del Nazareno tra Matteo Renzi, allora segretario del Partito democratico, e Berlusconi. Condannato in via definitiva dalla Cassazione per peculato, il Senato ha votato la revoca del mandato parlamentare sulla base della legge Severino, salvo poi riconoscere l’esistenza di fumus persecutionis nei confronti del giornalista. Minzolini è stato a lungo legato in una relazione con la parlamentare Gabriella Giammanco.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Quel vento di libertà che non si può ignorare. Augusto Minzolini il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. IlGiornale ha scolpita sotto la testata la frase "dal 1974 contro il coro". E così continuerà ad essere, senza se e senza ma. Anche perché mai come ora la cultura "liberale" anima l'opinione pubblica. Due giorni fa ci ha lasciato Livio Caputo, una delle firme storiche del Giornale da quando fu fondato da Montanelli. Livio ha diretto in queste settimane la testata dal letto di morte, dimostrando quell'attaccamento al mestiere proprio di un grande professionista, di quelli che non esistono più. Tutto ciò per dire che il mestiere del giornalista nella sua interpretazione migliore può essere intrapreso, svolto, coniugato con una sola parola: passione. È un mestiere che ti prende la vita e a cui dedichi una vita. Una vocazione, insomma, una missione. Per cui è un paradosso che nell'epoca dell'Informazione, mentre l'intero pianeta si regge sulla circolazione delle notizie sul web, sulle tv, sugli smartphone, sistema essenziale per la salvaguardia della democrazia dove c'è (o per esigerla dove non c'è), motore indispensabile per lo sviluppo dell'economia, i giornali siano in crisi. Una triste realtà. Magari perché si tratta di strumenti obsoleti, ma non credo. Magari perché sono fatti male, forse. Magari ipotesi più probabile - perché non sono più capaci di ascoltare e comunicare con i lettori, obnubilati da vecchie e nuove ideologie, da un «politically correct» asfissiante che ha fatto il suo tempo, da troppi falsi totem. La verità è che il giornalismo spesso si parla addosso. E a volte nella sua autoreferenzialità ignora la realtà. Eppure basterebbe rifarsi all'antico motto, che recitava: «La notizia prima di tutto». Invece, la notizia talvolta viene «mediata», «piegata» a fini di parte, o, peggio, «ignorata». È quello che avviene nei regimi conclamati, in quelli nascosti, e in quelli che hanno una natura tutta particolare, cioè quelli «mediatici» o, peggio ancora, mediatico-giudiziari, quelli che trasformano l'informazione in un coro che esulta sotto il patibolo o la ghigliottina di turno. Una parolaccia per qualsiasi liberale. Un insulto per Il Giornale che ha scolpita sotto la testata la frase «dal 1974 contro il coro». E così continuerà ad essere, senza se e senza ma. Anche perché mai come ora la cultura «liberale» anima l'opinione pubblica. Saranno state le chiusure del lockdown, la voglia di risorgere, di reagire, nell'economia e nella società, sta di fatto che nel vecchio continente spira un vento di libertà quando i cittadini sono chiamati a dire la loro: dalla Madrid di Isabel Diaz Ayuso alla Sassonia della Cdu. Anche il Belpaese ne ha un incontenibile bisogno. Il colore viene dopo. È una condizione dell'anima che incoraggia gli individui a rischiare, a mettersi in gioco come negli anni della Ricostruzione del secondo dopoguerra. La politica e i media non possono ignorare quel vento, pagherebbero il fio di essere a loro volta ignorati. Il che tradotto significa una burocrazia efficiente, un fisco non opprimente, una solidarietà che non si traduca in un assistenzialismo fine a se stesso. E ancora, libertà significa pure avere alleati che perseguano gli stessi principi e salvaguardino gli stessi diritti, a cominciare dalle democrazie occidentali. Ed anche interlocutori che rispettino gli stessi standard igienico-sanitari e non nascondano verità inconfessabili. Il Covid-19 è un monito per il futuro. Per cui è finita la stagione dei Marco Polo nostrani, che per qualche interesse più o meno nascosto, non portano l'Italia in Cina, ma semmai fanno il percorso opposto, importando la Cina in Italia. Da ultimo la condizione pregiudiziale per risorgere: c'è bisogno di una giustizia giusta, che dia fiducia, che non terrorizzi ma che garantisca il cittadino. Che non sia uno strumento di parte, politico, per colpire l'avversario, come raccontano le ultime rivelazioni e testimoniano gli ultimi fatti, ma che salvaguardi i diritti di tutti. Un obiettivo da ottenere ad ogni costo, se non basta la via parlamentare, anche attraverso i referendum: perché no? È l'ottica in cui questo Giornale darà il suo contributo, innanzitutto verso le culture che gli sono più affini, di un centro che guarda verso la destra. Confrontandosi, però anche, all'insegna del pragmatismo e del dialogo, con chi ha opinioni diverse. Sempre nel rispetto, ma senza nutrire paure o timori. P.s. Appunto, rispetto. A Marco Travaglio, che millanta una discendenza diretta da Montanelli e sprizza veleno da tutti i pori perché da mesi fa a botte con la notizia che Giuseppe Conte non è più a Palazzo Chigi, si attaglia un giudizio che il grande Indro dedicò ad un giornalista ben più degno di lui: «Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante». Ad una tale patacca del giornalismo nostrano (non ricordo scoop del personaggio a parte le «carte» di qualche Pm amico), che si diletta a leggere il casellario giudiziario tranne il lungo capitolo dedicato a lui alla voce «diffamazione», non dedicherò più una parola.

Il neodirettore del “Giornale” si racconta. Intervista ad Augusto Minzolini: “Chi mi attaccava sui giudici, ora la pensa come me…” Susanna Schimperna su Il Riformista il 24 Giugno 2021.  La nomina a direttore de Il Giornale era nell’aria ma lui non ci credeva affatto, quindi aveva organizzato un lungo soggiorno a Minorca: tre mesi in cui si sarebbe dedicato a un libro, il primo, perché «io sono un archivio di aneddoti e voglio scriverli». È dovuto tornare di corsa e il libro naturalmente dovrà aspettare, perché non è che si possano fare mille cose insieme, non va bene, non ha senso. Per esempio come direttore non scriverà fondi quotidiani come è tradizione dei giornali di centrodestra, dato che, realisticamente: «Sfido tutti ad avere ogni giorno qualcosa da dire, e poi il direttore che parla è autorevole proprio perché non lo fa tutti i giorni, lo fanno gli editorialisti. Montanelli diceva la sua ogni giorno? Ma lui era lui, ce ne fossero…».

È un mistero, Augusto Minzolini. Che si abbiano o no pregiudizi ideologici su di lui, di fatto gli si deve riconoscere una carriera brillantissima accanto anche a persone di idee molto diverse (Paolo Mieli che lo assunse a La Stampa, Ezio Mauro che lo promosse inviato), e se i procedimenti giudiziari a suo carico (diffamazione, violazione del segreto istruttorio, peculato – da direttore del Tg1 –, abuso d’ufficio) non sono stati pochi e hanno fatto un rumore assordante, è stato assordante pure il rumore prodotto dal Senato quando, Minzolini senatore di Forza Italia, riconobbe che contro di lui ci fosse fumus persecutionis. Un po’ spiazzanti sono poi certe posizioni in contrasto con la linea del suo amato Silvio: nel ’94 si dichiara contrario a ogni tipo di privacy per i politici, perché «un politico è un uomo pubblico e in ogni momento della sua giornata deve comportarsi come tale» e vent’anni dopo critica duramente il Patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. C’è anche quel buon umore incrollabile, quell’espressione di divertita superiorità più che di ironico distacco. Non sembra mai distaccato, Augusto Minzolini. Proprio per niente. Piuttosto, è come se partecipasse sempre a un gioco appassionante in cui sa di non poter perdere, il che può risultare molto irritante. Figuriamoci poi per chi lo detesta.

Questa nomina quanta gente ha fatto innervosire?

Francamente non penso siano stati tanti. Certo, mi aspettavo Travaglio. Mi ricordo una scena di Un americano a Roma, Sordi faceva una specie di balletto alle prove e a un certo punto diceva «Qui c’è l’applauso» rivolgendosi alla compagnia, invece alla prima scatta una sonora pernacchia. Io sono quello che fa la pernacchia.

La polemica tra te e Marco Travaglio sembra infinita.

Montanelli un giorno disse, dedicato a Scalfari: «Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante». Travaglio pensa di essere discepolo di Montanelli, ma figurati. L’ho querelato perché mi ha detto che sono più ignorante di un usciere Rai. È stato prosciolto perché ha sostenuto che il suo non era giornalismo ma satira. Un anno fa, ho fatto dei tweet in cui scrivevo «Travaglio faccia di c…», qualcuno mi ha avvertito che stava per querelarmi e allora io ho rilanciato: «C’è chi pensa che quando parlo di Travaglio dica faccia di culo, ma no, lungi da me. Io penso che abbia una faccia da capriolo con quegli occhioni con cui ti guarda». Passano due mesi, mi chiamano dal commissariato per dirmi che mi ha querelato. Per “faccia di c…” e non solo, pure per “faccia da capriolo”.

E ridi. Se ne resta stupefatti. A parte le vicende giudiziarie, c’è stata dieci anni fa la rimozione dal Tg1, ci sono stati e ci sono attacchi e critiche di ogni tipo.

Ma io gli attacchi li capisco, come capisco chi lecca. Fa parte della natura umana. Mi aiuta a restare sereno il sentirmi nel giusto, la convinzione di aver sempre fatto quello che secondo me andava fatto. E poi sono aperto al dialogo, dico quello che penso e non mi lascio condizionare per niente dagli atteggiamenti che la gente ha nei miei confronti.

Persone che si sono ricredute su di te, che da nemiche sono diventate amiche o viceversa…?

Proprio diventate nemiche, no. Al massimo gente che nei momenti complicati non mi ha creduto, mentre mi aspettavo altro. Ma sono delusioni che non contano. Invece ho trovato molti che si sono ricreduti in positivo. In sessant’anni, sono l’unico che si trova a essere per la magistratura un pregiudicato e per il Parlamento un perseguitato. C’è una sentenza della Cassazione che prevedeva l’applicazione della legge Severino e il Parlamento si è pronunciato in modo diverso, rispetto poi a un membro dell’opposizione che sulla carta non avrebbe dovuto avere la maggioranza. Con voto palese, il 16 marzo 2017 il parlamento si è assunto la responsabilità di dire che quella sentenza (sentenza passata in giudicato, per cui ero stato dichiarato decaduto da senatore) non convinceva, che nasceva da un atteggiamento pregiudiziale nei miei confronti. Personaggi come Ichino o Tronti, un operaista, si sono alzati e hanno votato contro. In quell’occasione si è esposta anche Rosaria Capacchione, la giornalista de Il Mattino che si era tanto occupata di camorra ed era stata minacciata per questo. Sono rimasto sorpreso: i politici erano andati a leggersi le carte, cosa che spesso i giornalisti non fanno. In quel periodo io ero contro il Patto del Nazareno, avevo detto che Grasso, presidente del Senato, non mi era piaciuto perché aveva condotto il dibattito sulle riforme riducendo lo spazio di discussione ed eliminando una serie di emendamenti, e avevo ipotizzato pure l’impeachment per Napolitano… Tutto questo significa che c’è una separazione della politica dalle vicende giudiziarie più in Parlamento che nella magistratura, o almeno così è stato in quell’occasione.

Contestatissima, la tua direzione del Tg1, anche al di là delle questioni giudiziarie. Oggi che puoi dire, avevi sbagliato?

Rivendico tutto quello che ho fatto e ti dico un’altra cosa, divertente. Tutti ce l’avevano con i miei “famigerati” editoriali, ma dopo anni ho ritrovato che questi tutti dicevano le cose che all’epoca dicevo io, su Craxi, Napolitano, l’Europa, la giustizia. Pensavano che parlassi imbeccato da Berlusconi, invece in un’intercettazione si sente lui che mi chiama e mi dice «Direttorissimo, ma perché quegli editoriali? Chi te lo fa fare? Lascia perdere, ti metti nei guai». Questa cosa non l’hanno mai scritta.

Sei stato accusato di essere talmente pro-Berlusconi da minimizzare una sua battuta antisemita, oscurare l’inchiesta sugli scandali sessuali che lo vedevano protagonista, mandare in diretta un suo discorso facendo slittare il Tg1… Ma lo amavi proprio, il Silvio?

Penso che è uno che ha lasciato un’impronta, e a me piacciono i personaggi così. Sono pochi i leader politici che caratterizzano un’epoca. Lui l’ha caratterizzata. Ha inventato il bipolarismo in Italia, per dirne una. L’ho accostato a De Gaulle e non ho cambiato idea. Berlusconi ha sempre assunto una posizione responsabile, in ogni situazione, a costo di rimetterci in termini di consenso. La demonizzazione che ne è stata fatta nasce dalla mania italiana di criminalizzare l’avversario e cercare di colpirlo attraverso la magistratura. Uno dei magistrati che lo giudicarono in Cassazione scrisse pure che bisognava far fuori Minzolini. Come si fa a dubitare che fosse un’operazione politica?

Tu sei contrario al ritorno in magistratura di un giudice che per un certo tempo abbia fatto politica…

Di più. Secondo me un magistrato neanche dovrebbe entrarci, in politica. Ci fu un provvedimento, coi grillini d’accordo, per cui un magistrato non avrebbe potuto tornare in magistratura dopo essere stato in politica. Sembravamo tutti d’accordo ma il provvedimento si arenò alla Camera. Senza fare nomi, c’era un presidente della Commissione giustizia della Camera che era un magistrato, e si diceva che avesse intenzione di andare in Cassazione. Ci scrissi un pezzo su Il Giornale, Marco Rizzo lo riprese e scrisse la stessa cosa. Non chiamarono me ma lui, dicendogli ma dai, ma ti pare… Termina la legislatura, il provvedimento non viene approvato e la presidente (sì, era una donna) finisce in Cassazione.

Tra i vari procedimenti giudiziari, ce n’è uno che ti ha dato particolarmente fastidio, che hai trovato davvero ingiustificato?

Quello di truffa ai danni della Rai, delle spese fasulle, del peculato. Non me l’aspettavo. Facevo solo pranzi, assolutamente previsti. Per mesi mando queste spese per avere il rimborso, nessuno obietta nulla e dopo quindici mesi nasce il caso. Sapevo che qualcuno aveva spedito qualcun altro a fotocopiare le mie ricevute, ma non mi ero preoccupato per niente dato che sapevo che tutto era in regola. Invece Di Pietro fa un esposto, e io per reazione, incazzato, ridò tutti i soldi, prima ancora che mi arrivasse l’avviso di garanzia. Vengo rinviato a giudizio e, nell’ordine: la Corte dei conti mi dà ragione, l’Ordine dei giornalisti mi dà ragione, il giudice del lavoro obbliga la Rai a restituirmi i soldi. Vengo assolto in primo grado. In secondo grado, con questo presidente ex sottosegretario, che avviene? In quattro ore, senza verificare, studiare, richiamare i testimoni, ribaltano la sentenza. Siamo in un sistema giudiziario in cui crediamo di essere i pronipoti di Beccaria, si ripete sempre che devi essere colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio… ma se mi hanno assolto in primo grado, il ragionevole dubbio ti pare che non ci sia? Ci riempiamo solo la bocca di parole.

Dato che hai parlato di pranzi e anche di Montanelli, lo sai che diceva che con i politici non bisogna mai andare a cena?

Infatti io difficilmente ci vado a cena. Cinque o sei volte al massimo in tanti anni, e ho cominciato ad occuparmi di giornalismo politico nell’80.

E allora dove e come nasce, questo “minzolinismo”? Come fai a portare gli interlocutori a raccontarti retroscena, incontri che magari dovrebbero rimanere segreti, intenzioni e pensieri?

Mi muovo. Vado nei posti. Faccio domande precise e mi ricordo sempre di essere un giornalista. Con il lockdown, in Parlamento andavano non più di due, tre giornalisti. Uno di quelli ero, sono sempre io. Molti usano il telefono, io uso il motorino. Se stai alla scrivania, non succede niente. Ai neodeputati viene detto «Attenti a Minzolini, quello scrive tutto». Ovvio. Il “minzolinismo”, neologismo degli anni 90, ha origine però, in realtà, dal bisogno di decrittare i discorsi dei politici. Forlani, ad esempio. «Potrei parlare per ore con voi giornalisti senza dirvi niente», mi disse durante un’intervista dal barbiere della Camera, mentre gli lavavano i capelli e gli facevano quel colore un po’ azzurrino che gli piaceva. Così bisognava tradurre. La differenza tra ieri e oggi è che una volta il politico parlava in modo poco chiaro ma sapeva bene quello che voleva fare, quindi tu dovevi capire e riportare il senso di ciò che ti diceva e anche di ciò che avveniva. Considero mio maestro, in questo, Guido Quaranta. La Seconda Repubblica, invece… È arrivata molta gente che non aveva mai fatto politica, un magma a cui dovevi e devi dare forma. È necessario che ce l’abbia tu, in testa, quello che sta accadendo, e che addirittura riesca a precedere gli eventi. Abbiamo un mondo, quello grillino, che in Parlamento c’è andato attraverso un clic.

A proposito dei 5 Stelle, che ne pensi di Conte?

Ha fatto la sua fortuna nel ruolo di mediatore in governi molto diversi, è una sua qualità e da questo punto di vista è capacissimo. Immaginare però che possa fare anche il leader politico e testimoniare un’identità precisa mi pare difficile. Di Maio prende decisioni politiche, dice per esempio basta con la gogna. Conte no, balbetta, vuole tenere insieme un vasto mondo. Pensiamo a quando questi due stati d’animo, quello che vuole mediare e quello che ha nel Dna il “vaffa”, si confronteranno… Ora temo si stiano trasformando nel tonno della famosa scatoletta che volevano aprire.

Il minzolinismo è fatto di gesti e parole colti al volo. Quegli aneddoti che hai detto che metterai nel libro. Ne racconti qualcuno?

Forse la più antica “minzoliniata” è quella che ha come protagonista Andreotti. La Dc era allora a Palazzo del Gesù: lo beccai sulla scalinata e non c’era verso che parlasse. Mancavano quattro gradini e lo implorai: «Mi dica una cosa, qualunque cosa, almeno mi fa diventare famoso». Lui si divertì, pronunciò una battuta che ora non ricordo e che riportai. Un’altra volta, quando non avevo casa a Roma, scesi all’Hotel De Russie e lì trovai Rutelli che faceva i massaggi, così scrissi un pezzo sui massaggi per dimagrire di Rutelli. Un’altra volta a New York, nella hall di un albergo, avevo vicino D’Alema che non parlava e non voleva parlare. Però arrivano le Coca Cola che abbiamo ordinato e lui commenta: «Qua a New York anche la Coca Cola è più buona». Come facevo a non scriverlo? S’arrabbiò moltissimo, non parlò a nessun giornalista per dieci giorni, finché Rondolino non organizzò una cena di riconciliazione.

Il tuo primo fondo su Il Giornale è dedicato a un vento liberale che non si può, dici, ignorare, e che tradotto significa burocrazia efficiente, fisco non opprimente, solidarietà che non sia assistenzialismo fine a se stesso, rispetto di tutti dei principii democratici. Hai dichiarato poi che i giornali devono “tornare a parlare alla gente” (lo stesso avevi detto quando ti eri insediato al Tg1). Ma non lo fanno già, e il rischio non è di ipersemplificare e mirare alla pancia?

Io penso di averlo fatto allora in maniera diversa. Proponevo, al Tg1, filmati curiosi, un po’ strani. Mi rompevano le scatole ma ora lo fanno tutti. È un modo, questo dei cortometraggi su cose bizzarre, per portare la gente ad ascoltare poi anche le cose serie. Siamo bombardati da notizie e la carta stampata è superata, siti e talk prendono spunto dai giornali, rilanciano quello che è scritto sui giornali. Il Giornale, poi, si occuperà molto di politica estera, coniugandola con quella italiana e con gli interessi della gente.

Chi vorresti intervistare?

Chiunque sia capace di lasciare un segno (lo so, è un po’ la mia fissazione). I politici italiani li conosco tutti, quindi direi Trump, Biden, Putin, Steve Jobs magari ma purtroppo è morto, Bill Gates che ha grandi doti di previsione, basti pensare a quando e come aveva parlato di virus. Però Gates non ha il fascino di Jobs, che ha saputo coniare frasi come “Stay hungry, Stay foolish ” o “L’unico modo di fare un ottimo lavoro è amare quello che fai”, frasi-slogan che ancora girano, che ci ricordiamo.

Ridi così spesso, sorridi quasi sempre. Ma cos’è che ti diverte tanto?

La natura umana. È da quella che poi hanno origine gli aneddoti e anche le vicende che a volte sono paradossali, difficili da affrontare. Ma lì devi decidere, o piangi o ridi. Io, visto che sono ottimista, ne vedo l’aspetto comico. E rido. Susanna Schimperna

Alessandro Sallusti per "il Giornale" il 17 maggio 2021. A volte le cose sono più semplici di come appaiono o di come si vorrebbe farle apparire. E questo mio ultimo giorno da direttore del Giornale dopo dodici anni di servizio è esattamente così. Per provare a spiegarlo prendo in prestito un capitolo dell'ultimo romanzo di uno dei miei scrittori preferiti, Fabio Genovesi (Il calamaro gigante, edizione Feltrinelli) in cui l'autore (che dopo la passione per la scrittura ha quella per il ciclismo, per cui c'è da fidarsi) fa girare la storia attorno al concetto che «il più grande regalo che possiamo fare a noi stessi, forse, è mai dire ormai». Ecco, giunto dove sono, potrei dire «ormai sono arrivato», oppure «ormai sono vecchio per tentare nuove avventure». Ma anche «ormai» mi sono accasato nella famiglia di Paolo Berlusconi e di sua figlia Alessia (i miei editori) che è una famiglia estremamente accogliente, generosa e amante della libertà. Così come «ormai» mi è stato concesso il privilegio di dare del tu al presidente Silvio Berlusconi, cioè a uno dei due o tre straordinari uomini che il nostro secolo ci ha regalato e a cui la storia, ne sono certo, prima o poi riconoscerà i meriti in tutti i campi. Ecco avrei potuto vivere tranquillamente di «ormai», ma un giorno, anche grazie a un fortunato incontro, mi si è insidiato nella testa un altro «ormai» che ha avuto la meglio: ormai, dopo dodici anni, era ora di rinunciare a tante certezze e affrontare nuove sfide, senza rancore né particolari calcoli. E quindi eccoci qui, al famoso articolo di commiato dai lettori che nessun direttore vorrebbe mai scrivere ma che io oggi mi sento di fare in totale serenità. Posso solo dire che sono stati dodici anni fantastici. Certo, nel mentre ho subito un arresto per reato di opinione, mi hanno messo due bypass e due stent coronarici, ho vissuto la più grave crisi dell'editoria di sempre e ovviamente un pizzico di Coronavirus. Ma sia io sia il vostro Giornale siamo ancora qua, e questo è quello che conta. Insieme ai colleghi di questa redazione, ho difeso a spada tratta libertà politiche e culturali perennemente sotto attacco. Li ringrazio tutti e auguro loro ogni bene. In quanto all'editore, beh, ogni parola in più potrebbe sembrare ruffiana o di circostanza. Preferisco dimostrare in futuro con i fatti la stima che ho maturato nei loro confronti. «Ormai» è fatta, un saluto a tutti, ma soprattutto a voi lettori. Grazie.

Alessandro Sallusti per "Libero quotidiano" il 18 maggio 2021. Tornare in una casa che hai già abitato e che vent' anni fa hai contribuito ad arredare, al fianco dell'architetto Vittorio Feltri, fa un certo effetto, anche se da allora il mondo è cambiato assai più di quanto sia cambiato in questi travagliati anni lo spirito di Libero e del suo fondatore. Ora l'editore, che ringrazio per avermi scelto come nuovo direttore responsabile, ci sprona a nuove sfide, sia sulla carta che sul web. E lo fa nel momento in cui il paese, grazie ai vaccini e a un governo che sta mantenendo le poche promesse fatte, sta per riprendere la corsa dopo aver inanellato, per via del Covid, giri su giri in regime di safety car, l'auto che nei gran premi entra in pista per rallentare i piloti quando accade un brutto incidente. Quale occasione migliore, quindi, per serrare le fila, immaginare e programmare i prossimi anni di questo giornale che uscito dalla sua spensierata giovinezza si appresta ad entrare nell'età matura, che non vuole dire né paludata né omologata ma consapevole. Consapevole di potere e di dovere avere un ruolo centrale e autorevole nell'informazione dei prossimi mesi e anni. Che saranno anni complicati e decisivi anche per l'area culturale e politica di riferimento dei suoi lettori. Chi vincerà il braccio di ferro tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni per il primato del Centrodestra? Quanto Forza Italia sarà capace di mantenere una centralità utile a tenere insieme la coalizione? La prima risposta a queste domande è semplice: affari loro. Ma la seconda ci riguarda da vicino, perché starà a noi raccontare il travaglio necessario per provare a partorire, dopo dieci e passa anni di gestazione, un nuovo e credibile governo alternativo alla sinistra in salsa grillina che già ha fallito al suo primo, recente, tentativo targato Conte due. Come è nello spirito di questo giornale racconteremo tutto senza censura alcuna perché in puro stile feltriano qui si resiste a tutto meno che alle notizie, ci riserviamo il diritto di critica nei confronti di chiunque e se sarà il caso pure di sberleffo. Ma non vogliamo distruggere nulla: responsabili sì, conformisti mai.

Dagospia il 21 maggio 2021. Da Un giorno da Pecora. Alessandro Sallusti, neo direttore di Libero dopo dodici anni al Giornale, oggi a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha raccontato la telefonata che Silvio Berlusconi ha provato a fargli per tentare di convincerlo a rimanere nel quotidiano di famiglia. “Io ho avvisato il mio editore, Paolo Berlusconi, il quale ha avvisato Silvio, che poi mi ha telefonato. Non è stata una chiamata piacevole, non per i toni che col Presidente sono sempre gradevoli, ma perché non è facile dirgli di no”. Ha sentito Berlusconi dispiaciuto? “Si, mi piace credere che fosse sincero quando ha fatto un ultimo tentativo per farmi cambiare idea”. Le ha proposto più soldi? “Non era quella la questione, abbiamo avuto un bel rapporto per 12 anni. Per me è stato un momento drammatico”, la sua chiamata “è stato il passaggio più difficile. Ho capito che sarei andato via quando sono riuscito ad attaccare il telefono”. Come ha esordito il Cavaliere al telefono? “Mi ha detto: 'Alessandro cosa mi combini? Penso che non sia vero quello che mi hanno detto...' E io gli ho risposto: 'presidente, mi dispiace ma è vero'”.

Dagonews il 17 maggio 2021. La decisione di Alessandro Sallusti di lasciare "il Giornale" per andare a dirigere "Libero", rivelata in esclusiva da Dagospia, è stata ampiamente vivisezionata: lo ha fatto per soldi? Per affrontare una nuova sfida professionale? Per l'ennesima staffetta con Vittorio Feltri? Nessuno si è chiesto, invece, perché la famiglia Angelucci abbia deciso di cambiare cavallo. Il business del senatore di Forza Italia Antonio Angelucci, editore e patriarca della famiglia che controlla il quotidiano, è concentrato nella sanità, tra case di cura riabilitative e cliniche private convenzionate sparpagliate in tutta Italia. Quando la pandemia sarà alle spalle, ma la questione salute sarà ancora al centro del dibattito pubblico e dell'azione della politica, bisognerà farsi trovare pronti. A quel punto - deve essersi chiesto Angelucci - non sarà meglio avere un quotidiano filo-governativo o comunque "dialogante" invece di un foglio "da battaglia"? Negli ultimi anni, complice la graduale decadenza di Silvio Berlusconi, Alessandro Sallusti ha portato "il Giornale" su posizioni più moderate e meno urlate. I suoi editoriali pro-Draghi sono stati notati dagli addetti ai lavori così come la sua presenza (ormai sdoganata) in trasmissioni "de' sinistra" come "Otto e mezzo". La gestione Feltri-Senaldi, invece, ha fatto di "Libero" un foglio ideologico, da polemica quotidiana (spesso strumentale), con una marcata vena anti-governativa. Ma su quella linea si è assisa già "la Verità" di Belpietro che ha trovato la sua fortunata dimensione "a destra", con un sostegno al duplex Salvini-Meloni, con paginate anti-gender, pro-life e catto-conservatrici. Sallusti dovrà riportare "Libero" a una moderazione conservatrice, più funzionale agli affari della famiglia Angelucci e al dialogo con il potere, evitando - ad esempio oggi - le interviste-siluro a Giulio Tremonti contro Draghi, il governo o il Recovery plan. E visto che "Libero" vende soprattutto a Milano, dove chi compra i giornali non è un antagonista anti-sistema ma tendenzialmente un borghese moderato, la svolta "soft" richiesta dagli Angelucci è un modo per risintonizzarsi con i propri aficionados (e magari recuperare copie).  

DAGOREPORT il 31 maggio 2021. Il compleanno di Giampaolo Angelucci, primo dei tre figli di Antonio che detiene la Tosinvest ed è l'editore dei quotidiani di famiglia Libero, Il Tempo e i Corrieri del Centro Italia, svelato dal Fatto Quotidiano, svoltosi domenica scorsa nella villa ai Castelli romani di Antonio Angelucci, deputato di Forza Italia e re delle cliniche private nel Lazio, ha colpito soprattutto per la presenza dei due Matteo: Salvini e Renzi. Che non si sono incrociati in quanto il Capitone e Francesca Verdini sono arrivati in ritardo avendo inforcato la strada sbagliata mentre il senatore di Rignano ha sostato pochi minuti per gli auguri (ricordiamoci che gli Angelucci all’epoca silurarono Maurizio Belpietro dalla direzione di “Libero”, reo di attaccare Renzi. E sbocciò “La Verità”). Scrive il quotidiano di Travaglio: “Attovagliati nella lussuosa villa c' erano solo pochi altri eletti tra cui l' amica di famiglia e assessore all' Istruzione in Lombardia, Melania Rizzoli, mentre non erano presenti giornalisti, nemmeno i due direttori di Libero: né il nuovo arrivato Alessandro Sallusti né Vittorio Feltri, messo un po' all' angolo nel quotidiano di viale Majno dopo l' arrivo dell' ex direttore del Giornale”. Aggiungiamo altri presenti al compleanno di Giampaolo: Maria Grazia Cucinotta, Michaela Biancofiore fresca di abbandono di Forza Italia (ma è stata adeguatamente sostituita dalla ondivaga Renata Polverini), e tanti altri amici e dipendenti. Del resto, per le casse degli Angelucci è un periodo d’oro. Il business della sanità privata, dagli ospedali iper-tecnologici alle case di riposo per anziani fino alla diagnostica complessa, ha visto decollare gran parte degli introiti negli ultimi anni. Un business ricco e in cui la politica ha un ruolo determinante. Di qui, l’arrivo di Alessandro Sallusti a “Libero” per riportare il giornale sulla retta via governativa, poco battuta dagli editoriali fumantini di Vittorio Feltri e Piero Senaldi. Ma le mire degli Angelucci vanno oltre la futura cessione de “Il Giornale” di Berlusconi (l’altro candidato è Belpietro). La recente sconfitta di Rcs/Cairo nell’arbitrato Blackstone (che chiede un totale di 600 milioni) e il conseguente e prossimo provvedimento della Consob di Paola Savona per mancato accantonamento, ha risvegliato l’insanabile voglia di ‘’Corriere della Sera’’. E non solo dalle parti della Banca Intesa by Carlo Messina ma – pare, sembra, dicono – anche dalla famiglia Angelucci. Una mission impossible, soprattutto se viene tentata da chi è fuori dal potere finanziario meneghino. Gli Angelucci lo sanno benissimo e qui ha origine il loro rapporto con la famiglia Rotelli che con il Gruppo San Donato è di fatto il primo operatore della sanità privata italiana per fatturato - il colpo da maestro fu l’acquisizione del San Raffaele di Milano. Il fondatore del gruppo, Giuseppe Rotelli, detto “Suo Sanità”, è scomparso dopo una lunga malattia nel 2013, lasciando la guida al figlio Paolo. Padre-padrone per trent’anni, Giuseppe, uno degli uomini più liquidi d’Italia, la notorietà la raggiunse quando divenne azionista forte di Rcs. Nel luglio 2019 l'ex ministro Angelino Alfano viene nominato presidente del Gruppo e Paolo Rotelli va a ricoprire il ruolo di vicepresidente insieme a Kamel Ghribi. E’ interessante cosa scrive il sito Twnews.it il 4/9/2020 dell'uomo d’affari tunisino con residenza svizzera pressoché sconosciuto dalle nostre parti: “Come L’Espresso ha potuto accertare, la famiglia proprietaria del San Raffaele ha investito 10 milioni di euro nella Gk investment holding, una società elvetica che fa capo a Ghribi, nel frattempo nominato vicepresidente del policlinico San Donato. Da almeno un anno il fiduciario con base a Lugano fa la spola con il Nord Africa e il Medio Oriente con l’obiettivo di trovare nuovi clienti per gli ospedali dei Rotelli. Clienti ricchi o ricchissimi che certo non mancano tra gli sceicchi dei Paesi del Golfo Persico. È questa la nuova frontiera del gruppo, che ha già aperto una filiale a Dubai per gestire il business del turismo sanitario verso Milano. Anche l’accordo con la Libia per curare i miliziani feriti può servire a promuovere l’immagine del San Donato nel mondo arabo. A guidare l’offensiva diplomatica è proprio Ghribi, 58 anni, che ama raccontarsi come un manager dalla grande esperienza internazionale, con una carriera alle spalle in campo petrolifero. In rete, l’uomo d’affari tunisino si presenta con una lunga biografia che però, tra tante informazioni, omette proprio il capitolo che riguarda i suoi vecchi rapporti con la Libia. Nell’aprile del 1999, il futuro consulente dei Rotelli rivelò al Corriere della Sera di aver organizzato un incontro tra Gheddafi e l’ex ambasciatore statunitense Herman Cohen. Un incontro segreto che, almeno nelle intenzioni, doveva servire ad aprire un canale diplomatico tra due Paesi che all’epoca si trovavano in uno stato di guerra non dichiarata. In quel periodo, Ghribi era anche vicepresidente del Cotonificio Olcese, società quotata in Borsa di cui il governo libico possedeva una quota del 20 per cento. Nel consiglio d’amministrazione dell’Olcese aveva trovato posto anche Mohamed El Huwej, che in qualità di direttore della holding Lafico gestiva gli investimenti esteri del regime di Gheddafi. A più di vent’anni di distanza il filo che lega Ghribi alla Libia non si è ancora spezzato. Questione di soldi. E di ospedali”. A questo punto, per l’irresistibile ascesa di Ghribi, un ostacolo può arrivare dall’altro vicepresidente ed erede Paolo Rotelli – ma Kamel è molto supportato dalla vedova Rotelli, Gilda Gastaldi. Magari, chissà, in tandem con gli Angelucci, gira la ruota anche del Corrierone. Chi vivrà, vedrà….

Terremoto nel quotidiano. Alessandro Sallusti lascia il Giornale, dopo 12 anni dimissioni da direttore. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 13 Maggio 2021. Il direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti, lascia il quotidiano di proprietà di Silvio Berlusconi dopo 12 anni. La notizia è stata riportata da Dagospia, che riporta anche di un “caos” in casa Berlusconi per la successione alla direzione editoriale del giornale. Sallusti era direttore dal settembre 2010, quando era subentrato a Vittorio Feltri. Dal 2017 è anche direttore del sito di informazione on line InsideOver, affiliato con il quotidiano. Con Luca Palamara, ex membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ha pubblicato a gennaio il libro “Il Sistema: Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana” che ha generato un vero e proprio terremoto tra le toghe italiane. Per la sua successione si pensa a una soluzione interna come Nicola Porro, vicedirettore del quotidiano e conduttore di Quarta Repubblica su Rete 4, oppure l’inviato Stefano Zurlo e l’editorialista Augusto Minzolini. Tra gli esterni i più accreditati sono Mario Giordano e Pietro Senaldi. Sallusti dovrebbe lasciare per “un altro incarico” non ancora noto, non è escluso che vada a dirigere un altro giornale di centrodestra. Secondo l’Agi a Sallusti la famiglia Angelucci avrebbe proposto all’ormai ex direttore de Il Giornale la direzione di tutte testate del Gruppo, tra cui i quotidiani Libero e Tempo. “Siamo caduti dalle nuvole, lui non ci risponde al telefono. Stiamo facendo il giornale in autogestione”, riferisce all’Agi un giornalista del Giornale. “Non ho ricevuto alcuna comunicazione e quindi non posso confermarlo né smentirlo, né non so nulla di un’eventuale trattativa, ma posso dire che se venisse qui sarei molto lieto, perché è un bravo giornalista col quale ho lavorato molti anni, e ne ho sperimentato le capacità”, ha invece spiegato Vittorio Feltri all’Adnkronos commentando l’eventualità che Sallusti abbia lasciato per passare alla guida di Libero, subentrando al direttore responsabile Senaldi. “Ho lavorato con piacere con lui sin dai tempi del Resto del Carlino, del Giorno e della Nazione, quindi la sua vicinanza non solo non mi arrecherebbe nessun fastidio, ma forse anche qualche conforto”, prosegue Feltri, che sui motivi delle dimissioni ha concluso: “Non saprei, ma se si è dimesso, magari semplicemente ne ha pieni i cogl…, la spiegazione potrebbe essere questa. Ma faccio solo ipotesi, non ne ho idea”. Alle 19.30 di oggi è in programma per la scuola di formazione politica “La forza delle competenze” un incontro online in cui Sallusti dovrebbe presentare il suo libro con Palamara, ma non è chiaro se l’ex direttore sarà presente o meno. “La presentazione del libro – spiega Ugo Cappellacci, deputato e promotore della scuola – arricchisce un percorso di crescita, rivolto a molte persone che vogliono impegnarsi nella vita pubblica o semplicemente seguire con maggiore consapevolezza le dinamiche della politica”.

Massimiliano Cassano. Napoletano, Giornalista praticante, nato nel ’95. Ha collaborato con Fanpage e Avvenire. Laureato in lingue, parla molto bene in inglese e molto male in tedesco. Un master in giornalismo alla Lumsa di Roma. Ex arbitro di calcio. Ossessionato dall'ordine. Appassionato in ordine sparso di politica, Lego, arte, calcio e Simpson.

Da "adnkronos.com" il 16 maggio 2021. "Oggi è l’ultimo giorno al Giornale, da domani sono direttore di Libero". Alessandro Sallusti, in collegamento con Domenica In, certifica il passaggio dalla direzione del Giornale a quella di Libero. "Sono grato alla famiglia Berlusconi che mi ha dato libertà e per la generosità. Credo che dopo 12 anni sia giusto cambiare anche per il Giornale, serve energia nuova", dice Sallusti. C'è un futuro in politica? "Già nel giornalismo ho fatto danni, per il bene del paese è meglio che mi astenga dalla politica...", ironizza.

Chi è Alessandro Sallusti, vita privata e carriera: perché ha lasciato “Il Giornale”. Cristina La Bella il 17/5/2021 su Urbanpost.it. «Oggi è l’ultimo giorno al Giornale, da domani sono direttore di Libero». Così Alessandro Sallusti, in collegamento con «Domenica In», ospite da Mara Venier, ha ufficializzato una notizia che circolava sul web da giorni. «Sono grato alla famiglia Berlusconi che mi ha dato libertà e per la generosità. Credo che dopo 12 anni sia giusto cambiare anche per il Giornale, serve energia nuova», ha detto Sallusti, che ha escluso un futuro in politica: «Già nel giornalismo ho fatto danni, per il bene del paese è meglio che mi astenga dalla politica…». Ma scopriamo tutto su di lui: dalla lunga carriera alla vita privata, condividendo anche qualche curiosità. Alessandro Sallusti è nato il 2 febbraio del 1957, sotto il segno dell’Acquario, a Como. Giornalista professionista dal 1981 e opinionista italiano, dal 2010, è stato direttore responsabile del quotidiano il «Giornale» fino alle sue dimissioni, rassegnate il 13 maggio del 2021. Perito chimico-tessile ha lavorato nel 1987 a «Il Giornale» con Indro Montanelli, poi è passato a «Il Messaggero». Nel corso della sua carriera ha collaborato anche con l’«Avvenire» e il «Corriere della Sera». È stato vicedirettore de «Il Gazzettino di Venezia» e direttore de «La Provincia di Como». È stato condirettore e, dal gennaio 2007 al 15 luglio 2008, direttore responsabile, di «Libero», che ha lasciato per diventare editore e direttore de «L’Ordine di Como», il quotidiano al quale aveva lavorato da giovane, lasciato poi nel 2009. Quello stesso anno è tornato a ricoprire il ruolo di condirettore de «Il Giornale» accanto a Vittorio Feltri. Dal 24 settembre 2010 Sallusti ne è stato direttore responsabile. Si è aggiudicato, tra le polemiche, nel 2011 il premio Penisola Sorrentina “Arturo Esposito” per il giornalismo. Dal 2017 Sallusti è stato direttore del sito di informazione on line «InsideOver», collegato alla versione online de «Il Giornale». Qualche giorno fa Sallusti ha ufficialmente lasciato la direzione de «Il Giornale», incarico da lui ricoperto per 11 anni, per divenire direttore di «Libero». Ma perché? Anche i suoi colleghi ne sono all’oscuro: «Non ne sappiamo davvero niente. Abbiamo letto adesso», hanno detto Nicola Porro, Laura Cesaretti, Vittorio Macioce a “Il Manifesto”. E proprio quest’ultimo ha rilanciato una «croccante» indiscrezione che spiegherebbe i motivi dell’addio. «Una offerta irripetibile: fare il super direttore di Libero e del Tempo, unendo le due realtà sotto un’unica cabina di regia. Un esperimento senza precedenti che rilancia il quotidiano romano, evidentemente non decollato come auspicato sotto la guida di Franco Bechis: la nuova syndacation dovrà fare da contraltare a quella del gruppo Gedi, tra Repubblica e Stampa. Sarebbe un accordo win/win che ha messo tutti d’accordo: Vittorio Feltri, Pietro Senaldi e lo stesso Bechis. "Un grande progetto di rilancio"», scrive appunto “Il Manifesto”, citando una fonte interna attendibile.

Alessandro Sallusti è legato dal 2016 a Patrizia Groppelli. Vita privata? Che sappiamo? Alessandro Sallusti è assai riservato: «Sono molto timido, introverso e anche noioso e l’idea di dover rispondere a domande che non riguardano il mio lavoro m’imbarazzo», ha detto il giornalista nel salotto di “Io e te” qualche tempo fa. Per nove anni, fino al 2016, è stato legato sentimentalmente all’esponente di Fratelli di Italia Daniela Santanchè. La sua attuale compagna è Patrizia Groppelli. I due convivono a Milano e stanno insieme da quasi 5 anni. «La vita con lei è bella. Ci siamo incontrati in maniera rocambolesca quando entrambi avevamo problemi con i rispettivi partner. Abbiamo iniziato a frequentarci, la prima fuga d’amore in Puglia», ha detto Sallusti ospite sempre da Pierluigi Diaco su Raiuno. 

Matteo Fais per pangea.news - 3 luglio 2018. Parlandogli, ho come la sensazione di conoscerlo da sempre. Ma è solo dopo, ripensandoci, che comprendo: in realtà lo frequento a sua insaputa da anni, da che lo leggo sui fondi di “Il Giornale” e “Libero”. Ho studiato la sua prosa, le sue frasi, i punti e le virgole. Non so se ne renda conto, ma c’è un qualcosa di intimo e bonario nel modo in cui mi si rivolge, un senso di comprensione paterna. Per una volta penso che sia bello entrare in contatto con uno dei propri miti, “di solito sempre deludenti” dice lui. Non è questo il caso. L’uomo che si definisce noioso, chiuso, poco propenso al contatto e per niente brillante come nei suoi scritti, ha invece in sé una forza inscalfibile che manifesta con compostezza e insolita umiltà. Come spesso mi capita quando incontro qualcuno che, pur senza averlo fatto intenzionalmente, mi ha dato molto, sento una strana forma di gratitudine nei suoi confronti di cui un po’ mi vergogno. In fondo, sono pochi quelli, almeno tra i giornalisti, verso cui senta di avere un debito: lui, Indro Montanelli, Oriana Fallaci, Vittorio Feltri. Degli altri salverei forse Travaglio e Scanzi. Quando finalmente riesco a mettermi in contatto con Alessandro Sallusti, lo travolgo con una mitragliata di domande. Non so dove abbia trovato la pazienza per starmi dietro. Scusandomi, senza che mi venisse chiesto, gli ho detto che mi serviva per tracciare un ritratto umano a tutto tondo. Era vero. Ancora di più, però, desideravo semplicemente parlargli e così mi sono diviso tra il ruolo di intervistatore e quello di spettatore di un momento che aspettavo da tempo.

Direttore, non le viene mai la voglia di mollare tutto? La criticano, la insultano, le danno del servo, la costringono agli arresti domiciliari. Come fa a sopportare tutto questo odio? Non si ritrova mai esausto e privo delle forze necessarie per continuare?

No, mai. Ho avuto una grande fortuna nella vita, fare il mestiere che sognavo fin da bambino. Di solito a quell’età si desidera diventare un astronauta, un calciatore, un attore. Io sognavo di fare il giornalista. E, per tutta una serie di fortuite coincidenze, ci sono riuscito. Conosco invece molte persone, amici, che nella vita hanno avuto successo, ben più di me, eppure quasi tutti sono tormentati dal pensiero di non aver fatto esattamente ciò che avrebbero voluto. Io, al contrario, ho avuto questo privilegio. Se mi dovessero chiedere “Hai mai lavorato un giorno in tutta la tua vita?”, risponderei di no. Essere pagati per ciò che si sognava di fare, non è un lavoro. Infatti, in sessant’anni, non mi sono mai alzato la mattina pensando “Oddio, devo andare a lavorare”. Una passione così forte non può che farti da corazza contro qualsiasi avversità.

Quando ha sentito per la prima volta la pulsione alla scrittura, prima o dopo essere entrato nella sede di un giornale?

In principio ci fu un grande equivoco, perché io immaginavo che fare il giornalista non consistesse nello scrivere, ma nel trovarsi nei posti giusti al momento giusto ed essere testimone degli accadimenti, dalla guerra a una partita di calcio. Mi piaceva l’idea di trovarmi sul posto e non avevo molto chiaro che poi, a un certo punto, il giornalista deve smettere di girovagare e cominciare a scrivere. Sicché, prima di un certo periodo, non avevo mai esercitato la scrittura. La mia storia è quella di una modesta famiglia di Como, una città di provincia, in cui il primogenito veniva mandato a studiare per fare da ascensore sociale alla famiglia. È il caso, per esempio, di mio fratello, che ha seguito tutto l’iter fino a diventare medico. Il secondogenito, cioè io, veniva solitamente mandato a lavorare. Pertanto i miei mi iscrissero all’Istituto Tecnico – sono perito chimico –, cosicché avrei poi avuto un posto sicuro in fabbrica. Io, però, che sognavo e brigavo per fare il giornalista, in quel periodo in cui nascevano le prime radio e tv private, nella seconda metà degli anni ’70, invece di andare a scuola, andavo a fare il galoppino. Addirittura portavo il caffè nelle redazioni, in particolare alla sede distaccata che “La Notte” di Milano aveva a Como. Morale della favola, marinavo la scuola e non aprivo libro. Così non fui ammesso alla Maturità… A furia di bazzicare nei posti giusti, cominciarono ad affidarmi i primi articoli e mi ritrovai nella situazione che, quando dovevo scrivere la parola “scienza”, non sapevo se ci andasse la “i” o meno. Avevo anche dei seri problemi con i congiuntivi. Mi ricordo che stavo alla scrivania, con davanti la macchina da scrivere, tenendo il vocabolario aperto sulle ginocchia per non farmi vedere dai colleghi. A quel tempo non ero ancora assunto, ero abusivo – realtà diffusissima allora. Ogni due parole controllavo se ci volesse o meno una doppia. Per cui, in principio, scrivere per me fu una sofferenza – proprio non sapevo farlo. Il rovescio della medaglia di tanta ignoranza è che sei portato a semplificare i problemi più articolati, non essendo in grado di trattarli nella loro complessità. Che cosa mi è rimasto di quell’inizio traumatico? Per cominciare, ancora oggi, quando mi siedo al pc per scrivere, soffro: una specie di trauma infantile, come quando si viene morsi da un cane e si continua di conseguenza a serbarne la paura a vita. La seconda cosa è che, in ragione della mia tendenza a semplificare, spesso mi capita che, quando qualche lettore mi incontra, la prima cosa che mi fa notare di un articolo non è tanto il fatto che sia interessante, quanto che sia scritto in modo chiaro. E questa chiarezza che mi è riconosciuta è, appunto, figlia dell’ignoranza, del non poter scrivere complesso a causa delle mie carenze. In ultimo, la semplicità è diventata un valore per me – la mia personale risposta a questo mondo in cui tutti complicano tutto, compresa la scrittura. Per fortuna, a quanto pare, qualcuno apprezza la mia scelta.

Su quali letture ha formato il suo stile?

Non sono state tante, perché da giovane non leggevo molto. Diciamo che la lettura è diventata solo dopo un dovere e una passione, con la maturità. Da ragazzino lessi comunque Salgari, interamente, perché accendeva le mie fantasie di poter essere un giorno un inviato in luoghi esotici. Da adolescente, credo di essere stato uno dei pochi ad aver letto tutto Buzzati. È un autore dotato di una semplicità di scrittura e una malinconia nelle quali mi ritrovo particolarmente. Non so se sia tanto o poco ma, se ho avuto un maestro di scrittura, quello è stato lui. Poi, un po’ più avanti con l’età, quando iniziai a bazzicare i giornali, presi a leggere le grandi firme come Montanelli, Prezzolini, Brera. Insomma, sono cresciuto leggendo “Il Giornale”.

Qual è il collega da cui ha imparato maggiormente?

In assoluto Vittorio Feltri, che è anche quello a cui mi sento maggiormente affine. Vittorio è ineguagliabile. Ho lavorato dodici anni con lui ed è stato un po’ il mio fratello maggiore. Devo a lui la mia maturazione finale. Tra gli altri citerei Paolo Mieli, del “Corriere”. Mi ha aperto gli occhi. È l’opposto di me, ma vedere in faccia l’opposto ti aiuta a capire chi sei e cosa vuoi.

Cosa legge Alessandro Sallusti oggi, quando non legge giornali o ricontrolla articoli altrui?

Per lavoro un po’ di tutto, ma nel tempo libero mi appassiona la saggistica, quella storica. Più che dal punto di vista degli eventi, però, la storia mi interessa come sguardo su alcune figure da Giulio Cesare a Napoleone, dagli Sforza a Benito Mussolini e così via. Mi piacciono molto anche le vite di matematici e filosofi.

Ho letto in una sua intervista che lei si definisce una persona scarsamente propensa all’affettività, a causa di una madre piuttosto fredda. I suoi editoriali, però, sembrano tutto fuorché algidi, distaccati e poco partecipati. A tal proposito mi chiedevo se per lei la scrittura, anche se giornalistica, sia una forma di terapia, cioè un modo per trasporre all’esterno quel che altrimenti la consumerebbe non trovando un altro canale di espressione?

Povera mamma, non essendo più qui, non può smentire… Guarda, non saprei dirti perché non sono uno psicologo. Non mi pongo mai domande di questo tipo, essendo un individuo molto pragmatico. Probabilmente è come dici tu, ma io non la vivo così. Nella realtà, sono molto più noioso di quanto possa apparire a volte leggendomi. Noioso e chiuso… In effetti, nella scrittura, mi concedo delle libertà che nella vita non mi prenderei. Però, sai, ognuno è figlio della sua storia, quindi… Forse hai ragione, ma non me ne faccio un problema.

Lei una volta ha dichiarato “Il giornalismo per tanti è una professione intellettuale, per me è un mestiere, nel senso più nobile della parola. È come fare l’artigiano, il fabbro, il calzolaio”. Le vorrei chiedere se sottoscriverebbe sul serio una simile affermazione. Non le pare che, nel suo caso – ma potrei citare anche quello di Vittorio Feltri –, ci sia un qualcosa che va oltre, diciamo una misura di dote artistica?

I talenti si esprimono in un mestiere. Quando dico che il giornalismo non è una professione, dico insomma che le lauree in giornalismo sono un’invenzione sciocca, un fatto di business. In che cosa dovrebbe essere laureato un giornalista? Un giornalista si occupa di sport, di cronaca nera, di economia. Non c’è una laurea che possa fornire tutti questi strumenti. Se uno vuole fare il medico, si deve laureare è ovvio. Così per l’ingegnere, o l’avvocato. Ma il giornalista!? Non è un caso che Vittorio Feltri non sia laureato, che io non sia laureato e che tanti bravi giornalisti di successo non lo siano. Perché il giornalismo è un talento che si seleziona e si esprime nella bottega e la bottega è il giornale. È come per lo chef. Non c’è un percorso di studi da giornalista. La professione, invece, presuppone una preparazione specifica. Il nostro mestiere è un mix tra capacità nelle pubbliche relazioni, nel senso che per fare il giornalista tu devi avere un network, qualcuno che ti passi le notizie, e una mentalità investigativa, perché devi saper vedere oltre ciò che appare – quello che appare è spesso una sceneggiata, è quello che accade dietro a essere interessante. Ci vuole inoltre capacità di sintesi e devi essere veloce, scrivere un articolo in tempi e spazi che non decidi tu. Tutte queste doti presuppongono un talento che o si ha o non si ha. I giovani che arrivano dalle scuole di giornalismo, e che non hanno frequentato la bottega, spesso non hanno questo talento. Potrebbero essere degli ottimi assistenti universitari o docenti, ma la furbizia e la velocità di fare il giornalista secondo me non ce l’hanno come ce l’avevano quelli che uscivano dalle redazioni dei giornali.

Lei come lo scrive un articolo? Prende appunti prima, butta giù di getto? E, soprattutto, quanto lavora su un pezzo prima di giudicarlo valido per la pubblicazione?

No, non ci lavoro granché. Tra il trauma di cui parlavo prima, per cui per me iniziare un pezzo è una sofferenza, e una certa pigrizia, mi metto a lavorare sempre all’ultimo momento utile. Di solito non ho idea di cosa scriverò. Quando inizio, poi, spesso non so come svilupperò il pezzo, o come lo concluderò. Mi metto lì e scrivo tutto di getto, cercando di essere breve. È uno degli insegnamenti che mi ha trasmesso Montanelli: “Alessandro, quello che non riesci a dire in 60 righe è inutile che lo scrivi, perché non riuscirai a dirlo neanche in seimila”. Un altro suo consiglio, che sempre seguo, diceva invece: “Se scrivi di una persona, devi dire che è una testa di cazzo. Se scrivi di un paese, devi dire che è un paese di merda”. Quindi, per intenderci, prendiamo il fondo di domani. Ho deciso che lo farò io. Sono le 17:45. Tra un’ora, mi siederò davanti alla tastiera e non ho la più pallida idea di cosa scriverò. Se mi dovessi chiedere: “Ma almeno l’argomento di cui parlerà?”. Niente, non ne ho la minima idea.

Volevo chiederle, giustappunto, di Montanelli. Ci racconterebbe qualcosa del grande giornalista che lei conobbe nei primi anni di lavoro a “Il Giornale”?

Mah, guarda… È inutile che lo dica io, Montanelli è Montanelli. L’ho conosciuto perché venni a lavorare qui a “Il Giornale”, verso la fine degli anni ’80. Immagina l’emozione. Ero cresciuto, come ti ho detto, con il suo giornale in tasca. Era l’unico quotidiano che leggessi, quindi lui per me era una specie di mito. Però, lascia che te lo dica, i propri miti è meglio non conoscerli. Perché scopri che sono degli uomini come tutti noi, con le loro debolezze, le loro furbizie, i loro egoismi, le loro cattiverie… Sono degli uomini, straordinari, ma pur sempre uomini. E lui, che per me era un monumento, una specie di Dio, dopo averci lavorato un anno… non è che cambiai il giudizio di merito, ma era anche un po’ stronzo, un dio stronzo.

Un giornalista della parte avversa che apprezza particolarmente e perché?

Marco Travaglio. Ho in corso ventisette cause con lui e ci diamo reciprocamente del figlio di puttana in televisione, ma trovo che sia molto bravo. Secondo me recita una parte e crede forse al cinquanta percento di quello che scrive, se non a niente, però devo dire che ciò che fa lo fa bene. È un po’ come Gianfranco Fini. Mio padre, che era un suo ammiratore, mi disse che gli piaceva perché non dice niente, ma lo dice benissimo. Secondo me Travaglio è della stessa pasta: non dice un cazzo, ma lo dice talmente bene che sembra tutto interessantissimo. Anche Vittorio Feltri mi ha confessato di ammirarlo. In generale, direi che Travaglio è ben visto dai giornalisti di destra.

Non solo dai giornalisti! Ti dirò di più. Una delle mie più grandi frustrazioni è che il Presidente Berlusconi, al mattino, non manca mai di leggere per primo “Il Fatto Quotidiano”. Ma, giustamente, le persone intelligenti piacciono alle persone intelligenti. Ci tengo comunque a dire che io non odio Travaglio e non ho nemici personali, solo politici. Altrettanto dicasi per Santoro, che adesso sembra bollito, una specie di guru che vaga per il mondo senza sapere cosa fare. Ma il Santoro di dieci anni fa era tutta un’altra cosa! Di recente l’ho incontrato al Quirinale, per la festa del 2 giugno. Gli sono andato vicino per salutarlo e per domandargli come stesse. Mi ha risposto: “Sto male, sono malato, molto malato”. “Oh cielo”, gli ho chiesto, “ma cos’hai?”. “Una malattia tremenda”, mi ha fatto lui, “comincio a pensarla come te”.

Lei come ha cominciato, con la macchina da scrivere? Com’è stato, poi, il passaggio al computer? Feltri mi ha detto che scriveva con l’Olivetti fino all’anno scorso, poi è stato costretto a passare all’iPad perché nessuno gli trascriveva più gli articoli…

Vittorio ha appena dieci anni più di me, però quei dieci anni hanno segnato una differenza di prospettiva fondamentale. Io ho avuto l’onore di essere tra i primissimi giornalisti in Italia a usare le nuove tecnologie. “Avvenire”, dove ero andato a fare danni, prima di approdare a “Il Giornale”, fu all’avanguardia in tal senso, sostituendo fin da allora le macchine da scrivere con i computer. Devo dire che comunque io non sono mai stato contrario, perché li trovo di una comodità unica. Questo a differenza di Vittorio che ci ha fatti impazzire per anni con quella cazzo di macchina da scrivere! Anche lui, come me, ha la tendenza a tirarla fino all’ultimo minuto. Poi, dopo che ha scritto, deve far sistemare il pezzo dal suo correttore di bozze personale, poi torna indietro e poi lo rilegge e poi deve essere ribattuto, ma la battitura deve essere riletta – roba che, per pubblicare un suo pezzo, ci vogliono tre ore di lavoro. Io glielo dicevo, ma non c’era verso. Adesso, ha confessato anche a me di essersi convertito.

L’impressione che ho, quando vedo una sua apparizione televisiva, è che lei si senta vagamente a disagio. Si trova meglio a scrivere, giusto? C’è qualcosa che le dà in più la scrittura rispetto al trovarsi sul piccolo schermo?

Sì, perché la scrittura esclude la fisicità. Io sono molto timido, un po’ orso, introverso, e quindi la televisione per me è una sofferenza. Mi pesa dover cercare di apparire vivace, brillante. È molto faticoso. Tant’è vero che ritengo più interessante la radio, malgrado ne faccia poca, perché è più simile alla scrittura, escludendo anch’essa, completamente, la dimensione fisica. Sai, in tivù non è importante solo quello che dici, ma conta la postura, l’inquadratura, la faccia che fai. È un lavoro, un lavoro che io non so fare, ma che riesce invece benissimo per esempio a Marco Travaglio, un attore nato. Quindi vado in tivù soprattutto per dovere, oramai. Malgrado ciò, ti dirò, all’inizio è anche gratificante, perché il grande pubblico ti riconosce soprattutto attraverso il piccolo schermo e non certo per gli articoli. Ma, insomma, mentirei se ti dicessi che non provo ogni volta una pena terribile.

Come si trovava al “Corriere della Sera”? Ha qualche episodio particolare da raccontare?

Beh, per un giornalista, entrare al “Corriere”, è come per un pilota salire sulla Ferrari – è il coronamento di una vita, un traguardo pazzesco. Di quei tempi ho tre ricordi, in particolare. Il primo è che, quando arrivai, il Direttore Stille mi rovinò il sogno che attendevo da una vita. Il giorno in cui mi doveva assumere, aspettavo nel corridoio della direzione. Dopo mezz’ora spuntò questo ometto, Ugo Stille appunto, con due borse dell’Esselunga piene di frutta, verdura e quant’altro. La segretaria mi disse di accomodarmi. Aveva appoggiato le due borse sulla scrivania. Lo odiai, perché non è possibile, mi capisci, che tu aspetti tutta una vita di essere assunto al “Corriere” e questo ti mette le buste della spesa sulla scrivania che fu di Albertini. Ciò per quel che riguarda il mio ingresso. Il durante, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, fu molto avvincente perché, quando alzavi il telefono e dicevi “Buongiorno, sono Sallusti del "Corriere della Sera"”, dall’altra parte sentivi sbattere i tacchi. L’Italia, chiunque, politici e non, si mettevano sull’attenti. È certamente vero che i colleghi del “Corriere” sono molto bravi e molto professionali, perché selezionati bene, ma è anche vero che hanno un biglietto da visita che da solo fa il settanta percento del lavoro. Vorrei far osservare, comunque, che non si tratta di un giornale indipendente come vorrebbero far credere. Ho avuto più problemi lì che non a “Il Giornale”, in quanto a indipendenza dall’editore. Ma non solo io, anche i colleghi più alti in grado e i direttori. Il terzo ricordo è quello del mio abbandono, dopo tangentopoli. Avevo capito che, entro quella linea giustizialista, non mi ritrovavo. Mi sentivo a disagio, e te lo dice quello che allora tirò fuori l’avviso di garanzia per Berlusconi. Quando andai a dimettermi, non ci volevano credere, perché nessuno si dimette dal “Corriere”. Pensavano scherzassi e, quando alla fine si convinsero – e questo è uno dei momenti che ricordo con maggior orgoglio –, alla sera dell’ultimo giorno, mi chiamarono in sala Albertini, la sala grande delle riunioni, con una scusa e… Non dico ci sia stato tutto il “Corriere”, ma c’era tanta gente. I colleghi mi avevano fatto fare una targa, come regalo.

Che responsabilità comporta essere il Direttore di un grande quotidiano nazionale? Quanto deve lavorare ogni giorno e in coordinamento con quante persone?

Cominciamo con il dire che ognuno fa il direttore un po’ a modo suo. Personalmente, ne ho avuti tanti e ti posso garantire che non esiste una modalità standard per svolgere questo ruolo. Io, al di là della retorica, lo faccio come facevo il cronista. Certo, c’è una responsabilità maggiore, ma sai, i giornali medi e grandi hanno delle strutture tali per cui si fanno in buona parte da soli. Il direttore, più che altro, sceglie e coordina. Io, comunque, amo stare in redazione il più possibile e realizzarlo materialmente. Sono quasi più un caporedattore che un direttore. Partecipo a tutte le riunioni. Per quel che riguarda il lavoro in comune, sai, la cosa importante è, come in ogni staff, circondarsi di gente brava, in sintonia, che non ti crei problemi ma che te li risolva.

Dei giornali attualmente presenti sul mercato, secondo lei, qual è il peggiore e perché?

“La Repubblica”. Non che mi voglia ergere a loro giudice, ma un giornale deve avere un’anima, degli amici e dei nemici. Sono tutte stronzate quelle dei giornali super partes. I giornali sono sempre di qualcuno, quindi sono di una parte! Se mi dicono che io sono super partes mi incazzo, perché un uomo o tifa Inter o tifa Milan, o è etero o è gay, o crede in Dio o non crede in Dio, quindi non è super partes, bensì ha le sue idee. Un’altra cosa è dire che l’informazione deve essere onesta e leale… Quello sì, ma non super partes! “La Repubblica”, da diversi anni, diciamo dal tramonto del berlusconismo nel 2011, ha perso il suo baricentro. Adesso è un giornale che vaga, senza che si capisca dove, e lo fa in maniera retorica, a volte patetica. Ha fatto tutta la campagna elettorale parlando del pericolo di un fascismo di ritorno in Italia, con Casapound che poi ha preso lo 0,6 %. È un giornale radical chic che, avendo smarrito il suo nemico, ha perso la bussola. Io fatico anche a sfogliarlo.

“Il Giornale”, quando fu fondato da Montanelli, aveva nella sua rosa di collaboratori delle firme d’eccezione come Nicola Abbagnano per la filosofia, Mario Praz per la saggistica, Sergio Quinzio per la teologia. Secondo lei, la squadra attuale può ancora reggere il confronto con quella delle origini?

No, non può. Io mi vergogno profondamente di essere seduto in questo momento alla scrivania che fu di Montanelli, perché il paragone non tiene nella maniera più assoluta. Ma come mi salvo? Come salvo me e tutti i colleghi? Ognuno è figlio del suo tempo. Quel tempo lì, quella classe intellettuale e giornalistica di allora, figlia dell’Ottocento, formatasi alla scuola dell’Ottocento e che ha attraversato buona parte del Novecento, non c’è più; ma, se Dio vuole, è l’Ottocento a non esserci più. Siamo nel 2018 e non sussiste la possibilità di un paragone. In secondo luogo, se è pur vero che “Il Giornale” aveva tutto quel fior fiore di menti, non dimentichiamo che c’erano anche degli editori che a fine anno sanavano i bilanci, senza battere ciglio, qualsiasi fosse la cifra. Questo è stato un grande giornale, un giornale con firme importantissime, ma allora perdeva miliardi di lire e poi milioni di euro, per cui, per sistemare i conti, arrivava il perfido editore Berlusconi a staccare un assegno. Oggi nessuno stacca più l’assegno. Sono dei costi che non sono attualmente sostenibili e non solo dalla nostra redazione. Io ho fatto l’inviato in un’epoca in cui, per una sparatoria a Tripoli, partivano due giornalisti e tre fotografi. Adesso non è più così, ma non avrebbe nemmeno più senso, dal momento che la sparatoria la si può vedere in diretta su YouTube. Per rispondere alla tua domanda, dunque, se tu paragoni Montanelli a Sallusti viene da ridere e io sono il primo a farlo. Sallusti è un figlio del Novecento proiettato nel 2000, Montanelli è un figlio dell’Ottocento proiettato nel ’900.

Cosa è rimasto a “Il Giornale” dello spirito e delle motivazioni che animarono Montanelli al momento della fondazione?

Tanto! Lo so che può non sembrare così e che pochi ci crederanno, ma c’è ancora quello spirito liberale e liberista, quella volontà di contrapposizione al pensiero unico dominante. Questo patrimonio, sia pure in tempi e in modi diversi, la famiglia Berlusconi l’ha difeso con le unghie e con i denti. Tu dirai che non può essere, dato che a un certo punto Montanelli se ne andò…La vera storia di Montanelli, e del perché se ne sia andato, forse qualcuno la scriverà un giorno, ammesso che qualcuno la conosca realmente, perché ne girano talmente tante versioni. Quella a cui credo io è che, essendo il suo editore entrato in politica, lui si sia detto: “Se ne scrivo bene, mi diranno che sono un servo. Se ne scrivo male, mi diranno che sono un ingrato. Quindi, non posso più stare qui”. Quello però era un problema che si poneva lui. Io, sinceramente, non mi faccio remore né dello scrivere male né dello scrivere bene di Berlusconi. Se ne scrivo bene è perché la penso esattamente come la sua parte politica. Ho girato tredici giornali, grandi, piccoli e medi, per cui ho conosciuto almeno tredici editori e ti dico che, uno liberale e rispettoso come la famiglia Berlusconi, non l’ho mai incontrato. Quando racconto questa storia, qualcuno fa una smorfia e mi dice: “Ci credo, ti paga”.  L’obiezione è lecita, ma non corrisponde al vero. Certo domani mattina non troverai un fondo in cui dico che Silvio Berlusconi è un mafioso testa di cazzo, ma non perché mi dà da mangiare, solamente perché quello non sarebbe un gesto di libertà ma piuttosto un’idiozia. Questo giornale, del resto, non è solo “Viva Forza Italia, abbasso il PD”, ma ha delle sue idee sulla cultura, la società, l’etica. Questa è la nostra libertà e il patrimonio che ci portiamo appresso tentando di difenderlo, grazie a un editore che ci permette di farlo. Chi ci compra ne è consapevole e, infatti, non lo fa per caso, ma perché si sente legato a tutto ciò che noi rappresentiamo e che va ben oltre il partito di Berlusconi. Guarda, ti confesso che, se io ho dei nemici nell’apparato politico della classe dirigente del paese, questi si trovano in Forza Italia, proprio perché un politico inevitabilmente concepisce il giornale di riferimento di quell’area come la house organ del suo partito. Ma chi se ne frega di Forza Italia! Noi la sosteniamo, ma fare il giornale non è solo sostenere Forza Italia, piuttosto si tratta di portare avanti un’idea liberale che attraversa tutti i settori della vita.

Se posso permettermi una riflessione sul caso di Montanelli: era abbastanza chiaro che, nel momento in cui il mio editore, quello che mi aveva sostenuto salvandomi da morte certa, fosse sceso in politica… Beh, parliamoci chiaro Direttore, era ovvio che avrebbe chiesto un sostegno.

Certamente, poi soprattutto in quel momento. Ma la cosa paradossale è che Montanelli, dopo aver passato la vita a combattere le sinistre e il comunismo, quando arriva uno che scende in politica con il suo stesso obiettivo che fa, gli dice di no? A me sembra più una lotta tra prime donne. Per logica avrebbe dovuto sostenerlo, dire: “Finalmente arriva uno che vuole portare in politica quelle stesse idee che io su "Il Giornale" difendo da decenni”. E, invece, se ne andò. Ripeto, il fatto è che due galli in un pollaio non possono starci. In quella contingenza storica, a prescindere da quel che se ne può pensare, era chiaro che bisognava sostenere Berlusconi. E Montanelli avrebbe dovuto farlo per lo stesso motivo per cui lui per primo, in passato, aveva invitato a votare Democrazia Cristiana turandosi il naso: bisognava fermare a qualsiasi costo l’avanzata dei comunisti che, anche se non si dichiaravano più tali, erano pur sempre gli stessi di sempre. Esatto. È per questo che non capisco quella decisione di Montanelli, che così facendo andò a portare acqua al mulino della Sinistra. Sbagliò nella sua valutazione. Ma c’è da dire che, allora, l’uomo era già in decadenza, purtroppo.

Con tutto il dovuto rispetto, ma dimostrò anche una certa ingratitudine…

Direi bene, visto che Berlusconi arrivava a fine anno e staccava l’assegno, senza nemmeno preoccuparsi della cifra… e non era piccola. Comunque, volevo salutarti con un bel ricordo che conservo del Maestro. Andando via, lui passava sempre dalla stanza dei giovani caporedattori e si fermava per una chiacchierata, mentre noi puntualmente parlavamo di figa. Una volta ci disse: “Beati voi, ragazzi, perché, vedete, a me non è che non mi tira più, è che non so più quando mi tira”.

·        Andrea Purgatori.

Da liberoquotidiano.it il 24 marzo 2021. Andrea Purgatori si è collegato con Tiziana Panella durante la diretta di Tagadà e non le ha mandate a dire sull’ultimo caso che ha riguardato AstraZeneca. Qualcuno lo ha definito il vaccino “sfigato”, qualcun altro addirittura “perseguitato” dopo che la commissione europea ha chiesto al presidente del Consiglio Mario Draghi di verificare alcuni lotti presenti nello stabilimento di Anagni, dove sarebbero conservate 29 milioni di dosi. “AstraZeneca è una accolita di mascalzoni, mi denunciassero pure e poi vediamo che succede”, ha dichiarato Purgatori. Il riferimento è all’ispezione dei Nas che si è svolta tra sabato 20 marzo e domenica 21: il premier ha girato la richiesta proveniente dall’Europa al ministro Roberto Speranza, che ha inviato nello stabilimento di Anagni un’ispezione dalla quale è risultato che i lotti sono destinati al Belgio. Ma Purgatori non ha puntato il dito solo contro AstraZeneca, nel suo intervento a Tagadà se l’è presa anche con la Lombardia e con le Regioni in generale per come stanno gestendo l’epidemia di coronavirus e la campagna di vaccinazione. “In Lombardia non ho ancora sentito una persona che si sia scusata per quello che sta succedendo”: la Panella ha colto al volo l’occasione per far notare che invece in Germania qualcuno si è scusato. È stata direttamente Angela Merkel, che ha fatto marcia indietro sul lockdown di Pasqua: “Errore soltanto mio, chiedo scusa ai cittadini”. “I vertici lombardi dovrebbero andare a scuola dalla Merkel dopo i casini che hanno combinato”, ha commentato Purgatori che poi se l’è presa anche con le altre Regioni: “Vorrei sottolineare che da un anno noi non riusciamo a capire bene come le Regioni stanno cercando di attrezzarsi al meglio rispetto alle carenze sanitarie delle strutture ospedaliere”.

·        Andrea Scanzi.

Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2021. La contemporaneità è quel buffo fenomeno di cui puoi cogliere l'essenza in seconda serata, spalmato sul divano. Ad esempio, chi scrive ha assistito a uno spezzone di Piazzapulita che vale più di mille tomi di sociologia postmoderna. Ho visto, giuro, Andrea Scanzi, autoproclamata "rockstar del giornalismo italiano", tuttologo di professione e nientologo di fatto, autore del bambinesco Sfascistoni- Manuale di resistenza a tutte le destre ("tutte", quindi anche quelle che guardano a Margaret Thatcher o a Luigi Einaudi, per dire la profondità inferiore a quella richiesta dalla scuola dell'obbligo), intento a sfornare lezioni di storia e di politologia. E già siamo nel comico spinto, ma il punto vero è a chi costui stava instillando il proprio sapere. Esattamente, a Franco Cardini e a Marco Tarchi. Il primo è tra i massimi storici italiani, professore emerito presso l'Istituto di Scienze Umane e Sociali della Scuola Normale Superiore, fellow ad Harvard. Il secondo è uno dei pochi studiosi della politica nostrani originali, ordinario di Scienze Politiche all'Università di Firenze. L'occasione era la centoventisettesima puntata montata dalla redazione di Formigli contro la Lobby Nera, ovvero il covo di manganellatori e golpisti in cui consisterebbe quello che in molti sondaggi è il primo partito italiano, Fratelli d'Italia. Scanzi è lì apposta per confermare il teorema, e infatti parte in quarta: Giorgia Meloni non taglia i ponti con la «galassia neofascista» perché non vuole perdere il 5% dei voti degli «sfascistoni», tuona dedicandosi al suo sport preferito, l'onanismo autocitazionista. Macché, gli ribatte Tarchi che ha il vizio di sapere di cosa parla, «il nostalgismo radicale elettoralmente non vale neanche l'1%». Mentre la rockstar è ancora lì a gesticolare paonazza, Cardini assesta il colpo al totem che costei sventola 24 ore al giorno nei talk show, l'antifascismo. «Non si sa cos' è. È impossibile avere idee chiare su cosa sia l'antifascismo, che si può sdoppiare e triplicare in vari rivoli. Io non credo che gli antifascisti che volevano impiantare una Repubblica sovietica in Italia fossero antifascisti come i partigiani verdi o cattolici». Sconvolto alla rivelazione che esistessero resistenti privi di falce&martello, lo scudiero di Travaglio alza la voce e ancor più il livello delle castronerie: «Dichiararsi antifascista è la precondizione per fare politica!». Tarchi a quel punto ribadisce un consiglio quasi paterno: «Vedo con piacere che lei la butta in caciara come è abituato a fare, dovrebbe leggere Emilio Gentile come suggerisce Cardini». Ma Scanzi rimane lì imperterrito, a chiedersi quali dischi abbia inciso questo Emilio Gentile, e a dispensare lezioni. Su cosa non importa, è irrilevante, lo scanzismo prescinde dal contenuto e dall'interlocutore, se avesse di fronte Benedetto XVI sarebbe in grado di spiegargli la teologia cristiana. Ops, non vorremmo aver fornito un'idea involontaria agli autori di Piazzapulita.

Le liste di proscrizione del saltafila Scanzi. Andrea Indini il 20 Novembre 2021 su Il Giornale. Il giornalista del Fatto Quotidiano insegue fantasmi in camicia nera. Ne scova quattro nella nostra redazione. E pubblica la sua lista di proscrizione in un libro. Nel paese reale i neo fascisti sono lo zero virgola. Nella testa di Andrea Scanzi sono quasi tutti stipati nelle redazioni dei giornali di centrodestra. Pure nel nostro. Eh sì che noi, in tutti questi anni, non ce ne eravamo mica accorti. Ora, grazie alle liste di proscrizione del saltafila del Fatto Quotidiano, abbiamo anche i loro nomi e cognomi. Sono ben quattro. Nella sua ultima, sudatissima fatica letteraria, Sfascistoni. Manuale di resistenza a tutte le destre (Paper First), li mette tutti nero su bianco definendoli "fascistelli in erba" e dedicando loro interi capitoli. Ma chi sono questi neo fascisti che manu militari avrebbero occupato la nostra redazione? Visto che, al pari di noialtri, nemmeno voi lettori del Giornale.it li avete mai stanati, ecco super Scanzi correre in nostro aiuto. Si tratta di due firme che collaborano con noi e con InsideOver ormai da qualche anno: Francesco Giubilei e Daniele Dell'Orco. La loro colpa? Aver dato vita nel 2017 a Nazione Futura, "un vero e proprio hub di pulsioni fasciste", scrive il saltafila, "animato da fascistelli in erba travestiti da para-intellettuali". Il capitolo (tre paginette scarne al pari di tutti gli altri pseudo-capitoli che compongono il libercolo) è un copia-incolla delle biografie dei nostri due collaboratori. Non si capisce cosa gli si rinfacci. I due, da anni, animano il dibattito culturale attraverso le pubblicazioni delle loro case editrici: Historica, Giubilei Regnani e Idrovolante. Andate a vedervi i titoli in catalogo e scoprirete che non ci troviamo di fronte a pericolosi fascisti. Anzi. Eppure di loro il coraggiosissimo e indomito Scanzi scrive così: "Se volete capire che aria tira, e tirerà nell'estrema destra colta (sempre ammesso che tale asserzione non sia un ossimoro), leggete questi due. Anche se leggerli non vi risulterà né facile né divertente". I due lo quereleranno a breve. Giustamente. Ma andiamo avanti. La terza con cui Scanzi se la prende è Alessandra Benignetti. Tutto perché lo scorso 21 aprile, sul Giornale.it, la giornalista osa scrivergli contro un articolo in seguito a una discutibilissima comparsata dell'alfiere di Marco Travaglio a Cartabianca (leggi qui). Deve averlo talmente fatto incazzare che eccolo dedicarle un intero capitolo dal titolo Forza (Nuova) Benignetti!. Eh sì, perché la nostra giornalista quando era al liceo aveva militato nell'estrema destra. Parliamo di quindici-vent'anni fa. "Una sorta di Maglie in diesis minore - la descrive così nel libro - direi che ha un futuro assicurato come aedo di terza fila del fasciosalvinismo". Lui, che le file le salta a pie' pari, è nella prima del grillismo più violento. Ultimo nome legato alla nostra testata è quello di Chiara Giannini, colpevole a detta del censore Scanzi di aver pubblicato con la "iper-destrorsa" casa editrice Altaforte "il mitologico Io sono Matteo Salvini (...), un libro appena appena agiografico, scritto con uno stile involontariamente comico-dadaista e - quel che più conta - un meraviglioso volume boomerang: se n'è parlato tanto, ha venduto poco e dopo la sua uscita Salvini non ne ha beccata più mezza". Non sappiamo quanto abbia venduto, né ci interessa saperlo, ma in quanto a stile... beh, dopo aver letto Sfascistoni da cima a fondo, possiamo assicurare che Scanzi ha davvero poco da insegnare. Lasciamo dunque Scanzi ai suoi fantasmi in camicia nera. Il paese reale e la nostra redazione sono un'altra cosa.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del

Da liberoquotidiano.it il 24 settembre 2021. Prende la mira e apre il fuoco, Vittorio Sgarbi. Prende la mira e apre il fuoco contro Andrea Scanzi. Un attacco durissimo, quello del critico d'arte, al "cagnolino di Giuseppe Conte", così come lo definisce in premessa, tranchant, senza giri di parole. La copia sbiadita di Marco Travaglio finisce nel mirino per le comparsate in tv dove, spesso e volentieri, attacca proprio Sgarbi. Ma soprattutto finisce nel mirino per quanto accaduto al concerto in ricordo di Franco Battiato, dove Sgarbi e Al Bano Carrisi sono stati insultati e bollati come fascisti, tanto da abbandonare il palco. E ancora, su Al Bano, Scanzi ha aggiunto: "Senza pubblico, senza stima, senza ragione d'essere. Un crepuscolo avvilente e straziante". Parole forti che scatenano la reazione del critico, ancor più forte. "Scarsi, il cagnolino di Conte", premette Sgarbi. "Esiste ancora Scarsi? Che tenerezza! Pensavo che l’avessero assorbito Fedez e la Murgia ,ammiratrice di Battiato. Lo trovo ora ripetere i suoi stanchi ritornelli contro di me che ho fatto il vaccino senza farmi raccomandare come lui - picchia durissimo Sgarbi -,cui resta solo la Gruber a invitarlo in televisione per fare il cagnolino di Conte". E ancora, in uno strepitoso crescendo: "Sporco, puzzolente, spelacchiato, i denti gialli, esprime solo ovvietà, e il suo modello è Beppe Grillo che ha educato il figlio allo stupro e lui a sbagliarle tutte. Per dire: non si è accorto che i fischi a Verona, dove io ho, la settimana prima, riempito il Teatro romano di persone che conoscono la mia ragion d’essere, non erano per me ma essenzialmente (si parla di Franco Battiato, amato dalla sua amica Murgia) per Al Bano, che lui ha finto di non vedere. Per dire: anche Albano "senza pubblico, senza stima, senza ragion d'essere. Un crepuscolo avvilente e straziante"? Lo dice lui che non ha mai visto l'alba. Continua a vagire tra le cosce della Gruber. Un piccolo aborto, travolto dai luoghi comuni. Senza trattativa. Una scorreggia di Cacciari. Una miniatura di Telese. A voi Scarsi! E toccatevi le palle quando lo vedete. È cancerogeno", conclude Vittorio Sgarbi. Esplosivo.

(ANSA il 28 giugno 2021) - La procura di Arezzo chiede l'archiviazione per il caso del vaccino somministrato al giornalista aretino Andrea Scanzi, vicenda di marzo per cui venne criticato per "aver saltato la fila". Stando alle conclusioni del pm Marco Dioni, Scanzi non rientrava in alcuna categoria vaccinale di quel momento e dunque non aveva diritto ad anticipare la somministrazione. Tuttavia, dal punto di vista giuridico-legale, per la procura non si configura alcun reato nella condotta del giornalista. In virtù, viene spiegato, della riforma del reato di abuso d'ufficio, ipotesi su cui lavorava la procura, tale fattispecie penale non si è configurata. Perché vi sia reato di abuso di ufficio nella condotta di Scanzi, è stato ancora spiegato alla procura di Arezzo, occorre che la violazione sia a una legge o a un regolamento, cosa che per il pm Dioni non è accaduta in questo episodio. Dunque, sottolineano dalla procura, anche se eticamente il gesto può da taluni essere considerato censurabile, dal punto di vista giuridico non è penalmente perseguibile. Il 22 marzo scorso Scanzi aveva raccontato sui social di aver ricevuto il vaccino come 'riservista' e in qualità di caregiver familiare dei genitori. "Ho fatto il panchinaro del vaccino", aveva affermato, suscitando immediate polemiche. La procura di Arezzo, città dove gli fu fatto il vaccino, aprì un fascicolo. In questi mesi sono stati ascoltati i principali responsabili del servizio della Asl. Ora la richiesta di archiviazione.

Filippo Facci per "Libero quotidiano" il 29 giugno 2021. Poco spettabile Andrea Scanzi, vorremmo chiudere il caso del vaccino che ti hanno fatto senza che tu ne avessi diritto, saltando la fila. Chiuderla qui è la cosa migliore, anche perché altri (tipo il tuo giornale) ti avrebbero viceversa bollato sine die. Noi no. La procura di Arezzo ha chiesto l’archiviazione: ha scritto che non rientravi in nessuna categoria particolare e che non avevi diritto ad anticipare il vaccino, ma questo, secondo il pm, non ha configurato reati in virtù della riforma dell’abuso d'ufficio, riforma che dalle tue parti è stata combattuta ferocemente. Meno male che avete perso anche questa. Noi non auguriamo a nessuno conseguenze giudiziarie (non per queste cose) e ci basta che i fatti siano stati messi nero su bianco, sperando che il gip accolga l’archiviazione. Preso da ego-bulimia, il 22 marzo avevi raccontato ai lemuri dei tuoi social che avevi ricevuto il vaccino come «riservista» in qualità di «caregiver familiare». Due balle, come è stato accertato ascoltando i responsabili della Asl. Hai fatto tutto da solo, e hai continuato a descriverti come er mejo fico der bigoncio, a dire che volevi fare da esempio (tu) e a dire che tutti ti criticavano per invidia, o perché vorrebbero essere come te. Eri un banale cagasotto che ha cercato una corsia privilegiata, ma la nostra opinione su di te resta immutata. Bastava una parola prima, ci basterà in futuro.

Salvatore Mannino per "La Nazione - Arezzo" il 29 giugno 2021. Non aveva il diritto di vaccinarsi, anche se non ha commesso alcun reato. E’ il giudizio, non esattamente l’ideale in termini di immagine, col quale il Pm Marco Dioni chiede l’archiviazione del fascicolo sulla dose di Astrazeneca somministrata il 21 marzo ad Andrea Scanzi, il più popolare dei giornalisti aretini, influencer e opinion leader di prima grandezza nel panorama mediatico nazionale, uno che spesso si autodefinisce come il più seguito in Italia sui social, forte del suo milione di follower che però per quella dose galeotta gli ri rivoltarono contro, a lui che si considera, ed è considerato, un maestro nel girare in proprio favore il vento che spira su Facebook, Twitter e gli altri social media. Caso chiuso, anche se Scanzi non è mai stato indagato: quello nei suoi confronti è sempre rimasto un modello 45, cioè un fascicolo senza ipotesi di reato. La bufera che ne è nata, quella che portò alla temporanea sparizione del giornalista dagli schermi di Rai Tre («Carta bianca» di Bianca Berlinguer) e la 7 (Otto e mezzo di Lilli Gruber), quella che l’ha portato a difendersi con le unghie e coi denti dalla stanza di un lussuoso relais trentino in cui era in cura, quella anche che gli è costato il rimprovero di Marco Travaglio, direttore del suo giornale, il «Fatto Quotidiano, è rimasta una tempesta mediatica, di cui qualcuno dei tanti nemici che si è fatto negli anni per la sua penna tagliente, ha approfittato per regolare qualche conto, ma senza conseguenze giudiziarie. L’unico reato astrattamente ipotizzabile, l’abuso d’ufficio a carico del dirigente Usl che lo indirizzò all’hub del Palaffari, avrebbe richiesto un’espressa violazione di legge o atto avente forza di legge. Ma tutte le norme che regolano la vaccinazione sono linee guida, al massimo regolamenti amministrativi. E poi, scrive Dioni, i comportamenti non si sono mai elevati al rango del dolo, rimanendo colposi, cioè imprudenti o negligenti. Conviene comunque riassumere. Scanzi, almeno questo è il suo racconto, contatta il suo medico di famiglia e si dichiara disponibile a ricevere una dose di Astrazeneca fra quante ne avanzano dopo la giornata di iniezioni. Il dottore lo indirizza alla Usl e il direttore del distretto Evaristo Giglio, dopo qualche settimana, lo avvia al Palaffari dove avviene la vaccinazione. A che titolo? Lo stesso giornalista avanzerà più di uno scenario: semplice volontario per le dosi in eccesso, caregiver di genitori malati, testimonial. In realtà, secondo Dioni, «sulla scorta delle linee guida e delle raccomandazioni non aveva alcun diritto di essere vaccinato, non rientrando in alcune delle categorie delle linee guida», anche se «in quel momento la situazione era particolarmente confusa». In effetti, era il marzo difficile in cui la campagna di massa stentava ancora a decollare, specie in Toscana, coi quarantenni come Scanzi spesso vaccinati prima degli over 80 ancora in mezzo al guado e dei settantenni e sessantenni fermi al palo. Fu per questo che la confessione social del giornalista scatenò il dagli al «furbetto». Giglio, sentito sia nell’indagine Usl che in quella della procura, riconosce di aver sbagliato, «ritenendo che appartenesse alla categoria dei caregiver», anche se la certificazione sulla quale si basò era quella di un’omonima della madre di Scanzi. Colpa non dolo. Il passato appunto, il presente è fatto di un’archiviazione imminente.

CASO VACCINO: LA PROCURA DI AREZZO SALVA ANDREA SCANZI, MA NON DEL TUTTO….Il Corriere del Giorno il 29 Giugno 2021. Scanzi aveva commentato lo scorso 22 marzo sui social , sostenendo di aver ricevuto il vaccino perché “riservista”, “panchinaro” e in qualità di caregiver familiare dei genitori scatenando critiche e offese, che lo portarono alla sospensione per tre settimane dai programmi tv Rai e La7 in cui veniva invitato. In realtà quanto sosteneva Scanzi in realtà non era vero ed ha mentito...La Procura di Arezzo ha chiesto l’archiviazione per il caso del vaccino somministrato il 19 marzo 2021 al giornalista Andrea Scanzi, accusato di aver “saltato la fila” nel tardo pomeriggio del 19 marzo scorso all’hub vaccinale allestito al Centro Affari e Fiere della città toscana. Il giornalista toscano, secondo il pubblico ministero Marco Diorni, all’epoca in cui avvenne la somministrazione, Scanzi non aveva alcun diritto di anticipare la propria vaccinazione non rientrando in alcuna categoria vaccinale e quindi non aveva diritto ad anticipare la dose, ma dal punto di vista legale, con la sua “furbata” Scanzi non ha commesso un reato. Conseguentemente il gesto di Scanzi, nonostante sia discutibile eticamente, non è perseguibile in ambito giuridico, data la mancata sussistenza del reato di abuso di ufficio. La richiesta del pubblico ministero adesso è stato trasmesso al giudice per le indagini preliminari e sarà quest’ultimo a decidere se accogliere la richiesta di archiviazione su Scanzi. Scanzi aveva commentato l’accaduto lo scorso 22 marzo sui social , sostenendo di aver ricevuto il vaccino perché “riservista”, “panchinaro” e in qualità di caregiver familiare dei genitori scatenando critiche e offese, che lo portarono alla sospensione per tre settimane dai programmi tv Rai e La7 in cui veniva invitato. In realtà quanto sosteneva Scanzi in realtà non era vero ed ha mentito...La probabile archiviazione non è una pietra tombale su questa vicenda: ieri infatti il deputato Massimiliano Capitanio, capogruppo della Lega in Commissione Parlamentare du Vigilanza Rai, ha ricordato che la tv pubblica “ha atteso la pronuncia del pm per convocare il Comitato Etico e prendere una decisione circa la condotta del giornalista”.“Scanzi ha fatto il furbetto”, ha commentato anche la leghista Elena Maccanti, componente della commissione di Vigilanza Rai. Secondo i deputati toscani leghisti Manuel Vescovi e Rosellina Sbrana, Scanzi si è comportato “come i peggiori raccomandati”. Sulla stessa posizione, il deputato Michele Anzaldi di Italia Viva, segretario della commissione di Vigilanza Rai, che si chiede se “è eticamente accettabile che una trasmissione Rai retribuisca chi si è macchiato di un comportamento riprovevole”. Dopo l’annuncio della richiesta di archiviazione, nè Scanzi nè il FATTO QUOTIDIANO giornale dove lavora e scrive hanno ancora rilasciato alcuna dichiarazione al riguardo.

Andrea Scanzi, "gli italiani mi devono ringraziare"? Vaccino, si copre ancora di ridicolo: "... ma rifarei tutto". Libero Quotidiano il 14 giugno 2021. Andrea Scanzi è pronto a lanciarsi in un nuovo progetto con Discovery+, che gli ha affidato un programma dedicato alla storia e allo sport. La prima puntata sarà dedicata alla vittoria dei Mondiali del 1982 da parte della nazionale italiana: il giornalista del Fatto Quotidiano lavora già per questa emittente da tempo, ma adesso gli è stato affidato un nuovo programma, dato che le acque si sono calmate e le polemiche che lo riguardavano sono passate in secondo piano. Intervistato da TvBlog, Scanzi ha spiegato perché si occuperà di storia e sport piuttosto che di politica: “Io nei migliori programmi di politica ci sono già, come ospite, nei migliori contesti televisivi che esistono ad oggi”. Il riferimento è ovviamente a Otto e Mezzo e Cartabianca, che vanno in onda rispettivamente su La7 e Rai3 e lo vedono spesso tra gli invitati. Ovviamente nel corso dell’intervista rilasciata a Massimo Galanto non potevano essere evitati alcuni argomenti scottanti, come quel video in cui diceva “gli italiani mi dovrebbero ringraziare” dopo aver saltato la fila per il vaccino. “Mi è uscita abbastanza male”, ha ammesso in un raro momento di mea culpa. Ma comunque non ha rinnegato quel video: “Nel contenuto e nel gesto rifarei tutto, era tutto in regola. Per questo farò un centinaio di querele”. Anche se “due-tre dirette a ca*** non dovevo farle. E non dovevo fidarmi di alcune persone che pensavo fossero a me vicine”. 

Dopo figuracce e bugie, Scanzi viene pure promosso. Francesca Galici il 14 Giugno 2021 su Il Giornale. Il video in cui diceva che il coronavirus era solo un'influenza? Andrea Scanzi non lo rifarebbe e ammette di aver fatto altri scivoloni di comunicazione. Ma ora viene promosso. Andrea Scanzi è pronto a sbarcare su Discovery+ con un programma nuovo di zecca. Nonostante gli scivoloni di comunicazione, ammessi dallo stesso giornalista, nel corso dell'ultimo anno e mezzo, Scanzi è stato premiato dalla rete in cui lavora ormai da anni, che ha deciso di affidargli un nuovo programma dedicato alla storia e allo sport. Sono ormai lontani i giorni di febbraio 2020, quando il giornalista minimizzò il coronavirus, considerato poco più di una semplice influenza, ma anche quelli di marzo 2021, quando annunciò in diretta Facebook di aver ricevuto il vaccino, scatenando feroci polemiche anche sul suo metodo comunicativo. Ora che le acque si sono calmate e che tutto sembra essere passato, il giornalista si prepara a spiegare al pubblico perché la vittoria dei Mondiali 1982 non fu soltanto calcio ma qualcosa di più. Facendo un ampio volo pindarico, Andrea Scanzi spiegherà al pubblico che vorrà seguirlo che Maradona "nel 1986 ha sconfitto l’Inghilterra vendicando la tragedia per gli argentini della guerra delle Falkland". Così ha spiegato il suo nuovo programma a TvBlog, approfondendo la sua idea di conduzione non senza qualche svirgolata narcisistica, che non nasconde, spiegando perché non vorrebbe mai condurre un suo programma politico: "Io nei migliori programmi di politica ci sono già, come ospite, nei migliori contesti televisivi che esistono ad oggi". Il riferimento è a Otto e mezzo e a Cartabianca, in onda rispettivamente su La7 e Rai3. Programmi dai quali qualcuno dice che è stato sospeso dopo il caos sul vaccino, mentre lui preferisce dire che c'è stato "un breve periodo di pausa". Un allontanamento concordato con le conduttrici per "far calmare le acque dopo quella cazzata sul nulla". In realtà non può definirsi una "cazzata sul nulla", perché sono state tante le inchieste giornalistiche per andare a fondo sulle dichiarazioni di Andrea Scanzi, in parte smentite dai responsabili della Asl di Arezzo. Lo stesso medico di base del giornalista si era tirato indietro sulla faccenda: "Ha detto di avere i genitori fragili, affetti da patologie importanti. Sono il medico solo di Scanzi, i genitori non li conosco". Facile ora, a distanza di mesi da quelle dirette Facebook dire che "mi è arrivata una tale quantità di merda che non sono riuscito a gestirla. Mettiti nei panni di uno che si vaccina in piena regola, lo dice e due giorni dopo gli danno del furbetto, dello stronzo, del ladro, del criminale. Per due giorni non ho capito un cazzo". Nel corso dell'intervista rilasciata a Massimo Galanto, quindi, Andrea Scanzi è tornato su uno dei suoi video più discussi sul coronavirus, che oggi definisce come "la cosa che più non rifarei nella mia vita lavorativa". Vorrebbe cancellare quei minuti in cui appare come un negazionista: "Ero convinto che il covid fosse una esagerazione, in quei giorni lo dicevano anche la Gismondo e Burioni da Fazio, mi fidavo di questa gente, mi inerpicai in territori che non conoscevo e ho fatto una cazzata. Poi ho chiesto scusa". E ancora, ammette che la frase "mi dovrebbero ringraziare gli italiani", detta nel video in cui ha annunciato il vaccino, gli "è uscita male". Abbastanza male, in effetti. Ma quel video non lo rinnega: "Nel contenuto e nel gesto rifarei tutto, era tutto in regola. Per questo farò un centinaio di querele". E ancora, a TvBlog amette che, in relazione al video del vaccino, "a livello di comunicazione molte dirette non le dovevo fare. L’errore è stato quello. Due-tre dirette a cazzo non dovevo farle. E non dovevo fidarmi di alcune persone che pensavo fossero a me vicine".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Giuseppe De Lorenzo per ilgiornale.it il 9 giugno 2021. Dall’accusa di aver saltato la fila sui vaccini a quella di aver copiato un articolo. Nuova grana per il caregiver Andrea Scanzi, che dopo essersi fatto iniettare con discreto anticipo una dose di anti-Covid, ora finisce sotto il fuoco incrociato dei colleghi del Tirreno. Roba tra giornalisti. Ma che assume un gusto tutto diverso quando investe il bravissimo, correttissimo, ammirabilissimo Andrea da Arezzo. I fatti. Il buon Scanzi come ogni benedetto giorno che Dio manda su questa terra ieri ha allietato i sui 2 milioni di follower con una serie di post, commentando le vicende italiane di ogni tipo: Gasparri candidato sindaco di Roma, Sarri alla Lazio, Barbara Lezzi, il tennis, Maradona, l’Armata Rossa e chi più ne ha più ne metta. In mezzo, il caregiver ha dedicato un lungo scritto ad una bella storia, quella della Sammontana, un’azienda di Empoli che da 70 anni produce gelati e che si appresta ad assumere 352 operai a fronte di 2.500 pretendenti. Insomma: una società dove i lavoratori vengono rispettati, pagati il giusto e che dunque attira candidature. Bene. Bravi. Nel post Scanzi riporta anche un lungo virgolettato del signor Rossano Rossi, segretario della Cgil di Lucca e delegato sindacale proprio alla Sammontana, incassando il pieno di like: 35mila mi piace, oltre 2mila commenti e 11mila condivisioni. Manna dal cielo per chi si vanta di essere il giornalista “più potente sui social”. Embè, direte: cosa c’è di male? Il problema è che Scanzi la notizia non l’ha trovata da sé e il segretario Cgil non l’ha intervistato di prima persona. Si è “ispirato”, diciamo così, ad un pezzo di domenica 6 giugno a firma di Martina Triviglio, uscito su ilTirreno. Va bene: è una “ripresa”. Non è mica l’unico a farlo. Peccato però che Scanzi non abbia neppure citato la fonte della notizia: uno sgarbo che ha fatto infuriare i colleghi della testata toscana. I quali lo accusano di aver “copiato l’articolo” e nell’edizione odierna gliele cantano di santa ragione. In un breve pezzo al vetriolo, non solo ilTirreno si riferisce al collega come a colui che “si è distinto per aver saltato la fila per vaccinarsi come badante dei suoi genitori che non ne avevano bisogno”. Non solo ne biasima il “lavoro di copiatura”. Non solo lo bacchetta per la mancata “correttezza” professionale. Ma addirittura lo sbertuccia per aver fatto un post in difesa del “rispetto ai lavoratori” proprio mentre “sfruttava” il lavoro altrui. “Sfruttamento - scrivono - si verifica anche impossessandosi di quello che una collega ha scritto e facendolo passare per proprio contando su fatto che nessuno andrà a vedere la fonte della notizia. E che tutti la attribuiranno al giornalista più noto, solo perché c’è chi ancora lo invita in televisione”. Esiste una verità, però, per i cronisti de ilTirreno: “Chi sa trovare da solo le notizie lo potrà fare per sempre. Gli altri dovranno limitarsi a copiare”. Uno a zero e palla al centro: il moralista è stato moralizzato.

IL FATTO (O FALSO?) QUOTIDIANO TACE SULLA VACCINAZIONE DI SCANZI. E LA PROCURA DI AREZZO APRE UN’INDAGINE. Il Corriere del Giorno il 23 Marzo 2021. L’apertura di un procedimento penale da parte della Procura di Arezzo è stato avviato dopo la relazione informativa dei Carabinieri della polizia giudiziaria, consegna in Procura nella mattinata di ieri, accertamenti finalizzati per verificare che nelle procedure seguite non si configuri appunto qualche reato. L’azienda sanitaria ha intanto intrapreso, con il direttore generale Antonio D’Urso ed Evaristo Giglio, direttore del distretto sanitario e responsabile del centro vaccinale, una verifica interna che non si è ancora conclusa. La procura di Arezzo ha aperto un fascicolo modello 45, cioè conoscitivo, sul “caso Scanzi” (per il quale al momento si procede senza ipotesi di reato ) ed anche Eugenio Giani presidente della Regione Toscana ha annunciato di voler aprire un’istruttoria sulle liste dei “riservisti”. Un caso che da lunedì fa discutere sui social , con commenti divisi tra chi giudica un abuso la vaccinazione del giornalista toscano del Fatto Quotidiano, senza prenotazione e necessità di urgenza, e quei pochi spacciano l’ abuso del giornalista come “trasparenza” ! Il giornalista aretino ha difeso la sua scelta con le unghie e con i denti sconfinando secondo noi nel ridicolo e nell’assurdo! Giletti citando la testata TPI che ha sollevato la questione, ha fatto presente che questa famosa lista di “riserve” era pressoché segreta, non era online e comunque i cittadini non ne erano a conoscenza. “Una lista scritta a mano”, ha ricordato Giletti. Lecito chiedersi quindi perché Scanzi è riuscito ad entrarci, ancor prima che i suoi genitori vengano vaccinati  ed altri, che ne avevano magari più necessità, invece no? Peraltro i genitori di Andrea Scanzi non sono ancora vaccinati ma il paradosso deriva dal fatto che per over 80 e persone fragili è utilizzabile soltanto il vaccino Pfizer o Moderna, e non AstraZeneca. Attualmente in una clinica, come lui stesso dichiara in un suo post Scanzi usa parole forti: “Totale rovesciamento della realtà fai un gesto (totalmente lecito e quel giorno non facilissimo emotivamente) per aiutare la campagna vaccinale del tuo Paese dentro una pandemia, e quello che ottieni in risposta è ferocia pura, livore scriteriato e auguri di morte“, aggiungendo “Dopo il mio post la Asl della mia zona ha finalmente messo anche online (era ora!) la lista dei panchinari del vaccino. E le prenotazioni sono esplose. Tutto questo è accaduto anche grazie a me. Non dico che per questo vorrei un encomio, per carità: mi basterebbe un “grazie” (e da moltissimi e’ arrivato)“. Andrea Scanzi in un video pubblicato sui suoi seguitissimi profili social il 25 febbraio 2020 derideva coloro i quali si preoccupava per le notizie sul coronavirus che arrivavano dalla Cina nei giorni in cui si diffondevano i primi contagi anche nel nostro Paese. “Il Coronavirus è qualcosa di leggermente, sottolineo leggermente, più insidiosa di un qualsiasi cazzo di influenza“, diceva Scanzi nella clip diffusa sui social, la stessa in cui criticava fortemente chi indossava la mascherina. Da lì a qualche giorno l’Italia sarebbe entrata in lockdown totale a causa del collasso del sistema sanitario a causa degli alti contagi nel nord Italia. Durante il lockdown, Andrea Scanzi ha scritto il libro “I cazzari del virus” nel quale il giornalista aretino raccontava in che modo è stata affrontata la prima ondata dell’epidemia soprattutto da parte dei politici. Nella descrizione si legge che “di errori così, compiuti non a febbraio quando la situazione ancora incerta sembrava sotto controllo ma in piena emergenza, si può stilare una lista infinita“. Quindi, le sue dichiarazioni di febbraio erano relative a una “situazione ancora incerta”? Successivamente la scorsa estate Andrea Scanzi in Sardegna partecipava a una foto scattata da Luigi Di Maio insieme a un gruppo di altre persone, nessuno delle quali indossava la mascherina pur essendo tutti vicini, creando un piccolo assembramento, in un momento in cui le norme già li vietavano e venivano imposte le mascherine. Scanzi viene criticato e smentito dall’on. Maria Elena Boschi, di Italia Viva che gli attribuisce “una volgare mediocrità che non merita commento”, dandogli del bugiardo mettendo in discussione il suo presunto ruolo di caregiver: “Ha detto che doveva fare il caregiver dei suoi genitori e vorrei capire quando, visto che è sempre in giro“. Secondo l’ On. Boschi il giornalista Scanzi sarebbe bugiardo anche nell’affermare che ha potuto iscriversi alla lista di “riservisti” in quanto le regole in Toscana lo permettono: “No, le regole non sono così – afferma la Boschi – Scanzi non poteva vaccinarsi. In Toscana una come me – che è avvocato – avrebbe potuto vaccinarsi un mese fa. E chi tra i miei colleghi lo ha fatto, ha rispettato le regole. Se non l’ho fatto io, nonostante abbia voglia come tutti di tornare ad abbracciare i miei nipotini, è stato per evitare polemiche dei moralisti contro di me“. “Trovo quanto accaduto irresponsabile — denuncia il parlamentare toscano Stefano Mugnai, vice capogruppo alla Camera di Forza Italia —. Uno scandalo che si è interrotto solo grazie al governo Draghi che ha imposto di procedere per fasce di età (fatti salvi i fragili e fragilissimi) partendo dai più anziani e smentendo clamorosamente quanto deciso in Toscana“. “Qui siamo invasi dai De Luca e da tutti gli altri variopinti furbetti se è vero che un terzo delle vaccinazioni sono toccate a gentaglia che non ne aveva diritto ma che è riuscita a imbucarsi al posto di quelli che ce l’avrebbero avuto. Ma non mi risulta che nei loro confronti siano stati presi provvedimenti di qualche tipo. Eppure è stato un abuso, per la mia legge un reato, che forse è costato, o costerà, la vita a qualcun altro”. si leggeva il 10 marzo scorso da Orso Grigio, il  blog del signor Luciano Scanzi da Arezzo, che era indignato perla pubblicazione della foto del presidente Sergio Mattarella che aspettava il suo turno per vaccinarsi, che aveva fatto notizia. Orso Grigio (alias il padre del giornalista Andrea Scanzi) accusava i giornalisti: “Ecco, invece di esaltarvi per la normalità, con le vostre quasi del tutto inutili testate e con i vostri queruli talk, datevi un senso: denunciate gli abusi, condannate i privilegi, le ruberie, gli evasori, e tutto quello che ammorba la nostra società facendo sentire le persone per bene come dei marziani, e riducendo l’onestà a una mania da pervertiti”. aggiungendo: “Intendiamoci, io non sono un fanatico dei vaccini, aspetto naturalmente il mio turno come è giusto che sia, ma se ci sono delle regole vanno rispettate, e se ci sono delle priorità vanno definite chiaramente e poi rispettate anche quelle. E non, come invece succede, lasciare che ognuno, in ogni regione, possa fare il cazzo che vuole”. Ma adesso papà Scanzi tace. Ed il suo blog è sparito dalla rete internet. Così come è sparita anche la sua pagina Facebook ! Pure coincidenze o solo paura di essere svergognati? Ma il papà di Scanzi deve essersi molto distratto al punto di aver chiuso gli occhi giustificando il figlio firma di punta del Fatto Quotidiano che ha saltato la fila : “Mi sono messo in lista perché ne avevo diritto come caregiver che assiste i suoi genitori anziani e fragili”. Come non ridere quando sentendo parlare di “caregiver” immaginava genitori molto anziani e provati nel fisico dalla malattia, bisognosi di assistenza continua che l’encomiabile… Andrea correva ad assistere fra un collegamento tv e una diretta sui socialnetwork. Luciano, il padre di Andrea Scanzi, è nato nel 1952, mentre la moglie, mamma Fiorella Rossi Scanzi, è del 1949, e va in giro tranquillamente da solo, qualche volta con il figlio, ma su una potente moto Guzzi che è la sua passione. Andrea Scanzi così definiva papà Luciano nel giorno del suo compleanno: “Ha una Guzzi, 18 chitarre, 87 macchine fotografiche e un caleidoscopio…”. La mamma di Andrea Scanzi, Fiorella ha un suo profilo Facebook dove esterna con la stessa arroganza di suo figlio, attaccando c on un post il nostro collega Massimo Giletti , conduttore di “Non è l’ Arena” su La7, responsabile ( secondo noi meritevole !) di avere sollevato il “caso Scanzi-vaccino” domenica sera in trasmissione, e persino Vauro per avervi partecipando, con una battuta sul virus-vanesio che si era impossessato di Scanzi. Mamma Fiorella attacca: “Lei Vauro ha assecondato il gioco denigratorio messo in piedi da Giletti (se va bene) come sciocco servile giullare …per un attimo vecchio vanesio tornato al centro della scena del programma tv”, povera mamma…. guai a toccarle il figliuolo, qualunque cosa abbia fatto! L’apertura di un procedimento penale da parte della Procura di Arezzo è stato avviato dopo la relazione informativa dei Carabinieri della polizia giudiziaria, consegna in Procura nella mattinata di ieri, accertamenti finalizzati per verificare che nelle procedure seguite non si configuri appunto qualche reato. L’azienda sanitaria ha intanto intrapreso, con il direttore generale Antonio D’Urso ed Evaristo Giglio, direttore del distretto sanitario e responsabile del centro vaccinale, una verifica interna che non si è ancora conclusa. Sabato scorso cioè soltanto il giorno dopo della vaccinazione di Scanzi, è stato pubblicato online dall’ASL di Arezzo il modulo per iscriversi all’elenco dei “panchinari” una lista con le segnalazioni verbali dei medici di base da utilizzare in caso di dosi avanzate a fine giornata, secondo la direttiva del generale Figliuolo risalente al 15 marzo scorso. L’azienda sanitaria ASL di Arezzo ha intrapreso una verifica interna con il direttore generale Antonio D’Urso ed Evaristo Giglio, direttore del distretto sanitario e responsabile del centro vaccinale, che al momento non si è ancora conclusa. Il direttore D’Urso ha dichiarato : “L’accertamento prosegue, dobbiamo incrociare i dati in nostro possesso con quelli dell’Inps. Il caregiver deve rientrare negli stessi requisiti propri della legge 104 che prevede tra l’altro un’assistenza continuativa. E per esaurire la pratica abbiamo bisogno della parte previdenziale”. Una vicenda quella del caso Scanzi che ha portato alla luce il problema dei “riservisti” o “panchinari” del vaccino anti-Covid per non sprecare le dosi a livello nazionale. Lecito chiedersi se debba esistere o meno, come vada organizzata chi ne ha diritto considerato che le regioni, come Toscana e la Lombardia ad esempio prevedono delle regole e modalità diverse. Mentre sul portale ( vedi QUI) della Regione Lazio non c’è alcuna traccia! Questo il post del giornalista Scanzi subito dopo l’esplosione del “caso” che lo riguarda: “Ieri ho raccontato di essermi vaccinato come "panchinaro del vaccino". Dopo l’ordinanza del generale Figliuolo di lunedì scorso, che ribadiva di dover usare a fine giornata tutte le dosi a qualsiasi costo e di non sprecarne neanche mezza, ho detto al mio medico di base la frase che ho ripetuto ieri: “Se avanza una dose a fine giornata, non la vuole nessuno e la buttate via, io ci sono. Nel rispetto della legge e senza scavalcare nessuno (ci mancherebbe!)”. “Sono stato così inserito nella lista dei panchinari – continuava Scanzi – Una lista che a dire il vero esisteva anche prima dell’ordinanza di Figliuolo, ma che era meramente verbale. Per meglio dire, tu lo dicevi al tuo medico di base che, se ti reputava idoneo, segnalava il tuo nome al responsabile del piano vaccinale” aggiungendo con sfacciataggine “Nel mio caso, essendo figlio unico e “caregiver familiare” avendo due genitori nella categoria “fragili”, avrei comunque potuto vaccinarmi grazie a un’ordinanza regionale fortemente voluta anche dall’ottimo Iacopo Melio. Ma mi sono comunque iscritto anche nella lista, fino a ieri “solo” verbale e non online, dei panchinari del vaccino”. Peccato però che i due genitori “fragili” non si siano ancora vaccinati. Andrea Scanzi in barba alle regole, invece si. La ciliegina sulla torta (marcia) arriva dal “sodale-giornalista sindacalista” Paolo Borrometi, proiettato da un sito siciliano alla vicedirezione dell’ AGI, agenzia di stampa del Gruppo ENI, che così scrive su Twitter: “prova ribrezzo per le polemiche sul vaccino di Andrea Scanzi”“. Noi al suo contrario invece proviamo ribrezzo per chi pratica un giornalismo, schierato e militante sinistrorso.

La regione rossa che vaccina prima i vip degli ottantenni. Nel tritacarne finisce anche il giornalista e scrittore Andrea Scanzi, il quale è stato vaccinato perché assiste i genitori anziani. "Ho rispettato le regole", scrive sul suo profilo social. Ignazio Riccio - Lun, 22/03/2021 - su Il Giornale. L’Asl di Arezzo ha aperto un’inchiesta interna in merito alla lista dei cosiddetti caregiver, ossia quelle persone che si prendono cura dei familiari ammalati o disabili in attesa del vaccino anti Covid. È polemica in Toscana poiché, se è vero che molti non si sono iscritti all’elenco, pur avendone i requisiti, altri hanno usufruito del beneficio. Tra questi, come riporta il quotidiano Il Giorno, c’è il giornalista e scrittore Andrea Scanzi, il quale è stato vaccinato venerdì scorso al Palaffari di Arezzo. Lo avrebbe fatto saltando la fila delle quasi quindicimila persone che hanno aderito all’iniziativa sul sito della Regione Toscana e che, come lui, hanno i genitori anziani o con patologie specifiche. Scanzi sarebbe rientrato tra i “riservisti”, chiamati all’ultimo momento qualora avanzino delle dosi non inoculate, destinate ad essere buttate nel cestino. Nulla di irregolare sembrerebbe, anche se sarà l’Asl a verificare i fatti, ma il gesto ha provocato malumori e proteste. Lo stesso giornalista, che aveva postato sul sulla sua pagina Facebook un messaggio in cui informava della sua avvenuta vaccinazione, è ritornato sulla vicenda. Sempre sui social ha commentato: “Questa polemica sulla mia vaccinazione non mi diverte. Per niente. Mi offende, mi ferisce, mi fa incazz… e oltrepassa qualsiasi forma di disonestà intellettuale. Come si fa a definirmi ‘furbetto’ se sono stato io, con orgoglio e dopo aver rispettato le regole, a dare la notizia del mio vaccino?”. In Toscana, comunque, c’è già un’altra indagine della Procura su coloro che avrebbero saltato la fila per ottenere la vaccinazione. Circa mille persone si sarebbero iscritte nella lista del personale scolastico e universitario sotto la voce “altro”, poi eliminata. Si tratta di musicisti, modelle, maestri di tennis e di altre categorie non protette; su questi "privilegiati" si sta indagando.

In Toscana ora il caos è totale: vaccinato solo il 5% degli over 80. In regione sono state inoculate più di 500mila dosi dei vaccini anti Coronavirus, ma le polemiche non accennano a placarsi, soprattutto per gli over 80. Resta ancora da chiarire anche l’episodio dello scambio delle pettorine della protezione civile all’esterno del Mandela Forum di Firenze a fine turno, proprio quando vengono chiamati i riservisti. Lì, il caos è stato generato dalla voce che un medico avrebbe vaccinato il figlio facendogli saltare la fila. Anche in questo caso l’Asl ha aperto un’indagine interna. Non è facile evitare i furbetti, in un sistema elefantiaco, senza precedenti in Italia. e le polemiche sono continue. L’ultima ha riguardato anche gli avvocati e ha investito la vicepresidente della regione Stefania Saccardi, iscritta all’ordine, alla quale, come agli altri novemila legali, è stato somministrato il vaccino.

Dagospia il 21 marzo 2021.

L’ho ripetuto spesso in questi giorni, sia in tivù che durante le #ScanziLive: “Se a fine serata avanza una dose di...

Pubblicato da Andrea Scanzi su Venerdì 19 marzo 2021

Ieri ho raccontato di essermi vaccinato come “panchinaro del vaccino”. Dopo l’ordinanza del generale Figliuolo di...

Pubblicato da Andrea Scanzi su Sabato 20 marzo 2021

Da "Huffingtonpost.it" il 21 marzo 2021. Il giornalista e scrittore Andrea Scanzi ha annunciato sulla sua pagina Facebook di essersi vaccinato nella lista di riserva messa a disposizione dalla Regione Toscana, in quanto caregiver familiare con due genitori considerati “fragili”. Sui social però c’è stata più di una critica nei confronti di Scanzi. Innanzitutto perché proprio la Regione Toscana è penultima nella vaccinazione degli over 80, con solo il 5% che ha ricevuto le due dosi. E poi perché fino a oggi la lista di riserva a cui si è iscritto Scanzi non si trovava. Tra i commenti al post di Scanzi, c’è chi scrive: “Ho seguito le Tue indicazioni: ho fatto proprio come Lei. Vediamo se funziona per “i comuni mortali” o vale solo per “amici degli amici”. Mentre un altro dice: Ho chiamato oggi il numero verde e l’operatore mi ha detto che non esiste attualmente nessuna lista per la somministrazione delle dosi che andrebbero buttate e che attualmente chiamano solo quelli che hanno in lista di prenotazione a seconda dell’età e delle patologi”. Un altro ancora: “Io penso che i “panchinari dei vaccini” dovrebbero prima essere quelli che sono in attesa di essere chiamati direttamente dall’ausl, persone che hanno patologie...”. C’è poi chi commenta: “Guardi Scanzi, io la stimo molto come giornalista, ma che lei ora si presenti come un eroe che ha fatto da cavia, dato l’esempio e favorito addirittura la diffusione delle liste di attesa mi pare troppo”.

Scanzi si vaccina come “riservista”, sul caso indaga l’Asl: bufera sul giornalista del Fatto Quotidiano. Fabio Calcagni su Il Riformista il 21 Marzo 2021. Nella Regione penultima in Italia per somministrazione della doppia dose di vaccino agli over 80, Andrea Scanzi riesce a farsi inoculare la prima dose. A raccontarlo è stato lo stesso giornalista toscano del Fatto Quotidiano su Facebook, che in un post sui social ha spiegato di essere riuscito ad entrare nella lista dei cosiddetti “panchinari” o “riservisti”. A spiegare cosa è accaduto è lo stesso Scanzi, 47 anni, che scrive ai suoi followers di aver fatto venerdì 19 marzo il vaccino di AstraZeneca “nel pieno rispetto delle regole” essendo figlio unico di due genitori  fragili e dunque potendo essere considerato un “caregiver”. Un procedimento “regolare, tutto alla luce del sole. Con buona pace di qualche imbecille (compreso qualche finto amico e pseudo-politico) che ha provato a fare polemica”, ha polemizzato Scanzi. Dubbi però condivisibili, visto che effettivamente in Toscana non esisteva una vera e propria lista dei “panchinari”, con il percorso pubblico della Asl Toscana sud est venuto a galla sabato, a seguito delle polemiche nate dal post di Scanzi. Ad ammetterlo è lo stesso giornalista del Fatto, che sottolinea come la lista dei panchinari esisteva anche prima dell’ordinanza di Figliuolo, “ma che era meramente verbale. Per meglio dire, tu lo dicevi al tuo medico di base che, se ti reputava idoneo, segnalava il tuo nome al responsabile del piano vaccinale”. Le accuse nei confronti di Scanzi tra i commenti non sono mancate: “Ho chiamato oggi il numero verde e l’operatore mi ha detto che non esiste attualmente nessuna lista per la somministrazione delle dosi che andrebbero buttate e che attualmente chiamano solo quelli che hanno in lista di prenotazione a seconda dell’età e delle patologi”, scrive un utente. Altri invece ricordano invece la parole pronunciate ad inizio pandemia da Scanzi, che si riferiva così al Coronavirus: “Non è  una malattia mortale porca di una puttana troia ladra”. Ma che vi sia il rischio che Scanzi abbia effettivamente saltato la fila lo ammette la stessa Asl, che secondo Il Tirreno ha aperto un’inchiesta interna per capire se il giornalista e scrittore aretino non abbia ricevuto una dose che poteva essere destinata a qualcun altro. “Stiamo facendo alcune indagini – spiega al Tirreno Simona Dei, direttrice sanitaria – per capire se davvero ne avesse diritto“. Sempre Il Tirreno specifica che la Regione ha chiarito all’Asl che Scanzi “non risulta fra i 18.822 caregiver indicati dai 70.801 fragilissimi che si sono registrati sul portale in questi giorni”. Avendo po la Asl sud est annunciato solo ieri di aver aperto elenchi dei “panchinari”, resta il dubbio su come Scanzi sia riuscito a vaccinarsi: il giornalista è andato fra i box di Arezzo Fiere senza essere stato avvertito?

DAGONOTA il 22 marzo 2021. Sapete dove era ieri Andrea Scanzi a fare la sua diretta Facebook in cui dava dei poveri imbecilli a tutti? All’Hotel Palace di Merano, dove l’opinionista per mancanza di opinioni va ogni anno a fare una settimana di “detox rigoroso”. Il caregiver ha mollato i genitori fragili è se n’è andato in un’altra regione, naturalmente per motivi di salute (come no).

Da corriere.it il 22 marzo 2021. «Era una vaccinazione legale, autorizzata e che rifarei. Una vaccinazione per cui larga parte degli italiani avrebbe dovuto ringraziarmi. L’ho fatta in un momento storico in cui nessuno o pochi italiani avrebbero voluto fare AstraZeneca: io ho voluto accettare l’invito di vaccinarmi proprio per dare un segnale agli italiani. Io mi fido della scienza e ci vado.  Non era un boccone da ghiotti, sia perché nessuno voleva fare quella vaccinazione sia perché nessuno si era iscritto a quella lista che esisteva ed era solo verbale. E che grazie a me è diventata pubblica». Andrea Scanzi torna a parlare della polemica che lo ha coinvolto dopo essersi sottoposto venerdì al vaccino anti Covid-19 con AstraZeneca nel centro vaccinale dell’hub della Fiera di Arezzo. Scanzi spiega di aver avuto la possibilità di sottoporsi al vaccino grazie ad una lista dei riservisti di cui ha chiesto al suo medico curante e che fino a qualche giorno fa era solo verbale, mentre - grazie alla sua testimonianza - è diventata pubblica e a cui si può accedere attraverso la compilazione di un modulo online.

Da sr71.it il 22 marzo 2021. Vaccinazione con polemiche per Andrea Scanzi, dopo l’annuncio della sua iniziativa di «vaccinarsi da panchinaro», la Asl ha effettuato alcune verifiche interne. L’azienda sanitaria ieri pomeriggio ha aperto un sito provvisorio per formalizzare la lista d’attesa per i candidati agli «avanzi di AstraZeneca». Fino ad allora, come dichiarato dallo stesso giornalista aretino, la lista dei panchinari era solo verbale. Secondo quanto riferisce la direttrice sanitaria Asl Toscana Sud Est, Simona Dei, ad appena un giorno dall’apertura del sito per i panchinari, sono 2500 le persone già iscritte, segno di una grande attenzione al tema della vaccinazione contro Covid19, nonostante lo stop and go subito da AstraZeneca. Il sito resterà aperto fino a martedì, quando sarà incluso nella piattaforma regionale, quella che abitualmente viene utilizzata da tutti i vaccinandi. La direttrice Dei, a seguito delle polemiche sulla «vicenda Scanzi», ha effettuato una verifica con i responsabili Asl della vaccinazione ad Arezzo Fiere, luogo dove venerdì sera si è recato Scanzi per ricevere l’iniezione. Secondo quanto riferisce Dei, il personale Asl ha gestito correttamente la pratica della somministrazione. Come da protocollo a Scanzi sono state richieste le informazioni necessarie all’accettazione. Il giornalista aretino, come ha scritto venerdì sera sulla sua pagina Facebook, ha dichiarato agli operatori di essere «caregiver» (ovvero assistente) dei propri genitori e quindi è stato ammesso alla vaccinazione. Alla direttrice Simona Dei è sufficiente questo per chiudere la pratica «salvo ulteriori sviluppi domani – ci ha detto al telefono – per noi la questione è chiusa, non possiamo sollevare dubbi preventivi sulla veridicità delle dichiarazioni di Scanzi, come su quelle di tutti gli altri ‘panchinari’, si tratta infatti di autodichiarazioni». Ieri sera Scanzi ha scritto in un post «Nel mio caso, essendo figlio unico e “caregiver familiare” avendo due genitori nella categoria “fragili”, avrei comunque potuto vaccinarmi grazie a un’ordinanza regionale fortemente voluta anche dall’ottimo Iacopo Melio. Ma mi sono comunque iscritto anche nella lista, fino a ieri “solo” verbale e non online, dei panchinari del vaccino. Tutto regolare, tutto alla luce del sole». In altre parole adesso la vicenda diventa politica e sono già nell’aria delle interrogazioni alla giunta regionale toscana, è infatti alla Regione che sono conservati i registri delle persone fragili, bisognose di «caregiver».

Non è l'Arena, Andrea Scanzi vaccinato. "Un caso strano, i suoi genitori...". Massimo Giletti svela il caos italiano. Libero Quotidiano il 22 marzo 2021. Il caso Andrea Scanzi arriva a Non è l'Arena e Massimo Giletti va dritto ala fonte. In collegamento con La7 c'è Evaristo Giglio, direttore del Distretto sanitario di Arezzo dove la penna del Fatto quotidiano ha avuto accesso al vaccino anti-Covid in quanto compreso una "lista delle riserve". In sostanza, Scanzi ha usufruito del vaccino rimasto al termine della giornata, siero che altrimenti sarebbe stato buttato. Ma a che pro, si sono chiesti molti, considerata la giovane età e la buona salute del giornalista? E quella lista, era accessibile ai comuni mortali o Scanzi ha usufruito della sua posizione per accedervi? "Prima di fare una prenotazione online - spiega il dirigente sanitario -, abbiamo fatto in modo tale di avere una lista cartacea comprendente persone che non erano riuscite a farsi vaccinare per un qualche problema, forze dell'ordine che avevano saltato il loro turno, disabili segnalati dai direttori sanitari di centri diurni". E Scanzi? "Mi è stato segnalato verso il 20-22 febbraio dal medico curante. A che titolo, gli ho chiesto, ha delle patologie? Mi è stato detto che lui ha due genitori fragili con patologie ascrivibili alle classi di persone vulnerabili e vaccinate in Toscana con il vaccino Moderna, e Scanzi dunque rientrerebbe in questa tipologia anche con la iscrizione online. Scanzi è finito in coda alla lista, abbiamo chiamato persone con priorità più alta". "Ma questa lista è precedente al commissario Figliuolo, risale al periodo di Arcuri dunque? - chiede Giletti - Questa storia è strana, basta chiamare il medico della mutua per finire nella lista? I genitori di Scanzi sono vaccinati?". "No, i genitori sono in lista per venire vaccinati", risponde Giglio. "Quindi abbiamo un paradosso - conclude Sallusti -, i genitori di Scanzi che sono vulnerabili non sono stati vaccinati e Scanzi, che è sano, sì". 

Da iltempo.it il 22 marzo 2021. Fulmini sui furbetti dei vaccini. “Qui siamo invasi dai De Luca e da tutti gli altri variopinti furbetti se è vero che un terzo delle vaccinazioni sono toccate a gentaglia che non ne aveva diritto ma che è riuscita a imbucarsi al posto di quelli che ce l’avrebbero avuto. Ma non mi risulta che nei loro confronti siano stati presi provvedimenti di qualche tipo. Eppure è stato un abuso, per la mia legge un reato, che forse è costato, o costerà, la vita a qualcun altro”. Firmato il 10 marzo scorso da Orso Grigio, il  blog del signor Luciano Scanzi da Arezzo. Indignato perché aveva fatto notizia la pubblicazione della foto del presidente Sergio Mattarella che aspettava il suo turno per vaccinarsi. Orso Grigio ribolliva contro noi giornalisti: “Ecco, invece di esaltarvi per la normalità, con le vostre quasi del tutto inutili testate e con i vostri queruli talk, datevi un senso: denunciate gli abusi, condannate i privilegi, le ruberie, gli evasori, e tutto quello che ammorba la nostra società facendo sentire le persone per bene come dei marziani, e riducendo l’onestà a una mania da pervertiti”. E aggiungeva: “Intendiamoci, io non sono un fanatico dei vaccini, aspetto naturalmente il mio turno come è giusto che sia, ma se ci sono delle regole vanno rispettate, e se ci sono delle priorità vanno definite chiaramente e poi rispettate anche quelle. E non, come invece succede, lasciare che ognuno, in ogni regione, possa fare il cazzo che vuole”. Parole da sottoscrivere. Ma a cui non è seguito nulla il primo giorno di primavera quando si è saputo che il figlio di Orso Grigio- al secolo Andrea Scanzi- si era appena vaccinato alla veneranda età di 46 anni in quella Toscana dove chi aveva diritto a quelle fiale per non rischiare la vita- gli ultraottantenni- non ha ricevuto ancora protezione nel 95% dei casi. Orso Grigio deve avere chiuso un occhio per l'amato figlio Andrea che ha fatto più o meno la stessa cosa di Vincenzo De Luca. Ma ne ha dovuti chiudere due per la giustificazione che il figlio firma di punta del Fatto Quotidiano ha dato per avere saltato la fila con salto triplo carpiato: “Mi sono messo in lista perché ne avevo diritto come caregiver che assiste i suoi genitori anziani e fragili”. Ecco forse anziano non me lo farei dire da mio figlio essendo nato nel 1952, più giovane pure di mamma Fiorella Rossi Scanzi, che è del 1949. Poi quando uno ha sentito dire “caregiver” si immaginava genitori molto anziani e provati nel fisico dalla malattia, bisognosi di assistenza continua che il generoso Andrea correva a dare fra un collegamento tv e una diretta social. Papà Luciano invece in giro va da solo, e talvolta sì con il figlio, ma su una potente moto Guzzi che è la sua passione. Luciano così è stato descritto dal figlio il giorno del suo compleanno: “Ha una Guzzi, 18 chitarre, 87 macchine fotografiche e un caleidoscopio...” Mamma Fiorella ha invece un suo profilo Facebook dove cavalca una grinta non da poco. Tanto da avere fulminato nel suo ultimo post Massimo Giletti per avere sollevato il “caso Scanzi-vaccino” domenica sera a “Non è l'Arena e Vauro per avervi partecipando facendo una battuta sul virus-vanesio che si era impossessato di Scanzi. “Lei Vauro”, ha tuonato mamma Fiorella, “ ha assecondato il gioco denigratorio messo in piedi da Giletti (se va bene) come sciocco servile giullare ...per un attimo vecchio vanesio tornato al centro della scena del programma tv”. E mammà la si capisce: guai a toccarle il figliuolo, qualunque cosa abbia combinato. Ma tutti gli altri – a cominciare da medici condotti e dirigenti della Asl di Arezzo- protagonisti di questa commedia dell'arte sullo “Scanzi vaccinato”, che parte hanno?

Francesca Galici per ilgiornale.it il 22 marzo 2021. Ha destato clamore la vaccinazione di Andrea Scanzi, giornalista quarantenne, che ha ricevuto la sua dose in quanto inserito nelle liste di riserva della Regione Toscana in qualità di caregiver dei suoi genitori. La percezione del coronavirus da parte di Scanzi nel corso dell'ultimo anno è cambiata profondamente da quando non la considerava più di una semplice influenza, fino a oggi che non si è sottratto alla vaccinazione. Era il 25 febbraio e Andrea Scanzi in un video pubblicato sui suoi seguitissimi profili social derideva chi, in quel momento, si preoccupava per le notizie sul coronavirus che arrivavano dalla Cina nei giorni in cui si diffondevano i primi contagi anche nel nostro Paese. "Il Coronavirus è qualcosa di leggermente, sottolineo leggermente, più insidiosa di un qualsiasi cazzo di influenza", diceva Scanzi nella clip diffusa sui social, la stessa in cui criticava fortemente chi indossava la mascherina. Da lì a qualche giorno l'Italia sarebbe entrata in lockdown totale a causa del collasso del sistema sanitario a causa degli alti contagi nel nord Italia. Proprio durante il lockdown, Andrea Scanzi ha scritto il libro I cazzari del virus, un volume nel quale il giornalista racconta in che modo è stata affrontata la prima ondata dell'epidemia soprattutto da parte dei politici. Nella descrizione si legge che "di errori così, compiuti non a febbraio quando la situazione ancora incerta sembrava sotto controllo ma in piena emergenza, si può stilare una lista infinita". Quindi, le sue dichiarazioni di febbraio erano relative a una "situazione ancora incerta"? Era estate, invece, quando Andrea Scanzi in Sardegna partecipò a una foto scattata da Luigi Di Maio insieme a un gruppo di altre persone. Niente da rilevare su questo, se non che nessuno dei componenti dello scatto non indossava la mascherina. Erano tutti vicini, creando un piccolo assembramento, in un momento in cui le norme già li vietavano e venivano imposte le mascherine. Tutto questo per arrivare alla vaccinazione effettuata. Andrea Scanzi si è legittimamente sottoposto all'inoculazione della sua dose perché si occupa attivamente della cura dei suoi genitori anziani e, quindi, fragili ed esposti al virus. La Regione Toscana, pur di non buttare dosi di vaccino ha creato delle liste di riserva per utilizzare quelle non somministrate agli aventi diritto delle liste principali. La parabola informativa di Andrea Scanzi sul virus è stata molto particolare e non si può dire che non abbia cambiato idea nel corso del tempo. In queste ore, Andrea Scanzi ha commentato la polemica sorta attorno alla sua vaccinazione: "Era una vaccinazione legale, autorizzata e che rifarei. Una vaccinazione per cui larga parte degli italiani avrebbe dovuto ringraziarmi. L’ho fatta in un momento storico in cui nessuno o pochi italiani avrebbero voluto fare AstraZeneca: io ho voluto accettare l’invito di vaccinarmi proprio per dare un segnale agli italiani. Io mi fido della scienza e ci vado". Andrea Scanzi, poi, prosegue: "Non era un boccone da ghiotti, sia perché nessuno voleva fare quella vaccinazione sia perché nessuno si era iscritto a quella lista che esisteva ed era solo verbale. E che grazie a me è diventata pubblica". Andrea Scanzi ha rivendicato la vaccinazione con AstraZeneca effettuata non appena l'Aifa aveva dato nuovamente il via libera al preparato. Scanzi ha ammesso che nessuna delle persone a lui vicine, tranne la compagna Sara, lo incoraggiava in questa decisione.

Il vaccino a Scanzi:  adesso indaga la Procura  In Toscana il faro dei Nas sulle liste dei riservisti. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 23/3/2021.

Scanzi: «Qui a mie spese. Iscritto in lista e chiamato dopo 25 giorni». Il sito Dagospia intanto ha puntato il dito sul fatto che Scanzi avesse lasciato la casa dei genitori per un soggiorno di una settimana di relax all’Hotel Palace di Merano e proprio da qui, lontano da casa, avesse poi annunciato la sua decisione di vaccinarsi come persona che si prendeva cura del padre e della madre. Presenza confermata dallo stesso Scanzi che però ha replicato duramente: «E quale sarebbe il problema? Vengo in questa clinica a mie spese. Ho fatto il vaccino rispettando le regole, mi sono iscritto in lista e sono stato chiamato dopo 25 giorni».

Anzaldi: «Sospendere il contratto di Scanzi con la Rai». Per Michele Anzaldi, tuttavia, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, il contratto che Scanzi ha con la Rai (il giornalista è collaboratore di «Cartabianca») ora dovrebbe essere sospeso. Mentre il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani ha annunciato che sul caso ci sarà un’istruttoria. Chi invece difende il giornalista è l’europarlamentare della Lega Susanna Ceccardi: «Se si è fatto fare un vaccino destinato a finire nella spazzatura ha fatto bene», scrive su Facebook, stigmatizzando il comportamento della Toscana che è tra le ultime regioni per vaccini agli over 80 anni.

Giani: «Abbiamo bisogno di dosi». Già, gli 80enni. La Toscana ha il primato per vaccinati sino a 59 anni ed è ultima nella fascia oltre gli 80 e adesso mancano i vaccini perché gli AstraZeneca non possono essere utilizzati sugli ottuagenari. «Trovo quanto accaduto irresponsabile — denuncia il toscano Stefano Mugnai, vice capogruppo alla Camera di Forza Italia —. Uno scandalo che si è interrotto solo grazie al governo Draghi che ha imposto di procedere per fasce di età (fatti salvi i fragili e fragilissimi) partendo dai più anziani e smentendo clamorosamente quanto deciso in Toscana». Il presidente della Regione Eugenio Giani parla di discorsi e chiacchiere. «Abbiamo bisogno di dosi. Al Palasport di Firenze si possono fare cinquemila vaccini al giorno e se ne somministrano mille, perché mancano sono le dosi».

I «furbetti del vaccino». Intanto proseguono a Firenze le indagini del Nas (ma in questo caso la procura per ora non ha aperto alcun fascicolo) per fare luce sui presunti furbetti che avrebbero ricevuto la vaccinazione senza averne diritto. Nel portale della Regione si sarebbero iscritti tra gli altri ballerine, modelle, professori d’orchestra, insegnanti di alcune discipline sportive, istruttori di scuola guida, cuochi e camerieri. I carabinieri starebbero verificando un elenco di 57 mila nomi per individuare chi si è spacciato per insegnante o altre categorie che avevano diritto alla vaccinazione. Un lavoro non facile, non solo per il numero di persone da controllare ma anche perché ci sono vaccinati che svolgono più professioni e dunque potrebbero essere in regola. Per capirlo occorreranno almeno un paio di mesi. E intanto si scopre che il sito di prenotazioni non controlla se gli iscritti abbiano diritto o meno alla vaccinazione.

Vaccini, il "caso Scanzi" finisce in procura: aperto un fascicolo ad Arezzo. Il fascicolo aperto è "a modello 45", ovvero senza indagati e senza ravvisare reati specifici e non sarebbe ancora stato affidato ad un pubblico ministero per avviare le indagini. Federico Giuliani - Lun, 22/03/2021 - su Il Giornale. La procura di Arezzo ha aperto un fascicolo conoscitivo sulla vicenda della vaccinazione di Andrea Scanzi. Il giornalista quarantenne era finito nell'occhio del ciclone per aver ricevuto, venerdì scorso, la sua dose poiché inserito nelle liste di riserva della Regione Toscana nei panni di caregiver dei suoi genitori.

Il fascicolo "a modello 45". Secondo quanto riportato dall'AdnKronos, il fascicolo aperto è "a modello 45", ovvero senza indagati e senza ravvisare reati specifici. Al suo interno, per adesso, sarebbero stati inseriti una serie di articoli di giornali che si sono occupati dell'intero caso. Tutto è nato da una segnalazione del nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Arezzo. I militari hanno raccolto tutto ciò che emerso sul caso: insieme alle notizie di stampa, anche le indicazioni dei programmi televisivi che si sono occupati del caso e le comunicazioni dello stesso Andrea Scanzi fatte attraverso i social. Il fascicolo conoscitivo non sarebbe ancora stato affidato ad un pubblico ministero per avviare le indagini. Nel frattempo, il presidente dell'Avis Toscana, Adelmo Agnolucci, ha provato a gettare acqua sul fuoco dichiarando, sempre all'agenzia AdnKronos, che "la vaccinazione di Andrea Scanzi è regolare". Agnolucci ha ricordato che è previsto nella normativa dei vaccini che "se si accudiscono persone fragili e a rischio, come lo sono i genitori anziani di Scanzi, si ha diritto al vaccino". Questo, tra l'altro, è previsto "anche per le badanti e per chi si prende cura in generale di soggetti fragili". Scanzi avrebbe quindi fatto ricorso a questa normativa e sarebbe "in regola"."Non ha fatto alcun intrallazzo per vaccinarsi prima", ha concluso il presidente parlando del giornalista.

Non si placano le polemiche. Eppure, considerando i ritardi sulle vaccinazioni agli anziani che affligono la Toscana, le polemiche faticano a placarsi. Nelle ultime ore, il diretto interessato ha così commentato la questione: "Era una vaccinazione legale, autorizzata e che rifarei. Una vaccinazione per cui larga parte degli italiani avrebbe dovuto ringraziarmi. L’ho fatta in un momento storico in cui nessuno o pochi italiani avrebbero voluto fare AstraZeneca". "Non era un boccone da ghiotti, sia perché nessuno voleva fare quella vaccinazione sia perché nessuno si era iscritto a quella lista che esisteva ed era solo verbale. E che grazie a me è diventata pubblica", ha quindi aggiunto Scanzi. Al giornalista è stata somministrata una dose del vaccino in quanto il suo nome era stato inserito nella lista della panchina vaccinale, occupandosi attivamente della cura dei genitori anziani, fragili e quindi esposti al virus. La Regione Toscana ha infatti creato liste di riserva per usare le dosi non somministrate agli aventi diritto inseriti nelle liste principali.

I ritardi della Regione Toscana. E qui si apre un altro fronte, strettamente collegato alla vicenda Scanzi. La Regione Toscana è accusata di essere in ritardo sulle vaccinazioni agli anziani. Agnolucci ha spiegato che "il capogruppo Pd in Consiglio regionale Vincenzo Ceccarelli e il presidente della Commissione sanità Enrico Sostegni hanno appena chiesto una verifica in Commissione Sanità all'assessore Simone Bezzini sull'andamento del piano vaccinale". Entrambi, ha proseguito Agnolucci, "chiederanno che le 120mila dosi di vaccini Pfizer e Moderna annunciate per le prossime due settimane vengano destinate agli ultraottantenni e ai portatori delle patologie più gravi, con l'obiettivo di completare la vaccinazione entro aprile grazie alla collaborazione dei medici di famiglia e, se questi non bastassero, attivando tutte le risorse necessarie per consentire il raggiungimento dell'obiettivo".

Anzaldi: "La Rai sospenda il contratto di Scanzi". Il deputato renziano Michele Anzaldi chiede che la Rai sospenda il contratto di collaborazione che il giornalista Andrea Scanzi ha per le sue ospitate nel programma Cartabianca. Francesco Curridori - Lun, 22/03/2021 - su Il Giornale. La vaccinazione di Andrea Scanzi, continua a far discutere. Ora il giornalista del Fatto Quotidiano, che ieri ha dato sui social una prima versione della vicenda, vorrebbe spiegare la sua posizione anche durante la trasmissione Cartabianca. Nel merito abbiamo sentito l'opinione del deputato renziano, Michele Anzaldi, segretario della commissione di vigilanza Rai.

Onorevole Anzaldi, crede sia positivo che il giornalista Scanzi esponga le sue ragione durante il talk show di Raitre?

"Credo che la vicenda Scanzi meriti chiarimenti ufficiali dalle istituzioni competenti, visto che il tema vaccini rappresenta una questione cruciale per tutti in questo momento. In attesa che la questione venga chiarita, anche a seguito dell’apertura di un fascicolo della Procura di Arezzo, la Rai dovrebbe sospendere il contratto che ha con Scanzi per le sue ospitate pagate a Cartabianca. Una sospensione in via cautelativa, anche per evitare eventuali violazioni del Codice Etico del servizio pubblico".

Quali violazioni si rischiano?

"Secondo il Codice Etico dell'azienda, i collaboratori devono adeguare le proprie azioni e i propri comportamenti agli impegni previsti dal codice stesso, primo fra tutti l’aderenza all’etica, 'approccio indispensabile per l’affidabilità Rai'. Tra i fondamenti del codice: 'astenersi dal compimento di atti illegali, illeciti, non conformi al comune senso di rettitudine e al comune senso dell’onore e della dignità'. Visto che ci sono verifiche in corso, annunciate dalla Asl e dalla Regione, credo sia doveroso attendere l'esito di queste verifiche prima di far tornare Scanzi a Rai3. Anche per evitare conflitti di interessi, oltre ad un potenziale danno d'immagine per la Rai".

A quale conflitto d'interessi si riferisce?

"Scanzi è un collaboratore fisso di Cartabianca, retribuito per scelta della trasmissione e della conduttrice. Quindi se gli venisse consentito in quella sede di difendersi avrebbe un evidente condizione di favore: difficile pensare che si troverebbe di fronte ad un contraddittorio duro e imparziale. Se vuole difendersi, vada come ospite in trasmissioni che non lo pagano. È opportuno evitare, quindi, che una trasmissione del servizio pubblico diventi un'occasione di servizio privato a Scanzi, che paradossalmente verrebbe non solo pagato trarrebbe anche un vantaggio d'immagine per vicende personali. La sospensione servirebbe anche a evitare imbarazzi alla Rai: chi può dire oggi che strascichi avrà questa storia, anche eventualmente in ambito giudiziario?".

Secondo il sito Dagospia, Scanzi ieri si trovava fuori dalla sua Regione dove ieri si era vaccinato in quanto "caregiver" dei suoi genitori.

Ecco, entrando nel merito della vicenda, lei cosa ne pensa?

"Anche su questo mi auguro che le autorità competenti facciano luce con celerità. Per come la vicenda è stata raccontata dal sito Dagospia alimenta molti dubbi e fa pensare che siamo di fronte ad un evidente caso di doppia morale, a cui alcune firme del Fatto Quotidiano non sono nuove. Sapere che tanti settantenni, cui spetta il vaccino astrazeneca e che sono tra i più a rischio mortalità per il covid, ancora non possono neanche prenotarsi, mentre un giornalista quarantenne si é già vaccinato lascia sbalorditi".

Dagospia il 22 marzo 2021. Dall’account facebook di Selvaggia Lucarelli. Per me Scanzi si può vaccinare, può andare da Chenot, può entrare in liste verbali accessibili solo a conoscenti/ amici/ amici di amici (grave errore della asl Toscana, che poi ha cercato di rimediare in tutta fretta il giorno dopo) ma su due cose non transigo: non ci si auto-definisce caregiver, per sostenere che si aveva il diritto a vaccinarsi. Bastava dire: avanzava un vaccino, ne ho approfittato e grazie a chi me lo ha permesso. Perchè i caregiver non sono figli premurosi come sicuramente sarà Andrea, ma persone che dedicano la loro vita all'assistenza e alla cura di persone con gravi disabilità e patologie.  Molte di queste persone sono costrette ad abbandonare il lavoro e convivono con la persona fragile. La differenza è importante, e non si deve fare confusione. Su questo non si può giocare, perchè anche in Toscana non sono ancora vaccinati nè (molti) caregiver nè (molti) soggetti fragili. E che Pierpaolo Sileri non ritenga questo passaggio fondamentale, ma si limiti a una difesa d'ufficio senza aggiungere altro,  fa parecchia impressione. La seconda cosa su cui non si può sbagliare, se ci si auto-promuove testimonial di Astrazeneca, è il continuare a dire "Ho fatto praticamente da cavia", "Mi sono preso il rischio", "Dovete ringraziare perchè tutti gli italiani terrorizzati non si volevano più fare il vaccino, io l'ho fatto", "La mia famiglia era in apprensione per me". Se c'è un modo sbagliato di rassicurare è dire che chi si vaccina fa da cavia, rischia, che paura. 12 milioni di persone solo nel Regno Unito e un milione in Italia si sono vaccinate con Astrazeneca, il vaccino è sicuro e non c'è alcun atto di eroismo, nel farselo. Gli eroi sono quelle persone fragili che attendono educatamente di vaccinarsi, rischiando di prendersi il virus ogni giorno. Spero che Scanzi ci rifletta. Per il resto, tirare fuori il suo vecchio video è una cazzata, questa polemica domani sarà nello sgabuzzino delle cose dimenticate e Andrea tornerà ad occuparsi di altro, per sua fortuna,  ma la questione caregiver e persone fragili non deve essere dimenticata. E non deve essere usata. Vaccinateli tutti e il prima possibile.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 22 marzo 2021. Vabbeh, Scanzi, sei un cazzaro definitivo col timbro della Cassazione a sezioni riunite: hai ottenuto un primo risultato, sei riuscito a farmi telefonare e scovare proprio di domenica (inoltrata) dopo che altri quattro colleghi si erano dati per morti, introvabili o presi da impegni più seri (Cruciani, per esempio, era seduto sulla tazza del cesso). Io però sono dipendente di Libero e dopo quattro telefonate del direttore e una del vicedirettore (senza rispondere) ho dovuto richiamare, e arrendermi all' umiliazione: ed eccomi qui, a dover «scrivere» di un giornalista pubblicista (come la tua amica Lucarelli) che pur di farsi notare si darebbe fuoco, scrivere di un malato - voglio violare la privacy - affetto da disturbo narcisistico della personalità, il quale - parlo di te, bamboccio - di fronte al suo target di lemuri social è riuscito persino ad annunciare e a giustificare d' aver fatto il vaccino anti Covid a 47 anni: come se il dimostrarne almeno dieci di più fosse una giustificazione. Comunque bravo, bravo pirla, sei diventato uno spot istituzionale per la Toscana dei cazzari, regione già primatista di autentiche truffe da furbetti del vaccino, regione che sulla piattaforma per la prenotazione del personale scolastico, diviso in 24 categorie professionali più la generica voce «altro», ha visto infilarsi in migliaia sotto la voce «altro», con le scuse più fantasiose. Regione in cui la categoria degli avvocati era stata inserita tra il personale degli uffici giudiziari (ridicolo) col risultato che, su 8.600 vaccini fatti, oltre 7000 li hanno fatti loro, i fondamentali avvocati. Regione in cui, selezionando i vaccinandi in base alle esenzioni dal ticket previste per patologia, hanno tentato di convocare dei morti. Regione dove manca una piattaforma di prenotazione per i volontari del soccorso 118. Regione dove potrei farti nome e cognome di 93enni che sono lì che aspettano, perché hanno un sacco di malanni, chiaro, anche se difettano del disturbo narcisistico di personalità che invece domina te con sintomatologia crescente. Regione di Scanzi Andrea. Regione penultima nella vaccinazione degli over 80, con solo il 5 per cento che hanno ricevuto le due dosi. Il grave è questo, pezzo di aretino col vaccino: averlo raccontato, averlo declarato, averlo tronfiamente esibito lasciando scivolare un sottotesto tipo «vedete che fico che sono, io l' ho fatto e sono già salvo, è possibile, evidentemente voi siete imbranati». Vedi, è in questo che non capisci un cazzo, grande aretino. Credi che gli altri toscani non abbiano un medico di base da esortare. Credi che non ci avesse pensato nessuno, credi dunque che non abbiano fatto un favore specificamente a te. Se morivi dalla paura per il Covid, pace: potevi tenertelo per te, potevi evitare di raccontare d' esserti intrufolato come «panchinaro del vaccino» approfittando dell' ordinanza del generale Francesco Paolo Figliuolo, quella che raccomandava di esaurire a fine giornata tutte le dosi a qualsiasi costo. Allora - l' hai spiegato tu - hai telefonato al tuo medico di base (non è uno psichiatra, apprendiamo) e gli hai detto: «Se avanza una dose, se non la vuole nessuno e la buttate via, io ci sono». Era una prassi discrezionale: non c' era nessuna lista. Passi, quindi, che sia avanzata una dose (e non dovrebbe) e passi pure che possa esser capitato di doverla buttare (dovrebbe capitare ancora meno) ma non passa, vedi, quel tuo «non la vuole nessuno» riferito alla dose. Fa girare i coglioni che non hai: perché chi una dose la voglia - meglio: chi ne abbia davvero bisogno - io te lo troverei in due minuti, anche se sono un orso e vivo isolato, mentre tu evidentemente no, vivi come un criceto nella ruota dei social ma non l' hai trovato, disdetta. No, non credo che sia perché il tuo target medio è composto da minorati 13enni oppure, dal versante anziano, da Marco Travaglio e Selvaggia Lucarelli. Il fatto è un altro. Tu hai scritto di esserti mosso «nel rispetto della legge», ma forse dovevi scrivere «scavando nelle smagliature della legge», una circostanza che ti ha permesso di scavalcare un sacco di gente. Che poi quanto sia stata regolare, la tua procedura, è tutto da dimostrare: sì, perché il tremebondo Scanzi, che è un grande fico ma è anche l' unico cazzaro che non conosce nessuno che abbisogni del vaccino, si è auto-dichiarato un «caregiver familiare», ossia «colui che si prende cura e si riferisce a tutti i familiari che assistono un loro congiunto ammalato e/o disabile». Da qui la prima domanda non retorica, caro assistente di congiunti: i tuoi genitori sono stati vaccinati, vero? No, perché a noi non risulta, ma potremmo sbagliarci: illuminaci. Poi comunque c' è un' altra cosa: la Regione ha dichiarato che il cazzaro Scanzi «non risulta fra i 18.822 caregiver indicati dai 70.801 fragilissimi che si sono registrati sul portale». Potrebbero sbagliarsi anche loro.  Ma il cazzaro Scanzi avrebbe almeno potuto iscriversi - chiediamo - sulla piattaforma delle riserve? No, perché non c' era ancora nessuna piattaforma delle riserve: l' hanno fatta dopo il suo caso. Il cazzaro ha scritto che sarebbe stato «il responsabile di zona ad informarlo» di una dose a disposizione, ma «a noi non risulta» fanno sapere dalla Asl Sudest di Arezzo. Oh. Che confusione. Scanzi, forse qualcuno ce l' ha con te, saranno di sicuro degli invidiosi. Detto questo, girare le frittate non è difficile in sé: è difficile farlo davanti a gente capace di intendere, di volere e di ricordare. Ai lemuri tu hai spiegato che il tuo gesto voleva «esortare alla vaccinazione» e che grazie al tuo scrocco autorizzato, in Toscana, molti impareranno la prassi da «panchinaro dei vaccini». Eh sì, perché dopo l' esibizione della tua profilassi, altri lemuri ti hanno chiesto come fare, e tu gliel' hai spiegato: ma solo ora. Prima, per il loro bene, sei andato avanti tu. E per non sembrare che abbiano favorito uno pseudo-giornalista, ora, si inventeranno - vedrai - una lista d' iscrizione per panchinari: che poi sarà un elenco che quantifica delle inefficienze, a pensarci. Il punto, egregio cazzaro, è che non pensavano che avresti avuto il fegato di esibirti persino in questo, e raccontare tutto sbrodolandoti addosso. È che non resisti. Il disturbo narcisistico è una brutta bestia. Il semplice piacersi, e dare spettacolo di sé, sono un' altra cosa. L' unica cura per impedirti di sparare ogni cazzata che scorra nella tua parte destra del cervello, beh, sarebbe una martellata sul cranio: ma è una terapia ritenuta superata. Ma noi, come facciamo? Come facciamo, noi dotati di memoria, a non ricordare quando desti a tutti dei «deficienti» (25 febbraio 2020) perché giravano con la mascherina? Quando dicesti «è un semplice raffreddore, non una malattia mortale»? Quando insultasti i colleghi che giudicavi «allarmisti» per una «normale influenza»? Quando urlasti «Ma quale pandemia!... Mi stanno annullando le date teatrali!». Dopodiché, sdraiato a tappeto sotto Giuseppe Conte, sei passato a elogiare qualsiasi lockdown. «Scellerato far giocare Atalanta-Valencia», dicesti due mesi dopo, mentre cannoneggiavi quelli che in precedenza, con molta più moderazione, erano incappati nel tuo stesso svarione. Certo, hai ragione: tu problemi non ne hai, perché i tuoi seguaci non hanno memoria essendo animali (lemuri) e gli animali vivono solo il presente, beati loro. Ma chi invece ha memoria, maledetto te, è dannato due volte, perché finisce che lo chiamano anche di domenica per umiliarsi e scrivere questa cosa, che ti piacerà comunque, perché parla di te, di te, di te.

Dagospia il 23 marzo 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, sulla vaccinazione di Scanzi si è già scritto tutto, credo che una riflessione in più andrebbe fatta. Il vaccino Pfizer subisce un processo per passare dai -80gradi in cui viene conservato alla forma iniettabile. Fatto questo processo se non viene iniettato si butta. Da qui il richiamo del Gen. Figliuolo a vaccinare chiunque passi per evitare di sprecare dosi preziose. Il vaccino AstraZeneca si conserva in un normale frigorifero ed è già pronto per essere iniettato. Quindi non va sprecato se qualcuno non si presenta. T.

LA PRECISAZIONE DI UN MEDICO DI FAMIGLIA. Sono un medico di famiglia e ho vaccinato la coorte degli insegnanti con Astra Devo smentire quanto pubblicato,il flacone da 11 dosi una volta aperto va finito entro 48 ore,si conserva si ma solo se non aperto. GP 

Dagospia il 23 marzo 2021. Dal profilo facebook di Andrea Scanzi. La cosa che più mi fa incazzare della vicenda vaccini è che abbiano messo in mezzo i miei genitori. Tutto avrei voluto fuorché questo. Io ci sono vaccinato a tutta ‘sta cloaca travestita da social. Ma loro no. Il tecnicismo sanitario li ritiene fragili, ma sono molto più forti di me. Non ho rubato il vaccino a nessuno e men che meno a loro, perché le persone fragili non possono fare Astrazeneca. Mi sono iscritto alla lista dei panchinari per rendermi disponibile a ricevere un’eventuale dose in casi estremi (dosi buttate via) e nel pieno rispetto delle regole. Ho le chat private che comprovano ogni cosa che dico. Non ho mai neanche lontanamente pensato di sfruttare le cartelle cliniche delle due persone a cui più sono legato. Ho solo detto al mio medico curante, ancor più dopo l’appello di Figliuolo otto giorni fa: “Se una dose la buttate via, io son qua. Nel pieno rispetto della legge. Altrimenti non chiamatemi”. Come ha spiegato il viceministro Sileri: “È doveroso che le Asl abbiano liste di riserva per non dover buttare dosi di vaccino in avanzo. Venerdì scorso, giorno in cui erano attese molte disdette, una di queste dosi è toccata ad Andrea Scanzi. Ne sono nate polemiche inutili: Scanzi ha dato il buon esempio”. Fine. Leggo persino ironie sul mio “ruolo” di figlio. Premesso che lascio il significato e i confini esatti (assai scivolosi) del “caregiver” ad altri, per una volta hanno ragione i latratori di professione: se caregiver è colui che dà la vita per assistere gli altri, allora sono mio padre e mia madre ad essere i caregiver del sottoscritto. Non viceversa. Entrambi hanno una cartella clinica che giustifica eccome la qualifica di fragili (e mi perdonerete se non andiamo oltre perché sono cazzi nostri), ma mia madre e mio padre sono molto più forti, giovani, dinamici, grintosi, generosi e caregiver di me. Per distacco. Un’ultima cosa. Mio padre, oggi, è stato travolto (nella sua pagina Orso Grigio) da uno shitstorm vergognoso di odiatori seriali. “Ti serve la badante”, “Sparati con tuo figlio”, “Vecchio rincoglionito”. Eccetera. Ora: premesso che mio padre, se vi trova per strada, fa come Tex e vi manda a spalare le miniere di carbone di messer Satanasso in persona, questi insulti ai miei genitori vi qualificano ulteriormente. Mi fate schifo, e la pagherete cara (in tribunale, eh. Per vostra fortuna son pacifista). Un abbraccio forte a mia madre e a mio padre, caregiver del sottoscritto e non viceversa. (La foto è di due anni fa. Lo dico per i sottosviluppati che erano già pronti a scrivere: “Ora fai pure assembramenti?”).

Marco Gasperetti per il "Corriere della Sera" il 23 marzo 2021. Quella vaccinazione da caregiver, ovvero come lui stesso ha spiegato come persona che si occupa dei genitori anziani fragili, è stata come un boomerang. Che ha provocato un vespaio di polemiche travolgendo Andrea Scanzi, giornalista, opinionista e volto noto della tv. Non solo il web si è messo a ribollire dividendosi tra chi giudica un abuso la scelta di Scanzi (i genitori non sembrano così vecchi e disabili, ha scritto qualcuno con tanto di foto) e chi invece lo loda per coraggio e trasparenza, ma adesso sul caso c' è anche un'indagine della procura di Arezzo diretta da Roberto Rossi, lo stesso magistrato del caso Banca Etruria. Per ora c' è solo l' apertura di un fascicolo conoscitivo. Non sono stati ipotizzati reati e tantomeno inviati avvisi di garanzia. La decisione dei magistrati toscani è stata presa dopo un' informativa dei carabinieri e adesso si vuole capire se le procedure seguite nella vaccinazione del giornalista siano state corrette. Il sito Dagospia intanto ha puntato il dito sul fatto che Scanzi avesse lasciato la casa dei genitori per un soggiorno di una settimana di relax all' Hotel Palace di Merano e proprio da qui, lontano da casa, avesse poi annunciato la sua decisione di vaccinarsi come persona che si prendeva cura del padre e della madre. Presenza confermata dallo stesso Scanzi che però ha replicato duramente: «E quale sarebbe il problema? Vengo in questa clinica a mie spese. Ho fatto il vaccino rispettando le regole, mi sono iscritto in lista e sono stato chiamato dopo 25 giorni». Per Michele Anzaldi, tuttavia, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, il contratto che Scanzi ha con la Rai (il giornalista è collaboratore di «Cartabianca») ora dovrebbe essere sospeso. Mentre il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani ha annunciato che sul caso ci sarà un' istruttoria. Chi invece difende il giornalista è l' europarlamentare della Lega Susanna Ceccardi: «Se si è fatto fare un vaccino destinato a finire nella spazzatura ha fatto bene», scrive su Facebook, stigmatizzando il comportamento della Toscana che è tra le ultime regioni per vaccini agli over 80 anni. Già, gli 80enni. La Toscana ha il primato per vaccinati sino a 59 anni ed è ultima nella fascia oltre gli 80 e adesso mancano i vaccini perché gli AstraZeneca non possono essere utilizzati sugli ottuagenari. «Trovo quanto accaduto irresponsabile - denuncia il toscano Stefano Mugnai, vice capogruppo alla Camera di Forza Italia -. Uno scandalo che si è interrotto solo grazie al governo Draghi che ha imposto di procedere per fasce di età partendo dai più anziani e smentendo clamorosamente quanto deciso in Toscana». Ma il presidente della Regione Giani replica. «Al Palasport di Firenze si possono fare cinquemila vaccini al giorno e se ne somministrano mille, perché mancano solo le dosi». Intanto proseguono a Firenze le indagini del Nas (ma in questo caso la procura per ora non ha aperto alcun fascicolo) per fare luce sui presunti furbetti che avrebbero ricevuto la vaccinazione senza averne diritto. Nel portale della Regione si sarebbero iscritti tra gli altri ballerine, modelle, professori d' orchestra, insegnanti di alcune discipline sportive, istruttori di scuola guida, cuochi e camerieri. I carabinieri starebbero verificando un elenco di 57 mila nomi per individuare chi si è spacciato per insegnante o altre categorie che avevano diritto alla vaccinazione. Un lavoro non facile, non solo per il numero di persone da controllare ma anche perché ci sono vaccinati che svolgono più professioni e dunque potrebbero essere in regola. Per capirlo occorreranno almeno un paio di mesi. E intanto si scopre che il sito di prenotazioni non controlla se gli iscritti abbiano diritto o meno alla vaccinazione.

DAGONOTA il 23 marzo 2021. L’apertura di un’indagine da parte della Procura di Arezzo fa tremare Andrea Scanzi. In una diretta Facebook ieri sera, in cui ha sclerato contro tutti, il giornalista (per mancanza di notizie) del “Fatto quotidiano” ha provato ad innestare a tutta forza una imbarazzante retromarcia: ora dice di non essersi mai definito “caregiver” dei suoi genitori! Peccato che ci sia la cronologia dei suoi post su Facebook a smentirlo. Ma sentiamo cosa ha detto ieri sera Scanzi. Ecco lo sproloquio al minuto 11.25 della sua diretta serale: “Se qualcuno in Procura mi vorrà chiamare, guarderà queste mie chat e scoprirà che io sono stato inserito nella lista dei panchinari in piena regola, su decisione del mio medico curante che l’ha poi sottoposta al direttore della Asl di Arezzo, senza mai, mai, mai tirare fuori il tema dei miei genitori. Io ho detto in ogni mio post, anzi in ogni mio commento whatsapp ai medici: se c’è la possibilità, alla luce di quello che ha detto Figliuolo, se dovete buttare via una dose, non rubo il posto a nessuno, e altrimenti la buttate via, chiamatemi. Non ho mai citato mio padre e mia madre, è stata la Asl, quando ho fatto il vaccino, a spiegarmi che, oltre ad essere nella lista dei vaccini e quindi a prescindere io avevo diritto al vaccino, ero anche uno dei rientrava nella categoria dei figli unici e avendo due genitori che, toccando ferro, stan da dio, ma hanno una cartella clinica che non è da dio per niente, alla luce di quell’aspetto c’era una motivazione ulteriore, suppletiva, per cui io ricevessi il vaccino. Quindi avevo due motivazioni. Non sono secondo alcuni un caregiver? Mai me ne sono vantato, me lo ha detto la Asl che sono un caregiver familiare”. Insomma, ora Scanzi sostiene di non aver tirato fuori lui la storia del caregiver dei suoi genitori. Peccato che basti andare a leggere il post che ha pubblicato la sera di venerdì 19 marzo, giorno in cui si è vaccinato, per verificare tutta un’altra versione. Basta andare nella cronologia delle modifiche per leggere la frase che quella sera Scanzi diffuse per giustificare la sua vaccinazione saltafila: “Così, nel pieno rispetto delle regole, mi sono messo garbatamente nella lista dei disponibili al vaccino a fine giornata, per non buttare via nessuna dose altrimenti gettata via. Categoria "caregiver", essendo figlio unico e avendo entrambi i genitori "fragili"”. Ieri sera, lunedì 22 marzo, alle ore 19.08, Scanzi ma modificato questa frase, cambiando versione, esattamente pochi minuti dopo che la Procura di Arezzo aveva fatto sapere dell’apertura di un’indagine giudiziaria sul caso. Ecco la nuova formulazione: “Così, nel pieno rispetto delle regole, mi sono messo garbatamente nella lista dei disponibili al vaccino a fine giornata, per non buttare via nessuna dose altrimenti gettata via. Categoria "panchinaro" e - come mi ha detto Asl - caregiver familiare, essendo figlio unico e avendo entrambi i genitori "fragili"”. E così, con una modifica postuma, Scanzi tenta di cancellare la bufala del caregiver e si traveste ora da “panchinaro”. Per i magistrati basterà? Staremo a vedere…

Dagospia il 23 marzo 2021. Dal profilo Facebook di Maria Elena Boschi. C’è un giornalista pagato dalla Rai, dal Fatto Quotidiano e da La7 per insultarci costantemente in TV. Si chiama Andrea Scanzi. La sua volgare mediocrità non merita commento. Ma ciò che io trovo vergognoso è che Andrea Scanzi, già sostenitore della tesi “il corona virus è solo un raffreddore”, si sia vaccinato in Toscana, non solo saltando la fila ma mettendo insieme una squallida lista di bugie. Ha detto che doveva fare il caregiver dei suoi genitori e vorrei capire quando, visto che è sempre in giro. Peraltro i suoi genitori fortunatamente stanno bene. Ha detto che si è iscritto a una lista “di riserva” e si è scoperto che la lista semplicemente non esisteva. Ha detto di aver rispettato le regole quando invece le ha violate in modo squallido, mentendo a tutti. Si dice: ma le regole in Toscana sono così. No, le regole non sono così. Scanzi non poteva vaccinarsi. In Toscana una come me - che è avvocato - avrebbe potuto vaccinarsi un mese fa. E chi tra i miei colleghi lo ha fatto, ha rispettato le regole. Se non l’ho fatto io, nonostante abbia voglia come tutti di tornare ad abbracciare i miei nipotini, è stato per evitare polemiche dei moralisti contro di me. Pensate che quando sono stata a Otto e Mezzo anziché parlare della crisi di governo mi hanno fatto il processo perché - in un parco pubblico - ho baciato il mio fidanzato abbassando la mascherina: chissà cosa avrebbero detto se mi fossi vaccinata, rispettando le regole ma prima di altri. Chissà se Lilli Gruber adesso incalzerà il suo opinionista prediletto Scanzi per il vaccino come ha fatto con me per un bacio con la mascherina abbassata. Scanzi infatti non aveva nessun titolo per saltare la fila: ha fatto prevalere la sua arroganza, le sue paure, le sue menzogne. E adesso dice addirittura che dovremmo ringraziarlo. Mi domando: ma perché gli italiani devono pagare con i soldi del canone Rai un uomo così? Perché ormai è chiaro che tipo di moralismo senza morale abita la redazione del Fatto Quotidiano: il loro odio contro di noi provoca due pesi e due misure, sempre. Ma la Rai? Chi ha deciso che dobbiamo pagare il canone per un bugiardo come Scanzi?

Da liberoquotidiano.it il 23 marzo 2021. Si è fregato da solo, Andrea Scanzi, e a dirlo è un suo prestigioso collega di Fatto quotidiano, il direttore del Fattoquotidiano.it Peter Gomez. In collegamento con Tiziana Panella a Tagadà, interviene commentando la vicenda di Scanzi, che si è vaccinato con il siero AstraZeneca inserendosi nella lista dei "riservisti". In altre parole, ha approfittato di dosi che altrimenti a fine giornata sarebbero state gettate. Il problema, però, è la modalità di iscrizione a quella lista, cartacea come spiegato dal direttore del Distretto sanitario di Arezzo e poco trasparente. In più, annunciando il vaccino Scanzi si era descritto come "caregiver" dei propri genitori, anziani e a rischio (loro, però, ancora in attesa della vaccinazione, paradosso tutto italiano). Dagospia dopo qualche ora lo ha beccato in un hotel-spa di Merano, fuori regione, e ben lontano dai genitori bisognosi del suo aiuto. Insomma, una serie di leggerezze clamorose. "Andrea credo avesse tutti i diritti di farlo - spiega Gomez -. Ma io sarei stato zitto, fossi stato in lui. Questa necessità che ha spesso Andrea, bravissimo collega, di essere notizia quando noi invece dobbiamo riportare le notizie, a mio parere è una cosa sbagliata. Non c'era nessun bisogno di comunicarlo sui social e dirlo al resto del mondo". "Tra l'altro - aggiunge la Panella - c'è un grosso punto interrogativo su come vengono fatte queste liste di riservisti, e quello apre tutto un terreno per chi vuole immaginare che ci sia dietro chissà quale raccomandazione. Regione e Asl che vai, soluzione che trovi". "Ti dirò di più - rincara Gomez - pur non apprezzando la polemica personale che ha fatto Maria Elena Boschi con Scanzi, perché ci sono delle ruggini personali, quando ha detto 'io sono avvocato e non mi sono vaccinata' ho apprezzato, perché è giovane. Esattamente come hanno fatto molti altri politici che pure avevano diritto di farlo, ed esattamente come hanno fatto persone che conosco che avevano diritto di farlo perché rientravano nelle categorie a rischio designate dalla Regione Lombardia e che hanno rinunciato perché, giovani, non volevano ritrovarsi fotografati e chiacchierati tra tanti anziani".

“IL BUON PETER HA DETTO UNA CAZZATA”. Dagospia il 24 marzo 2021. Trascrizione della diretta Facebook di Andrea Scanzi. Voglio ringraziare tantissimo, in questo mare magnum di merda che mi ha avvolto da quattro giorni, anche se soprattutto domenica e lunedì, già oggi un po’ meno, voglio ringraziare tra i tanti quelli che magari ancora non avevo ancora citato: ringrazio Paolo Mieli, è stato molto affettuoso e preciso in tv, Marco Damilano, Adriano Sofri, Luca Telese, Corrado Augias, Tomaso Montanari, Fabrizio Del Prete, Lorenzo Tosa, Iacopo Melio, Linus, Saverio Tommasi, il sottosegretario Sileri e mille mille mille altri. Voglio anche rispondere affettuosamente al mio amico Peter Gomez, che oggi a conferma del fatto che noi del “Fatto Quotidiano” siamo pazzi perché invece di difenderci tra di noi visto che molti ci odiano, ci facciamo anche le pulci a vicenda quando qualcuno di noi è in difficoltà, ma noi del Fatto Quotidiano siamo strampalati, perché siamo persino troppo liberi, tra virgolette. Peter ha detto “Scanzi ha agito nel giusto, è bravo ma ha un difetto, a volte crede di essere lui stesso la notizia” e questa è una critica che mi prendo e mi porto a casa perché ci può stare. Poi però il buon Peter ha detto una cazzata, caro il mio Peter, capita anche a te. Perché ha detto “Scanzi doveva vaccinarsi ma non doveva dirlo”. Mi sarei vergognato se l’avessi fatto Peter, perché se l’avessi fatto e non l’avessi detto intanto avrei dato la sensazione di uno che si vergognava e aveva qualcosa da nascondere e proprio non ho nulla da nascondere. Prima cosa. Seconda cosa se non l’avessi detto non avrei avuto l’effetto di invogliare tante persone a vaccinarsi, come è successo soprattutto nella mia città, perché c’è stato il boom di prenotazioni. A margine vi lascio anche immaginare quello che avrebbero potuto scrivere se tre giorni dopo fosse comparsa una foto del sottoscritto mentre si vaccinava: sarei stato ancora più coperto di merda rispetto a quanto già non lo sia. 

Da vigilanzatv.it il 24 marzo 2021. Gli ascolti Tv e i dati Auditel di martedì 23 marzo 2021 vedono, in prima serata, #Cartabianca con la difesa di Andrea Scanzi nel caso della vaccinazione che sta tenendo banco da giorni, e sulla quale ha aperto un fascicolo la procura di Arezzo (anche dopo le rivelazioni di Dagospia), sprofondare al 4.2% di share con soli 972.000 spettatori. Un risultato pericolosamente vicino alla soglia psicologica del 3%, che prefigura un flop colossale per la prima serata di Rai3. L'ospitata del giornalista del Fatto Quotidiano era finita nel mirino del Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi, della Capogruppo di Italia Viva alla Camera Maria Elena Boschi e del Codacons. Ricordiamo che Scanzi è ospite fisso della trasmissione, pagato, ed è anche quello più assiduo con il maggior numero di presenze, come da dati rilevati dagli economisti Riccardo Puglisi e Tommaso Anastasia. Malgrado il putiferio mediatico, il programma di Bianca Berlinguer non ha decollato ed è stato di fatto doppiato da Stasera tutto è possibile (8.6% - 1.894.000 spettatori) su Rai2, dalle Iene su Italia1 (9.2% - 1.674.000) e anche dal rivale Giovanni Floris che, su La7 in una delle sue non esattamente più gratificanti performance, ha comunque racimolato il 4.9% di share con 1.156.000 spettatori. L'On. Anzaldi ha definito su Twitter la partecipazione di Scanzi a #Cartabianca "l'umiliazione del giornalismo", una "autoassoluzione senza contraddittorio", con l'aggravante di trasmettere un messaggio vergognoso, secondo il quale "fare di tutto per saltare la fila per il vaccino è giusto". 

Valentina Santarpia per corriere.it il 24 marzo 2021. «Tutto regolare, e il mio gesto ha anche dato un esempio a tanti altri». Così si difende Andrea Scanzi in tv, a Carta Bianca su Rai Tre, dalle accuse di aver approfittato della sua immagine pubblica per anticipare i tempi del vaccino, a cui è stato sottoposto il pomeriggio del venerdì 19 marzo, quando sono riprese le vaccinazioni con AstraZeneca. «Sono stato trattato come un serial killer. Mi aspettavo che molti mi attendessero al varco, anche se avevo fatto una cosa assolutamente lecita. Ma siamo andati ben oltre il diritto di critica. Quando io ci sono andato, era anche per dire: l'ho fatto io, fatelo anche voi. Da un bel gesto, ricevere così tanta melma, non me l'aspettavo». Scanzi, vaccinato attraverso una lista di riservisti, è stato preso di mira nei giorni scorsi sui social. Stasera ha provato a spiegare a Bianca Berlinguer come è andata. «Ho scritto al mio medico intorno al 26 febbraio, dicendogli che se fossero cambiate le regole o se fossero avanzate delle dosi, io ci sarei stato. Mi ha chiamato il 3 marzo, dicendomi che la Asl sud est Toscana aveva deciso di fare questa lista, perché molte dosi venivano buttate via», racconta Scanzi. «Gli ho risposto: se è tutto lecito, facciamolo. Lui mi ha solo detto che dovevo tenere conto di tre elementi: che poteva non chiamarmi nessuno, che dovevo essere ad Arezzo pronto in qualsiasi momento, e che dovevo essere disponibile a farmi qualsiasi vaccino». Poi c'è stata una «accelerazione»: «Il generale Figliuolo ha detto, il 14 marzo, che piuttosto che buttare le dosi sarebbe stato meglio darle a chi passava. Il 15 marzo ho confermato la mia disponibilità al medico e alla Asl. La Asl mi ha scritto venerdì pomeriggio alle 16, dicendomi che le dosi libere c'erano, e di tenermi pronto. Alle 18 mi hanno convocato per farmi vaccinare. Io ci sono andato, ma senza prevedere le conseguenze. Anzi, la notizia l'ho data io, davanti a due milioni e passa di persone, su Facebook. Mi sembrava anche una cosa bella: italiani, non abbiate paura, volevo dire. La lista dei riservisti di Arezzo online è stata creata infatti il giorno dopo la mia vaccinazione, e tanti prendendo il mio esempio si sono iscritti». Tra le accuse rivolte a Scanzi, quella di aver «rubato» un vaccino destinato ad altri, sfruttando la sua notorietà. Ma lui replica: «Non credo di essere stato il primo ad essere chiamato dalla Asl. Credo che ce ne fossero tanti. Io ero stato inserito il 3 marzo, e mi hanno chiamato il 19. La stessa Asl, la mattina successiva al mio vaccino, mi ha spiegato che ero già stato iscritto alla lista dei panchinari, e in più che il mio medico di famiglia mi aveva segnalato come figlio unico di genitori estremamente vulnerabili, e infatti il 17 marzo mia madre e mio padre si sono iscritti alla lista dei vulnerabili, ma non sono stati chiamati perché dovranno essere sottoposti a Moderna». Anche quest'aspetto, la definizione di caregiver data a Scanzi, ha scatenato le polemiche, con tanto di foto ripescata dagli archivi in cui si vede il conduttore in moto col papà. «Una foto di tre anni fa- spiega- La cartella clinica dei miei genitori è triste. Mio padre è cardiopatico e diabetico, e mia mamma è malata oncologica. Gli insulti se proprio dovete mandateli a me». La Procura di Arezzo intanto ha aperto un fascicolo e Eugenio Giani, presidente della Regione Toscana, ha annunciato un'istruttoria. Ma Scanzi dice di essere tranquillo, perché «era tutto lecito».

Caro Andrea, perché non avresti dovuto fare quel vaccino. Gianluigi Nuzzi su Notizie.it il 22/03/2021. È facile prendersela con te, Andrea, che sei un ragazzo intelligente, brillante e di successo, e con tutti i giornalisti, sempre scambiati per una categoria che vive nell'oro e nei privilegi. Andrea Scanzi sa benissimo che i giornalisti sono considerati una casta di privilegiati, gente che, se proprio non è accomunata ai politici, poco ci manca. Quindi forse, Andrea, era inopportuno che tu facessi quella dose di vaccino, seppur da riservista, sebbene fosse tutto regolare. Tanta gente è in lista d’attesa e non sa che lo Stato è in cortocircuito per quanto riguarda la somministrazione dei vaccini, quindi è facile prendersela con te, Andrea, che sei un bel ragazzo, bravo, intelligente, brillante e di successo. Così dai l’immagine di uno che prende una cosa riservata alle fasce più esposte, e sicuramente i giornalisti non sono tra queste. Senza dimenticare che proprio noi giornalisti siamo una categoria di persone un po’ odiate per le fake news e la scarsa attendibilità di alcuni e, soprattutto, perché sembra che viviamo nell’oro e nei privilegi.

Gianluigi Nuzzi. Giornalista, ha iniziato a scrivere a 12 anni per il settimanale per ragazzi Topolino. Ha, poi, collaborato per diversi quotidiani e riviste italiane tra cui Espansione, CorrierEconomia, L'Europeo, Gente Money, il Corriere della Sera. Ha lavorato per Il Giornale, Panorama e poi come inviato per Libero. Attualmente conduce Quarto Grado su Rete4 ed è vicedirettore della testata Videonews. È autore dei libri inchiesta "Vaticano S.p.A." (best seller nel 2009, tradotto in quattordici lingue), "Metastasi", "Sua Santità" (tradotto anche in inglese) e "Il libro nero del Vaticano".

Alessandro Sallusti per “il Giornale” il 23 marzo 2021. Come noto, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha aspettato pazientemente il suo turno di vaccinazione senza saltare la fila. Onore al presidente, anche se personalmente penso che il comandante in capo di un Paese debba essere messo in salvo prima degli ufficiali e dei soldati, non in quanto privilegiato, ma perché il destino di tutti i cittadini è nelle sue mani. E lo stesso direi per tutti quei politici e amministratori dai quali dipendono scelte decisive per il buon esito della guerra al Covid. Uno non vale uno, lo hanno capito anche i grillini che sulla bufala «uno vale uno» avevano costruito buona parte del loro successo elettorale del 2018. Detto questo, quasi ogni giorno siamo alle prese con casi di «furbetti del vaccino», persone cioè che attraverso vari stratagemmi ottengono la vaccinazione prima di altri aventi diritto. Anche qui non farei di tutta l' erba un fascio e provo a spiegarmi. Di «furbetti» ne esistono di varie categorie. La prima è quella dei «narcisisti compulsivi» tipo Andrea Scanzi, il giornalista del Fatto Quotidiano che pur di apparire sui giornali e fare parlare di sé ha ben pensato di rendere lui stesso nota con spiegazioni assai traballanti l' avvenuta furbata. Poi c' è la categoria del «lei non sa chi sono io» rappresentata da Nicola Morra, presidente Cinque Stelle della commissione Antimafia, che ha fatto irruzione con la sua scorta nell' ambulatorio di Cosenza insultando i medici (uno, spaventato, ha avuto anche avuto sintomi di infarto), che a suo dire erano incapaci di vaccinare gli anziani, suoi parenti compresi. Infine c' è il «furbetto per necessità», colui cioè che avrebbe diritto per età o patologie alla dose, ma che - non ottenendola - si arrangia per vie traverse in una sorta di legittima difesa dall' incapacità dello Stato. Morale: la prima categoria a mio avviso avrebbe semplicemente bisogno di un buon analista o, nei casi più gravi, di uno psichiatra; la seconda dovrebbe cercare un bravo avvocato, perché l' abuso di potere è tra i reati più odiosi; beati invece i rappresentanti della terza, che sono riusciti a mettere insieme il diavolo (il salto di fila) con l' acqua santa (il vaccino) e per questo andrebbero assolti. Ma vuoi vedere che, essendo in Italia, i Morra la faranno franca e il vecchietto sveglio, prima o poi, finirà nei guai e sottoposto alla pubblica gogna? Perché da sempre, per la nostra giustizia «uno non vale uno».

La polemica. Scanzi fa il caregiver, non lo sapevamo: ce lo rivela dirigente Usl di Arezzo. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 25 Marzo 2021. Scanzi che passo io. L’opinion-maker più gradito dai populisti dalla doppia morale, Andrea Scanzi, si è fatto largo a gomitate per inserirsi quatto quatto col favore delle tenebre, tra i vaccinati della Usl di Arezzo, dove risiede. In tantissimi hanno puntato il dito contro un indebito privilegio. Per verificare l’accaduto abbiamo presentato una domanda di accesso agli atti con una Pec alla azienda sanitaria locale della Toscana Sud Est. La risposta proviene dal dr. Evaristo Giglio, Direttore Zona Distretto Arezzo, Casentino, Valtiberina ed è quella che segue, pubblicata integralmente: L’Asl Tse ha attivato sabato 20 marzo 2021 il portale sull’adesione delle dosi avanzate. Lo ha fatto in attesa della messa on line di quello regionale, atteso per i prossimi giorni. E nel rispetto dell’Ordinanza 2 del Generale Figiuolo del 16 marzo 2021. La panchina vaccinale è riservata alle persone che già adesso possono vaccinarsi con AstraZeneca. E cioè: personale docente e non docente; forze dell’ordine e forze armate; persone nate tra il 1941 ( che non abbiano ancora compiuto 80 anni) e il 1950; conviventi e caregivers delle persone estremamente vulnerabili individuate dal Piano Nazionale Vaccini del 10 Marzo 2021. Il Piano Vaccini individua alcune categorie di persone definendole “estremamente vulnerabili” in base a specifiche condizioni di malattia o a gravi condizioni di disabilità con handicap grave (articolo 3, comma 3 delle legge 104/92). Queste persone per potersi vaccinare devono avere già manifestato la loro volontà iscrivendosi al sito regionale nei giorni scorsi.  Per loro, il vaccino previsto è Pfizer Biontech o Moderna in funzione della disponibilità delle forniture. Inoltre, possono anche vaccinarsi i familiari conviventi ed i caregivers che forniscono assistenza continuativa in forma gratuita o a contratto alle persone con gravi condizioni di disabilità di cui sempre all’art. 3 comma 3 della Legge 104/92 (che appunto il Piano Vaccinale definisce come “estremamente vulnerabili”). Possono quindi accedere alla panchina vaccinale sia i conviventi delle persone affette dalle patologie sopra indicate sia i conviventi ed i caregivers delle persone con grave disabilità”. La specifica del dirigente medico va oltre: “Ultima precisazione: l’iscrizione nella lista della panchina non deve indurre il convivente o il caregiver a cancellarsi da liste nelle quali si è già iscritto in relazione alla sua attività professionale o alla sua età. Non solo: chi si iscrive nella panchina, qualora non abbia effettuato la prima dose al momento dell’apertura di future liste nelle quali rientra, è opportuno che si iscriva comunque a queste liste appena saranno aperte. Chi offre la sua disponibilità, dovrà garantire di essere in grado di raggiungere il centro vaccinale entro 20 minuti dalla telefonata che riceverà dal centro stesso. L’obiettivo è quello di evitare gli sprechi e consentire il totale utilizzo dei vaccini disponibili”. Fin qui tutto bene, ma le date non tornano. Torniamo a Andrea Scanzi? È lui ad aver scritto, sabato scorso, di essersi iscritto 25 giorni prima “alle liste”, che per ammissione del direttore della Usl, esistono solo da quattro giorni. Uno dei due non ce la racconta giusta, quindi. Ma andiamo avanti. Prosegue il documento di cui Il Riformista è in possesso: “L’Asl Tse ha avviata la campagna con il Pfizer il 30 dicembre 2020, con il Moderna il 7 gennaio 2021 e con AstraZeneca il 10 febbraio. Dalle prime settimane è emerso il problema delle dosi residue, quelle che qualora non somministrate avrebbero dovuto essere gettate. Nella logica di non sprecare nemmeno una dose, l’Asl ha sempre cercato di “recuperare” dalle liste di attesa soggetti aventi diritto e in “fila” per i giorni successivi. Nella prima fase con i sanitari, soprattutto ospedalieri: attività più semplice in quanto l’attività di vaccinazione veniva fatta direttamente in un’area dell’ospedale di Arezzo. Analoga procedura con i sanitari e i volontari del 118 ai quali era destinato Moderna. Con AstraZeneca la platea si è allargata. In attesa di disposizioni più precise da parte delle autorità centrali e regionali, è stato utilizzato il meccanismo di chiamare, in caso di dosi avanzate, soggetti aventi diritto e immediatamente disponibili. Per i familiari e i caregivers delle persone estremamente fragili, sono state accolte le segnalazioni pervenute da centri e istituti che ospitano soggetti fragili e, in alcuni casi, anche da medici di medicina generale. Ed è questo il caso di Andrea Scanzi, segnalato dal suo medico di medicina generale al Direttore della Zona distretto aretina, Evaristo Giglio, in qualità di caregiver di uno dei genitori in base alla legge 104. Lo logica costantemente applicata dalla Asl Tse di non sprecare dosi di vaccino e di destinarle agli eventi diritto immediatamente disponibili, ha trovato conferma nell’Ordinanza 2 del generale Figiuolo, pubblicata il 16 marzo 2021”. Qualcosa non quadra. Più di qualcosa. Tutti conosciamo gli impegni del celebre opinionista, sempre presente in tv, spesso su canali diversi nella stessa giornata. Scrivendo un libro dopo l’altro, gira l’Italia per presentarlo; una indiscrezione pubblicata da Dagospia lo ritrae in un grand hotel di Merano, negli scorsi giorni. Un soggiorno prolungato, dove non sappiamo se il Caregiver certificato dalla Usl aretina si trovasse per dedicarsi alla cura degli anziani genitori. Maria Elena Boschi non ha dubbi, nell’intemerata che gli ha dedicato su Facebook: “Trovo vergognoso che Andrea Scanzi, già sostenitore della tesi “il corona virus è solo un raffreddore”, si sia vaccinato in Toscana, non solo saltando la fila ma mettendo insieme una squallida lista di bugie. Ha detto che doveva fare il caregiver dei suoi genitori e vorrei capire quando, visto che è sempre in giro. Peraltro i suoi genitori fortunatamente stanno bene. Ha detto che si è iscritto a una lista “di riserva” e si è scoperto che la lista semplicemente non esisteva. Ha detto di aver rispettato le regole quando invece le ha violate in modo squallido, mentendo a tutti”. Aggiunge poi Maria Elena Boschi: “Si dice: ma le regole in Toscana sono così. No, le regole non sono così. Scanzi non poteva vaccinarsi”. Il ricordo di Boschi va a una puntata di Ottoemezzo rimasta negli annali, in cui la Gruber grondava fiele contro di lei. “Chissà se Lilli Gruber adesso incalzerà il suo opinionista prediletto Scanzi per il vaccino come ha fatto con me per un bacio con la mascherina abbassata. Scanzi infatti non aveva nessun titolo per saltare la fila: ha fatto prevalere la sua arroganza, le sue paure, le sue menzogne”. Certamente Scanzi potrà fugare ogni dubbio ed esibire il suo certificato di Caregiver, e quelli dei genitori malati. Oggi veniamo a sapere che se è un accompagnatore dedicato secondo la Legge 104, e noi gli crediamo. Sarà lui stesso, impegnandosi nell’attività di cura famigliare lontano dagli schermi, a darcene dimostrazione con i fatti.

Aldo Torchiaro per “Largomento.com” il 25 marzo 2021. L’Argomento ha deciso di andare a fondo e ha presentato una domanda di accesso agli atti con una Pec alla azienda sanitaria locale della Toscana Sud Est. La risposta proviene dal dr. Evaristo Giglio, Direttore Zona Distretto Arezzo, Casentino, Valtiberina ed è quella che segue, pubblicata integralmente: L’Asl Tse ha attivato sabato 20 marzo 2021 il portale uslsudest.toscana.it. Lo ha fatto in attesa della messa on line di quello regionale, atteso per i prossimi giorni. E nel rispetto dell’Ordinanza 2 del Generale Figiuolo del 16 marzo 2021. La panchina vaccinale è riservata alle persone che già adesso possono vaccinarsi con Astra Zeneca. E cioè: personale docente e non docente; forze dell’ordine e forze armate; persone nate tra il 1941 ( che non abbiano ancora compiuto 80 anni) e il 1950; conviventi e caregivers delle persone estremamente vulnerabili individuate dal Piano Nazionale Vaccini del 10 Marzo 2021. Il Piano Vaccini individua alcune categorie di persone definendole “estremamente vulnerabili” in base a specifiche condizioni di malattia o a gravi condizioni di disabilità con handicap grave (articolo 3, comma 3 delle legge 104/92). Queste persone per potersi vaccinare devono avere già manifestato la loro volontà iscrivendosi al sito regionale nei giorni scorsi. Per loro, il vaccino previsto è Pfizer Biontech o Moderna in funzione della disponibilità delle forniture. […] Inoltre, possono anche vaccinarsi i familiari conviventi ed i caregivers che forniscono assistenza continuativa in forma gratuita o a contratto alle persone con gravi condizioni di disabilità di cui sempre all’art. 3 comma 3 della Legge 104/92 (che appunto il Piano Vaccinale definisce come “estremamente vulnerabili”). Possono quindi accedere alla panchina vaccinale sia i conviventi delle persone affette dalle patologie sopra indicate sia i conviventi ed i caregivers delle persone con grave disabilità”. […] Torniamo a Andrea Scanzi? È lui ad aver scritto, sabato scorso, di essersi iscritto 25 giorni prima “alle liste”, che per ammissione del direttore della Usl, esistono solo da quattro giorni. Uno dei due non ce la racconta giusta, quindi. Ma andiamo avanti. Prosegue il documento di cui L’Argomento è in possesso: “L’Asl Tse ha avviata la campagna con il Pfizer il 30 dicembre 2020, con il Moderna il 7 gennaio 2021 e con AstraZeneca il 10 febbraio. Dalle prime settimane è emerso il problema delle dosi residue, quelle che qualora non somministrate avrebbero dovuto essere gettate. Nella logica di non sprecare nemmeno una dose, l’Asl ha sempre cercato di “recuperare” dalle liste di attesa soggetti aventi diritto e in “fila” per i giorni successivi. Nella prima fase con i sanitari, soprattutto ospedalieri: attività più semplice in quanto l’attività di vaccinazione veniva fatta direttamente in un’area dell’ospedale di Arezzo. Analoga procedura con i sanitari e i volontari del 118 ai quali era destinato Moderna. Con AstraZeneca la platea si è allargata. In attesa di disposizioni più precise da parte delle autorità centrali e regionali, è stato utilizzato il meccanismo di chiamare, in caso di dosi avanzate, soggetti aventi diritto e immediatamente disponibili. Per i familiari e i caregivers delle persone estremamente fragili, sono state accolte le segnalazioni pervenute da centri e istituti che ospitano soggetti fragili e, in alcuni casi, anche da medici di medicina generale. Ed è questo il caso di Andrea Scanzi, segnalato dal suo medico di medicina generale al Direttore della Zona distretto aretina, Evaristo Giglio, in qualità di caregiver di uno dei genitori in base alla legge 104, quella che può dare diritto all’assegno di accompagno. Lo logica costantemente applicata dalla Asl Tse di non sprecare dosi di vaccino e di destinarle agli eventi diritto immediatamente disponibili, ha trovato conferma nell’Ordinanza 2 del generale Figiuolo, pubblicata il 16 marzo 2021”. Molto si potrebbe obiettare: Scanzi sarebbe dunque un Caregiver, cioè una persona totalmente dedita alle cure assistenziali di un genitore malato, il quale genitore sarebbe tutelato dalla legge 104, quella che dà diritto all’assegno di accompagno. Benissimo. Ma come può un Caregiver girare l’Italia, trascorrere il tempo nelle dirette televisive, dedicarsi al lavoro per il Fatto o alla frenetica attività sui social, se nel contempo è Caregiver dedicato all’assistenza di un famigliare? Non vorremmo gettare sospetti sulla natura della dichiarazione di cui il direttore della Usl aretina si fa garante, ma a questo punto L’Argomento chiederà di acquisire i documenti del caso. Nel momento in cui ha avuto il via libera per il vaccino, a titolo di esempio, Scanzi era ospite dell’Hotel Palace di Merano, secondo informazioni non smentite pubblicate da Dagospia. Se è un Caregiver, è un pessimo Caregiver. Si può mentire a tutti, caro Scanzi. Ma non a un genitore malato. Indaga la magistratura, per fortuna. Chissà se indaga, nel silenzio, anche la sua coscienza.

Da "Il Tirreno" il 25 marzo 2021. Monica Bettoni, ex sottosegretaria alla Salute (quando ministra era Rosy Bindi) parla in fretta. Sta vaccinando nella grande sede del Centro Affari di Arezzo «dove non si sono mai buttate le dosi di AstraZeneca che, peraltro, può essere conservato per 48 ore fra 2 e -8 gradi in un frigorifero normale». La precisazione è rivolta al giornalista (toscano) Andrea Scanzi che su Facebook, qualche giorno fa, si era vantato di essersi fatto vaccinare come "caregiver" (persona che accudisce) dei suoi genitori, mettendosi in lista di attesa per le dosi d`avanzo. Quando poi è esplosa la polemica – non figura nella lista dei caregiver (perché non accudisce i genitori), non appartiene a categorie speciali, non si sa, insomma, perché sia stato chiamato e abbia saltato la lista – allora Scanzi si è fatto intervistare su Rai3 da Bianca Berlinguer a Cartabianca, programma di cui è collaboratore «per un compenso ignoto», polemizza Michele Anzaldi , deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza della Rai. «Mentre Scanzi sceglie da chi farsi intervistare, firmando una brutta pagina di giornalismo– insiste Anzaldi–il presidente del Consiglio, Mario Draghi viene in aula a scusarsi perché l`Italia ha abbandonato gli ultra 80enni in questa campagna vaccinale. E la Rai che cosa fa in questa vicenda? Invece di chiarire, manda in onda un`intervista a un proprio collaboratore, senza contraddittorio. Forse farebbe bene a ricordarsi che ha un Codice etico. E in base a questo Codice dovrebbe valutare se sospendere la collaborazione di questo giornalista, almeno fino a quando la magistratura non avrà chiarito la sua posizione». Del resto – aggiunge Anzaldi – oggi «per chiarire perché un giornalista possa vaccinarsi prima di un ultra ottantenne deve intervenire la magistratura che svolge il ruolo al quale hanno abdicato politica e istituzioni». Non tutte, precisa la dottoressa Bettoni, che ha anche ricevuto la croce di Cavaliere al merito per l`opera di volontariato prestata (con la protezione civile) per tre settimane in ospedale a Fidenza, nell`aprile 2020, in piena pandemia. «A quello che mi risulta – dice la dottoressa – nell`Asl Sud Est non è mai stata sprecata una dose di vaccino. E anche prima che venisse creata la lista d`attesa di chi è disponibile a una chiamata dell`ultimo minuto, nel caso fossero avanzate dosi veniva scorsa la lista dei pazienti compilata per priorità (di rischio). Perciò mi piacerebbe conoscere il medico di medicina generale che ha inserito Scanzi nella lista dei vaccinabili e quante segnalazioni analoghe ha presentato». Ad Anzaldi, invece, piacerebbe sapere perché il sindaco di Firenze difenda Scanzi «giornalista che ha inventato il sistema delle pagelle agli altri, ma quando scivola, rifiuta di farsi intervistare».

Claudia Guarino per "Il Tirreno" il 26 marzo 2021. Evaristo Giglio è il direttore della zona distretto di Arezzo. Non si fa intervistare. Affida a una nota dell’Asl di Arezzo l’assoluzione di Andrea Scanzi, il giornalista che è riuscito a farsi vaccinare come “familiare” e badante di genitori fragilissimi, anche se non lo è. La storia è nota: alcuni giorni fa Scanzi pubblica sul proprio profilo social la notizia di essere stato contattato dall’Asl Toscana Sud Est per essere vaccinato. Risultava inserito in una lista di “riservisti”, persone che avevano dato la disponibilità a essere chiamati anche all’ultimo momento per farsi vaccinare con le dosi avanzate di giornata. Quelle destinate a chi non si presenta all’appuntamento. Nella lista – racconta Scanzi – è stato inserito dal suo medico di famiglia perché, appunto, lui bada ai genitori anziani e malati. In questa ricostruzione ci sono, però, almeno tre elementi che non tornano: 1) Scanzi non è un badante (e neppure si è mai preso cura dei suoi genitori con quali non convive); 2) la lista dei riservisti nei quali sarebbe stato inserito è stata istituita venti giorno dopo di quando lui dichiara di essersi iscritto; 3) il giorno in cui dice di essere stato chiamato all’ultimo minuto non si trovava nell’Aretino ma (sembra) in un hotel a centinaia di chilometri. Malgrado questo, l’Asl Toscana Sud Est sostiene che la vaccinazione di Scanzi sia regolare. «Scanzi è stato segnalato dal suo medico di medicina generale al direttore della zona distretto aretina in qualità di “caregiver” di uno dei genitori in base alla legge 104 (sulla disabilità, ndr)». Ma Scanzi non risulta essere un caregiver. È un familiare. Ed è stato segnalato dal suo medico di famiglia. Perché ? In base a quale esigenza specifica? La disponibilità a non far sprecare una dose di vaccino? Se anche così fosse, probabilmente ci sarebbero stati altri assistiti più vicini di un giornalista alloggiato in un hotel in alta Italia. «Non escludo che una procedura del genere sia possibile e se l'Asl dice che è tutto regolare sicuramente lo è – commenta il dottor Lorenzo Droandi, presidente dell’ordine dei medici di Arezzo – sta di fatto che all’ordine dei medici non è arrivata alcuna comunicazione ufficiale dall’Asl (di segalare pazienti). E posso dire lo stesso anche come medico di medicina generale. Ancora ieri non avevo ricevuto niente per iscritto in cui mi si comunicava che avrei potuto fare una segnalazione del genere al direttore della zona distretto o a chi per lui». Allora come ha fatto Scanzi a vaccinarsi? L’Asl scrive: «In attesa di disposizioni più precise da Stato e Regione è stato utilizzato il meccanismo di chiamare, in caso di dosi (di AstraZeneca) avanzate, soggetti aventi diritto e immediatamente disponibili. Per i familiari e i caregiver delle persone estremamente fragili, che rientrano nel piano vaccini, sono state accolte le segnalazioni di centri e istituti che ospitano soggetti fragili e, in alcune circostanze, anche di medici di base». Droandi non nega che la segnalazione diretta da parte del medico di famiglia sia lecita. Ma si chiede: «Che cosa succederebbe se ci mettiamo a telefonare per tutti i caregivers? Ai miei pazienti dico che se ne hanno diritto e vogliono figurare, per così dire, nella “panchina” dei riservisti devono iscriversi alle liste e poi, qualora ci fosse un posto libero, saranno contattati».

Lorenzo Zacchetti per affaritaliani.it il 26 marzo 2021. “Una tempesta di merda” è l'efficace sintesi con la quale Andrea Scanzi sintetizza quello che gli sta capitando negli ultimi giorni. Dopo aver rivelato di essersi fatto inoculare il vaccino di AstraZeneca, il popolarissimo giornalista de “Il Fatto Quotidiano” è davvero nell'occhio del ciclone. Probabilmente è proprio l'enorme visibilità di Scanzi, che da tempo surclassa chiunque nelle classifiche dei giornalisti più “social” d'Italia, ad alimentare questa polemica, ritorcendosi contro di lui in una sorta di contrappasso molto italiano. È tipica della nostra cultura l'abitudine a correre in soccorso del vincitore, per poi farne un bersaglio al suo primo inciampo. Eppure, nella vicenda specifica c'è probabilmente stata qualche leggerezza comunicativa, ma non certo un privilegio che sarebbe davvero odioso, se solo fosse vero. “Ricordati che la notizia l'ho data io”, spiega Andrea Scanzi ad affaritaliani.it. “Se avessi voluto fare il furbo, lo avrei fatto di nascosto e non l'avrebbe mai saputo nessuno! L'ho fatto alla luce del sole perchè non avevo nulla da nascondere e anzi volevo dare un messaggio positivo all'opinione pubblica. Ho sbagliato a vaccinarmi? Accetto la critica, ma da qui a trattarmi da merda e costringere mio padre a chiudere il suo profilo Facebook per gli insulti ce ne corre. Non me lo merito io e tantomeno i miei genitori, che sono stressatissimi per questa vicenda”.

Proviamo a ricostruire la vicenda, partendo dall'inizio?

Certo. D'altra parte è tutto ben conservato nel mio telefono e, se un giorno qualcuno lo volesse vedere, non avrei difficoltà. Tutto comincia il 26 febbraio, quando io scrivo a Roberto, il mio medico curante, per dirgli: “So che come giornalisti non siamo considerati categoria a rischio (cosa che peraltro condivido), ma se cambia qualcosa, avvertimi. Ma solo nel pieno rispetto delle regole, cioè senza rubare il posto a nessuno e solo se altrimenti la dose viene buttata via”. Mi risponde che al momento non ci sono disponibilità e che in caso di novità mi farà sapere. Per tutta la settimana seguente non ci sentiamo.

E poi che cosa succede?

Roberto mi richiama il 4 marzo e mi dice: “Andrea, l'ASL Sud-Est Toscana (quella di Arezzo- Siena-Grosseto, dove abito io) ha deciso di fare una lista di fare una lista di 'panchinari' o 'riservisti'”. Non so da quanto tempo ci fosse tale lista, ma io l'ho appreso in quel momento. Io gli rispondo: “Ok... e ovviamente dò per scontato che sia tutto regolare”. Roberto mi assicura che non solo è tutto regolare, ma anzi è una cosa da incentivare, perché purtroppo molte delle persone in lista non si presentano all'appuntamento. A quel punto mi chiede se io sia ancora interessato a entrare nella lista. Io confermo e lui specifica: “Sappi però che quando (e se) ti chiameranno, non ci sarà preavviso: dovrai prendere la macchina e correre a Grosseto, a Siena, a Monte San Savino o dove ti manderanno. E ovviamente non potrai scegliere il vaccino, ma dovrai prendere quello che ci sarà”. Ovviamente dico che va benissimo, perché appunto intendo usufruire di dosi che altrimenti verrebbero buttate via. Ma nessuno mi chiama per tutta la settimana seguente, come spiego al mio medico quando mi chiama per avere un aggiornamento. Quando glielo dico, lui commenta: “Accidenti, speravo che la questione fosse già risolta”. Ed io: “E’ giusto che io aspetti, non sono una priorità, poi se un posto si libera ci sarò”.

Come cambia lo scenario, in quei giorni?

Domenica 14 marzo, con i vaccini di AstraZeneca al centro del dibattito pubblico, il Gen. Figliuolo va ospite da Fazio a “Che tempo che fa” ad annunciare una svolta. Il giorno dopo fa un'ordinanza che va proprio nella direzione dei “panchinari”, dicendo che se avanzano delle dosi bisogna prendere “il primo che passa”, a prescindere dall'età, e inoculargli la dose, altrimenti la si butta via. Lette queste cose, io scrivo al mio medico curante e al Direttore dell'ASL Arezzo per dire: “Vedo che la problematica dei panchinari, già sollevata ad Arezzo, è diventata dirimente anche a livello nazionale: sappiate che io non ho nessuna paura di fare il vaccino AstraZeneca”. Già allora ho pensato che, se mi fossi vaccinato con una dose altrimenti gettata via come poi è stato, sarebbe stato un bel segnale contro la paura di AstraZeneca. Quindi ho ribadito a medico e responsabile della vaccinazione ASL la mia disponibilità, nel pieno rispetto delle regole. Specifico che io, il Direttore dell'ASL, non l’ho mai visto: altro che raccomandato, magari gli sto pure antipatico per motivi politici, chi può dirlo?!

Poi, però, le vaccinazioni con AstraZeneca vengono sospese in via cautelativa...

Esatto. L'interruzione avviene martedì 16 e lo stop dura per tre giorni, nel corso dei quali io vado in televisione a ripetere sempre la stessa cosa: “Se quando riparte la vaccinazione mi chiamano, io ci vado di corsa, sempre che si tratti di dosi che altrimenti verrebbero buttate”. Ci sono le registrazioni a confermarlo: l'ho detto martedì 16 a “Carta Bianca”, mercoledì 17 ad “Accordi & Disaccordi” e giovedì 18 a “Otto e Mezzo”.

E venerdì 19 le vaccinazioni ricominciano...

Sì, ma sia ad Arezzo che in diverse altre città molte persone non si presentano all'appuntamento, turbate dall'allarme suscitato dalla vicenda. Il giovedì sera “Piazza Pulita” aveva mostrato un sondaggio nel quale emergeva che più del 60% degli italiani non si sarebbero presentati il giorno dopo alla vaccinazione AstraZeneca, avendone paura! A quel punto, inizio a pensare che forse mi avrebbero chiamato, anche se dal 3 marzo in avanti non si era ancora fatto vivo nessuno. Questo significa che, prima di me, ad Arezzo ne hanno chiamati tanti. E questo, detto per inciso, è un'ottima cosa, perché non ho mai pensato né ho mai detto di essere una priorità.

Vero, ma tu allora quando ti sei vaccinato?

Proprio il 19 marzo, nel primo giorno in cui il vaccino AstraZeneca è stato reimmesso nella campagna italiana. Con due messaggi su Whatsapp, alle 12 e alle 16, il Direttore dell'ASL di Arezzo mi dice di tenermi pronto. Mentre sto facendo una diretta Twitch, ricevo l’indicazione di recarmi al Centro Affari di Arezzo alle 18. E lì vengo vaccinato, peraltro da un personale meraviglioso.

Conosci perfettamente la comunicazione: non hai pensato che, vista la tua notorietà, qualcuno poi ti avrebbe accusato di essertene approfittato?

In effetti quando mi ha chiamato l'ASL ci ho pensato un po' su. Avevo una piena autorizzazione da parte del mio medico curante e dell'ASL stessa, ma immaginavo che andando a vaccinarmi un po' di polemica sarebbe venuta fuori. Non pensavo a qualcosa di così forte, ma un po' me l'aspettavo, sì. Ho deciso di andarci comunque sia per coerenza con quello che avevo detto pubblicamente in tivù nei tre giorni precedenti, sia perché ingenuamente ho ritenuto che potesse essere un bel gesto. Molti italiani si sono spaventati per la vicenda-AstraZeneca e ho pensato che, avendo oltre due milioni di fan su Facebook, potessi dare un contributo: sono un bischero di 46 anni che di scienza non capisce nulla, ma che nutre fiducia in quello che la scienza dice! Per questo l'ho fatto alla luce del sole: non avendo nulla da nascondere, cosa che ribadisco, pensavo di dare un bel messaggio!

Un messaggio allora diamolo: che tipo di reazioni collaterali hai avuto?

Assolutamente nessuna. Mi hanno vaccinato intorno alle 18.30 e quando sono tornato a casa non avevo neanche una linea di febbre. Quindi già venerdì sera ho fatto il post nel quale annunciavo di essermi vaccinato. Le reazioni sui social hanno avuto un andamento strano: da venerdì sera fino a domenica mattina i commenti erano tutti positivi. Poi è cominciata una tempesta di merda che non so da chi sia partita. La mia frase sugli italiani che “dovrebbero ringraziarmi”, estrapolata dal contesto di una diretta Facebook di venti minuti effettata domenica 21 marzo, effettivamente presa a sé stante è senza senso. Me ne rendo conto. In realtà volevo solo dire che intendevo dare un segnale alle persone che avevano paura: credo di aver dato un impulso al piano vaccinale e, oltretutto, il mio post ha contributo a mettere online quella lista di “panchinari” che, pur essendo regolarissima, fino ad allora era scritta a mano. È chiaro che questo è un elemento critico, ma dovrà spiegarlo l'ASL, mica io! Una volta in Rete, la lista ha avuto migliaia di iscrizioni, al punto che il sito è andato in tilt! A questo mi riferivo con la frase contestata: al fatto di aver aperto una breccia della quale c'era bisogno.

Sei stato duramente attaccato sull'uso della parola “caregiver”: come commenti questa cosa?

Ci sono stati attacchi pretestuosi da parte di chi mi odia a prescindere. È una cosa che fa parte del gioco, anche se mi dispiace per i miei genitori. Chiariamo però una cosa: io non mi sono mai, mai, mai definito “caregiver” e nemmeno ho parlato della casistica sanitaria dei miei genitori per entrare nella lista dei “panchinari”! È stato il mio medico curante, autonomamente, a inserirmi in tale lista, non in quanto caregiver – parola che né io né il mio medico abbiamo mai usato fino al vaccino – bensì in quanto “figlio unico di genitori estremamente vulnerabili”. Questa è la dicitura tecnica e, purtroppo, ci rientro a pieno titolo. Quando ho fatto il post venerdì sera dopo la vaccinazione, non ho nemmeno citato i miei genitori. La cosa è venuta fuori dopo. La mattina di sabato 20, il direttore dell'ASL di Arezzo mi ha chiamato per dirmi che stava montando la polemica ed ha aggiunto: “Lei ha scritto di aver diritto alla vaccinazione in quanto "panchinaro", ed è vero, ma le faccio presente che lei ha anche due genitori con una situazione clinica non propriamente invidiabile”.

Cioè, quale?

“Mi dispiace dover mettere in piazza queste cose, ma a questo punto dobbiamo farlo. Mio padre è cardiopatico, ha due infarti, vari stent, il diabete e un glaucoma. Mia madre è malata oncologica. Quando l'ho detto al Direttore dell'ASL, lui ha risposto che io non solo rientravo a pieno titolo nella categoria “figlio unico di genitori estremamente vulnerabili”, ma anche in quella di “caregiver familiare”. In un successivo post ho specificato questa cosa, peraltro comunicatami dall'ASL, e forse si è trattato di un errore comunicativo, ma non di una cosa falsa: è l'indagine interna alla ASL ad avere confermato che, secondo loro, io rientravo non solo nella categoria del figlio unico di genitori estremamente vulnerabili, ma anche (secondo l’ASL) nella macrocategoria del caregiver. Detto questo, è ovvio che non mi sento minimamente un “caregiver familiare”: sono vent';anni che non vivo con i miei genitori, i quali (toccando ferro) nonostante tutto sono autosufficienti. È chiaro se uno mi definisce “caregiver” e poi mi vede il giorno dopo in una clinica detox a 5 stelle pensa che io stia prendendo per il culo il prossimo, ma è stata l'ASL a definirmi in quel modo, anche se non penso di meritarlo. Fare il “caregiver” è una cosa nobile, significa vivere in funzione dell'assistenza di chi ne ha bisogno. Io no: giro l’Italia per il mio lavoro di giornalista e per gli impegni in teatro, mi sarebbe impossibile. È ovvio che se un giorno i miei genitori dovessero averne bisogno diventerei il loro “caregiver”, ma sono stato vaccinato in quanto “figlio unico di genitori estremamente vulnerabili”, come emerge anche dalle dichiarazioni del mio medico nell'inchiesta dell'ASL.

Proprio perché i tuoi genitori sono pazienti fragili, c'è chi ti rimprovera di esserti vaccinato prima di loro. Come rispondi?

Beh, chi dice queste cose non conosce le regole: mio padre ha 69 anni e mia madre 72, non hanno potuto essere vaccinati perché non rientrano negli Over 80. Non solo: proprio perché vulnerabili, non possono fare il vaccino di AstraZeneca e quindi hanno dovuto aspettare l'apertura di una nuova lista online, lunedì 15 marzo, nella quale la Regione Toscana ha inserito anche i pazienti estremamente vulnerabili. Si sono iscritti entrambi al portale e sono stati accettati mercoledì 17, ovvero due giorni prima della mia vaccinazione. Stanno aspettando il vaccino di Moderna e due giorni fa hanno ricevuto il codice per la prenotazione. Purtroppo non sono ancora riusciti a prenotarsi, perché appena sono entrati nel sito, questo è andato subito a puttane. Stanno aspettando...

I giornalisti no, ma in Toscana si è scelto di inserire gli avvocati tra le categorie da vaccinare prioritariamente: anche questo ha fatto molto discutere, ma si tratta comunque di decisioni dell'autorità sanitaria...

E' esattamente così. Ci sono molti aspetti discutibili in questa vicenda, come questa storia degli avvocati che ha fatto ridere tutta Italia. Ma sono tutte decisioni della ASL e se le regole sono queste, talora non proprio condivisibilissime, occorre prenderne atto. E sperare di migliorarle.

Invece riguarda te una questione di opportunità: c'è chi ha detto che forse non era il caso di entrare nella lista, in quanto personaggio pubblico. Che ne pensi?

Questa è una critica che accetto. Il sottosegretario alla Salute Sileri, che di queste cose ne capisce più di chi mi sta sparando addosso, ha ribadito più volte come io abbia agito nel giusto e nella più piena legalità. Una posizione condivisa, tra i tanti, anche dal Ministro Speranza e dal Governatore Zaia. Ecco: proprio Zaia, e più ancora Sileri, lo hanno detto chiaramente a “Cartabianca”: “L'unico errore di Scanzi è stato quello di essere Scanzi”. Il fatto che mi sia vaccinato io alimenta il retropensiero che sia stato un privilegio dovuto al fatto di essere famoso, e posso garantirti che se lo avessi fatto mi sputerei in faccia da qui all’eternità. Un'altra critica che accetto è sull'uso della parola “caregiver”, infatti ho poi meglio articolato il pensiero su Facebook, anche se è stata l'ASL a qualificarmi in questo modo alla fine dell’inchiesta interna alla mia vaccinazione. Faccio però presente una cosa, che tra l'altro ha spiegato bene anche il sindaco di Firenze Nardella, che peraltro ho spesso criticato in passato e quindi non aveva motivo alcuno di difendermi. Lo ha fatto, aggiungendo come in quei giorni convulsi in Toscana c'era confusione sul termine “caregiver familiare”, perché se lo si usa per definire chi materialmente presta assistenza è evidente che io non lo sono, ma se i miei genitori dovessero averne bisogno, a chi altro dovrebbero rivolgersi se non a me, che sono il loro unico figlio? Sia come sia, ho senz’altro fatto due o tre errori di comunicazione, ma ho agito nel giusto e nella legalità. In totale buona fede. E questa settimana da serial killer proprio non me la meritavo".

Le tre balle sul caso Scanzi. Dalla bufala del caregiver dei genitori alla lista fantasma fino alla telefonata al giornalista: tutto quello che non torna. Francesca Galici - Ven, 26/03/2021 - su Il Giornale. Andrea Scanzi poteva vaccinarsi. Non lo dice il giornalista de Il Fatto Quotidiano ma il direttore della zona distretto di Arezzo. Evaristo Giglio, infatti, con una nota ha sollevato Scanzi da ogni responsabilità sulla polemica nata attorno all'incoluzione del vaccino AstraZeneca, effettuata in veste di riservista. Ma Il Tirreno, quotidiano toscano, ha pubblicato un articolo con il quale ha messo in evidenza tre punti oscuri, in parte chiariti dallo stesso Scanzi in una successiva intervista. Scrive Claudia Guarino per Il Tirreno: "Scanzi non è un badante (e neppure si è mai preso cura dei suoi genitori con quali non convive)". L'appunto della giornalista si basa sulla classificazione come caregiver che sarebbe stata data ad Andrea Scanzi dalla Asl, che come tale l'ha inserito nelle liste dei panchinari del vaccino in quanto i suoi genitori sono persone fragili a causa di patologie pregresse. La Guarino, poi, continua: "La lista dei riservisti nei quali sarebbe stato inserito è stata istituita venti giorno dopo di quando lui dichiara di essersi iscritto". La lista dei panchinari, come più volte asserito da Andrea Scanzi, sarebbe stata esclusivamente verbale o, al limite, compilata a penna. Solo successivamente, in concomitanza con la polemica, Regione Toscana avrebbe provveduto a ufficializzarla. Infatti, dopo il caos scoppiato su Andrea Scanzi e la pubblicità della lista dei riservisti, in poche ore sono stati circa 6mila gli iscritti per ottenere le dosi non somministrate. Infine, c'è il terzo appunto della giornalista de Il Tirreno: "Il giorno in cui dice di essere stato chiamato all’ultimo minuto non si trovava nell’Aretino ma (sembra) in un hotel a centinaia di chilometri". Claudia Guarino fa riferimento a un'indiscrezione trapelata nelle ore precedenti secondo la quale il giornalista si sarebbe trovato a Merano, sulla quale però non esistono conferme. "Non escludo che una procedura del genere sia possibile e se l'Asl dice che è tutto regolare sicuramente lo è. Sta di fatto che all’ordine dei medici non è arrivata alcuna comunicazione ufficiale dall’Asl (di segalare pazienti). E posso dire lo stesso anche come medico di medicina generale", ha commentato a Il Tirreno il dottor Lorenzo Droandi, presidente dell’ordine dei medici di Arezzo. Droandi, poi, si chiede: "Che cosa succederebbe se ci mettiamo a telefonare per tutti i caregivers? Ai miei pazienti dico che se ne hanno diritto e vogliono figurare, per così dire, nella 'panchina' dei riservisti devono iscriversi alle liste e poi, qualora ci fosse un posto libero, saranno contattati".

Andrea Scanzi è tornato a dire la sua ai microfoni di Affaritaliani.it, rivendicando di aver dato lui stesso la notizia: "Ho sbagliato a vaccinarmi? Accetto la critica, ma da qui a trattarmi da merda e costringere mio padre a chiudere il suo profilo Facebook per gli insulti ce ne corre. Non me lo merito io e tantomeno i miei genitori, che sono stressatissimi per questa vicenda". Nella lunga intervista, quindi, Andrea Scanzi ha ricostruito l'andamento della sua vaccinazione, dai contatti con il medico curante fino a quelli con il direttore della Asl di Arezzo. Ha, quindi, rivelato quale sia il motivo dietro la sua priorità vaccinale in quanto "figlio unico di genitori estremamente vulnerabili". Ma non in veste di convivente, perché lui stesso ammette di non esserlo più: "Non mi sento minimamente un "caregiver familiare": sono vent';anni che non vivo con i miei genitori, i quali (toccando ferro) nonostante tutto sono autosufficienti. È chiaro se uno mi definisce “caregiver” e poi mi vede il giorno dopo in una clinica detox a 5 stelle pensa che io stia prendendo per il culo il prossimo, ma è stata l'ASL a definirmi in quel modo, anche se non penso di meritarlo".

Andrea Scanzi, "i colleghi del Fatto stanno godendo": indiscreto al veleno, occhio alla paginata sospetta. Libero Quotidiano il 26 marzo 2021. Ieri Dagospia si chiedeva come mai sull’edizione cartacea del Fatto Quotidiano non fosse stata spesa neanche mezza parola sul caso del salta-fila Andrea Scanzi. Oggi il quotidiano diretto da Marco Travaglio ha pubblicato un articolo a tutta pagina in cui viene massacrata la Toscana e quindi indirettamente anche il collega aretino che si è vaccinato da “riservista”: la cosa non sorprende, dato che sempre Dagospia aveva svelato che “la redazione non ha apprezzato l’ennesima ego-latrina del farfallone lampadato. Anzi, stanno tutti godendo”. “La Regione Toscana, in mano alla cosiddetta sinistra - si legge sul Fatto - quella che dovrebbe lavorare il più possibile per annullare le differenze sociali, è assolutamente deficitaria nel percorso dei vaccini”. In particolare sugli over 80: il Fatto cita l’esempio di una anziana con gravi patologie che richiedono una totale assistenza domiciliare; per lei non c’è ancora nessun vaccino. Questo perché AstraZeneca non si può usare e di Pfizer e Moderna non ce ne sono abbastanza. “Poi però c’è AstraZeneca e chi ottiene di farlo - si legge sempre sul Fatto - anche mettendosi in lista per evitare vengano buttate le dosi. Non mi fa scandalo ci siano le liste di chi si fa avanti, piuttosto chi non le sa gestire. La Regione Toscana ci ha fatto capire che tra le categorie fragili c’erano gli operatori dei tribunali e gli avvocati. Già dobbiamo assistere all’assurdità dei vaccini per tutti i docenti, anche quelli in Dad. Com’è possibile che un presidente di Regione possa decidere liberamente un’azione del genere, senza un diktat nazionale che possa sorpassare, di fronte a una tale emergenza e tragedia, le decisioni delle Regioni e impedire tali ingiustizie?”. 

Da lindro.it il 26 marzo 2021. Andrea Scanzi, giornalista de "Il Fatto Quotidiano" da qualche giorno agli onori della cronaca per via del vaccino fatto in lista di attesa sorpassando così gli altri, ha un’altra peculiarità per cui è noto: è un feticista (non) anonimo. «Quando ero single andavo alle feste fetish e le "mistress" mi camminavano sul corpo», raccontò in una intervista ad ‘Un giorno da pecora’. La sua perversione preferita è farsi camminare addosso da donne coi tacchi stellari e alla domanda se lo avesse mai fatto a quelle feste raccontò imperterrito: «Sì, non a quelle feste però ma con qualche mia ex. Ed in questi casi, meglio petto e schiena, che fanno meno male. D’altra parte in quel momento la tua compagna è la "mistress", la padrona». Inoltre, in altre interviste, ha dichiarato di prediligere i piedi femminili di cui è un attentissimo critico, un po’ come il professore di matematica Michele Apicella in ‘Bianca’ di Nanni Moretti. Scanzi Andrea è persona intelligente e se ha scelto di dichiarare tutto lo ha fatto da fine psicologo e sublime tattico, perché poi magari la cosa usciva fuori da sé e lo scandalo sarebbe stato bello pronto a sommergerlo. Resta il fatto che la tecnica è riuscita ed una volta auto rivelato che il Re –è il caso di dirlo- è nudo a nessuno gliene è fregato più di tanto ed, anzi, la sua carriera non solo non è stata inficiata da questo ‘vizietto’ ma è vieppiù decollata verticalmente essendo lo Scanzi presente è ubiquitario ovunque. Per lo Scanzi feticista è successo quello che avveniva con il marziano atterrato a Roma di Ennio Flaiano: dopo l’interesse iniziale, dopo un po’ nessuno se lo filava più. Misteri dei meccanismi della popolarità.

Caso Scanzi, Codacons denuncia la Berlinguer: "Risorse Rai utilizzate impropriamente". La conduttrice di Cartabianca è stata denunciata all'Ordine dei Giornalisti dal Codacons per aver consentito ad Andrea Scanzi "una difesa privata e senza contraddittorio" sui canali televisivi del servizio pubblico. Novella Toloni - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale.  "Mezzi e risorse della Rai, pagate dai cittadini, messe a disposizione di Andrea Scanzi per una difesa privata e senza contraddittorio". Con questa motivazione il Codacons ha denunciato Bianca Berlinguer all'Ordine dei Giornalisti. Nell'ultima puntata del format di Rai3 (in onda martedì 23 marzo) Bianca Berlinguer ha dato spazio al giornalista de Il Fatto Quotidiano per parlare della polemica scatenatasi in seguito alla sua vaccinazione come riservista della regione Toscana. Andrea Scanzi si è difeso dalle accuse di aver sfruttato un canale privilegiato per ottenere una dose di vaccino AstraZeneca al posto di soggetti fragili, in quanto caregiver che assiste i genitori anziani. Una difesa senza contraddittorio, quella andata in onda a Cartabianca, che ha scatenato la dura reazione del Codacons: "Grave il comportamento della Rai che ha ceduto il servizio pubblico ad un privato giornalista per farlo difendere. Denunciamo all'Ordine dei Giornalisti Bianca Berlinguer per aver messo il servizio pubblico e disposizione di Andrea Scanzi, consentendo al giornalista di utilizzare mezzi e risorse Rai - pagate dai cittadini - per una difesa senza contraddittorio". Bianca Berlinguer non è però l'unica ad essere finita nel mirino del Codacons. L'associazione dei consumatori ha pubblicato una nota ufficiale sul suo sito, nella quale annuncia di aver presentato un esposto alla procura di Arezzo contro la Asl Toscana Sud Est e contro la Regione Toscana. Il Codacons ha chiesto l'intervento delle autorità per verificare come Scanzi potesse rientrare nella "lista dei panchinari" in veste di caregiver - che si occupa dei genitori anziani - quando in realtà andava in tour con il suo spettacolo teatrale con oltre 150 repliche. "Le disposizioni del Ministero della salute - si legge nella nota ufficiale del Codacons - prevedono infatti il diritto alla vaccinazione solo per chi si prende cura in modo continuativo e costante di disabili o soggetti fragili: come può conciliarsi tale requisito con l'attività di Andrea Scanzi". Alla Procura l'associazione ha sollecitato, inoltre, una verifica sull'iniziale inesistenza della lista dei soggetti riservisti, il cui modulo di iscrizione sarebbe stato pubblicato on line dalla Asl Toscana Sud Est solo sabato scorso, ovvero il giorno dopo la vaccinazione di Scanzi. Dubbi sui quali dovrà ora pronunciarsi la Procura di Arezzo, per chiarire se Scanzi avesse realmente diritto alla vaccinazione prioritaria e se ci siano stati abusi da parte dell'Asl e della regione Toscana nella procedura seguita. Dalle dichiarazioni rilasciate proprio da Scanzi a Cartabianca, infatti, "sarebbe stata l'Asl a telefonare ripetutamente al giornalista per invitarlo al vaccino e non agli ultraottantenni aretini".

Aldo Grasso per il "Corriere della sera" il 25 marzo 2021. Bianca Berlinguer è sempre in lotta con l'audience e non si lascia sfuggire i «numeri» che possano aiutarla nell' impresa. Così #cartabianca ha aperto con Andrea Scanzi, nelle vesti provvisorie di Mauro Corona (Rai3, martedì). La vicenda che ha visto Scanzi esibirsi in video come panchinaro del vaccino è poco commendevole, meriterebbe soprattutto il silenzio. E invece no: Bianca ha voluto difendere a tutti i costi il suo ospite fisso, sapendo che la polemica avrebbe portato acqua al mulino degli ascolti. L'io della personalità di Scanzi è talmente strabordante da credere che l'intero universo ruoti attorno a sé, Bianca compresa: «Ho utilizzato la mia personalità, la mia popolarità, il mio seguito sui social e nel mondo reale» per portare il buon esempio. Forse la Berlinguer, tanto per equilibrare le parti, avrebbe potuto mostrare quel filmato di Scanzi di un anno fa in cui paragonava il Covid a un raffreddore e inveiva contro chi cercava misure restrittive con la stessa sfrontatezza compiaciuta, la stessa aggressività con cui ora chiede di essere ringraziato dal Paese per il motivo opposto. Finita la commedia all' italiana, non ci restano che Scanzi e # cartabianca , un programma ormai surreale. Abbiamo visto il «finanziere e scrittore» Guido Maria Brera difendere i driver, attaccare Bezos e il «capitalismo delle piattaforme», come se la finanza fosse qualcosa di simile al soccorrevole medico di base di Scanzi. Abbiamo visto Michela Murgia presentare il suo libro Stai zitta (si vende anche su Amazon) e non dire una sola parola su «Stai zitta, gallina!» di Corona. Abbiamo visto Luigi Sileri (il sottosegretario alla Salute che vive in tv) dare ragione a Scanzi e Simona Ventura spiegare agli italiani come devono curarsi contro il Covid. Adesso aspettiamo con ansia la puntata di Scanzi con Lilli Gruber. Cosa sarebbe successo se al posto di Scanzi ci fosse stato in panchina un Matteo Renzi?

DAGONOTA il 25 marzo 2021. Come mai sull'edizione cartacea del "Fattoquotidiano" non si proferisce parola sul caso del salta-fila e caregiver Andrea Scanzi? Peter Gomez lo ha randellato ma solo durante il programma “Tagadà” de La7, e sul sito che dirige è apparso questo articolo. Mentre dopo ben quattro giorni dal coming out vaccinale di Scanzi,  Marco Travaglio tace. Come mai?  Semplice, il cazzaro del vaccino è indifendibile, da una parte. Dall’altra, è il suo cocco. Mentre la redazione del ‘’Fatto’’ non ha apprezzato (eufemismo) l'ennesima ego-latrina del farfallone lampadato. Anzi, stanno tutti godendo per gli attacchi che sta ricevendo da quattro giorni.

Andrea Scanzi, la "risposta" di AstraZeneca: "Era così anche prima del vaccino". Libero Quotidiano il 25 marzo 2021. Da paladino del vaccino a "demente del vaccino", come si è auto-definito Andrea Scanzi. Il passo è brevissimo, soprattutto se di mezzo ci si mettono i social e i meme. Il caso è noto: la penna del Fatto quotidiano, 46 anni, si è fatto vaccinare con AstraZeneca ad Arezzo, essendosi iscritto, ha annunciato con orgoglio, alla lista dei riservisti. Coloro, cioè, che possono farsi vaccinare con le dosi rimaste inutilizzate alla fine della giornata e che altrimenti andrebbero buttate. Fin qui, tutto bene. Ma poi sono emersi dettagli controversi. Innanzitutto, la composizione "misteriosa" di questa lista, scritta a penna su un foglio. Quindi la qualifica di "caregiver" di Scanzi, vaccinato perché unico in grado di accudere i due genitori anziani e "fragili". Il paradosso è che loro, a differenza del figlio, sono ancora in attesa. Da quel momento, su Scanzi si è scatenata la classica  "shitstorm", una valanga di insulti, sberleffi e sospetti di essere un raccomandato o un privilegiato. Lui si è difeso, anche un po' goffamente, in tv e sui social. Pare che in redazione al Fatto non abbiano preso bene le sue uscite, e il direttore del Fattoquotidiano.it Peter Gomez lo ha pure dichiarato, ospite a La7 a Tagadà: "Lui crede di essere la notizia, quando invece il nostro compito è darle. Io l'avrei fatto e sarei stato zitto". E ora, su Twitter, ha preso a girare anche un godibilissimo meme con la (finta, ma verosimile e soprattutto credibile) risposta di AstraZeneca. Scanzi, posa piacionesca e sguardo killer, spiega. "Mi sono vaccinato con AstraZeneca e lo rifarei. Gli italiani dovrebbero ringraziarmi". Precisazione di AstraZeneca: Andrea Scanzi era così anche prima del vaccino!". Non ci resta che ridere. 

Contratto di Scanzi con Cartabianca sospeso, Anzaldi: “Serve trasparenza, la Rai faccia chiarezza”. Luigi Ragno su il Riformista il 27 Marzo 2021.

Onorevole Anzaldi, risulta anche a lei, come scrive Dagospia, che il contratto di Scanzi con la Rai e Cartabianca sarebbe stato sospeso?

“Trovo incredibile che a 24 ore da quando Dagospia, un sito sempre bene informato, ha lanciato l’indiscrezione sullo stop al contratto Rai di Scanzi, ancora non sia stata fatta alcuna chiarezza: la notizia è vera o no? Che aspetta la Rai, che può contare su un ampio ufficio stampa la cui responsabile è stata addirittura promossa a direttore con quadruplo scatto di carriera in 3 anni grazie a M5s, a smentire o confermare? Perché questa ennesima mancanza di trasparenza?”.

Dagospia sostiene che la notizia verrebbe dalla commissiome di Vigilanza: che ne pensa?

“Non so se qualcuno in commissione di Vigilanza sia informato di questa vicenda, di certo il presidente Barachini non ci ha detto nulla”.

Lei è stato il primo a chiedere la sospensione del contratto a Scanzi: lo ritiene ancora un provvedimento necessario?

“La sospensione doveva essere il minimo, dopo le prime notizie uscite, per tutelare la Rai da eventuali sviluppi. Invece a Scanzi è stata data addirittura la prima serata su Rai3, cosa che non ha fatto nemmeno la tv commerciale. Anche La7 ha avuto l’accortezza di non ospitare Scanzi questa settimana a Otto e mezzo, la Rai invece ha addirittura presentato come un modello chi salta la fila, mentre Mattarella e Draghi aspettano il loro turno come tutti gli italiani. Ennesima pagina nera di questi vertici del servizio pubblico, è sempre più urgente nominare un nuovo Cda”.

Vittorio Feltri sul vaccino di Andrea Scanzi: "Ha tutta la mia solidarietà. Anche se mi dà del consumatore accanito di gin". Libero Quotidiano il 28 marzo 2021. In questi giorni è stata alimentata la polemica contro il furbetti del vaccino, ossia coloro che aggirando i vincoli burocratici sono riusciti in qualche modo a ricevere l'iniezione salvifica. Il caso Scanzi poi è montato a dismisura diventando uno scandalo francamente eccessivo. Personalmente disapprovo chi si impossessa di qualcosa che non gli spetta di diritto, tuttavia nella fattispecie dell' immunizzazione bisogna compiere delle precisazioni, ovvero concedere agli astuti alcune attenuanti che sconfinano in esimenti. Infatti il cosiddetto piano vaccinale non si è rivelato all' altezza delle attese, per una semplice ragione: scarseggiavano e scarseggiano ancora le dosi necessarie a proteggere tutti dalla malattia. Sissignori. Il problema italiano non consiste nella organizzazione, per quanto imperfetta, bensì nella mancanza della materia prima: il siero in grado di sconfiggere il morbo. A causa di tale carenza è aumentata giorno per giorno nella gente di ogni ceto la paura di infettarsi e di fare una brutta fine. Il rischio di andare al cimitero dopo atroci sofferenze era ed è tale da costringere chiunque a trovare una soluzione pro vita.

E così è cominciata la caccia al vaccino. Una reazione del tutto giustificata. Il popolo è ricorso a ogni arma e ad ogni sotterfugio per garantirsi l'immunità. Qualcuno ce l' ha fatta, altri no. Ovvio che coloro che sono rimasti a secco siano irritati al punto da condannare coloro che al contrario sono riusciti di sfroso a farsi bucare il braccio. Non c' è nulla di più umano, ma è disumano attaccare con ferocia gli individui che hanno conquistato un brandello di salute. Ai quali, compreso Scanzi che mi dà del consumatore accanito di gin, liquido da me mai ingerito, va tutta la mia solidarietà. In assenza di vaccini per la massa è naturale: i cittadini si arrangiano per procurarseli con i mezzi di cui dispongono, inclusa la scaltrezza, giudicata di norma scorretta quando, invece, è l' ancora di salvezza dei disperati.

In sintesi, mi pare più opportuno prendersela con un governo incapace di assicurare la salute a chiunque piuttosto che con coloro i quali, abbandonati dalle istituzioni, se la sono assicurata per conto proprio. Con destrezza. Ossia un' arte indispensabile per sopravvivere in un Paese che se non fosse di merda sarebbe addirittura divertente.

Da liberoquotidiano.it il 27 marzo 2021. Ieri Dagospia si chiedeva come mai sull’edizione cartacea del Fatto Quotidiano non fosse stata spesa neanche mezza parola sul caso del salta-fila Andrea Scanzi. Oggi il quotidiano diretto da Marco Travaglio ha pubblicato un articolo a tutta pagina in cui viene massacrata la Toscana e quindi indirettamente anche il collega aretino che si è vaccinato da “riservista”: la cosa non sorprende, dato che sempre Dagospia aveva svelato che “la redazione non ha apprezzato l’ennesima ego-latrina del farfallone lampadato. Anzi, stanno tutti godendo”. “La Regione Toscana, in mano alla cosiddetta sinistra - si legge sul Fatto - quella che dovrebbe lavorare il più possibile per annullare le differenze sociali, è assolutamente deficitaria nel percorso dei vaccini”. In particolare sugli over 80: il Fatto cita l’esempio di una anziana con gravi patologie che richiedono una totale assistenza domiciliare; per lei non c’è ancora nessun vaccino. Questo perché AstraZeneca non si può usare e di Pfizer e Moderna non ce ne sono abbastanza. “Poi però c’è AstraZeneca e chi ottiene di farlo - si legge sempre sul Fatto - anche mettendosi in lista per evitare vengano buttate le dosi. Non mi fa scandalo ci siano le liste di chi si fa avanti, piuttosto chi non le sa gestire. La Regione Toscana ci ha fatto capire che tra le categorie fragili c’erano gli operatori dei tribunali e gli avvocati. Già dobbiamo assistere all’assurdità dei vaccini per tutti i docenti, anche quelli in Dad. Com’è possibile che un presidente di Regione possa decidere liberamente un’azione del genere, senza un diktat nazionale che possa sorpassare, di fronte a una tale emergenza e tragedia, le decisioni delle Regioni e impedire tali ingiustizie?”.

Da video.corriere.it il 29 marzo 2021. «Prima non era mai stato preso in considerazione, perché per quanto mi riguarda si poteva aspettare anche un altro mese o forse un altro anno. Da parte mia non c’è stata assolutamente nessuna forzatura da questo punto di vista. Quando mi chiamò il suo medico io gli dissi che prima di Scanzi ce n’erano tanti altri. Quindi lui poteva aspettare. Ma il medico di base del giornalista gli ha detto che Scanzi avrebbe aspettato, l’importante è che prima o poi fosse stato chiamato al momento opportuno. Ho ricevuto altre telefonate anche dallo stesso Scanzi, evidentemente gli hanno dato il mio numero… Mi ha detto, guardi, non so se il medico le ha accennato la mia situazione, io sono sempre disponibile quando voi potete. E io gli ho risposto che sarebbe passato del tempo, perché abbiamo altre priorità», Così il direttore sanitario di Arezzo, Evaristo Giglio, in un intervista telefonica a «Non è l'Arena» in onda su La7.

Da iltempo.it il 29 marzo 2021. A non è l'Arena, Massimo Giletti torna sul caso di Andrea Scanzi che, pur non avendone i requisiti, ha fatto il vaccino AstraZeneca prima di tanti altri che ne avevano diritto. Il tutto sostenendo di averne fatto richiesta a febbraio, ma solo come “panchinaro”, cioè nel caso in cui una dose a fine giornata non fosse stata utilizzata e avesse rischiato di essere buttata (da un flaconcino di vaccino si estraggono più dosi e ogni dose va utilizzata entro sei ore dalla diluizione). In realtà, come ricorda anche Giletti, è conservabile in frigorifero anche per 48 ore. Innanzitutto, non tornano le date e le motivazioni: Scanzi, infatti, cambia versione più volte, nonostante ci siano i suoi stessi video e i suoi post a confermare ogni ricostruzione da lui fatta. Per fortuna c’è il dottor Evaristo Giglio, direttore dell’Asl di Arezzo, che conferma quello che dice Scanzi. Ma non la data: che è quella del 20/22 febbraio e non quella del 15 marzo. E quando Scanzi è stato vaccinato, spiega il direttore generale del distretto sanitario Antonio D'Urso, i caregiver non erano ancora stati inseriti dal governo nella lista dei possibili "panchinari". Anche se "le verifiche sul caso di Scanzi sono ancora in corso". Intervistato telefonicamente dall’inviata del programma Francesca Carrarini, il medico Giglio dà una “versione particolare” che però Giletti aveva deciso di non mandare in onda lo scorso 21 marzo. Nella telefonata, il dottor Giglio spiega: “Scanzi, da quello che lui e il suo medico di famiglia hanno detto, sarebbe un caregiver di questi famigliari ammalati che risultano nella lista dei vulnerabili”. Come verificarlo? “Non è uno stato di polizia - spiega il medico - così che io possa andare a vedere se è vero. Se a me il medico di famiglia fa una segnalazione del genere lo metto lì in attesa. Scanzi era l’ultimo di questa lista. Anzi, si è trovata una situazione convincente per cui, avanzando queste due dosi e con lui che da tempo aveva chiesto di essere chiamato come “panchinaro. Prima non era mai stato preso in considerazione, perché per quanto mi riguarda si poteva aspettare anche un altro mese o forse un altro anno. Da parte mia non c’è stata assolutamente nessuna forzatura da questo punto di vista. Quando mi chiamò il suo medico io gli dissi che prima di Scanzi ce n’erano tanti altri. Quindi lui poteva aspettare. Ma il medico di base del giornalista gli ha detto che Scanzi avrebbe aspettato, l’importante è che prima o poi fosse stato chiamato al momento opportuno”. E qui una novità. Spiega Giglio: “Ho ricevuto altre telefonate anche dallo stesso Scanzi, evidentemente gli hanno dato il mio numero…” E cosa gli avrà chiesto? E Giglio: “Mi ha detto, guardi, non so se il medico le ha accennato la mia situazione, io sono sempre disponibile quando voi potete. E io gli ho risposto che sarebbe passato del tempo, perché abbiamo altre priorità”.

Francesco Curridori per ilgiornale.it il 29 marzo 2021. "Dopo l'inchiesta di Non è l'arena e le interviste ai responsabili Asl di Arezzo che smentiscono Scanzi sul vaccino, si riunisca subito il Comitato per il Codice Etico Rai e risponda in modo netto e definitivo: è accettabile che l'opinionista continui ad essere pagato dalla Rai?". Il renziano Michele Anzaldi continua a chiedere chiarezza sulla vicenda che ha coinvolto il cronista del Fatto. "Mentre Cartabianca ha esaltato senza contraddittorio il modello saltafila di Scanzi, dalla tv commerciale e Giletti è arrivata una lezione di giornalismo e onestà intellettuale, con un'inchiesta che ha fatto chiarezza. E La7 ha sospeso la collaborazione. La Rai fa finta di nulla?", scrive ancora su Twitter il deputato di Italia Viva. Nella puntata di ieri del programma di Massimo Giletti, infatti, è andata in onda un'intervista al direttore sanitario di Arezzo Evaristo Giglio che ha spiegato perché Andrea Scanzi non aveva i requisiti per ricevere il vaccino come "panchinaro". Ma, oltretutto, ha mentito. Anzitutto il vaccino Astrazeneca, come ricorda anche Massimo Giletti, è conservabile in frigorifero anche per 48 ore e, pertanto, Scanzi mente quando sostiene che ci fosse il rischio che la dose che gli è stata somministrata venisse buttata. In secondo luogo, secondo Giglio, "si poteva aspettare anche un altro mese" prima di vaccinare il giornalista del Fatto. "Scanzi, da quello che lui e il suo medico di famiglia hanno detto, sarebbe un caregiver di questi famigliari ammalati che risultano nella lista dei vulnerabili”, ma spiega il medico: “Non è uno stato di polizia così che io possa andare a vedere se è vero. Se a me il medico di famiglia fa una segnalazione del genere lo metto lì in attesa". E aggiunge: "Quando mi chiamò il suo medico io gli dissi che prima di Scanzi ce n’erano tanti altri. Quindi lui poteva aspettare. Ma il medico di base del giornalista gli ha detto che Scanzi avrebbe aspettato, l’importante è che prima o poi fosse stato chiamato al momento opportuno”. Insomma, le pressioni sono tante sia da parte del medico di base sia da Scanzi che chiama personalmente il dottor Giglio per ribadirgli la sua disponibilità. E nel merito la sua ex collega Sandra Amurri attacca: "Non è che uno si sveglia la mattina ed è caregiver... ha cercato di mettere le pezze ma è andata male! Anche avesse avuto il diritto a vaccinarsi, avrebbe dovuto dire chiamate altri che ne hanno bisogno più di me".

Ora tutti scaricano Scanzi. Anche Antonio D'Urso, direttore generale della Asl Toscana sud est, mette in evidenza le incongruenze della versione data da Scanzi: "Ha dichiarato di essere un caregiver, come ha fatto anche in alcune interviste in televisione. Il piano nazionale vaccinazione indica come caregiver le persone che sono indicate dalla persona disabile. Gli uffici stanno verificando questo". Ma, Scanzi non avrebbe in ogni caso potuto vaccinarsi come caregiver: "La vaccinazione con Astrazeneca - spiega D'Urso - in questo momento è limitata ad alcune categorie: personale scolastico, personale delle forze armate e delle forze dell'ordine, persone tra i 70 anni compiuti e gli 80 da fare. Se Scanzi non aveva queste caratteristiche non poteva accedere alla vaccinazione". Infine, c'è il problema della data della somministrazione che inchioderebbe il cronista del Fatto: "Il decreto parla di conviventi e di caregiver e questi ultimi sono venuti fuori con il piano vaccino del 13 marzo. Fino ad allora i caregiver, come le persone fragili, non venivano vaccinati"...

Caso Scanzi, il giornalista sospeso da CartaBianca. "Ho scelto di sospendere la partecipazione di Andrea Scanzi a Cartabianca ma spero di riaverlo presto". Lo ha annunciato questa sera Bianca Berlinguer, in attesa della decisione del comitato etico della Rai. Roberto Vivaldelli - Mar, 30/03/2021 - su Inside Over il 30 marzo 2021. Niente Cartabianca per Andrea Scanzi. Il giornalista ed opinionista del Fatto Quotidiano, nonostante la sua presenza fosse stata confermata nel pomeriggio, non ha partecipato questa sera al programma di Rai3 condotto da Bianca Berlinguer: sulla vicenda della vaccinazione di Scanzi, infatti, è stata attivata la Commissione per il Codice Etico della Rai che in queste ore sta valutando se decidere sull'eventuale sospensione del suo contratto con il programma della terza rete. Il giornalista, al centro delle polemiche, aveva raccontato sui social di aver ricevuto una dose di Astrazeneca ad Arezzo come riservista e in qualità di caregiver familiare dei suoi genitori. "Permettetimi una precisazione - ha affermato Bianca Berlinguer, che questa sera ha condotto il programma da casa, dove si trova in isolamento -. A questo talk di Cartabianca avrebbe dovuto partecipare anche Andrea Scanzi, invitato da me in trasmissione e al centro di molte polemiche perché accusato di aver saltato la fila per il vaccino che ha ottenuto con il via libera e l'autorizzazione Asl di riferimento. Lo avevo invitato anche in questa puntata di Cartabianca ma qualche ora fa ho appreso dalle agenzie, qui in isolamento, che la Rai avrebbe investito il Comitato etico di questa scelta, se Scanzi avesse dovuto essere confermato o meno a Cartabianca. A questo punto, per mia responsabilità, per una scelta mia, ho deciso di sospendere la sua partecipazione e ne ho parlato anche con lui, ma io spero di riaverlo con noi presto". Nel frattempo, il "caso Scanzi" continua a far discutere. Secondo il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, la decisione del Comitato etico della Rai è tardiva: "Dopo oltre 10 giorni dall'emergere del caso vaccino di Scanzi, l'apertura di un fascicolo in Procura, le verifiche della Asl, le inchieste di Non è l'arena e Il Tirreno che hanno smontato la versione data dal giornalista, le critiche trasversali arrivate da giornalisti come il direttore del Corriere Fontana e il direttore del sito del Fatto Gomez, insomma dopo tutto questo alla fine anche la Rai batte un colpo e annuncia l'attivazione del Comitato per il Codice Etico per decidere sul contratto che il giornalista ha con Cartabianca come opinionista a pagamento" sottolinea Anzaldi. "Un'attivazione davvero tardiva - incalza -che ho chiesto più di una settimana fa e che poteva essere effettuata prima di proporre Scanzi saltafila addirittura come modello in prima serata su Rai3, a Cartabianca". "Ora il Comitato Etico - prosegue Anzaldi -si riunisca subito e decida rapidamente, il danno di immagine che il servizio pubblico sta subendo da questa vicenda è gravissimo. Intanto, per rispetto del buonsenso e anche del lavoro del Comitato stesso, tutte le ospitate di Scanzi vengano immediatamente sospese".

Così la Asl ha "scaricato" Scanzi. A far "vacillare" e a porre seri dubbi sulla versione del giornalista del Fatto Quotidiano è stata - fra le altre - l'inchiesta condotta dal programma di La7, Non è l'Arena. Evaristo Giglio, direttore sanitario di Arezzo e intervistato dal programma condotto da Massimo Giletti, ha spiegato che Andrea Scanzi "prima non era mai stato preso in considerazione, perché per quanto mi riguarda si poteva aspettare anche un altro mese o forse un altro anno. Da parte mia non c’è stata assolutamente nessuna forzatura da questo punto di vista. Quando mi chiamò il suo medico io gli dissi che prima di Scanzi ce n’erano tanti altri. Quindi lui poteva aspettare. Ma il medico di base del giornalista gli ha detto che Scanzi avrebbe aspettato, l’importante è che prima o poi fosse stato chiamato al momento opportuno. Ho ricevuto altre telefonate anche dallo stesso Scanzi, evidentemente gli hanno dato il mio numero…Mi ha detto, guardi, non so se il medico le ha accennato la mia situazione, io sono sempre disponibile quando voi potete. E io gli ho risposto che sarebbe passato del tempo, perché abbiamo altre priorità". Anche Antonio D'Urso, direttore generale della Asl Toscana sud est, ha messo in evidenza alcune incongruenze della versione data da Scanzi: "Ha dichiarato di essere un caregiver, come ha fatto anche in alcune interviste in televisione. Il piano nazionale vaccinazione indica come caregiver le persone che sono indicate dalla persona disabile. Gli uffici stanno verificando questo". L'Asl Toscana sud est consegnerà alla procura di Arezzo i risultati di un'ispezione interna relativa alla vicenda. La procura di Arezzo, al momento, ha aperto un fascicolo a modello 45, quindi senza indagati e senza ipotesi di reato, per poter espletare una serie di accertamenti.

(ANSA il 30 marzo 2021) La procura di Arezzo riceverà nelle prossime ore dalla Asl Toscana Sud Est i risultati di un'ispezione interna riguardante la vicenda del vaccino Astrazeneca somministrato al giornalista aretino Andrea Scanzi, vicenda che ha assunto ulteriore rilievo dopo la trasmissione "Non è L'Arena" condotta su La 7 da Massimo Giletti in cui è stato intervistato il direttore generale della Asl Toscana Se, Antonio D'Urso. Il direttore D'Urso aveva ricordato come la procedura utilizzata per il vaccino anti Covid a Scanzi, iscrittosi nelle liste dei riservisti come 'caregiver' in una data in cui "la panchina" non era aperta questa categoria, fosse già sotto esame della Asl per un'attenta ispezione interna. Ora, secondo quanto si apprende, le conclusioni della Asl saranno consegnate alla procura di Arezzo che, al momento, ha aperto un fascicolo a modello 45 per espletare una serie di accertamenti ed eventualmente ipotizzare, qualora vi si profilasse, un possibile reato. La documentazione, si apprende ancora da fonti vicine all'inchiesta, sarà esaminata nei prossimi giorni.

Caregiver? Non poteva vaccinarsi. Un asterisco ora incastra Scanzi. Il piano vaccinale è chiaro: i caregiver vaccinati solo se assistono i disabili. Non basta avere genitori "vulnerabili" per ottenere la dose. Giuseppe De Lorenzo - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. L’asterisco, piccolo piccolo, si trova nelle Raccomandazioni ad interim sui gruppi target della vaccinazione anti Covid-19. Si tratta del documento con cui il Ministero della Salute ha aggiornato le priorità sulle categorie da vaccinare: dopo sanitari, Rsa e 80enni, spazio alle “elevate fragilità” e ai 70enni. Cosa c’entra tutto questo con Andrea Scanzi? Semplice: quell’asterisco alle Tabelle 3 e 4 demolisce definitivamente - se ancora ce n’era bisogno - la favola del giornalista caregiver dei genitori vulnerabili. Anche fosse davvero la persona che assiste diligentemente gli avi, infatti, Scanzi non avrebbe comunque diritto ad una dose perché non convive con babbo e mamma. Andiamo con ordine. Come noto il 20 marzo l’opinionista del Fatto annuncia urbi et orbi sulla sua pagina Facebook si essersi fatto iniettare AstraZeneca al Centro Affari di Arezzo. Beato lui. La gente si chiede: come diavolo ha fatto un 47enne cronista a trovare una dose? Sul momento lui la spiega così: a fine giornata, quando c’è il rischio di cestinare il vaccino, “si contattano quelle persone che hanno dato la loro disponibilità a essere vaccinati, laddove però facenti parti di determinate categorie”, nel suo caso “il caregiver familiare in quanto figlio unico di genitori facenti parte della categoria dei fragili”. Convinto di aver fatto del bene al Paese, forse inconsapevole - o forse no - della possibile polemica, Scanzi finisce in un putiferio. Ha scavalcato la fila? Per carità, dice lui: ero solo un “panchinaro”, anche se la lista era “solo verbale”, insomma “tu lo dicevi al tuo medico di base che, se ti reputava idoneo, segnalava il tuo nome al responsabile del piano vaccinale”. E così, mentre gli ottantenni devono ancora finire il giro (la Toscana procede al rallentatore) e i 70enni non hanno visto neppure l’ombra di una dose, lui se ne va nella clinica detox col siero in corpo. Che culo. Ma perché il medico di base l’avrebbe reputato “idoneo”? “Essendo figlio unico ed essendo ritenuto dalla Asl caregiver familiare” (aridaje) e “avendo due genitori nella categoria fragili, avrei comunque potuto vaccinarmi”. Chiaro? Tralasceremo qui la presunzione di essere “ringraziato” da “larga parte degli italiani”. Così come lo scontro con Maria Elena Boschi, la sospensione dai programmi e le robe tipo: “Io sono ricco e loro no”, “io sono caruccio e loro no”, “io ce l’ho fatta e loro no”. Lo stesso dicasi per le telefonate al povero responsabile dell’Usl di Arezzo, cui il nostrissimo ha telefonato direttamente (chi di noi non ha il numero del direttore del distretto?). E lasceremo da parte anche il fatto che la categoria di caregiver gli si addice pochino, come lui stesso alla fine ha ammesso (“sono mio padre e mia madre ad essere i caregiver del sottoscritto, non viceversa”). Concentriamoci invece sul fatto che il fustigatore (degli altri) ha pestato una cacca. E che la pezza è stata peggio del buco. Stando a quanto dichiarato dal direttore dell’Usl Evaristo Giglio, infatti, Scanzi gli è stato segnalato come possibile panchinaro dal medico di base giustificando il diritto con le patologie dei genitori. L’Usl ne ha preso atto e, senza verificare oltre, l’ha iscritto a piè di lista. Bene. Magari la forzatura l’ha fatta il medico curante, magari l’Usl ha sbagliato qualcosa, non lo sappiamo. Fatto sta che in base al piano vaccinale italiano - caregiver o meno - Scanzi non avrebbe dovuto avere diritto di accedere alla panchina. A Cartabianca, dopo aver detto che non avrebbe reso nota la cartella clinica dei genitori, Scanzi ha rivelato le patologie di cui sono affetti i suoi cari. Non le ripeteremo, per rispetto della privacy. Però abbiamo controllato: effettivamente babbo e mamma rientrano nella tabella delle “persone estremamente vulnerabili”, diventate con le ultime raccomandazioni la “categoria 1” cui dedicare gli sforzi vaccinali. Il 10 marzo infatti il ministero della Salute ha rivisto le priorità sulle vaccinazioni decidendo di dare la precedenza, nell’ordine, a: 1) elevate fragilità (persone estremamente vulnerabili e disabilità grave); 2) persone di età compresa tra i 70 e i 79 anni; 3) 60enni; 4) persone con comorbidità; 5) resto della popolazione. E i caregiver? Ecco il punto: per buona parte delle patologie che fanno rientrare tra i “vulnerabili”, il Piano (così come la Regione Toscana) prevede l’inoculazione solo ed esclusivamente per il malato. Altre malattie invece permettono di allargare la somministrazione, ma solo “ai conviventi”. L’asterisco si trova su 7 delle 30 patologie totali. Ci sono pure quelle dei genitori di Scanzi? Poco importa. Intanto perché Scanzi non convive più con loro (grazie a Dio). Secondo perché il caregiver in questa tabella non è proprio nominato. Appare solo poco più sotto, alla tabella 4, in cui si indicano le disabilità gravi (fisica, sensoriale, intellettiva e psichica): solo in questi casi, definiti ai sensi della legge 104/1992, occorre “vaccinare familiari conviventi e caregiver che forniscono assistenza continuativa in forma gratuita o a contratto”. Stando a quanto da lui detto a Cartabianca e scritto sui post, non pare i suoi genitori rientrino in questa categoria. E comunque visti i tanti impegni non sembra che lui fornisca assistenza "continuativa".

Ps: Scanzi poteva iscriversi alla panchina senza rientrare nella categoria di convivente o caregiver? No. Lo spiega una nota dell'Usl Toscana Sud Est consegnata al Riformista (leggi qui) e anche il portale della Regione: "Per iscriversi è necessario entrare sul portale di prenotazione nella categoria di appartenenza". Se non sei convivente di un "vulnerabile" o caregiver di un disabile non puoi farlo.

In Toscana è bufera sui vaccini. E ora il caso finisce in procura. Marco Curcio, consigliere comunale della Lega di Prato, ha fatto un esposto per far luce sulle 80mila dosi di vaccino "fantasma" al personale sanitario. Francesca Galici - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. La campagna vaccinale in Toscana è nel caos. Dopo il caso di Andrea Scanzi e il servizio di Piazzapulita sulle vaccinazioni al personale del settore giudiziario, compresi i praticanti che per la maggior parte non raggiungono i 30 anni di età, e il ritardo sulle vaccinazioni agli over 80, potrebbe aggiungersi un'altra grana per l'amministrazione di Eugenio Giani. Il consigliere comunale di Prato in quota Lega, Marco Curcio, ha presentato un esposto presso la procura della Repubblica di Prato per fare luce sulle vaccinazioni al personale sanitario della regione, dopo la diffusione dei dati della campagna vaccinale. La questione dei "vaccini fantasma" per quanto riguarda il personale socio-sanitario è stata aperta da qualche giorno alla luce dei numeri che non corrisponderebbero. Come spiega Marco Curcio, infatti, dati Istat alla mano sono poco più di 70mila gli impiegati inquadrati come personale socio-sanitario. Eppure nei dati delle vaccinazioni risultano somministrate più di 230mila dosi a soggetti appartenenti a queste categorie. "Serve fare luce su una questione che riguarda oltre 80mila dosi di vaccino che non si sa perché sono andati ad alcuni cittadini e non invece a persone veramente fragili, come ad esempio agli over-80 per i quali la Toscana arranca nelle ultime posizioni in Italia", ha detto il leghista. Per il consigliere di Prato, i numeri in eccesso potrebbero riferirsi al personale amministrativo, "quindi non a contatto con i pazienti". Se così fosse, "si tratterebbe di assumersi la responsabilità di questa scelta che non ha messo i più fragili davanti a tutti". Marco Curcio, quindi, si rivolge al governatore della Regione Toscana: "Non si tratta di accusare qualcuno in particolare, ma nessuno meglio del presidente della Regione, Eugenio Giani, potrebbe dare una risposta ai cittadini toscani che stanno ancora aspettando". Proprio per questa ragione, il consigliere ha deciso di agire per fare luce: "Siccome a presentare interrogazioni e altri atti in Comune spesso rispondono che i dati non sono in loro possesso, che la competenza non è comunale e così via, vorrà dire che sarà la Procura a fare luce su questa vicenda". Il consigliere si è presentato nella locale caserma dei Carabinieri, "per illustrare i fatti di cui siamo stati informati a mezzo stampa senza alcuna contro-risposta della Regione". "Le persone anziane, o i fragilissimi, o i malati che stanno ancora aspettando hanno diritto di sapere non solo quando sarà il loro turno, ma anche perché qualcuno gli sarebbe passato avanti e perché questo sarebbe stato consentito da una scelta politica della Regione", ha concluso Marco Curcio.

Rai: caso Scanzi, attivato il Comitato per il Codice etico. (ANSA il 30 marzo 2021) La Rai - a quanto si apprende - ha attivato il Comitato per il Codice Etico per valutare il caso di Andrea Scanzi, dopo le polemiche sulla somministrazione del vaccino al giornalista del Fatto quotidiano, opinionista di Cartabianca su Rai3, che ha raccontato sui social di aver ricevuto una dose di Astrazeneca ad Arezzo come "riservista" e in qualità di "caregiver" familiare dei suoi genitori. Intanto la procura di Arezzo - che ha aperto un fascicolo conoscitivo, senza ipotesi di reato - ricevera' nelle prossime ore dalla Asl Toscana Sud Est i risultati di un'ispezione interna sulla vicenda.

(Adnkronos il 30 marzo 2021) - L'avvicinarsi del weekend di Pasqua, con l'Italia in zona rossa, gli spostamenti consentiti solo all'estero, i vaccini: saranno questi alcuni delgi argomenti della puntata di stasera di #cartabianca, in onda alle 21.20 su Rai3. Ospiti di Bianca Berlinguer Pier Luigi Bersani, Articolo uno, Massimo Galli, direttore Malattie infettive Ospedale Sacco di Milano, Matteo Bassetti, direttore Clinica Malattie infettive Ospedale San Martino di Genova, Simona Ventura, Paolo Mieli, giornalista e scrittore, Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano, Maurizio Belpietro, direttore La Verità e Panorama, Roberta Villa, giornalista scientifica, Federico Rampini, La Repubblica, Silvia Avallone, scrittrice, Michele Mirabella, conduttore di Elisir, Mara Maionchi ed Enrico Lucci.

(Adnkronos il 30 marzo 2021) - La Asl Toscana Sud Est, tramite il direttore generale Antonio D'Urso, consegnerà nelle prossime ore alla procura di Arezzo i risultati dell'ispezione interna relativa alla vicenda del vaccino AstraZeneca somministrato al giornalista aretino Andrea Scanzi, avvenuta nel pomeriggio del 19 marzo all'hub vaccinale allestito al Centro Affari e Fiere di Arezzo. Il 22 marzo il procuratore Roberto Rossi ha aperto un fascicolo a modello 45, quindi senza indagati e senza ipotesi di reato, per poter espletare una serie di accertamenti sul caso Scanzi. Gli ultimi passi della verifica interna all'operato dell'azienda sanitaria hanno riguardato il ruolo di Scanzi come carigiver, ovvero come assistente designato della madre malata e bisognosa di cure in base alla legge 104. Intanto, il direttore dell'Asl Toscana sud est, Antonio D'Urso, intervistato per la trasmissione 'Non è l'Arena' su La 7, ha ricordato come la procedura utilizzata per il vaccino anti Covid a Scanzi, iscrittosi nelle liste dei riservisti come caregiver in una data in cui "la panchina" non era aperta per quella categoria, fosse già sotto esame della Asl per un'attenta ispezione interna.

Il direttore del Corriere fulmina Andrea Scanzi. Fontana lo stende con due parole. Da iltempo.it il 30 marzo 2021. Sempre più indifendibile. Nessuno è più dalla parte di Andrea Scanzi, il giornalista del Fatto quotidiano che è riuscito a ricevere i vaccino anti-Covid come "riservista" in una lista non ufficiale - lo sarebbe stato dopo qualche giorno - in Toscana affermando tra l'altro di averne diritto in quanto caregiver dei genitori. A fulminare il giornalista e opinionista tv arriva un pezzo da novanta del giornalismo made in Italy, ovvero il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana. "Cosa penso del 'caso Scanzi'? Non ho parole. Uno, per aver cercato di farlo; due per averlo usato come una sorta di arma mediatica da pubblicizzare". Due schioppettate da via Solferino sono quelle pronunciate da Fontana a Un giorno da pecora, il programma di Radio 1 Rai condotto da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro oggi lunedì 29 marzo. Ma cosa ha sbagliato Scanzi? "È una cosa che non fa bene alla professione” commenta Fontana. Scanzi però sostiene di essersi iscritto ad una sorta di lista di 'panchinari', precisano i conduttori. “Non lo so, questa panchina non la conosco. Non so come si fa e la stragrande maggioranza delle persone non lo sanno. Comunque era una panchina un po' strana, fatta su un foglio... lasciamo stare”.  Il direttore del Corriere stende così un velo pietoso. Poi Fontana ha rivelato di esser stato querelato da Matteo Renzi. Più precisamente "per un'inchiesta sulla fondazione Open, mi è arrivata a casa una richiesta di risarcimento danni di 200mila euro. Aspettiamo la causa, speriamo bene, io sono abbastanza sicuro di quanto abbiamo scritto, non ho molto da temere. Renzi però ha querelato a raffica”. Cosa intende dire? “Un giorno mi ha chiamato e gli ho detto che mi era appena arrivata la querela. E lui mi ha risposto: 'l'ho mandata anche a te? Evidentemente ne aveva fatte a tanti altri su quella inchiesta che non si ricordava”, ha spiegato il direttore a Un Giorno da Pecora.

Il Fatto garantista con Scanzi. La goffa difesa di Travaglio: "Ha solo parlato troppo". Francesco Maria Del Vigo - Mer, 31/03/2021 - su Il Giornale. Alla fine, dopo giorni e giorni di polemiche su tutti i quotidiani nazionali, i siti web, i social, le tv, le radio e qualunque mezzo di comunicazione possibile, anche il Fatto Quotidiano si è occupato di Andrea Scanzi nel suo ultimo ruolo di «panchinaro del vaccino». In realtà, indirettamente, il quotidiano di Travaglio se ne era già occupato. Ma senza fare nome e cognome. Perfidia massima. Perché, nel caso di Scanzi non è un favore, ma la maggior violenza che gli si possa infliggere. Cinzia Monteverdi, ad della società editrice del quotidiano, lo scorso 26 marzo aveva infatti firmato un lungo articolo nel quale denunciava il malfunzionamento delle vaccinazioni in Toscana: sua madre, ottantenne e disabile, senza siero mentre giovani quarantenni lo avevano già ricevuto. Non serviva un raffinato investigatore per capire a chi fosse indirizzata la pubblica reprimenda. Ieri si è mosso direttamente Travaglio, rispondendo alla mail di un lettore infastidito dal presunto scippo di vaccino. Il direttore del Fatto, facendo un insolito sforzo di garantismo, difende (stancamente) Scanzi. Certo, lui non lo avrebbe mai fatto, ma in fondo il giornalista - sostiene Travaglio - ha rispettato le famose linee guida di Figliuolo. Opinabile, ma se ne occuperà la Asl che sta indagando sul caso. Nel frattempo, dopo essere stato oscurato da La7 ora il giornalista è sotto la lente della Rai che ha attivato la Commissione per il codice etico. Ma per Travaglio è tutto normale: «Semmai Andrea ha poi esagerato con la profluvie di parole usate per difendersi sui social e in tv, arrivando a dire che tutti dovrebbero ringraziarlo come testimonial anti No Vax e che era il caregiver dei genitori. Ma non ha saltato alcuna fila e non rubato alcuna fiala. Insomma troppo rumore per troppo poco, anche se a quel rumore a contribuito anche lui». Quindi, per il neo garantista Travaglio, sbandierare ai quattro venti una scusa traballante (Scanzi si è autoproclamato caregiver dei genitori, non lo ha mai dimostrato) è un peccato veniale, aver tempestato di telefonate il suo medico e pure il direttore della Asl di Arezzo pietendo un vaccino prima degli altri è tollerabile, perché «Scanzi è un ipocondriaco terrorizzato dal Covid» e l'unica colpa del povero Andrea è «aver parlato troppo». Che, in sostanza, significa aver parlato: perché è stato il giornalista stesso, raggiungendo l'acme della tronfiaggine, ad aver raccontato in mondovisione la sua furbata. La morale è semplicissima: hai fatto un gran casino, almeno potevi stare zitto. Travaglio consiglia a Scanzi l'omertà. Il cortocircuito è perfetto.

La polemica sul vaccino. Per Travaglio e Gomez Scanzi non ha violato la legge, Anzaldi: “E allora perché la procura ha aperto un fascicolo?” Luigi Ragno su Il Riformista il 30 Marzo 2021. Non si placa la polemica sul vaccino di Andrea Scanzi. Il giornalista del Fatto Quotidiano, infatti, è stato criticato da Peter Gomez, mentre è stato difeso da Marco Travaglio. Se Gomez in una intervista a MowMag.it ha detto che “Ci sono cose che la legge consente di fare e Andrea mi pare abbia seguito la legge, fino a prova contraria, ma non per forza sei tenuto a farle“. Travaglio si è lanciato a spada tratta a difesa del suo editorialista con un post su Facebook: “Scanzi non ha saltato file né rubato fiale: ha solo parlato troppo“. Entrambi, partendo da punti di vista differenti, dicono che Scanzi non ha fatto nulla di illecito. E allora, si chiede il deputato di Italia Viva Michele Anzaldi, se era consentito dalla legge “perché la procura di Arezzo ha aperto un fascicolo? Evidentemente non è vero che la legge glielo permette…“. Inoltre Anzaldi sottolinea che “Se anche fosse consentito dalla legge, cosa vuol dire? Ad esempio anche per i furbetti dell’Inps la legge prevedeva che potevano richiedere il bonus, ma sono stati giustamente criticati dall’opinione pubblica e principalmente dal Fatto Quotidiano. Ed era una cosa stra-legale. Come mai ora il Fatto Quotidiano con Travaglio giustifica Scanzi?“. Anzaldi conclude: “La vera emergenza è tutelare le fasce deboli, cioè gli anziani e quindi i genitori di Scanzi, non Scanzi stesso“.

Caro Anzaldi, si è garantisti anche con i “nemici” come Scanzi. La campagna dei renziani è andata in porto: Andrea Scanzi è stato cancellato da tutte trasmissioni tv del "regno". Ma non si è garantisti a giorni alterni. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 31 marzo 2021. E così Andrea Scanzi è stato cancellato da tutti gli schermi del regno. Dopo La7 anche Rai3 ha infatti sospeso la collaborazione con il giornalista che avrebbe “saltato la fila” per ottenere di straforo la sua dose di vaccino AtraZeneca. Sarà contento Michele Anzaldi che fino a ieri invocava purghe e provvedimenti esemplari nei confronti del reprobo. E sarà contenta Maria Elena Boschi che si chiedeva indignata come mai gli italiani «dovrebbero pagare il canone per ascoltare un bugiardo come Scanzi?». Un bel capovolgimento, non c’è che dire: i renziani sul pulpito giustizialista e i nipotini di Marco Travaglio travolti dalla pubblica gogna. Fa impressione constatare con quanta naturalezza e con quanto zelo gli animatori di Italia Viva siano passati dal banco degli imputati a quello dell’accusa. Pensate alle parole dell’ex ministra Boschi che per anni ha subito le contumelie, l’ironia da caserma e le allusioni sessiste del Fatto Quotidiano e che ora si ritrova a scimmiottare gli stessi cliché populisti. E fanno ancora più impressione le frasi del segretario della Commissione di viglilanza Anzaldi, per il quale Scanzi non soltanto ha violato il codice etico della Rai ma ha senza dubbio infranto la legge «altrimenti la procura di Arezzo non avrebbe aperto un fascicolo » (sic). Ma non erano gli stessi Boschi e Anzaldi che, quando i grillini e i loro organi di informazione randellavano Matteo Renzi per l’inchiesta Consip o per le vicende giudiziarie del padre Tiziano, parlavano scandalizzati di presunzione di innocenza?Questa grottesca vicenda è rivelatrice della doppia morale e del garantismo straccione che alberga nella nostra vita politica. Basta un colpo di vento e ti ritrovi dall’altra parte della barricata a bullizzare il nemico. Proprio come farebbe uno Scanzi qualunque.

Salviamo il soldato Scanzi dai linciaggi alla…Scanzi. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 30 marzo 2021. Così l’influencer Andrea Scanzi avrebbe “saltato la fila”, aggiudicandosi la sua bella dose di vaccino AstraZenaca alla Asl di Arezzo. Lo ha fatto prima di altre persone che ne avevano diritto, dichiarandosi caregiver dei familiari anziani e vulnerabili. Una “paraculata”, come si dice sulle sponde del Tevere, che però ha scatenato un linciaggio mediatico ai limiti del ridicolo. La trasmissione Non è l’Arena dell’aspirante pm Massimo Giletti gli ha addirittura consacrato un’inchiesta giornalistica poche ore dopo che La7 aveva annunciato la sospensione della sua collaborazione. Incalzato da Giletti, il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi chiede che Scanzi venga cacciato anche dalla tv pubblica per indegnità. Sulla vicenda si stia muovendo anche la procura di Arezzo che ha aperto un fascicolo. Chissà per scoprire quali misteriosi risvolti. Sembra davvero un Paese di esaltati, una comunità che ha smarrito il senso della misura e che annega ogni opinione nel giustizialismo mitomane, un Paese in cui l’umore dei social detta l’agenda quotidiana dell’indignazione. E che adora sbattere nella polvere coloro che fino al giorno precedente esaltava come eroi. Scanzi, per impiegare il suo stesso petulante lessico, ha fatto il “furbetto”, proprio come fanno milioni di italiani che ogni giorno “saltano la fila”, perché se “uno vale uno” non si vede per quale motivo i vip di ogni risma dovrebbero comportarsi diversamente dal cittadino x. E per la prima volta si è ritrovato dall’altra parte della barricata subendo le valanghe di fango populista che normalmente, lui e il suo giornale da oltre un decennio riservano ai nemici politici. Persino il suo maestro e direttore Marco Travaglio lo ha difeso con la freddezza di una serpe, spiegando che “Andrea è un ipocondriaco terrorizzato dal Covid”, ma sottolineando poi che lui un gesto così inopportuno non lo avrebbe “mai fatto”. Auguriamo al buon Scanzi di tornare presto sugli schermi de La7 e di continuare le sue ospitate in Rai. Con un suggerimento: si preoccupi meno degli avversari e faccia più attenzione alle coltellate degli amici.

Andrea Minuz per “il Foglio” il 4 aprile 2021. Non ci piacciono i suoi pamphlet. Le copertine grossolane, troppo colorate, gli orrendi acronimi nel titolo: “Salvimaio”, “Renzusconi”. Peggio che “apericena”. Non ci piacciono i suoi articoli, i suoi editoriali, le sue dirette social, i collegamenti a “Otto e mezzo”, immortalato tra Mark Knopfler e Clint Eastwood, davanti al pannellone del Fatto Quotidiano. Non ci piacciono i suoi spettacoli teatrali tratti dai suoi libri, con Scanzi in penombra e in calzamaglia, lo sguardo ispirato e il microfono ad archetto. Di Scanzi, non ci piace quasi nulla. Soprattutto non ci piace e non ci è mai piaciuto il “Metodo Scanzi”. La denuncia facile, il fango gratuito, il moralismo becero, una visione della politica da rappresentate d’istituto col “chiodo” e la kefiah. Ma la “cancel culture” applicata a Scanzi, come fosse un Mozart o uno Shakespeare qualsiasi bandito dalle Università, non ci va proprio giù. Scanzi sospeso dalla tv italiana, in via del tutto precauzionale e temporanea, in attesa dei pronunciamenti dell’Ema, del Comitato per il Codice Etico della Rai (ma che cos’è?), della Asl Toscana Sud Est, del Tar del Lazio, della Procura di Arezzo e probabilmente di quella di Trani non è certo un bello spettacolo. Non c’è neanche motivo di scomodare il “garantismo”. Sarebbe bastato ospitarlo la volta scorsa con un minimo di contraddittorio, anziché mandarlo in onda in un monologo senza interruzioni, per poi cancellarlo nella puntata successiva, come hanno fatto a “CartaBianca”. Sarebbe bastato percularlo a dovere in quell’occasione. Mettersi a ridere di fronte quell’autodifesa scellerata e allo stesso tempo meravigliosa. Dargli una pacca sulla spalla. Ora ci toccano invece pure le “inchieste” di Giletti e gli editoriali complottisti sull’opinionista scomodo, al centro di un “Arezzogate” e un regolamento di conti tutto toscano. Che Scanzi torni subito in tv, quindi. Che sia da esempio e dia testimonianza, nel gran teatro dei talk-show, dello scarto tra Paese Reale e Paese Legale. Che si faccia difendere da Travaglio, che spiega come Scanzi sia stato vittima della sua ipocondria, e gli ipocondriaci, si sa, sono capaci di tutto. Anche di scrivere “ho le chat private che comprovano ogni cosa che dico”.  D’altro canto, considerate voi se questo è un “caregiver”. Che lavora nel Fatto. Che non conosce pace, che lotta per mezzo like ogni giorno sui social. Che si autoproclama testimonial per AstraZeneca e AstraZeneca cambia subito nome. Che si immola per la Patria nell’ora più buia e la Patria in tutta risposta gli scatena contro le Asl, le procure e il Comitato Etico della Rai, qualunque cosa esso sia. No, non può essere. Scanzi ce lo meritiamo eccome. E ce lo teniamo così.

Roberto Vivaldelli per ilgiornale.it il 31 marzo 2021. Niente Cartabianca per Andrea Scanzi. Il giornalista ed opinionista del Fatto Quotidiano, nonostante la sua presenza fosse stata confermata nel pomeriggio, non ha partecipato questa sera al programma di Rai3 condotto da Bianca Berlinguer: sulla vicenda della vaccinazione di Scanzi, infatti, è stata attivata la Commissione per il Codice Etico della Rai che in queste ore sta valutando se decidere sull'eventuale sospensione del suo contratto con il programma della terza rete. Il giornalista, al centro delle polemiche, aveva raccontato sui social di aver ricevuto una dose di Astrazeneca ad Arezzo come riservista e in qualità di caregiver familiare dei suoi genitori.  "Permettetimi una precisazione - ha affermato Bianca Berlinguer, che questa sera ha condotto il programma da casa, dove si trova in isolamento -. A questo talk di Cartabianca avrebbe dovuto partecipare anche Andrea Scanzi, invitato da me in trasmissione e al centro di molte polemiche perché accusato di aver saltato la fila per il vaccino che ha ottenuto con il via libera e l'autorizzazione Asl di riferimento. Lo avevo invitato anche in questa puntata di Cartabianca ma qualche ora fa ho appreso dalle agenzie, qui in isolamento, che la Rai avrebbe investito il Comitato etico di questa scelta, se Scanzi avesse dovuto essere confermato o meno a Cartabianca. A questo punto, per mia responsabilità, per una scelta mia, ho deciso di sospendere la sua partecipazione e ne ho parlato anche con lui, ma io spero di riaverlo con noi presto". Nel frattempo, il "caso Scanzi" continua a far discutere. Secondo il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, la decisione del Comitato etico della Rai è tardiva: "Dopo oltre 10 giorni dall'emergere del caso vaccino di Scanzi, l'apertura di un fascicolo in Procura, le verifiche della Asl, le inchieste di Non è l'arena e Il Tirreno che hanno smontato la versione data dal giornalista, le critiche trasversali arrivate da giornalisti come il direttore del Corriere Fontana e il direttore del sito del Fatto Gomez, insomma dopo tutto questo alla fine anche la Rai batte un colpo e annuncia l'attivazione del Comitato per il Codice Etico per decidere sul contratto che il giornalista ha con Cartabianca come opinionista a pagamento" sottolinea Anzaldi. "Un'attivazione davvero tardiva - incalza -che ho chiesto più di una settimana fa e che poteva essere effettuata prima di proporre Scanzi saltafila addirittura come modello in prima serata su Rai3, a Cartabianca". "Ora il Comitato Etico - prosegue Anzaldi -si riunisca subito e decida rapidamente, il danno di immagine che il servizio pubblico sta subendo da questa vicenda è gravissimo. Intanto, per rispetto del buonsenso e anche del lavoro del Comitato stesso, tutte le ospitate di Scanzi vengano immediatamente sospese".

Da leggo.it il 31 marzo 2021. Il caso Andrea Scanzi va avanti e si arricchisce anche di un botta e risposta tra Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, e il papà del giornalista Luciano Scanzi, conosciuto su Facebook col nome di "Orso Grigio". La vicenda è relativa al vaccino Astrazeneca somministrato al giornalista aretino iscritto a una presunta lista di "riservisti" che ha assunto ulteriore rilievo dopo la trasmissione "Non è L'Arena" condotta su La 7 da Massimo Giletti in cui è stato intervistato il direttore generale della Asl Toscana Se, Antonio D'Urso. «Grazie a indiscrezioni raccolte dalle agenzie di stampa abbiamo appreso che la Rai, dopo giorni di silenzio, sta effettuando approfondimenti sul caso Scanzi. Quanto durano? I cittadini che pagano il canone quanto devono ancora aspettare prima di veder rispettato il Codice Etico?». Sotto a questo post pubblicato da Michele Anzaldi sono arrivate le risposte polemiche del papà di Andrea Scanzi. «E dimmi, di quale codice etico parli, lo stesso di Renzi?», commenta Luciano Scanzi che poi insiste e aggiunge: «Davvero non hai di meglio da scrivere che la stessa cosa da una settimana, peraltro con un seguito in linea col partito che rappresenti?».

Da video.corriere.it il 31 marzo 2021. «Avevo invitato Andrea Scanzi in trasmissione. Come sapete, è finito al centro delle polemiche per aver ricevuto il vaccino saltando la fila, era una sua richiesta accolta dalla Asl di riferimento. Lo avevo invitato anche in questa puntata, è stato tutto l’anno con noi. Ma stando in isolamento, ho appreso che la Rai - non ne sapevo nulla - avrebbe investito il Comitato etico della scelta di vedere se poteva essere confermato o no nella trasmissione. Per mia responsabilità, per mia scelta, ho deciso di sospendere la sua partecipazione a questa puntata, ne ho parlato anche con lui. Ma spero di riaverlo con noi presto a Cartabianca»: così Berlinguer in diretta su Rai Tre. Il giornalista, lo scorso 19 marzo, si era recato all’hub vaccinale allestito al Centro Affari e Fiere di Arezzo, facendosi vaccinare con una dose AstraZeneca presentandosi come `riservista´ e in qualità di `caregiver´ familiare , prima di molte altre persone che ne avevano diritto. Da qui sono scaturite numerose polemiche.

Dagonews il 31 marzo 2021. Come mai la Rai ha impiegato così tanto tempo per sospendere il contratto di Andrea Scanzi dopo le infuocate polemiche sulla sua vaccinazione "anticipata"? Perché Raitre, dove il "caregiver di se stesso" pascola in zona "Cartabianca", è presidiata dal direttore para-grillino Franco Di Mare. Ma allora perché si è scomodato persino il misterioso e impalpabile "Comitato etico"? Perché qualcuno nel Pd, molto vicino a Enrico Letta, ha fatto presente a Di Mare che il comportamento di Scanzi, cordialmente detestato al Nazareno, è stato "inqualificabile". E' il remake, a parti politiche inverse, di quel che accadde con Mauro Corona dopo l'insulto ("Stai zitta, gallina!") rivolto a Bianca Berlinguer. Lo scrittore-montanaro fu sospeso dopo che una furibonda esponente apicale del Movimento Cinquestelle prese per le recchie Di Mare e lo sgrullo' da capo a piedi chiedendo la testa di Corona. E Bianca Berlinguer? Subisce e patisce. Ma da perfetta zarina quale è stata, si agita e smania, rivelando la mai sopita ambizione di spadroneggiare in casa sua (come ai tempi del Tg3). Per non fare la figura di palta di quella che tace e incassa, ha fatto credere ai telespettatori che ci fosse il suo zampino dietro lo stop a Scanzi ("Ho deciso di sospendere la sua partecipazione a 'Cartabianca'"). A proposito di Rai: che idee ha Enrico Letta per la tv pubblica? Non ha ancora preso il mano il dossier ma è molto convinto della necessità di valorizzare gli "interni" (come Andreatta e Del Brocco). per i ruoli di vertice.

Andrea Scanzi, bomba di Dagospia: "Chi ha spinto per cacciarlo da Rai e CartaBianca". Il nome: ferocissima vendetta politica? Libero Quotidiano il 31 marzo 2021. “Come mai la Rai ha impiegato così tanto tempo per sospendere il contratto di Andrea Scanzi dopo le infuocate polemiche sulla vaccinazione "anticipata"?”. Se lo chiede Dagospia, che si risponde anche da solo alla marzulliana maniera. “Perché Rai 3, dove il "caregiver di se stesso" pascola in zona Cartabianca, è presidiata dal direttore para-grillino Franco Di Mare”. Non a caso il giornalista del Fatto Quotidiano è stato un ospite fisso di Bianca Berlinguer per tutto l’anno, almeno fino a quando non è intervenuto il Comitato etico della Rai. Il quale in realtà ancora non aveva deciso se Scanzi poteva essere confermato o no nella trasmissione. A giocare d’anticipo è stata proprio la Berlinguer: “Per mia responsabilità, per mia scelta, ho deciso di sospendere la sua partecipazione a questa puntata, ne ho parlato anche con lui. Ma spero di riaverlo con noi presto”. Sempre secondo Dagospia il Comitato etico si è scomodato perché “qualcuno nel Pd, molto vicino a Enrico Letta, ha fatto presente a Di Mare che il comportamento di Scanzi, cordialmente detestato al Nazareno, è stato ‘inqualificabile’”. In pratica si tratterebbe del remake, a parti politiche inverse, di quel che è accaduto con Mauro Corona dopo l’insulto rivolto alla Berlinguer (“Stai zitta, gallina”): “Lo scrittore-montanaro - si legge su Dagospia - fu sospeso dopo che una furibonda esponente apicale del Movimento Cinquestelle prese per le recchie Di Mare e lo grullo da capo a piedi chiedendo la testa di Corona”. 

Andrea Scanzi, la peculiare difesa di Marco Travaglio: "Il vaccino? Ipocondriaco e terrorizzato. Ma ha sbagliato a parlare troppo". Libero Quotidiano il 31 marzo 2021. A correre in soccorso di Andrea Scanzi, silurato ormai da tutti i programmi televisivi, Marco Travaglio. Il Fatto Quotidiano dopo settimane di bufera si è deciso a parlare del giornalista che scrive proprio per le sue stesse colonne. Nonché l'uomo che indisturbato - fino a poco fa - si è fatto somministrare una dose di vaccino contro il Covid senza averne i requisiti. Questa è la cronaca raccontata dalla Asl di Arezzo, perché quella raccontata dal direttore del Fatto Quotidiano è ben diversa. "Semmai Andrea ha poi esagerato con la profluvie di parole usate per difendersi sui social e in tv, arrivando a dire che tutti dovrebbero ringraziarlo come testimonial anti No Vax e che era il caregiver dei genitori. Ma non ha saltato alcuna fila e non rubato alcuna fiala. Insomma troppo rumore per troppo poco, anche se a quel rumore a contribuito anche lui". è il commento di Travaglio che dimentica le linee guida imposte dal governo e ribadite dall'azienda sanitaria locale della Toscana Sud Est. "La panchina vaccinale è riservata alle persone che già adesso possono vaccinarsi con AstraZeneca - si legge nella nota firmata dal direttore Evaristo Giglio -. E cioè: personale docente e non docente; forze dell’ordine e forze armate; persone nate tra il 1941 ( che non abbiano ancora compiuto 80 anni) e il 1950; conviventi e caregivers delle persone estremamente vulnerabili individuate dal Piano Nazionale Vaccini del 10 Marzo 2021". Una "scusa traballante" la definisce il Giornale che su Travaglio non ci va per il leggero: "È un peccato veniale, aver tempestato di telefonate il suo medico e pure il direttore della Asl di Arezzo pietendo un vaccino prima degli altri è tollerabile, perché 'Scanzi è un ipocondriaco terrorizzato dal Covid' e l'unica colpa del povero Andrea è 'aver parlato troppo'". Il tutto si racchiude per il quotidiano di Sallusti in un semplice consiglio che Travaglio avrebbe dato al suo figliol prodigo: "Hai fatto un gran casino, almeno potevi stare zitto. Travaglio consiglia a Scanzi l'omertà. Il cortocircuito è perfetto". 

Dal "Fatto quotidiano" il 31 marzo 2021. Il Comitato Etico della Rai "valuta una sospensione" per Andrea Scanzi su Rai3. Con tutto quel che si vede in tv, la vera notizia è che la Rai ha un Comitato Etico.

Francesco Maria Del Vigo per "il Giornale" il 31 marzo 2021. Alla fine, dopo giorni e giorni di polemiche su tutti i quotidiani nazionali, i siti web, i social, le tv, le radio e qualunque mezzo di comunicazione possibile, anche il Fatto Quotidiano si è occupato di Andrea Scanzi nel suo ultimo ruolo di «panchinaro del vaccino». In realtà, indirettamente, il quotidiano di Travaglio se ne era già occupato. Ma senza fare nome e cognome. Perfidia massima. Perché, nel caso di Scanzi non è un favore, ma la maggior violenza che gli si possa infliggere. Cinzia Monteverdi, ad della società editrice del quotidiano, lo scorso 26 marzo aveva infatti firmato un lungo articolo nel quale denunciava il malfunzionamento delle vaccinazioni in Toscana: sua madre, ottantenne e disabile, senza siero mentre giovani quarantenni lo avevano già ricevuto. Non serviva un raffinato investigatore per capire a chi fosse indirizzata la pubblica reprimenda. Ieri si è mosso direttamente Travaglio, rispondendo alla mail di un lettore infastidito dal presunto scippo di vaccino. Il direttore del Fatto, facendo un insolito sforzo di garantismo, difende (stancamente) Scanzi. Certo, lui non lo avrebbe mai fatto, ma in fondo il giornalista - sostiene Travaglio - ha rispettato le famose linee guida di Figliuolo. Opinabile, ma se ne occuperà la Asl che sta indagando sul caso. Nel frattempo, dopo essere stato oscurato da La7 ora il giornalista è sotto la lente della Rai che ha attivato la Commissione per il codice etico. Ma per Travaglio è tutto normale: «Semmai Andrea ha poi esagerato con la profluvie di parole usate per difendersi sui social e in tv, arrivando a dire che tutti dovrebbero ringraziarlo come testimonial anti No Vax e che era il caregiver dei genitori. Ma non ha saltato alcuna fila e non rubato alcuna fiala. Insomma troppo rumore per troppo poco, anche se a quel rumore a contribuito anche lui». Quindi, per il neo garantista Travaglio, sbandierare ai quattro venti una scusa traballante (Scanzi si è autoproclamato caregiver dei genitori, non lo ha mai dimostrato) è un peccato veniale, aver tempestato di telefonate il suo medico e pure il direttore della Asl di Arezzo pietendo un vaccino prima degli altri è tollerabile, perché «Scanzi è un ipocondriaco terrorizzato dal Covid» e l'unica colpa del povero Andrea è «aver parlato troppo». Che, in sostanza, significa aver parlato: perché è stato il giornalista stesso, raggiungendo l'acme della tronfiaggine, ad aver raccontato in mondovisione la sua furbata. La morale è semplicissima: hai fatto un gran casino, almeno potevi stare zitto. Travaglio consiglia a Scanzi l'omertà. Il cortocircuito è perfetto.

Da "la Verità"  l'1 aprile 2021. Dopo la decisione di sospendere Andrea Scanzi dalla puntata di martedì sera di Cartabianca, la conduttrice Bianca Berlinguer ha spiegato durante la trasmissione: «Come sapete è finito al centro delle polemiche per aver ricevuto il vaccino saltando la fila; era una sua richiesta accolta dalla Asl di riferimento. Lo avevo invitato anche in questa puntata, è stato tutto l'anno con noi. Ma stando in isolamento (per un contatto con un positivo, tanto che la trasmissione è andata in onda dalla sua casa, ndr), ho appreso che la Rai, e io non ne sapevo nulla, avrebbe investito il comitato etico della scelta di vedere se poteva essere confermato o no nella trasmissione. Per mia responsabilità, per mia scelta, ho deciso di sospendere la sua partecipazione a questa puntata, ne ho parlato anche con lui. Ma spero di riaverlo con noi presto a Cartabianca». Sulla vicenda del vaccino a Scanzi in qualità di riservista e di cargiver dei suoi genitori, la Procura di Arezzo ha aperto un fascicolo. Sempre sul fronte delle vaccinazioni in Toscana, ieri il governatore Eugenio Giani riguardo ai pazienti fragili ha detto: «Attendiamo l'arrivo dei vaccini Moderna». «Se le persone non hanno ricevuto dalla Asl le telefonate è solo perché ancora siamo incerti sull'arrivo di Moderna, perché doveva arrivare stasera, ma allo stato attuale non ci sono notizie certe». Giani è al centro delle polemiche proprio perché tre dosi di Moderna su quattro sarebbero andate a «operatori non sanitari»: se impiegate in altro modo avrebbero potuto aumentare le coperture delle categorie a rischio.

Aldo Torchiaro per ilriformista.it il 2 aprile 2021. Camera e Senato hanno pubblicato i bandi: da oggi chiunque può far pervenire la propria candidatura per entrare nel Cda Rai. Ma uno non vale uno, a viale Mazzini. Soprattutto tra ospiti e opinionisti ce ne sono alcuni che hanno avuto più spazi di altri, nelle trasmissioni. E giornalisti che hanno ricevuto una regolare rendita da gettone, prelevati direttamente dal canone pagato dai telespettatori per favorire qualcuno in particolare. Il caso è emerso in corrispondenza del contestato vaccino di Andrea Scanzi: il volto più caro ad alcune trasmissioni è stato sospeso, e con questa sospensione decade il beneficio economico sulla cui entità si cerca adesso di fare luce. «Ho chiesto conto alla Rai delle decisioni sul contratto con l’opinionista a pagamento Andrea Scanzi», ci dice il deputato di Iv, Michele Anzaldi. La legge sulla trasparenza vale per tutti ma si infrange sugli scogli di viale Mazzini, da dove il porto delle nebbie impedisce di conoscere l’ammontare degli emolumenti. Del caso è stato investito il Comitato Etico del servizio pubblico. Le promozioni-lampo e le improvvise svolte di carriera di questo finale di partita impongono una presa di posizione forte del Governo, che in queste ore ha attivato un tavolo di crisi vero e proprio, coordinato dal capo di Gabinetto di Draghi, Antonio Funiciello. Le accuse sono gravi. Anzaldi ha presentato due interrogazioni parlamentari che rimbalzano contro il muro di omertà che sta dietro al celebre Cavallo. La Rai a trazione Cinque Stelle e centrodestra, figlia del primo governo Conte, avrebbe non solo promosso internamente i giornalisti amici (è ormai prassi consolidata) ma valorizzato economicamente alcune figure esterne, sponsorizzate e pagate in quanto firme di testate vicine alla governance. Altra prassi: gli ospiti ricevono un gettone in accordo con le trasmissioni. «Una corresponsione economica che dipende da quante puntate, dall’audience del programma, dalla fascia oraria. Ci sono accordi tra programmi e ospiti», ci dice una fonte riservata dagli uffici che contano. «Gli ospiti fissi concordano un gettone diverso da quelli estemporanei, è chiaro. Perché garantiscono una presenza costante». Ma il caso di Scanzi è diverso. «Non stiamo parlando di gettoni, ma di contratti. Hai un reddito annuale, una certezza. Non è un rimborso per essere passato una sera in tv», precisa Michele Anzaldi, che ha presentato due interrogazioni parlamentari rimaste inesitate. «Avere un contratto come opinionista Rai è la cosa più aleatoria del mondo. Con quale criterio hanno deciso che uno del Fatto Quotidiano, senza selezione alcuna, viene preso sotto contratto per fare le sue sparate pubbliche in prima serata?», si chiede il deputato, membro della Commissione di Vigilanza. Di quali cifre parliamo è il mistero cui nessuno, tantomeno la Vigilanza Rai stessa, riesce a venire a capo. «La mia idea è che si parli di 1500 euro a puntata. Almeno. Ma perché attribuire un contratto da 1500 euro al giorno a un giornalista piuttosto che a un altro? Perché i Cinque Stelle lo hanno indicato?», continua Anzaldi. «Scanzi va in tv a insultare, a dare del cazzaro a questo e a quello, e i contribuenti lo pagano 1500 euro al giorno? Perché il servizio pubblico usa il canone senza alcuna selezione per i giornalisti?». Le domande di Anzaldi finiscono in un buco nero. Facciamo insieme i conti: quattro sole ospitate a settimana valgono seimila euro. Fanno 24 mila euro al mese. Ma a chiederne conferma, nessuno risponde. E dire che un responsabile del procedimento ci sarebbe: gli ospiti vengono decisi dalle Reti, i contratti vengono fatti dalle direzioni, e dei contratti il responsabile si chiama Andrea Sassano, delle Risorse televisive. Ma le trattative sono riservate, negoziali. E vale per tutti i programmi, quando la produzione è interna. L’Azienda ha una crisi di ascolti, una raccolta pubblicitaria difficile, il piano industriale non è partito. Un quadro a tinte fosche, ma si fanno contratti esterni con opinionisti già pagati dalle proprie testate: un bonus extra su cui la declamata Trasparenza (una sezione del sito Rai si chiama così, ma è una vetrina senza niente dentro) fatica a fare luce. Il governo Draghi è al lavoro sul dossier Rai, in vista del cambio dei vertici. Della questione si starebbero occupando il sottosegretario Garofoli, il capo di gabinetto di Palazzo Chigi Funiciello, il direttore generale del Mef Rivera e il ministro Giorgetti. Ma la lottizzazione va avanti a tambur battente e proprio in queste ultime due settimane si sono succedute promozioni fulminee a dir poco singolari. Ci torna su Michele Anzaldi: «La vergogna della Mazzola, nominata direttore Ufficio Studi Rai quando neanche tre anni fa era redattore ordinario, offende non me ma tutti i giornalisti che aspettano anni per fare carriera. È una vergogna, come quella di aver avuto Scanzi sotto contratto solo per insultare i politici a lui avversi, rimarrà agli atti come un abominio della lottizzazione fatto sotto il governo Draghi. Glielo dico perché si sappia che nella storia della Rai, chi un giorno scriverà il libro riporterà come sotto il miglior presidente del Consiglio possibile ci si è fatti fregare da questi qua».

Lettera a Natalia Aspesi, pubblicata dal “Venerdì di Repubblica” il 5 aprile 2021. Mi scusi se le poniamo un quesito di cui un po' ci vergogniamo ma non sappiamo resistere. Secondo lei chi è più in torto tra quello Scanzi orgoglioso di essersi fatto vaccinare senza averne ancora il diritto o la folla di indignati che ha intasato il web per augurargli ogni male?

La risposta di Natalia Aspesi: Io vedevo Otto e mezzo per simpatia verso Lilli Gruber e ho smesso quando ho capito che questo giovanotto sarebbe stato un appuntamento fisso: mi ricordo ancora un suo giacchino di pelle nera piena di catene e le mani con anelli, antipatico anche solo da vedere. Devo avergli portato fortuna perché ormai è una star, un opinionista ricercato, i suoi libri vendono milioni, fondasse un suo partito anziché portar gramo ai poveri pentastellati, batterebbe anche Salvini. Forse questa volta ha osato troppo anche perché, come ha ricordato Aldo Grasso, era di quelli che ritenevano il Covid-19 meno di un raffreddore. Ma il martellare dei talk show ci ha cancellato la memoria e anche il senno. Ammesso che ne valga un pensiero, credo che questo Scanzi possa dire quel che vuole a suo danno, ma sarebbe una bella cosa, per ora impossibile, non tenerne affatto conto.

Dagospia l'8 aprile 2021. Dalla pagina facebook "Orso Grigio" di Luciano Scanzi. E allora: perché non è stata fatta, a livello di comuni, o di asl, di polisportiva o di chi cazzo volete voi, una graduatoria in base a età, categorie e patologie? Un programma così avrebbe potuto farlo e gestirlo chiunque, perfino io me la sarei cavata. E poi, in base a questo, convocare le persone, invece di permettere che ogni Regione mostrasse al mondo la propria incapacità. Come ha fatto la mia adorata Toscana, che ha creato una piattaforma di prenotazione assurda, fatta male e non funzionante che, dopo averti tenuto lì fino a notte inoltrata, a evocare tutti i santi conosciuti e anche quelli non ancora noti, ti buttava fuori con un laconico “la procedura non è andata a buon fine, ma non preoccuparti, non è colpa tua”. Lo so che non è colpa mia, cazzo, e non mi preoccupo per la mia incapacità, ma per la vostra, visto che decidete anche della mia vita. Quella procedura adesso è chiusa e ai pazienti ‘fragili’ è stato comunicato che verranno chiamati direttamente. Ci sono arrivati perfino loro. Dopo tre mesi. E tutta questa nassa, al di là delle motivazioni mediche, ci spiega anche l’etimologia del termine “pazienti”. E voglio dire una cosa anche sulle categorie e sulle priorità. I primi a essere vaccinati dovevano essere i vecchi, poi le categorie più a rischio e i più fragili per patologie o altro, e quindi procedere per età. Non sembrava così difficile, alla luce di quando detto sopra, anche dovendo districarsi fra le varie tipologie di vaccini da utilizzare e su come dovessero essere utilizzate, secondo indicazioni ormai più casuali e statistiche che mediche. Ora, si trattava di decidere chi fossero quelli più a rischio. Bene per gli addetti alle strutture sanitarie, bene per gli addetti alla sicurezza e le forze dell’ordine, e bene anche per gli insegnanti. Ci sarebbe qualche distinguo, ma va bene uguale. C’è però un’altra categoria che è stranamente sfuggita a tutte le classificazioni: gli operatori dei supermercati. Eppure sono quelli che anche nei periodi più rosso-restrittivi sono sempre stati a contatto con chiunque, e quasi sempre senza controlli adeguati. Hanno avuto, e hanno ancora, a che fare con qualsiasi tipo di soggetti, da quelli più ignoranti e strafottenti che facevano come gli pare, a quelli che la mascherina la usavano come sciarpa e comunque facendo bene attenzione che non coprisse il naso, a quelli che magari dovevano stare in quarantena ma non avevano nessuno che gli andasse al supermercato a fare la spesa. E senza mai poter fiatare ne’ lamentarsi, perché si sa, il cliente ha sempre ragione, anche quando è un po’ stronzo. Ma di loro non frega un cazzo a nessuno, a riprova che questo piccolo mondo antico fatto ancora di lavoratori, impiegati e operai, di gente che strappa a fatica il proprio diritto alla vita, è ormai dimenticato, sacrificato sull’altare del Nuovo Mondo di questa fava. Cosa? Chi? I sindacati?

Il papà di Scanzi adesso è una furia: "Vaccini? Graduatoria a livello di chi c... volete voi". Orso Grigio indignato per il sistema di prenotazione della Regione Toscana prende poi le difiese dei dipendenti dei supermercati, esclusi dalle categorie a rischio. Ancora silenzio, però, sul figlio vaccinato a 46 anni. Federico Garau - Gio, 08/04/2021 - su Il Giornale. Luciano Scanzi, alias Orso Grigio, torna a tuonare sulla propria pagina Facebook, lamentandosi questa volta dei ritardi accumulati dalla Regione Toscana nel programma di vaccinazione degli anziani e di tutti quei soggetti considerati categorie a rischio. Una lunga tirata in cui ad essere presi di mira sono il sistema di prenotazione ed il rispetto delle precedenze. "Perché non è stata fatta, a livello di comuni, o di asl, di polisportiva o di chi ca**o volete voi, una graduatoria in base a età, categorie e patologie? Un programma così avrebbe potuto farlo e gestirlo chiunque, perfino io me la sarei cavata", è il duro commento di Luciano Scanzi, che aggiunge: "E poi, in base a questo, convocare le persone, invece di permettere che ogni Regione mostrasse al mondo la propria incapacità". A deludere Orso Grigio è la sua "adorata Toscana", rea di aver creato una piattaforma di prenotazione definita dallo stesso "assurda". "Fatta male e non funzionante", sbotta Scanzi, "che, dopo averti tenuto lì fino a notte inoltrata, a evocare tutti i santi conosciuti e anche quelli non ancora noti, ti buttava fuori con un laconico 'La procedura non è andata a buon fine, ma non preoccuparti, non è colpa tua'". Insomma, Luciano Scanzi torna a lanciare strali, proprio come quando tempo addietro decise di scagliarsi contro i cosiddetti "furbetti del vaccino", andando direttamente a prendersela con il presidente della Regione Campania. "Qui siamo invasi dai De Luca e da tutti gli altri variopinti furbetti se è vero che un terzo delle vaccinazioni sono toccate a gentaglia che non ne aveva diritto ma che è riuscita a imbucarsi al posto di quelli che ce l’avrebbero avuto", aveva commentato Orso Grigio nel suo blog. E ancora: "Io non sono un fanatico dei vaccini, aspetto naturalmente il mio turno come è giusto che sia, ma se ci sono delle regole vanno rispettate, e se ci sono delle priorità vanno definite chiaramente e poi rispettate anche quelle". Eppure, persino questa volta, Luciano Scanzi non dice una parola sulla vicenda del figlio Andrea, riuscito ad aggiudicarsi il vaccino a soli 46 anni. Non proprio una categoria a rischio come quelle da lui menzionate, insomma. Adducendo la giustificazione di aver fatto richiesta di ricevere il siero in quanto "caregiver" dei genitori anziani, il giovane Scanzi era passato addirittura davanti agli 80enni. "I primi a essere vaccinati dovevano essere i vecchi, poi le categorie più a rischio e i più fragili per patologie o altro, e quindi procedere per età", scrive Orso Grigio nel suo sfogo."Non sembrava così difficile. Ora, si trattava di decidere chi fossero quelli più a rischio. Bene per gli addetti alle strutture sanitarie, bene per gli addetti alla sicurezza e le forze dell’ordine, e bene anche per gli insegnanti. Ci sarebbe qualche distinguo, ma va bene uguale. C’è però un’altra categoria che è stranamente sfuggita a tutte le classificazioni: gli operatori dei supermercati". Questi dipendenti, spiega l'uomo, sono costantemente a contatto con le persone, eppure non sono tutelati. "Hanno avuto, e hanno ancora, a che fare con qualsiasi tipo di soggetti, da quelli più ignoranti e strafottenti che facevano come gli pare, a quelli che la mascherina la usavano come sciarpa e comunque facendo bene attenzione che non coprisse il naso", ricorda indignato Orso Grigio. "Ma di loro non frega un ca**o a nessuno, a riprova che questo piccolo mondo antico fatto ancora di lavoratori, impiegati e operai, di gente che strappa a fatica il proprio diritto alla vita, è ormai dimenticato, sacrificato sull’altare del Nuovo Mondo di questa fava". Tutto giustissimo, ma sulla vicenda del figlio ancora nessuna parola.

I numeri dell'abuso di carcere in Italia. Costa più Scanzi in tv che un giorno di ingiusta detenzione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Aprile 2021. Se nella stessa giornata capita di apprendere che persino nell’anno della pandemia lo Stato italiano ha dovuto risarcire con 46 milioni di euro i danni prodotti da ingiuste detenzioni ed errori giudiziari e nello stesso tempo che l’Italia è pari solo alla Turchia per sovraffollamento nelle carceri, almeno per un giorno sono un po’ tutti obbligati a occuparsene. La notizia c’è. E se si scopre che nel nostro Paese c’è un tasso pari al 120,3% (numero di reclusi ogni 100 posti letto) rispetto ai 115 della Francia piuttosto che ai 102 della Danimarca e che siamo anche primi in Europa per numero di prigionieri che hanno più di 50 anni, sicuramente saranno in molti a dire “poverini” e magari a proporre di costruire più carceri. Perché siamo di cuore grande, anche se dimentichiamo di domandarci come e perché più di 50.000 persone vivano la proprio vita, o una parte di essa, chiuse in una gabbia. Non vogliamo vedere né sapere. E ancor meno vogliamo trovare il bandolo della matassa, quel puntino rosso da cui, un giorno, tutto ha avuto inizio. Il giorno in cui hanno bussato alla tua porta alle sei del mattino e non era il lattaio. Al deputato di Azione, Enrico Costa e ai suoi collaboratori Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone di “errorigiudiziari.com” il merito di aver elaborato e diffuso i numeri della strage. Strage di carcere ingiusto, strage di errori giudiziari. È una piccola porzione del tutto, sono numeri che potremmo tranquillamente raddoppiare o anche decuplicare per avere davvero il polso della nostra quotidiana ingiustizia. Perché questi numeri ci dicono quanto denaro lo Stato ha sborsato per risarcire, tra le tante vittime, quelle che hanno chiesto il risarcimento e tra loro quelle che l’hanno ottenuto. Infatti molti non chiedono, a volte perché non sono informati del proprio diritto o perché, dopo magari dieci anni di tormenti e vessazioni, non hanno proprio più voglia di pensare all’ingiustizia subita, vogliono chiudere gli occhi e cercare di pensare ad altro. Poi ci sono quelli che la domanda la presentano, ma poi la richiesta viene loro respinta, spesso perché nei primi giorni di custodia cautelare, quando si è ancora un po’ stravolti, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere al magistrato. Anche se in seguito vengono assolti, quel primo gesto di rifiuto viene considerato un’insubordinazione, come se uno avesse detto “mi dichiaro prigioniero politico”. Se sei contro lo Stato, lo Stato è contro di te e non riconosce più i tuoi diritti. Occhio per occhio, insomma. I numeri della strage sono spaventosi. Dal 1991 al 2020 lo Stato ha speso 870 milioni di euro per riparare 29.869 casi di detenzione ingiusta o errori giudiziari. Paga lo Stato, ma non i magistrati, perché siamo sempre in attesa dell’araba fenice, una decente legge sulla responsabilità civile delle toghe. Ma è orripilante il fatto che neanche le responsabilità disciplinari vengano mai riconosciute per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari (ammesso che si tratti sempre di “errori”, ci sono accanimenti che urlano vendetta). Per questo motivo Enrico Costa ha proposto che, ogni volta che sarà riconosciuta l’esistenza di un’ingiusta detenzione, il provvedimento venga inviato automaticamente al titolare dell’azione disciplinare. Sempre se ci fidiamo del Csm “rinnovato” dopo le vicende di Luca Palamara e tutti gli altri. I numeri più agghiaccianti sono nelle Regioni del sud, dove non solo c’è la maggior presenza di criminalità organizzata e maggior esercizio della giurisdizione, ma anche dove si sparge con maggiore facilità l’uso e l’abuso dell’applicazione dei reati associativi, spesso fondati sul nulla, ma utili per arrestare, intercettare e fare conferenze stampa. Il record di risarcimenti è del distretto di Napoli, che da nove anni è nelle posizioni di testa per numero di risarcimenti, 101 soltanto nel 2020 per esempio. Ma la vera strage è quella calabrese, la terra dove invano il procuratore generale Otello Lupacchini, durante la cerimonia di apertura dell’anno del 2019 (la sua ultima, prima di essere “punito” proprio per questo) aveva lanciato l’allarme contro i troppi casi di ingiusta detenzione nel distretto di Catanzaro. Undici mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno, partirà l’operazione “Rinascita Scott” del procuratore Gratteri, con centinaia di arresti poi dimezzati da diversi giudici. E proprio il distretto di Catanzaro negli ultimi nove anni ha il record italiano per l’entità dei risarcimenti versati, 51 milioni di euro. E chissà che cosa ci aspetta nei prossimi anni, visto che l’attuale procuratore capo è lì soltanto dal 2016. Il problema è dunque partire da quel puntino rosso che costituisce il bandolo della matassa: perché e come si finisce in carcere quando suonano la mattina e non è il lattaio? Perché tanti magistrati ritengono che la detenzione sia l’unica forma possibile di pena? E ancora: perché in nome di una inesistente obbligatorietà dell’azione penale, tanti pm vanno in cerca del “reo” per attribuirgli in seguito qualche reato? Oggi lo ammette persino Tonino Di Pietro, ma un tempo erano gli stessi magistrati di sinistra a denunciare il fenomeno del “tipo d’autore”. Oggi è silenzio. E dobbiamo accontentarci dei numeri sui risarcimenti. Se pensiamo però di metterci il cuore in pace, visto che comunque nessun magistrato paga mai né in termini di denaro né di sanzione disciplinare, ma comunque qualche risarcimento da parte dello Stato arriva, si sappia che in ogni caso a chi ha sofferto ingiustamente il carcere e lunghi anni di tormenti processuali arrivano solo gli spiccioli. Circa 235 euro per ogni giornata di cella, calcola chi sa fare i conti. Il che significa che la mia libertà vale duecento euro? Il tempo di una vittima innocente vale sei volte meno di una comparsata di Scanzi da 1.500 in un programma Rai? Perché non invertire le cifre, visto che questi spiccioli sono l’unica soddisfazione rimasta per chi è stato vittima?

Scanzi, in Rai tutto tace su vaccino e compenso: “Guadagna 24mila euro per insultare”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Aprile 2021. Camera e Senato hanno pubblicato i bandi: da oggi chiunque può far pervenire la propria candidatura per entrare nel Cda Rai. Ma uno non vale uno, a viale Mazzini. Soprattutto tra ospiti e opinionisti ce ne sono alcuni che hanno avuto più spazi di altri, nelle trasmissioni. E giornalisti che hanno ricevuto una regolare rendita da gettone, prelevati direttamente dal canone pagato dai telespettatori per favorire qualcuno in particolare. Il caso è emerso in corrispondenza del contestato vaccino di Andrea Scanzi: il volto più caro ad alcune trasmissioni è stato sospeso, e con questa sospensione decade il beneficio economico sulla cui entità si cerca adesso di fare luce. «Ho chiesto conto alla Rai delle decisioni sul contratto con l’opinionista a pagamento Andrea Scanzi», ci dice il deputato di Iv, Michele Anzaldi. La legge sulla trasparenza vale per tutti ma si infrange sugli scogli di viale Mazzini, da dove il porto delle nebbie impedisce di conoscere l’ammontare degli emolumenti. Del caso è stato investito il Comitato Etico del servizio pubblico. Le promozioni-lampo e le improvvise svolte di carriera di questo finale di partita impongono una presa di posizione forte del Governo, che in queste ore ha attivato un tavolo di crisi vero e proprio, coordinato dal capo di Gabinetto di Draghi, Antonio Funiciello. Le accuse sono gravi. Anzaldi ha presentato due interrogazioni parlamentari che rimbalzano contro il muro di omertà che sta dietro al celebre Cavallo. La Rai a trazione Cinque Stelle e centrodestra, figlia del primo governo Conte, avrebbe non solo promosso internamente i giornalisti amici (è ormai prassi consolidata) ma valorizzato economicamente alcune figure esterne, sponsorizzate e pagate in quanto firme di testate vicine alla governance. Altra prassi: gli ospiti ricevono un gettone in accordo con le trasmissioni. «Una corresponsione economica che dipende da quante puntate, dall’audience del programma, dalla fascia oraria. Ci sono accordi tra programmi e ospiti», ci dice una fonte riservata dagli uffici che contano. «Gli ospiti fissi concordano un gettone diverso da quelli estemporanei, è chiaro. Perché garantiscono una presenza costante». Ma il caso di Scanzi è diverso. «Non stiamo parlando di gettoni, ma di contratti. Hai un reddito annuale, una certezza. Non è un rimborso per essere passato una sera in tv», precisa Michele Anzaldi, che ha presentato due interrogazioni parlamentari rimaste inesitate. «Avere un contratto come opinionista Rai è la cosa più aleatoria del mondo. Con quale criterio hanno deciso che uno del Fatto Quotidiano, senza selezione alcuna, viene preso sotto contratto per fare le sue sparate pubbliche in prima serata?», si chiede il deputato, membro della Commissione di Vigilanza. Di quali cifre parliamo è il mistero cui nessuno, tantomeno la Vigilanza Rai stessa, riesce a venire a capo. «La mia idea è che si parli di 1500 euro a puntata. Almeno. Ma perché attribuire un contratto da 1500 euro al giorno a un giornalista piuttosto che a un altro? Perché i Cinque Stelle lo hanno indicato?», continua Anzaldi. «Scanzi va in tv a insultare, a dare del cazzaro a questo e a quello, e i contribuenti lo pagano 1500 euro al giorno? Perché il servizio pubblico usa il canone senza alcuna selezione per i giornalisti?». Le domande di Anzaldi finiscono in un buco nero. Facciamo insieme i conti: quattro sole ospitate a settimana valgono seimila euro. Fanno 24 mila euro al mese. Ma a chiederne conferma, nessuno risponde. E dire che un responsabile del procedimento ci sarebbe: gli ospiti vengono decisi dalle Reti, i contratti vengono fatti dalle direzioni, e dei contratti il responsabile si chiama Andrea Sassano, delle Risorse televisive. Ma le trattative sono riservate, negoziali. E vale per tutti i programmi, quando la produzione è interna. L’Azienda ha una crisi di ascolti, una raccolta pubblicitaria difficile, il piano industriale non è partito. Un quadro a tinte fosche, ma si fanno contratti esterni con opinionisti già pagati dalle proprie testate: un bonus extra su cui la declamata Trasparenza (una sezione del sito Rai si chiama così, ma è una vetrina senza niente dentro) fatica a fare luce. Il governo Draghi è al lavoro sul dossier Rai, in vista del cambio dei vertici. Della questione si starebbero occupando il sottosegretario Garofoli, il capo di gabinetto di Palazzo Chigi Funiciello, il direttore generale del Mef Rivera e il ministro Giorgetti. Ma la lottizzazione va avanti a tambur battente e proprio in queste ultime due settimane si sono succedute promozioni fulminee a dir poco singolari. Ci torna su Michele Anzaldi: «La vergogna della Mazzola, nominata direttore Ufficio Studi Rai quando neanche tre anni fa era redattore ordinario, offende non me ma tutti i giornalisti che aspettano anni per fare carriera. È una vergogna, come quella di aver avuto Scanzi sotto contratto solo per insultare i politici a lui avversi, rimarrà agli atti come un abominio della lottizzazione fatto sotto il governo Draghi. Glielo dico perché si sappia che nella storia della Rai, chi un giorno scriverà il libro riporterà come sotto il miglior presidente del Consiglio possibile ci si è fatti fregare da questi qua».

Il giallo sul medico che ha vaccinato Scanzi. Federico Garau il 13 Aprile 2021 su Il Giornale. Neppure "Non è l'Arena" è riuscita a reperire il dottor Romizi, pubblicamente ringraziato proprio dal giornalista. Secondo Andrea Scanzi non ci sarebbe niente di esecrabile nella vaccinazione da lui ricevuta, anzi, come da lui dichiarato, gli italiani dovrebbero ringraziarlo per quanto fatto: ciò nonostante, al momento risulta impossibile estendere tali "ringraziamenti" anche al medico che ha reso possibile tutto questo. Ci ha provato, invano, anche Massimo Giletti, ma non risulta possibile davvero in nessun modo celebrare le gesta del dottor Romizi, che ha contribuito a renderci un po' tutti debitori nei confronti del giornalista. "Larga parte degli italiani avrebbe dovuto ringraziarmi perché mi sono vaccinato in un momento storico in cui nessuno avrebbe voluto fare il vaccino AstraZeneca. Io ho accettato proprio perché volevo dare un segnale agli italiani", aveva infatti dichiarato Scanzi dopo il polverone sollevato dalla vicenda. Oltre ad aver difeso quanto fatto, tra l'altro, il giornalista aveva giocato la carta "caregiver" per giustificare la liceità dell'inoculazione del siero AstraZeneca. "Mi sono messo in lista perché ne avevo diritto come caregiver che assiste i suoi genitori anziani e fragili", si era poi giustificato Scanzi. Per fortuna, tuttavia, nessuno dei suoi genitori si trova in condizioni tali da richiedere la costante assistenza di un caregiver da premiare con la somministrazione del vaccino anti-Covid. Luciano, alias Orso Grigio, classe '52, è anche solito cavalcare la sua moto Guzzi, un mezzo che ama alla follìa. Lo stesso "Orso Grigio" che sui social si è scagliato senza giri di parole contro i "furbetti" del vaccino, in primis il governatore della regione Campania. "Qui siamo invasi dai De Luca e da tutti gli altri variopinti furbetti se è vero che un terzo delle vaccinazioni sono toccate a gentaglia che non ne aveva diritto ma che è riuscita a imbucarsi al posto di quelli che ce l’avrebbero avuto", commentava infatti Luciano Scanzi dal suo blog."Ma non mi risulta che nei loro confronti siano stati presi provvedimenti di qualche tipo. Eppure è stato un abuso, per la mia legge un reato, che forse è costato, o costerà, la vita a qualcun altro". Nessuna parola, tuttavia, sulla vicenda del figlio, che aveva anche ringraziato pubblicamente il suo medico per la vaccinazione. Ecco perché "Non è l'Arena" si è dedicata alla ricerca del dottor Romizi. Inutili gli sforzi dell'inviata Francesca Carrarini: impossibile riuscire in alcun modo a reperirlo nè in studio nè tantomeno a casa per ottenere una sua dichiarazione in merito alla vicenda. La procura delle Repubblica di Arezzo ha aperto un fascicolo conoscitivo per indagare sulla vaccinazione di Scanzi, che in tv aveva così dichiarato: "Ho scritto al mio medico il 26 febbraio dicendogli che sapevo che non rientro in nessuna categoria. Se cambiassero le regole e nel pieno rispetto delle regole e per evitare che la dose venisse buttate via ho chiesto se potessero chiamarmi. Lui mi chiama il 3 marzo e mi dice al telefono: 'Andrea, l’Asl ha detto che ha scoperto che molte dosi vengono buttate via'. Io gli ho risposto di procedere se tutto fosse stato lecito". Sulla liceità della vaccinazione, avvenuta lo scorso 19 marzo, indagano ora gli inquirenti. Magari da loro il dottor Romizi si farà trovare.

Non è l'arena, Andrea Scanzi incastrato dal suo medico: "Mi ha chiesto lui di essere vaccinato, non conosco i suoi genitori". Libero Quotidiano il 19 aprile 2021. "Sono il medico di Andrea Scanzi, mi ha chiamato lui per chiedermi di fare il vaccino". A Non è l'arena su La7 l'inviata di Massimo Giletti riesce finalmente ad avere un confronto con il dottor Roberto Romizi, dopo settimane di tentativi andati a vuoto. In evidente imbarazzo, il medico accetta di rispondere ad alcune domande sul caso che ha scandalizzato mezza Italia. Il giornalista del Fatto quotidiano si era fatto vaccinare ad Arezzo, iscrivendosi alla lista dei cosiddetti "riservisti". "È stato lui a contattarmi per dirmi che voleva farsi il vaccino? Questo mi sembra scontato - esordisce il medico -. Mi ha scritto per chiedermi questo, senza voler passare avanti a nessuno". Una cosa però la vuole mettere in chiaro: "Non conosco i genitori", passaggio cruciale visto che Scanzi ha giustificato la sua vaccinazione con la motivazione di essere figlio unico di due genitori anziani e in fascia a rischio (e non ancora vaccinati, al momento in cui il giornalista si è fatto somministrare il siero di AstraZeneca) e dunque deputato ad accudirli. "Il termine "caregiver" non mi ricordo che lo abbia usato - precisa il dottor Romizi -. Ha detto di avere i genitori fragili, affetti da patologie importanti". "Neanche mi ha chiamato, mi ha scritto", puntualizza ancora il dottore ai microfoni di Non è l'Arena, prima di infilarsi nel suo studio e "sparire". Dopo qualche ora, manda un messaggio alla inviata di Giletti: "La stampa ha forse riportato involontariamente varie imprecisioni sul mio ruolo, che è stato solo quello di mettere in contatto Scanzi con la Asl". In sostanza, Scanzi è stato scaricato pure dal suo medico curante.

Il medico smonta così Scanzi: "Mi ha chiamato lui per farsi il vaccino". Luca Sablone il 18 Aprile 2021 su Il Giornale. Il medico di base del giornalista mette le cose in chiaro a Non è l'arena: "Mi ha scritto per farsi somministrare il vaccino per la presenza di genitori fragili, ma io non li conosco". Alla fine il medico di base ha deciso di parlare e di fare chiarezza sul caso che ha coinvolto Andrea Scanzi. Il dottor Roberto Romizi ha rilasciato alcune dichiarazioni ai microfoni di Non è l'arena destinate ad animare ulteriormente la vicenda nei prossimi giorni. Il programma condotto da Massimo Giletti su La7, dopo aver ricostruito le piroette compiute dal giornalista de Il Fatto Quotidiano sulle varie versioni fornite, ha mandato in onda il servizio in cui Romizi ha raccontato la sua versione dei fatti. "È stato lui a contattarmi per dirmi che voleva farsi il vaccino? Questo mi sembra scontato. Mi ha scritto per chiedermi questo, senza voler passare avanti a nessuno", ha dichiarato il medico di base. Che comunque ha precisato di non avere nulla a che fare con i genitori di Scanzi. Sarebbe stato proprio il giornalista a scrivere al suo medico, chiedendogli dunque di sottoporsi alla somministrazione dell'antidoto a causa della presenza dei genitori fragili. Il dottor Romizi però non ricorda di aver tirato in ballo la questione del caregiver: "Il termine 'caregiver' non mi ricordo che lo abbia usato. Ha detto di avere i genitori fragili, affetti da patologie importanti. Sono il medico solo di Scanzi, i genitori non li conosco". Va ricordato che Scanzi aveva chiesto di non mettere in mezzo la madre e il padre. Peccato però che lo stesso Scanzi, in una diretta sul proprio profilo Facebook, aveva messo le mani avanti: "Nel pieno rispetto delle regole, mi sono messo garbatamente nella lista dei disponibili al vaccino a fine giornata. Per non buttare via nessuna dose altrimenti gettata via. Categoria caregiver familiare, essendo figlio unico e avendo entrambi i genitori fragili". Infine il medico di base del giornalista ha mandato un messaggio su WhatsApp all'inviata di Non è l'arena. Romizi ha tenuto a specificare che il suo ruolo si sarebbe limitato solamente a mettere in contatto Scanzi con la Asl: "Una precisazione per esempio è che il medico di famiglia può solo vaccinare un suo paziente over 80 e non ha nessun potere decisionale sugli altri". Già a fine marzo Scanzi era stato messo all'angolo dal dottor Evaristo Giglio, direttore dell'Asl di Arezzo: "Si è trovata una situazione convincente per cui, avanzando queste due dosi e con lui che da tempo aveva chiesto di essere chiamato come ‘panchinaro’. Prima non era mai stato preso in considerazione, perché per quanto mi riguarda si poteva aspettare anche un altro mese o forse un altro anno".

Scanzi-Boldrini, la storia mai letta degli ipocriti rossi. Racconto semiserio sulle polemiche che hanno investito Andrea Scanzi e Laura Boldrini. Giuseppe De Lorenzo - Ven, 26/03/2021 - su Il Giornale. I riferimenti a fatti e persone non sono volutamente casuali, ma la ricostruzione è completamente inventata. All’interno della cucina che ha curato e pulito negli ultimi otto anni, Lilia, collaboratrice domestica moldava, guarda sconfortata il suo potente datore di lavoro. “Non posso venire a lavorare anche il sabato - dice - E poi per meno ore di quante ne faccio adesso. Parto ogni giorno da Nettuno per raggiungere Roma… così non converrebbe più”. Di fronte a lei, altezzosa come sempre, c’è Laura Boldrini, ex presidente della Camera, deputata della sinistra, una vita spesa a sostenere le cause degli stranieri e delle donne.

“Io ho bisogno di qualcuno anche il sabato”, ribatte lei.

“Mi dispiace signora. Così non posso accettare: venire da lì per sole tre ore di lavoro non ha senso”.

“Allora dovremo chiudere il nostro rapporto”, replica inflessibile la padrona di casa. “Ti pagherò il tfr e quando previsto dal contratto. Poi amici come prima”.

Sul volto di Lilia cade un velo di tristezza. Boldrini non dovrebbe comportarsi come un capitalista qualsiasi: da lei non si sarebbe aspettata così poca empatia. Decide allora di farsi coraggio: “Signora mi scusi… dovrebbe anche versarmi gli scatti di anzianità”.

“Quanti soldi sono?”

“Beh, direi circa tremila euro: sa, di questi tempi ogni soldino in più aiuta…”.

Boldrini fa una smorfia. Prende dalla borsetta il cellulare, digita il numero dal commercialista e attende la risposta. Dopo qualche minuto di silenzio passato in ascolto, rimette a posto il telefono e si rivolge alla colf: “La dottoressa mi conferma che la cifra è un po’ inferiore, cara Lilia. Avrai solo quanto ti spetta”.

“Non è vero, glielo giuro”.

“Facciamo così: tu parlane col Caf, io con la mia commercialista. Appena troviamo un accordo ti darò quanto previsto dalla legge”.

Passano pochi minuti di silenzio. Lilia è a pezzi. “Otto anni a sgobbare in silenzio e questa si impunta su 3mila euro?”. Il pensiero le martella in testa con così tanto ardore che teme di averlo urlato ad alta voce. La pancia ribolle rabbia, il cuore dolore. Improvvisamente le guance le rigano il viso, ma evita di singhiozzare. È in quel momento che si rende conto di aver perso il lavoro proprio adesso che trovarne uno è un terno al lotto. “Ci sarà un altro impiego così?”.

Fuori dalla finestra intanto il sole riscalda una Capitale al solito mite. Il coronavirus ha da poco allentato la presa su un’Italia ancora scossa dalla crisi pandemica: migliaia di morti, un Pil in calo dell’8,8%, il blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione, i ristori che non arrivano. Entrambe guardano l’orizzonte. In cucina cala uno strano silenzio. Poi all’improvviso Laura guarda Lilia piangere e, come colpita da quel gesto dignitoso, si blocca. I pensieri le si accavallano in testa: “E se stessi sbagliando tutto?”. Lei, paladina dei diritti delle donne, madrina delle pari opportunità, in meno di un attimo afferra al volo: si rende conto che lasciare per strada la signora che per anni le ha fatto da colf, in un momento così drammatico per il mercato del lavoro, sarebbe un’ingiustizia. Soprattutto per colpa di un capriccio del sabato. Privare di un contratto una donna che in tanti anni non ha dato alcun problema, improvvisamente appare all’ex Presidente della Camera uno schiaffo a tutti i lavorator* in difficoltà. “In fondo in fondo, ho un reddito di 108mila euro all’anno”, pensa tra sé e sé la deputata, “e Montecitorio il mio stipendio non ha mancato di versarlo neppure nei momenti più drammatici della pandemia”.

Così si gira verso la collaboratrice e, sorridendo, le dà la buona notizia:
“Senti Lilia, fai finta di nulla. Continua pure a lavorare per me dal lunedì al venerdì. Per il sabato farò uno sforzo, cercherò qualcun altro cui fare un nuovo contratto. Mi costerà di più, ma in questo momento mi sembra più corretto”.

“Grazie signora”, singhiozza la colf.

“Ah, e ho deciso di darti anche un premio di produzione da 3mila euro: credo facciano più bene a te che a me”.

Il volto di Lilia si illumina di gioia: “Lei sì è una donna meravigliosa, una vera militante di sinistra e un politico coerente”.

Intanto nel silenzio del lussuoso Hotel Palace di Merano, Andrea Scanzi si sta guardando allo specchio. È da poco finita l’ultima puntata di Otto e Mezzo. “Quanto sono bello e quanto sono bravo”, sorride sottovoce.

“Anche oggi li ho stesi tutti: vedrai domani come cresco nelle interazioni social. Sarò ancora il giornalista italiano più potente di tutta la Rete”.

Improvvisamente squilla il telefono.

“Pronto?”, risponde Scanzi.

“Salve Andrea, sono il medico di base”.

“Dottore, mi dica”.

“Guarda che può darsi che ti chiamino per fare un vaccino: come avevi chiesto sei stato inserito nella lista dei riservisti”.

Scanzi, un po’ sorpreso, non sta più nella pelle: “Va bene, cosa devo fare?”

“Niente: devi aspettare che ti chiami il referente dell’Asl. Però ti avverto: non potrai scegliere quale vaccino farti inoculare e dovrai essere qui ad Arezzo, perché ti chiameranno all’ultimo”.

“Ottimo, non mancherò”.

Messo giù il cellulare, Scanzi torna a osservare il suo riflesso allo specchio. “Mi farò vaccinare e poi lo racconterò a tutti, così sai che figata: like a non finire, condivisioni che si sprecano. Potrei pure diventare il testimonial di AstraZeneca, mica ho paura dei trombi io”.

Qualche giorno dopo, arriva la chiamata dall’Asl. Scanzi carico a pallettoni si presenta al centro vaccinale aretino, tira giù la maglietta nera da simil rockettaro e protende il braccio con fare eroico. Passano 15 minuti, nessuna controindicazione. Scanzi torna verso casa in sella alla moto e già sulle dita sente prudere le parole del prossimo post. “Deve spaccare”, dice. “Anzi: faccio un video che è pure meglio e magari diventa virale come quello in cui dicevo che il coronavirus era poco più di una influenza”.

Appena parcheggia la moto davanti casa, squilla di nuovo il telefono. È Peter Gomez.

“Direttore, come ti butta?”

“Ciao Andrea, ho saputo che sei andato a fare il vaccino. È vero?”

“Sì Peter, una figata. Adesso lo sparo su Facebook, Youtube, Instagram, Twitch, e se riesco mi faccio intervistare pure da Lilly. Che te ne pare?”

“No fare cazzate, Andrea. Avrai anche fatto tutto nelle regole, ma non andare a sbandierarlo ai quattro venti. Qui ci sono 80enni che non hanno visto uno straccio di dose, persone che rischiano di crepare. Mica come te”.

“Ho capito ma io sono un caregaver, i miei genitori sono fragili”.

“Ecco appunto, e perché allora non hai inserito loro nelle liste dei riservisti?”

“Ehm…”

“Senti Andrea, tienitela per te questa cosa. Se poi esce vabbè, ma è meglio non fare gli spacconi. Pensa ai politici toscani, o agli avvocati, che avrebbero potuto vaccinarsi e hanno deciso di evitare. Quando sei un personaggio pubblico a queste cose devi pensare. Non fare il gradasso”.

Scanzi chiude la chiamata un po’ irritato. Ma pensieroso. “Forse Peter ha ragione. Meglio se evito: cosa avrei scritto io di Maria Elena Boschi se si fosse vaccinata saltando la fila? Anche se si fosse iscritta seguendo tutte le regole, avrei scritto: ‘E che cazzo, prima gli anziani e poi i privilegiati renziani’. Forse è meglio se me lo tengo per me”.

A quel punto mette il cavalletto alla moto, rientra in casa, poggia le chiavi sul bel piatto all’ingresso. E mentre sale le scale riflette: “Ora che ci penso, quando la scorsa estate uscì la notizia dei deputati che, in pieno lockdown, hanno chiesto e ottenuto il bonus partite iva da 600 euro, io mi incazzai come un riccio”.

Entrato in camera, si mette subito al pc per ripescare quel vecchio post. É datato 9 agosto. Scanzi lo rilegge rapidamente: “Direi il massimo dello schifo… Sarebbe bello conoscere questi sei nomi.… Non appena li saprò, li pubblicherò su questa pagina… Che bella gente esiste al mondo…”.

Quelle frasi hanno un effetto dirompente su Scanzi: “E che cazzo… a pensarci bene pure quei 5 parlamentari avevano rispettato tutte le regole, come me col vaccino. Se ho bacchettato loro, dovrei redarguire pure me stesso.

a davvero ragione Peter: per coerenza è meglio se me ne sto zitto e buono”.

Roma, palazzo Montecitorio. Squilla il cellulare di Laura Boldrini.
“Onorevole, sono Roberta da Lodi”.

“Salve Roberta, dimmi”.

“Senta mio figlio sta male. Non riesco più a venire da Lodi tre giorni alla settimana per farle da collaboratore parlamentare. Posso continuare a lavorare in smartworking?”

Boldrini, irritata, sbuffa senza timore di nascondere il disappunto: “No Roberta, mi dispiace. Ho bisogno di persone che stiano qui”.

“Ma scusi, in fondo le devo solo tenere l’agenda. Poi lei mi fa prenotare il parrucchiere, le visite mediche. Non mi dica che mi vuole lì perché devo andarle a ritirare le giacche dal sarto, i trucchi e i pantaloni. Sarei una collaboratrice parlamentare, non la sua schiava”.

“Ora non fare la vittima”, replica Boldrini, “ti pago anche per questo”.

Dopo un attimo di silenzio, Roberta si fa coraggio: “Ecco, a proposito di stipendio. Con 1.200/1.300 euro al mese non riesco a viverci. Da quei soldi devo togliere i costi di alloggio a Roma e i treni da Lodi. È troppo. Come do da mangiare ai miei figli?”

“Fai poco la spiritosa: col lockdown non sei mai venuta a Roma e hai risparmiato. E poi lavorare con me è un privilegio, mica uno lo fa per viverci. Se i problemi sono questi, è meglio se dividiamo le nostre strade”.

Roberta piange e riattacca la chiamata. Boldrini è soddisfatta: non si è fatta fregare. Cammina per i corridoi della Camera e pensa di fare un post su Facebook. Dopo una mezz’ora telefona all’addetto stampa: “Ciao Mario, scrivi qualcosa sulle mamme lavoratrici. Un bel post sule donne che sono costrette a doversi licenziare perché col coronavirus, le zone rosse e le scuole chiuse devono scegliere tra la famiglia e il lavoro. Il governo deve garantire bonus babysitter. E i datori di lavoro non possono costringerle a scegliere tra i figli e la carriera. È una battaglia di civiltà”.

“Onorevole mi scusi…”

“Dimmi Mario, che c’è?!”

“Ho parlato con Roberta poco fa, mi ha detto che non le ha permesso di restare in smartworking col figlio malato e che quindi si è dovuta dimettere. Non le sembra un po’ incoerente mettersi a pontificare sui diritti delle donne lavoratrici?”

“Ehm…”
“Io eviterei”.

Laura allora capisce l’errore. Vuole riparare. Richiama subito Roberta ma il telefono suona a vuoto. “Dai Roberta rispondi, ti prego”. Il telefono continua a squillare. Una, due, tre volte. Niente. “Tuut… Tuuut…

Tuut…”. Boldrini riprova. Uno, due, tre squilli. Nulla. Poi all’improvviso…. DRIIIN DRIIIN DRIIIN
In quell’istante suona la sveglia.

Sia Scanzi che Boldrini si svegliano di soprassalto, tutti sudati. Lui è nel letto col suo pigiama di lino, lei in camicia da notte tutta sola in casa. Fuori la luna è ancora alta. Dopo un attimo di smarrimento, i due capiscono: per fortuna era tutto solo un brutto sogno. La colf riassunta, il silenzio sul vaccino, la collaboratrice parlamentare lasciata in smartworking: tutto finto. E senza saperlo, a chilometri di distanza l’uno dall’altra, dicono all’unisono: “Che incubo. Nella vita mostrarsi coerenti va bene. Ma è sempre meglio non esagerare”. Così l’indomani lasceranno a casa Lilia, faranno dimettere Roberta e racconteranno al mondo di essersi vaccinati in barba agli ottantenni che muoiono di Covid. Facendo l'esatto contrario di quello che normalmente predicano. Alla faccia della coerenza dei bacchettoni radical chic.

·        Angelo Guglielmi.

Michela Tamburrino per “la Stampa” l'8 aprile 2021. Il grande padre della tv innovativa non ama più guardare la tv. Soprattutto non ama più quella Rai che non riconosce familiare. Angelo Guglielmi proprio oggi festeggia il suo compleanno e dopo i 90 non si fanno tanti giri di parole. Anche se Guglielmi remore non ne ha mai avute. Il Kaiser lo chiamavano in Rai, per la velocità prussiana che aveva impresso al suo passo in ascesa continua. Fondatore del gruppo '63, direttore di Rai3 dal 1987 al 1994, poi all'Istituto Luce e persino assessore nella Bologna di Sergio Cofferati ma soprattutto scrittore e raffinatissimo critico letterario. Che oggi sorride pensando alla prossima rivoluzione Rai che riguarderà nomi e non struttura come da Guglielmi spesso auspicato. Adesso qualcosa potrebbe accadere. Il premier Draghi sta per prendere in mano la situazione Rai e potremmo avere belle sorprese. «Ho tanto sperato in Draghi, nel suo cambiamento. Questo era il momento adatto e lui l'uomo giusto per poter dire ai partiti: basta con le spartizioni in Rai. Invece i segnali che mi arrivano non sono confortanti. Lui non se ne sta occupando molto, demanda. Certo, ci sono difficoltà oggettive. Ma che cosa vuole che ne sappia un ministro dell'Economia di Rai, hanno altre priorità. Sento che circolano i nomi di sempre per una tv di sempre. Lui avrebbe dovuto dire che non vuole la lottizzazione e intervenire di persona».

Pensa che non lo voglia fare?

«Ma non può farlo. Con tutti i problemi legati alla costruzione di una nuova Italia, non vedo spazi per costruire una nuova Rai. Il paese deve risorgere, bisogna scrivere nuove regole, la pandemia ci affligge, i vaccini pure. La Rai non attrae, è diventato un mondo delle vecchie ombre. Oltretutto con i lockdown si è schiuso l'universo delle piattaforme che è molto più interessante».

Lei ha avuto modo di dire che al Pd in Rai vanno sempre le briciole.

«Ma certo. Resta quell'atteggiamento ereditato dal Pci. Partiamo da lì. La spartizione interessò il Pci solo tre anni prima della fine. In principio ne era stato escluso e dopo non lo interessava troppo. Era pur sempre tv. Lo fece praticamente in punto di morte, tre anni prima della fine. Poi però quel 12% che raggiungemmo alla Rai di Agnes piacque, aiutava nella lotta contro gli ascolti Fininvest».

Lei ha lamentato una situazione di malessere, «galleggiamo in un vuoto di cultura viva da cui si può uscire solo dopo eventi catastrofici». Allora ci siamo. Più catastrofe di così?

«E su questo vuoto bisognerebbe riflettere. La letteratura è nulla, si scrivono solo biografie e autobiografie che non interessano alcuno. La produzione è di una modestia assoluta. I libri si vendono? Certo, sono aperte solo librerie e farmacie. Vada a vedere l'incremento che hanno avuto i farmaci da banco».

Sembra una contraddizione in termini, lei che non guarda più la tv eccettuate le partite di calcio.

«E anche quelle spesso con scarsa soddisfazione. Non la guardo perché è vecchia, noiosa, diversissima da quella che dovrebbe essere. Si è tornati ai palinsesti prevedibili che hanno forma di divani confortevoli. Noi a Raitre creavamo un programma al giorno, andavamo incontro alle richieste del pubblico, inventare e mai assomigliare era il motto. Così, dopo 8 anni di gagliarda battaglia, ho ritenuto che fosse finito il mio tempo».

Altri non ne avrebbero avuto il coraggio. In un suo libro lei ipotizza un'autarchia possibile in Rai. Non è un po' quello che si tenta di fare oggi. Risorse proprie?

«È un libro che ho scritto molto tempo fa. Per autarchia intendevo parlare di una Rai chiamata a produrre i suoi programmi, in grado di gestire i suoi uomini. Ora invece i conduttori sono strumenti degli agenti. Io sceglievo, decidevo. Adesso è tutto in mano a loro che manovrano certo non nell'interesse dell'Azienda come facevamo noi».

Chiambretti, Fazio, Santoro, Lerner e tanti altri. Ma c'è un programma che sta nel suo cuore con maggiore forza?

«Li ho amati tutti ma non posso dimenticare l'ultima serata de La Tv delle ragazze. Nel teatro dove festeggiavamo l'ultima puntata c'era il mondo dello spettacolo, della cultura, della finanza per un programma che chiudeva al massimo della sua popolarità e del suo riconoscimento. Ora guardo con più piacere di tutti Corrado Formigli, era cresciuto con Santoro e mi ricorda quel periodo d'oro».

Il suo direttore generale preferito?

«Bernabei e Agnes. Gli altri sono stati inadatti a ricoprire quel ruolo tanto importante. Bernabei fece "scendere gli italiani dagli alberi", come diceva lui. Nel 1955 il 55% degli italiani era analfabeta. Guardando la Rai scopriva perché c'era stata la guerra, chi era Shakespeare, Michelangelo, Leonardo».

A proposito, in questi giorni va in onda su Rai1 una serie su Leonardo in cui si sospetta che l'artista uccida una donna peraltro mai esistita

«E no, noi no. Noi facevamo cultura. E poi non capisco perché fare un film su un personaggio realmente esistito per poi cambiargli la vita. Il guaio è che anche il telespettatore non sa più chiedere. Si accontenta di avere tutto ma niente di unico».

 

Da liberoquotidiano.it l'8 aprile 2021. La violenza sulle donne? "Può capitare". È questo lo sconvolgente commento di un prete siciliano, monsignor Antonio Michele Crociata, che ha sollevato il polverone. "Il tuo consiglio mi sembra un po' eccessivo. Tra marito e moglie può capitare... - scrive il prete di Castellammare del Golfo in risposta al post di un giornalista - Non bisogna però mai esagerare comunque. Anche le mogli, del resto, a volte mancano nei confronti dei mariti...e ciò non significa affatto... bisogna accettare...via! Non esageriamo". L'uomo ha commentato l'avvertimento di Gianfranco Criscenti a tutte le donne: "Se il compagno o marito ti alza le mani, anche una sola volta, scappa via. Agisci subito e mettiti al riparo. Contatta il 1522, la polizia o i carabinieri". Non la pensa evidentemente allo stesso modo monsignor Crociata, travolto da parecchie critiche. A prendere le distanze don Francesco Fiorino, direttore dell'Opera di religione monsignore Gioacchino Di Leo di Marsala. "Nessuna violenza può essere giustificata o sminuita, anche tra marito e moglie", ha scritto a sua volta su Facebook prima di rispondere all'Adnkronos: "Il silenzio di fronte ad un'affermazione che rischia di giustificare e sminuire i gesti di prepotenza e disprezzo sta diventando assordante". Inutili i tentativi di Don Fiorino di contattare la Diocesi perché è fermamente convinto che "davanti a queste affermazioni, dovrebbe intervenire. Gesù non ha mai detto 'può capitare...' ma il vostro parlare sia sì, sì, no, no. Non confondiamo le persone". Per Don Fiorino un prete "non può attenuare in alcun modo qualsiasi gesto violento, di sopraffazione e di disprezzo della dignità umana. Un prete fedele a Cristo sa anche chiedere scusa quando si rende conto che ha provocato incertezza e confusione. Un prete sta sempre dalla parte della vittima non del violento/carnefice". Ma sulla pagina Facebook di Crociata ci sono altri post pronti a far discutere: tutti contrari al ddl Zan, la legge per fermare l'omotransfobia.

·        Annalisa Chirico.

Annalisa Chirico su Lilli Gruber: "Chi è davvero. Dubito che...", una bomba su lady "Otto e Mezzo". Brunella Bolloli su Il Tempo il 14 novembre 2021. «Greta è favorevole al nucleare, a Mario Draghi piace l'Aperol Campari e lei mi chiede di Renzi?», risponde così Annalisa Chirico, più nota come "La Chirico", che poi è anche il nome del sito di questa 35enne giornalista, saggista, opinionista televisiva, amica dei due Mattei (Renzi e Salvini), ossessionata dal garantismo al punto da avere fondato "Fino a prova contraria", un'associazione che si occupa di giustizia e non solo. Ora, tra le 95mila pagine d'inchiesta sulla fondazione Open, la Chirico viene tirata in ballo per un paio di whattsApp del leader di Italia Viva e per i suoi rapporti di amicizia con il presidente di Open, Alberto Bianchi, che di lei dice: «È brava e scrive bene». Chirico, negli ultimi giorni il suo nome compare sui giornali per alcuni messaggini, contenuti nelle carte dell'inchiesta Open, da cui si evincerebbe che l'ex premier Matteo Renzi la sollecitava ad andare ospite dalla Gruber.

«Lilli Gruber è un decano del giornalismo italiano, dubito che si faccia suggerire gli ospiti da Renzi. Ai talk sono sempre stata invitata da conduttori e autori».

Lei però seguiva l'inchiesta Consip sulle pagine del Foglio.

«Esatto, seguivo l'inchiesta esattamente come i colleghi uomini. Inseguivo i pm romani dell'inchiesta esattamente come gli avvocati degli indagati per avere informazioni e scriverne. Io non costruisco dossier nel chiuso di una stanza, vivo nel mondo, parlo con le persone o almeno ci provo».

Parlava pure con Renzi?

«Conosco Matteo Renzi da prima che diventasse premier. Nelle migliaia di conversazioni intercettate Renzi parla con mezzo mondo del giornalismo, dell'impresa, della Rai, dell'amministrazione... Eppure l'attenzione si appunta solo su alcuni. Sono gli "effetti collaterali" del mestiere, prendiamola così».

Dalle carte dell'inchiesta Open emerge il progetto di una sorta di "macchina del fango" renziana, con tanto di organigramma, presunti investigatori privati, spy story. Lei non compare tra i giornalisti che avrebbero dovuto lavorarci, ma conosceva l'iniziativa, poi respinta da Renzi?

«Ho appreso di questo progetto dai giornali, come tutti. Mai nessuno mi ha parlato di questa ipotesi, altrimenti ne avrei scritto, sarebbe stata la notizia. Io credo nello stato di diritto e nelle garanzie costituzionali che sono incompatibili con il killeraggio mediatico. Certe pratiche mi ripugnano, da qualunque parte provengano».

95mila pagine d'inchiesta: pochi reati, molto gossip?

«Sui reati deciderà il processo, se mai ci sarà. La macchina inquisitoria è stata imponente, manco fosse un'inchiesta per mafia. Il presupposto dell'ipotesi accusatoria è che la fondazione fosse, in realtà, un'articolazione di partito, vale a dire articolazione di una associazione. Sarebbe una figura abbastanza nuova per il diritto civile. Ma al di là degli aspetti giudiziari, il tema politico è un altro: abolito il finanziamento pubblico della politica, la vita democratica come deve finanziarsi se criminalizziamo ogni canale alternativo? Attenzione perché ci facciamo male».

Cosa intende?

«Il leader della Lega Matteo Salvini rischia quindici anni di carcere per un'accusa di sequestro di persona perché da ministro dell'Interno perseguiva la sua legittima politica sui migranti. Il tesoriere della Lega, Centemero, è sotto inchiesta a Roma e a Milano per una vicenda legata a una associazione giudicata "collaterale" alla Lega. Il M5S è sotto inchiesta per presunti finanziamenti dal Venezuela. Nell'inchiesta di Fanpage gli esponenti di Fdi cercano soldi per campagne e aperitivi elettorali. Esiste un problema gigantesco perché la democrazia costa, solo le dittature non hanno questo problema».

E come si fa?

«La costruzione del consenso, le leadership, le scalate nei partiti hanno bisogno di denaro. Dobbiamo inventarci soluzioni alternative. Massimo D'Alema ha rilanciato il modello tedesco: il finanziamento pubblico vada non ai partiti ma alle fondazioni dove si forma classe dirigente».

Il gossip sulla vicenda Open l'ha ferita?

«Mi ferisce la maleducazione, non il gossip. Ho una vita piena di cose e persone, lavoro da mane a sera, scrivo parlo guido una società di advocacy, cerco di tenermi stretto il fidanzato e di evitare l'invecchiamento precoce della pelle. Non ho il tempo per occuparmi delle vite altrui».

Secondo lei chi va al Colle?

«Ho l'impressione che l'unico partito che sostiene convintamente Mario Draghi al Quirinale sia la Lega. Se si garantisce un percorso ordinato per il completamento della legislatura, anche democratici e grillini potrebbero aderire a uno schema che veda Draghi sul Colle più alto e un governo di un anno per arrivare al voto nel 2023. È una responsabilità dei partiti individuare insieme una soluzione ordinata verso questo esito. Mario Draghi è la figura più autorevole, dobbiamo puntare sulla sua guida saggia per i prossimi sette anni». 

·        Barbara Palombelli.

Massimo Falcioni per "tvblog.it" il 28 ottobre 2021. Un divertentissimo siparietto che, probabilmente, conteneva anche la volontà di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. A Stasera Italia Barbara Palombelli ha ricordato la sua esperienza in Rai, approfittando della presenza di Clemente Mastella. L’argomento è venuto a galla per caso, anche perché in quel momento si stava affrontando un tema lontano anni luce come quello del possibile successore di Mattarella al Quirinale. Tra i candidati, oltre a Draghi, si è fatto il nome di Pier Ferdinando Casini. Occasione ghiotta per aprire il capitolo della Dc e della sua centralità nella storia d’Italia. La Palombelli, a quel punto, è tornata indietro con la memoria agli anni ottanta: “All’epoca Mastella era il vero capo della Rai”. Di fronte ai “no” con la testa del sindaco di Benevento, la conduttrice ha rincarato la dose: “Come no. Eri il capo della Rai, mi hai pure licenziato dalla Rai. Me lo ricordo come se fosse ieri”. A Mastella – che ha continuato a negare la circostanza (“no, assolutamente no”) – la Palombelli ha inoltre riportato un altro aneddoto. “Tra gli amici dei democristiani cito Beppe Grillo che quando tu organizzavi le feste dell’amicizia e dei giovani democristiani veniva e si esibiva. Lo dico perché tanti ragazzi non lo sanno, non erano nati”. In questo caso, l’ex leader dell’Udeur ha risposto in maniera affermativa: “Sì, veniva, veniva. Ricordo una festa a Verona, suscitò un gran casino. Partecipava, non aveva la fobia della Democrazia Cristiana”. Fino al curioso aneddoto condito di frecciata al comico: “Io ai tempi inviavo i torroncini di un paesino della mia provincia. Li inviavo un po’ a tutti. Lui andò in tv al sabato sera e disse "Mastella ci vuole corrompere". E fece vedere la scatoletta. Dopo quell’episodio non me li fece mai tornare indietro. Se li era fregati”.

Palombelli in lacrime: ecco cosa ha detto su Rita Dalla Chiesa. Francesca Galici il 2 Ottobre 2021 su Il Giornale. Barbara Palombelli e Rita Dalla Chiesa smentiscono le voci su un possibile dissidio tra loro nato anni fa, quando si sono avvicendate alla guida di Forum. Barbara Palombelli, ospite di Silvia Toffanin a Verissimo, non è riuscita a trattenere le lacrime durante l'intervista andata in onda sabato pomeriggio. A far piangere la conduttrice e giornalista è stato soprattutto un filmato in cui sono state mostrate le sue due figlie adottive, Monica e Serena, che sono arrivate a casa di Barbara Palombelli e Walter Veltroni quando erano ancora due bambine. Ma il centro dell'intervista con Silvia Toffanin c'è stato soprattutto il rapporto tra la conduttrice e Rita Dalla Chiesa, che per lunghi anni ha condotto Forum, portandolo al successo. Da anni si vocifera di un rapporto non idilliaco tra le due, proprio per l'avvicendamento a Forum. Voci di corridoio riportavano di un risentimento da parte della figlia del generale Dalla Chiesa per non essere tornata alla conduzione del programma che lei ha contribuito a far crescere. Tuttavia, sia Rita Dalla Chiesa che Barbara Palombelli hanno sempre smentito i dissapori e proprio per mettere a tacere tutte le voci, l'ex conduttrice di Forum ha voluto inviare un videomessaggio a Verissimo per la conduttrice di Stasera Italia, ribadendole anche pubblicamente la sua stima. "Questo è per far vedere che noi non siamo rivali come è stato scritto. Poi non riesco a vedere Forum perché è come vedere un grande amore che se ne va con qualcun altro". Rita Dalla Chiesa, quindi, ha concluso: "Ti sono sempre molto vicina". Barbara Palombelli è apparsa piacevolmente sorpresa della sorpresa della collega: "Questo sì che è un regalo". Durante l'intervista, Silvia Toffanin e la sua ospite hanno commentato le dichiarazioni di Rita Dalla Chiesa, ribadite del videomessaggio ma già pronunciate tempo fa, quando la conduttrice rivelava di non riuscire a guardare più Forum. "Mi dispiace tantissimo. Io fui chiamata di corsa quando lei accettò un’offerta a La7. Sì, sono entrata in casa sua, ma il fatto che mi voglia bene mi fa piacere. Anche io le voglio bene", ha detto Barbara Palombelli, ricambiando l'affetto e la stima di Rita Dalla Chiesa.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Barbara Palombelli, confessione inaspettata: "Mi tolgono 15 anni, tutti i giorni...", ecco cosa accade prima della messa in onda. Libero Quotidiano il 25 marzo 2021. Barbara Palombelli ironica. A Stasera Italia, in onda su Rete Quattro il 24 marzo, si parla dei ritocchini estetici aumentati con l'arrivo del Covid. Tutta colpa - è la giustificazione degli esperti - delle videoconferenze e da un senso di sconforto dettato dalle lunghe giornate di quarantena. In studio interviene così la giornalista Sabrina Scampini che si lascia andare a un consiglio a tutte le donne impegnate quotidianamente in interminabili dirette su Zoom, mostrando una lampada ad anello. “Durante le conferenze, guardiamo molto più noi stessi che gli altri, le imperfezioni del nostro viso ci risultano più evidenti e creano depressione - spiega -. Se posso dare un suggerimento, consiglio di usare questa luce circolare. Tante volte non bisogna andare a fare degli interventi chirurgici, basta mettere una luce vicino al computer e vi assicuro che sarà sicuramente meglio. Risulterete con molte meno rughe e vi piacerete di più”. Da qui la replica della conduttrice di Mediaset: "Eh beh, è la magia delle luci che mi tolgono almeno una quindicina d’anni tutti i giorni in televisione. Ringrazio Cristiano Mastropietro che fa questo lavoro”. Una vera e propria confessione che la Palombelli non tiene per sè. Anzi, come tutte le donne ammette i piccoli difettucci.

·        Bianca Berlinguer.

Dagospia l'11 dicembre 2021. Solo lo scorso maggio, al programma “Belve”, diceva: “L’amore? Sto bene così, non ho nessuna smania di sposarmi…”. Eppure, dopo poco più di sette mesi, qualche cosa ha fatto cambiare idea a Bianca Berlinguer e adesso la famosa giornalista e conduttrice di “Carta Bianca” su Raitre, a 62 anni, si prepara a sposarsi. Lo dimostrano, in concreto, le pubblicazioni in Comune che annunciano il matrimonio. L’uomo che Bianca Berlinguer ha deciso di sposare è Luigi Manconi, 73 anni, giornalista, scrittore ed ex senatore, oggi professore di Sociologia a Milano, con cui sta insieme sentimentalmente dalla fine degli anni Novanta e da cui ha avuto la figlia Giulia, 23 anni. Per Bianca si tratta delle seconde nozze: in passato è stata sposata con il collega Stefano Marroni, oggi a capo della comunicazione della Rai. Il legame con Manconi, suo prossimo marito, è sempre stato solidissimo e la stessa Bianca ha raccontato che si è fatto ancora più forte di fronte a un momento molto difficile. “Luigi ha perso la vista per una patologia e questa è stata una prova importante per tutti noi”, ha detto la figlia di Enrico Berlinguer, pronta con gioia a dire “si” al suo compagno di una vita.

Bianca Berlinguer e Luigi Manconi si sposano: "Il problema di salute di cui non hanno mai parlato", una coppia d'acciaio. Libero Quotidiano il 13 dicembre 2021. Un amore lungo 25 anni, che Bianca Berlinguer e Luigi Manconi coroneranno con il massimo riserbo, come d'altronde hanno condotto la loro relazione: la giornalista di Rai3 e il politico si sposeranno in sordina, anche se la notizia è già filtrata prima dalle pagine del settimanale DiPiù e poi dal sito Dagospia. Lontani dai clamori del gossip, nonostante la Berlinguer (già direttore del Tg3 dal 2009 al 2016) sia la padrona di casa di CartaBianca, trasmissione che attira sempre titoli e riflettori (anche per le uscite estemporanee di Mauro Corona) mentre Manconi abbia alle spalle un lunghissimo curriculum pubblico (sociologo, sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi II, senatore dei Verdi e poi del Pd, primo a presentare un disegno di legge su unioni civili e testamento biologico).  La loro relazione è iniziata dal 1996, subito finita su un rotocalco. Da lì in poi, massima discrezione. Sulla nascita della figlia Giulia, nel 1998, e sulla salute di Manconi: da 14 anni l'ex senatore è ipovedente. Un problema di salute grave, di cui  raramente i due hanno parlato in pubblico. Quando lo ha fatto, Manconi non ha mancato di esibire la consueta ironia: "Novembre 2007... Dovevo parlare alla Camera. Lì mi accorsi di non riuscire a leggere neanche mezza riga", aveva raccontato a Carlo Verdelli. Lui, tra i più accaniti progressisti italiani, scherzava dicendo di non aver mai potuto vedere la faccia di Barack Obama, né salutare gli amici con il più classico dei "ci vediamo". "Manconi - scrive il Corriere della Sera - ha continuato a scrivere, a insegnare, a partecipare a dibattiti, esce senza bastone e occhiali scuri. Bianca gli è stata vicino con dedizione, discrezione".

Candida Morvillo per il "Corriere della Sera" il 13 dicembre 2021. Si sposeranno in sordina, così come sono stati insieme per 25 anni, senza mai un'intervista in cui uno parlasse dell'altro. Bianca Berlinguer e Luigi Manconi non vogliono commentare le pubblicazioni di matrimonio che volentieri avrebbero preferito restassero ignorate, ma che sono finite prima su DiPiù , poi su Dagospia . Non potevano passare inosservati due futuri sposi col loro piglio e la loro storia. Berlinguer conduce #cartabianca su Raitre, è stata direttore del Tg3 dal 2009 al 2016. Manconi, sociologo di Fenomeni della Politica, giornalista, scrittore, è stato sottosegretario alla Giustizia nel Prodi II, senatore dei Verdi, poi del Pd. Nel 1995, fu il primo a presentare un disegno di legge sulle unioni civili e, nel 1996, sul testamento biologico; e fu il primo a imporre all'attenzione pubblica il caso di Stefano Cucchi. Le origini di entrambi sono a Sassari, lei figlia del padre della sinistra Enrico Berlinguer, lui di Giangiacomo Manconi, che fu capo della Gioventù Cattolica. Le loro strade s' incrociano a Roma nel '96. Anche lì, è un rotocalco rosa a coglierli insieme. Lui è separato, ha due figli, è il portavoce dei Verdi; anche lei è separata ed è il volto del Tg3, voluta dal mitico direttore Sandro Curzi che denuncerà una raccomandazione all'incontrario («suo padre mi disse che non gli sembrava elegante che la facessi lavorare: poteva sembrare la spingesse lui»). Due anni dopo, nasce Giulia. Anche in quell'occasione, niente annunci di gravidanza e di fiocchi rosa, anche se sono anni in cui le conduttrici di Tg si contendono le copertine con le attrici. Sarà Giulia, un mese fa, a incrinare la riservatezza della famiglia accogliendo la richiesta delle Iene tv di fare uno scherzo alla madre. Ripresa da telecamere nascoste, si vede Bianca che trova un giovane in salotto; il ragazzo le racconta che è lì perché la figlia le deve tremila euro, concordati per comprare una patente di guida falsa. Arriva Manconi ed è basito quanto la consorte, solo più calmo. Memorabile è il momento in cui moglie e marito decidono di denunciare la figlia e chiamano l'avvocato. La reazione racconta, più di mille interviste mai concesse, un'affinità profonda, un comune senso dell'etica. Da 14 anni, Bianca e Luigi condividono anche la malattia di lui, diventato ipovedente. «Novembre 2007... Dovevo parlare alla Camera. Lì mi accorsi di non riuscire a leggere neanche mezza riga», raccontò lui a Carlo Verdelli, scherzando sul fatto di non sapere che faccia avesse Obama e sugli amici che non poteva più salutare con un «ci vediamo». Manconi ha continuato a scrivere, a insegnare, a partecipare a dibattiti, esce senza bastone e occhiali scuri. Bianca gli è stata vicino con dedizione, discrezione. La loro era già un'unione «nella salute e nella malattia, nella buona e nella cattiva sorte» e chi sa se hanno pensato alla formula di rito quando hanno deciso di sposarsi. Nel 2009, erano in prima fila al Fiorello Show . Lo showman nota un attore seduto vicino a Bianca, Lorenzo Ciompi. Si scatena e le chiede: «Tra lei e Ciompi c'è una storiaccia?». Quella volta lì, Manconi si palesò. Alzò la mano e disse: «Sono io il fortunato».

Dagospia il 22 maggio 2021. Comunicato stampa. Protagoniste della nuova puntata di Belve condotto da Francesca Fagnani in onda questa sera (venerdì 21 maggio) alle 22.55 su Raidue Bianca Berlinguer e Sonia Bruganelli. La conduttrice di CartaBianca, su Raitre, non si sottrae nemmeno davanti alle domande scomode. Quando Fagnani le chiede se la diverte o la infastidisce quando la chiamano zarina?, Berlinguer risponde: “All’inizio mi infastidiva, ora non più”. La diverte? “No, divertirmi proprio no. Però non gli do quel connotato così negativo che gli veniva dato nel momento in cui è stato dato, in cui sono stata denominata zarina. Ma è un termine che mi porto appresso da molto tempo”. Una certa attitudine al comando forse? “Al comando sì, al comando lo diceva Ezio Mauro… Forse anche da piccola tendevo un po’ a comandare. E però il comando ha i suoi pregi e i suoi difetti. Bisogna anche essere pronti ad assumersi l’impopolarità del comando e la responsabilità delle scelte che chi dirige deve fare”. E a una domanda su suo padre – Da  figlia, quelle immagini di Enrico Berlinguer che si sente male sul palco a Padova, riesce a guardarle? - la conduttrice di Cartabianca risponde: “Le ho viste solo due volte in tutta la mia vita, perché davvero non riesco a guardarle. Una nel film di Veltroni “Quando c’era Berlinguer”, e un’altra volta sempre in un’occasione di un lavoro di Veltroni. Però per me ancora oggi sono impossibili da guardare, sono troppo dolorose”. Indomabili, ambiziose, sempre all’attacco e mai gregarie, alle 22.55 le protagoniste di “Belve”’ si riprendono il venerdì sera di Raidue, con la seconda puntata. Il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, con domande dirette e mai cerimoniose, puntano a far emergere forza e fragilità delle protagoniste, parte quindi con due donne dello spettacolo.

·        Bruno Pizzul.

Giorgio Terruzzi per il "Corriere della Sera" il 7 novembre 2021. «Bruno Pizzul: l'uomo più buono del mondo». La definizione è di Beppe Viola, amico e collega alla Rai di Milano. Conferma?

«Detta da Beppe è una frase che mi lusinga. Ma non è questione di bontà, sono solo un uomo tranquillo che cerca di rispettare gli altri». 

Ha compiuto 83 anni l'8 marzo scorso. Nato a Cormòns, Friuli. Calciatore, laureato in giurisprudenza, telecronista dal 1970 al 2002. La sua voce: indimenticabile. In molti avrebbero voluto riascoltarla per la finale dell'Europeo. Ha risposto, no grazie. Nemmeno una esitazione?

«Faccio fatica ad attraversare la strada, figuriamoci andare a Londra. Qualcuno deve aver postato per scherzo la proposta di mandare me a sostituire Alberto Rimedio costretto alla quarantena. In tanti si sono agganciati al messaggio. Incontravo gente che chiedeva cosa facessi a casa, altri che domandavano se fossi contagiato io, altri ancora che volevano biglietti per la finale». 

Però la telecronaca l'ha fatta lo stesso...

«Quel giorno terminava a Cormòns il Giro d'Italia femminile di ciclismo. Il sindaco mi aveva chiesto di partecipare a una serata in omaggio alle atlete. Hanno montato un maxischermo. Ho pronunciato qualche parola per i miei compaesani, gente a cui voglio bene».

Il successo della Nazionale ha scatenato una festa enorme. Si aspettava tanto entusiasmo?

«Mancini ha creato un gruppo che ha riconciliato i tifosi con la squadra azzurra. Giovani che hanno mostrato di stare volentieri assieme. Poi sono arrivati i risultati, dunque una gioia e una spensieratezza ritrovate». 

È tornato a Cormòns da pensionato. Gira in bicicletta, mai presa la patente di guida. Quando tocca usare l'automobile, che succede?

«Guida la Tigre, mia moglie Maria. Che ormai ha anche funzioni di badante, causa anagrafe e pigrizia congenita». 

La Tigre... come nasce il soprannome?

«La moglie di un calciatore della Triestina veniva chiamata così. Quella ragazza mostrava analogie con Maria e adottai il nomignolo. Lei ogni tanto fa qualche smorfia ma si rende conto che il paragone animalesco è assai lusinghiero. La tigre sarà feroce ma è una bestia mobile, bella. Ah, la tigre!». 

Nostalgie milanesi?

«Venni accolto benissimo, in città come alla Rai dove ho lavorato per decenni senza alcuna promozione, cosa che mi rende orgoglioso. La Tigre ed io avevamo in mente di tornare qui, dove vivevano i nostri genitori. È un luogo che contiene molti ricordi, abitato da gente simpatica, con una certa proiezione verso i beveraggi, cosa che non mi dispiace per niente. I dottori mi proibiscono il vino. Beh, proibire.. bere un pochino si può».

A Milano, chi voleva incontrala doveva cercare al bar, sotto casa. Carte, vino, sigarette. E poi?

«I bar erano due. Frequentati da una congrega di calciatori, allenatori, giocatori di scopa e tresette. Cene da Londonio dove si faceva il calciomercato. Con Trapattoni, Radice, Bellugi. Carte e liti furibonde. Fumavo lì perché in casa c'era la Tigre con le sue reprimende. Ho fumato sino a sette anni fa. Mi spiace non aver smesso prima. Ogni volta che incrocio Boninsegna ripete: mi hai affumicato durante le telecronache». 

Incontri con uomini straordinari. Chi c'è nella sua lista?

«Strinsi un rapporto speciale proprio con Viola anche se capì subito che non mi sarei alzato alle 4 del mattino per accompagnarlo a vedere i trottatori sgambare. Poi Gianni Brera, sempre gentile. Con i colleghi si stava bene, sempre insieme. Mi pare che questo sia un po' sparito. 

Anche con i campioni si metteva in comune molto, ora è impossibile. Troppi filtri, liste di attesa per una intervista, complicazioni da diritti tv. Rapporti personali quasi inesistenti. È uno specchio di questo tempo: nervosismi, scarsa capacità di accettare l'altro».

«Si. Non solo tv. Una redazione radiofonica fortissima. In corso Sempione passavano tutti, quelli dei cavalli, attori, calciatori. Con qualche stanza ambita, a cominciare da quella dove albergavano Viola, Carapezzi e Fineschi, stracolma di giornali, tutti di materia ippica». 

Anno 2014. Spot per la Fiat girato in Brasile. Protagonisti Pizzul e Trapattoni. Sembravate i ragazzi irresistibili...

«Un ricordo meraviglioso. A Rio, insieme per dieci giorni. Il Trap: un ragazzino. Conosceva ogni angolo della città, raccontava avventure in continuazione. Un personaggio unico. Non riusciva mai a rispettare il copione ma era efficacissimo». 

Ha giocato a calcio per molti anni. Fermato da un infortunio al ginocchio. Avrebbe voluto fare il calciatore?

«Speravo e sognavo. Poi capii che la mia passione era inversamente proporzionale al talento. Ero riuscito a laurearmi, insegnavo alle medie di Gorizia. La Rai di Trieste organizzò un concorso per programmista. Non si presentò nessuno e mi invitarono a partecipare in quanto giovane laureato. Uno dei membri della commissione era Paolo Valenti: mi aveva visto giocare, mi aveva notato. Per l'altezza, non certo per la bravura. Fu lui a dirottarmi sul concorso per radio-telecronisti. 

Con me c'erano Bruno Vespa, Paolo Frajese. Beh, venni assunto, con mia somma sorpresa. Cominciò così una carriera inaspettata. Le modalità: irripetibili. Quando un giovane mi chiede come fare a diventare telecronista non so che dire. I giovani fanno fatica e sono troppo spesso sfruttati in maniera invereconda». 

Nando Martellini: un maestro o un ingombro?

«Un gentiluomo. Mi accolse. Anche perché non pensavo affatto di poter seguire le sue orme. Incontravo spesso anche Nicolò Carosio. Diceva, con quel suo tono stentoreo: anche se sfortunatamente fossi astemio, fatti sempre vedere con un whisky in mano, così quando pronuncerai qualche stupidaggine potranno dire che avevi bevuto». 

Da telespettatore oggi, chi le piace ascoltare?

«Mi pare ci sia una eccessiva presenza di parole. Venivamo accusati di parlare troppo quando la telecronaca era fatta da una sola persona, oggi sono coinvolti tre o quattro cronisti. Sono tutti bravi, persino troppo. E qualche volta ho la sensazione che sia la televisione a raccontare se stessa più della partita».

Cristiano Ronaldo e Messi oggi. Quali altri campioni l'hanno entusiasmata?

«Insomma, Rivera è stato Rivera. Molti altri per la capacità di condividere le nostre vite». 

Con la Nazionale dal 1986 al 2002. Il cittì più amato?

«Ero amico di Azeglio Vicini sin da ragazzo. Con Bearzot ho avuto un rapporto particolare. Era friulano pure lui, parlavamo nel nostro dialetto, seduti fianco a fianco. La cosa generò sospetti e invidie perché molti colleghi credevano che Enzo stesse confidandomi chissà quali segreti tattici. In realtà parlavamo delle vendemmie. Lo stesso con Dino Zoff. Cominciammo a giocare assieme». 

Quella notte tremenda dell'Heysel, 29 maggio 1985. È un dolore che ritorna?

«Il più angoscioso. Per la mia coscienza di uomo. Non è possibile andare a fare la telecronaca e dover parlare di 39 morti. È una memoria che talvolta vorrei cancellare ma non si può scordare ciò che dovrebbe portarci verso comportamenti più sereni e meno delittuosi».

Giulio Onesti, leggendario presidente del Coni definiva i presidenti di calcio «i ricchi scemi». Ha incontrato qualche ricco intelligente?

«Furbi o furbastri come Giussy Farina, capace di mettere nel sacco parecchia gente anche a Milano. Un genio perverso. Con Saverio Garonzi, presidente del Verona formava una coppia in perenne antagonismo. Garonzi venne rapito. Lo liberarono e disse: "Avrei voluto vedere Farina al mio posto"». 

Tre figli, Fabio, Silvia e Anna. E molti nipoti. Quanti?

«Undici. Una vera squadra. Fabio è consigliere regionale, mi pare riesca a conservare una bella integrità pur frequentando il mondo della politica. Silvia insegna matematica e scienze a Milano, Carla è assistente sociale, accoglie nella sua famiglia, da anni, ragazzi che hanno necessità di una casa, di un sostegno. È ammirevole, sempre sorridente. Molti di questi ragazzi, una volta raggiunta la maggiore età, vanno per la loro strada. Talvolta ne incontro qualcuno, mi saluta: ciao nonno! Ne vado orgoglioso. Così, se agli undici nipoti aggiungiamo i nipoti acquisiti, abbiamo una squadra completa di riserve». 

Un momento di felicità che vorrebbe rivivere ora?

«Ogni volta che è venuto al mondo uno dei miei figli ho provato una felicità profonda. Ricordo l'emozione quando lessi il telegramma della Rai che annunciava la mia assunzione e il Mondiale messicano del 1970, convocato per la prima volta come telecronista. Commentai Inghilterra-Germania, la rivincita della finale di quattro anni prima. Ogni frammento di quella partita resta scolpito nella mia memoria. Comunque, devo dirle una cosa. Quando sento che qualcuno si interessa a me, alle mie esperienze, resto sempre un po' perplesso. Il motivo è semplice: mi compiaccio di non essere mai riuscito a prendermi troppo sul serio».

Alessandro Rico per “La Verità” l'11 ottobre 2021. È stato la voce della nostra passione azzurra. Bruno Pizzul, 83 anni, oggi vive a Cormòns, borgo di 7.000 abitanti in provincia di Gorizia. «Il mio eremo paesano», lo chiama. E lo racconta con la stessa poesia con cui impreziosiva le telecronache della Nazionale: «È una zona ad alta vocazione enoica, da sempre ha prodotto grandi vini». Nello spot che ha girato per Dazn, lo vediamo giocare a carte al bar con gli amici: «Vivo con ritmi tranquilli, coltivo antiche abitudini. Certo, qui è in voga la merendina, la bicchierata, ma gli acciacchi dell'età mi impediscono di partecipare in maniera vigorosa a questi simposi».

In Nations league ci siamo dovuti accontentare del terzo posto. Ma lei, di partite sfortunate dell'Italia, ne sa qualcosa. Quale sconfitta le è pesata di più: la semifinale di Italia 90, persa ai rigori con l'Argentina; la finale di Usa 94, che il Brasile ci soffiò dagli undici metri; o la finale di Euro 2000, sfumata praticamente all'ultimo minuto?

«Direi la semifinale di Italia 90. In quel Mondiale la nostra Nazionale aveva espresso il miglior calcio. E fu eliminata per una serie di circostanze assolutamente fortuite». 

Ma la partita più «infame» fu l'ottavo con la Corea del Sud, nel 2002, con l'arbitro Byron Moreno.

«Però giocammo male. Ricordo ancora l'errore clamoroso di Bobo Vieri, all'ultimo secondo, a porta sguarnita: buttò fuori un pallone che sembrava più facile da infilare che da sbagliare. Se avesse segnato, di Moreno, che pure ne aveva combinata una per colore, non avrebbe parlato nessuno». 

E la finale dell'Heysel, nel 1985?

«È rimasta dentro di me come una ferita, qualcosa di inaccettabile dal punto di vista etico: essere costretto a raccontare di 39 morti per una partita di pallone è umanamente intollerabile».

Su Youtube c'è un video di lei che, a Cormòns, declama le formazioni di Italia e Inghilterra prima della finale di Euro 2020. Le è dispiaciuto non aver mai commentato un trionfo azzurro?

«Avrei più che volentieri urlato che avevamo vinto un Mondiale o un Europeo. Però vorrei tranquillizzare chi si preoccupa per questa mia carenza: non ho perso nessuna nottata di sonno». 

Quando si arriva a una finale, si preparano prima le frasi da dire in caso di vittoria o di sconfitta?

«No, io non l'ho mai fatto. Ritengo che l'espressione migliore dello sport sia la trasmissione di emozioni. E l'emozione non può essere prefigurata. Bisogna ubbidire all'istinto del momento».

Che ne pensa delle telecronache di oggi?

«Risentono dei grandi cambiamenti intervenuti nel linguaggio per immagini». 

Che intende?

«Un tempo le riprese venivano fatte con due telecamere dall'alto. Si seguiva lo sviluppo della coralità della manovra». 

E ora?

«I registi hanno a disposizione un numero molto maggiore di telecamere. Ed essendo di formazione cinematografica, hanno la tendenza a confezionare una good television».

Quindi?

«Le immagini sono molto frammentate e, necessariamente, la cronaca deve rispettare questo ritmo incalzante. Qualche volta si ha la sensazione che il commento, con questa ridondanza di immagini e parole, diventi più importante di ciò che racconta. La cornice è preminente rispetto al quadro. E l'alluvione di parole può sembrare eccessiva». 

C'è un epigono che ammira?

«Li ammiro tutti. Sono preparatissimi, quasi in maniera imbarazzante. Io sono sempre stato afflitto da tratti di pigrizia notevoli e da una certa presunzione, per cui non è che mi preparassi tanto. Questi qua sanno tutto». 

Sciorinano statistiche e informazioni sovrabbondanti, no?

«Eh sì C'è il rischio che si finisca a parlare, anziché di Rivera, della zia di Rivera». 

La Fifa vorrebbe far disputare il Mondiale ogni due anni. Il sindacato dei calciatori è contrario.

«Le cadenze quadriennali, inframezzate poi dai campionati continentali, sono un format già convincente. Si cerca in tutti i modi di reperire fonti di sovvenzionamento attraverso i diritti tv, ma non credo che sentiamo il bisogno di un ulteriore affollamento d'impegni internazionali». 

La Nations league le garba?

«È qualcosa di abbastanza raccogliticcio. Non è che abbia inciso molto sulla fantasia della gente».

È stato già deciso l'allargamento del campionato del mondo da 32 a 48 squadre, a partire dal 2026. Va bene offrire chance alle Nazionali minori, ma non si esagera?

«Ma sì, dai C'è il rischio che ci siano partite assolutamente inutili. E soprattutto, c'è un impatto tra realtà calcistiche che hanno una dimensione, una storia e delle potenzialità troppo diverse». 

Un'altra ipotesi è quella di introdurre il tempo effettivo di gioco: due frazioni da 30 minuti, con il cronometro che si ferma a ogni interruzione.

«È un'ipotesi accarezzata da tantissimo tempo. Non riesco a capire per quale motivo la regola non sia già stata adottata».

Si eviterebbero sceneggiate nei minuti finali delle partite, tra calciatori che stramazzano al suolo e calci di rinvio lunghi un minuto

«Ma anche interpretazioni troppo personali da parte dei direttori di gara: c'è chi dà sette minuti di recupero, chi molto meno». 

E le sostituzioni illimitate?

«È chiaro che già con cinque sostituzioni, la regola dell'era Covid, le partite possono essere davvero cambiate. E se si va verso un ulteriore rigonfiamento degli impegni, si dovrebbero consacrare definitivamente i cinque cambi. Ma a tal proposito, sono abbastanza scettico. C'è però un'altra ipotesi al vaglio della Fifa, che trovo condivisibile». 

Quale?

«La possibilità di interpretare in maniera diversa l'uso del Var per il fuorigioco». 

Cioè?

«Si dice che il Var abbia portato certezze assolute, ma alcune decisioni sono aberranti». 

A che pensa?

«Gol annullati per un'unghia di un piede al di là del difensore». 

E cosa si può fare?

«Introdurre il cosiddetto "spazio fra i giocatori"». 

Sarebbe?

«Un calciatore verrebbe considerato in fuorigioco solo quando c'è una luce tra l'attaccante e l'ultimo difensore. Certo, anche lì, poi, basterebbe un tacchetto al di là del nuovo limite individuato...». 

Quali partite le è piaciuto di più commentare?

«Sorprendentemente, alcune di quelle che ho seguito prima di diventare telecronista della Nazionale. Per chi ama il calcio, non c'è paragone tra un Italia-Lussemburgo e un Germania-Inghilterra». 

C'è un match che ricorda con più soddisfazione?

«Ricordo con molto piacere l'eccezionale avventura di Messico 70. Se me l'avessero detto qualche mese prima, non ci avrei creduto». 

Perché?

«Entrai in Rai senza alcuna vocazione, avendo partecipato quasi per caso a un concorso. E appena assunto, venni subito spedito lì a fare il quarto telecronista. La partita più bella fu proprio il quarto di finale tra Germania-Inghilterra».

Come andò?

«Era la rivincita della finale del 1966, quella del famoso "gol non gol". Il match fu emozionante: l'Inghilterra conduceva per 2-0 fino a dieci minuti dalla fine. Poi i tedeschi pareggiarono e vinsero ai supplementari, in condizioni ambientali terribili: si giocava a mezzogiorno, con un caldo feroce». 

Meglio il calcio di ieri o quello di oggi?

«Nel calcio moderno, anche per la crescente incidenza del dio denaro, si è venuta perdendo molta della patina di romanticismo che accompagnava quello di un tempo, con i giocatori bandiera e l'attaccamento alla maglia. Certi calciatori sono diventati agenzie d'affari». 

Anche seguirlo, il calcio, è diventato difficile. Quanti fastidi per i problemi di Dazn

«Mi pare che Dazn abbia rimediato, ma l'apparato attraverso il quale si vuole proporre in maniera così esaustiva tutto il calcio, in tutte le salse, ha le sue controindicazioni. E i mezzi tecnologici non sempre funzionano alla perfezione».

E poi c'è lo spezzatino: di orari e di piattaforme. Ne servono tre.

«Sì, la cosa suscita qualche perplessità». 

È l'anno del Napoli?

«Sta facendo benissimo, anche se vive molto sulle individualità, peraltro di altissimo livello. Luciano Spalletti è un comunicatore del tutto particolare e il momento è di grande fulgore. Con l'Inter, il Napoli è, allo stato attuale, la squadra che gode di maggior credito». 

La Juve uscirà dalla crisi?

«Già nel corso di questa stagione arriverà a un rendimento adeguato alle sue aspirazioni. Certo, il ritardo in classifica è cospicuo. Ma si va profilando un campionato in cui si riaffaccia la competizione tra le "sette sorelle", che finiranno per rubarsi punti a vicenda. E ciò rende la Serie A molto interessante».

Il giocatore azzurro più forte?

«Anche se non sempre ha azzeccato le prestazioni, Federico Chiesa dà l'impressione di avere un cambio di passo e di velocità che manca ai suoi compagni». 

Per chi tiene, in politica?

«Ho un figlio impegnato (è consigliere regionale dem in Lombardia, ndr). Io sono di estrazione cattolica, ma di idee progressiste». 

Tifa per il Torino?

«Sì. Da queste parti, era facile ammirare il Grande Toro. Ma io e i miei coetanei diventammo tifosi del Torino per un altro motivo». 

Quale?

«Nell'immediato dopoguerra, qui la situazione era durissima: non si sapeva se saremmo rimasti con l'Italia o se saremmo finiti con la Jugoslavia. Non avevamo nulla». 

Drammatico.

«Miracolosamente, però, il prete del paese riuscì a trovare un pallone, che usava per chiamarci a raccolta in parrocchia. Solo che ne lasciava la gestione a noi ragazzi...». 

E allora?

«Quelli più grandi di noi se ne impadronivano, non ce lo facevano mai toccare. Erano tutti tifosi della Juventus. Per reazione, ci mettemmo a tifare Torino».

Dagospia il 10 giugno 2021. Da "i Lunatici - Radio 2". Bruno Pizzul è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dalla mezzanotte alle sei del lunedì al venerdì notte e in diretta anche su Rai2 tra la mezzanotte e trenta e le due circa.

Lo storico commentatore Rai ha parlato un po' di se: "Gli europei? Il momento del calcio italiano è particolare, ma vale per tutta l'umanità. E' un momento difficile ma anche ricco di promesse. La Nazionale è bene indirizzata verso un comportamento accettabile, Mancini ha fatto un buon lavoro, la squadra gode di simpatia generale, Mancini dispone bene la squadra in campo, ha riaperto alle convocazioni per i giovani, i risultati da cui arriviamo sono buoni, ma arriviamo da partite con avversari di caratura inferiore. Ora che arrivano gli impegni importanti vedremo davvero quanto valiamo. Abbiamo il giusto timore e il giusto rispetto anche per la Turchia. Consideriamo i turchi con il giusto rispetto e la giusta considerazione. Il calcio turco ha fatto notevoli progressi".

Sulla pandemia e il calcio: "Il covid ha rischiato di allontanare i tifosi dal calcio. Un conto è verificare la propria passione andando allo stadio e incoraggiandola o fischiandola, un conto è guardare la tv. Il contatto diretto per i tifosi è importante. C'è qualche segnale che indica che soprattutto tra i giovani sta nascendo un po' di disinteresse". Sulla sua passione per il calcio: "Io ho fatto il calciatore, ma è un periodo della mia vita che non ricordo con particolare orgoglio. La passione era inversamente proporzionale al talento. Ho vissuto il mondo del calcio all'interno, ma ho avuto una parabola analoga a tanti altri ragazzi della mia età. Prima di iniziare con le telecronache ho anche insegnato alle scuole medie. Giocando a calcio ero comunque riuscito a laurearmi, poi ho sostenuto l'esame per l'insegnamento e ho insegnato per tre anni alle scuole medie di Gorizia. Ho fatto il professore per tre anni prima di essere assunto alla Rai per aver partecipato a un concorso quasi controvoglia. Quando insegnavo a scuola avevo grandi soddisfazioni, avevo la sensazione di formare ragazzi in un periodo della loro vita fondamentale per la creazione del carattere. E' un periodo della mia vita che ricordo con tanta nostalgia. Facevo l'appello come se fosse la formazione della nazionale".

Sull'ingresso in Rai: "Feci un concorso, sia scritto che orale. Un membro della commissione era Paolo Valenti, che era venuto a sapere della mia predilezione di carattere sportivo e disse anche di avermi visto giocare in una partita tra Lazio e Catania allo stadio Flaminio. Mi aveva notato per l'altezza. Mi avvertì che c'era un concorso per radio-telecronisti. Feci un paio di colloqui e alla fine venni preso. Insieme a me c'era tra gli altri Bruno Vespa. Alla fine venni assunto, mi trovai a fare un tipo di lavoro per il quale non avevo mai avuto alcuna ambizione. Anzi avevo scarsa simpatia nei confronti dei giornalisti sportivi, perché quando scrivevano delle mie prestazioni sportive erano sempre molto duro. Il mio esordio in Rai non fu molto lusinghiero. Arrivai con un quarto d'ora di ritardo. La mia prima telecronaca fu caratterizzata da questo buco iniziale che fortunatamente ebbi modo di colmare perché le partite andavano in onda in differita".

Sul suo stile da telecronista: "E' sempre stato così, io sono assolutamente convinto che ciascuno deve mantenere la propria personalità, non può cercare di imitare qualcun altro, perché si capisce immediatamente. Naturalmente è implicito nel tipo di lavoro cercare di affinarsi un po' alla volta. Comunque ci fecero un mazzo tanto sulla dizione, sul linguaggio, sull'articolazione dell’espressione. In tanti hanno provato ad imitarmi, ma quelli che mi hanno consultato hanno sempre ricevuto da me il consiglio di restare se stessi".

Ancora Pizzul: "In passato si poteva diventare amici dei calciatori. Ho giocato a carte o a biliardo con Facchetti, Donadoni, Rivera, Zoff, Lentini, Causio. C'era un rapporto di amicizia e di frequentazione che si estendeva anche al di là del momento in cui ci si incontrava per lavoro. Erano frequentissime le cene insieme, le frequentazioni. Oggi invece ci si parla solo attraverso i social ed il modo di parlarsi così non è sempre edificante. Ormai il calcio è cadenzato sul denaro".

Sulle partite della Nazionale: "Quelle che ho raccontato e a cui sono emozionato? Tantissime! Anche quelle terminate in maniera amara. Tantissimi sono preoccupati perché non sono mai riuscito a urlare 'Campioni del mondo'. E' vero che mi è spiaciuto, ma non ci ho perso il sonno. Soprattutto a Italia 90 si sono verificate delle situazioni che mi hanno reso quella mancata vittoria situazioni difficili da digerire. Lì abbiamo mancato la vittoria per una serie di circostanze particolarmente sfortunate. Siamo andati più vicini a vincere nel 90 che nel 94 paradossalmente". 

Sulle fans innamorate della sua voce: "Se mi è mai capitato? Sì vabè dai, stuzzica un pochino la vanagloria personale ma rientra nell'ordine naturale delle cose". 

Sul prossimo campionato: "Sono cambiate molte panchine. Tornano in Italia Mourinho, Allegri, Sarri, tanti personaggi attesi al loro nuovo impegno e compito con grande curiosità".

·        Bruno Vespa.

Massimo Falcioni per tvblog.it il 20 giugno 2021. Ti accorgi che sta per arrivare il Natale quando in tv Bruno Vespa comincia ad apparire in ogni trasmissione, ad ogni ora del giorno e della notte. Come da tradizione, il giornalista abruzzese è in tour per la promozione del suo libro, “Perché Mussolini rovinò l’Italia (e perché Draghi la sta risanando)”. L’ultimo atto – forse – di una trilogia inaugurata due anni fa, quando ancora il covid non aveva stravolto la nostra quotidianità. Si cominciò nel 2019 con “Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare)”. Argomento azzeccatissimo in una fase storica in cui la destra sovranista era in ascesa, le ‘sardine’ scendevano in piazza per ribellarsi alla possibilità che la Lega conquistasse l’Emilia Romagna e il pericolo fascismo veniva puntualmente evocato. Poi è arrivato il virus e pure Vespa si è dovuto adeguare. “Perché l’Italia amò Mussolini” si munì pertanto di sottotitolo evocativo (“e come è sopravvissuta alla dittatura del covid”), che permise all’autore di far entrare in scena il “signor covid”, una sorta di dittatore dei giorni nostri. Oggi, che il covid tiene ancora banco, il contenuto tra parentesi risulta ugualmente decisivo, con Vespa che sfrutta i capitoli dedicati a Mario Draghi per restare agganciato al presente ed avere maggiore opportunità di manovra nei talk. Il conteggio delle ospitate parte il 9 novembre con la partecipazione a Di Martedì, per proseguire il 12 a Stasera Italia, il 15 a Quarta Repubblica e il 16 a Cartabianca. Mercoledì 17 novembre trasferta a L’Aria che tira, il 18 a Oggi è un altro giorno. La notte del 20 è il turno di Sottovoce, alla corte di Gigi Mazullo. Nello stesso giorno Vespa è anche a Tv Talk, mentre il 24 novembre è la volta di Accordi e Disaccordi, sul Nove. Il 25 timbra il cartellino sia a Storie Italiane che a Quelli che… (dentro al servizio di Enrico Lucci), il 28 invece è tripletta: Da noi a ruota libera, In Onda e Controcorrente. Lunedì 29 Antonella Clerici lo accoglie a E’ sempre mezzogiorno, il 30 Tiziana Panella gli apre le porte di Tagadà. Vespa riprende il fiato per quarantotto ore e il 2 dicembre è nuovamente in pista a Dritto e rovescio. Il 5, accompagnato dalla cagnetta Zoe, si concede a Dalla parte degli animali. Il giorno dell’Immacolata prima gioca ai Soliti ignoti, in seguito sbarca a Non è l’Arena, regalando agli spettatori una manciata di minuti di ubiquità. Il 9 dicembre sveglia presto per il collegamento con Agorà e appuntamento a Quante Storie. Sabato 11 dicembre il libro sul Duce viene rapidamente illustrato all’interno di Ballando con le stelle, con la regia che – casualmente – non stacca mai su Alessandra Mussolini, opinionista dello show. Il 14 spazio a Omnibus e al bis da Floris, il 15 impegno a I Fatti Vostri, Tg2 Post e Zona Bianca, il 16 capatina a Mattino 5 News, il 17 intervento a Coffee Break e sabato 18 al Caffè di Raiuno. In quaranta giorni ben trentuno promozioni, con la clamorosa occupazione televisiva che non tiene conto delle diciotto puntate di Porta a Porta andate in onda nel lasso di tempo osservato, della conduzione della Prima alla Scala con Milly Carlucci e delle interviste rilasciate nei tg e nelle varie radio che spesso godono di un canale dedicato sul digitale terrestre. Vespa si conferma una macchina da guerra. Offre spunti, pone riflessioni, genera dibattito e va allo scontro con i no-vax, regalandosi un lato inedito improponibile per ovvi motivi a Porta a Porta. Resta tuttavia la percezione di un inevitabile déjà vu.

Stefano Lorenzetto per L'Arena l'1 maggio 2021. Si schermisce: «Non mi faccia passare per il Pippo Baudo del giornalismo». Eppure ha introdotto nel panorama dell’informazione una figura che prima non esisteva, quella del quirinalista, tant’è che lo Zingarelli fissa al 1991 la datazione di questo vocabolo. Marzio Breda è da 30 anni l’ombra del presidente della Repubblica. Cominciò sul Corriere della Sera con Francesco Cossiga. Da allora sono subentrati altri quattro capi dello Stato (Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella), ma lui è sempre rimasto sul Colle, nel palazzo dove fino a Pio IX abitarono 23 papi, la reggia più sfarzosa d’Europa, come scrisse ne La guerra del Quirinale (Garzanti): «Ha oltre 2.000 stanze e tre chiese». Il Corriere ha confermato Breda nell’incarico di quirinalista persino dopo averlo collocato in pensione nel 2016. È ritenuto inamovibile quanto l’istituzione che racconta. Nel frattempo ha visto aggiungersi una pattuglia di colleghi della Rai, delle agenzie di stampa e dei quotidiani, 25 in tutto, accreditati a svolgere il suo stesso lavoro. Breda è nato a Conegliano il 15 luglio 1951. Abita a Verona da mezzo secolo, da quando il padre Romano fu nominato direttore per città e provincia della Banca Cattolica del Veneto, dopo che aveva diretto le filiali di Vazzola, San Bonifacio, Legnago, Portogruaro e Venezia. È cresciuto a Palazzo Mosconi, in Corte Farina, dove c’era la sede dell’istituto di credito. Lì sua madre Mariangela preparò la cena per Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, il quale con la benedizione dello Ior aveva da poco messo le mani sulla cassaforte dei cattolici nordestini. «Allora non si sapeva che dietro di lui ci fosse la P2. Voleva cooptare mio padre nella direzione generale. Ne ignorava il passato. Quand’era in Marina, papà fu fatto prigioniero dai tedeschi l’8 settembre 1943 e deportato in un lager in Germania. Riuscì a evadere, tornò in Veneto e si unì alla Resistenza con i partigiani cattolici della brigata Piave». Trascorsi pochi mesi dall’incontro con Calvi, Romano Breda rassegnò le dimissioni, nonostante avesse appena 55 anni e quattro figli a carico. Ai familiari disse solo: «Quei mascalzoni avrebbero preteso che imbrogliassi i clienti con gli investimenti in Borsa». Anche a Cristina Rubinelli, detta Titti, nipote dell’ingegnere che progettò la diga del Chievo, sposata dal 1978 con Marzio Breda, per lunghi anni docente di lettere al liceo Messedaglia e ottima cuoca, è capitato di dover improvvisare qualche ricevimento inatteso, con l’aiuto della signora Irma, scesa da Montecchia di Crosara a farle da spalla ai fornelli. È accaduto con i presidenti Cossiga e Scalfaro, quest’ultimo accompagnato dalla figlia Marianna, che le si presentarono nella casa di via Ponte Rofiolo, dove a quel tempo la coppia abitava con i figli Alvise e Giuseppe. Gli illustri ospiti trovarono un menu all’altezza delle tradizioni quirinalizie: ravioli di spinaci, arrosto al marsala con patate, fondi di carciofo e piselli, bavarese con frutti di bosco e torta di mele. Suggellato da Amarone e Recioto.

Come arrivò al giornalismo?

Conoscevo Nin Guarienti dell’Arena. Nel 1973 cominciò a pubblicarmi qualche intervista. La prima fu con il poeta Diego Valeri. Poi vennero quelle con Emilio Vedova, Fulvio Roiter e Andrea Zanzotto, con il quale il rapporto è continuato fino alla morte. Abbiamo scritto a quattro mani In questo progresso scorsoio per Garzanti, che è un po’ il suo testamento civile.

È partito puntando in alto.

Esco dal liceo Cavanis di Venezia, vicino alle Zattere, dove passeggiava Ezra Pound, l’Omero del Novecento. Mi autografò una copia dei Canti pisani. Un’altra volta lo incrociai in una calle e gli chiesi: «Come va, maestro?». Rispose: «La morte mi corre dietro, ma io non le do confidenza».

Grande.

Sono rimasto in contatto con la figlia Mary de Rachewiltz, che vive in Alto Adige. Volevo laurearmi in lettere moderne, ma mio padre mi dirottò nello studio dell’avvocato Eugenio Caponi, che mi convinse a scegliere giurisprudenza. Alla fine ho svoltato: scienze politiche. Credevo che il giornalismo fosse elzeviri e svolazzi.

Quando capì che non lo era?

La sera del terremoto in Friuli, 6 maggio 1976. Ero nella nostra casa di campagna a Refrontolo, 70 chilometri in linea d’aria. Telefonai a Gilberto Formenti, direttore dell’Arena, offrendomi come volontario. «Corra, e ci detti qualcosa prima di mezzanotte», rispose. Manco mi conosceva. Pubblicò il mio pezzo da Osoppo. Lì capii che il giornalismo non è pettinare gli articoli ma andare sui fatti. Decisi che sarebbe stato il mio mestiere.

Fu assunto?

Magari. Nemmeno mi pagavano. Solo quando me ne andai, il caporedattore Jean Pierre Jouvet mi fece liquidare l’elenco di tutte le collaborazioni.

E dove andò?

Da Gino Colombo, il direttore veronese che stava per aprire L’Eco di Padova, edito da Angelo Rizzoli. Mi assunse all’istante in cronaca. Palestra straordinaria: terrorismo, attentati, ferimenti, Toni Negri, processo 7 aprile.

Ma dopo tre anni L’Eco chiuse.

Non per mancanza di lettori. Davamo fastidio a Carlo Caracciolo e Giorgio Mondadori, che avevano lanciato Il Mattino di Padova. La nostra chiusura fu barattata con l’apertura dell’Occhio di Maurizio Costanzo: gli editori accettarono che fosse venduto a un prezzo inferiore a quello amministrato stabilito per i tutti quotidiani dell’epoca. La copia dell’accordo fu trovata fra le carte di Licio Gelli a Villa Wanda.

E lei che fece?

Mi fu offerto di traslocare a Oggi. Invece mi ritrovai parcheggiato al Corriere Medico. Walter Tobagi parlò di me a Franco Di Bella, direttore del Corriere della Sera. Era il 1980. Mi prese per la redazione interni, allora alloggiata nella Sala Albertini. Dall’altra parte del tavolone c’era la redazione politica, guidata da Carlo Galimberti, che aveva come vice Vittorio Feltri. Al quale, nel fare un titolo, chiedevo: «Dammi un sinonimo di comunisti». E lui: «Assassini!».

Riconosco in pieno l’uomo.

Un giorno Roberto Martinelli e Antonio Padellaro ci spedirono da Roma la lista degli iscritti alla loggia P2. Fui incaricato di passarla in tipografia. C’erano dentro tutti: Angelo Rizzoli, Silvio Berlusconi, lo stesso Di Bella. A ogni nome mi rivolgevo al capo: che faccio? «Va’ a chiederlo al direttore». E questi: «Apri parentesi e scrivi: “Ha smentito”».

Di Bella dovette dimettersi.

Aveva un tumore. Era una pasta d’uomo. Gli subentrò Alberto Cavallari. Fu Pertini a imporlo. Ho trovato la conferma nell’archivio storico del Quirinale, che custodisce le agende dei presidenti. Cavallari, lunatico e ombrosissimo, sciolse la redazione politica, ritenendola a torto inquinata dalla P2. Ci trovammo in due, io e Andrea Bonanni, a gestire da soli le pagine del Palazzo.

Cavallari la stimava.

Per tre anni ho pranzato e cenato con lui, spesso con amici come Leonardo Sciascia, Goffredo Parise e Claudio Magris, che insieme a Zanzotto considero i miei maestri. Sono stato l’unico che è andato a trovarlo fino al giorno della morte.

Come diventò quirinalista?

Nell’estate 1990, reduce dal Giro d’Italia, Ugo Stille e il suo vice Giulio Anselmi mi ordinarono di seguire Cossiga in vacanza. Il direttore era stato a cena da lui e lo aveva trovato sovreccitato. Non lo mollai per 40 giorni filati. A Courmayeur annunciò: «Voglio dare la grazia al dottor Renato Curcio». Il fondatore delle Brigate rosse perdonato? Una bomba. Kossiga, come lo chiamavano gli estremisti, aveva deciso di chiudere i conti con il passato. Lo inseguii con altri giornalisti fino in Cansiglio. Lì nell’ultimo giorno di ferie sbottò: «Vi nomino tutti cavalieri». Notò il mio stupore: «Ma come, Breda, non le va bene?». E io, con una battuta scema: mi sarei aspettato almeno prefetto. Lui: «D’accordo. Prefetto di Reggio Calabria». Io: eh no, o Venezia o niente. «Allora niente». Continuai a corrergli appresso con i neocavalieri. Più di 30 voli all’estero in pochi mesi. I colleghi ci ribattezzarono Feccia alata, su imitazione del club Freccia alata di Alitalia. Cossiga mi svegliava in hotel alle 6 perché scendessi a fare colazione con lui.

Si fingeva matto o lo era?

Per me fu il profeta della catastrofe. Come dice Bernardo Valli, il più grande inviato, il giornalismo è la verità del momento. Mentre lo pratichi, non sai di scrivere la storia. Cossiga avvertì, inascoltato, che il sistema dei partiti stava per crollare, così com’era appena caduto il Muro di Berlino. Lucidissimo, nonostante un disturbo bipolare che non nascose mai, faceva il pazzo, e non lo era, per poter dire la verità. Lo seguiva lo psichiatra Giovanni Battista Cassano, lo stesso che curava la depressione di Indro Montanelli.

Con Scalfaro si tornò nei ranghi.

Fu l’ultimo dinosauro della Dc, al potere mentre Tangentopoli faceva tabula rasa di tutti i partiti. Si trovò a duellare con Berlusconi, che per lui era un marziano. Il suo portavoce Tanino Scelba, nipote dell’ex premier Mario Scelba, chiese due volte per iscritto al Corriere la mia rimozione. Poi, anche grazie alla figlia Marianna, con Scalfaro instaurai un buon rapporto. Una sera alle 22, a fine dicembre, mi cercò al telefono: «Questo governo mi tratta come un cameriere. Mi ha mandato la legge finanziaria un’ora fa, mi costringe a firmarla senza darmi neppure il tempo di leggerla». Capii che mi parlava di Berlusconi affinché lo scrivessi, cosa che feci. Era molto diverso da come lo avevo immaginato.

Lo riteneva un vecchio parroco?

Già. Invece era ironico, curioso, buongustaio. I miei colleghi lo descrivevano intento a sorbire il brodino serale. Macché minestrina! Metteva il peperoncino su ogni pietanza, intonava canzoni napoletane, suonava il pianoforte.

Tramò o no contro Berlusconi?

Ne registrò con gioia la caduta. L’artefice del complotto fu Umberto Bossi: Forza Italia gli stava portando via un mucchio di parlamentari. Certo, Scalfaro e Bossi si trovarono in perfetta sintonia. Nella sua casa di Gemonio il Senatùr teneva appesa al muro una foto con dedica del presidente. Per un cattolico d’altri tempi, qual era Scalfaro, abituato ad andare segretamente in ritiro spirituale ad Assisi ogni mese, il Cavaliere rappresentava le ballerine che sculettavano in tv, la corruzione dei costumi.

Di Ciampi che mi dice?

L’ho molto amato. Mi ricordava mio padre, anche per via dei trascorsi in Bankitalia. Fu il defibrillatore istituzionale che cercò di dare un accettabile assestamento al bipolarismo che intanto si era affermato. Ha rinverdito il patriottismo, ha restituito l’autostima agli italiani. Appena eletto, disse ai suoi consiglieri: «Badate, voglio pesare le parole come se fossero grammi d’oro». E così fu.

Poi venne il doppio mandato di Napolitano.

Un aristocratico. Fin da ragazzo si autodefiniva «atarassico» per la capacità di dominare le passioni. S’impose d’imparare l’inglese a 50 anni e ci riuscì. S’era dato l’impegno di favorire, attraverso le riforme, il traghettamento verso una democrazia più matura, diciamo pure meno barbarica. Tentativo fallito, anche se lo aveva posto come condizione per la sua rielezione.

Con Mattarella come va?

Per indole è il meno loquace dei presidenti. Insegue l’idea di Stato-comunità che fu cara ad Aldo Moro, maestro politico del fratello Piersanti, assassinato dalla mafia, e anche suo. È un mediatore paziente, ma nei momenti critici sa imporsi. La sua forza risiede nella mitezza, la trasmette con lo sguardo.

Per Dagospia è «la mummia sicula». Un nomignolo azzeccato?

In visita a Zagabria, fu avvicinato da una scolaresca di Messina. Più tardi, lo provocai: presidente, voi siciliani dite che quella è la provincia babba, cioè talmente arretrata che lì non hanno neppure la mafia. Rispose in latino, una sola parola: «Olim». Un tempo.

Chi dopo di lui?

Nei miei sogni c’è Mario Draghi. Ma il Quirinale è il baricentro del potere. I partiti non lo lasceranno a chi non sia dei loro. Salterà fuori uno sconosciuto di secondo piano.

Romano Prodi è un papabile?

Dopo le due bastonate che ha preso? Sarebbe una follia. È percepito come divisivo.

Si parla di Walter Veltroni.

Ha lasciato la politica. È un nome spendibile.

Berlusconi si vede già lassù.

Non ha più il fisico, mi pare.

Rieleggeranno Mattarella.

Lo ha escluso già due volte. Però se glielo chiedessero in coro, non si tirerebbe indietro.

C’è mai stato un veronese che sarebbe potuto diventare presidente?

Per caratura e reputazione, solo il dc Guido Gonella.

Che cosa pensa della politica?

Tutto il male possibile.

Ma un quirinalista non stacca mai?

Mai. Al momento di andare in pensione avevo 390 giorni di ferie non godute e 100 di riposi settimanali arretrati.

Perché chiamava «parón» il corrierista Giulio Nascimbeni?

C’entra un aneddoto. Adriana Mulassano, che con Giulia Borgese in quegli anni era l’unica donna assunta in via Solferino, un giorno cercò il giornalista veronese nella sua casa di Sanguinetto. Rispose al telefono l’anziana domestica: «El parón no’l ghe. L’è a l’ostarìa». Era un uomo di grande cultura e di grande semplicità. Gli volevo un bene dell’anima.

Per quanti anni ancora conta di restare quirinalista?

Fino a quando mi terranno. In passato La Repubblica voleva assumermi. E Luigi Righetti, presidente dell’Arena, 20 anni fa mi propose di diventare direttore. Rifiutai. È difficilissimo lasciare il Corriere. È una bandiera. Gli devo tutto ciò che sono.

Da corriere.it il 16 agosto 2021. Il primo applauso del pubblico lo strappa con un appassionato appello a vaccinarsi. «Sono profondamente dispiaciuto che ci siano milioni di italiani sopra i cinquant’anni che non si sono ancora vaccinati. Abbiamo storie di persone che non si vaccinano e che sul letto di morte si pentono di non essersi vaccinate: è assurdo, incredibile». È solo l’inizio: Bruno Vespa a Cortina d’Ampezzo, a Una Montagna di Libri, non esita a dire la propria di fronte alle trecento persone venute ad ascoltarlo, per la presentazione del suo ultimo libro.

Vespa: «Dai No Vax ho ricevuto decine di denunce». Che ne pensa, gli chiede Alessandro Russello, direttore del Corriere del Veneto, di Cacciari e Agamben che paventano il rischio di una dittatura connessa alla pandemia? «Un uomo intelligente come Cacciari parla di libertà e dittature in questi termini? Dico che non esiste solo la libertà mia: la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri. Ho il green pass, ce l’ho anche in cartaceo, lo tengo nel portafoglio: fa parte della mia vita ed è la cosa più normale del mondo. Ieri sera l’ho mostrato al ristorante, è stata una procedura semplicissima, risparmiateci la storia dei controlli faticosi per i gestori. Poi certo, non esiste un farmaco totalmente innocuo, con Astrazeneca si è fatto un grande pasticcio, sono stati commessi errori che hanno confuso l’opinione pubblica. Ma ora i vaccini che ci sono sul mercato sono sicuri. Guardiamo ai grandi numeri. Mi farò sicuramente la terza dose se e quando lo decideranno. Credo che sia probabile che ce ne sarà una questo prossimo autunno. Il problema è che quando Rivera ha parlato a Porta a Porta contro i vaccini, e io gli ho risposto che di vaccini non si muore, i no vax mi hanno fatto decine di denunce. Sono fortissimi, i no vax, sono potenti e attrezzati: ma non ce la faranno».

Il futuro «inquilino» del Quirinale. Ovazione all’Alexander Hall, e poi al Miramonti. Si parla, nell’estate cortinese, della prossima scadenza nella scelta del futuro inquilino del Quirinale. Così si intitola l’ultimo libro di Vespa, edito da Rai Libri, una galleria di presidenti della Repubblica, da Pertini (che «inseguiva le telecamere, ricordo come attese davanti al pozzo, a Vermicino, quando sapevamo purtroppo che Alfredo non ce l’avrebbe fatta, sono cose che non si fanno»), a Cossiga («un grande presidente, molto solo») a Ciampi, che «sdoganò la parola patria e ebbe il merito di tenerci ancorati all’Euro», a Mattarella, «uno dei più amati degli ultimi presidenti, ha attraversato tre crisi difficilissime, nel 2019, 2020 e 2021, da antiprotagonista: è uno dei presidenti più silenziosi che ci siano mai stati, ha parlato con gli atti. Ma è anche l’unico che ha impedito la formazione di un governo perché non gli andava bene un ministro (Paolo Savona). Poteva farlo? La maggior parte dei costituzionalisti gli ha dato ragione».

«Mattarella non vuole essere riconfermato». Nel 2022 si sceglierà il prossimo presidente. Russello: la scadenza è imminente. Chi è in pole position? «Non mi avrete mai con il totonomine», si schernisce Vespa. Scherza: «Ci sono più candidati alla presidenza della Repubblica che tutte le persone che vedete in questa sala. Resto basito dalla quantità di italiani che credono davvero di essere possibili presidenti, e che ignorano tutte le ragioni per le quali è sicuro che non lo diventeranno mai. Sarà Draghi? Con la sola eccezione di Cossiga, tutti i presidenti della Repubblica sono stati decisi all’ultimo. Fare una previsione è dilettantesco. Mi fa un po’ sorridere l’idea che avanza qualcuno: chiediamo a Mattarella di restare fino alle elezioni. E dove sta scritto? Mattarella non ha nessuna intenzione di essere confermato, ma penso che se mai desse la sua disponibilità non la darebbe certo a tempo: anche solo pensarlo è di poco rispetto».

L’autonomia di Zaia: «È virtuosa». L’autonomia è virtuosa? «Bossi voleva che a scuola si insegnasse in Veneto. Da allora per fortuna si sono fatti passi avanti. Zaia l’autonomia la pone in modo propositivo e secondo me virtuoso: dice che i soldi li spende meglio dello Stato e di questo sono sicuro. Ma bisogna vedere come questo si concilia con la Costituzione». Su Brugnaro: «È una persona molto simpatica. È stato un po’ preso dal virus della politica: e come altri virus, lo becchi e non ti lascerà mai...».

Bruno Vespa, la confessione sulla Rai: "Chi mi ha tradito quando ero direttore". Libero Quotidiano il 25 maggio 2021. Bruno Vespa ha rilasciato una lunga intervista a La Stampa alla vigilia del suo settantasettesimo compleanno. Nato a L’Aquila il 27 maggio 1994, il giornalista ha parlato del suo nuovo libro sui dodici presidenti della Repubblica e in particolare della sua lunghissima e gloriosa carriera in Rai. A riguardo ha anche regalato diverse perle e retroscena, come quella sul concorso vinto e il conseguente approdo al telegiornale: “Già mi avrebbero voluto fregare. Ero arrivato primo, potevo scegliere, ma con la scuola della bella voce mi volevano dirottare alla radio, che amo molto ma non era quello il mio desiderio”.  Poi sono arrivate la conduzione e soprattutto la direzione del Tg1: “È bellissimo essere direttore ma non lo rifarei - ha confidato Vespa - si perde un’infinità di tempo in questioni burocratiche e sindacali. Pensi che non volevo neppure fare l’intervista a Saddam Hussein, ma lui chiese il direttore o nessun altro”. Ma che impressione le fece? “Un uomo carismatico, un vero leader. Io ero latore di un messaggio personale che gli mandava il Papa, eravamo a ridosso della prima guerra del Golfo e mentre gli parlavo, del Noce che era con me gli chiedeva il nome del suo sarto di Parigi. In effetti era elegantissimo”. Poi Vespa non si è sottratto alla domanda su eventuali tradimenti subiti quando era direttore del Tg1: “Faccio prima a parlare di chi non mi ha tradito. In compenso tutti se ne sono pentiti. In Rai nulla mi stupisce. Ho visto legioni di democristiani diventare comunisti, ho visto insospettabili spuntare fuori dal nulla e dichiararsi di destra, quando la destra vinceva alle urne”. 

"La terza Camera del Parlamento italiano". Bruno Vespa confidential: “Berlusconi mi voleva al Quirinale, io Presidente della Repubblica”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Maggio 2021. Da Berlusconi a Saddam Hussein a Cossiga a Papa Wojtyla. È un Bruno Vespa a tutto campo quello che si racconta in un’intervista al La Stampa. Il più noto conduttore giornalista della Rai è dal 1995 il conduttore di Porta a Porta, talk politico in onda ogni settimana, che lui stesso ha ideato. Innumerevoli le sue relazioni, interviste, polemiche anche. L’ex Presidente del Consiglio e più volte ministro della Democrazia Cristiana Giulio Andreotti lo ha soprannominato “la terza Camera del Parlamento Italiano”. Vespa ha pubblicato tantissimi libri, soprattutto saggi, sempre di grande successo. L’ultimo si chiama Quirinale – Dodici Presidenti tra pubblico e privato. E quindi si parte proprio da lì, dal Colle più alto di Roma, la residenza del Presidente della Repubblica. Sensazionale la rivelazione: Silvio Berlusconi avrebbe voluto candidare proprio lui, Vespa, al ruolo di Capo dello Stato. “Me lo ha detto Renzi e non ho motivo per dubitare. Ovviamente è una cosa fuori dal mondo, come gli ha risposto Renzi stesso”, ha raccontato Vespa. Nella storia della Repubblica, non solo della televisione, la celebre firma del “Contratto con gli italiani”, l’8 maggio 2001, da parte del Cavaliere, cinque giorni prima delle elezioni politiche, proprio negli studi di Porta a Porta. Sempre sui Presidenti della Repubblica Vespa si è espresso sul più gradito e sul meno gradito. “Cossiga, dopo scontri pubblici pazzeschi. Gli dissi che non lo querelavo unicamente per rispetto alla carica. Da lì nacque una grande amicizia. Quello che mi piacque meno fu Scalfaro, non si comportò bene con Berlusconi, che sentiva come un corpo estraneo”. Vespa ha anche commentato la sua direzione del Tg1: “È bellissimo essere direttore del Tg1 ma non lo rifarei, si perde un’infinità di tempo in questioni burocratiche e sindacali. Pensi che non volevo neppure fare l’intervista a Saddam Hussein, ma lui chiese il direttore o nessun altro. Fu un’intervista fatta a dispetto del nostro Governo che non voleva andasse in onda. Io mi impuntai e da lì divenni il baluardo della libertà e della sinistra…”. E quindi sull’attentato a Papa Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981: “Wojtyla diede la spallata definitiva per la caduta del Muro di Berlino, perciò pensarono bene di sparargli”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Michela Tamburrino per "la Stampa" il 25 maggio 2021. Ha tanto dell'abruzzese Bruno Vespa. Quei caratteri incisi nelle asperità montane. Chiusi, guai a mostrare troppo, gentili senza darlo a vedere, permalosi più del necessario, concreti e attaccati alla loro terra poco generosa. Bruno Vespa nasce a L' Aquila dove fa 364 giorni di freddo e uno di "frescu", e da dove parte con il sogno del giornalismo il concorso Rai, vinto, ed è subito Roma e il telegiornale unificato, «dove già mi avrebbero voluto fregare. Ero arrivato primo, potevo scegliere, ma con la scusa della bella voce mi volevano dirottare alla radio, che amo molto ma non era quello il mio desiderio».

Vespa, tanta gavetta?

«Appena assunto fui mandato sui fatti importanti, piazza Fontana, l'arresto di Valpreda. E, ancora, la diretta degli attentati di Fiumicino, facendo cose che oggi sarebbero impensabili, come spingermi fino all' aereo sulla pista pieno di passeggeri il giorno dopo i fatti. E poi il sequestro Moro, Paolo VI, il presidente Leone dimesso».

Dalla conduzione alla direzione del Tg1.

«È bellissimo essere direttore ma non lo rifarei, si perde un'infinità di tempo in questioni burocratiche e sindacali. Pensi che non volevo neppure fare l'intervista a Saddam Hussein, ma lui chiese il direttore o nessun altro».

Un' intervista storica. Anche per le polemiche che ne venirono. Che impressione le fece Saddam?

«Un uomo carismatico, un vero leader. Io ero latore di un messaggio personale che gli mandava il Papa, eravamo a ridosso della prima guerra del Golfo e mentre io gli parlavo, Del Noce che era con me gli chiedeva il nome del suo sarto di Parigi. In effetti era elegantissimo».

Perché tante polemiche?

«Fu un'intervista fatta a dispetto del nostro Governo che non voleva andasse in onda. Io mi impuntai e da lì divenni il baluardo della libertà e della sinistra... Se lo immagina? Mi è successo di vedere di tutto e anche questo. Mandai in onda l'intervista in seconda serata, andò benissimo».

Da direttore è stato tradito?

«Faccio prima a parlare di chi non mi ha tradito. In compenso tutti se ne sono pentiti. In Rai nulla mi stupisce. Ho visto legioni di democristiani diventare comunisti, ho visto insospettabili spuntare fuori dal nulla e dichiararsi di destra, quando la destra vinceva alle urne».

Che ne pensa di un cambiamento radicale della governance Rai? Ci crede ai partiti che si fanno da parte?

«Spero che la Rai resti pubblica, controllata dal Parlamento. Sai che cosa vogliono, da un privato puoi aspettarti di tutto. Magari sarebbe auspicabile una struttura più agile, una fondazione. Ne parlavo con Fassino quando sembrò che De Benedetti volesse entrare in partita. Gli dissi: "Se vi infastidite per un titolo sul giornale, che cosa accadrebbe per un servizio del Tg?"».

E siamo arrivati a "Porta a Porta".

«Che nacque per sbaglio. Ero andato a Palermo per la prima udienza del processo Andreotti e in albergo, accendendo la televisione, sentii che avevano dato una striscia di seconda serata quotidiana a Carmen Lasorella. Io che mi ero dimesso senza chiedere nulla e senza avere nulla, andai da Letizia Moratti, che allora era presidente della Rai, e le dissi che avrei fatto valere i miei diritti. Così divisero le serate tra me e Lasorella e il 22 gennaio del 1996 debuttò Porta a Porta. La mia seconda vita».

Si aspettava che fosse così longevo?

«No, per niente. Intervistando Santoro ricordavo che allora nessuno ci credeva. Su Rai1 un programma dai toni pacati mentre a Samarcanda scorreva il sangue, eravamo convinti di durare una sola stagione».

Invece è diventata la Terza Camera. Il suo ego è esploso?

«Fu Andreotti, disse che quando andava al Senato non se lo filava nessuno e che quando veniva da me lo chiamavano tutti».

Che rapporto ha con il potere?

«Disinvolto. Chi siede da noi ha titolo per farlo. Non ho mai imbrogliato alcuno. Sono un equilibrato per natura, ho le mie idee, ma lascio esprimere quelle degli altri garantendo bilanciamento sostanziale».

Parliamo della bagarre dei tetto ai compensi. Lei è stato accusato di essersi aggiustato il contratto come titolare di prestazione artistica, evitando così la tagliola riservata al personale pubblico e alle società partecipate. Che risponde?

«Il tetto ai compensi è stata un'idea sciagurata di Matteo Renzi, che peraltro è un ragazzo intelligente. Con il risultato che l'ad guadagna quanto il capo dell'ufficio abbonamenti. Detto questo, il mio non fu un escamotage. Biagi era configurato come artista grazie a una clausola del contratto che abbiamo tutti. Una non-notizia, ma visto che si trattava di me, diventò un caso».

Suo figlio Federico ha scritto un libro nel quale racconta la sua depressione durata anni e di come ne è uscito. Avere dei genitori ingombranti può essere un peso?

«Io sono ingombrante per definizione, un padre conosciuto è un ingombro».

Ha letto il libro da padre o da scrittore?

«Che sapesse scrivere bene già lo sapevo, perciò l'ho letto da genitore. Mi sono infastidito per alcune imprecisioni che gli ho chiesto di aggiustare, ma lui non l'ha fatto. Siamo una famiglia unitissima dai caratteri diversi».

È appena uscito il suo libro "Quirinale, dodici presidenti tra pubblico e privato"». Quale è stato il suo presidente d' elezione e il meno gradito?

«Cossiga, dopo scontri pubblici pazzeschi. Gli dissi che non lo querelavo unicamente per rispetto alla carica. Da lì nacque una grande amicizia. Quello che mi piacque meno fu Scalfaro, non si comportò bene con Berlusconi, che sentiva come un corpo estraneo».

A proposito di Berlusconi, è vero che avrebbe detto a Renzi di aver candidato lei al Colle?

«Me lo ha detto Renzi e non ho motivo per dubitare. Ovviamente è una cosa fuori dal mondo, come gli ha risposto Renzi stesso».

Che rapporto aveva con San Giovanni Paolo II?

«Wojtyla è il mio Papa. Non dimenticherò mai l'incontro a Cracovia quando era cardinale. Rimasi impressionato dalla presa che aveva sui giovani. Salutandoci, d' impatto gli chiesi se non fosse arrivato il tempo per un papa polacco. Lui mi rispose: "Troppo presto". Da credente mi sono convinto che nei piani divini, di mezzo dovesse esserci Giovanni Paolo I a fare da cuscinetto».

Wojtyla contribuì molto al crollo del muro?

«Diede la spallata definitiva, perciò pensarono bene di sparargli».

Il caso Renzi-Mancini e l'incontro in autogrill ripreso da una signora di passaggio e mandato su Report. Che ne pensa?

«Non mi piace parlare di trasmissioni altrui. Ma trovo strano che una professoressa passi per caso e ancora per caso riconosca i due e riesca a filmarli. Clamoroso».

Il Covid ha rubato ai ragazzi anche le loro foto di scuola. Lei riguarda le sue foto di classe e, quando si vede con Giorgio Pietrostefani, mandante dell'omicidio Calabresi, che pensa?

«La scuola è un pezzo di vita, ma guardando quelle foto vedo persone oggi anziane. La penso come Mario Calabresi, il figlio del commissario ucciso, non è tempo per la vendetta. Ma il passo di Macron di ristabilire il principio è stato enorme».

E così di slancio arriviamo alla sua terza vita, certamente la più invidiabile, quella di produttore di vino e non solo....

«Io sono da sempre un appassionato di vino. Luigi Veronelli è stato il mio maestro di bicchiere e ho imparato da grandi produttori e da Riccardo Cotorella, il presidente mondiale degli enologi. Il Salento è stato un caso felice, dopo varie vicissitudini con soci, ho rilevato la masseria Li Reni del Cinquecento con 500 ettari di vigneto che stanno lavorando bene. Vendo in una ventina di Paesi nel mondo e mi emoziona pensare che a New York, in Canada o a Seul stanno bevendo un mio vino. Ho un bianco fantastico è dedicato a mia moglie, il Donna Augusta, che ha ottenuto ottime recensioni. E abbiamo un resort che prima del Covid aveva ospiti da 52 Paesi del mondo. Lo gestiamo noi di famiglia, il ristorante invece è curato da un amico che ha trasferito la sua brigata dalla vicina Manduria a noi. Una terza vita tutta da assaporare».

Dagospia il 17 maggio 2021. Da Un Giorno da Pecora. Se è vero che Berlusconi propose a Renzi il mio nome, prima di Mattarella, come candidato al Quirinale? “Secondo me era una battuta, a me questa la raccontò Renzi e non Berlusconi. Renzi mi disse: “guarda che Berlusconi ha proposto te”. La cosa, comunque, non aveva molto senso...” A raccontare l'aneddoto, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è il conduttore di Porta a Porta e giornalista Bruno Vespa. Ha saputo cosa rispose Renzi al Cavaliere? “Gli disse che, giustamente, la cosa non stava né in cielo né in terra...” Cambiamo argomento: se avesse ricevuto gli ormai celebre verbali di Amara, come a 'Repubblica' e al 'Fatto', lei li avrebbe pubblicati? “Siccome 'Repubblica' e 'Fatto' hanno pubblicato tutti i verbali che gli sono arrivati prima, è curioso che non abbiano pubblicato questi...” E come mai, a suo avviso, non lo avrebbero fatto? “Se quei verbali avessero parlato di Salvini e Berlusconi, secondo lei sarebbero rimasti chiusi nel cassetto? Io ho qualche dubbio ma per carità magari sbaglio”. Restando a un altro tema giornalistico che ha fatto molto discutere, il video che ritrae l'incontro tra Renzi e Mancini, con quello lei come si sarebbe comportato? “Bisogna vedere la fonte, io avrei fatto delle verifiche. Voi credete che sia stata una professoressa che passava di lì per caso? Non lo so, mi pare singolare, tutto qua. Non è che non ci creda, è possibile ma è curioso”.

Luciano Ferraro per il "Corriere della Sera" il 5 maggio 2021. Doppia sfida per Bruno Vespa. Gastronomica ed enologica. Apre un suo ristorante nel cuore del Salento, nella zona del Primitivo di Manduria. E lancia il suo primo vino bianco di alta gamma, il «Donna Augusta 2019», dedicato alla moglie Augusta Iannini, magistrato per 35 anni, poi per 8 al vertice dell'Autorità del garante per la protezione della privacy. Iannini ora si occupa della Masseria Li Reni, il fronte agricolo di «Vespa Vignaioli per passione», l'azienda familiare che riunisce oltre ai genitori (entrambi di origini aquilane, sposati da 46 anni), i figli Alessandro e Federico. «Il ristorante - annuncia Vespa - aprirà alla fine di maggio. L'intero staff, dallo chef al pasticcere, del Santa Chiara di Turi (in provincia di Bari) si trasferirà qui». L'ingresso della brigata, guidata dallo chef Pietro Valoroso darà il nome al nuovo locale, che si chiamerà Santa Chiara a Li Reni. «Non è una sfida semplice, soprattutto in questo periodo - dice Vespa - ma siamo sicuri della professionalità della nuova squadra. La lista dei vini sarà all'altezza: 100 etichette di tutte le regioni italiane, assieme a una selezione di Champagne». In prima fila i vini che il presidente degli enologi, Riccardo Cotarella, ha messo a punto per Vespa. Il più noto è il «Raccontami», Primitivo di Manduria Doc. mentre il «Bruno dei Vespa» è il Primitivo che punta sul miglior rapporto qualità-prezzo. Ora il debutto del «Donna Augusta», con 3.300 bottiglie. «Mia moglie preferisce i rossi - spiega Vespa - si è rassegnata a una dedica in versione bianca, ma ha chiesto un vino che le assomigliasse. Fare un bianco importante in Puglia non è facile. Cotarella ha scelto un blend di Verdeca, Fiano e Chardonnay». «Il rischio - argomenta Cotarella - era limitarsi a un bianco beverino oppure di eccedere in potenza. È stato necessario impegnarsi in tanti test per ottenere equilibrio ed eleganza. Ogni uva è stata vinificata a parte, con metodi diversi, compresa la barrique per lo Chardonnay. Il risultato? Non solo muscoli, ma dinamismo e vivacità. Il "Donna Augusta" resisterà ad un lunghissimo invecchiamento». Un vino che segna la ripartenza per la cantina di Vespa. Il 2020, come è accaduto per la maggioranza delle aziende del settore non solo italiane, è stato un anno difficile a causa della chiusura di ristoranti e hotel per la pandemia. Nel 2019 dall'avamposto pugliese di Vespa erano partite 300 mila bottiglie per l'Italia e per l'estero (dove viene venduto il 30% della produzione, Cina compresa). L'anno successivo il calo è stato di un terzo. «Nel 2021 torneremo a lavorare con la stessa quantità pre-pandemia», annuncia Vespa, che nel frattempo è diventato anche produttore di Prosecco Docg, nelle terre affittate da Giancarlo Moretti Polegato di Villa Sandi, che fornisce vini a Quirinale e Palazzo Chigi. L'investimento sui terreni pugliesi (44 ettari di cui 32 a vigneto) e sulla masseria cinquecentesca, trasformata in un resort di lusso con 13 suites, è iniziato 10 anni fa. Tre anni dopo sono stati messi in commercio i vini firmati Cotarella, lo stesso enologo dell'ex premier Massimo D'Alema (patron de Le Madeleine, a Narni, Umbria) e del cantante Sting (proprietario con la moglie Trudie della Tenuta il Palagio, a Figline Valdarno, sulle colline fiorentine).

Tv: Vespa, "in 25 anni a Porta a Porta Kissinger e il Papa, ma il mio mestiere resta il cronista". Affari Italiani 22 gennaio 2021. Adnkronos - Una trasmissione "nata a dispetto dei santi", che ha attraversato 25 anni senza una ruga ma con successi e scoop che pochi altri programmi possono vantare. “Porta a Porta” spegne 25 candeline e il suo storico ideatore e conduttore Bruno Vespa ripercorre con l'Adnkronos le tappe più significative di questa avventura, una delle più longeve della storia della tv italiana. "Nel 1996 non si immaginava che una trasmissione educata di politica su Rai1 potesse avere successo -dice Vespa- Invece dal primo incontro con Romano Prodi le cose andarono bene e siamo andati avanti, e siamo ancora qua".Hanno partecipato al programma "tutti e dieci i presidenti del Consiglio che si sono avvicendati. Due presidenti della Repubblica, Ciampi e Napolitano, si sono collegati con noi, un Papa ci ha telefonato, un alto Papa durante un viaggio ha detto: 'approfitto di 'Porta a Porta' per salutare l'Italia'... insomma, diciamo che è andata bene", dice il giornalista. In 25 anni sono stati affrontati, nell'ormai celeberrimo studio, i casi più gravi e drammatici della storia recente. "Dalle Torri Gemelle fino al terremoto dell'Aquila, Cogne, Avetrana", ricorda Vespa, che ripercorre con la mente alcuni dei tantissimi i personaggi avuti come ospiti. "Kissinger, Lech Walesa, Gorbachov, Gianni Agnelli, Ashnar, Peres e Arafat che si sono incontrati per l'ultima volta a Porta a Porta, Dustin Hoffmann, Sean Connery", snocciola Vespa con nonchalance. "E poi lo spettacolo, tutti i grandi show sono passati da noi. Che una statua come Liza Minnelli venga a giocare con noi, per un ragazzo di provincia quale io sono rimasto una non è una cosa proprio consueta", scherza il giornalista. Tra tutti i momenti 'apicali' della trasmissione, su quale sia stato quello più emozionante Vespa non esita un secondo a rispondere. "Ovviamente la telefonata del Papa. Era imprevista, inattesa e molto affettuosa", dice con ancora un'impercettibile vibrazione nella voce.

Giovanni Terzi per "Libero quotidiano" il 10 maggio 2021. "Anedonia: è il primo termine che andai a cercare per darmi una spiegazione di quella nube tossica che mi aveva catturato. A livello emotivo una massiccia campana di vetro si era piazzata tra me e il mondo esterno: mi sentivo un mostro, un robot, uno che avrebbe potuto mangiarti, in preda a un nodo in gola che avrebbe solo voluto vomitare, estirpare, strapparsi di dosso". Così è scritto nel libro di Federico Vespa «L' anima del maiale». Federico è figlio di Bruno Vespa e del magistrato Augusta Iannini, ha attraversato la depressione e ne è uscito. Il male di oggi in tanti giovani che vivono nella paura di socializzare. Da dieci anni coordina la rivista dei detenuti nel carcere di Rebibbia e, dopo l' esperienza radiofonica in RTL, oggi conduce con Silvia Salemi un programma su Isoradio. Quale sarà il futuro delle nuove generazioni dopo l' anno passato in lock down per il COVID? Non è semplice essere capaci di fare i conti con sè stessi, con i propri demoni e le proprie paure per comprendere come dover affrontare la vita senza buttarla via in modo assoluto. Riconoscere di non aver bisogno di aiuto, di non  potere essere in grado di affrontare le ansie e la depressione da soli è un atto di coraggio e di umiltà ma soprattutto è sintomo di amore verso la vita e rispetto verso se stessi. È la paura l' emozione più difficile e più complicata, da gestire. Mentre per il dolore si può piangere e per la rabbia si può urlare, per la paura, che si aggrappa silenziosamente al cuore, poco si può fare se non avere il coraggio di chiedere sostegno. E così ha fatto Federico Vespa, giornalista, scrittore e conduttore radiofonico, iniziando anni fa a mettersi in gioco andando in cura da psicologi e chiedendo aiuto. Federico ne è uscito, dalla depressione, ed è riuscito a gestire le ansie e le paure anche raccontandole in un libro, da lui scritto nel 2019 ed edito da Piemme, dal titolo "L' anima del maiale. Il male oscuro della mia generazione".

Da dieci anni coordini la rivista fatta dai detenuti di Rebibbia, «Dietro il cancello», insieme all' associazione Idee: che cosa ti porta umanamente questa esperienza?

«È qualcosa di totalmente nuovo e fuori contesto rispetto la vita che viene fatta fuori dalle mura del carcere e proprio per questo si tratta di una esperienza eccezionale dove incontri persone e realtà che mai avresti immaginato. In carcere, attraverso la curatela della rivista, inizi dei rapporti umani e profondi con coloro che sono detenuti e che, spesso, si trasformano in amicizia. Sai cosa ho trovato di straordinario nel rapporto con i detenuti?»

Dimmi Federico...

«La gratitudine, un sentimento non sempre presente fuori dal carcere, nella nostra amata società contemporanea. Una gratitudine totale di chi si stupisce che tu abbia voglia di dedicarti a loro».

Certo che molti di loro hanno commesso crimini efferati: hai mai sentito pentimento?

«Sia pentimento che voglia di cambiare e di trasformare la loro vita e per questo sarebbe importante abolire l' ergastolo, il carcere a vita, anche se spesso un detenuto ha quasi paura ad uscire di galera».

Perché?

«Perché la società non sempre rende possibile il reinserimento nella vita professionale a chi è stato in carcere».

Hai parlato dell' abolizione del carcere a vita. Per quale motivo?

«Perché il carcere ha l' obiettivo di essere rieducativo e quindi non può esserci l' ergastolo. La Corte Costituzionale ha stabilito l' incostituzionabilità dell' ergastolo ostativo, ha detto, poche settimane fa, che il Parlamento avrà un anno per provvedere con una legge, ma che se a maggio del 2022 la nuova legge non ci sarà ancora, la norma che permette l' ergastolo ostativo verrà abolita perché "in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione"».

Che tipo di giornale fate a Rebibbia?

«È un mensile e trattiamo, approfondendoli, tutti gli avvenimenti della società.

Parliamo di politica, sport, cultura e anche giustizia. Molti detenuti scrivono davvero bene ed i loro commenti sono davvero importanti».

Commentate anche le ultime notizie sulla Giustizia? Tu cosa pensi del caso Palamara e di quello che sta accadendo?

«Posso dire che, da figlio di un magistrato, queste cose le sapevo già vent' anni fa. A Palamara va il merito di aver aperto un vaso di Pandora che, se gestito bene, non potrà che determinare cambiamenti positivi».

Nel 2019, poco tempo prima dell' esplosione del Covid hai scritto un libro. Come è nata questa idea?

«È nato tutto in modo assolutamente casuale: grazie ad una mia collega di allora a RTL, sento la Piemme editore che mi racconta la loro volontà di pubblicare un libro di saggistica. In realtà l' unica cosa che potevo fare era un libro autobiografico sulla mia storia personale, essendo riuscito a curare l' ansia e la depressione».

Così hai scritto "L' anima del maiale. Il male oscuro della mia generazione". Che libro è?

«Come ho detto, è un libro autobiografico; ero già uscito dalla depressione e mettermi a scrivere su ciò che avevo passato è stato curativo e terapeutico. Il senso di questo libro è che puoi avere tutti i soldi di questo mondo, la famiglia più importante del pianeta ma questi non bastano a "comprare" la felicità e la serenità. Ci vuole altro».

Mentre scrivevi il tuo libro hai sofferto?

«Non ho paura a dire che ho anche pianto in taluni momenti».

Quali?

«Quando ho riaffrontato con la memoria i momenti della depressione. Scrivevo di sera, mi accompagnavo anche con un bicchiere di whisky per cercare di allentare la tensione nell' affrontare qualche passaggio, e a volte stavo male perché mi saliva il ricordo di quel periodo faticosissimo della mia vita. Vedi, la depressione è un male oscuro che improvvisamente ti prende facendoti diventare vittima di ciò che non sai, che non conosci e quindi non sei più in grado di superare questo scoglio da solo».

Ti sei fatto aiutare da psicologi?

«Sì, ne ho cambiato qualcuno, di terapeuta, prima di trovare la persona che mi è stata accanto davvero».

Il rapporto con la tua famiglia?

«È stato un rapporto complesso e articolato, che si è stabilizzato dopo che sono guarito. Ripeto: puoi avere la migliore famiglia del mondo, ma se non sei centrato e interiormente risolto a poco serve».

Li vedi spesso?

«Li ho visti oggi e sono stato felice. Con mia madre ho un rapporto speciale, ma anche con mio padre. Li osservavo oggi e spero che la vita li conservi ancora tanto tempo in salute».

Hai paura quando pensi che a loro possa succedere qualcosa?

«Da una parte sono ovviamente consapevole del fatto che non siano eterni, e però dall' altra vivo con terrore il giorno in cui non ci saranno più. Per questo cerco di godermeli e, per ciò che posso fare, tutelarli al massimo».

Quale è il male oscuro della tua generazione?

«Credo l' incapacità di vivere emozioni. I social e i nuovi media hanno come anestetizzato ogni forma di empatia e la mia percezione è che ci sia una sorta di paura a lasciarsi andare. Viviamo in un mondo dove l' importante è quanti like prendi sul profilo instagram ed abbiamo persone che ogni mezz' ora raccontano ciò che cosa stanno facendo. Tutto questo è frutto di una debolezza incredibile come se si volesse dire "io esisto"».

E la generazione che ha vissuto il Covid da quindicenni come sarà?

«Dipende se tutto finisce qui e si riprende davvero una vita normale, o se questa situazione si protrae ancora. Già adesso vedo i giovani che preferiscono fare partite sulla Play e non andare a giocare a pallone con gli amici e, secondo me, questo non fa bene».

Che cosa si potrebbe fare?

«Tornare alla realtà che, a volte sicuramente fa male, ma è espressione di vita. Più realtà nella vita delle nuove generazioni aiuterebbe a ritrovare empatia e socialità».

·        Carlo Bollino.

Edi Rama, omaggio a Carlo Bollino: pugliese d'origine e albanese d'adozione. Gelormini su affaritaliani.it Domenica, 7 marzo 2021. L’omaggio del Primo Ministro albanese, Edi Rama al pugliese/albanese Carlo Bollino, già Direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, durante la sua visita a Bari. L’omaggio del Primo Ministro albanese, Edi Rama al pugliese/albanese Carlo Bollino, già Direttore de "La Gazzetta del Mezzogiorno", durante il passaggio a Palazzo di Città - dove è stato accolto dal Sindaco Antonio Decaro - in occasione della sua visita a Bari.

La Biografia di Carlo Bollino (da Wikipedia). Giovanissimo incomincia la sua carriera di giornalista nelle prime emittenti radiofoniche di Lecce (Radio Nice International e Radio Rama).

Inizia a lavorare nella carta stampata al "Quotidiano" di Lecce, Brindisi e Taranto. Diventa giornalista professionista all'età di 24 anni, nel 1985.

Passa a "La Gazzetta del Mezzogiorno", come redattore di cronaca nera, prima nel Salento, e poi in tutto il sud Italia. Si distingue sin dall'inizio della sua carriera per le sue battaglie civili e il suo impegno nella lotta alla mafia.[senza fonte] Per anni è stato considerato uno dei maggiori esperti italiani della Sacra Corona Unita contro la quale ha scritto sin dalla sua scoperta.[senza fonte] Per oltre un decennio si è occupato di tutti i principali fatti di mafia e di cronaca nera avvenuti nel Salento, in Puglia e in Basilicata.

Nel 1989 viene nominato inviato speciale e si trasferisce a Bari presso la sede centrale de La Gazzetta del Mezzogiorno, ove poi assume il ruolo di caporedattore centrale.

Nel 1990 conduce in Basilicata una approfondita inchiesta giornalistica sulle connessioni tra criminalità, politica ed economia.

Nel 1991 inizia a occuparsi di politica estera e segue la guerra nella ex Jugoslavia e in Iraq, e poi la caduta del comunismo in vari paesi dell'Est Europa.

Nel 1993 rifonda (dopo molti anni) e dirige in Albania, per conto della Edisud, il quotidiano Gazeta Shqiptare e poi l'emittente radiofonica "Radio Rash", il portale di notizie "Balkanweb" (in lingua albanese) e la emittente televisiva "News24". Questo gruppo editoriale sarà il secondo più importante polo informativo del paese.

Nel 1999 diventa corrispondente dell'agenzia di stampa Ansa per i Balcani: è inviato di guerra in Somalia, ex Jugoslavia, Kosovo, Macedonia, Iraq, Israele, Afghanistan e Libano. 

Dopo aver vissuto per 14 anni a Tirana, a luglio 2007 si trasferisce in Medio Oriente, ove assume la guida dell'ufficio di corrispondenza dell'Ansa in Israele e nei Territori palestinesi.

Da maggio 2008 ritorna a Bari con l'incarico di direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno. In questi anni di ritorno sul fronte del giornalismo italiano, si riaccende anche la sua passione civile. Tra l'altro una sua iniziativa per contrastare una legge del governo italiano che rischia di limitare la liberta' di stampa, gli procura il premio Cronista 2009 della città di Viareggio e l'apprezzamento del sindacato nazionale dei giornalisti italiani.

Tra il 2010 e il 2012 diventa ospite fisso di numerossime trasmissioni televisive di inchiesta come Porta a Porta (RaiUno), Pomeriggio sul Due (RaiDue) e La Vita in Diretta (RaiUno) nelle quali viene invitato a commentare sviluppi e retroscena di alcune importanti vicende di attualità, prima tra tutte l'inchiesta sul delitto della giovane Sarah Scazzi del cui "caso" viene considerato uno dei più esperti giornalisti italiani.

Dal 14 al 21 ottobre 2012, l'editorialista commenta nella rubrica «Res Gestae» su Rai Storia (canale Digitale Terrestre) gli avvenimenti significativi, approfondisce le notizie del giorno, e riporta alla luce i fatti e i personaggi che hanno segnato la storia politica e culturale, con l'uso di documenti audiovisivi delle Teche Rai. 

Nell'ottobre del 2014 si è dimesso dalla direzione della Gazzetta del Mezzogiorno ed è tornato a vivere in Albania dove guida un nuovo gruppo editoriale composto dalla televisione all news A1Report (oggi Report Tv) e dal portale e quotidiano in lingua albanese Shqiptarja.com

Nel gennaio 2016 ha ricevuto la cittadinanza albanese.

Nel 2014 e nel 2016 è ideatore a Tirana dei musei sul comunismo Bunk’Art1 e Bunk’art2 allestiti all’interno di bunker antiatomici costruiti dal dittatore comunista Enver Hoxha negli anni della guerra fredda. Di entrambi i musei, diventati secondo TripAdvisor tra le principali mete turistiche dell’Albania, è tuttora il curatore generale.

·        Carlo De Benedetti.

Dagospia. Anticipazione da Chi il 24 agosto 2021. Questa settimana in esclusiva su CHI le foto di Carlo De Benedetti in vacanza in Costa Smeralda. L'editore festeggia il primo anno del quotidiano Domani in compagnia della moglie Silvia Monti e di alcune amiche, fra cui Lilli Gruber, a bordo del suo nuovo mega yacht. De Benedetti è spesso ospite della giornalista a Otto e mezzo, il programma che conduce su La7. Fra la Gruber e l'Ingegnere c'è un'amicizia di lunga data. Nelle immagini pubblicate da CHI li vediamo scambiare lunghe chiacchierate passeggiando sul ponte del lussuoso yacht: si tratta del Solo, che l'imprenditore ha acquistato quest'anno per 62 milioni e 900 mila euro. Lungo 72 metri, uscito nel 2019 dai cantieri Tankoa di Genova, accoglie 12 persone e dispone di spa, beach club, palestra vetrata, lounge, piscina di 6 metri.

Da liberoquotidiano.it il 12 febbraio 2021. A tenere banco a PiazzaPulita di Corrado Formigli, nella puntata in onda su La7 giovedì 11 febbraio, ecco Carlo De Benedetti. E ora che Silvio Berlusconi non ha più il consenso e il potere politico di un senso, ecco che il livore dell'editore si riversa contro "l'osso duro", ossia Matteo Salvini. Il conduttore interpella l'editore di Domani sulle ragioni della genesi del governo dell'ex mister Bce, e l'Ingegnere pontifica: "Io penso innanzitutto che Mario Draghi sia un risultato della Waterloo della politica. Non è Draghi che determina il fallimento della politica. È la politica che determina il suo fallimento e Draghi è arrivato per quello". "Grandi riforme? No, due emergenze": Salvini, lezione a grillini e democratici. Epperò poi De Benedetti parte in dribbling, si smarca, vede il drappo rosso della Lega. E così aggiunge: "Vorrei però aggiungere una cosa su Salvini: ha realizzato il più grande flop politico che io ricordi. Ha preso un partito con una forte base al Nord". Bum. Così. A casaccio. Tanto che anche Formigli fa sommessamente notare che "però quando ha preso la Lega aveva il 5%". Ma niente da fare, De Benedetti prosegue nella sua analisi che flirta da vicino col delirio: "Attenzione, lui ha cercato di trasformare la Lega in un partito nazionale. Ed è stato un flop totale. Ha perso Emilia Romagna e Toscana e le ha perse entrambe. Dopodiché ha capito che la Lega non è un partito nazionale: con Draghi la sua base elettorale gli ha fatto capire che o cambiava lui o lo mandavano a casa", conclude. Un ragionamento lunare, quello di De Benedetti. In primis perché mai il centrodestra aveva raggranellato tanti consensi in Emilia Romagna e Toscana quanti ne ha presi con la leadership di Salvini. Dunque parlare di "flop totale" nell'aver portato il Carroccio dal 5% ad essere il primo partito d'Italia è una presa di posizione che non merita neppure un commento. Infine la sparata, "lo mandavano a casa": ma chi? Insomma, un De Benedetti completamente fuori fuoco, dimostrazione lampante che ora, per lui, l'uomo da battere è Salvini. Nel corso del suo intervento, De Benedetti ovviamente si spende nell'elogio sperticato di Draghi: "È prudente ma quando parte su una cosa la fa con un'audacia non comune. Quindi ho la massima stima di Draghi". E ancora: "Lo conosco molto bene, da tanti anni. È un amico e una persona che stimo molto. Molti hanno trovato bizzarro che potesse essere impiegato in una funzione politica. Ma Draghi è un politico", conclude solenne De Benedetti.

Carlo De Benedetti, Dagospia svela il suo ultimo acquisto: "Più di 62 milioni di euro per un nuovo yacht". Libero Quotidiano il 26 febbraio 2021. Novità in casa De Benedetti. L'ex patron di Repubblica, Carlo De Benedetti appunto, ha deciso di darsi agli acquisti. A svelare quanto accaduto è Dagospia che parla di "una nuova barca". Il sito di Roberto D'Agostino dà anche una sua visione dei fatti scrivendo: "Era da tempo che Carlo De Benedetti e la consorte Silvia mal sopportavano quella barca bellissima ma di appena 50 metri". E così la decisione di pensare più in grande. I due - riporta Dago - "alla tenera età di 86 anni (lui), ne hanno acquistata una da 72 metri". Quest'ultima adocchiata presso il cantiere Tankoa di Genova "specializzato nella costruzione di mega yacht totalmente personalizzabili" sborsando quella che viene definita "la misera sommetta di 62 milioni 900 mila euro". Capito De Benedetti? Proprio qualche anno fa l'ingegnere - è quanto diffondeva Il Fatto Quotidiano - si è visto contestare dalla Finanza “l’omessa dichiarazione di investimenti detenuti in Stati o territori a fiscalità privilegiata” per lo yacht My Aldabra registrato alle Cayman. Non era andata meglio al figlio Marco. Il 43 metri Sirahmy, battente bandiera britannica, è invece stato pignorato dal tribunale di Massa su richiesta dei Nuovi cantieri Apuania (Nca) di Marina di Carrara. Contrariato l'imprenditore che per bocca del suo portavoce si era difeso: "Esprimiamo profonda sorpresa per la notizia che è circolata - si era difeso -. Premesso che da un punto di vista formale non sono stati rispettati i dovuti obblighi di riservatezza, l'Ingegner De Benedetti non ha mai evaso, o omesso di dichiarare, alcuna proprietà estera, in particolare per quanto riguarda l'imbarcazione My Aldabra, che era di proprietà di UniCredit Leasing SpA in Italia". Secondo il comunicato si trattava di "un'informazione data al pubblico e basata sul nulla, gravemente lesiva. L'Ingegnere avvierà pertanto azioni a tutela della sua reputazione, e in tal senso ha già dato mandato al professor Franco Coppi di procedere giudizialmente".

"Berlusconi al Quirinale? Consegno il passaporto". L'ultimo delirio di De Benedetti. Marco Leardi il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. L'ingegnere si infervora dalla Gruber sull'ipotesi di vedere il Cavaliere alla presidenza della Repubblica. "Sarebbe una cosa indegna", ha attaccato, rinnovando lo storico livore verso l'ex premier. Carlo De Benedetti perde il pelo (ormai imbiancato) ma non il vizio. Sì, quello di attaccare Silvio Berlusconi. Lo ha fatto anche questa sera nel corso della sua ospitata a Otto e Mezzo, su La7. Nello studio di Lilli Gruber, coccolato dalle domande della conduttrice, l’ex editore di Repubblica ha espresso giudizi sprezzanti sull'ipotesi di vedere il leader di Forza Italia come prossimo Presidente della Repubblica. Il solo fatto che il Cavaliere sia stato annoverato tra i possibili candidati al Quirinale – con il sostegno del centrodestra - ha infastidito l'ingegnere, il quale non ha perso l'occasione di rinnovare il proprio storico livore nei confronti dell'ex premier. Sì, perché quella di De Benedetti nei riguardi del leader azzurro assomiglia ormai a un'ossessione, come hanno dimostrato le sue odierne parole. Solleticato da un domanda della Gruber sull'argomento, che somigliava più che altro a un assist, De Benedetti ha dichiarato: "Berlusconi è un fantasista, come sono fantasisti quanti pensano che possa andare al Quirinale". Poi l'ingegnere ha rincarato la dose: "Io anticipo che, nel caso in cui l’assemblea dei grandi elettori impazzisse e mandasse Berlusconi al Quirinale, io renderei il mio passaporto al Ministro degli Interni. Sarebbe una cosa indegna". Le sparate di De Benedetti, lì per lì, sono state sottolineate dalle risate complici della conduttrice e di Massimo Giannini, ospite in studio. Poco prima, l'ex editore di Repubblica aveva espresso il proprio apprezzamento per Sergio Mattarella, auspicando che possa rimanere ancora alla presidenza della Repubblica. Le affermazioni di De Benedetti sul Cavaliere, per quanto rancorose, hanno innescato immediate reazioni dal mondo politico quando ancora l'imprenditore discettava dalla Gruber sui massimi sistemi, dalle politiche di Joe Biden al clima. Passando per Arcore, chiaramente. "Comprendo il dispiacere dell'ingegner De Benedetti per l'eventuale elezione di Silvio Berlusconi al Quirinale. Mi pare esagerato però che egli voglia restituire il passaporto. Magari potrebbe bastare - come gesto di protesta - la restituzione in beneficenza di una parte dei lauti introiti scaturiti dalla celebre, rispettabile e per lui fortunata 'sentenza Mondadorì", ha replicato il parlamentare forzista Gianfranco Rotondi. Nel suo intervento a Otto e Mezzo, De Benedetti ha commentato a modo suo anche un'ipotetica elezione di Giorgia Meloni a premier. Sempre rispondendo a Lilli Gruber, l'ospite ha chiosato: "Non succede perché l'Europa non ce lo lascia fare. Votano gli italiani, è vero, ma gli italiani votano secondo ciò che gli conviene". Parole che hanno provocato la replica della leader di Fratelli d'Italia: "Carlo De Benedetti, imprenditore italiano naturalizzato svizzero, commendatore della Légion d'honneur francese, editore di Repubblica e poi de Il Domani, pontifica stasera dalla Gruber. Dice, tra le altre cose, che non si fida di me. Vuol dire che sto facendo bene il mio lavoro".

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile

Da huffingtonpost.it il 4 novembre 2021. “Se il Parlamento impazzisse e decidesse di eleggere Berlusconi al Quirinale, io rendo il mio passaporto al Ministero degli Interni. Sarebbe una cosa indegna”. Così Carlo De Benedetti, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7. L’Ingegnere elogia Mario Draghi, il cui merito, spiega, è stato di aver “portato la competenza. Dalla cretineria dell’uno vale uno è arrivata la competenza, che ha spiazzato tutti. Abbiamo un uomo preparatissimo, democratico, competente e gentile. Io avrei perso la pazienza venti volte al suo posto, lui è un uomo paziente. E ha fatto delle ottime scelte delle persone”. Parole più velenose invece nei confronti di Enrico Letta - “sicuramente una persona per bene, seria, però non ha la caratura del leader” - di Matteo Renzi - “non è una persona seria. Se fai il senatore, devi fare il senatore, non andare in Arabia Saudita o occuparti di società russe” - di Giancarlo Giorgetti - “La sua idea su Draghi al Quirinale mi sembra più che altro un’autocandidatura a fare il presidente del Consiglio” - e di Giorgia Meloni - “Lei premier? Non succede perché l’Europa non ce lo lascia fare”. La soluzione per Quirinale, secondo De Benedetti, è mantenere lo status quo:  “So che torcere un po’ la Costituzione può lasciare qualche conseguenza ma io dico: abbiamo due persone outstanding, il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica: lasciamole lavorare. Se le forze politiche concordassero su Mattarella alla prima votazione, Mattarella non potrebbe non accettare, penso. Io sono dell’opinione che Draghi non debba andare al Quirinale, ma in uno stato di emergenza che si prolungherà oltre il 31 dicembre e una situazione economica ancora da consolidare, avendo due fuoriclasse come Draghi e Mattarella, perché non approfittarne?”.

Berlusconi e De Benedetti, storia di una passione autentica tra due ex amici. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Allora, dilemma: che gli ha preso all’Ing (con la maiuscola, come Avv per Agnelli e Cav per il cavaliere) Carlo De Benedetti quando ha commentato la malattia (Covid a 83 anni con un sacco di problemi pregressi, come da manuale) di Silvio Berlusconi dandogli dell’ «imbroglione» e parlando del proprio personale orgasmo – «la mia maggior goduria» – quando quello fu costretto a rimborsare alla sua Cir un bel pacco di miliardi? Qui ci sarebbe da rifare la storia d’Italia con tutta la “guerra di Segrate” fra Berlusconi e De Benedetti quando fu giocata una partita mortale sulla Mondadori. Ma occorrerebbero pagine per chi non sa e non ricorda. Mettiamola invece sul piano personale. Li ho conosciuti e anzi li conosco entrambi, De Benedetti e Berlusconi, umanamente parlando. E quando ho visto questa sparata dell’ingegnere a commento della malattia che aveva costretto Berlusconi al ricovero recalcitrante per polmonite da Covid mi sono chiesto se avesse avuto una botta di follia. Ho pensato in questi giorni durante i quali si è scatenata la zuffa all’italiana con violenza verbale, battute da querela e da fogna, e insomma sono rimasto ipnotizzato come spettatore cronista dal solito clima da guerra civile mentale e verbale che ci accompagna dalla fine della guerra fredda, anzi da molto prima. Con calma, anzi con rammarico, direi che De Benedetti si è fatto prendere da uno dei suoi personali attacchi di odio. Carlo De Benedetti ed io scrivemmo insieme un libro intervista qualche anno fa e diventammo amici, io bevevo la sua stessa tisana giallina che gli portavano in caraffe e rievocammo la sua vita e le sue guerre. E devo dire che mi colpì presto la dicotomia, o se preferite la contraddizione, fra il suo aspetto pacioso, florido senza essere grasso, apparentemente misurato e contegnoso, ma colmo di disprezzo e con una schiuma interna di conti non saldati. Dette a me l’anteprima di aver voluto letteralmente licenziare Eugenio Scalfari proprio perché voleva cacciarlo via e sostituirlo dalla mattina alla sera con Ezio Mauro che dirigeva la Stampa, lasciando in braghe di tela l’avvocato Agnelli, editore de la Stampa, che non credeva ai suoi occhi. Mi parlò molto, molto male, di persone che sono morte e di cui dunque taccio il nome. Ne parlò in maniera sferzante. E anche con qualche ragione, penso. Mi colpì molto quando disse che essendo fuggito da bambino in Svizzera con i suoi a causa delle persecuzioni razziali, sperimentò la fame e la povertà e giurò a sé stesso di non voler più essere povero, ma anzi di voler diventare ricco, ricchissimo, straricco. E lo fece. Fu un imprenditore di motociclette, di auto, entrò e uscì dalla Fiat litigando con Agnelli cui lasciò in compenso la Panda («una specie di carrarmato brutto e solido che costava poco e rendeva molto»), mi parlò con commiserazione altera di Francesco Cossiga che dopo le loro guerre gli venne a portare come dono di pace un coltello da pastore sardo (ma non una parola sul fatto che Cossiga insieme a De Michelis perorarono la sua causa presso la Casa Bianca dopo che la Olivetti era stata messa sul libro nero delle aziende che passavano segreti americani ai russi). E naturalmente mi parlò della Olivetti di Adriano Olivetti, il gioiello italiano delle macchine da scrivere e anche dei primi computer (con scheda Ibm) che lui, l’Ingegnere, gettò nella spazzatura perché non rendeva. Mi disse di quando gli offrirono di finanziare un giovanotto, un certo Bill Gates, che fabbricava computer in garage e che purtroppo non lo fece. Una bella storia di vittorie e qualche sconfitta, ma con un bel cesto di sassi nelle scarpe che non cessavano di dolergli. Una di queste era il comportamento dei figli che lo avevano sostituito nelle aziende e che non volevano sapere dei giornali perché i giornali portano solo rogne e niente soldi. In particolare, il dente avvelenatissimo col figlio Rodolfo con cui ebbe dei chiarimenti che sembravano regolamenti di conti e che si conclusero poi con la vendita del gruppo Repubblica-L’Espresso che passò alla Fiat poco dopo aver insediato nella direzione lo sfortunato e bravo Carlo Verdelli che sarà poi cacciato dai nuovi padroni dalla mattina alla sera. Una vita di lotte feroci fra combattenti italiani in un panorama molto italiano, con qualche ombra russa dei tempi sovietici. Quando iniziammo la nostra intervista mi disse: «Immagino che lei voglia prima di tutto sapere qual era la storia degli agenti russi nell’Olivetti». E me la raccontò, a suo modo. Aveva distrutto Scalfari, un altro giornalista storico di Repubblica, Cossiga, Craxi, Agnelli. Ma più di tutti, naturalmente., l’oggetto del suo odio al vetriolo era Silvio Berlusconi di cui parlava peraltro – e con mia sorpresa – come di un vecchio amico che di tanto in tanto lo andava a trovare per chiedergli consiglio, cui lui benignamente accordava qualche suggerimento utile. I due, quanto ad essere nemici, lo furono in maniera totale, da grande gioco del capitalismo italiano con ogni sorta di colpo di scena, accusa di falso, corruzione, imbroglio. Schiere di avvocati se le dettero di santa ragione per anni. La Mondadori alla fine andò a Berlusconi con Panorama ma senza Repubblica e l’Espresso che andarono invece a De Benedetti, con passaggi milionari di soldi decisi dai giudici nei vari livelli della causa. Tutto ciò detto, resta aperta e non risolta la domanda: perché De Benedetti ha di fatto augurato la morte anziché la guarigione all’ex nemico caduto malato? Qualcuno forse obietterà: ma non esageriamo, certo che gli ha augurato la guarigione ma con una battutaccia senza conseguenze. Ecco: quando si vuole augurare lunga vita al nemico caduto da cavallo, si fa come fece Bersani il quale, senza farsi pubblicità, andò a trovare Silvio Berlusconi in ospedale ferito e scioccato dal lancio di una madonna di piombo, da parte di un odiatore di passaggio. L’odio, sia detto per amor di verità banale, è un sentimento umano che ha il suo ruolo nell’economia selvatica dell’essere. Quell’espressione di De Benedetti usata per esprimere disprezzo persino per la malattia fisica del corpo di Berlusconi, appartiene o no all’armeria dell’odio ideologico? Naturalmente le risposte saranno divise in due fra chi conferma e chi dissente, ma nel caso di diniego per dissenso – De Benedetti non voleva manifestare odio e augurare la morte, ma gli è soltanto sfuggito il piede dalla frizione – resterebbe in piedi la domanda d’obbligo successiva: De Benedetti ha superato il limite del logoramento e ha perso il controllo definitivo della muscolatura liscia del pensiero che dovrebbe regolare l’emissione dei gas emotivi? Nessuno può garantire, ma io voto sì. Per De Benedetti, penso, e per una discreta fetta di italiani andati in acido e fuori controllo, tutto ha a che fare con Berlusconi, come prima con Craxi. Berlusconi ha impedito – storicamente e vorrei sapere chi si sentisse di negarlo – che con la decapitazione della prima Repubblica vincesse la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto e del nuovo “coso” uscito dalla Bolognina. De Benedetti ha detto che per lui Berlusconi è ed è stato «una specie di Alberto Sordi» della politica italiana. Ora, ammesso che De Benedetti intendesse paragonare i personaggi miseri e imbarazzanti creati da Sordi, davvero lui o chiunque altro può dire che l’impensabile operazione politica che fece saltare i piani e le speranze del Pds con una impossibile alleanza fra i leghisti separatisti di Bossi e gli ex fascisti di Fini, fosse una “albertosordata”? Davvero? Una cosa da Ambra Jovinelli? Da Fratelli De Regie o da Sarchiapone di Walter Chiari? Davvero? Qui secondo me casca l’asino dell’innocenza pretesa nelle parole di De Benedetti. Il suo (mal)augurio a Berlusconi è stato maldestramente mascherato da sbuffo di insofferenza nei confronti di un preteso pagliaccio, un “albertosordo” dell’impresa e della politica. Sarebbe da imbecilli pensare che davvero De Benedetti lo pensasse perché tutta la sua (di De Benedetti) vita politica con la tessera numero uno del Partito Democratico è stata dedicata a combattere su tutti i campi sia alla luce del sole che nei vicoli notturni, contro quell’uomo che rovesciò il tavolo e bloccò il ribaltone destinato ad instaurare in Italia un sistema politico egemomìnizzato dal vecchio Pci. Per molti fu un lutto e fra quei molti c’era sicuramente De Benedetti. E tuttavia, come può un uomo del suo rango, fingere di essersi battuto contro un imbroglione che “albertosordeggiava”? È impossibile. Dunque, a mio parere, questa verità storica e fattuale esclude qualsiasi attenuante benevola per la maledizione che l’Ingegnere ha lanciato contro il vecchio nemico spaventato dalla morte, sorpreso dalla polmonite, ricoverato quasi con la forza, messo a brutto muso di fronte alla prospettiva di lasciarci la pelle. Come se non bastasse, e infatti non basta, De Benedetti come i bambini capricciosi che rifiutano di chiedere scusa alla nonna accoltellata in un momento d’ira, ha ribadito che diceva sul serio, che non si scusava di nulla e che aveva ragione lui. L’uscita di De Benedetti ha comunque funzionato anche da test di Rorschach, quello delle macchie d’inchiostro di fronte alle quali ognuno vede quel che ha già nella testa. C’è stata una pletora di gaglioffi che per il piacere di giocare come i pirati che si giocavano una bottiglia di rhum, si sono gettai nel gioco malaticcio sotto la rubrica “Piatto ricco mi ci ficco”. L’Italia dei codardi ha fatto quasi tutta un passo avanti per applaudire. De Benedetti ha giocato un pessimo finale di partita e purtroppo non saprà trovare dentro di sé la forza che altre volte ha trovato per fare un passo indietro e giocarsi la carta magnifica non dell’autocritica – che detesto – ma del decoro e del rispetto. Orsù, Ingegnere: ha ancora l’età per esibirsi in un colpo di reni che la restituisca alla postura del coraggio, l’unica uscita da questa storia.

DiMartedì, Alessandro Sallusti contro Stefano Feltri: "Carlo De Benedetti in carcere, Berlusconi mai". Libero Quotidiano il 22 settembre 2021. Continua a dividere, Silvio Berlusconi. La richiesta di perizia psichiatrica per il Cav avanzata dai pm del processo Ruby Ter anima la serata a DiMartedì, su La7, con Giovanni Floris che innesca un vivacissimo confronto tra Alessandro Sallusti, direttore di Libero, e Stefano Feltri, alla guida di Domani. L'editore di ques'ultimo, che punta a "svuotare" Repubblica e Fatto quotidiano, è quel Carlo De Benedetti "nemico" storico dell'ex premier e leader di Forza Italia. E proprio lì va a parare Sallusti. "Mi spiace che ancora a distanza di anni si sia ancora qui a combattere questa guerra civile, tutti contro un uomo". Secondo Marco Damilano, direttore dell'Espresso, il giorno più importante di Berlusconi è stato quando è andato a fare servizio civile. "Secondo me - replica Sallusti - è stato quando ha portato Putin a Pratica di Mare e ha messo fine alla Guerra fredda. O quando a Onna raggiunse un consenso personale superiore a quello di Draghi oggi o del suo stesso partito". Quindi, rivolgendosi a Feltri: "Se fosse intellettualmente onesto dovrebbe ricordarlo, De Benedetti è stato in carcere per tangenti ma Feltri non gli nega il diritto di essere proprietario del suo giornale. Il tuo direttore in carcere c'è stato, Berlusconi in carcere non c'è mai stato". Il direttore di Domani, piuttosto imbarazzato, non potendo negare un fatto inoppugnabile, la butta ovviamente in politica: "E grazie, si è fatto le leggi da solo per non andarci". Il tenore della discussione scivola inevitabilmente sull'anti-berlusconismo militante, tanto che sempre Feltri a fronte della raffica di reati contestati al Cav e inchieste varie, a domanda di Floris risponde così: "Berlusconi perseguitato? No, siamo noi a essere perseguitati da lui e dalla sua esigenza di nascondersi dai processi". Gira che ti rigira, si torna sempre al punto di partenza.

·        Carlo Rossella.

Alessandro Rico per "la Verità" il 7 giugno 2021. Dopo una vita da viaggiatore, Carlo Rossella l'ha confessato candidamente: soffre di ipocondria. Con il miglioramento del quadro epidemiologico, questa sua condizione si è alleviata?

«No. Permane». 

E come fa?

«Non esco. Punto e basta». 

È stato il Covid a scatenare il suo disturbo?

«L' ha accentuato ancora di più.

Vivo nel terrore di prendere questa terribile malattia».

Però, almeno una cosa, negli ultimi mesi, è migliorata: dalle casalinate di Giuseppe Conte siamo passati a Mario Draghi.

«Io sono un fanatico ammiratore di Draghi». 

Ci descrive, con le sue consuete doti icastiche, lo stile del presidente del Consiglio?

«Uno stile molto riservato: Draghi parla pochissimo. E devo dire che questo è il modo migliore per fare il premier». 

A suo avviso, Draghi resterà a Palazzo Chigi per controllare l'attuazione del Pnrr, o sogna il Quirinale?

«Onestamente non lo so. Io ho una grande ammirazione per Draghi. Dovunque vada, mi sta bene». 

Se al Quirinale non ci andasse lui, chi vedrebbe bene?

«Pierferdinando Casini». 

Come mai?

«È un grande politico, una persona molto intelligente. Farebbe molto bene all' Italia». 

E il Cavaliere? Sta spingendo per la federazione con la Lega. Si è arreso alla svendita di Forza Italia, o lo vede sempre saldo al comando?

«Il Cavaliere è saldissimo al comando. Forza Italia, senza di lui, è un ectoplasma». 

Matteo Salvini è passato dal Papeete al «governismo». Lo preferisce in versione moderata?

«È una posizione che in questo momento gli conviene». 

Giorgia Meloni le piace?

«Sì, mi piace. Mi piace che abbia il coraggio di stare all' opposizione da sola. Dopodiché, non la voterei. Ma mi sembra una donna di qualità». 

Qualcuno sostiene che sia troppo comodo evitare sempre le responsabilità di governo.

«Perché? Restare soli all' opposizione, in questo Paese, è un gesto di coraggio». 

Che ne pensa dei professori che ridacchiano con le foto della presidente di Fdi a testa in giù?

«Si protesta sempre in difesa delle donne. Mi sembra strano che nessuna femminista, in questo Paese, difenda la Meloni».

Lo stesso destino pare sia capitato alla povera Saman...

«Esatto». 

Enrico Letta è un «marziano»?

«Io credo che stia facendo molto bene. Con lui, per prendere in prestito un'espressione di Mao Tse Tung, il Pd ha fatto un "grande balzo in avanti"». 

Quindi, trova che la sinistra sia in buona salute?

«La vedo meglio della destra». 

Promuove anche l'alleanza con i grillini?

«No, secondo me il Pd dovrebbe mollarli e andare per conto suo». 

Giuseppe Conte ha un futuro, a suo parere?

«Se ha un futuro, lo sa solo lui...». 

Lo preferirebbe dentro o fuori dalla politica?

«Non mi occupo di Conte». 

E di Luigi Di Maio?

«Nel personale politico del Movimento 5 stelle, il migliore è lui.

Come ministro degli Esteri si è comportato molto bene e gli devo fare i complimenti».

Addirittura?

«Ha una grande personalità, è un ragazzo giovane e avrà un futuro. Però non è più una faccia dei 5 stelle». 

In che senso?

«Ha la sua faccia: insomma, vada avanti così, giocando in proprio». 

Quali leader femminili apprezza di più, a parte la Meloni?

«Mariastella Gelmini e Mara Carfagna. Poi ci sono donne apprezzabilissime del Partito democratico: ad esempio, Anna Finocchiaro ha grandi qualità».

Ha detto che non esce di casa. Guarda molta tv, allora?

«Niente affatto. La tv italiana non mi piace, preferisco informarmi sulla Bbc. Seguo solo quella, del resto non guardo niente». 

Perché preferisce l'informazione della Bbc a quella nostrana?

«Guardi, già il fatto che la Bbc non parli dell'Italia mi sembra positivo». 

Prova disaffezione nei confronti del nostro Paese?

«Sì, sono molto disaffezionato. Anche se l'elenco di ciò che mi delude sarebbe molto lungo».

Ci illustri almeno i difetti principali.

«Abbiamo persone straordinarie, come il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, Casini... E poi ci sono i partiti, che hanno piazzato i loro uomini di qua e di là. In questo Paese ci sono personaggi che in Inghilterra non farebbero nemmeno gli uscieri». 

Boris Johnson lo stima?

«Mi piace molto. E mi piace come ha gestito l' emergenza Covid».

Pensare che è stato sempre dipinto come poco più che un buzzurro...

«Era dipinto come un buzzurro in Italia. Qui si fa presto a dire certe cose. Johnson ha delle grandi qualità». 

E i laburisti?

«Finché c' è Johnson, non esistono. Non hanno più leader, il grande leader, in Inghilterra, è lui». 

Gli Stati Uniti come li vede?

«Donald Trump era uno sbruffone. Credo che Joe Biden stia governando molto bene, con grande attenzione ai non privilegiati, agli umili, ai deboli. È un democratico vero».

Non corre il rischio di finire ostaggio dalla sinistra radicale?

«Non credo proprio. È stato il numero due di Barack Obama, conosce la politica e la società americana ed è assolutamente in grado di fronteggiare anche i problemi più difficili». 

Terrà botta al medio termine, o i repubblicani riprenderanno il controllo del Congresso?

«I repubblicani non hanno nessuna possibilità finché c' è Biden. Hanno avuto l'onta di Trump e si porteranno ancora per un bel po' questo fardello. Devono cambiare la classe dirigente che si è inchinata davanti a Trump, con l'eccezione di Marco Rubio». 

Scusi, ma Trump è pur sempre uno che ha preso 70 milioni di voti.

«E che vuole dire?».

In democrazia i voti hanno un peso.

«Quanti demagoghi hanno preso milioni di voti e poi si sono rivelati degli incapaci?».

Della polarizzazione che infiamma la società americana, però, non darà mica tutta la colpa ai repubblicani...

«Sono stati loro a forzarla. Meno male che è arrivato Biden...». 

Prima ha elogiato Johnson. E la regina Elisabetta?

«La ammiro moltissimo. È una donna straordinaria, è stata un punto di riferimento per il suo Paese, anche durante il Covid. Ha fatto la regina nel vero senso del termine. Anche la famiglia reale si sta comportando molto bene. E quando verrà il tempo, si comporterà molto bene anche il principe Carlo».

Sì?

«Ha un grande amore per lo stile, per la campagna e per l'ecologia». 

Ereditato dal padre?

«Sì, il duca di Edimburgo aveva indubbiamente queste qualità.

Ma molte cose, Carlo, le ha apprese stando accanto alla regina, che gli ha concesso molto più spazio». 

Per cosa?

«Per partecipare alle cerimonie, tenere discorsi... E da queste occasioni si capisce che è molto dotato. Che poi la stampa italiana l'abbia sempre raffigurato come un deficiente, è un altro discorso».

Discorso che non condivide.

«I deficienti, per me, sono quelli della stampa italiana, che parlano male di Carlo.

Carlo sarà un ottimo re d' Inghilterra. Anche se, dietro un grande uomo, c' è sempre una grande donna. Anzi, in questo caso due». 

Una è la regina. L' altra?

«La compagna, Camilla Parker Bowles».

Anche di lei, in Italia, se ne sono dette tante: faceva scalpore che Carlo avesse rinunciato alla bellissima Diana Spencer per stare con lei...

«Guardi che è Diana ad aver lasciato il principe Carlo, per mettersi con Dodi Al Fayed».

Da noi, Diana era venerata come una specie di santa.

«Diana lasciò i figli e si mise con l'amante, un miliardario egiziano che le faceva fare una vita straordinaria». 

A corte non la faceva già?

«La corte inglese non ha soldi da buttare dalla finestra come i miliardari. E pretende che si seguano certi principi che, evidentemente, Diana non aveva voglia di seguire. Certo, i figli la ricordano con affetto, ma sono molto affezionati al padre. Forse, più William di Harry». 

Di Meghan Markle, la moglie di Harry, che opinione ha?

«Harry aveva già una testa particolare. La moglie lo ha influenzato e lo ha messo contro la famiglia reale. Nell' intervista a Oprah Winfrey è venuto fuori tutto l'astio di questa coppietta». 

A che punto è la «guerra» intestina?

«In occasione dei funerali del duca di Edimburgo, pare che Harry si sia molto riavvicinato a William e che, ora, si parlino al telefono di frequente. Harry è tornato all' ovile, evidentemente dà meno importanza ai consigli micidiali della moglie». 

Angela Merkel è sul viale del tramonto.

«Ha gestito la Germania in maniera invidiabile. Si farà rimpiangere. Ma mi sembra che la leader dei Verdi, Annalena Baerbock, possa essere un bel competitor per la Cdu».

E chi raccoglierebbe il testimone della leadership nell' Ue?

«Il successore della Merkel in Europa? Forse potrebbe essere Emmanuel Macron».

Candida Morvillo per il "Corriere della Sera" il 18 maggio 2021. Carlo Rossella ha vissuto in viaggio, è stato corrispondente da Mosca, da Washington, da teatri di guerra; da presidente di Medusa Film, ha calcato ogni red carpet ; da romanziere, ha scritto di città lontane e di grandi alberghi; il suo motto è una citazione di Noël Coward: «Della vita, amo soprattutto gli intervalli tra gli arrivi e le partenze». La pandemia l' ha bloccato in casa, come tutti, ma una caduta ha fatto il resto: da oltre un anno, esce solo per vedere fisioterapisti e ortopedici. Seduto nella sua biblioteca da 16 mila volumi a Pavia, davanti a un' enorme carta geografica piena di spilli colorati piantati ovunque tranne che in Australia, sospira: «È stato il mio annus horribilis . Appena saputo del Covid, da ipocondriaco quale sono, mi ero chiuso in casa e, in casa, sono scivolato e mi sono rotto la caviglia».

Si era rinchiuso, dunque, prima del lockdown?

«Temo ogni malattia come la peste. Appena ne gira una, mi sento i sintomi. Per fortuna, sono sposato con un medico: Daniela è stata professore di Endocrinologia pediatrica e io, in effetti, sono un po' bambino. Mi cura ogni male, anche quelli immaginari».

Si narra che sua moglie abbia calcolato che lei ha passato più notti nei grand hotel che nel suo letto. Eravate mai stati insieme tanto?

«Mai. Ci sono cose di questa casa che sto scoprendo solo ora. Per esempio, che ho un impianto stereo pazzesco».

Della vita coniugale, che cos' ha scoperto?

«Che mia moglie mi fa stare molto bene in casa, mi aiuta in tutto, mi compra tutto».

Lei che fa tutto il giorno?

«Sogno guardando i documentari di viaggio della Bbc».

Quando ha cominciato a viaggiare tanto?

«Soprattutto da inviato di Panorama . Devo grandi viaggi al direttore Claudio Rinaldi.

Quando arrivò, chiese dov' ero. Gli risposero: in Brasile, è sempre in giro quello. E lui, serio: quando torna, gli voglio parlare. Mi parlò, ma per mandarmi in Medioriente.

Eh nei colleghi ho sempre notato non dico invidia, però i miei viaggi non li mettevano di buonumore».

Suppongo neanche i soggiorni nei grandi alberghi. Di quali ha nostalgia?

«Del Raffles di Singapore. Ha il fascino dell' edificio coloniale, brilla come un diamante. E del Peninsula di Hong Kong. Ero lì il giorno dell' Handover, quando ci fu il passaggio da inglesi a cinesi. Ho visto ammainare la bandiera e mi è venuto il magone, era la fine di un mondo».

In quali altri luoghi si è trovato in momenti topici?

«Nell' Argentina di Videla, con le mamme dei desaparecidos che scendevano in Plaza de Mayo coi fazzoletti bianchi in testa. O fra Iraq e Kuwait mentre si preparava la Guerra del Golfo: eravamo tutti lì ad aspettare, non avevamo niente da fare. Poi, Gianni Agnelli mi chiamò a dirigere La Stampa Sera e me ne andai prima che iniziasse. L' avvocato disse: caro mio, si è perso il secondo tempo del film».

Incontri memorabili?

«Vidi Karol Wojtyla a Cracovia prima che diventasse Papa. All' alba diceva messa a pellegrini attaccati come sardine. Me lo presentarono, poi, quando era Papa. Avevo un problema personale, non so come lo capì, ma mi mise la mano sul braccio, avvertii un calore e lui mi disse: so che è preoccupato, ma andrà tutto bene. Il problema si risolse e io seppi che quello era un miracolo e che lui era un santo».

Che città le manca di più?

«Buenos Aires. Ci ballavo il tango il giorno libero delle cameriere. Mi manca mangiare il pesce da Wiltons a Londra».

Dove sono le donne più belle del mondo?

«A Cuba, ma tutto il Sudamerica è una miniera».

Dove ha lasciato il cuore?

«A Beirut. Una cosa di amore e guerra. Non che abbia avuto un' amante libanese.

Forse. Non mi ricordo».

In quale posto noioso è riuscito a divertirsi?

«Stetti un anno a Washington, da corrispondente della Stampa , e mi fecero scrivere un solo pezzo, sull' abito di Monica Lewinsky conservato in frigo con le prove organiche di Bill Clinton. Però, ero sempre invitato alle cene alla Casa Bianca, vedevo sempre lui e sua moglie Hillary, spiritosissima. Al Watergate Hotel, quando passava Mario Draghi, prendevamo il Martini e anche lui era spiritoso».

Mosca com' era?

«La mia era quella di Breznev. Presi un appartamento e davo sempre feste bellissime.

Allora, fui convocato al Kgb, da un signore alto, che voleva sapere delle feste. Gli dissi: venga e le veda. Da allora, ogni tanto, compariva a casa».

Voleva arruolarla?

«Veniva per divertirsi».

Ha poi finito di scrivere la biografia della spia inglese Kim Philby, che il suo editore attende dagli anni 90?

«L' ho intervistato, ma quando ho letto i romanzi di John le Carré ho capito che era meglio cambiare mestiere».

Sul Foglio, tiene ancora la rubrica «Alta società»: in tempi di coprifuoco, che resta dell' alta società?

«Succedono ancora cose, ho amici che mi chiamano, ma è più difficile raccogliere spigolature. La crisi economica ha banalizzato tutto: la gente spende meno, vive meno, ama meno. Non mi ci faccia pensare, divento matto: uscirò e troverò un mondo dove le cose che amo sono sparite».

La prima cosa che farà?

«Andare in Australia».

Da solo o con la consorte?

«Da solo. Ho amici dappertutto. L' importante è che siano persone che possano vivere senza lavorare. Così, ce ne possiamo andare in giro».

·        Carlo Verdelli.

Luca Telese per tpi.it il 16 dicembre 2021. Cominciamo dal problema giornalistico di questi giorni. Cosa pensi della frase di Mario Monti su informazione e pandemia? “Bisogna trovare modalità meno democratiche di somministrazione delle notizie”.

(Sospiro). «Non mi pare felicissima». 

Allude al tema del controllo.

«Lo so bene, ma non condivido. L’informazione è un mestiere civile, sia che scrivi sia che fai scrivere. Io sono molto cauto e allergico a qualsiasi idea di censura». 

Monti dice: “Siamo in guerra”.

«Io sono contro la censura anche in tempo di guerra. Non ci possono essere regole imposte dall’alto, le regole deve dartele la tua coscienza». 

Non credi al comitato di controllo etico.

«Ma figurati. E composto da chi, poi? La pandemia vissuta alla guida di un giornale è stata una esperienza sconvolgente, per me». 

Spiega.

«Vedendo quello che accadeva, sentivo il dovere di fare una informazione più accurata e precisa. Ma anche meno reticente». 

È la tua idea del “giornalismo popolare” declinata nel tempo del virus.

«Sei tu la sentinella, devi dare tu le risposte alle domande delle persone, devi stare dalla parte di chi non capisce e di chi vuole sapere, dicendo le cose come stanno, e sorvegliando il potere». 

Chi è l’uomo dell’anno in Italia?

«Draghi. Non c’è discussione. Nessun paragone con i governi tecnici di Ciampi e di Monti». 

Perché?

«Le condizioni sono completamente diverse. E quando questo tempo finirà, nulla sarà come era prima. Sono molto curioso di capire cosa accadrà, da giornalista e da cittadino».

Cosa ti preoccupa di più?

«La scarsa consapevolezza della classe politica. Li vedo disorientati, spaventati. L’Italia del post-Covid è un Paese in cui sotto il sottile velo dell’apparenza avverto povertà e paura». 

Perché?

«Non ci sono più certezze. Quando la generazione di mio padre iniziava a lavorare sapeva che in un modo o nell’altro sarebbe riuscita a raggiungere un buono stipendio». 

E oggi?

«Mettiti nei panni di un padre che sta mantenendo il figlio agli studi in America. Se perde il posto di lavoro chi glielo ridà? Io in questi tempi penso a quelli come lui». 

Carlo Verdelli ha la voce di sempre. Sussurrata, priva di enfasi, densa di contenuti, ma le parole scorrono piane, come per bandire qualsiasi retorica. Verdelli è uno dei più importanti giornalisti italiani, ha diretto la Gazzetta dello Sport, Vanity Fair, Il Corriere della Sera Sette, e ovviamente La Repubblica. Ha guidato l’informazione Rai quando il direttore generale era Antonio Campo Dall’Orto. Lo ha fatto sempre così, senza mai gridare. È stato il mio direttore un secolo fa. Ha appena pubblicato “Acido”, un libro di “cronache italiane anche brutali” (Feltrinelli, 19 euro).

Raccontiamo il momento più bello della tua carriera?

«Ce ne sono stati tanti, ma, se ci penso, non ho dubbi. È quello della vittoria al Mondiale, che per me è un titolo della Gazzetta: “Tutto vero!”, con la foto di Cannavaro che alza la coppa». 

Quella prima pagina fissò un primato.

«Sì, le rotative girarono per più di 24 ore senza fermarsi. Mai accaduto prima o dopo». 

Due milioni e 200mila copie vendute, il record precedente era un milione e 200.

«Il giornale per vendere tutte quelle copie doveva essere stampato: al termine di quella giornata infinita noi del gruppo di direzione andammo a Pessano con Bornago, dove c’era lo stabilimento». 

E cosa accadde?

«Mentre entravamo ci venivano incontro gli stessi dipendenti per farci firmare le copie. C’erano entusiasmo, aria di festa, orgoglio». 

Bello.

«È il senso leggero di quando si entra nella storia. Sapevano già tutti che era una numero da collezione». 

Da dove arrivi?

«Da una famiglia normalissima. Mio padre operaio specializzato, mia madre impiegata alla Cova, ditta di giocattoli e carrozzine. Poi si dedicò alla famiglia».

Periferia di Milano.

«Sì, proprio al confine, dove inizia Quarto Oggiaro. Zona industriale, ancora oggi». 

Da piccolo ti mandano dalle suore.

«C’era il tempo pieno, e mio padre faceva in tempo a uscire al lavoro. Liceo classico al Beccaria». 

Non era scontato.

«Per nulla. Tutti i miei compagni erano andati a ragioneria, istituti tecnici, avviamenti al lavoro. Ma i professori per me avevano insistito». 

Erano gli anni dell’ascensore sociale e delle differenze di classe.

«Nel 1970 tutti i miei compagni del classico avevano famiglie importanti. E poi…». 

Fammi un esempio.

«Molti di loro sapevano l’inglese. Viaggiavano. Io non ero mai stato all’estero in vita mia, nemmeno in Svizzera!».

Ti iscrivi a lettere.

«Con indirizzo storico. Poi mio padre andava in casa integrazione, e io iniziai a lavorare perché non potevo gravare su quello stipendio». 

Raccontalo in una immagine.

«Lavorava in una ditta farmaceutica. Lui e i suoi compagni dovevano proteggersi con degli scafandri, come dei palombari». 

Per le radiazioni.

«Ma la sera lo vedevo che si preparava degli impacchi di camomilla, per dare sollievo agli occhi». 

Come mai?

«Mi spiegava che per manutenere le macchine doveva avvitare bulloni minuscoli». 

E quindi?

«Mi diceva: “Come faccio a far bene il mio lavoro se non li vedo?”». 

Quindi toglieva il casco.

«E lo ha pagato caro, con tanti malanni e una morte precoce». 

I tuoi primi lavori?

«Andavo alla Carovana. C’era “la chiamata”». 

Tipo caporali?

«Esatto davanti al cancello: tu vieni e tu no». 

A Milano!

«In quegli anni era normale. Poi ho fatto il fattorino: giravo con la 500 aziendale». 

Poi parti militare.

«Perché smetto di fare il rinvio sperando: “Magari non mi chiamano”». 

E accade?

«Macché. Arriva subito la cartolina di precetto. Bersaglieri: Albenga, poi Friuli». 

E quando torni?

«Penso: “Il primo lavoro che capita lo prendo”». 

Invece capiti a La Repubblica.

«Nell’ottobre 1979, il quotidiano, che dopo il sequestro Moro fa il salto di qualità, sbarca a Milano».

Ti presenti da Giampiero Dell’Acqua, il capo dell’ufficio di corrispondenza.

«Sembrava Walter Matthau. Un maestro. Gestiva quattro pagine di cronaca cittadina». 

Colloquio brillante?  

«Macché. Però vedo che mette in agenda sia me che Luca Martini, l’amico con cui ero andato». 

E poi?

«Un giorno squilla il telefono di casa. È Giampiero: “Ti va di fare il Micam?”». 

Cosa?

(Ride) «La Fiera delle calzature. Tutta la notte svegli, io e Luca, per 20 righe. Le firme erano piccolissime, in corsivo ma per un ragazzo come me era un sogno».

Il primo salto è in un periodico, Duepiù.

«Era stato una grande invenzione mondadoriana. Con un inserto chiuso dentro». 

E cosa c’era dentro?

«Consigli di sessuologia. Riflessioni sulla coppia. “Come fare se lui ha problemi di erezione”. Tutto scritto da esperti seri». 

Risultato?

«700mila copie». 

In Mondadori trovi direttori come Rognoni e Sabelli Fioretti.

«Approdo ad Epoca con Statera: grandi maestri».

Diventi redattore, inviato, vicedirettore. 

«Finché Paolo Mieli non mi chiama a fare il direttore di Sette. Ma ti devo dire una cosa importante». 

Quale?

«Ci sono due modi per diventare giornalista». 

Quali?

«O si nasce bene, figli di quel mondo o di universi attigui». 

Oppure?

«Si arriva dalla foresta, come me. Tra chi viene dalla foresta alcuni cercano di far dimenticare la loro provenienza. Altri lo considerano la propria bussola».

Ti consideri socio di questo club.

«Ho sempre pensato ai lettori come la gente tra cui ero cresciuto. L’Italia popolare. Appartenere ai territori, vivere dei mestieri. Volevo parlare a questi, più che al Palazzo». 

Hai scritto addirittura un libro sulla tua esperienza a viale Mazzini.

«La Rai è stata un percorso ad ostacoli sin dall’inizio. Quando vengo chiamato da Campo Dall’Orto lui mi assegna un mandato preciso». 

Quale?

«Recuperare il ritardo. Eravamo nel 2016, e l’azienda era ancora analogica».

E tu lo dici in Commissione di Vigilanza.

«“Siamo nel Duemila ma la Rai è rimasta al Novecento”. Era vero». 

Però sei contento del tuo lavoro alla guida dell’informazione.

«In parte sì, in parte no. Avevo un contratto di 4 anni, me ne sono andato alla fine del primo». 

Perché?

«Non c’erano più le condizioni per fare bene il nostro lavoro. 

Che accade? 

«Renzi aveva scelto Campo Dall’Orto con un mandato giusto: carta bianca per cambiare». 

E poi?

«Quando Antonio gli fece il mio nome disse: “Una ottima scelta per due ragioni. La prima è che non lo conosco. La seconda è il suo curriculum”». 

Un complimento.

«Vero. Ma quando Renzi capisce che le cose gli vanno male diventa invadente. Io faccio muro sulle richieste politiche. E quando non riesco più me ne vado». 

Contro chi ti scontri?

(Sorride) «Ad esempio con la Maggioni, che diventa la capofila di “Lasciamo tutto così com’è”». 

Perché?

«Va chiesto a lei. Un giorno avevo detto che Rainews24 non poteva fare l’uno per cento di share con 150 giornalisti». 

E quindi?

«Dico: “O arriva al 3 per cento o va chiusa”. Lei l’aveva diretta e la prende come una grave offesa personale».

E di cosa vai orgoglioso? 

«Ho cercato di fare spazio e di far crescere. Abbiamo fatto ore e ore di informazione». 

E il rapporto con la politica?

«La Commissione di vigilanza è la cosa più lunare e astrusa del Parlamento italiano». 

Ovvero?

«Un terribile crogiolo di incompetenza, presunzioni varie ed arroganza. E poi rapporti trasversali, e conflitti di interessi. Ti basta?». 

Tu venivi dal mondo fatato di Vanity Fair.

«Incassavamo un sacco di soldi: gli editori americani erano impazziti». 

E dici: “Non sapevo nulla di moda, quando ero entrato”.

«Vero. Ma studiando giorno e notte, nei giornali,  ho sempre imparato tutto». 

Anche alla Gazzetta?

(Ride). «Non sapevo neanche la formazione della Juve». 

Hai fatto in tempo a conoscere un grande direttore.

«Da Gino Palumbo ho imparato moltissimo anche conoscendolo molto poco». 

Ti aveva chiamato il futuro ministro Colao.

«Accettai perché, pur sapendo poco di sport, capivo che la Gazzetta era l’unico giornale popolare che l’Italia abbia mai avuto. Noi non abbiamo il Sun, i grandi quotidiani di massa inglesi». 

E cosa capisci?

«Che nel nostro mondo era invecchiato il linguaggio. Palumbo aveva svecchiato questo codice». 

Fammi un esempio.

«Un tempo la vecchia Gazzetta avrebbe scritto: record mondiale, Sotomayor salta 2 metri e 45». 

E invece?

«Palumbo pensa: “Ma quante macchine una sull’altra ha saltato?”». 

Ah ah ah…

«L’intuizione di Gino erano titoli come “Gigi sfonda la rete!”, “Eroi”… Pensa se anche la politica fosse stata titolata così». 

Ci andò vicino.

«Lo avevano chiamato al Corriere. Rifiutò perché aveva scoperto di avere un male incurabile». 

Sarebbe stato concorrente di Scalfari.

«Eugenio, pensando che accettasse, pubblicò in prima la lettera della madre di un tossicodipendente. Era il suo modo di accettare la sfida». 

Ti piace questo dei giornali?

«Sí. Ogni tuo titolo influenza i tuoi concorrenti più di quanto tu non creda». 

Uno slogan a cui sei affezionato? 

«“Repubblica alza la voce”. Semplice, chiaro. Un programma. È quello che ho fatto».

Cos’è il giornalismo per te?

«La mia formula l’ho rubata a Wim Wenders: “Informotions”».

 Come come?

«“Emozione più informazione”. Non credo alle notizie fredde. Non credo al giornalismo senz’anima». 

Giochiamo con i temi di fine anno: riunione di redazione verdelliana. Vuoi un presidente «patriota» come dice Meloni?

«No. Lo voglio equilibrato, credibile capace di far rispettare la Costituzione». 

Caspita.

«E poi cos’é la patria oggi? La profezia di Mc Luhan sul villaggio globale si è verificata abbattendo muri e confini. I giovani devo poter lavorare e avere diritti. Il loro paese è il mondo. Il tempo delle bandierine è finito». 

Nel tuo libro parli per la prima volta del tuo addio a Repubblica.

(Pausa). «Sono stato licenziato lo stesso giorno in cui volevano uccidermi». 

Racconta.

«Tutti i licenziamenti sono brutti. Ma credo che il mio, da La Repubblica, abbia battuto una serie di primati da Guiness». 

Mettiamoli in fila.

«È l’aprile 2020, e io sto vivendo un momento difficile, sul piano personale e professionale, proprio quando cambia l’editore del giornale e arrivano gli Elkann».

Che tipo di momento?

«Dopo alcuni titoli polemici sulla Lega, si erano abbattute su di me, e sulle persone a me più vicine, una serie di minacce terribili e molto violente». 

Il più discusso era un titolo di prima a tutta pagina, “Cancellare Salvini”.  Erano il tuo marchio di fabbrica a La Repubblica: titoli forti e netti.

«Era una sintesi tra una polemica politica di giornata e un invito al Pd e al M5s a contrastare il leader della Lega». 

Ricordiamo il momento: c’era stata l’estate di Salvini al Viminale, le navi ferme fuori dai porti, gli immigrati in mare…

«Io avevo fatto un lungo lavoro di studio sulla Repubblica degli esordi per arrivare a quello stile». 

Lo avevi dichiarato alla presentazione di “Grand Hotel Scalfari”, di fronte al fondatore.

«La storia di Repubblica è stata sempre quella di un giornale di opposizione importante per l’identità della sinistra». 

Opposizione, dici.

«Certo: quella di Scalfari a Craxi e al Pentapartito, quella di Mauro a Berlusconi e alla destra. E anche, se vuoi, quella di Calabresi, che si ingarellò contro il primo M5S». 

Tu in quel momento avevo schierato il giornale contro la linea dei “porti chiusi”.

«Esatto. Ma Salvini fu lesto nel trasformare quel nostro titolo in un invito ad annientarlo sul piano personale». 

E cosa accadde da quel momento?

«Si attivò un tiro al bersaglio continuo contro di me. Insulti, ingiurie, e poi addirittura minacce di morte». 

Il Consiglio d’Europa arriverà a classificarle di “livello 1”, ovvero tra le violazioni più gravi alla libertà di stampa.

«Minacce per cui, come vedi, vivo ancora oggi sotto protezione armata». 

E quel 22 aprile cosa accadde?

«Ben due diversi avvisi, registrati e raccolti dalle forze dell’ordine, dicevano che quello sarebbe dovuto essere il mio ultimo giorno di vita». 

Immagino lo stato d’animo.

«Stavo lavorando. Ero al giornale, mentre si moltiplicavano appelli di solidarietà in mio favore. avevo appena finito la riunione, la segreteria di redazione mi dice: “Direttore, ti vogliono al decimo piano”». 

Nel palazzo di largo Fochetti era quello degli amministratori.

«Esatto. Era il giorno del primo Cda, pensai ad una qualche comunicazione burocratica». 

E invece?

«Prendo l’ascensore. Mi restano impressi gli orari e i tempi». 

Cioè? 

«Alle 14.02 ero dentro la stanza. Alle 14.10 ero già fuori. Licenziato». 

Mi pare incredibile.

(Sguardo serio. Ombra di sorriso). «È esattamente quello che è accaduto». 

Se provi a guardarla da fuori, quella storia, che cosa ci dice?

«Visto quel che è successo dopo, qualche domanda me la faccio. Diciamo che non è un bel segno per il mondo dell’informazione, nel tempo che stiamo vivendo». 

Diciamo qualcosa sul senso di quella giornata.

«Lasciai il giornale dopo mezzanotte. Gli uomini della mia scorta, comprensibilmente nervosi, con le pistole nella cintura. Non sono tornato al giornale mai più». 

Tu non contesti il diritto di un editore di licenziare.

«Assolutamente no. Il giornale all’epoca viveva un ottimo momento, ma non vuol dire. Sei il padrone, per me della tua azienda puoi fare ciò che vuoi». 

E dunque?

«Il tema è il rispetto della persona, che non può venire mai meno. Che poi è anche il rispetto del lavoro. Siccome il lavoro di un giornalista deve coincidere il più possibile con la libertà, questo è un problema». 

Oggi sei un editorialista del Corriere della Sera.

«Ho trovato di nuovo casa a via Solferino, dove ho lavorato tanti anni tra Corriere e Gazzetta. È stata una bellissima opportunità, sono rinato».

·        Cecilia Sala.

Da "corriere.it" l'8 settembre 2021. Il video mostra gli attimi di paura vissuti dalla giornalista Cecilia Sala quando, poco prima di collegarsi in diretta tv su La7, viene avvisata dell'esplosione di diversi colpi di mitragliatrice contro le finestre dell'hotel in cui soggiornava, sparati dai talebani che disperdevano la manifestazione di donne contro il Pakistan e a favore della resistenza nel Panshir.

Tg1, chi è Cecilia Sala: da Elettra Lamborghini ai talebani in Afghanistan, una parabola clamorosa.  Libero Quotidiano il 07 settembre 2021. E' una delle poche giornaliste occidentali a trovarsi in Afghanistan al momento: Cecilia Sala, romana di 26 anni, è considerata una tra le maggiori promesse della tv e del giornalismo in generale. Ma qual è la sua storia? La giovane, come spiega TvBlog, è cresciuta nella "scuola" di Michele Santoro. Si fece notare la prima volta quando a 14 anni parlò in una piazza contro la mafia. Le prime apparizioni televisive sono avvenute nel 2013 a Piazzapulita di Corrado Formigli e nel 2014 ad Announo, il talk show cui prendeva parte come membro fisso del cast. Era appena maggiorenne e condivideva il palco con Elettra Lamborghini, la cantante conosciuta soprattutto per il suo twerking. La Sala, che si è fatta spazio sul piccolo schermo grazie alla forza delle sue opinioni, è cresciuta nel team di Santoro ed è stata promossa prima a redattrice web di Italia - in onda su Rai2 -, poi è entrata a tutti gli effetti nella squadra giornalistica delle trasmissioni condotte o prodotte dall’anchorman. Negli ultimi tempi, però, la giornalista si è specializzata soprattutto negli Esteri. I suoi recenti interventi su quanto sta avvenendo in Afghanistan sono diventati virali sui social, soprattutto tra i giovani che sembrano apprezzare i suoi racconti. Cecilia Sala, comunque, di strada ne ha fatta. Dal palco condiviso con la Lamborghini, infatti, è finita persino in un servizio del Tg1. Direttamente da Mazar-i Sharif ha parlato della protesta delle donne afghane: “La maggior parte delle donne ha paura di uscire di casa per scoprire che tutte le promesse fatte dai talebani in conferenza stampa – non saranno più obbligate a indossare il burqa, potranno continuare a lavorare o a studiare – non saranno rispettate”.

·        Concita De Gregorio.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 9 settembre 2021. Ho provato a immaginare una realtà parallela in cui la coppia Concita De Gregorio/David Parenzo alla conduzione di In Onda sia la stessa, ma a sessi invertiti. David è una donna, Concita un uomo. Ecco, non saremmo arrivati alla terza puntata senza le barricate delle femministe (me compresa) fuori dagli studi, visto non tanto l’evidente disequilibrio negli spazi concessi ai due nel programma (Parenzo parla meno della Lagerback da Fazio) ma per i modi con cui lei si rivolge a lui. Sbrigativi, sprezzanti, conditi da sorrisini nervosi attraverso i quali mostra forzatamente i denti (che nel linguaggio non verbale significano una cosa ben precisa: ti vorrei addentare la giugulare) e con una frequente espressione che copre tutte le scale di colori comprese tra il disprezzo e il compatimento. Davvero, se Concita De Gregorio fosse un uomo, non staremmo neppure più qui a parlarne. Avrebbe preso un unico, gigantesco cazziatone agli esordi e si sarebbe ravveduta. E invece ne parliamo perché ieri sera si è raggiunta la vetta più alta della sua arroganza. Ospite il ministro Luigi Di Maio, lo stesso Di Maio ha respirato quell’imbarazzo che si respira a cena, di fronte a una coppia di amici con lui che tratta di merda la moglie o viceversa e tu balbetti qualcosa per sdrammatizzare, ma vorresti infilare la testa nell’insalatiera per l’imbarazzo. Tra l’altro, duole dirlo, ma modi a parte, sul tema virus e Green Pass la De Gregorio era di un’impreparazione tale che Parenzo e Di Maio al confronto parevano Fauci e Burioni. A partire dalla sua sconcertante premessa, ovvero: “Il Green Pass da solo non serve a niente, è solo una certificazione che significa che sei tamponato o vaccinato per entrare nei posti”. Che voglio dire, certo che da solo non serve a niente, infatti non è l’unica misura di contenimento del paese. E no, non è “solo una certificazione”, ma, appunto, una misura di contenimento del virus e di protezione per i cittadini. A quel punto il ministro Di Maio spiega con chiarezza che “il Green Pass serve a entrare nei locali, luoghi insomma in cui c’è la più alta probabilità di trasmettere il virus. Non sarà certo meglio tornare al coprifuoco…”. La De Gregorio scatta come se Di Maio avesse urlato “sieg heil!” in piedi sulla scrivania. E lo interrompe con una supercazzola devastante, avvitandosi su se stessa come spesso le succede: “Il Green Pass è uno strumento di controllo, non di cura! Il vaccino cura o comunque previene cioè “cura” è inesatto, diciamo che PREVIENE DALLA malattia, mentre il Green Pass controlla se ti sei vaccinato. Quindi il governo si deve prendere la responsabilità eventuale”. In pratica, a un anno e mezzo dalla pandemia, la De Gregorio non ha ancora capito le basi dell’epidemiologia, e questo sarebbe pure un peccato grave ma accettabile, ma su quelle dell’educazione ero convinta andasse più forte. E invece riesce pure a rimproverare gli altri interlocutori del problema che la affligge in quel momento: la confusione.  “Introducendo il Green Pass abbassiamo la curva dei contagi!”, dice Di Maio, provando a semplificare il concetto. E lei, nervosa: “No, non è che abbassiamo la curva, col Green Pass non facciamo entrare le persone non vaccinate e tamponate, è questa la questione sennò facciamo confusione!”. In pratica, secondo la conduttrice, il Green Pass è una specie di tessera magnetica dell’hotel, serve solo a entrare in camera. Probabilmente lei accede ai tavolini al chiuso nei bar con la scheda della camera 107 dell’Hilton. Non ha capito quello che hanno capito anche i lampioni: se nei luoghi al chiuso entrano solo persone o vaccinate (quindi protette e meno contagiose se infette) o tamponate (quindi probabilmente non infette e in contatto con persone che se infette contagiano meno gli altri, perché vaccinate) il virus si contiene di più. E i primi ad essere protetti dal Green Pass sono proprio i non vaccinati. Che non sono discriminati, ma tutelati. Parenzo, che ha capito, aggiunge incauto: “Non voglio dar ragione a Di Maio, ma il Green Pass è incentivante!”. Ha dato ragione a un grillino. A UN GRILLINO. Lei mostra le gengive fingendo di sorridere e lì si capisce che butta male, tipo il gatto quando muove la coda. Sono segnali della natura che non si possono ignorare. E insiste, improvvisandosi portavoce “delle persone” che non si sa chi siano, se quelle che incontra lei al bar o quelle che al casello autostradale pagano contanti, boh: “Le persone non vogliono il Green Pass perché il Green Pass stabilisce che ci sia una differenza tra vaccinati e non vaccinati!”. Parenzo prova a proferire parola e lei: “Non sto parlando con te, sto parlando con LUI!”. Cioè, Parenzo non è un suo interlocutore titolato ad intervenire e il ministro è un “Lui generico”. Una specie di schwa, ma un po’ meno. L’invasione della Polonia è stato un momento di maggiore modestia, nella storia. Mentre Di Maio assiste allibito alla tensione tra i due conduttori, lei va avanti: “Molta gente dice ‘se ci dobbiamo vaccinare vi dovete prendere voi la responsabilità, perché io devo firmare? Dovete imporre voi l’obbligo’, oggi una signora mi ha scritto questo!”. Persone, gente, una signora. Deve essere la nuova sinistra che vuole dimostrare di ascoltare la gente. Ma soprattutto la nuova sinistra che non ha mai sentito parlare di “consenso informato” in tema di sanità. Un concetto nuovo, inedito, per la conduttrice. Di Maio dice un altro paio di cose insolitamente lucide e Parenzo, che ormai ha deciso di morire come quei delfini che si spiaggiano da soli e non sai perché, sussurra: “Io non sono d’accordo con Concita!”. I denti. Le gengive. “IO faccio un mestiere che è quello del giornalista e il giornalista fa domande!”, sibila lei. IO. Come a dire “tu invece sei un metalmeccanico” e “tu invece annuisci e basta”. Il problema è che le sue non erano quasi mai domande, ma affermazioni. Dovrebbe rivedersi la puntata, la De Gregorio, e scoprirebbe che oltre all’assenza di educazione, di equilibrio, di preparazione, ieri c’era anche quella dei punti interrogativi. I grandi latitanti, nella sua vita televisiva. E non solo.

L'intellettual"a" in sandali e Zan passata da Gramsci a Parenzo. Luigi Mascheroni il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. Già direttore dell'Unità poi prima firma, e primadonna, di Repubblica, Concita De Gregorio è conduttrice perfetta. Se ti facesse parlare...o, non è vero. Spazziamo via subito antipatiche insinuazioni che nulla, peraltro, hanno a che fare con il giudizio sul suo ruolo di giornalista. Non è vero che Concita De Gregorio è diventata famosa per i suoi sandali di Sergio Rossi da millecento euro al paio!

Perché nel giornalismo è fondamentale essere precisi.

Precisa – a parte quella volta che le agenzie riportarono la notizia della lussuosa villa fattasi costruire dal leader turco Erdogan, e lei presa da furore anti-sovranista lesse Orbán e scrisse un articolo durissimo contro il presidente ungherese e i suoi amici sovranisti europei, un granchio clamoroso (ottimo però nell’insalata con mango, avocado e un filo d’olio…) - professionale (o professorina?), composta (forse un po’ rigida, ecco), elegante (al di là degli occhiali da Lady Gaga), sottile analista politica – resta imperituro il suo: «Grillo e Conte avranno trovato l’accordo grazie anche alla vittoria di calcio nell’Europeo, sappiamo che le coincidenze non esistono...» - e poi spigliata, brillante, impostata, voce da educatrice dell’Istituto delle Suore Mantellate di Livorno e scrittura da laurea in Scienze politiche, Concita De Gregorio – da Pisa, dove pendere tutta da una parte è un attimo – è incontestabilmente un’ottima giornalista. E conduttrice. Che poi: non è neanche l’interrompere continuamente e parlare sopra agli ospiti che infastidisce... È quella cantilena irritante... Però l’intervista a Matteo Renzi era perfetta: incalzante, pungente, decisa. Come quando lo ha inchiodato alle sue responsabilità chiedendogli: «Per Lei, Fedez è un intellettuale?». Per essere intellettuale, Concita De Gregorio è una riconosciuta intellettuale - «Abbia pazienza: Intellettuala, intellettuala… le desinenze sono importanti: basta con questi maschilismi linguistici discriminatori. Le donne devono riappropriarsi anche grammaticalmente del proprio ruolo nella società e poi del resto...» - Scusi, Concita: posso interromperla? «Mi chiami col cognome per favore».

De Gregorio - spiace per i detrattori - è un cognome entrato nella storia del giornalismo. Il curriculum, a pensarci, è da vero maître-à-penser: civetteria, storytelling e il corpo delle donne. Lontane origini catalane (quindi sovraniste), inizi radiosi, come il sol dell’avvenire, nelle radio e televisioni locali - Toscana: terra di facili ire e di grandi penne: Montanelli, Fallaci, De Gregorio... - arrivo al Tirreno nel 1985, quindi nel 1998 l’approdo a Repubblica, dove si occupa di cronaca nera e politica rossa. Poi il grande salto. Nel 2008, a sorpresa - soprattutto dei giornalisti della redazione - la nomina a direttore (direttora? direttrice? direttoria? direttissima?) dell’Unità, prima donna (scritto staccato) a guidare la storica testata. Da Antonio Gramsci a «Concha»: egemonica culturale, intellettuali organici, i Quaderni dal carcere, celle e filo di perle. È il Pd che traccia la linea, ma è l’Unità che la difende. Credere, ubbidire e combattere. Timone a sinistra, e avanti tutta.

Tre anni di caipirinha e sangue, fra editoriali ed editti, battaglie giornalistiche nel momento del peggior antiberlusconismo che il Paese abbia conosciuto, finanziamenti pubblici, il non del tutto azzeccato formato tabloid, la campagna pubblicitaria di Oliviero Toscani con il culo di una ragazza in minigonna e in tasca una copia del giornale che se la vedono oggi le prefiche del «Se non ora quando?», del #MeToo, della 27esimaora e anche della 28esima, delMansplaining e del Transfemminismo, ti imbrattano di vernice rosa anche la raccolta di videocassette di Walter Veltroni rimasta in archivio... E poi tensioni con la redazione, la svolta «pop», le copie perse, ma non la speranza, e alla fine uno strascico di spese da pagare per le cause civili legate agli anni della sua direzione. Un milione di euro, diffamazione più, danni di immagine meno. È il 2011, anno peraltro del suo bestseller Einaudi (cioè Berlusconi, strano...) Così è la vita. Imparare a dirsi addio. Appunto. Addio compagni e ritorno a Repubblica.

Bentornata, Madame. Prima firma e sempre l’ultima a consegnare il pezzo, Concita De Gregorio piace molto ai lettori, e soprattutto a se stessa. Scrive di tutto, sempre, comunque, ma soprattutto: «Perché?». Cronaca e costume, femminismo e bikini, etica e epica, retroscena politici, retroscena e basta, Esteri – del resto alTirreno iniziò nelle redazioni di Piombino, Livorno, Lucca e Pistoia, che sono il nostro Midwest – economia, cultura, spettacoli, hobby&sport. Contenuti dei pezzi di Concita: retorica mainstream della correttezza, irrisione della parte sbagliata - «Che non è mai la mia» - una fastidiosa sufficienza esplicitata in qualsiasi modo nei confronti di qualunque interlocutore, le battaglie giuste che impongono la libertà con l’arroganza, il vittimismo femminista, il pippone del DdlZan - che pazienza zen...- «Vi dico io i libri che salvano la vita!» (yawwwwn! che noia...), gli intollerabili spiegoni di tolleranza, le stucchevoli lezioni di morale. Ciuffo ribelle e quieto conformismo.

Te amamos fuerte, Concita. Fenomenologia dei pezzi di Concita: Concita a una lettura pubblica, Concita a un evento con Roberto Saviano, Concita al festival del giornalismo, Concita accanto a Benigni, Concita con gli occhiali da giorno, Concita con gli occhiali da sole, Concita senza occhiali, Concita a una festa, Concita con Lucrezia Lante della Rovere, Concita a un’altra festa, Concita a una manifestazione, Concita pensierosa, Concita tra i libri, Concita da Floris, Concita aChetempochefa, Concita con Elisabetta Gregoraci, Concita alla radio, Concita in tv, Concita con un bel sorriso. Siamo In onda!

Non lo so.... Una volta - ha fatto notare qualcuno - c’erano giornalisti di sinistra che almeno nell’atteggiamento avevano una parvenza di «comunismo», quantomeno pseudo comunismo. Adesso si sono tutti così imborghesiti...

Precariato, green economy, look sbarazzino e scarpe firmate Roger Vivier.

A proposito, Concita. «Dónde está el límite entre información y propaganda?».

Comunque, dài: come conduttrice, non si può dire niente, a parte il fatto che assomiglia sempre più a Mara Venier. Brava, è brava. «Cosa dici? Concita è una Gruber che non ce la fa? Chi l’ha detto? Che coooosaaa? È peggio persino di Myrta Merlino?!». Mi dissocio.

Socievole,highsociety, socialista (come disse appena fatta fuori dall’Unità: «Mai stata del Pd!»), Concita De Gregorio in tv è bravissima. E ogni tanto fa anche la giornalista. Certo, poi avere tutti insieme In onda lei, Veltroni, il famoso Da Milano, Ezio Mauro e Giannini non è facile da sopportare. E insomma: chiedere in diretta a Enrico Letta il suo albero genealogico per scoprire che sfiora Gramsci... persino il valletto David Parenzo era imbarazzato). «Torna a casa Lilli!!!».

Dall’Unità a La7: dall’organo del vecchio Partito comunista a quello del #DdlZan. Domanda: ma Concita De Gregorio continuerà a invitare il deputato Zan fino a quando, almeno lui, non saprà spiegare la sua legge?

Dura lex, sed omosex. 

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li l…

 Selvaggia Lucarelli dà della "gatta morta" a Concita De Gregorio: "Non ha colpito a caso", sospetto sulla vera motivazione. Simona Bertuzzi su Libero Quotidiano il 04 luglio 2021. Alla voce "solidarietà femminile" ho trovato in rete 8 milioni di articoli. Questione di sfumature, ma la domanda era più o meno la stessa: esiste la solidarietà femminile? No, che non esiste. Tuttavia, non ci stanchiamo di cercarla nei pertugi del quotidiano e di ascoltare delle femministe petulanti che infarciscono litanie sull'argomento mentre gli uomini - tutti - si divertono a coglierci in castagna. Per esempio, questo pezzo dovrebbe essere la dimostrazione plastica di quanto siamo stronze noi donne con le donne. Affidato non a caso a una donna. Partendo dal presupposto che di uomini str*** ne ho incontrati parecchi ma di donne stronze molte di più e a partire dalla terza elementare, proverò a spiegarvi la questione. Insomma il 2 luglio è andata In onda una puntata divertente dello sfanc***o femmil-progressista di cui sono capaci certe primedonne - attenzione, non ho detto solo donne - del panorama politico e giornalistico attuale.

GATTA MORTA?. Selvaggia Lucarelli, penna assai brillante del Fatto quotidiano e maestra nello sminuzzare l'avversario fino a farne una macchietta da fumetto, ha preso di mira la rossa (ideologicamente parlando) Concita De Gregorio al suo esordio accanto a Parenzo nella trasmissione "In onda" de La 7. E poiché De Gregorio (non dico Concita perché preferisce il cognome) aveva ospite Salvini, Lucarelli è partita leggera leggera come sa far lei ogni volta che si imbatte nel leader della Lega: «Con Salvini ospite non abbiamo visto una gatta più morta di lei (De Gregorio, ndr) neanche dopo un giro di polpette avvelenate in una colonia felina». Due righe sotto delucida il concetto: «L'unica quota che rappresenta la De Gregorio è televisivamente parlando la quota Palombelli. Sguardo fisso in camera che sembra però mirare un punto indefinito nello spazio e nel tempo o, in alternativa, un Poltergeist». Leggerissima, dicevamo, al punto che, mentre leggevamo, immaginavamo l'editorialista di Repubblica nei panni della Carol Anne del celebre horror (bionda anche lei) che parlava a una televisione accesa senza segnale e gridava "sono arrivati!". Credete, il ritratto che Lucarelli fa della collega è a tratti esilarante. Cito a casaccio qualche perla: «Flemma alla Palombelli... sguardo con dentro tutto, dal brodo primordiale all'energia nucleare... parole lente trascinate come note vocali». Ma è così sprezzante il tono che vorresti quasi entrare nel pezzo e prendere le difese della De Gregorio. Se non fosse che poi rivedi l'ex direttrice dell'Unità col ditino alzato e la flemma di cui sopra mentre demolisce l'avversario di destra ma non risparmia l'amico Zingaretti (definendolo «ologramma») e ti mordi le mani. Comunque sia chiaro: Lucarelli non colpisce a casaccio ma solo dove c'è da puntare alto, ovvero a Salvini. Che evidentemente era l'unico ospite di una trasmissione in cui la De Gregorio si ostinerebbe a "invitare solo uomini!". Salvini parla - «è bello confrontarsi in modo civile»... «il reddito di cittadinanza è un ostacolo al lavoro»... «con me i bambini morti annegati nel Mediterraneo si erano dimezzati perché non partivano» - e Concita resta immobile, secondo Selvaggia. Un ologramma appunto. Al pari di Zingaretti e fa piacere che si prestino le definizioni. Non capite più niente, comprendiamo. Succede sempre quando noi donne alziamo i toni. Scivoliamo in quel parlarci sopra - anche se qui è un parlarsi a distanza - e accappigliarci vicendevole che taluni uomini chiamano starnazzamento in nome di un maschilismo becero. E che invece è quasi sempre un sano confronto dialettico. A favore (e per il godimento) degli uomini va però detto che un filo di livore primordiale si evince dal modo in cui Lucarelli scende a valanga sulla collega. Entrambe giornaliste di talento. Entrambe stimate. Entrambe ricercate. Primedonne appunto, che è diverso da donne. Penne. Opinioniste. Capacissime di demolire l'avversario senza fare un plissé.

LUCI DELLA RIBALTA. Lucarelli ha lasciato al tappeto - ridotti peggio di ologrammi - l'universo mondo femminile e maschile e non è stata colpita da rimorso. De Gregorio ha indossato la flemma di cui sopra e fatto altrettanto. Una conduce «In onda». L'altra è il giudice temutissimo di «Ballando sotto le stelle» che alza la paletta e stronca ballerini incapaci. Normale annusarsi di traverso. E mettere i puntini sulle "i" delle luci della ribalta dell'altra. Detto questo vi confido un fatto: mentre una donna, la sottoscritta, registra la lite di due donne (che poi per essere lite servirebbe la replica dell'imputata) qualche giornale racconta sommessamente il parallelo scazzo Concita-Parenzo, colui che finora è rimasto incomprensibilmente in ombra. La trasmissione è la stessa. Ospite del duo Parenzo-De Gregorio è stavolta Antonio Bassolino. Parenzo evoca PCI e DC usando parole ironiche: «Un partito del Novecento, dove c'erano statuto, congressi. Tutti che fumavano, le mozioni, Cossutta, Ingrao...». De Gregorio prima sbuffa poi si incazza e zittisce il collega: «Porta rispetto e lascia parlare il sindaco». Tutto questo alla prima settimana di co-conduzione. Ma fa molto più clamore e portineria la lite tra donne. Ps. Resta solo un dubbio. Che c'entra in tutto questo la flemma della Palombelli? 

Da “Libero quotidiano” il 20 giugno 2021. Selvaggia Lucarelli contro Giorgia Meloni e Matteo Salvini presenti ai funerali di Michele Merlo, il giovane cantante morto di leucemia. La verità è che la penna del Fatto ignora i rapporti di amicizia tra Francesca Verdini, fidanzata di Salvini, e lo sfortunato 28enne e non sa che il padre di Michele, Domenico, è stato scelto per guidare il circolo Fdi di Rosà. Francesca Verdini ha replicato duramente alla Lucarelli: «Meschina e vuota. Si vergogni».

·        Corrado Augias.

Andrea Malaguti per “Specchio - la Stampa” il 14 marzo 2021. I direttori dei giornali hanno spesso modi sbrigativi per chiedere le cose. Tipo: «Intervista Corrado Augias». «Perché?». «Perché è Augias». In effetti è un buon motivo. In un mondo di riflessioni senza peso, effimere, difficili da acchiappare, a una sola dimensione come un foglio di carta, intervistare questo bambino prodigio di 86 anni è come infilare un sacco di idee confuse in una lavatrice e tirarle fuori ordinate, profumate e già stirate. Fa tutto lui, abituato a non lasciare cadere nell’oblio neppure le storie che si ritirano al bordo dei suoi pensieri. E lo fa con un linguaggio che non è banalmente elegante, è impeccabile, preciso, automaticamente narrativo. Ti ammalia. Dal Covid a Fellini, da Barbara d’Urso a Mario Draghi, dall’Aldilà – il buco nero che non lo spaventa affatto - alla macchina del fango, dalle lettere che ha ricevuto a quella che scriverebbe a sé stesso. Non tutte le risposte ti fanno stare bene, ma tutte hanno un senso, anche quelle sbagliate. Insomma è un viaggio. Leggero e profondo. E va fatto assolutamente. Perché? Perché è Augias. Corrado Augias, cito Wikipedia: giornalista, scrittore, conduttore e autore televisivo, drammaturgo ed ex politico italiano. Ne scelga una.

«Scrittore. Da qualche anno leggere e scrivere sono le mie attività prevalenti. Faccio un minimo di tv, perché questo mestiere è bene continuare a farlo finché te lo chiedono. Ma l’animo mi spinge a scrivere. Saggi storici e sociali. E poi devo leggere molto, perché far di conto mi riesce più difficile».

Ottantasei anni, se si guarda alle spalle che cosa vede?

«Quando penso che ho 86 anni mi sorprendo da solo. E mi torna in mente Fellini».

Che c’entra Fellini?

«Una volta lo intervistai e gli dissi: lei ha un aspetto autorevole e solenne. Fellini mi rispose: solenne io, che mi vedo ancora come il ragazzino alto, magro e un po’ sparuto che ero quando arrivai a Roma? Ecco, oggi per me è lo stesso».

Si sente alto, magro e sparuto?

«No, ma se mi dicono che ho 86 anni sobbalzo. Me ne sento 60, neppure uno di più. Faccio sport, ho una memoria prontissima e con il Covid lavoro persino più di prima».

Un disastro il Covid.

«Un flagello. L’idea dei centomila morti è terribile. Eppure per chi fa il mio mestiere c’è un aspetto non disprezzabile. Avendo abolito la vita sociale, le cene, le inaugurazioni e le presentazioni, stai più concentrato sulle cose da fare».

Vaccino sì o vaccino no?

«Io sono un vaccinofilo. Ho già fatto la prima dose e aspetto il 18 per la seconda».

Per vent’anni ha tenuto la rubrica delle lettere su Repubblica. Qual è la più bella che ha ricevuto?

«È una lettera che in realtà sono due. Uno studente di un liceo romano mi chiese semplicemente: Caro Augias, che cosa devo fare? Gli risposi: scruta nei tuoi interessi e nelle tue capacità. Pochi anni dopo mi cercò di nuovo: l’ho ascoltata e oggi, grazie alla sua spinta, faccio l’insegnante e sono felice».

Gli ha dato una mano. Bella sensazione, no?

«Bella. Ogni tanto qualcuno mi scarica addosso delle palle di fango, ma in genere le persone mi scrivono con affetto: suscito sentimenti benevoli. Invecchiare non è facile. Al di là delle sciagure fisiche, si può farlo con malanimo, con acrimonia, sentendosi in credito con il mondo. Io invecchio con serenità, consapevole che fra un po’ finisce. Non ho né crediti né debiti e vorrei andarmene con decoro».

Ha paura?

«No. Leggo molto gli stoici, e in questo momento sono concentrato su Marco Aurelio, ma non è quello».

Cos’è allora?

«È che morire va bene, quello che nasce muore, lo sappiamo fin da bambini. Dunque la morte in sé non mi spaventa, è il modo che può suscitare qualche preoccupazione. In sostanza mi preoccupa il morire, non la morte».

C’è qualcosa dopo la morte?

«No».

Non la spaventa neanche il nulla eterno?

«E perché? Quello è bello. Siamo venuti su questa terra senza averlo chiesto, siamo qui per caso e questo caso ha una fine. Veniamo dal nulla e, dal punto di vista cognitivo e psicologico, torniamo al nulla. Ma dal punto di vista materiale qualcosa rimane, anche quando veniamo cremati. Ci disperdiamo nei fiumi o diventiamo parte dei prati. Le mie ceneri si confonderanno con la terra della campagna umbra».

Perdoni il passo indietro: le palle di fango fanno male?

«Un po’ seccano».

L’ultima pallata ricevuta?

«Non più tardi di un mese fa sono caduto in una trappola di una finta lettera dell’Enel che io ho trattato come se fosse vera scrivendone su Repubblica. Sono stato molto preso in giro, ma io ho davvero una disputa con l’Enel per dei pannelli solari. Mi hanno coperto di palle di fango. Non si fa così, sono espressione di una società incattivita, sono gesti crudeli. Non puoi deridere o calunniare una persona per uno scivolone».

Augias, lei è mezzo francese, che cosa rappresenta Parigi?

«La prima capitale in cui sono stato dopo la maturità. Ci arrivai in autostop per via di un bravo professore di storia che ci aveva riempito la testa. Per prima cosa andai alla Bastiglia. La rivoluzione. Il 14 luglio. Partendo da Roma mi aspettavo di trovare se non le rovine fumanti, almeno le rovine. E invece in piazza della Bastiglia c’era solo una colonna verde con scritta sopra una data: 1830».

La rivoluzione di luglio.

«Già, neanche quella del 1789. Ma Parigi resta comunque il primo amore».

E Londra?

«È la città dove sono i miei familiari e i nipoti e quindi una parte di me».

Come nasce il suo amore per il giallo?

«Chi lo sa. Credo di essere stato attratto dai gialli per le stesse ragioni per cui mi sono interessato così intensamente alla morte. Nel giallo, nel mistero da svelare, nella tenebra, sento un’attrazione. Mi piacciono i cimiteri. In una città sconosciuta vado a vederli subito. Mi piace capire come la gente trattai suoi morti».

Qual è il suo preferito?

«Quello di Highgate, a nord di Londra, dove è sepolto Marx, con le sue lapidi storte, gli alberi tra le tombe, i rami spogli e la luna che appare da dietro è il massimo del romanticismo».

Lei è romantico?

«Lo sono».

Con Telefono Giallo ha cambiato la tv. Come è nata l’idea?

«Dal fervore della nascita di Rai3 di Guglielmi. La prima idea fu di un funzionario sulfureo, un anarco-cattolico che si chiamava Lio Beghin, un uomo prezioso. Fu lui a immaginare Telefono Giallo e Linea Rovente. Ma noi ci occupavamo di cold case. Consultavamo gli atti del processo, studiavamo le carte. Oggi fanno i programmi tre giorni dopo un delitto».

Ce n’è uno che le piace?

«Non seguo più tanto la tv».

Meghan Markle e Harry Mountbatten Windsor che accusano la Casa Reale di razzismo li ha seguiti?

«Li ho seguiti».

Perché questa storia fa il giro del mondo?

«Principi e reali il giro del mondo lo fanno da sempre. In questo caso la coppia non mi piace. Lui, Harry dico, non deve essere una testa di prim’ordine (anche giudicando alcune cose fatte da giovanissimo) e anche lei, Meghan, ne ha fatte parecchie».

Ciò detto?

«Ciò detto, il fatto che in famiglia si preoccupassero del colore del bambino non mi sembra gravissimo, quella è una Casa Reale e ci sono valori simbolici. Non puoi fare il re prescindendo dal valore simbolico della carica. Per lo stesso motivo la storia tra Lady D e Dodi Al Fayed, che era musulmano, non poteva essere valutata dimenticando che la regina è anche – se mi è con cesso dirlo - il Papa della Chiesa Anglicana».

Nel 2021 qualcuno potrebbe trovare questa analisi vagamente razzista. «È possibile, ma io detesto il politicamente corretto. Bisogna considerare il contesto. Quella è una famiglia reale che per giunta cammina sempre su un filo di coltello».

Lei è mai stato vittima di pregiudizi?

«No, non mi pare. Ho ricevuto molte critiche, certo, e quando avevo 25 anni qualcuno disse che facevo la spia per la Cecoslovacchia. Ero un piccolo funzionario Rai, che stupidaggine».

Quando i francesi hanno dato la Legion d’Onore al presidente egiziano Al Sisi, lei, in tempo reale, ha restituito la sua. Istinto o ragionamento?

«Istinto. Nella notte tra sabato e domenica telefonai a Maurizio Molinari e gli dissi che non tolleravo questa cosa di Al Sisi e che restituivo la mia Legion d’Onore».

E lui?

«Mi disse: stai attento, la tua scelta farà chiasso e potrai essere criticato. Aggiunse che comunque il giornale mi avrebbe sostenuto».

Giuliano Ferrara scrisse che il suo gesto era solo vanità.

«Un’interpretazione maligna di un gesto nato da un moto addirittura ingenuo di ribellione. Io rispetto la ragion di Stato, ho letto troppo Machiavelli per non sapere che alcune cose vanno fatte anche se la morale non le approva. Però c’è un limite. La Legion d’Onore ad Al Sisi fu data di nascosto, questo fu l’aspetto vergognoso della scelta di Macron. Era una porcheria e lui losapeva».

Che effetto le ha fatto il segretario del Pd Zingaretti nel salotto di Barbara D’Urso?

«Un errore. Non doveva farlo, con tutto il rispetto per Barbara d’Urso, che è un’ottima professionista. Il segretario del Pd aveva appena detto delle cose di una gravità epocale (“Mivergogno del mio partito”), che dovevano essere affrontate in una sede più adatta».

L’idea di ciò che è “adatto” pare piuttosto confusa nei palazzi romani. La distanza tra il presidente Mattarella che si mette diligentemente in fila per il vaccino e Beppe Grillo che si presenta in albergo vestito da astronauta scimmiottando la pandemia mi pare incolmabile.

«Mattarella è uno dei pochi punti di solidità a cui guardare per avere un orientamento. Ecco, il senso dell’orientamento è ciò che manca a Grillo che fa il pagliaccio e al segretario del Pd che sceglie uno studio televisivo per affrontare la crisi».

Gioco della torre. Chi butta giù tra Renzi e Salvini?

«Domanda difficilissima. Forse è più pericoloso Renzi di Salvini. Però devo motivare».

Motivi.

«Salvini è un caciarone, un mangiafuoco che alla fine si scopre. Renzi è più sottile, toscano, cinquecentesco, in una parola più…».

Ci vada cauto, ultimamente querela con facilità.

«E allora fermiamoci a cinquecentesco».

Draghi o Conte?

«Dico la verità. Scelgo Draghi, ma a malincuore. Conte non ha fatto male. Ha cominciato malissimo e ha finito bene. Draghi però dà una sicurezza maggiore».

Lei è un lettore compulsivo, che libro ha sul comodino?

«Splendore e Viltà di Erik Larson, non mi stanco mai di leggere libri sulla seconda guerra mondiale, il periodo in cui sono stato bambino».

Un periodo che ricorda con paura o con rimpianto? 

«Vede, noi subito dopo la guerra giocavamo vicino a Porta Latina - dove abitavo – in campi disseminati di residui bellici. Un compagnuccio perse una mano per una bomba a cui tolse la sicura. Eppure non avevamo la sensazione di essere bambini infelici. Eravamo dei miserabili. Eravamo nella penuria, ma io l’ho saputo solo quando è cominciato il benessere. Ripensandoci dopo capisco che furono prove durissime. Perché avevamo fame. Di cibo. Di pane. Di companatico. Cosa che fortunatamente oggi, nonostante l’epidemia, non abbiamo più. Oggi sono andato a fare la spesa in un supermercato che rigurgitava di merci ed era pieno di gente chele comprava».

Chi c’è nella classifica dei suoi direttori preferiti?

«Eugenio Scalfari di sicuro, molto di quello che so fare lo devo a lui. Guidava Repubblica con la maestria di un direttore d’orchestra o di un addomesticatore di animali al circo, la riunione del mattino, la messa cantata, era un vero esercizio di governo. Tu sei stato bravo, tu mi hai deluso. Giudicava come Minosse, distribuiva premi e rampogne e se lo poteva permettere, oggi un direttore farebbe più fatica».

A parte Scalfari?

«Con Maurizio Molinari ho un ottimo rapporto. Ci conosciamo da molti anni e lui continua a darmi prova di grande fiducia. Il podcast sul romanzo italiano che sto facendo ne è la conferma».

Il podcast. È come se la sua curiosità non avesse mai fine.

«In effetti è un po’ così. Mi annoio in fretta e ho bisogno di cambiare».

Torno alla torre: Maria De Filippi o Mara Venier?

«Tengo Mara Venier, perché è innocente. Maria De Filippi no. Sa quello che fa».

Simenon, Conan Doyle e Agatha Christie?

«TengoSimenon».

Augias, scriva una lettera ad Augias.

«Caro Augias, in fondo hai avuto molto di più di quello che ti aspettavi a 20 anni e forse anche di più di quello che ti meritavi, cerca di esserne all’altezza».

È sempre stato all’altezza.

«Non direi. Non ho una grande considerazione di me stesso, conosco i miei limiti, vedo dove non posso arrivare. Volevo imparare bene il pianoforte e non sono andato al di là di Per Elisa anche suonata maluccio, ci sono problemi filosofici che non capisco e lascio stare la fisica. Come tutti quelli che hanno molto navigato nei terreni della contemporaneità, so che di tutto questo resterà molto poco, l’onda nella memoria sarà breve e la cosa non mi dispiace».

·        Emilio Fede.

Concesso il differimento della pena. Emilio Fede torna libero, fine dell’incubo per l’ex direttore del Tg4: “Malato e anziano, non è pericoloso”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. A 90 anni, con condizioni di salute “precarie” e in “progressivo peggioramento”, con i magistrati che non hanno ravvisato “profili di attuale pericolosità sociale”, l’ex direttore del Tg4 Emilio Fede torna libero. Il giornalista, condannato in via definitiva nel 2019 per la vicenda Ruby bis a 4 anni e 7 mesi e poi a 2 anni per il caso di un presunto fotoricatto, ha ottenuto dal Tribunale di sorveglianza di Milano il “differimento della esecuzione della pena per la durata di un anno“.

Era stato lo stesso Emilio Fede ad annunciare il ritorno alla “libertà” mercoledì sera, in una telefonata alla trasmissione di Massimo Giletti ‘Non è l’arena’ su La7.

Con il differimento dell’esecuzione della pena per un anno, firmata in due pagine di ordinanza dal presidente Maria Paola Caffarena, viste le condizioni di salute “precarie” si evidenzia come “si sia fortemente affievolita la funzione rieducativa della pena” e non si “ravvisano profili di attuale pericolosità sociale”.

In teoria, come si legge nel provvedimento, il cumulo pena che è stato inflitto all’ex direttore del Tg4 per le due condanne definitive è di 6 anni e 7 mesi con fine pena previsto per il 12 novembre del 2025. Tutto ciò, comunque, è superato dalla decisione notificata ieri al giornalista e al suo legale. Decisione che ha portato ad una sorta di liberazione anticipata. Fede era stato prima in detenzione domiciliare e poi in affidamento in prova.

Nella telefonata con Giletti di ieri sera, segnata dalla voce tremante per la commozione, Fede aveva rivelato di essere tornato libero, “è tornata la vita”. “Anche se in un momento difficile, tu lo sai, ho perso mia moglie, che era anche una tua grande amica – aveva spiegato Fede rivolto a Giletti -. Finalmente posso guardarmi attorno e tornare ad essere quel ragazzo che dal cuore della Sicilia è partito per scoprire chissà quali malefatte”.

Un ritorno alla libertà dedicato proprio alla moglie Diana De Feo, morta a Napoli lo scorso giugno: “Ho rivisto la mia vita tra le lacrime, fra l’amore, gli amici, i colleghi. La dedico a te, cara Diana, ti dedico tutto questo”. Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Filippo M. Capra per fanpage.it il 16 novembre 2021. È stato il volto simbolo del Tg4. Gli ha dato vita, l'ha cresciuto, l'ha reso grande. Emilio Fede, oggi 90enne, non ci sta alla chiusura del suo tg, di cui resterà solo il logo perché accorpato a Tgcom24. Raggiunto da Fanpage.it, l'ex direttore del Tg di Rete4 ha commentato al telefono la notizia: "Così l'informazione viene presa a calci nel sedere".

Direttore, come accoglie questa notizia?

Con dolore, perché tutto quello che contribuisce a diminuire il potere dell'informazione è da respingere con tutte le forze. Il Tg4 è nato e proseguito con me e continua a esserci per la volontà di tanti colleghi che si accingono a lasciare il posto di lavoro, se non per la disoccupazione, per il trasferimento. Ciò significa che l'informazione è a rischio.

Quale oggetto la riporta agli anni della sua direzione?

Un orologio che ho rimesso oggi dopo tanto tempo. Me lo regalò Berlusconi per i dieci anni del Tg4. È un dono prezioso. Questo è un momento difficile: io qui non esprimo solidarietà, mi vergogno di dire che dobbiamo muoverci per difendere l'informazione. Ma su, per favore. Non voglio neanche sentirla questa cosa. L'informazione, qualunque essa sia, è la vita della libertà. 

Cosa direbbe, se potesse, a chi ha preso questa decisione?

Pensateci bene prima di mettere sul lastrico delle persone che sono testimoni onesti, non venduti a partiti e partiti, di questa professione. State per uccidere, o contribuire ad uccidere, una rappresentanza dell'informazione, davanti alla quale tutti bisognerebbe inchinarsi.

Il fatto che il logo del Tg4 resti al suo posto è una consolazione?

È una magrissima consolazione. Io ero e resto a disposizione di tutti, senza compenso, se posso dare una mano per salvare i posti di lavoro. 

Era già al corrente della situazione?

Ieri eravamo a colazione qui con una storica giornalista del Tg4 e ci ha parlato di questo dolore per quanto riguarda l'informazione, che piano piano di questo passo viene presa a calci nel sedere. Parlo di colleghi giornalisti che vanno rispettati, gente che era a Roma ed è stata trasferita a Milano con tutto ciò che comporta per le loro famiglie. Facciamoci il segno della croce e aiutiamo chi soffre. Il Tg4 fortunatamente non mi appartiene più, perché altrimenti io andavo in piazza.

«Vi racconto la terribilità e la pietas della giustizia». Lo storico giornalista del Tg4 ha 90 anni e sta subendo un accanimento giudiziario del tutto immotivato. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio l'1 luglio 2021. Al solo pronunciare il nome della moglie, scomparsa qualche giorno fa, Emilio Fede si commuove; interrompe la conversazione per poi riprendere a parlare con la voce chiara, proprio come quando conduceva il suo telegiornale. Pochi giorni fa, a Napoli, il padre del Tg4, oggi novantenne, ha partecipato ai funerali della moglie, Diana De Feo. La polizia, nel cuore della notte, ha voluto accertarsi che fosse presente nel luogo in cui solitamente soggiorna nel capoluogo partenopeo, dato che sta scontando una pena a quattro anni e sette mesi per il coinvolgimento nel “caso Ruby” e per spostarsi ha bisogno dell’autorizzazione del Tribunale di Sorveglianza. Fede in questa intervista al Dubbio dice di essere stato «colpito ma non ferito dalla giustizia». Al tempo stesso vuole continuare a credere che a servirla ci siano uomini e donne in toga preparati professionalmente e animati da profonda umanità.

Direttore Fede, come sta?

Sono alla ricerca di un Emilio perduto. Il vuoto lasciato dalla mia adorata Diana è incolmabile. Piangerò la sua scomparsa fino alla fine della mia vita. Un piccolo conforto deriva dalle parole nobili che sono state spese nei suoi confronti nel ricordarla il giorno del funerale. Diana è stata una donna straordinaria da un punto di vista umano e professionale.

La sua esperienza con la giustizia italiana è molto pesante?

In questa mia esperienza ho conosciuto una persona, la dottoressa Panariello, che per tanto tempo ha gestito le persone ai servizi sociali. È una donna straordinaria, siciliana come me. Quando sono finito anche io nel calderone dei domiciliari mi ha convocato. Mi ha parlato per mezz’ora e mi ha detto delle cose di grande affetto ed effetto. Al termine di quell’incontro mi ha regalato un libro, “I leoni di Sicilia”. Mi ha detto: “Fede, lo legga”. Questa donna straordinaria evidentemente ha sempre portato sotto la toga un cuore e non soltanto un codice penale. Ha fatto molto per la giustizia e per coloro che si sono imbattuti nella giustizia non sempre senza sofferenze.

Si è verificato un accanimento nei suoi confronti?

La giustizia mi ha colpito, ma non mi ha ferito. Sempre la dottoressa Panariello, dopo un colloquio fatto con lei, mi disse: “Fede, adesso prenda il bastone e cammini. Lei è libero di camminare, rispettando la giustizia”. Questa frase mi viene sempre in mente nell’esperienza che sto vivendo. Ma mi vengono in mente anche altre cose. L’onda delle parcelle con tanti zeri. Sia ben chiaro che anche in quel settore ci sono tanti professionisti che meritano rispetto. Sia altrettanto chiaro che in alcune situazioni è stata fatta una mortificazione terrificante dell’essere umano. Quest’ultimo, però, dimostra sempre grande forza. È in grado di resistere alla giustizia e all’ingiustizia. Gli avvocati, molti, non tutti, hanno trascurato la parcella e hanno lavorato per la giustizia. Io li ringrazierò per tutta la vita. Ma voglio fare un’altra riflessione.

Prego, dica pure…

La giustizia per affermarsi non deve subire gli sprechi dell’onestà. Non si faccia della carta bollata un momento di mortificazione. Io ero e rimango molto rispettoso verso la giustizia, ricordando soprattutto coloro che per servirla hanno pagato con la vita. Quando si va in tribunale e si guardano le persone in toga, ci si deve ricordare delle persone che hanno difeso la giustizia sacrificando la propria vita. Come del resto accaduto per tanti giornalisti. Adesso è il momento in cui la giustizia è sui trampoli e si fanno tante considerazioni. Io, tornando alla mia esperienza, sono stato mortificato in occasione dei funerali di mia moglie a Napoli.

Crede ancora nella giustizia?

Ci credo. Penso però che debba rispettare i condannati intesi come essere umani. Le riflessioni sulla detenzione si fanno sempre più profonde. Penso alla vita di chi in cella vede trascorrere gli anni della propria vita con grande sofferenza fisica. Il momento di dolore che sto attraversando mi fa ritornare alla mente chi, come la dottoressa Panariello, ha rappresentato una luce e mi ha dato speranza nella giustizia, che non è solo il volto delle parcelle. Credo e spero che la giustizia abbia un volto umano. E non si dimentichi di chi in carcere soffre, condannati o in attesa di giudizio. Ho molti amici nella magistratura. Ho avuto modo di confrontarmi con alcuni di loro, come Davigo e Colombo. Ho sempre cercato di capire che la giustizia si deve affermare ma non sacrificando la vita delle persone. La giustizia è tale quando, prima di tutto, rispetta sé stessa. Lo deve fare in nome dei magistrati, degli avvocati e dei giornalisti che si sono battuti contro la mafia. Per coloro che si battuti per portare la giustizia alla ribalta e non alla supplica o alla concessione di bontà.

GIORDANO TEDOLDI per Libero Quotidiano il 28 giugno 2021. Emilio Fede è un signore di novant' anni, infermo (si sposta su una sedia a rotelle) che giovedì ha perso la moglie, giornalista come lui, Diana de Feo. Lei viveva a Napoli, lui sta a Milano, così ha chiesto l' autorizzazione al Tribunale di sorveglianza della sua città per partecipare alle esequie della consorte: infatti sta scontando, in affidamento ai servizi sociali, una pena a quattro anni e sette mesi per il suo coinvolgimento nel cosiddetto caso Ruby - ricorderete, la presunta nipotina di Mubarak, le olgettine, le serate allegre a Arcore...Cose di questo tenore: non ci permettiamo di soppesarle sul piano giuridico, quello è il lavoro dei magistrati, ma certo non delineano una pericolosità criminale pari a quella di Al Capone. Eppure, singolarmente, forse per meri automatismi burocratici, il nonagenario invalido Emilio Fede viene fatto oggetto di controlli e sorveglianze che lo fanno apparire più letale di un capomafia. La certezza della pena, concetto non di rado puramente teorico nei confronti di personaggi rei di gravi delitti, con Emilio Fede - e ripetiamo, sarà una casualità -, diventa una morsa implacabile. Un anno fa, sempre a Napoli, dove era sceso per cenare con la moglie in occasione del di lei compleanno, gli agenti della polizia l'avevano arrestato al ristorante. Diciamo che ci sono modi meno traumatici di far notare a un uomo molto anziano che non aveva ancora ottenuto l’autorizzazione ad allontanarsi da Milano, pur avendola regolarmente chiesta. Perché di questo si trattava. La vicenda suscitò scalpore, perché anche chi non ha mai amato Fede per le sue posizioni politiche e per il suo giornalismo, non poté fare a meno di notare un certo eccesso nelle modalità di intervento. Poi naturalmente ci sono quelli per cui Fede, se non altro perché deve scontare la sua fedeltà berlusconiana, deve morire a prescindere, come direbbe Totò, e con quelli c' è poco da ragionare. Ma lasciamo perdere gli eterni rancorosi (che farebbero bene a scrutare dentro se stessi) e torniamo a Fede. Giovedì, nella chiesa di San Gennaro ad Antignano, al Vomero, assiste ai funerali della moglie, con la quale era sposato da sessant' anni. La sera cena al ristorante con la figlia Sveva, poi torna al suo albergo, il Santa Lucia di Napoli. Nella notte, intorno alle quattro di mattina, viene svegliato dagli agenti della polizia, che prima lo fanno chiamare in camera dalla portineria, poi bussano alla porta della donna che lo assiste perché, si è detto, è vecchio e non autosufficiente. Quindi, altra irruzione nella stanza di Fede, sempre per il medesimo motivo che lo fece arrestare al ristorante con la moglie un anno prima: controllare che il Tribunale di sorveglianza di Milano abbia autorizzato la trasferta napoletana. Stavolta però, riferisce lo stesso Fede, dopo le verifiche durate circa un'ora, nei documenti suoi e anche della sua assistente era tutto a posto. E Fede è rimasto a Napoli, da dove, scaduto il permesso, tornerà a Milano. Ora, dal punto di vista procedurale, immaginiamo che non si possa eccepire nulla alle forze dell'ordine e ai magistrati responsabili di queste operazioni. Però la giustizia non può essere una macchina cieca e impersonale, fredda e burocratica, perché diventa vessazione. La giustizia la fanno gli uomini, non un algoritmo, e quindi bisognerebbe che fosse umana in tutti i suoi atti. Umanità vuole, ad esempio, che un novantenne malato cui è notoriamente morta la moglie, possa ottenere un trattamento meno aspro se gli si vogliono controllare i documenti. Altrimenti ha ragione lui a esclamare: «Dimenticatevi di me!» e a domandarsi in che paese siamo. Si badi, facciamo questo discorso a favore di Fede, ma lo faremmo pari pari nei casi analoghi di cittadini sconosciuti. Fede, naturalmente, per via della sua popolarità, diventa un caso, ma temiamo che altrettanta eccessiva rigidità colpisca anche altri che, come lui, scontano una pena pur non essendo, con ogni evidenza, il mostro di Firenze. Uomini che avete l'onere di amministrare la giustizia e di applicarla: non dimenticatevi della dignità delle persone.

Candida Morvillo per corriere.it il 26 giugno 2021. Emilio Fede ha un filo di voce: «Sono terribilmente scioccato che la magistratura mi faccia svegliare alle quattro del mattino da due poliziotti, con mia moglie non ancora ufficialmente sepolta». È successo all’Hotel Santa Lucia di Napoli, nella notte fra il 24 e il 25 giugno. Giovedì, nella chiesa del Vomero, c’erano stati i funerali della moglie Diana De Feo, mancata il giorno prima a 84 anni. Lo stesso giorno delle esequie, l’ex direttore del Tg4 festeggiava, si fa per dire, il suo novantesimo compleanno. Da Milano, era arrivato a Napoli in auto, subito dopo aver appreso la notizia. Affidato ai servizi sociali, sta scontando una condanna per il processo Ruby Bis a quattro anni e sette mesi. La visita degli agenti serviva a verificare che fosse in regola con le autorizzazioni del tribunale di Sorveglianza di Milano sul trasferimento a Napoli. «Mi hanno svegliato. Sono stati un’ora, hanno controllato tutti i documenti e sono andati via», racconta lui, «sono un uomo in sedia a rotelle, arrivato qui con la mia assistente sanitaria salvadoregna, Magdalena, come si dice volgarmente, la mia badante. Regolarmente assunta. Se mi chiede come sto, le rispondo: male, malissimo, sto in carrozzina, ho perso mia moglie, la mia ragione di vita, stavamo insieme da sessant’anni e, da mesi, vivevo appeso alle notizie che la riguardavano. Aveva subito un’operazione delicata e stava facendo la riabilitazione nella sua casa di Napoli. Io non potevo stare con lei perché Villa Lucia è meravigliosa, ma è piena di scale. Ho vissuto mesi passando le giornate a cercare di capire quando si sentiva di parlare al telefono. E mesi aspettando che arrivasse il giorno del mio compleanno, avendo chiesto il permesso di venire a Napoli per festeggiare con lei. Il giorno prima della mia partenza, lei è morta. Non ho fatto in tempo a vederla. Come sto? Sto in carrozzina, solo, cosa devo dire? Mi devo suicidare?». Ad aprile, Fede aveva subito un intervento chirurgico in seguito a un incidente stradale. Ora bene non sta, fa confusione con le date. Dice: «Ho il permesso per stare a Napoli fino al 29, domani devo partire e non mi faranno assistere alla tumulazione privata». Gli dici: direttore, oggi è il 26. E lui: «Rimarrà la bara davanti alla chiesa e io dovrò andarmene a Milano, in carrozzina. Ho parlato con l’avvocato, chiederò un certificato medico. Devo dare l’ultimo saluto a mia moglie». Anche l’anno scorso Fede aveva raggiunto la moglie a Napoli per festeggiare il compleanno e, quella volta, gli agenti avevano fatto irruzione al ristorante, a ora di cena, e l’avevano arrestato. Aveva chiesto l’autorizzazione ma era partito senza accorgersi di non averla ancora ottenuta. Vicenda risolta in 24 ore, ma era difficile immaginare un compleanno peggiore. E invece. Adesso, non si sente di dire altro. Solo questo: «Dimenticatevi di me».

Il giornalista è agli arresti domiciliari a Milano. Blitz in albergo, il 90enne Emilio Fede svegliato alle 4 del mattino: “Facci vedere i documenti”. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2021. Controllo nella notte in camera d’albergo per Emilio Fede, sceso a Napoli da Milano per partecipare ai funerali di sua moglie, Diana de Feo, scomparsa martedì scorso a 84 anni. Il motivo della visita da parte di due agenti della questura di Napoli nella stanza dove alloggiava l’ex direttore del Tg4, che ieri ha compiuto 90 anni ed è costretto su una sedia a rotelle, è un controllo per accertarsi che fosse in regola con le autorizzazioni del tribunale di Sorveglianza di Milano: Fede è infatti agli arresti domiciliari, e deve scontare 4 anni e 7 mesi di carcere per la vicenda Ruby. “È tutto vero – racconta il giornalista interpellato dal quotidiano Il Roma – Non ho parole. Ma in che paese siamo? Ero arrivato in auto mercoledì notte da Milano, dopo aver ricevuto tutte le autorizzazioni del caso per la mia posizione detentiva, per salutare e dare l’addio all’unico grande amore della mia vita, la mia Diana. Avevo poi preso parte ai funerali nella chiesa del Vomero e dopo una cena veloce con mia figlia Sveva nel ristorante “Antonio&Antonio “dei miei amici Della Notte, ero rientrato in albergo, accompagnato dalla mia assistente, Magdalena, una salvadoregna regolarmente contrattualizzata che mi aiuta in ogni momento della giornata, non essendo io più autonomo nei movimenti”. Si era ormai addormentato, racconta, quando dalla portineria dell’albergo hanno cercato di svegliarlo. Non avendo ricevuto risposta, hanno bussato a Magdalena per annunciargli il controllo da parte della Polizia. “Era già capitato a dicembre la stessa cosa e sempre intorno alle quattro del mattino. Stessa scena, stessa storia. Ho cercato di spiegare che ero stato autorizzato regolarmente per gravi motivi di famiglia, ma solo dopo un meticoloso controllo dei documenti miei ma anche della mia collaboratrice, hanno lasciato la camera”. “Hanno voluto trattarmi come un boss – aggiunge -. Ricordate quando lo scorso anno piombarono nel ristorante del lungomare, mentre festeggiavo il mio 89esimo compleanno con mia moglie Diana, e fui arrestato per evasione dai domiciliari di Milano?”. Lo scorso aprile Fede aveva avuto un incidente domestico: una rovinosa caduta che lo aveva costretto a diversi giorni di ricovero al San Raffaele di Milano. Emilio Fede rientrerà a casa in serata e continuerà a scontare gli arresti domiciliari, che scadranno nel 2024, quando l’ex direttore del Tg4 avrà ormai 93 anni.

Il racconto dell'ex direttore del Tg4. Irruzione all’alba nella stanza d’albergo di Emilio Fede: “Trattato come un boss”. Francesca Sabella su Il Riformista il 26 Giugno 2021. «Nemmeno il tempo di dare l’estremo saluto a mia moglie che si è ripresentata la stessa follia dell’anno scorso: sono stato trattato come un boss». Emilio Fede è oggi un uomo di novant’anni, si sposta in sedia a rotelle e due giorni fa ha dovuto dire addio alla moglie, la senatrice Diana de Feo. Dopo essere rientrato – distrutto dal dolore – nell’albergo Santa Lucia di via Partenope, alle quattro del mattino l’ex direttore di Tg1 e Tg4 è stato svegliato da due agenti della Questura di Napoli, piombati nella sua camera per verificare la sua autorizzazione a spostarsi da Milano a Napoli. Il giornalista siciliano, infatti, si trova ai domiciliari per scontare quattro anni e sette mesi di reclusione inflittigli dalla magistratura per la vicenda Ruby. Il controllo, alla fine, si è rivelato inutile e frutto di un errore di comunicazione tra gli uffici giudiziari e la polizia. Potrebbe essere la trama di un film di pessimo gusto, invece è quello che è successo al giornalista dopo essere arrivato in città per prendere parte ai funerali della moglie Diana. Sia chiaro: oggi Fede ha 90 anni, sta scontando il suo debito con la giustizia italiana e, pochi giorni fa, ha affrontato un viaggio di ore e ore in piena notte per dare l’ultimo saluto alla donna che gli è stato accanto per 56 anni. Fede non è più autosufficiente, è assistito da una badante ed è costretto a muoversi su una sedia a rotelle perché, in seguito a una caduta, non riesce più a camminare. Nonostante ciò si è visto piombare la polizia in camera, quasi come se fosse stato un killer ricercato in tutto il mondo e non un anziano inerme. E non è nemmeno la prima volta che l’ex direttore di Tg1 e Tg4 diventa protagonista di eventi che hanno dell’incredibile: lo scorso anno, mentre festeggiava il suo 89esimo compleanno, le forze dell’ordine lo raggiunsero al ristorante e lo arrestarono per evasione dai domiciliari. Ieri la storia si è ripetuta, sebbene con sfumature diverse. «Non ho parole per raccontare quanto mi è accaduto – racconta incredulo Emilio Fede al Riformista – Sono ancora molto provato e arrabbiato. È stato disumano. talmente ai limiti dell’orrore psicologico e politico che veramente non so da dove cominciare a commentare». Poi, complice la rabbia e la volontà di far sapere a tutti il trattamento vergognoso che gli è stato riservato, Fede racconta l’accaduto. «Mia moglie era morta da poco e avevo partecipato ai funerali nel pomeriggio – spiega Fede – Ero rientrato in albergo stanco, disperato e consapevole di essere rimasto solo. In piena notte mi hanno chiamato dalla portineria, ma dormivo e non ho sentito il telefono. A quel punto i due agenti hanno iniziato a bussare insistentemente alla porta della mia stanza. Io mi sposto in carrozzina, quindi ho impiegato un po’ di tempo per aprire e mi sono trovato due energumeni che mi dicevano di dover controllare la mia autorizzazione per spostarmi». Fede aveva tutte le carte in regola per viaggiare da Milano a Napoli. Seppure non le avesse avute, era necessario mettere a segno un vero e proprio blitz, all’alba, nei confronti di un anziano che non è nemmeno più autosufficiente?  «Ho cercato di spiegare che ero stato autorizzato regolarmente per gravi motivi di famiglia – racconta Fede – Gli agenti hanno cominciato a inviare messaggi e a chiamare più volte gli uffici di polizia giudiziaria perché i conti non tornavano». E qui si tocca l’apice della follia. «Dopo due ore – aggiunge il giornalista – all’alba mi hanno detto che c’era stato un errore di comunicazione e che la mia autorizzazione, in realtà, l’avevano già ricevuta». E così solo dopo un meticoloso controllo dei documenti di Fede e poi anche della collaboratrice che lo assiste, i due agenti hanno lasciato la camera e dato il permesso al giornalista di riposare, finalmente. «Io lo chiedo a voi, vi rendete conto dell’accaduto? – dice Fede – Mia moglie nella bara, io in camera disperato e la polizia che controllava. Ma siamo pazzi o cosa? Ancora una volta sono stato trattato come un boss. Mi chiedo e vi chiedo: ma in che Paese viviamo?»

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

"Non si tratta di una ricaduta del covid". Le condizioni di Emilio Fede, la figlia: “Ce la siamo vista brutta, vuole tornare presto a Napoli”. Redazione su Il Riformista il 10 Aprile 2021. L’ex direttore del Tg4 Emilio Fede è ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano in seguito ad una brutta caduta. Le sue condizioni, secondo quanto riferito da diverse agenzie, sarebbero gravi ma a fare chiarezza è lo stesso giornalista che il 24 giugno compirà 90 anni. Raggiunto dall’Adnkronos, Fede ha spiegato che “il covid non c’entra niente, sono in un letto al San Raffaele di Milano per una caduta, una rovinosa scivolata, e sono curato dagli amici. L’ho vista brutta, sono in piedi per miracolo”.  Poi ha aggiunto: “Non sono in gravi condizioni, è stata però un’esperienza drammatica”. Fede, che nel dicembre scorso, dopo la positività al covid, è stato ospite del Covid Residence dell’Ospedale del Mare di Napoli, si trova nello stesso ospedale dove da una settimana circa è ricoverato l’ex premier Silvio Berlusconi. Sulle sue condizioni interviene anche la figlia Sveva che – sempre all’Adnkronos – chiarisce che “non si tratta di una ricaduta del covid, come è stato scritto, da cui si è ripreso, ma di un problema di deambulazione legato ad una brutta caduta, da cui sta uscendo. Ora sta recuperando dal punto di vista fisico e neurologico”. “Mio padre è un combattente, ce la siamo vista brutta. Ma stiamo finalmente vedendo la luce. L’ho sentito per telefono, sta meglio, mi ha detto che vuole andare a Napoli, dalla mamma, e mangiare insieme un piatto di spaghetti con le vongole, possibilmente al mare” ha poi aggiunto la figlia. “Mio padre, lo ripeto, è un combattente e le sue battaglie le ha sempre vinte. Vincerà anche questa”.

Luca Fazzo per “il Giornale” l'11 aprile 2021. Ha visto la morte in faccia, ma l' istinto di fare polemiche non gli è passata. Appena Emilio Fede è stato di nuovo in grado di parlare, alla figlia Sveva ha detto: «Ho voglia di andare a farmi gli spaghetti con le vongole a Napoli dalla mamma». Ed è difficile non vederci una citazione - magari inconsapevole - della spaghettata dell' anno scorso sul lungomare partenopeo, che gli costò l' arresto per essere uscito dai domiciliari. Fede è fatto così. L' ex direttore del Tg4, che compirà novant' anni il prossimo giugno, è scivolato in modo disastroso cinque giorni fa vicino alla casa di Segrate dove è tornato a vivere da qualche mese, dopo essersi ammalato di Covid a Napoli nel dicembre scorso, compreso un breve soggiorno all' ospedale Cardarelli e il trasferimento al San Raffaele. Impatto con il virus tutto sommato morbido, tenuto conto dell' età non più verdissima del giornalista. In qualche modo Fede si era ripreso e qualche settimana fa era tornata a casa. E lì, il capitombolo. Non poteva andare peggio. Dall' abitazione di Fede al San Raffaele ci sono poche decine di metri, quando l' ambulanza arriva al Pronto soccorso i medici si rendono conto in fretta della gravità della situazione. Fede ha battuto la testa, non è cosciente, il timore è di una emorragia cerebrale che potrebbe avere esiti letali. E per lunghe ore i sanitari temono di non riuscire a riafferrare il paziente. Invece Emilio Fede si riprende. Ieri, quando la notizia della sua disavventura diventa pubblica, il fighter di Barcellona Pozzo di Gotto è già in una stanza di degenza lontana dalla terapia intensiva, cosciente, con il cellulare acceso. E risponde a una chiamata dopo l' altra delle agenzie di stampa: «Considerando che sono tutto piegato, la testa, le braccia, tutto sommato sto bene», dice a una. «Poteva essere una cosa grave - risponde a un 'altra - ho riportato delle ferite e devo fare tutto con molta prudenza. Vediamo come ce la caviamo, devo rimanere qui ancora un pò per ordine dei medici». A volte colloca l' incidente in casa, a volte in giardino o per strada. Ma più tardi, quando anche il Giornale riesce a parlargli, Fede dà una nuova versione dei fatti: «Mi ha investito un' automobile qui davanti al San Raffaele, adesso sto molto male, proprio come uno investito da un auto». La voce è estremamente affaticata, l' eloquio confuso. «É stata una esperienza drammatica», dice Fede. E stando al poco che trapela dal riserbo dei sanitari lo è stata davvero. Una botta che non ci voleva, per un uomo che era già profondamente segnato dalle vicissitudini giudiziarie e dalla brusca conclusione della sua decennale carriera in Fininvest e poi in Mediaset. Appena pochi giorni fa, il 30 marzo, la Cassazione aveva reso definitiva la condanna di Fede per tentata estorsione ai danni di Mauro Crippa, responsabile delle news del Biscione, che considerava il principale responsabile del suo licenziamento. Come spesso accade, ai guai personali si sono accodati gli acciacchi fisici e ad essi le fatiche mentali. L' uomo che dopo la caduta viene ricoverato al San Raffaele è un vecchio segnato da una serie di patologie che il trauma ha solo reso più evidenti. Ma la figlia Sveva non perde la fiducia nelle risorse del padre: «Ora sta recuperando dal punto di vista fisico e neurologico. Mio padre è un combattente e le sue battaglie le ha sempre vinte. Vincerà anche questa. Stiamo finalmente vedendo la luce».

·        Enrico Mentana.

Bartolo Dall'Orto per ilgiornale.it il 26 marzo 2021. "Credo Opportuno Giudicare Lei Inopportuno O Non Equilibrato: legga solo le iniziali". Cioè: "Coglione". Con questa frase, non proprio da galateo, Enrico Mentana ha risposto alle critiche pubblicate da un tal Antonio C. sulla sua pagina. Un attacco in scivolata, non proprio signorile, che sta già dividendo i follower: ha fatto bene a rivolgersi così ad un utente? Tutto nasce da un post pubblicato questa mattina intorno alle 11. Tema: campagna vaccinale italiana. Il direttorissimo sostiene di denunciare da almeno due mesi "incongruenze e ritardi" sul fronte siero anti-coronavirus. In effetti già nei giorni scorsi si era scagliato ("mi vergogno") contro i giornalisti che chiedevano di passare davanti alla fila, provocando anche uno scontro con l'Ordine dei Giornalisti ("il tuo è commento da casta che non viene spedita in assembramenti", gli risposte il presidente dell'Odg Carlo Verna). Fatto sta che oggi Mentana è tornato sulla questione. "Fin dall'inizio - ha scritto - ho criticato due cose: che non si sia partiti dai più anziani e più fragili, e che si siano privilegiate genericamente due categorie (sanità e insegnamento) in cui arbitrariamente molte regioni hanno inserito di tutto, dai costruttori le cui imprese sono state impegnate in lavori di manutenzione ospedaliera a cooperative di volontariato che magari da dieci mesi non hanno più svolto azioni a contatto con possibili contagiati, da docenti e assistenti universitari a casa da un anno ai plotoni dei corsi di formazione, per lo più bloccati da tempo, dagli avvocati, tutti e a prescindere, agli impiegati degli assessorati alla sanità. Ma in realtà l'impressione è che le maglie si siano "naturalmente" allargate ovunque. Ieri, per fare un esempio, il procuratore calabrese Gratteri (magistrato degnissimo), impegnato a respingere l'accusa di aver scritto la prefazione di un libro platealmente no vax, ha detto al fattoquotidiano.it che nel suo ufficio 'siamo tutti vaccinati. Altro che proibizionismo!'. Tutti vaccinati? E come hanno fatto?". Il post colleziona in poche ore oltre 10mila reazioni e innumerevoli commenti. Molti concordano con il direttore, altri - ovviamente - dissentono. Tra loro c'è anche il signor Antonio C., il quale ha l'ardire di accusare Mentana di lamentarsi solo "perché non hanno vaccinato i giornalisti. Un lamento di invidia nei confronti delle altre categorie di lavoratori". L'appunto, come visto, è decisamente scorretto. E infatti diversi utenti lo fanno notare ad Antonio: "Mentana è stato il primo a criticare la richiesta e a dichiararla vergognosa e immorale", scrive Luca. Tra le risposte al povero Antonio spunta però anche quella dello stesso direttore. E i toni sono tutt'altro che dialoganti: "Credo Opportuno Giudicare Lei Inopportuno O Non Equilibrato: legga solo le iniziali". Firmato: Enrico Mentana. L'affondo del direttore non è piaciuto a tutti i follower. Molti già lo considerano un "commento memorabile". Qualcuno si limita ad un "severo ma giusto". Altri invece bacchettano il direttore del Tg di La7. "Troppa volgarità", dice un utente. "Pietoso", scrive un altro. Walter suggerisce ad Antonio C. di denunciare Mentana ("dall'alto della sua popolarità si pensa intocabile"). Per Maria Antonietta invece si tratta di un comportamento "puerile", per Federico "Mentana non può insultare a caso le persone", mentre per Roberto "da un personaggio con la sua cultura ed esperienza mi sarei aspettato una risposta più matura e meno volgare".

Ps: poche ore dopo Mentana ha pubblicato un pezzo sul "cyberbullo che insulta" Lucia Azzolina da due anni, commentando con "allucinante". Lo era anche il suo commento?

Giulia Cazzaniga per “la Verità” il 24 marzo 2021. Interruzioni vietate, inquadrature in modalità singola, mai sulle scarpe indossate. Sui diktat di Beppe Grillo per le ospitate in tv dei 5 stelle, la replica di Enrico Mentana, il direttore maratoneta del tg La7, è senza scampo: su Facebook le definisce «irricevibili», e chiede di rimando che ruolo abbia Grillo, e quale Conte. Che un certo giornalismo si sarebbe «appecoronato» a Mario Draghi lo aveva invece previsto. «E ci mancherebbe, era successo pure con il Conte 2».

La luna di miele prosegue?

«Il mio mestiere è quello del giornalista sportivo non tifoso: se la Nazionale gioca bene, occorre raccontarlo, anche con toni patriottici, ma se gioca male bisogna dirlo. Vale per tutti i governi. Però distinguo: i telegiornali hanno certe necessità di racconto, mentre la stampa o ha una sua linea storica o si deve distinguere per battaglie che possono piacere moltissimo a una parte e pochissimo a un' altra. Vale anche per il vostro giornale. I quotidiani sono come partiti a sé stanti, anche se - per fortuna - poi non vanno a elezioni».

Lei che opinione ha? Di Draghi si fida? Qualche mese fa descriveva il Paese «impreparato, indeciso, balbettante», di fronte al virus. Ora andiamo meglio?

«Non risponderò certo come Di Maio che il premier "mi ha fatto una buona impressione". Il curriculum di Mario Draghi non lo ha nessuno. Mi fido di lui soprattutto per la vera partita, quella più importante, del pacchetto Next generation Eu. Non riesco a vedere una figura più adeguata per riuscire a ottenere quei miliardi e saperli gestire per guidare il rilancio del Paese. Molto onestamente: meglio Draghi di tutte le altre alternative, visto che non abbiamo grandi leader del Paese, di nessun partito, che potremmo mettere a confronto».

Giorni complicati sui vaccini. Da tre giorni si sono ricominciate le iniezioni. Che è successo secondo lei con Astrazeneca?

«Mi pare evidente ci fosse una sorta di prevenzione verso Astrazeneca, dopo lo stillicidio di comunicazioni da parte delle varie agenzie del farmaco nazionali dei mesi scorsi: come sempre accade quando una cosa costa meno, è stata data in sostanza una etichetta del "vaccino dei poveri". Una ingiustizia assoluta: non è che perché una cosa costa meno vale meno. Neanche con i farmaci, pensiamo ai generici. Il difetto principale di tutta questa vicenda è che è stata annunciata, ma non è stata spiegata».

E così c' è chi dubita. Glielo chiedessero, lo farebbe il «testimonial» del vaccino?

«Certo che lo farei. Fatta la frittata, bisogna che anche i più restii prendano la palla al balzo e vadano a vaccinarsi domani con Astrazeneca. È l' unico modo per restituire la fiducia. Tanto ci sarà sempre il pirla negazionista che dirà che nella fiala di quella vaccinazione del parlamentare c' è invece il vaccino di Pfizer. Ma quest' area della paura non è così consistente. È più facile che esistano i salta-fila, in Italia, che i no vax».

La politica nelle ultime settimane le ha dato le soddisfazioni di grandi maratone. Se le è godute, o qualcosa è cambiato nel suo raccontare in tempo di pandemia?

«Quando la politica dà segni di vita consente di distrarci dallo strapotere mediatico delle notizie sulla pandemia. Ed è anche il racconto dell' unica cosa che ci può permettere di superare questo momento: c' è bisogno di buona politica».

Che è invece oggi in crisi?

«Dal 2011 abbiamo assistito a cambi di scenario imprevedibili. Penso al pareggio nel 2013 tra il Pd super-favorito e il Movimento 5 stelle esordiente. Chi avrebbe potuto poi immaginare che dopo l' uscita travagliata, ingloriosa, di Silvio Berlusconi dal Parlamento, sette anni dopo lo si sarebbe visto sul ponte di comando di una nuova maggioranza, per di più all' età che ha? Nessuno avrebbe previsto di vedere il Matteo Salvini dei pieni poteri e dell' estate del Papeete diventare un partner tutto sommato non troppo sgomitante di una maggioranza guidata dall' ex presidente della Bce. Per tacere dell' odio trasformatosi in amore - financo eccessivo - tra il Pd e i 5 stelle. Non ci sono partiti strutturati, gli elettorati sono tutti d' opinione ma non ci sono opinioni forti. E così chi azzecca l' idea giusta in una certa fase diventa il kingmaker».

Ma quindi vale tutto.

«Abbiamo assistito alle discese ardite e alle risalite - per dirla con Lucio Battisti - di Renzi. Alla trasformazione operata da Salvini sulla Lega: un partito autonomista diventato nazionalista, sovranista, con forte vocazione a rappresentare il Sud. Letteralmente il contrario della Lega di Bossi. Ci è riuscito perché siamo in una situazione post-ideologica, e non è certo l' unico esempio. Grillo ha creato un partito dal nulla, che è riuscito a sfondare già alla sua seconda volta alle elezioni. Questo succede perché non c' è più il radicamento dei partiti tradizionali, né le ideologie di riferimento. I punti di contenzioso vitale, oggi, tra destra e sinistra, sono davvero pochi».

Se le cose stanno così, per il Pd la sfida è complicata.

«Visto dall' esterno, il Pd sembra essere molto in ritardo sull' analisi di quanto può fare. È un partito che resiste per il suo passato, per il suo perdurante insediamento, per la rete capillare di amministratori. C' è un ceto politico che mira, anche, alla propria conservazione. Il Pd si è trasformato così in Pdr: partito della responsabilità».

Non serve averne, oggi?

«Governare non è responsabilità, ma ambizione, voglia di cambiare. Nei programmi dei dem l' idea di cambiamento è diventata rituale: è il partito che cambia meno. La battuta sul "partito della Ztl", e cioè che vince solo all' interno dei centri storici, trova corrispondenza, purtroppo per il Pd, nell' analisi dei dati elettorali. Il che la dice lunga rispetto al rapporto con i nuovi ultimi, con i meno abbienti di una società squilibrata. Nei mesi scorsi è andata in scena la trama del musical My fair lady: il Pd avrebbe voluto insegnare l' arte di governo e della democrazia agli apprendisti a 5 stelle, ma è andata a finire che si è innamorato della fioraia Giuseppe Conte. E questo ha provocato uno squilibrio enorme: a trainare la sinistra sembrava fosse l' ex premier, in assenza di leadership e valori».

Torno al virus. Non ne siamo fuori, e si è anzi tornati a chiudere. Due dei suoi quattro figli sono in didattica a distanza. Come la stanno vivendo?

«In maniera diversa tra di loro. Il problema della didattica a distanza è che puoi studiare o no a seconda tu sia un secchione, un appassionato, o un utilitarista. La vera questione è però che tutto questo viene lasciato al libero arbitrio di minori, in una situazione del tutto anaffettiva: non ci sono gli insegnanti, non ci sono i compagni. Trovo la Dad potenzialmente devastante, anche se continuo a sperare che i miei figli non ne subiscano le conseguenze. So perché siamo arrivati a questo punto, spero se ne esca il prima possibile. Nessuno sa cosa è giusto fare, in nessun Paese».

Chiudere i giovani in casa in Italia è sembrato ad alcuni necessario.

«Sono stato giovane anch' io, e a differenza degli altri non faccio finta di avere amnesie. Delle nuove generazioni ci si è dimenticati totalmente. Il governo precedente - e quello nuovo per ora non ha dato su questo un segnale di discontinuità - ha di fatto chiuso in casa i giovani, sbarrando pure le porte delle università. Nessuna indicazione, se non "state a casa". Nel breve e illusorio periodo tra la prima e la seconda ondata si sono tolti i divieti e, incredibile, i giovani sono andati a incontrarsi tra loro. Che cosa avrebbero dovuto fare? Sono andati in vacanza e nelle discoteche, che però erano aperte e non certo per gli anziani. Si sono fatti errori e si è arrivati a darne la colpa ai giovani. Perché sarebbero irresponsabili? Dei pendolari accalcati nel vagone della metropolitana qualcuno si permetterebbe di dire che mancano di responsabilità? Ho visto foto fatte con il teleobiettivo, come se i ragazzi fossero kamikaze che fanno ammucchiate all' aperto solo per bere uno spritz. Si è data un' idea inutilmente e colpevolmente macchiettista di chi vive, di chi ha semplicemente la pretesa di vivere».

Torneremo presto a farlo?

«Il grande vantaggio di avere un governo come l' attuale è che c' è una forte livello di corresponsabilità della quasi totalità delle forze politiche. Vuol dire che le scelte si fanno tutti insieme. L' alternativa, in politica, da quando esiste la Seconda Repubblica, è il gioco parossistico per cui io dico giallo, tu dici blu. Stando tutti al governo, almeno prenderanno scelte condivise e nessuno si potrà chiamare fuori. Speriamo siano quelle giuste, solo così avranno anche il consenso dell' opinione pubblica».

·        Eugenio Scalfari.

Vittorio Feltri a valanga contro Eugenio Scalfari: "Sbaglia l'uccello e deride un morto", come è nata Repubblica. Libero Quotidiano il 31 marzo 2021.Eugenio Scalfari qualche giorno fa ha raccontato la gestazione e il parto della sua principale e notevole creatura: la Repubblica. La quale vide la luce nel 1976, quando io lavoravo al Corriere d'informazione. Ricordo che i primi numeri del novello quotidiano erano scialbi, incerti e senza spessore, inadatti a fare concorrenza al Corsera, saldamente in mano al direttore Franco Di Bella. Noi redattori li sfogliammo distrattamente concludendo che quel prodotto non sarebbe andato molto avanti. Sbagliavamo. Infatti esso lentamente, ma neppure troppo, e faticosamente riuscì a conquistarsi una piccola fetta di mercato. Poi esplose, e più avanti spiego come e perché. Scalfari nel rammentare la sua prodezza editoriale accenna alle iniziali difficoltà economiche. Per fare esordire la Repubblica, il fondatore si impegnò in una sorta di giro delle sette chiese finalizzato a raccogliere i fondi necessari: 5 miliardi di lire. Bussò anche alla porta di Angelo Rizzoli, non il vecchio bensì il giovane. Il quale ricevette Eugenio sia nella casa di Roma sia in quella di Milano. Durante la seconda visita, nella dimora ambrosiana, Scalfari ebbe una accoglienza singolare. Egli narra di essersi imbattuto in un pappagallo che dava  tranquillante dello str***o al padrone dell'appartamento. La cosa lo raggelò, e posso capirlo. Tuttavia devo precisare che Angelone non ha mai posseduto un pappagallo, semmai un merlo indiano che aveva acquistato da un farmacista in fin di vita in quanto affetto da un tumore. Primo e veniale errore. Poi il grande direttore liquidò il proprietario dell'uccello senza pietà e senza rispetto, scrivendo che costui si avventurò in una serie di imbrogli finanziari, gestiti dalla P2, che lo rovinarono. E questo secondo errore non è veniale. Infatti Angelo fu travolto da ben sei procedimenti giudiziari da cui dopo vari anni fu completamente assolto. Non solo, a lui la proprietà del Corriere della Sera, che il padre Andrea aveva comprato per 200 miliardi anziché 60, l'autentico valore, fu sottratta con destrezza: glielo pagarono 15 miliardi, una miseria, accettata dal padrone del vapore per disperazione. Rizzoli fu vittima di pescecani, non era un delinquente. Ecco la realtà. Quanto al successo di Repubblica fu agevolato dal montatissimo scandalo P2, i cui effetti negativi ricaddero sul Corriere, parecchie copie del quale - ingiustamente sputtanato - passarono a Scalfari. Io ero un redattore di via Solferino e rendo testimonianza. Quindi direttamente o indirettamente il condottiero del primo giornale maneggevole italiano deve gratitudine ad Angelone, che gli ha lasciato davanti una prateria di lettori, altro che dileggiarlo per il pennuto, le cui abitudini personalmente conosco, in quanto, nel momento in cui Rizzoli finì in carcere (senza colpe) il volatile fu adottato da Indro Montanelli, che lo teneva in un gabbione nella anticamera del suo studio in via Negri. Nella quale un giorno entrai anch' io in attesa di intervistare il papa dei pennini italiani. Il merlo indiano non si limitò a insultarmi, mi disse altresì di andare a fare in culo. Scoppiai in una fragorosa risata e un pensiero volò ad Angelone cui rimango grato per avermi assunto al Corriere con uno stipendio allora invidiabile. Non ce l'ho con Scalfari che si rivela debole nelle ricostruzioni storiche e delle proprie vicende, però trovo sia poco elegante approfittare della circostanza che un uomo sia morto per prenderlo in giro. Rizzoli era persona gentile, generosa e colta. E non merita altro che stima e simpatia.

Il docufilm su Scalfari. Perché Scalfari fu cacciato via da Repubblica, la verità del passaggio di testimone a Ezio Mauro. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Ottobre 2021. Caro Eugenio, nei nostri antichi patti, l’intesa era che quando sarebbe arrivato il giorno, avrei dovuto io scrivere il necrologio. Era un patto per modo di dire, giocoso e affettuoso perché tu sei una creatura affettuosa anche se dominata da quel meccanismo che ti rende unico, rinascimentale, oggetto del desiderio, della curiosità e anche dell’amore e dell’odio e anche del fraintendimento e della rabbia e della difesa a oltranza e della furia a oltranza di milioni. Quindi anch’io come tanti quando si è sparso per il tam-tam dei telefonini la notizia del film che su di te avevano realizzato le tue figlie, sono corso a vedere su RaiTre. E per tutto il tempo, come tutti, mi sono un po’ sdegnato e un po’ commosso, ho trovato questo poco opportuno o quello troppo reticente, e ancora una volta ho apprezzato il tuo candore nell’interpretare la presunzione teatrale in cui simuli il divino e l’umano, secondo circostanze. Bell’opera, grande coraggio e bella soddisfazione arrivare alla tua età con due figlie adorabili come le tue che fanno su di te un documentario. Solo un’altra volta mi era capitato: quando la figlia cineasta del mio amico scomparso un anno fa, Andrej Brzeski, ebreo polacco che aveva vissuto le infamie prima del lager nazista e poi del gulag sovietico per finire in California a insegnare economia, dedicò un documentario agli incubi notturni del padre ancora inseguito dai fantasmi della Gestapo e dell’Nkvd. E poi il tuo famoso narcisismo su cui si è detto talmente troppo che solo a parlarne ci si sente idioti oltre che banali. La tua genialità è del resto sempre stata ben ordinata, come il tuo tavolo da lavoro totalmente sgombro, con una sola penna. È commovente vedere con quale divertito pudore ti proclami di volta in volta scrittore, filosofo, poeta persino, saggista, storico, politico, e poi padre e patriarca non soltanto della tua famiglia, ma di un popolo di giacobini di buon vino e abitudini aristocratiche. Ma non me la sono bevuta fino in fondo, malgrado gli eccellenti sforzi delle tue figlie che non hanno esitato e portare davanti al pubblico segreti di famiglia e sofferenze mai dimenticate. Quello per l’aspetto umano. Poi c’è quello disumano. Onestamente, non capisco perché in questo bel filmato pieno di belle immagini – finalmente te giovanissimo nell’uniforme fascista e un’aria superba da vero avanguardista, prima di essere sollevato letteralmente da terra dal segretario del Pnf e degradato con violenza per aver inventato scandali che ti dovevano servire solo per metterti in mostra – ora agri ora dolci ora agrissime ora dolcissime, si insiste su questa storia secondo cui saresti stato tu a scegliere il tuo successore Ezio Mauro. Come forse ricorderai ho pubblicato un libro- intervista con Carlo De Benedetti, il quale mi raccontò durante una lunga intervista come e quando decise di licenziarti, dopo aver comperato Repubblica. Io ero allora alla Stampa diretta da Ezio Mauro. Il quale una mattina fece la riunione di redazione a Torino come direttore della Stampa e poi seppe da De Benedetti che doveva correre a Roma per firmare il primo numero da direttore di Repubblica. La sera prima ci fu una cena a casa di Carlo Caracciolo per ammannirti con garbo l’imminente mazzata e tu non fosti affatto contento, era ineluttabile, ma fu un bruttissimo colpo per mitigare i cui effetti chiedesti che ti fosse concesso di dire che Ezio Mauro l’avevi scelto tu. Non era vero e lo sappiamo tutti, ma che bisogno c’era di seguitare a far finta che così fosse? Che una mattina ti fossi svegliato dicendo: oggi voglio passare lo scettro di comando a Ezio Mauro. Il quale, invece, avrebbe avuto l’incarico dal De Benedetti di fare il suo giornale a suo modo e non a modo tuo, il che si vedeva a occhio nudo, non importa quanto fosse di ottima fattura. Non ce n’era bisogno. Il giorno in cui De Benedetti impose il cambio come un fulmine a ciel sereno, Gianni Agnelli impazzì di rabbia per l’affronto e si mise alla ricerca di un direttore con cui sostituire Mauro che da Roma mi telefonava. Magari qualcuno penserà che voglia ricordare questa parte della verità omessa per farti un dispetto. Al contrario: è per onorarti. Repubblica sei tu, sei sempre stato solo tu perché un prodotto personale, geniale, unico e irripetibile. L’unico che fu in grado di ricostruirne l’anima originaria fu Carlo Verdelli che faceva un giornale nuovo e così vicino allo spirito originario, che tu te ne dichiarasti pubblicamente innamorato, usando proprio questa parola impegnativa: “innamorato”. Accadde alla presentazione a Piazza di Pietra della curiosa tua autobiografia in prima persona scritta da due valenti colleghi e non da te. Verdelli fu cacciato via con analoga brutalità dai nuovi editori che avevano comperato tutto ciò che tu un tempo avevi creato. E anche quella fu un’azione di inutile e spettacolare crudeltà, senza nulla togliere all’attuale direttore di Repubblica che, tuttavia, fa con la testata che provò una rivoluzione nel 1976, un ottimo giornale che però non ha niente a che fare con l’originale. Neanche la Repubblica di Ezio Mauro aveva nulla a che fare con la tua. Ma tu volesti che la storia di quella brutalità fosse riadattata, alla maniera di Cesare Augusto quando commissionò a Tito Livio la riscrittura della storia patria per essere legittimato come discendente della dea Venere, su su per li rami, fino ad Enea. La Repubblica di Scalfari era quella, una composizione di titoli che dovevano cantare (un gioco di società redazionale) e il giornalismo inteso non come servizio di comunicazione delle News, ma come arte della “campagna”. Una campagna “contro” qualcuno o a favore di qualcuno o qualcosa, mai neutrale, se ti va è così, altrimenti entri nel “Con d’ombra” che funzionava come l’inferno di Dante: io fui relegato nel cono d’ombra come irrecuperabile e tanti saluti, ma quelle erano le regole e lo sapevi, o almeno lo imparavi. Il film è molto toccante, ricco, ma anche pieno di persone e personaggi che con la storia di Repubblica c’entrano come i cavoli a merenda, ma è un documento unico, da godere anche perché non siamo sicuri che si possano dare altri Scalfari in futuro, a prescindere dai talenti. Capii che l’uomo, non il cittadino Scalfari era eccezionale per una questione di fattore umano e non politica: amava le sue figlie. Proprio loro, le autrici del documentario. Parlavi di loro come facciamo noi padri latini e italiani, con tenerezza e amore. Il documentario è familiare e dunque prescinde da qualsiasi canone, sono fatti di famiglia messi in piazza anche quando forse non sarebbe stato indispensabile. Ma ciò che emerge con fatica è lo stato onnivoro dell’uomo Scalfari che si dà per filosofo e poeta e politico, spesso per addiction adulatoria cui è immune ma di cui gode ancora oggi a 97 anni, ormai un vegliardo compiaciuto di essere molto vecchio, di non temere la morte perché, come diceva Epicuro è un fatto della vita e non puoi che subirla come una regina. Le figlie autrici del documentario sono Enrica (che conosco un po’ e che era anche una bravissima fotografa) e Donata, che lavorava a Mediaset anche grazie al misterioso “fil rouge” che ha legato e slegato Eugenio a Silvio suscitando l’insospettito fastidio dell’editore Carlo De Benedetti. Se è un’agiografia? Per forza. È il minore dei pochi difetti. Il maggiore sta nel fatto che appiattisce il contesto dell’Italia di allora rispetto a quella di oggi per cui si ha l’impressione errata di un lungo, quasi secolare presente, che vede il gran vegliardo sempre pronto con le dita sulla tastiera e a suonare un pianoforte che sa toccare con leggerezza ancora abile, facendo apparire il suo snobismo – che lo rende prossimo sia al papa che al Dio cui non crede – un carattere permanente, il che non è vero. Mario Pannunzio, il mitico direttore del Mondo, lo teneva sugli attenti e gli buttava gli articoli che trovava poveri di anima. La sua aristocratica noncuranza di fronte all’ineluttabile lo fa apparire un po’, troppo, nel documentario di famiglia destinato al pubblico, un vincitore eccessivo, mentre è stato e resta un vincitore relativo nel contesto di quell’Italia di ieri che purtroppo non emerge, a meno che uno non l’abbia vissuta. Per fortuna non esce fuori il ritratto di un femminista maschio come milioni, ma di un padre che manda le figlie a diplomarsi in stenodattilografia che è il mestiere più adatto alle donne, nel rimpianto di non aver avuto un figlio maschio che avrebbe perpetuato il nome. Sue parole. Dunque, l’Eugenio che abbiamo ammirato ed amato è un patriarca che con coraggio non rinnega un percorso che, politicamente parlando, lo ha portato molto e forse anche troppo a spasso. Un giorno si presentò alla riunione del mattino (la famosa “messa solenne”) e gettò sul tavolo un libro appena uscito, intitolato “Il cittadino Scalfari” e disse: «Qui si dice che io sono stato prima fascista, poi monarchico, poi liberale, poi radicale, poi socialista, poi comunista, poi democristiano, ed è tutto vero». Scalfari tesseva spesso l’elogio del “libertinaggio intellettuale” che era anche il suo lasciapassare per ogni guerra corsara che il suo talento gli consigliava di fare e il documentario fatto in famiglia ma destinato al pubblico mostra un libertinaggio vincente, un grande libertino consapevole di aver anche fatto molto soffrire. E come nel film di Woody Allen Whatever works, comunque vada, mostra un gran patriarca vittorioso e magnanimo che si perdona con generosità e che riconosce con misurata saggezza che meglio di così non gli poteva andare.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Una vita da Eugenio Scalfari raccontata dalle figlie Donata ed Enrica: «Oggi mi sento fragile come una statuina». Aldo Cazzullo il 15 ottobre 2021 su Il Corriere della Sera.  La lettera è indirizzata a Italo: «Mi sono preso una semicotta per una certa Nadia, fidanzata con Federico. Essa è già mia e rinsaldo il possesso nelle migliori gallerie dei più malfamati cinema della capitale. Non sono riuscito a sganciarla totalmente da Federico, ma è già moltissimo farlo cornuto a quel bravuomo». Italo è Calvino, il compagno di scuola. E il Federico «cornuto» è davvero Fellini. C’è anche una fidanzata contesa al più grande regista italiano, nella storia di Eugenio Scalfari, raccontata dalle figlie Enrica e Donata con Anna Migotto nel bellissimo docufilm — Scalfari. A sentimental journey — che sarà presentato alla Festa del Cinema di Roma, prima di essere trasmesso da RaiTre. La scena si apre con il giornalista oggi, a 97 anni compiuti, che suona il piano, ripreso di spalle, in testa un panama bianco. Ma subito ci si sposta indietro di decenni, quando Scalfari, giovane padre, tiene in braccio le figlie appena nate. Le fotografie più antiche sono opera della loro madre, Simonetta De Benedetti, figlia del leggendario direttore della Stampa (che a un tratto compare nel film, con il «ciuffettino» cui doveva il suo soprannome); quelle più recenti sono di Enrica, che ha ereditato il mestiere della mamma (mentre Donata è giornalista come il padre). Alcune sono immagini che potrebbero appartenere a qualsiasi famiglia: in piazza San Marco con i piccioni, al mare, davanti alla torre di Pisa. Ma poi ci sono le foto con Pertini e Montanelli, con Agnelli e Berlinguer, con Gassman e Mastroianni, con Ciampi e Cossiga (nome che Donata scriveva sui muri con la K), oltre a quella storica con Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Arrigo Benedetti. Il film è il racconto di formazione non solo di un giornale e di una comunità, ma di uno stile e di una corrente politico-culturale che da sparuta si fa di massa, sia pure quasi sempre minoritaria e quindi all’opposizione. «Quello che Eugenio ha creato oggi non c’è più» commenta con amarezza Natalia Aspesi, una dei testimoni intervistati dalle autrici: Ezio Mauro, Walter Veltroni, Bernardo Valli, Fabrizio Barca, Lucia Annunziata, monsignor Paglia, Paolo Sorrentino — «a tavola non ti chiedeva solo chi sarebbe stato il prossimo leader della sinistra; ti faceva capire che lo si poteva far diventare davvero il prossimo leader della sinistra» —, Roberto Benigni (ispiratissimo: «Scalfari è un narcisone ma è anche umile, andare da lui è come cenare con Kant, puoi parlare dell’illuminismo e del basilico...»). Si parte dalle origini: il padre, medaglia di bronzo della Grande Guerra, legionario di D’Annunzio a Fiume, pokerista, direttore di casinò; la madre, delicata, spesso in lacrime: «I miei erano uniti dall’amore per me, e io avrei vissuto la loro separazione come una catastrofe». L’incapacità di accettare gli abbandoni sarà all’origine — nell’analisi di Massimo Recalcati, anche lui tra gli intervistati — della scelta di non separarsi dalla moglie, pur cominciando una storia con un’altra donna, Serena. «Un triangolo in cui però io non ero il vertice» sostiene Scalfari. Una situazione che ha fatto soffrire tutti, comprese le figlie, e che sarà sciolta solo dalla morte di Simonetta e dal matrimonio con Serena. Ma, come dice la Aspesi, «non si può vivere con un uomo come Eugenio Scalfari e perderlo per gelosia». «Un maschio vuole un figlio maschio» racconta il protagonista. «E un fratello in effetti l’abbiamo avuto: il giornale, Repubblica» sorridono Enrica e Donata. Una creatura attesa da sempre, preparata per anni insieme con Carlo Caracciolo — il «principe biondo» per le figlie —, venuta al mondo nel gennaio 1976, difesa dalle mire di Silvio Berlusconi — «ci attaccò e ci ridusse a pezzi» —, venduta a Carlo De Benedetti, abbandonata «perché è meglio andare via un minuto prima che ti caccino», ma rimasta sempre un po’ casa sua. Fino a quando, a novant’anni, ha portato a casa un’intervista al Papa, di cui è diventato amico. Ora Scalfari si sente «fragile come una statuina di porcellana», consapevole di non poter «far pace con la morte», ma sempre «curioso della vita e innamorato del mio prossimo: signore, donne, ragazze, ma anche uomini, situazioni, società». L’opera non è una celebrazione. Ci sono cose che soltanto le figlie oserebbero dire del protagonista. C’è lo sguardo dissacrante anche se pieno d’amore dell’unico nipote, Simone, che a un certo punto dice: «Nonno, io vorrei fare il procuratore sportivo». Quando Scalfari proclama «oltre a un giornalista e a uno scrittore sono anche un poeta», le figlie esplodono in una risata. Ma proprio con una poesia si conclude il film. Versi intitolati non a caso «Sentimental journey», viaggio sentimentale: «Quando suona Mister Jazz/ allegria e malinconia vivono insieme/ e ad ogni nota di tromba/ il passato ritorna/ e lo vedi esaltare/ bevendo ballando cantando/ alla conquista/ d’amore e fantasia». 

Giulio Gambino per "Tpi" il 22 ottobre 2021. Giornalista. Direttore. Editore. Eugenio Scalfari è il giornalismo italiano degli ultimi 70 anni. Dall’Espresso a Repubblica, è l’artefice di un gruppo che ha cambiato il mestiere, e anche il Paese. Quelli che “la sera andavamo in via Veneto”, delle grandi battaglie. Mai sottomessi al potere (che anzi domavano), al punto da arrivare talvolta a sostituirsi alla politica. Una storia che non vedremo più in quelle forme e circostanze, e che valeva la pena raccontare, ancora una volta, da una prospettiva diversa. Quella di due figlie, prima bambine poi divenute donne, che sono state al fianco di un padre, narciso e testardo ma profondamente affettuoso, e che lo hanno visto attraversare un’intera vita. Il loro sguardo intimo è il risultato di “Scalfari - A sentimental journey”, un film di Donata ed Enrica Scalfari, insieme ad Anna Migotto, con la regia di Michele Mally, prodotto da 3D Produzioni e Rai Documentari, presentato alla Festa del Cinema di Roma il 21 ottobre e in onda su Rai3 alle 17:45 sabato 23 ottobre. Abbiamo così incontrato Donata ed Enrica Scalfari. A chi e come è venuta l’idea del documentario? «È venuta a me (risponde per prima Donata). Ci ho messo un po’ a convincere mia sorella (Enrica) ma ci siamo riuscite». 

Quanto avete impiegato a realizzare il documentario?

«Noi abbiamo iniziato a scriverlo durante il primo lockdown, poi abbiamo fatto le riprese tra luglio e settembre, circa un anno fa. La scrittura e la sceneggiatura con il montaggio l’abbiamo fatta nell’inverno 2021. A maggio il documentario era finito, poi l’ha preso il festival di Roma e abbiamo aspettato».

 È stato difficile convincere Eugenio?

«All’inizio non capiva bene cosa volevamo fare. Diceva: “Ma che è sta cosa? Prendete la mia biografia, ce l’avete già”. Poi si è convinto e mano a mano che facevamo le cose si incuriosiva. Alla fine si è anche divertito perché siamo stati per 10 giorni insieme». 

Facciamo un passo indietro e raccontiamo gli anni in cui siete nate.

«Lei (Enrica) è nata nel 1955».

Un anno a caso… (Ride Enrica)

«Sì, io sono nata con L’Espresso, nel senso che era proprio lo stesso anno della fondazione. Lei (Donata) invece nel 1960». 

Quando nasce Repubblica, nel 1976, invece avevate 21 e 16 anni. Cosa vi ricordate di quel ventennio? (Risponde ancora Enrica)

«Intanto mi ricordo tuo nonno, Antonio Gambino. Stava spesso a casa nostra con tua nonna, grandissima amica, e il loro cane, un dalmata. Eravamo molto legati. Veniva sempre perché ha fatto parte della fondazione dell’Espresso. Mi ricordo che a casa sfogliavo questo giornale gigantesco». 

Il celebre formato lenzuolo. E com’era?

«Il formato lenzuolo era meraviglioso. Con tutte quelle pagine, questa grafica moderna, fotografie fantastiche. Il senso del reportage. Ero affascinata da questo lenzuolo che girava per casa. Avevo 4/5 anni e ci giocavo… poi ricordo la casa che era sempre piena di giornalisti». 

Che casa era?

«Quella di via Nomentana. Sempre la stessa. Siamo nate lì. Quando L’Espresso divenne a colori ricordo che rimasi profondamente colpita da questo servizio con le fotografie di un feto visto dall’interno della placenta, colorate artificialmente. Un servizio pazzesco che non si era mai visto. Sicuramente il primo in Italia di quel tipo. Io avevo circa 10 anni e lo guardavo e riguardavo».

Cosa muoveva gli animi di quegli uomini nell’Italia conformista dell’epoca? (Risponde Donata)

«Era un gruppo di giornalisti che veniva da Il Mondo, quindi c’era una storia ben precisa dietro». Vale la pena spiegare brevemente quale. «Il Mondo era un giornale d’élite, e che voleva essere d’élite, per pochi, per liberali e riformisti. Invece il salto con L’Espresso è stato: “Noi vogliamo mantenere questi principi, però vogliamo allargarci. Deve diventare una cosa più di massa”. Altrimenti rimaniamo chiusi nel nostro orticello».

Una visione di parte ma non di partito.

«C’era già l’idea di voler prendere tutta una schiera di progressisti di sinistra che non arrivava a stare con il PCI, che negli anni Sessanta era un partito “bigotto” verso certi temi. Tutta la storia del Gruppo ha sicuramente agevolato il PCI a emanciparsi dai sovietici e da quella idea di comunismo che c’era. Fino ad arrivare al referendum sul divorzio». 

Qual era il legame fra quel gruppo di giornalisti e la politica? (Risponde Enrica)

«Mio padre era amico di molti politici. I più disparati. A casa nostra veniva spesso Gian Carlo Pajetta, Miriam Mafai (che poi lavorava anche con Repubblica). Veniva Antonio Tatò, segretario di Berlinguer, che era un vero amico. E poi De Mita, Cossiga. Berlinguer…» 

(Interviene Donata)

«Con alcuni si instaurava un rapporto di amicizia. Quando Cossiga era ministro degli Interni, durante il sequestro Moro, veniva sempre a casa nostra. Quando poi è diventato capo dello Stato e ha iniziato a togliersi qualche sassolino dalla scarpa, con papà, nonostante l’amicizia, c’è stata una frattura». 

Parlavo di questa fermezza nel rapporto con la politica.

(Conclude Donata) «Una frattura totale».

Chi erano i punti di riferimento di Eugenio all’epoca?

«Per L’Espresso Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Arrigo Benedetti. Erano i suoi tre maestri, sin da quando cominciò al Mondo».

(Interviene Enrica) «Poi a quell’epoca c’era anche Raffaele Mattioli. Era il presidente della Comit. Quando mio padre andò a Milano a lavorare alla Banca Nazionale del Lavoro, divenne amico di Mattioli, ma era appena un ragazzino. Non aveva nemmeno 30 anni. Mattioli era già Mattioli e lui andava sempre a trovarlo in banca. Faceva salotto e quindi lì ha conosciuto molte persone». 

C’è una bellissima scena nel documentario in cui Eugenio chiede a suo nipote, il figlio di Donata, che cosa voglia fare da grande. Simone, oggi ventenne, dice: «Il procuratore sportivo». Ed Eugenio, lapidario, risponde: «Ah».

Deluso? (Ride Donata)

«No, no, ma non ci pensa minimamente a fare il giornalista».

Tu invece hai seguito le sue stesse orme.

«Sì, ma non a Repubblica. Ero più una tipa da L’Unità, di cui diffondevo le copie davanti al liceo Tasso di Roma, ed ero anche iscritta alla Federazione Giovanile dei Comunisti. Papà un giorno disse scherzosamente che piuttosto avrei dovuto diffondere Repubblica, cosa che non avvenne, se non in occasione di una foto ricordo che con mia sorella scattammo per gioco e mostrammo a nostro padre». 

È stato difficile per te, Donata, essere sua figlia in quell’epoca?

«Io ero una militante del PCI, avevamo discussioni abbastanza accese perché all’inizio il PCI e L’Unità vedevano Repubblica un po’ come il loro avversario giornalistico. Venivano considerati i radical chic della sinistra». 

Ricordi un aneddoto?

«Quando in sezione si commentavano le vignette di Forattini che ritraeva Berlinguer con la brillantina e la vestaglia… loro si incazzavano da morire. Allora io arrivavo a casa e dicevo: “Papà ma basta, ma come vi permettete!”». 

Ed Eugenio cosa rispondeva?

«Ero giovanissima, 15/16 anni. E lui diceva a mia madre: “Simonetta, tua figlia frequenta troppo la sezione, peggio di una chiesa. Casa e sezione. Non va bene perché la stanno rincoglionendo”». 

Come veniva vista Repubblica in quegli anni dal PCI?

«Come l’espressione di una sinistra borghese. La vera lotta operaia stava altrove. Questo, almeno fino al sequestro Moro...». 

E poi? (Interviene Enrica)

«All’inizio c’era grande curiosità. Un nuovo formato, non c’era più la terza pagina. La cultura centrale l’ha inventata Repubblica. Non c’era lo sport. Repubblica si poneva come giornale nazionale. Come quotidiano che potevi comprare insieme al giornale della tua città. Poi con il successo è stato inserito lo sport. Piano piano è stato incluso tutto il resto. Anche le edizioni locali, ancor prima del Corriere della Sera...». 

Come è cambiato il giornalismo dagli anni Ottanta a oggi?

(Donata) «Una differenza abissale. Gli editori erano per la maggior parte puri. All’epoca di mio padre, nella loro esperienza, gli editori erano i giornalisti. Non c’era un progetto economico dietro e per cui non bisognava fare l’interesse dell’azienda. Ma solo l’interesse di ciò che loro pensavano giusto». 

Una stortura dell’editoria che in Italia si è accentuata sempre più…

«Va detto però che quando Carlo De Benedetti subentrò, pur non essendo in questo senso un editore puro, lasciò molto libero il giornale. Per moltissimi anni non ha mai interferito con quello che papà voleva scrivere o dire». 

E oggi? (Enrica)

«È cambiato il modo di fare giornalismo. È un giornalismo onnicomprensivo e quindi più distratto. Devi scrivere di tutto. Dato che i giornali vanno tutti male, devi riuscire a catturare attraverso il web più persone possibile con no tizie che sono stupidaggini. Non c’è una vera scuola che forma. Non ci sono personaggi che formano i nuovi giornalisti». 

E allora qual è il futuro del giornalismo?

«Ci vorrebbe un’enorme riforma tra il cartaceo e l’informazione digitale. Perché il cartaceo che mi mette la cronaca dell’incidente aereo del giorno prima non ha senso. La carta dovrebbe essere il posto degli approfondimenti, dei commenti». 

L’avete mai detta ad Eugenio questa cosa?

«Certo. Anche papà è d’accordo, lo dice da 15 anni. Lo ha sempre detto». 

C’è una battaglia oggi che vi riporta indietro negli anni del vostro impegno politico? «Quella sul clima, è l’unica in cui una grossa parte di giovani si ritrova. Grazie a Greta». 

Nel documentario fate notare a Eugenio che in alcune circostanze era poco presente e fate riferimento a quel “triangolo” tra vostra madre e la sua compagna.

(Enrica) «A un certo punto mi sono accorta che esisteva questa duplicità e non capivo, perché ero piccola. Avevo 10 anni. Non capivo di chi era la colpa, perché per me ovviamente c’era una colpa. All’epoca non ne ho mai parlato. Non avevo i mezzi per poter affrontare una cosa del genere. Per un periodo i miei genitori si sono separati, poi papà è tornato. Io soffrivo per la loro separazione, nel vedere mia madre che subiva tutto questo. Poi lo abbiamo accettato. Non ne abbiamo più parlato per moltissimo tempo».

Qual era il rapporto con vostra madre?

«Di grande complicità. Mamma è sem pre stata una persona molto solare e indipendente. Questa situazione l’ha vissuta soffrendo, ma una volta assodata non è stata lì ad aspettare papà. Aveva un suo giro di amici. Faceva dei viaggi. Lavorava». 

Nel documentario fate notare a vostro padre che ha ceduto le sue quote societarie perché “non aveva eredi”. Avreste voluto essere eredi di quella Repubblica? (Donata)

«All’epoca non ci pensavamo proprio. A posteriori forse…Poi però sono finita a Mediaset per 30 anni…» (ride). 

E com’è stato quando dovevi seguire Cossiga o Craxi?

«Finché ho potuto, ho sempre fatto tutto. Quando però la situazione coinvolgeva mio padre, è capitato che mi tirassi indietro e che dicessi: “No, io non vado, non posso”». Nessuna di voi aveva l’ambizione di prendere il suo posto un giorno? (Enrica)

«No.. ma che sei matto? Poi uno diventa direttore di un giornale perché è capace di farlo... Io mi sono messa a fare la fotografa proprio per essere un’altra cosa». 

Con vostro padre vi vedete spesso?

«Sì, da sempre, almeno due o tre volte a settimana. A pranzo, a cena». 

Qual è il pregio più grande di vostro padre? Non solo giornalisticamente.

(Enrica) «Lui si è sempre definito un oblativo. Narciso, oblativo. E poi la sua ironia è stata fondamentale nella nostra crescita. Il fatto di amare molto se stesso ma, allo stesso tempo, di essere estremamente generoso. Affettivamente. 

Era coinvolgente. La sua felicità derivava dal benessere degli altri. Tutte le persone che stavano intorno a lui dovevano essere contente. Anche al giornale. E lui faceva di tutto per far sì che questo avvenisse.

Con i suoi modi. E la sua valutazione della felicità altrui».

(Donata) «Il più grande pregio è che mi ha dato una grande sicurezza, una grande consapevolezza di me stessa». 

C’è qualcosa su cui siete state fortemente in disaccordo rispetto alla linea editoriale di vostro padre? (Enrica)

«Devo risalire a quando anche io andavo alle manifestazioni. C’era uno slogan che si gridava spesso: “Agnelli, Pirelli, prendiamo i martelli”. E una volta, quando Repubblica ancora non era nata, torno a casa ed era in corso una cena con varie persone, e tra gli invitati c’era anche Agnelli. Mi sono detta: “Come è possibile?”. Lì mi sono proprio incazzata. Ci sono rimasta male e il giorno dopo ho chiesto a papà: “Perché inviti Agnelli?”. E lui disse una cosa del tipo: “Gli avversari bisogna conoscerli bene per poterli criticare e si possono avere anche rapporti di amicizia”». 

Quel gruppo oggi appartiene proprio agli Agnelli…Ma andiamo avanti: chi sono i giornalisti che Eugenio apprezza di più?

«Ezio Mauro è suo figlio, il suo erede, a cui ha lasciato Repubblica. Bernardo Valli è suo fratello. Ama Carlo Verdelli. Non si conoscevano prima di quell’anno in cui è stato direttore, ma ha avuto un bel rapporto con lui, così come con Molinari e Damilano». 

Guardandovi indietro, c’è qualcosa che quel gruppo di giornalisti – di cui vostro padre ha fatto parte – non capì rispetto a quello che viviamo oggi?

«La deriva del sovranismo. Quelli di prima credevano nell’Europa». 

Oggi il populismo è stato sconfitto?

«No, anche perché alle elezioni amministrative di ottobre hanno votato in pochissimi».

Vi piace questo governo Draghi?

«Sì».

Meglio Mario Draghi o Giuseppe Conte?

«Draghi».

E il Pd... Vi piace Enrico Letta?

«Sì».

Meglio Letta o Zingaretti?

«Letta». 

·        Fabio Fazio.

Il sorriso (infido) del potere. Quello che la tv è "roba" mia. Luigi Mascheroni il 29 Agosto 2021 su Il Giornale. Intelligente, astuto, mellifluo: è il simbolo della "medietà". Né caldo, né freddo, è il tiepido di cui tutti hanno bisogno. Provate a vivere in una casa che ha sempre e solo acqua calda. O sempre e solo acqua fredda. Alla fine sarete disposti a qualsiasi cosa pur di avere l'acqua tiepida. Ed ecco spiegato lo straordinario successo di Fabio Fazio. Mai troppo caldo, mai troppo freddo, sempre gradevolmente moderato, sobrio, cioè tiepido - diminutivo: tiepidino, peggiorativo: tiepidastro, sinonimi: democristiano Fabio Fazio non sopporta i sensazionalismi. Mai un «di più», mai un «di meno». La somma è sempre zero. Ma in televisione il risultato è un'eccellente carriera. Carriera eccellente, lunga quarant'anni, debutto nel 1982, su Radio Vecchia Savona, per dire la sua predestinazione al nuovo, e 50 programmi televisivi tondi tondi e di successo - da Pronto, Raffaella?, Rai 1, 1983, alla nuova edizione di Che tempo che fa, su Rai 3, si riparte tra qualche settimana, speriamo che piova... - Fabio Fazio, 57 anni e la sindrome di Benjamin Button, ogni anno che passa dimostra una puntata di meno, è il meteorologo della tv. Nel senso che fa il bello e il cattivo tempo. Conduttore così così ma produttore formidabile, con una smania di potere inversamente proporzionale ai modi suadenti, «FazioFabio» decide tutto: programmi, reti, fasce orarie, ospiti, e soprattutto i contratti, fedele al detto: «Peggio di un brutto programma c'è solo un agente mediocre». Cast, cash e Caschetto. Del resto, l'uomo di spettacolo medio è di sinistra. Almeno crede. Il problema (per noi) e la fortuna (per lui) è che la televisione italiana è su misura di Fabio Fazio. Alla domanda: «Cosa ti aspetti da un programma di prima serata», la risposta è mediocritas. Termine latino che non ha il valore dispregiativo dell'italiano «mediocrità», ma significa semmai «stare in una posizione intermedia» tra l'ottimo e il pessimo, tra il massimo e il minimo, tra Belén e la Littizzetto, rifiutando qualsiasi eccesso, sempre inseguendo il «giusto mezzo». Da cui l'espressione «mezzo televisivo», appunto. Campione assoluto della medietà meglio di una polemica c'è solo una mezza polemica, piuttosto che fare domande meglio aspettare le risposte - Fazio Fabio, educatamente, garbatamente, qualunquemente, all'infotainment ha sempre preferito il gentlemen agreement. Che bisogno c'è di litigare? Regola numero uno del bravo conduttore: «Entrare nelle case degli italiani in punta di piedi». Che se poi s'accorgono che sei nel loro salotto, ti prendono a calci nel culo. Fortunato, professionale, gentile, intelligente (molto intelligente) e astuto (molto astuto), Fabio Fazio falsi sorrisi e autentico figlio della propria terra - è un ligure e un savonese perfetto. Dei primi ha l'oculatezza, l'insofferenza per lo spreco (se il ticket della sosta scade tra un euro, piuttosto aspetta in macchina) e la brama di accumulo (vero latifondista della televisione, dove tutto è «roba» sua, tra Savona, Celle, Varazze e Milano negli anni ha accatastato terreni, uliveti, case di pregio, ville, garage e un petit appartement a place Vendôme a Parigi). Dei secondi la predisposizione alla doppiezza, l'inganno, la dissimulazione. Non per caso Fabio Fazio toni suadenti in onda, pugno di ferro dietro le quinte ha debuttato nel mondo dello spettacolo, ben prima di infilare la corrente ideologica che lo avrebbe portato ai massimi picchi dello share, come imitatore. Era già allora bravissimo a fare Bruno Vespa. E infatti non si sono mai sopportati. Considerato insopportabile dal 50 per cento dell'Auditel e insostituibile dal 100 per cento dei direttori di rete, Fabio Fazio - dal lat. factiosus, der. di factio-factionis, «fazione», in part. politica - ha colonizzato la televisione degli anni Ottanta, Novanta, Duemila e Duemiladieci senza mai cambiare neppure quelle strisce di liquirizia che mette al posto delle cravatte, al massimo facendo crescere un pizzico di barbetta. Da cui il detto ligure A barba canua, a fantinetta a ghe sta dua, «Da chi ha la barba bianca, la fanciulla stia in guardia». Fedele al video ancor più che a Nostra Signora della Consolazione di Celle Ligure, sua parrocchia di riferimento, Fazio è più presente in televisione del monoscopio. Che non c'è più, peraltro. Ma lui c'è sempre, da sempre: televisioni locali è suo, ben prima delle note antipatie berlusconiane, il programma sportivo stracult Forza Italia su Odeon TV, stagioni 1987-1990 da Montecarlo a La7, mai un piede in Mediaset - il suo main sponsor, il Pd, non avrebbe gradito - ma in compenso tutte e tre le reti Rai e persino quattro edizioni del Festival di Sanremo. Che, a riprova dell'eccellenza del suo low profile, nessuno si ricorda che ha condotto. Ma neppure questo è un problema, poiché gli ascolti gli danno ragione. Fabio Fazio in carriera ha avuto più Telegatti che ospiti in studio. Soft speaking, prime time e secondi fini. Aldo Grasso una volta sentenziò: «In tutti i programmi a cui ha preso parte, ha confermato di avere la rara capacità di trasformare in meglio le persone a contatto con lui». Ha ragione. A discapito della propria, fa sempre fare a tutti una splendida figura. Fugassa, gobeletti di Rapallo, Baci di Alassio (buoni!) e Brandacujùn. Piatto tipico fabiofaziano: coniglio alla ligure. Non ha mai brillato per coraggio. Ma per veltronismo sì. Quello che «la tv sul calcio l'ho inventata io». Quello che dicevano che non ha la padronanza del giornalista consumato. Quello che «Tirchio sarai tu». Quello che ha dieci autori a programma, lavora dodici ore al giorno, prepara ogni scaletta al millesimo di battuta e poi ripassa le domande con l'ospite in camerino. Quello che Milano è la sua città, ma Parigi è sempre Parigi. Quello che se chiami dieci suoi colleghi chiedendo qualcosa su Fabio Fazio, è difficile trovare uno spunto benevolo. Quello che, al netto delle malignità preconcette, non sbaglia un programma: è riuscito a fare boom anche con Saviano. Quello che se cita un libro in prima serata, il giorno dopo è un bestseller, anche se lui, da bibliofilo, preferisce i piccoli editori. Quello che quando fa le interviste sembra perennemente in confessionale, perché le sue non sono interviste, sono mono-viste, parla solo con se stesso: che abbia di fronte Berlusconi o De Niro è uguale, da casa continui a chiederti: ma adesso gliela farà la domanda... ora gliela fa... adesso sta per fargliela... allora gliela fa o no? E non gliela fa mai... Quello che è la dimostrazione che il buonismo, in tv, paga, e molto: nessuno ha avuto contratti così alti nella storia della Rai. Quello che non si è mai visto un radical chic fare così tanti programmi nazional-popolari. Quello che la presunzione peggiore non è quella esibita ma quella che hai dentro. Quello che anche la nostalgia è politica...Politicamente ambiguo (non si è mai sbilanciato fra Partito democratico e Sinistra italiana), tradizionalista catodico (ligio all'alternanza scrupolosa degli ospiti: una sera un regista della sinistra moderata, una sera un giornalista della sinistra estrema, una sera uno scrittore della sinistra da salotto), calcisticamente doriano, come tutti i grandi liguri di ieri e di oggi, da Villaggio a Crozza, #FabioFazio uno di noi! - Fabio Fazio se non ci fosse, bisognerebbe sintonizzarlo. Come disse non molto tempo fa a Che tempo che fa un Nanni Moretti in stato di grazia di fronte all'ennesima servile liturgia televisiva di Fazio, mortificandone la mielosa ipocrisia: «Lo dici a tutti quelli che vengono da te, che sono il tuo mito! Lo dici sei volte la settimana!». E il settimo giorno, si riposò.

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010); "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021).

·        Federica Angeli.

Le inchieste sui clan di Ostia e il film sulla sua storia. Chi è Federica Angeli, la giornalista sotto scorta protagonista di “A mano disarmata”. Vito Califano su Il Riformista il 7 Giugno 2021. Federica Angeli ha legato il suo nome alle inchieste sulla criminalità organizzata di Ostia. Giornalista, cronista e autrice di inchieste per il quotidiano La Repubblica, vive sotto scorta dal luglio del 2013 per via delle minacce ricevute proprio per la sua attività giornalistica. Dall’ottobre del 2020 è Delegata alle Periferie e alla legalità al Comune di Roma. Alla sua storia è stato dedicato il film di Claudio Bonivento, interpretato da Claudia Gerini, A mano disarmata, uscito nel 2019. Classe 1975, Angeli è nata a Roma e si è laureata all’Università La Sapienza. Dal 1998 ha cominciato a collaborare con il quotidiano La Repubblica. Con il collega Marco Mesurati ha portato avanti dal 2011 un’inchiesta su atti di pestaggio e nonnismo nella caserma del Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza di Spinaceto. Una vicenda collegata negli articoli al sequestro Soffiantini nel 1997. La Procura della Repubblica di Roma aprì un’inchiesta sul caso. Angeli è stata minacciata per via delle inchieste sulla criminalità organizzata a Ostia, provincia di Roma. Inchieste che hanno riguardato i clan dei Fasciani, dei Triassi, degli Spada, dei Cuntrera-Caruana e sui legami tra criminalità e pubblica amministrazione e sul racket. L’operazione “Nuova Alba” della polizia portò agli arresti di 51 persone nel 2013. Le accuse: corruzione, infiltrazione negli organi amministrativi e nell’assegnazione di alloggi popolari, sottrazione di attività commerciali alle vittime di usura e possibili collegamenti con l’omicidio di Giuseppe Valentino, il 22 gennaio 2005, all’interno del suo bar nei pressi di Porta Metronia a Roma. Altro colpo alle organizzazioni è stata l’operazione Eclisse che portò all’arresto di 32 persone ritenute affiliate al clan Spada di Ostia con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Angeli è stata quindi minacciata di morte e dal 17 luglio del 2013 vive sotto scorta permanente. Il 7 aprile 2018 una busta con un proiettile, indirizzata a lei, è stata consegnata alla sede romana del giornale Il Fatto Quotidiano. La cronista ha testimoniato nel processo contro Armando Spada ed è stata ascoltata dai pubblici ministeri di Roma nel “processo Spada”. È stata nominata Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana nel dicembre 2015 “per il suo impegno nella lotta alle mafie”. Ha pubblicato sei libri, tutti sulla cronaca, sulle sue inchieste, sul mondo dell’informazione e del giornalismo. Tra questi anche l’autobiografia A mano disarmata. Cronaca di millesettecento giorni sotto scorta, edito da Baldini e Castoldi, da quale è stato tratto il film con Claudia Gerini. Angeli è stata criticata per la sua decisione di accettare la nomina della sindaca di Roma Virginia Raggi di Delegata alle Periferie e alla legalità. Nomina che ha spiazzato un po’ tutto il mondo politico. La giornalista era stata corteggiata precedentemente dalla sinistra ed in passato si era espressa molto duramente contro la sindaca. Su La Repubblica aveva scritto, rivolgendosi alla sindaca, nel giugno 2018 che “le dichiarazioni contro gli Spada e gli annunci sugli abusi dei Casamonica non si sono tradotti in atti amministrativi concreti ed efficaci”. E a un tweet della stessa Raggi – “La lotta alla mafia deve unire sempre, anche quando si hanno opinioni non sempre coincidenti. Solidarietà a Federica Angeli che testimonia al processo contro il clan Spada” – aveva replicato: “Pensavo al suo tweet. Per ‘opinioni non sempre coincidenti’ intende il dossier antimafia in cui il 5S ha accusato me di essere collusa con la mafia di Ostia? O l’alloggio che il 5S ha dato a uno Spada? Io ieri ero in aula contro Spada. Non a chiacchiere, ero lì, a testa alta sindaca”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

·        Federica Sciarelli.

Federica Sciarelli "Le storie degli scomparsi: il dolore diventa anche mio". Federica Sciarelli, 62 anni, ha iniziato la carriera giornalistica su Rai3 a 20 anni. La giornalista da 17 anni è al timone di Chi l'ha visto su Rai3: "Lo sguardo delle mamme disperate che cercano i figli mi toglie il sonno". Silvia Sanna il 23 giugno 2021 su lanuovasardegna.it. Lo sguardo della mamma di Fabio Serventi, scomparso a Perdaxius nel marzo del 2020, che si rivolge all’assassino: «Dimmi dov’è, fammi trovare il corpo di mio figlio». Un altro sguardo, un’altra madre: è quella del piccolo Tommy Onofri, rapito a 17 mesi: «Nei suoi occhi c’era ancora speranza 24 ore prima che il cadavere del bimbo venisse tirato fuori da una discarica». E poi ancora, la sparizione di Irene Cristinzio, la professoressa svanita nel nulla a Orosei l’11 luglio del 2013, senza lasciare neppure una minuscola traccia, e Ciccio e Tore, i fratellini di Gravina in Puglia, scomparsi e ritrovati quasi due anni dopo, nella cisterna di una masseria abbandonata dove giocavano: «Quella sera non dormii, ci sono immagini e volti che non si dimenticano, un dolore che ti resta dentro, storie e persone con cui ti immedesimi». C’è un programma con cui diventi una cosa sola «che dopo 17 anni fa parte di me. E pensare che dovevo starci solo un anno... invece poi». Invece Federica Sciarelli è ancora lì, anima e guida di “Chi l’ha visto?” dal 2004, da quella prima puntata «in onda a ottobre, un mese dopo la scomparsa di Denise Pipitone: c’era la mamma Piera Maggio in studio, ho iniziato con lei e la storia della bimba, odiata prima di nascere, resta un mistero che neanche le ultime “rivelazioni” hanno svelato». Come quelle dell’ex pm sassarese Maria Angioni, che ha riferito di sapere dove si trova Denise, che nel frattempo sarebbe diventata mamma: «Dopo 17 anni di ricerche non puoi basarti su una foto e su un like su Facebook. Crei inutili illusioni, dolore sul dolore». La proposta. È il 2004 e Federica Sciarelli è cronista parlamentare per il Tg3 da 15 anni. Ha vissuto la stagione intensa di Sandro Curzi, la squadra è forte e unita, lei è stimatissima e ha rifiutato tante offerte perché adora la politica. «Un giorno il direttore del Tg Antonio Di Bella mi dice distrattamente: “Ah Federica ti devo chiedere una cosa...” poi passano i giorni e non mi dice nulla. Allora un pomeriggio quando sono nella sua stanza gli chiedo di che si trattasse. E lui me lo dice, con l’aria di chi è convinto di ricevere un no secco: “Ruffini vorrebbe affidarti la conduzione di Chi l’ha visto?”. Io sorrido, gli dico di ringraziare il direttore di rete che ha pensato a me per una trasmissione in prima serata, e lascio la stanza. Pochi passi nel corridoio e torno indietro: «Sai che ti dico direttore? Accetto, ci sto un anno e poi si vede». Di Bella balza sulla sedia, prova a farle cambiare idea, le propone promozioni e nuovi incarichi nel Tg, allarga le braccia di fronte alla processione di colleghi che lo implorano: “non farla andare via”. «Io ormai ho deciso, voglio cambiare e penso: ci sto un anno e poi si vede... È successo che invece sto ancora qua, che ogni tanto penso di mollare ma non mollo e lo so perché: mi sono innamorata delle persone, perché qui tocchi con mano le loro esistenze, il loro dolore, e allora fai battaglia per loro, per aiutarle. A differenza di quanto accade con il Tg, vivi le storie da dentro. Questa trasmissione mi ha cambiata, come io ho cambiato lei». Rivoluzione Sciarelli. Non più solo scomparsi, ma anche grandi fatti di cronaca, misteri irrisolti, lotta alla criminalità organizzata. Chi l’ha visto? è in onda dal 1989 ma solo con Federica Sciarelli acquisisce una chiara impronta giornalistica. «Ho portato l’esperienza del Tg per puntare sul racconto, non sapevo granché di cronaca e allora telefonavo a tutti per capire: diventai subito una specie di incubo per procuratori, avvocati, questori. Proposi di metterci al fianco dello Stato contro le mafie e allora un giorno chiamai Pietro Grasso, all’epoca procuratore di Palermo, e gli chiesi di darmi l’identikit di Bernardo Provenzano. Venne Grasso in studio a mostrare al pubblico la faccia del boss di Cosa Nostra, fu un evento storico». E poi arrivarono gli approfondimenti su altri super latitanti come Matteo Messina Denaro, le inchieste su famosi fatti di cronaca italiana come il massacro del Circeo, il rapimento di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, il delitto di Simonetta Cesaroni, il caso del mostro di Firenze, l'uccisione di Ilaria Alpi, le vicende della banda della Magliana, la storia di Elisa Claps, risolta dopo 23 anni con il ritrovamento del cadavere, fino ai più recenti delitti di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Melania Rea ed Elena Ceste, partiti come casi di scomparsa e rivelatisi in seguito femminicidi. «C’erano tanti scomparsi ma non c’era una legge, grazie anche a Chi l’ha visto? la politica ha legiferato e sono nate l’associazione Penelope e il commissario straordinario per le persone scomparse. Abbiamo vinto tante battaglie, per questo il pubblico ci premia e ci sostiene». Soprattutto nell’ultimo anno, con dati di share altissimi «e una partecipazione sempre più importante, con telefonate e segnalazioni spesso determinanti per risolvere i casi: chiamano in tanti, anche il sabato e la domenica perché sanno che qualcuno risponde sempre». E poi c’è la forza dell’archivio, consultato anche dalla polizia, con nomi, fotografie e caratteristiche di tutti gli scomparsi – dai tatuaggi, al tipo di occhiali, alle cicatrici – fondamentali per identificarli: «Ricordo la storia di una donna scomparsa da Genova e gli appelli strazianti della mamma. Un giorno ci chiamano dalla Francia per dirci che avevano il cadavere di una donna da mesi: scoprimmo che era la stessa persona grazie agli stivaletti che indossava, c’era scritto nel nostro archivio». I gialli dell’isola. «Stiamo seguendo la vicenda di Marina Castangia, scomparsa da Mogorella. Abbiamo scoperto che il compagno ha buttato il letto, ha detto che non gli piaceva. Ed è rimasto un giallo quello della professoressa Irene Cristinzio, sparita da Orosei: non è venuto fuori nulla, è uno di quesi casi in cui ti chiedi come sia possibile svanire senza lasciare un indizio, una minima traccia. Poi non posso scordare la mamma di Fabio Serventi, ucciso per pochi spiccioli: si è rivolta al killer, l’ha supplicato di dirle dove è il cadavere del figlio. Il suo è un dolore lancinante: anche io sono madre ed è impossibile non immedesimarsi. Da parte mia c’è un coinvolgimento emotivo molto forte soprattutto quando di mezzo ci sono anziani e bambini. Come Denise». La bambina e l’ex pm. «Mia figlia è stata odiata sin dalla nascita, anzi quando era ancora nella pancia: mi hanno colpito le parole di mamma Piera – dice Federica Sciarelli – una donna che ammiro molto e che non ha mai smesso di cercare la sua bambina e mi ha pregato di non parlare mai di Denise al passato. In questi 17 anni ci sono state tantissime segnalazioni, piste buone, altre invece si capiva subito che conducevano verso binari morti. Quella di Olesya l’abbiamo seguita perché la ragazza russa era andata in tv per dire che stava cercando la madre. Ma non ha senso basarsi sulle foto in rete». La Sciarelli si riferisce alle dichiarazioni dell’ex pm Maria Angioni, che alla procura di Marsala seguì tra il 2004 e il 2005 le prime fasi dell’inchiesta: «Non ci si può fissare su una immagine trovata sui social perché c’è il like di una persona legata in qualche modo alla famiglia Corona e dire “ecco Denise”. Perché non è lei ma solo una persona che le assomiglia moltissimo. Non sta a me giudicare l’ex pm Angioni, penso che Piera Maggio con le sue ultime dichiarazioni in trasmissione sia stata molto chiara: ha chiesto cautela e rispetto. Diciassette anni fa il procuratore Sciuto le disse: «Vi riportiamo la bambina in pochi giorni», invece Denise, nel frattempo diventata donna, è ancora là fuori, chissà dove».

Chi l'ha Visto? e Denise Pipitone, Ricky Tognazzi massacra Federica Sciarelli: accusa e sospetto terrificanti. Libero Quotidiano il 31 marzo 2021. In attesa della puntata del 31 marzo, non si fa altro che parlare di Denise Pipitone e la possibile svolta annunciata da Chi l'ha Visto?. Federica Sciarelli nelle anticipazioni ha fatto tornare la speranza a tutta Italia, parlando di una segnalazione giunta nello studio di Rai 3 e riguardante una ragazza russa che cerca sua madre. "Sarebbe troppo bello per essere vero - ha spiegato nel promo della trasmissione la conduttrice -, ma ve lo vogliamo raccontare lo stesso. Una nostra telespettatrice ci ha fatto sapere che a Mosca una giovane donna è andata in tv per dire di essere stata rapita quando era bambina. Somiglia tantissimo a Piera Maggio, lei non sa chi sia sua mamma. È stata trovata in un campo nel 2005 e oggi avrebbe l’età che dovrebbe avere Denise Pipitone". Insomma, bisogna rimanere con i piedi per terra, ma l'appello di Olesya Rostova, ragazza che ha la stessa età di Denise, non è passato inosservato neppure agli occhi di Piera Maggio. La mamma di Denise è infatti pronta a partire per la Russia, una volta "ricevuti i risultati del Dna". Fino ad ora di avvistamenti ce n'erano stati eccome, ma tutti senza un risvolto positivo. Questa volta invece sembra diverso. Le foto della giovane russa hanno scatenato i telespettatori che hanno notato una certa somiglianza tra Olesya e Piera Maggio. Più difficile notarla però negli scatti della ragazza russa da bambina: "Sto guardando la puntata di questo programma russo e non sto capendo nulla, ma comunque ritiro quello che ho detto, non è denise pipitone e penso che sia chiaro dalla seconda foto. basta con questi falsi allarmi che fanno star male solo la sua famiglia.. e io che ci speravo", scrive un utente. E ancora un altro: "Roba che se Chi l’ha visto sta cavalcando ‘sta storia di Denise Pipitone solo per fare boom di ascolti io giuro farei chiudere la trasmissione". Dello stesso parere Ricky Tognazzi che su Twitter ha lanciato una vera e propria frecciatina alla conduttrice: "Cosa non si farebbe per un punto di share in più? Mah".

"Cosa non si fa per lo share...". E ora scoppia il caso Sciarelli. Nell'ultima puntata di Chi l'ha visto si è tornati a parlare della ragazza russa rapita quando aveva 5 anni e che potrebbe essere Denise Pipitone. L'attore su Twitter ha polemizzato sulla scelta del programma di puntare tutto sul caso solo per gli ascolti. Novella Toloni - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale.  Un tweet (poi cancellato) e la polemica è servita. "Cosa non si farebbe per un punto di share in più". Così Ricky Tognazzi ha criticato su Twitter l'ultima puntata di Chi l'ha visto incentrata sulla scomparsa di Denise Pipitone. Un caso tornato alla ribalta della cronaca dopo l'appello di una ragazza russa rapita quando aveva solo cinque anni, che oggi vuole riabbracciare i suoi genitori. Ricky Tognazzi e Federica Sciarelli si sono contesi la prima serata di mercoledì 31 marzo. Il primo con la sua serie televisiva "Svegliati amore mio" con protagonista Sabrina Ferilli. La seconda con la puntata di Chi l'ha visto dedicata alla ragazza russa che potrebbe essere Denise Pipitone. Uno "scontro" a colpi di auditel che si è consumato anche su Twitter con alcuni cinguettii del regista e attore a punzecchiare la Sciarelli (uno dei quali rimosso dopo le polemiche). I promo pubblicitari e i video di anteprima di Chi l'ha visto avevano creato un'attesa spasmodica attorno alla nuova puntata del format di Rai Tre sulle persone scomparse. E già nel primo pomeriggio del 31 marzo gli utenti del web aveva invitato alla calma: "Basta con questi falsi allarmi che fanno star male solo la sua famiglia...", "Roba che se Chi l'ha visto sta cavalcando 'sta storia di Denise Pipitone solo per fare boom di ascolti". Linea condivisa anche dal regista milanese, che è letteralmente sbottato sotto al tweet di un utente del popolare social, che invitava il pubblico a non seguire la prima serata di Chi l'ha visto: "Non è Denise Pipitone, potete evitare di guardare #chilhavisto. Imbarazzante fare addirittura il promo ad hoc". Parole riprese e commentate da decine di altri utenti e dallo stesso Ricky Tognazzi, che sotto al tweet ha replicato: "Cosa non si farebbe per un punto di share in più". Dopo poche ore, però, l'attore e registra ha deciso di cancellare il tweet per smorzare le polemiche. Ma in tarda serata ha scelto di pubblicare un nuovo cinguettio, decisamente più morbido, ma pur sempre polemico: "Caso Denise Pipitone: Chi l'ha visto accusata di creare hype per lo share, ecco perché". Citando un articolo nel quale Chi l'ha visto veniva criticato per aver creato false aspettative sul caso della ragazza russa.

La conduttrice si sfoga. Federica Sciarelli stanca di “Chi l’ha visto?”: “Penso di lasciare, l’Italia è un grande cimitero”. Vito Califano su Il Riformista il 4 Aprile 2021. Federica Sciarelli esce da una settimana in cui si è presa di nuovo il centro della scena con Chi l’ha visto?. La sua trasmissione in onda su Rai3 da quasi 32 anni, ha ripreso il caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004, per via di una ragazza russa che in televisione ha fatto un appello per ritrovare la madre. Domani l’esito del test sanguigno, intanto mercoledì 31 marzo Chi l’ha visto? ha fatto il 15,16% di share, oltre 3 milioni e 500mila telespettatori. Eppure Sciarelli comincia a essere stanca della trasmissione. Un prodotto dai temi sempre forti e quasi sempre dolorosi e tragici. Lo ha raccontato lei stessa in un’intervista al quotidiano Libero. “Sarei tentata di lasciare il programma. Ormai ai miei occhi l’Italia è diventata un grande cimitero: dovunque vada, associo le città ai nostri casi. L’anno scorso sono stata lì lì per mollare tutto ma poi mi è stato chiesto di restare. Così ho fatto e probabilmente così farò a settembre. Inoltre amo questo programma”. Sciarelli conduce dal 2004 Chi l’ha visto?. Anni che evidentemente cominciano a pesare. “A volte purtroppo non sono sparizioni ma morti. Penso ai padri di famiglia che, dopo aver perso il lavoro, si sono suicidati oppure al grande problema dei ragazzi irretiti dalle psico-sette online. Le segnalazioni sono tutt’altro che diminuite: in generale si respira un desiderio diffuso di scomparire. Anziché risolvere i problemi, si fugge”. Sempre più persone spariscono, un tendenza che non è cambiata con il lockdown e l’emergenza covid, ha aggiunto. La conduttrice e giornalista si spiega così il successo della sua trasmissione: “Raccontiamo casi dolorosi, ma l’accento non viene mai posto sulla rabbia bensì sulla solidarietà: il nostro programma è scritto insieme agli spettatori”.

Francesca d’Angelo per Libero Quotidiano il 4 aprile 2021.

Ora lei esordirà dicendomi che gli ascolti non sono importanti..

«Si sbaglia. Se un giornale non vende copie, lo chiudono: la stessa regola vale per la tv. Basti pensare che una volta in prime time c'erano molti più programmi di servizio pubblico, come Mi manda Raitre o Elisir».

Adesso in prima serata è rimasta solo lei, Federica Sciarelli: la panzer di Rai Tre che con il suo Chi l'ha visto? riesce a macinare ascolti dal 10% in su, persino in piena pandemia. Mercoledì scorso è addirittura volata al 15% di share, complice il caso di Denise Pipitone.

 «Tra l'altro più abbiamo spettatori e maggiore è la possibilità di ritrovare le persone», precisa la Sciarelli.

Come spiega il largo seguito?

«Raccontiamo casi dolorosi, ma l'accento non viene mai posto sulla rabbia bensì sulla solidarietà: il nostro programma è scritto insieme agli spettatori. Prenda il caso di Pipitone: è tutto merito di una nostra telespettatrice che, guardando noi e il canale russo, si è accorta della somiglianza tra le due donne e ci ha contattato».

Lo so bene: non si parla d'altro.

«È vero, ci hanno ripreso tutti sull'onda di un sogno che, come ho detto in puntata, sembra "troppo bello per essere vero". Io per prima spero in un lieto fine, visto che la mamma di Denise fu ospite nella prima puntata di Chi l'ha visto? condotta da me. Preferisco però andarci cauta. Credo che parte del clamore sia legato al comune desiderio di ascoltare finalmente buone notizie: ne abbiamo bisogno. Pensi che persino la mia sarta mi ha cercata per dirmi: "È lei, sono sicura che è Denise!"».

Com' è possibile che la gente sparisca in pieno lockdown?

«A volte purtroppo non sono sparizioni ma morti. Penso ai padri di famiglia che, dopo aver perso il lavoro, si sono suicidati oppure al grande problema dei ragazzi irretiti dalle psico-sette online. Le segnalazioni sono tutt' altro che diminuite: in generale si respira un desiderio diffuso di scomparire. Anziché risolvere i problemi, si fugge».

Siete andati in onda anche durante Sanremo: per sua scelta?

«Ogni anno mi propongono di fermarmi, anche perché qualche punticino glielo togliamo a Rai Uno (ride, ndr). Puntualmente, però, rifiuto: pazienza se l'ascolto sarà basso, noi dobbiamo esserci per il nostro pubblico. Sempre. Pensi che, da quando ci sono io (2004, ndr), la redazione è aperta anche al sabato e alla domenica: facciamo i turni. D'altronde se qualcuno perde un proprio caro non può mica aspettare il lunedì!».

Ma lei come fa a reggere tutto questo dolore?

«È il motivo per cui sarei tentata di lasciare il programma. Ormai ai miei occhi l'Italia è diventata un grande cimitero: dovunque vada, associo le città ai nostri casi. L'anno scorso sono stata lì lì per mollare tutto ma poi mi è stato chiesto di restare. Così ho fatto e probabilmente così farò a settembre. Inoltre amo questo programma».

Le piacerebbe tornare a occuparsi di politica?

«È da sempre la mia grande passione: la mattina mi sveglio e ascolto la rassegna politica. Ero fedelissima a Stampa e regime di RadioRadicale e i programmi tv che seguo sono tutti di politica. Non saprei però fare un talk... e sicuramente non andrei su RaiTre perché c'è già la mia amica Bianca».

Grazie a Chi l'ha visto? esistono una legge sugli scomparsi e un commissario straordinario: non parlerà di politica ma lei di fatto fa politica...

«Abbiamo lottato e vinto molte battaglie e questo il cittadino ce lo riconosce. La politica si può fare in tanti modi: con le parole e con i fatti».

Chi l’ha visto, Federica Sciarelli: età, origini, figlio, vita privata, carriera, Instagram. Redazione di Donnapop il 05/04/2021. Federica Sciarelli è il volto storico di Chi l’ha visto, il celebre programma di Rai 3. Scopriamo chi è la giornalista d’inchiesta nella vita quotidiana.

Chi l’ha visto: chi è Federica Sciarelli? Federica Sciarelli lavora nell’ambito del giornalismo d’inchiesta, è anche una scrittrice affermata. Nella redazione di Chi l’ha visto è approdata nel 2004 e dal 2009 ne è diventata anche autrice. Federica ha dato un nuovo taglio al programma, iniziando a trattare anche vicende famose e inchieste non ancora risolte, come il caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Mazara Del Vallo nel 2004 e la cui mamma non si è mai arresa per ritrovarla. Si è ritrovata al centro della scena televisiva il 6 ottobre del 2010, quando ha annunciato in diretta il ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi, comunicandolo lei stessa a diverse agenzie, tra cui anche l’Ansa. Dal 16 novembre 2019 è inoltre la conduttrice della docu-fiction girata in un ospedale pediatrico di Roma, Dottori in corsia.

Una curiosità? Nell’adolescenza ha praticato per 10 anni l’atletica leggera come mezzofondista.

Età. Federica Sciarelli ha 62 anni: è nata il 9 ottobre 1958 a Roma, sotto il segno zodiacale della Bilancia.

Origini. I genitori di Federica Sciarelli sono originari di Napoli e suo padre era un Avvocato di Stato. Ha una sorella di nome Marina alla quale è molto legata e che come la giornalista stessa ha dichiarato è la sua ancora di salvezza quando ha un problema.

Figlio. Federica Sciarelli ha un figlio: Giovanni Maria, l’identità del padre del ragazzo non è conosciuta.

Vita privata. La giornalista non si è mai esposta sulla sua vita privata e in rete sono circolate soltanto rumors riguardo alla presunta relazione con il procuratore Henry John Woodcock, impegnato in indagini scottanti su politica, affari e corruzione. Alla relazione non è mai stata data conferma dai diretti interessati. Il tutto era partito da un’unica foto scattata mentre la giornalista e il magistrato facevano jogging insieme.

Carriera. Federica Sciarelli è stata da sempre determinata: a soli 20 anni riesce a vincere una borsa di studio della Rai, posizionandosi seconda su 10mila partecipanti. Grazie a quest’occasione riesce ad accedere al giornalismo, la sua più grande passione. È assunta nel 1987 al TG3 per occuparsi di politica, diventando una delle prime donne ad apparire come giornalista nei telegiornali Rai sotto la guida di Sandro Curzi. Nel 1991 diventa Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. Nella sua vita ha firmato anche diverse inchieste e alcuni libri, tra i quali: Tre bravi ragazzi. Gli assassini del Circeo, i retroscena di un’inchiesta lunga 30 anni (2006); Con il sangue agli occhi. Un boss della banda della Magliana si racconta (2007); Per Elisa. Il caso Claps: 18 anni di depistaggi, silenzi e omissioni (2011); Trappole d’amore. Storie di truffe romantiche (2020).

Instagram. Federica Sciarelli non ha un profilo ufficiale su Instagram poiché non è amante dei social. Sono presenti però alcune pagine dedicate a lei dai fans.

·        Federico Rampini.

FEDERICO RAMPINI. Luca Telese per "Tpi" il 4 novembre 2021.  

Buongiorno Federico da colleghi ci diamo del tu, d’accordo?

«Certo». 

Sei l’uomo del giorno, nell’editoria.

«(Ride). E perché?» 

Non capita tutti i giorni: una grande firma costretta alla pensione obbligata da un accordo aziendale.

«Lo so. Grazie per il “grande”, ma le dimensioni non contano: posso dirti che non avrei

mai voluto essere costretto a questo».

Preferivi continuare a lavorare.

«Se non ci fosse stata una crisi aziendale avevo ancora un anno e mezzo». 

Ed era meglio.

«Tralascia per un attimo le preferenze. Restando al lavoro si fa la ricchezza di un sistema previdenziale: conti in equilibrio». 

È uno spreco?

«Esatto. Tuttavia oggi non ti parlerò del mio caso personale, quanto di un sistema di regole e vincoli senza senso che esistono solo in Italia e qualche altro paese europeo».

Come ti sembrano?

«Sinceramente? È una follia». 

Dopo questo pensionamento forzato sei passato da La Repubblica al Corriere.

«(Si fa serio). Sai? Proprio questo giorno in cui mi chiami è il mio primo da pensionato». 

E che stato d’animo provi?

«Sono combattuto». 

Perché?

«Sono un giornalista che ha il privilegio di inaugurare la sua collaborazione con il primo giornale italiano. Questo mi fa felice». 

Però?

«Penso a tanti bravi colleghi che, nella mia condizione, hanno avuto meno fortuna». 

E cosa provi?

«Sono costernato per loro». 

Parliamo di tutti quelli, costretti alla pensione anticipata a partire da 62 anni, che avrebbero voluto continuare a lavorare.

«Esatto. Da anni rifletto sulle incredibili contraddizioni del sistema italiano. Ora la mia generazione ne è vittima». 

Federico Rampini, corrispondente dall’America e saggista di successo (il suo ultimo libro è “Fermare Pechino”, Mondadori 2021) ha 65 anni. Per la legge Fornero avrebbe dovuto lavorare fino a 67. Ma la sua storia (come quella dei suoi colleghi) è un assurdo: mentre si combatte per alzare l’età del lavoro di tutti, si consente ad alcuni datori di lavoro di obbligare i propri dipendenti all’anticipo (per far quadrare i bilanci). Per di più con una serie di vincoli che regolano e limitano le collaborazioni. 

Lo chiami “un assurdo italiano”.

«Dopo 26,5 anni di rapporti splendidi non parlo male del mio vecchio giornale. Sono grato - voglio dirlo - di tutte le opportunità».

Certo.

«Mi assunse Scalfari, nel 1995, Eugenio mi ha dato una delle più grandi soddisfazioni professionali della mia vita». 

Cosa ti colpisce, nel caso che hai vissuto?

«Le mannaie che impongono l’abbandono. Non è un lamento personalistico, ma la constatazione di un uomo che è (anche) cittadino americano, che è cresciuto in Belgio, è stato corrispondente da Pechino, ha lavorato in mezzo mondo…» 

Raccontala.

«Io un sistema così demenziale non l’ho visto in nessun paese del pianeta». 

Esempio.

«Quando ho dovuto dimettermi da La Repubblica ho dovuto anche farlo su un sito del ministero del Lavoro. Era obbligatorio». 

Cosa ti fa arrabbiare?

«(Sospiro). Che non vi stupiate più di nulla. Siete… “mitridatizzati”». 

Cioè abituati al veleno a piccole dosi.

«Certo: uno Stato onnipresente che entra in ogni rapporto privatistico». 

Dicono: ma così si fa spazio ai giovani!

«Balla colossale. Non solo per il rapporto di ricambio 1 a 10. Ma perché non esiste “sostituzione” tra chi ha 40 anni di esperienza e un neoassunto. Sono lavori diversi». 

Dimmi un altro paradosso italiano.

«La Pec. Le email normali lasciano traccia. Sono prove accettate nei tribunali di tutto il mondo, restano documenti indelebili». 

Vero.

«La “email raccomandata” è una perversione solo italiana. Se non ce l’hai ti cancellano anche dal tuo ordine professionale». 

È accaduto a Enrico Mentana.

«E giustamente Enrico si è indignato. Ma torno alla previdenza». 

Prego.

«Ci scrissi un libro a 38 anni, nel 1994. Non faccio discorsi… “pro domo mea”». 

E cosa dicevi?

«Non ho mai condiviso l’idea di una età di ritiro fissata per legge». 

Esiste anche in Europa.

«Male. È figlia di un’idea dirigistica dello Stato e di una concezione pauperistica dell’economia, come strumento di razionamento della scarsità». 

Fammi un esempio.

«I governanti d’Europa immaginano il lavoro come una torta da fare a fette, sempre più piccole, per sfamare tutti». 

E tu non condividi.

«Scherzi? Mi mettono malinconia i datori di lavoro che stappano lo champagne quando riescono a buttar fuori un 50enne. Solo tra gli statali entrano dei giovani, perché contano ancora logiche sovietiche. Orrore». 

E invece?

«Il lavoro non è una risorsa scarsa. Una cosa bella dell’America è l’idea, sana, che più si lavora e più si crea ricchezza». 

Ma poi accade davvero?

«Negli Usa c’è molta meno disoccupazione giovanile che in Europa. Esclusi gli usuranti, gli altri in genere si ritirano dal lavoro quando vogliono, o se gli conviene». 

Fammi un esempio.

«I poliziotti newyorkesi. Li trovi, anche a 52 anni, baby pensionati a pesca nell’Hudson». 

Non ti indigna?

«No. Una conquista dei loro sindacati, dato cosa rischiano. Molti altri si ritirano quando o se conviene: col contributivo puro». 

Ci arriveremo anche noi?

«Ma in America non esiste nessun divieto di collaborazione, o di lavoro tout court, anzi c’è una legge contro l’“ageism”, cioè la discriminazione sulla base dell’età». 

E come te lo spieghi?

«È tutta europea, e davvero falsa, l’idea che chi lavora stia rubando il lavoro a un altro». 

Peró anche nella “tua” America è pieno di 50-60enni con gli scatoloni in mano.

«Sì, ma attenzione. Ti faccio un esempio da un paese che è la patria del giovanilismo». 

Quale?

«Nelle aziende di innovazione, non c’è dubbio che un ventenne possa surclassare un vecchio arnese come me…». 

Peró?

«Accade sul piano della competizione e del merito, non per un limite dirigistico!». 

Racconta un altro paese.

«Il Giappone. Gli anziani restano nelle aziende, magari pagati meno, ma trasmettono la loro esperienza da formatori». 

Preferisci la Social security americana?

«Certo. Tra l’altro fu una “riforma socialista”, rooseveltiana». 

Ti pare strano che il governo, mentre lotta per alzare l’età pensionabile di tutti, acconsenta un esodo anticipato selettivo nelle aziende?

«È un controsenso. Temo che Draghi subisca l’eredità di uno Stato abituato a seppellire i suoi cittadini con regole astruse e insensati paradossi legislativi». 

C’è un problema di sostenibilità?

«I bilanci contano, certo. Ma il primo motivo è la più antica patologia italiana». 

Quale?

«Stato invasivo, burocrazia onnipotente: si illudono di regolare, dall’alto, ogni fenomeno sociale». 

Ma poi non si riesce?

«Mai: la realtà produce esiti opposti». 

Ad esempio che tu finisci ingaggiato al Corriere della Sera.

«Sono cresciuto all’estero. A Bruxelles, tutte le sere, mio padre portava a casa il Corriere. Negli anni Sessanta arrivava in posta aerea, stampato su carta velina particolare, è il giornale della mia infanzia».

Si chiude il cerchio di una vita.

«Fontana e Cairo mi hanno coccolato, mostrandomi che è questa la mia casa».

Federico Rampini al «Corriere della Sera». Il Corriere della Sera il 27 ottobre 2021. «Debutta» al Corriere della Sera il primo novembre, dopo una carriera ricchissima all’estero come corrispondente. Federico Rampini, 65 anni, nato a Genova e naturalizzato statunitense, arriva in via Solferino 28 dopo aver lavorato per gli ultimi ventisei anni a Repubblica, prima a capo della redazione milanese, quindi come corrispondente da Bruxelles, San Francisco e, dal 2009, New York.

Il benvenuto

A Rampini è arrivato il «caloroso benvenuto» dal direttore del Corriere Luciano Fontana, che lo ha definito «un collega di grandissimo valore che siamo felici di accogliere tra le nostre firme, sicuri del contributo importante che ci potrà dare anche sul fronte digitale e certi che saprà arricchire la nostra offerta con approfondimenti di spessore».

La carriera

Rampini esordisce come giornalista nel 1977 a Città futura, settimanale della Federazione giovanile comunista italiana il cui segretario era Massimo D’Alema. Scrive poi per il settimanale del Pci Rinascita. Nel 1982 passa a Mondo Economico, quindi a L’Espresso e successivamente a Il Sole 24 Ore, di cui è stato anche vicedirettore. Ha seguito come inviato molti vertici internazionali e diversi viaggi di Barack Obama e di Donald Trump, in quanto accreditato presso la Presidenza degli Stati Uniti d’America come corrispondente alla Casa Bianca. Ed è anche membro del Council on Foreign Relations, tra i più importanti think tank di geopolitica e geoeconomia statunitensi, con sedi a New York e Washington. Saggista, tra i suoi libri di maggior successo ci sono Il secolo cinese, L’impero di Cindia, Le linee rosse, Quando inizia la nostra storia e, l’ultimo, Fermare Pechino: Capire la Cina per salvare l’Occidente.

Il rafforzamento

«Il Corriere della Sera — ha commentato Urbano Cairo, presidente di Cairo Communication e di Rcs MediaGroup — rafforza una volta di più la sua leadership e l’arrivo di Federico Rampini va ad accrescere l’offerta di grandi firme che da sempre la testata offre ai suoi lettori. A lui il mio benvenuto e i miei migliori auguri di buon lavoro».

Cairo fa “campagna acquisti” dai rivali. Rampini molla Repubblica, la storica firma si dimette e passa al Corriere: continua l’esodo. Carmine Di Niro su Il Riformista il 27 Ottobre 2021. Non accenna a fermarsi l’esodo di giornalisti da Repubblica. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, passato dalla Cir di De Benedetti alla Exor di John Elkann a fine 2019, continua a perdere pezzi. Dopo Roberto Saviano, Bernardo Valli, Attilio Bolzoni, Giovanni Valentini e altri, oggi PrimaOnline scrive che una nuova firma storica e di peso lascia il quotidiano di Largo Fochetti: Federico Rampini. Chiamato nel 1995 da Eugenio Scalfari, prima capo della redazione milanese, quindi corrispondente da Bruxelles (1997-2000), San Francisco (2000-2004), Pechino (2004-2009) e dal 2009 New York, Rampini passerà ai ‘rivali’ del Corriere della Sera con una collaborazione che inizierà già a novembre, come già avvenuto col caso Saviano. In un retroscena di Professionereporter si legge che Rampini, nella lista dei candidati al pensionamento anticipato di Gedi, che da tempo ha intenzione di ‘sfoltire’ l’organico, avrebbe inviato un messaggio nella chat di Repubblica: “Ho dato le dimissioni. Il mio ultimo giorno di lavoro a Repubblica sarà il 31 ottobre”. L’addio di Rampini con passaggio a Rcs è un problema anche per il direttore del quotidiano di John Elkann, Maurizio Molinari, che nel corso delle trattative col Comitato di redazione di Repubblica sul piano di prepensionamenti aveva assicurato che avrebbe fatto il possibile per non offrire risorse alla concorrenza. Una notizia commentata anche da altri esponenti del ‘settore’. “Federico Rampini, giornalista bravissimo, licenziato da Repubblica e assunto dal Corriere. Bravo Cairo”, scrive su Twitter Vittorio Feltri complimentandosi quindi col Corriere per la firma con l’ormai ex giornalista di Gedi. “Un collega che stimo e un amico al quale resto affezionato” lo definisce invece Giovanni Valentini, anche lui ex Repubblica, di cui è stato vicedirettore tra il 1994 e il 1998. Valentini che ricorda: “L’avevo assunto all’Espresso e poi proposi a Scalfari la sua nomina a capo della redazione di Milano. Ha girato il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

"Inginocchiarsi? Basta dire che è coraggio..." Martina Piumatti il 2 Luglio 2021 su Il Giornale. Le polemiche agli Europei, i politici che si credono influencer, Draghi da giovane e un pregiudizio da sfatare. Federico Rampini e l’Italia vista dall’America. Prima la Cina, poi l'America. Federico Rampini in Italia c’è stato poco. Ma lo storico corrispondente de La Repubblica non ha mai smesso, con il lucido pragmatismo che lo contraddistingue, di commentare da oltreoceano le 'beghe' nostrane. Dal “fracasso vacuo” sugli inginocchiamenti vari ed eventuali di questi giorni alle ambizioni di una sinistra, quella italiana, che cerca visibilità e consenso sposando le battaglie ideologiche delle celebrity. Fino al rischio, con l’avvento di Draghi, di creare il solito mito di un’Italia "modello ammirato nel mondo". Un punto di vista, il suo, che, rifiutando di conformarsi al politicamente corretto ormai dilagante ne smaschera le ipocrisie di fondo.

Sono iniziati gli Europei di calcio, ma in Italia si parla solo della scelta degli azzurri di inginocchiarsi o meno prima del fischio di inizio. Lei, che vive dove è nato quel gesto simbolico contro il razzismo, si è definito “molto perplesso” sulla questione. Perché? 

“Quando le celebrity milionarie dello sport o del cinema o della pop-music abbracciano le cause progressiste, fanno più male che bene. I media adorano questi pronunciamenti, il popolo diffida di chi pretende di difenderlo ma vive nella stratosfera. E smettiamola di dire che sono gesti coraggiosi quando l’establishment li sostiene: di quando in qua è coraggioso il conformismo?”

Nato come movimento che difende i diritti degli afroamericani, cos’è davvero Black Lives Matter negli Usa? 

“Ha origini nobili. Il razzismo nella polizia americana è una piaga reale. Abbiamo tutti visto l’orribile morte inflitta dall’agente bianco Derek Chauvin a George Floyd, una tortura per la quale il poliziotto pagherà giustamente con 22 anni di carcere. E non è l’unico caso. Ma Black Lives Matter è diventato un movimento ultra-radicale che interpreta tutta la storia americana sotto l’unica lente del razzismo. Si è alleato con le forze del politically correct che comandano nelle università, nei media, nell’editoria”.

Lei ha dichiarato che in America Blm "ha fatto più male che bene", perché?

“Ha imposto ai sindaci di sinistra in molte città americane lo slogan dissennato ‘tagliare fondi alla polizia’ Il risultato è un’escalation di crimini violenti, un’impennata di omicidi. È già in atto un ripensamento di fronte a questo disastro. Il sindaco di New York Bill de Blasio prima ha tolto risorse alle forze dell’ordine poi, zitto zitto, le ha ripristinate. Ma il danno c’è stato”. 

Conosce afroamericani che non si sentono rappresentati dal movimento?

“Tutti quelli che hanno plebiscitato l’ex-poliziotto Eric Adams nella primaria democratica per scegliere il prossimo sindaco di New York. Adams è afroamericano e ha fatto il pieno di voti tra i suoi, nei quartieri più popolari (Bronx, Staten Island, Brooklyn e Queens), è arrivato secondo solo a Manhattan dove abitano i bianchi radical chic. Gli afroamericani sono le prime vittime del crescendo di violenza, quando le forze dell’ordine si ritirano e abbandonano il territorio alle gang”. 

Sa che anche Giorgia Meloni ha rilanciato il suo intervento? Che effetto le fa?

“Nessuno. Ho l’abitudine di dire e scrivere quello che penso. Non calcolo in anticipo chi potrebbe appropriarsi delle mie parole. Una volta pronunciate appartengono a tutti”.

Lei è noto non certo per essere schierato a destra. Pensa che la stessa cosa a ruoli invertiti (un politico di sinistra che cita un giornalista di destra come esempio) sarebbe successa?

"Nel mio piccolo – e questa non è modestia rituale, non mi faccio nessuna illusione sulla mia influenza – cerco di spiegare alla sinistra italiana che bisogna tornare alle origini, riconquistare la rappresentanza delle classi lavoratrici. Se la destra mi cita non è una prova che ho ‘tradito’. In passato, una sinistra forte e intelligente sapeva rispettare e citare dei conservatori come Indro Montanelli, il fondatore del Giornale”.

Il tema dei diritti, oltre alle agende dei leader politici, ha monopolizzato anche il mondo del calcio. Dal gesto dell’inginocchiarsi alla proposta dello stadio illuminato arcobaleno in sostegno della comunità Lgbtq. Sentiment dominante reale o vuota retorica a beneficio d’immagine?

“Credo che in Italia ci sia ancora troppa omofobia. In America siamo più avanti, soprattutto tra i giovani la causa Lgbtq ha stravinto. Lo spazio che continua a occupare nei media e nel discorso pubblico americano sta diventando omaggio rituale a un sistema di valori già prevalente”.

Boldrini, Letta e altri hanno chiesto agli azzurri di inginocchiarsi in modo unanime. Ma questa non è un’ingerenza che limita la libertà, esponendo alla gogna mediatica chi non si inginocchia?

“I politici che inseguono la visibilità sui media fraintendono il ruolo delle celebrity. Cristiano Ronaldo avrà mille volte più seguaci su Twitter del sottoscritto, ma questo non ne fa un maestro di valori. Enrico Berlinguer non affidava ai calciatori la costruzione di un consenso tra le masse, e arrivò al 35%”.

La Nazionale ha fatto bene a non inginocchiarsi?

“Evito di aggiungere il mio parere, irrilevante, al fracasso vacuo di questi giorni. Facciano quel che gli pare, un ginocchio in più o in meno non sposterà di un millimetro la questione del razzismo”.

In Italia la sinistra, il Pd di Letta in particolare, ha scelto di cavalcare una serie di battaglie ideologiche. Dallo ius soli al ddl Zan, al voto ai sedicenni. È la mossa giusta o così rischia un boomerang in sede elettorale?

“Ai sedicenni darei prima una buona scuola, una formazione utile, per costruire opportunità di lavoro. Buona parte della sinistra europea segue con un intervallo di ritardo le oscillazioni di quella americana. Per anni i democratici Usa hanno perso contatti con i lavoratori perché inseguivano solo temi valoriali. Joe Biden sta tentando di riportarli sulla retta via, non a caso ha già avuto i primi scontri con la sua ala sinistra radicale, che pensa solo ai campus universitari”.

Anche perché a livello internazionale e negli Stati Uniti, che lei conosce bene, il partito democratico di Biden ha un’impronta molto più pragmatica. Penso al tema immigrazione e al celebre discorso di Kamala Harris in Guatemala…

“Biden ha mandato Kamala in Centramerica a dire: il confine resta chiuso e respingeremo chi cerca di attraversarlo. Vogliamo aiutarvi a restare a casa vostra. Questo non è solo pragmatismo. È ritorno alla tradizione della sinistra. Franklin Roosevelt riuscì a costruire un Welfare avanzato perché tenne le frontiere chiuse, garantendo che le sue riforme sociali avrebbero beneficiato una società abbastanza omogenea e coesa”.

Tra l’altro in sede europea, il governo Draghi, di cui il Pd fa parte, pare aver sposato la linea interventista sulla questione migratoria. Perché allora poi a parole la sinistra italiana insiste con la politica dei porti aperti?

“Anche in America abbiamo la sinistra ‘no-border’, l’esponente più famosa è Alexandria Ocasio-Cortez. Se dovesse prevalere, aspettiamoci una rimonta repubblicana alle legislative del novembre 2022”.

Con Draghi è cambiata la percezione dell’Italia oltreoceano? Avrà un impatto nei rapporti Ue-Usa?

“Draghi gode di una stima superlativa negli Stati Uniti, da qui a cambiare la percezione dell’Italia come sistema, ce ne vuole. Attenti a non creare di nuovo il mito di un’Italia ‘modello ammirato nel mondo’. Accadde un anno fa a quest’epoca, per un paio di articoli della stampa estera sulla nostra risposta alla pandemia. Ha portato solo una gran iella”.

E a lei piace Draghi? Mi sembra vi conosciate dai tempi dall’Università… 

“Per un episodio che lui non può ricordare. Mi ero trasferito dalla Bocconi alla Sapienza perché avevo cominciato a lavorare come giornalista a Roma. Andai a un esame di economia politica abbastanza impreparato, improvvisando. Draghi era l’assistente di un grande economista, Federico Caffè: fu quest’ultimo a promuovermi, mentre Draghi mi voleva cacciare, a ragione. Comunque non mi sono mai laureato. Cominciai a frequentarlo professionalmente quando era direttore generale del Tesoro. Certo che mi piace, anche se non ho condiviso tutte le sue scelte. Il salvataggio dell’euro lo ha messo nel Pantheon delle divinità. Salvare l’Italia sarà più difficile”.

Dall’”America First” di Trump al multilateralismo ritrovato di Biden. È cambiata la politica estera dopo Trump o i temi divisivi restano? Penso alla diplomazia tesa con la Russia e all’ostilità aperta con la Cina…

"È cambiata meno di quanto si creda. Da Trump a Biden sulla Cina c’è molta continuità. La differenza fondamentale è che Biden crede al ruolo delle alleanze, vuole valorizzarle per contenere l’espansionismo di Xi Jinping. Sui dazi contro il made in China, sul ripensamento critico verso una globalizzazione che ha danneggiato le classi lavoratrici, Biden è più vicino a Trump che al globalismo di Bill Clinton o del primo Obama”.

A proposito di Cina, ha scritto del caso delle sequenze del Sars-CoV2 sparite dal database. Secondo lei, che in Cina ci ha vissuto e che quindi la conosce bene, cosa c’è dietro? Sapremo mai come è andata?

“Proprio perché la conosco bene, dubito che conosceremo la verità… prima della scomparsa di Xi Jinping”.

Citando il suo nuovo spettacolo teatrale che debutterà il 4 luglio, moriremo tutti cinesi o no?

“Qualcuno ha letto nel titolo un doppio senso riferito alla morte per Covid. In realtà nello spettacolo io provo a immedesimarmi in Xi Jinping. Dico agli italiani quel che l’Imperatore celeste pensa di noi occidentali: che è giunto il momento della nostra decadenza. E dunque moriremo in un mondo dove l’impronta cinese sarà diventata sempre più forte”.

Confronto diretto Italia-Usa. Chi vince su libertà?

“L’America ha una cultura delle libertà individuali unica al mondo, senza eguali nella tradizione europea. Però Roosevelt includeva nei suoi ideali anche la libertà dal bisogno, e su quel fronte l’America è una società più dura con i deboli”.

Gestione della pandemia?

“L’America ha vinto perché crede – anche a sinistra – nel ruolo dell’impresa, e ha dato fiducia all’industria farmaceutica. La performance della scoperta e produzione dei vaccini in tempi record è stata eccezionale”.

Politica estera?

"L’Italia ha rinunciato ad avere una politica estera paragonabile a quella francese o inglese perché diffida dello strumento militare; i paragoni con gli Stati Uniti non hanno senso”.

Gusto estetico?

“L’Italia stravince. Gli americani che hanno gusto ci venerano come i loro maestri”.

Cibo? Qui non ci dovrebbe essere partita. O smentisce il pregiudizio che in America si mangi male?

“Nell’America di oggi si mangia molto meglio di trenta o quarant’anni fa, anche per merito di una nuova generazione di chef italiani (a volte giovanissimi, magari arrivati come camerieri) che hanno svolto un’opera di educazione. Però mangiar bene in America costa caro, in Italia no”.

Cosa non le manca dell’Italia quando sta in America e dell’America quando torna in Italia?

“Dell’Italia non mi manca mai la burocrazia, una delle più stupide e cattive. Dell’America non mi manca l’omogeneità nauseabonda del paesaggio delle insegne, le ‘catene’ che dominano tutto, dagli hotel ai bar”.

Si sente più americano o italiano?

“Italiano perché la cultura delle origini, dei genitori, è la più forte. Grato all’America di avermi voluto come suo cittadino”.

Allora in che lingua sogna?

“Ricordo raramente i sogni, salvo quando avvengono nel dormiveglia per il jetlag delle traversate oceaniche. Direi in italiano e qualche volta in francese, l’altra lingua della mia infanzia”.

Martina Piumatti

·        Filippo Ceccarelli.

Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 19 ottobre 2021. Il primo contatto con Filippo Ceccarelli avvenne al principio di ottobre dell’anno scorso. Gli scrissi una mail per sondare e solleticare un po’ la sua curiosità. Avevo voglia di incontrarlo e “confessarlo”. La sua carriera, il suo lavoro di immenso archivista, le sue manie e i suoi tic, avevano acceso il mio interesse. La sua risposta, ricordo, fu immantinente, e positiva. Lo chiamai subito, senza aspettare: dall’altra parte della cornetta trovai un uomo curioso, indagatore. Voleva capire chi fossi, e, soprattutto, come mai fossi così tanto interessato alla sua vita. Dopo quasi un’ora di telefonata, mi disse: ”Francé, famola sta intervista, ma aspettiamo che passi questa seconda ondata de Covid… C’ho paura, non vojo finì in ospedale!” Nel frattempo, alla seconda ondata ne sono succedute altre due, tre… E poi l’Italia a colori: gialla, rossa, bianca, arancione. Un groviglio di regole, codicilli, imposizioni, coprifuoco, mascherine. Ogni volta che lo chiamavo al telefono, le nostre chiacchierate erano lunghe, lunghissime. Parlavamo di giornali, giornalisti e di amenità; speravo sempre che mi dicesse: Francé, so pronto! Vieni a casa e intervistami… Niente, al solito mio ritornello: beh, allora, quando ci vediamo?,  tergiversava, temporeggiava: “… aspettamo ancora un po’… Nun ce core nessuno”. A giugno, quando l’estate cominciava a palesarsi, il primo, vero avvicinamento: incontro Ceccarelli dal vivo, a casa sua; mi fa sedere su una scrivania e, sempre a debita distanza, mi interroga su chi sono veramente, cosa faccio, cosa voglio veramente da lui, chi sono i dissidenti dell’Intellettuale. Dopo un’ora di chiacchierata e prima di salutarlo, gli porgo ufficialmente l’invito di Libropolis, il festival dell’editoria e del giornalismo a Pietrasanta. Finalmente, molla gli ormeggi e accetta: l’intervista si farà in Toscana, coram populo, direbbe Lui. Ma le rendez-vous è a ottobre: altri quattro mesi di attesa e telefonate e rassicurazioni. Il 9 ottobre è il grande giorno: dinanzi alla statua del Belli, in quel di Trastevere, ci diamo appuntamento, pronti per partire: intabarrato come fossimo a gennaio, Ceccarelli punta il dito sul mio ritardo (per l’esattezza: 8 minuti). “Sbrighete! Prendiamo il taxi… Stamo in ritardo”, mi ammonisce severo. Guardo l’orologio: mancano 50 minuti alla partenza…

Risolti velocemente i controlli di rito alla stazione – mascherina, green pass, biglietto – Ceccarelli, placata la sua proverbiale ansia, dà il via ad una chiacchierata travolgente. Gesticola, ricorda, sghignazza, apre il cassetto dei suoi ricordi e, con essi, le vicende del nostro Paese. Il treno, un intercity che sa tanto di accelerato veloce, costeggia il Tirreno, mentre il cielo è azzurro come gli occhi di un husky; qualche nostalgico dell’estate, dopo Grosseto, si azzarda ad una tintarella. Osservandolo da vicino, penso che Filippo faccia parte di quella schiera di giornalisti alla Pansa, alla Gorresio. Più che giornalisti, narratori di storie, ritrattisti di uomini. Pur avendo raccontato per quarant’anni le numerose sfumature del cosiddetto Palazzo, Ceccarelli, però, è attratto terribilmente dalla strada, da quello che succede nelle piazze, nei treni, negli autobus, nelle taverne. A differenza di tanti pennivendoli, distratti dal denaro e dalla notorietà, il Nostro ama le viscere del terreno che sta sotto i nostri piedi. Con cinismo e un sano distacco, sa che tutto è effimero, è transeunte. Nel frattempo, giunti a Livorno, questo Borghese anomalo comincia a fremere, a guardare l’orario: “ma non sarebbe mejo – mi chiede – se ci venissero a prende a Viareggio? Semo più vicini a Pietrasanta… Va bene – gli faccio per placare la sua ansia – ora telefono e ci facciamo venire a prendere”. Poco prima di scendere, però, il treno si ferma: pensiamo di essere arrivati, ma gli sportelli non si aprono. Da una carrozza all’altra Ceccarelli corre, impreca, prova a premere i bottoni di apertura. Niente. Va nel pallone… “Sta a vedè – dice – che scennemo a Genova”. Un napoletano, alle nostre spalle, in un italiano imbarazzante, per usare un eufemismo, rinfocola le sue ansie. Ma per fortuna, dopo qualche minuto di agitazione, l’altoparlante spiega che il treno, in quel momento a Torre del Lago, ripartirà a breve. Così accade. Arrivati – finalmente! – a Viareggio, una macchina ci attende fuori. Come due aristocratici, ringraziamo e ci scusiamo per il disturbo. Dopo qualche minuto di silenzio, Ceccarelli, curioso come un bambino, tartassa il nostro chauffeur occasionale di domande sulla Toscana, sulle Alpi Apuane, sulle minuzie di paesini mai visti e sentiti prima. Il tempo, però, scivola come il ghiaccio: manca poco alla nostra chiacchierata pubblica. Sono quasi le 15: abbiamo fame. Nella piazza di Pietrasanta – un salotto davvero accogliente ed elegante – scegliamo due piatti al volo… Filippo mi fa: “so stanco, m’hai fatto parlà troppo in treno, mo che je dico alla gente… Me raccomanno: nun me fa domande personali”. Faccio finta di non sentirlo: dai – gli dico – cambiamoci e andiamo. E’ arrivato il nostro turno. Ignaro delle sue raccomandazioni, parto subito con il personale. L’uomo di carta – come qualcuno l’ha definito – abbozza, si scusa con il pubblico delle mie domande e parte in una lunga, lunghissima, sugosa e aneddotica “Confessione”. Filippo Ceccarelli, finalmente ci siamo! Dopo un anno di corteggiamento, eccoci qua.

Voglio cominciare questa Confessione, coram populo, partendo un po’ dagli inizi della tua professione. Inizi giovanissimo: se non erro, a 19 anni.

Come mai scegliesti di fare il giornalista?

Non mi dire che avevi già le idee chiare su cosa volessi fare da grande…Premesso che davvero non so quanto possa fregare a chi legge, quando ho cominciato ero proprio un ragazzino che non sapeva nulla del mondo. Era un’altra Italia, un’altra epoca, un’altra temperie, un altro giornalismo. Mi piaceva scrivere, ero curioso di capire, conoscere, e la scrittura era, per me, un mezzo per soddisfare queste mie inclinazioni. Misi piede nella redazione di Panorama, che era un luogo pieno di ragazzi perché evidentemente aveva bisogno di antenne che intercettassero mondi nuovi, realtà magari diverse, novità. Era l’autunno del 1974. In quegli anni, il newsmagazine della Mondadori vendeva la bellezza di oltre 400 mila copie alla settimana: a pensarci oggi, fa impressione. Come diceva Enzo Bettiza, tutti i giornali sono macchine d’infelicità: quelli che si lamentavano nei corridoi, i capi e capetti cattivi, i vice che si facevano la guerra, le rivalità. Ma a 19 anni era una condizione di grande sorpresa, novità, emozioni. Naturalmente, non avevo nessuna capacità di scrittura, impiegavo ore e ore a scrivere un pezzo, e, cosa oggi assurda, si facevano le notti, in pratica non si staccava mai… 

Chi ti raccomandò per entrare a Panorama?

Entrai per la prima volta nel villino Liberty di via Sicilia perché mia madre lavorava insieme ad un giudice importante, Adolfo Beria d’Argentine; la figlia, Chiara, era una brava giornalista, oltre che moglie dell’allora vicecapo della redazione romana, Gianni Farneti. Ma non parlerei di raccomandazione perché Panorama accoglieva tutti, un abusivismo virtuoso per così dire, poi ti mettevano alla prova facendoti fare delle cose, per lo più “informative” per i veri redattori che così disponevano di maggiori notizie. All’inizio non ti facevano firmare, eri “Pallino nero”, il segno grafico al termine del pezzo. Dovevano passare mesi e mesi prima di vedere il tuo nome sul giornale… Ma a quell’età, si è pronti a tutto, ad aspettare, a essere mortificati. 

Era la scuola del giornalismo… Chi voleva imparare non aveva che l’imbarazzo della scelta, dinanzi a Sechi, Rinaldi, Melega, Rognoni. Che settimanale trovasti?

Beh, io già leggevo Panorama, conoscevo le firme, la leggenda parlamentare di Guido Quaranta, a Roma c’era Maurizio De Luca, ogni tanto scendevano Giulio Anselmi, Carlo Rossella, da Torino collaborava Ezio Mauro, allora alla Gazzetta del popolo, tutti parecchio giovani in quel Panorama poi rivelatosi una fabbrica di direttori. 

A chi ti sei ispirato nella tua vita giornalistica?

Il modello era Vittorio Gorresio, allora alla Stampa. Nel 1990 lasci il settimanale, con sorpresa e stupore di tutti, e finisci alla corte della coppia Mieli-Mauro, alla Stampa. Cosa ti spinse a mollare? I soldi, la megalomania, la noia?

Non i soldi, che pure aumentarono, tanto meno la megalomania, figurarsi.  Quello che mi incoraggiò a lasciare la cuccia dove ero cresciuto e avevo lavorato per quasi 15 anni fu che la Stampa di Mieli e Mauro era la novità editoriale del momento, ma soprattutto il fatto che la materia che mi interessava, la politica, in un settimanale viveva una volta alla settimana, mentre in un giornale è carne che vive tutti i giorni. Ogni santo giorno, succedeva sempre qualcosa e quindi chi, come me, aveva questa passione, questa specializzazione, a quel punto anche dei ricordi, poteva applicarli sette giorni alla settimana. All’inizio, ovviamente, fu faticoso, perché non avevo i tempi, non ero allenato ai ritmi infernali del quotidiano. 

Non mi dire che lasciasti Panorama solo perché volevi lavorare di più…

Beh, se hai passione e te lo chiedono dei colleghi che tu stimi, non mi sembra una cosa così strana! 

Quanta vanità o vanagloria c’è nel momento in cui ti metti a scrivere un articolo?

Direi che c’è il contrario. Ogni volta sento una vocina che mi dice: oh no, questa volta scoprono il bluff, questa volta è finita, adesso è arrivato il momento in cui si accorgeranno che non sono in grado di fare niente. Altro che vanità o vanagloria! Ancora adesso, dopo oltre 45 anni di professione, da pensionato, sento, quasi visceralmente, un senso strisciante di inadeguatezza, oddio, non sarò capace, come riempio sto’ articolo… Al contempo, però, ho imparato a riconoscere che questa inadeguatezza mi consente di fare cose non brutte, decorose.

Come tanti pennivendoli, anche a te piace apparire in prima pagina? O vivi tutto con assoluto distacco? 

Mi piace, certo, è un riconoscimento, anche se alla lunga i direttori e i loro vice lo sapevano talmente bene da essersi inventati uno stratagemma: il moncherino, definizione di Antonio Padellaro, ossia pubblicano in prima le prime quattro righe del tuo articolo, per poi rimandarti, chessò, a pagina 30, che magari il lettore s’è pure scordato…  Ma poi è anche bello quando ti mettono il pezzo male, quasi nascosto, ma è riuscito bene, e allora è come se il lettore trovasse un tartufo. Però stiamo dentro il mondo di carta, la vanità della prima pagina oggi fa un po’ ridere. Vuoi mettere con quella della prima serata in tivvù o con i giornalisti che sui social hanno milioni di follower?

Hai detto, una volta, che gli anni alla Stampa furono anni felici; cosa ti dava felicità?

La terzietà, vale a dire che il giornale non era né di Roma né di Milano, e non era né di destra né di sinistra. Questo duplice distacco, questo non doversi schierare apertamente per nessuno, mi dava una sensazione di libertà, o almeno mi ero fatto questo convincimento. In più la circostanza che ci fosse la Fiat dietro, che all’epoca era un potere molto forte, assicurava un senso di protezione. Ogni tanto, ricordo, ricevevamo le visite, inaspettate, dell’Avvocato. Ci voleva conoscere, chiedeva, s’incuriosiva, amava i dettagli, chiedeva i particolari, dal collega che si occupava di mafia voleva sapere bene del ragazzino sciolto nell’acido, a quello della politica chiedeva: “E’ vero che la villa di Craxi ad Hammamet assomiglia a un garage?”. Era attratto dal mondo romano, interessatissimo ai comunisti, metteva sullo stesso piano i grandi temi e i particolari apparentemente futili, ma si annoiava facilmente. Sembrava, per certi versi, un giornalista mancato. A volte telefonava la mattina presto ai giornalisti: era attratto dal mondo romano. Per noi ciurma del giornale, questa usanza era fonte di scherzi feroci. Cominciava con una voce: “Pronto, qui è Casa Agnelli”. Ti prendeva un colpo, scappavo in bagno per non svegliare mia moglie, che pure era del mestiere. Mi rivedo alle 6 del mattino,  seduto in mutande sul bordo della vasca, dall’altra parte della cornetta non eri mai sicuro che fosse veramente l’Avvocato… 

Quanta ansia hai dovuto combattere nella tua carriera? E perché?

Tanta ansia, la paura di non farcela, di prendere abbagli, toppare il giudizio, scrivere scemenze, sbagliare il tono, i nomi, le date, beccare querele…

Pur avendo letto e studiato tanto, perché, dinanzi alla scrittura di un articolo o di un libro, hai detto che ti senti inadeguato…

Boh. Forse è un patto che faccio con me stesso per produrre una cosa un po’ più decente, magari più interessante; poi ho paura di diventare, o di essere già diventato un trombone, come sovente accade a quelli della mia età che si prendono troppo sul serio, sanno tutto loro, assumono un tono oracolare, non si accorgono che gli ridono dietro.

Balzac sosteneva che i giornali fossero bordelli del pensiero. A che età, Filippo, hai smesso di idealizzare i giornalisti, e, forse, te stesso?

Mi sa che non li ho mai idealizzati. I giornali fanno benissimo a essere  dei bordelli del pensiero, il punto è che sono anche delle centrifughe pazzesche, quindi vanno avanti per automatismi e il pensiero si perde, si omologa, rimane in superficie. Di ideale c’è ben poco… 

Sì, ma tu, in questo grande calderone, quand’è che hai cessato di idealizzare i giornalisti e, probabilmente, la tua persona? 

Non capisco che vuoi farmi dire. Anche da ragazzino non ero così ingenuo, almeno su queste cose, la retorica del Giornalismo mi pare una roba un po’ così… 

“Quando mi assunsero – sono le tue parole, rilasciate il 21 marzo del 2012 – Mieli mi disse: C’è uno solo che devi salvare, Spadolini. Obbedii volentieri”. Ti sei mai vergognato o pentito, con il senno del poi, di quell’obbedienza?

No, anche perché mi parve di capire, umanamente, che Mieli non volesse essere scocciato da “Spadolone”. Dopo tutto, era un leader di un partito piccolo: un uomo molto colto, anche ragionevole, ma vanitoso come un bambino. Quando andavi a parlargli ti regalava tutti i libri che aveva scritto, con dediche a caratteri giganteschi. Se l’articolo gli piaceva mandava un telegramma. Era un personaggio divertente, una figura curiosa, a suo modo il segno che la politica, da astratta, tornava a essere figurativa e quindi sempre più personalizzata. Simboleggiava l’aspetto infantile del potere. Diciamo che negli anni ne ho fatte di peggio che usare un occhio di riguardo con Spadolini. Dovrei, semmai, pentirmi o vergognarmi di altre cose… 

Tipo? Diccene una…

Guarda, io sono fortunato perché come giornalista politico sono sempre stato nelle retrovie, non parlavo con nessuno, potevo fregarmene se l’ufficio stampa non mi dava più notizie o non mi diceva a che ore il presidente o il ministro prendeva l’aeroplano, cose decisive per chi sta in prima fila. Eppure, per vigliaccheria, a volte sto troppo attento a evitare che poi ti succedano guai. Ho questo scrupolo, questo sovrappiù di  prudenza. Cerco di non fare troppo arrabbiare la gente, di non ferirla, penso ai figli che leggeranno l’articolo, sono convinto che c’è sempre un modo migliore per dire cose sgradevoli. Sarà l’indole… Ma poi a volte si monta sul cavallino bianco, o slitta la frizione, comunque ti lasci prendere, e i buoni propositi vanno a farsi benedire. 

Facci un esempio proprio concreto: non divagare…

Non mi viene in testa un pezzo che avrei dovuto incattivire. In compenso mi sarei volentieri risparmiato un articolo gratuito e velenosetto su Pietro Scoppola, chiamato al capezzale del centrosinistra per delineare l’Ulivo del domani. Avercene oggi di uomini come Scoppola!   

Sei un po’ codardo?

Ecco, a proposito di sfumature, non credo di aver mai usato questa parola: già il mondo è complicato, la vita lo è ancora di più, specie quella degli altri. Riconosco di non essere proprio un cuor di leone… Non fiammeggia il mio animo, non sono tipo da barricate, beati i miti. La cosa che più mi piace è di stare in ultima fila, osservare, gustarmi lo spettacolo e insieme farmi venire in testa riferimenti, analogie, ricordi, appuntarli, tornare a casa, farmi una bella scaletta e poi scriverne.

Osservandoti, dai l’idea di essere un po’ parroco…

Non so, probabilmente faccio questo effetto. Non sono pregiudizialmente contrario ai parroci, ne ho conosciuti di bravissimi, ad alcuni ho voluto bene. 

Carlo Rossella, tra i tanti, è stato il direttore con cui ti sei trovato meno bene: cosa non gli piaceva dei tuoi articoli?

Carlo è un uomo molto simpatico, anche buono e di formidabile fantasia, ma gli piace moltissimo il potere. A me interessa di studiarlo, a partire dalla sua fisicità, osservandolo con distacco, quindi anche nei suoi aspetti buffi. Erano i tempi di Berlusconi, probabilmente gli dava problemi questo approccio.

Per 25 anni, se non sbaglio, sei stato giornalista parlamentare: come mai il cosiddetto Palazzo è stato un tuo grande “amore”, se così possiamo definirlo? Ti affascinava la politica o era, per te, un filone come tanti altri?

Mi affascina la storia, che nella seconda metà del novecento si è svolta in gran parte in quei palazzi, oltretutto antichi e a loro volta pieni di memorie. 

Perché, secondo te, i giornalisti che trafficano nelle stanze dei bottoni, per dirla con Nenni, alla fine diventano dei megafoni, per non dire lacché? Tu hai mai corso questo rischio?

No.

Che cos’è, per il te, il Potere, visto che l’hai raccontato e vissuto?

Il potere è vano, al massimo è in prestito, è un modo per ingannare la morte, che però arriva lo stesso. 

Come nacque il libro “Il Letto e il Potere”? Attrazione per il sesso, per il pruriginoso, per il buco della serratura, o volevi raccontare altro?

Curiosità post-ideologica, era il 1993, nessuno ne aveva scritto finora.  Preceduta dalla profetica elezione di Cicciolina, durante la stesura stava venendo giù la Prima Repubblica. Quindici anni dopo, con il bunga bunga e grandi scandali sessuali di Berlusconi, sarebbero arrivate in Italia troupe televisive dal Brasile e dalla Corea! In realtà il sesso è un ottimo rivelatore della società e del potere. C’era questo campo sterminato da battere, se così posso dire, specie nel momento in cui saltavano i confini tra pubblico e privato. Piano piano scoprii, andando anche molto indietro nel tempo, e scavando di qua e di là, sempre con i guanti di lattice data la materia, che venivano fuori passaggi interessanti di proibizioni, tradimenti, ipocrisia, violenze, sputtanamenti, strumentalizzazioni. C’era una storia di cocaina già alla Costituente. 

Avendoli raccontati nella loro intimità, c’è qualcosa o qualcuno che salveresti, ora, con il distacco del tempo?

Direi Ciampi.  Aveva competenza, dignità, resistenza, senso della misura. Quando era Governatore della Banca d’Italia diceva ai suoi dirigenti: quando uscite dal lavoro, state attenti, non vi fate vedere nei locali notturni, non andate con le macchine scoperte perché voi rappresentate la Banca d’Italia. 

Nel saggio “Invano: il Potere in Italia da De Gasperi e a questi qua” ti sei avventurato in una sterminata e aneddotica galleria degli orrori, se così posso dire, della nostra classe politica. Qual è stato il movente di questo esercizio storico-politico?

Non solo orrori, se mi consenti, in mille pagine e cinquanta fitte fitte di bibliografia, ci sono anche le virtù di una classe politica oggi scomparsa. “Invano” è l’opera della vita mia. Una ricostruzione anche umana della rotolata giù per la china, ma senza animosità, né rimpianti. Doveva andare così. Poi le cose ricominciano.  

Una volta hai detto: da nonno Ceccarius ho ereditato strumenti fantastici: il culto per la città di Roma e quindi il dileggio, lo scetticismo, la cojonella, la facoltà di godere anche della magnificenza ridotta in macerie. Da dove nasce questo culto per una città così torbida e puttana come Roma?

È dentro la tua domanda la risposta. Esci da casa e incontri rovine. Le macerie del Palazzo imperiale sul Palatino come segno di caducità delle cose terrene, il fatto che a Roma si è visto tutto, che tutto è finito, tutto è ricominciato, e tutto rifinirà. Questo ti mette in una posizione di lontananza, prendi le cose senza farti travolgere, cerchi di non prenderti mai troppo sul serio.

C’è orgoglio e vanto nella tua romanità?

Non mi piace la retorica dell’orgoglio, che spesso è pure un peccato. Come tutte le cose grandi, Roma è ambivalente, metà valore e metà dannazione.

In una città come Roma, dove tutto si compra e tutto ha un prezzo, come diceva Sallustio [è Giovenale], che prezzo hai dovuto pagare per essere il giornalista che sei?

Quello che tutti pagano nella loro esistenza: fai degli errori, li capisci, cerchi di non ricascarci, ci ricaschi, provi a soffrirne di meno. Non credo che essere giornalista ti metta in una condizione speciale. 

A 66 anni, hai ancora curiosità verso i burattini e burattinai che affollano le stanze del potere? Non provi nausea e fastidio dopo averne viste e scritte tante?

Certo che provo nausea, ma cerco di farmela tornare utile. La stucchevolezza va indagata, sezionata, sviscerata. L’aspetto spettacolare che ha preso la politica mi alimenta e mi diverte. Oggi, ad esempio, con i social è entrato in azione una sorta di Osservatore Collettivo della classe politica. In Italia, patria della commedia e del melodramma, è difficile annoiarsi.

·        Filippo Facci.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 19 giugno 2021. Nel giugno 2020 subii un intervento chirurgico molto invasivo, con una travagliata convalescenza che prevedeva l'assunzione di antidolorifici oppioidi od oppiacei: OxyContin, Tar gin, Depalgos. ossicodone, tramadolo eccetera. Sono farmaci che riproducono blandamente gli effetti della morfina odi altri morfinoidi, ed era giusto, perché il dolore era molto intenso: si comprano in farmacia con la ricetta, o in qualche modo anche senza. I medici italiani ci vanno cauti, ma alla fine il dosaggio te lo fai da solo, a seconda del male che senti. Per farla breve: lo scrivente, nell' arco di soli 15 giorni, divenne un drogato a tutti gli effetti, un dipendente da oppioidi come ne muoiono 50mila all' anno negli Stati Uniti, dove hanno superato le vittime annue di incidenti automobilistici o di armi da fuoco, dove il numero di overdose dal 2006 al 2016 ha superato quello di tutti gli americani morti nelle due guerre mondiali. E la maggioranza era gente assolutamente normale, che aveva iniziato con ordinarie prescrizioni e poi era passata a cercare su internet, infine dagli spacciatori. Siccome le pillole costano, i più poveri talvolta passano al morfinoide più economico: l'eroina. Io ne uscii velocemente, pur con spaventosa fatica: e questo, ripeto, per soli 15 giorni di assunzione. Ci ripenso ogni volta che trovo la fila in farmacia, tutti coi loro ticket, rivolti verso la neo santità del camice bianco.

·        Franca Leosini.

Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. È tornata Franca Leosini per accendere i riflettori su alcuni protagonisti delle sue «Storie maledette». È toccato a Filippo Addamo inaugurare la prima puntata di «Che fine ha fatto Baby Jane» (Rai3, giovedì). Leosini lo aveva incontrato 17 anni fa, nel penitenziario Bicocca di Catania. Filippo aveva ucciso sua madre Rosa, di «lucente bellezza», con un colpo di pistola alla nuca, all’alba di un giorno di marzo del 2000 (non si sa se per gelosia o per una sorta delitto d’onore o per una patologia). Quando si segue un programma di Leosini l’ospite passa in secondo piano, qualunque delitto abbia commesso. O meglio, ogni episodio di cronaca nera viene sublimato dalla prosa della conduttrice («snodare una vita alla luce impietosa dei fatti», «sul binario dei ricordi la sua memoria è slittata…»), dalle sue volute barocche («sembra attingere ai recessi oscuri di un tragico destino»), del suo eloquio anacronistico e vagamente kitsch, del suo studiato sarcasmo. È questo che fa impazzire di gioia i leosiners (parola ormai registrata anche dalla Treccani), i fans che di lei amano tutto: il linguaggio, i tailleur, la capigliatura un po’ retrò (stile cofana). La amano con lo stesso trasporto delle gemelle Pamela e Sue Ellen di «Come un gatto in tangenziale». S’inebriano dei modi con cui Leosini tenta di fare letteratura sulla cronaca nera (al punto che Walter Siti, seguendo la trasmissione, ha scritto un libro su Filippo Addamo, in un meraviglioso cortocircuito o «risacca» di trasfigurazione realistica, di metalinguaggio), riscattando così ogni «caduta nell’abisso».

P.S. Ho letto su un numero di «Rolling Stone» che io disprezzerei Franca Leosini. Ci andrei piano con le parole. Seguire con attenzione un programma ed esprimere riserve critiche non significa «disprezzare». Basterebbe sfogliare un po’ il dizionario della Treccani. 

Roberto Faben per “La Verità” il 9 novembre 2021. Se il tambureggiare delle cronache del crimine consente solo in minima parte un meticoloso scandaglio dei retroscena psicologici e sociali dei delitti e lascia un punto di domanda sui destini, a distanza di anni, dei loro esecutori o presunti tali, Franca Leosini, riapparendo in tivù, su Rai 3, si riaffida nuovamente al suo approccio, che definisce «verticale». È quello cui ha ricorso, conciliando i metodi di sociologia comprendente, criminologia d'introspezione e alcuni fondamentali del giallo televisivamente ricostruito - pathos narrativo e suspense - nella sua fortunata serie Storie maledette, basato su una scrupolosa analisi degli atti processuali per risalire la china di una storia macchiata di sangue violento, fino al penetrante colloquio in profondità, davanti alla telecamera, con il principale protagonista di quella vicenda. Ciò per mirare sul bersaglio di una domanda che sotterraneamente ciascuno di noi si pone. Qual è il fatale inciampo che fa assumere a un'esistenza, fino a quel momento ordinaria, i tratti di una storia maledetta? Stavolta, nelle due puntate in onda il 4 e l'11 novembre 2021, dal titolo Che fine ha fatto Baby Jane?, ripreso dal noto noir con Bette Davis del 1962, l'autrice e conduttrice del programma si è chiesta qual sia stata la sorte dei protagonisti di altrettante storie. Esse sono quelle di Filippo Addamo che, a 19 anni, il 27 marzo 2000, a Catania, in via del Teatro Greco, uccise la madre Rosa Montalto, di 37 anni, con un colpo di pistola alla nuca, e di Katharina Miroslawa, polacca, avvenente ballerina di night club, condannata con l'accusa di essere la mandante dell'assassinio dell'imprenditore Carlo Mazza, il cui cadavere fu rinvenuto, il 9 febbraio 1986, a Parma, freddato con due colpi di una 6 e 35 al cranio. Con l'uomo, l'entraîneuse, all'epoca venticinquenne, sposata con Witold Keilbasinski, esperiva una relazione, inducendolo pertanto a stipulare una polizza-vita del valore di 1 miliardo di lire a suo beneficio in caso di morte dell'amante. Addamo e Miroslawa sono ora in libertà. Il primo, reo confesso, dopo aver scontato 17 anni di reclusione, vive e lavora in Belgio, con una compagna e un figlio piccolo. La seconda, sempre dichiaratasi innocente, dopo anni di latitanza ha trascorso la detenzione al carcere della Giudecca, a Venezia, pena da alcuni anni esaurita. Per Leosini s' immersero nel loro passato rispettivamente nel 2004 e nel 2001. Ora si ri-materializzano, nello studio di Che fine ha fatto Baby Jane, i cui poliedri vermigli su sfondo scuro e un'onda di frammenti vaganti sul mega-screen simbolizzano il flusso dei ricordi che tornano allo choc di un evento truculento, nel quale l'ormai lontana matematica di nessi e prove processuali cede il passo al mistero ultimo chiuso nei ricordi, trasformato in una luce di speranza.

Franca Leosini, perché ha deciso di raccontare il destino, dopo la fine della detenzione, di 2 dei 98 protagonisti di Storie maledette?

«Molto spesso, chi si è interessato a Storie maledette, mi ha chiesto qual è stata la sorte di queste persone dopo aver pagato il debito con la giustizia, se si sono re-inserite e se c'è stato il perdono sociale. Penso sia più facile perdonare che dimenticare. Esiste, certo, un diritto all'oblio, ma è difficile che la gente dimentichi».

Filippo Addamo uccise la bella madre perché non accettava che essa si portasse a letto l'amico ventiquattrenne del ragazzo, perché lei continuava a cercare amorazzi anche dopo averla indotta a troncare quella tresca, perché sfasciò la famiglia e suo padre non affrontava di petto ciò che stava accadendo. Non è da considerarsi, lui stesso, vittima della figura materna?

«A 15 anni Rosa era già madre. Non ha avuto una giovinezza. A un certo punto della vita queste cose possono accadere. Il figlio non le ha perdonato che, dopo la storia con il suo amico, abbia continuato con altre. Lui ha sempre detto che non intendeva ucciderla. Ma non accettava le scelte della madre, che adorava. Dopotutto, un bravissimo ragazzo».

Addamo ha ripetutamente sottolineato la questione dell'onore. Si sentiva non solo tradito, ma disonorato dalla madre. In questa società così confusa, quel concetto di onore un tempo considerato dal codice penale fa ancora pensare…

«Sì, è una società confusa, con grande libertà di comportamenti e di giudizio. Il divorzio, in fondo, non è molto lontano. Generalizzare è sempre un crimine. Ogni cosa dipende dalla qualità del rapporto e dall'ambiente sociale. A livello generale, c'è maggior disinvoltura nei rapporti di coppia diciamo nei "piani alti", mentre in strati sociali chiamiamoli più semplici, il senso dell'onore è più presente».

La donna sembra spesso dibattuta tra la richiesta di attenzioni e talvolta di possessività come segno d'amore e quella di non essere asfissiata da eccessi che talvolta sfociano in violenza e omicidio. Quale dovrebbe essere il punto di equilibrio tra questi due opposti?

«Il punto di equilibrio è avere un profondo convincimento dell'importanza di un rapporto, che non deve essere vissuto con superficialità. Sono necessari il dovuto rispetto umano dell'altro e dei suoi sentimenti, la fedeltà al sentimento». 

In certuni casi, l'uomo appare spiazzato dall'atteggiamento femminile. In una storia da lei raccontata, Angelo Piro, guardia giurata di 42 anni, il 2 agosto 2006, a Genova, colse in flagranza di adulterio la moglie Monica, 39 anni, nell'appartamento dei suoceri, con un giovane amante, e uccise l'uomo con 5 colpi di rivoltella.

Piro era dedito solo alla famiglia, riempiva la moglie di attenzioni, faceva il casalingo, accudiva i 2 figli, la lasciava uscire la sera, le aveva appena regalato un prezioso collier. Essa disse che era un marito «troppo perfetto» e si sentiva «trattata come una cretina». Quando fu incarcerato, disse di amarlo, supplicandolo di stare con lei. Ma che cercava questa donna?

«Chiedeva l'impossibile. Vivere momenti di svago sentimentale senza che venisse meno il supporto del marito. C'è da dire tuttavia che è molto difficile entrare nell'intimità di una coppia. Mai sapremo, inoltre, cosa si verifica sotto le lenzuola. Il mio motto è "capire, dubitare, raccontare". Mai giudicare. I miei interlocutori non sono "criminali", ma "persone che hanno commesso un crimine". 

Vanno distinti da mafiosi, camorristi e anche dai borseggiatori del tram, ossia dai professionisti del crimine. A un certo punto cadono nel vuoto di quella maledetta storia».

Dal rapporto 2021 del Dipartimento di polizia criminale, che analizza i dati sugli omicidi volontari in Italia nel 2020, accanto a un trend che conferma una contrazione negli ultimi 30 anni - dai 1.633 del 1990 ai 271 del 2020 - emerge che crescono invece gli assassinii di donne perpetrati da uomini in ambito familiare-affettivo, il 40% con movente passionale. Ciò che colpisce è la pressoché totale assenza di armi da fuoco utilizzate e il frequente utilizzo di coltelli, spia di aggressioni d'impeto. Ogni caso va analizzato singolarmente, ma cosa, secondo lei, impedisce a donne in pericolo, di allontanarsi in tempo da possibili esiti fatali?

«C'è la sindrome dell'"io ti salverò" che non abbandona mai. Nei delitti di cui mi sono occupata, i comportamenti violenti non sono premeditati, ma messi in atto in momenti di particolare drammaticità del rapporto. 

Aggiungo che il coinvolgimento in trasmissione di autori di delitti ha sempre avuto, su di essi, un'altissima ricaduta positiva mentre, talvolta, subito dopo la tragedia, erano descritti con tinte violente non corrispondenti alla realtà».

Frequentemente, vari suoi interlocutori, condannati per omicidio con pene variabili, da alcuni anni fino all'ergastolo, hanno continuato a ribadire la propria innocenza davanti alla telecamera. Ha avuto talvolta l'impressione che fossero sinceri e pertanto il dubbio che la giustizia sia caduta in errore?

«Non faccio nomi, ma talvolta è accaduto. Su alcune sentenze di condanna ho avuto forti dubbi. I magistrati compiono un lavoro eroico ma in alcuni casi mi ha colpito la forte discrepanza di valutazione tra una Corte giudicante e l'altra». 

Le sarà capitato di nutrire riserve circa la veridicità di alcuni particolari, forse essenziali, dei racconti degli intervistati.

«Per loro non è facile tornare nell'inferno del loro passato. Ciascuno di essi, e ricordo che dalla Rai non hanno preso una lira, aspira a un restauro d'immagine che consenta loro di rifarsi una vita. L'ergastolo, di fatto, non esiste. Tuttavia quando hanno detto qualcosa che si è discostato dagli atti processuali, li ho riportati negli alvei delle loro dichiarazioni scritte». 

A un innocente condannato per un errore giudiziario corrisponde un colpevole in libertà. Alcuni casi, come il delitto di Simonetta Cesaroni, restano insoluti. Le nuove tecnologie consentono miglioramenti?

«Bisogna vedere in che misura la scena del delitto sia stata compromessa. Attraverso la prova del Dna, il tasso di risoluzione dei casi si è innalzato». 

Ci saranno altre puntate di Che fine ha fatto Baby Jane?

«Certamente, andranno in onda nel 2022». 

Cosa le ha lasciato il racconto di così tante e dolorose storie?

«Mi ha lasciato la convinzione che ciascuno di noi può trovarsi, suo malgrado, protagonista di una storia maledetta». 

Da "adnkronos.com" il 5 dicembre 2021. "In questo trasloco di vettovaglie e vita...". Franca Leosini torna su Rai Tre con 'Che fine ha fatto Baby Jane?' e, su Twitter, parte l'applauso dei fan della conduttrice per il nuovo programma dedicato alla vita dopo la condanna e il carcere dei protagonisti della cronaca nera italiana. 'Si chiamava Rosa, era mia madre', il titolo della prima puntata in cui Leosini ha incontrato dopo 17 anni Filippo Addamo, che uccise sua madre da ragazzo nel 2000 e ora, dopo 17 anni di carcere, uomo libero tra rimorsi, speranze e un futuro da vivere con la compagna e il figlio ancora piccolo. Certo, spiegano i pochi detrattori guardando agli ascolti, "non è Storie maledette" mentre c'è chi si sente "disgustato da chi fa esercizi di stile sulle tragedie". Ma il format alla maggioranza piace, e molto, almeno a giudicare dai commenti. "Stasera Franca Leosini ci ha stracciato il cuore", "Franca, leggi quanto ti amo", "Ho adorato questo format", scrivono, notando come "la Leosini ha 87 dico 87 anni!". "Mi è piaciuto #chefinehafattobabyjane ... nessun intento di condanna o di assoluzione, ma il racconto, la "registrazione" di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che sarà. Brava #FrancaLeosini", commentano, aggiungendo: "A termine puntata mi sento devastata emotivamente… la Leosini ti permette di fare un viaggio dall’inizio alla fine nel “se fossi stata io al suo posto…?!” ". E ancora le recensioni: "Massimo sforzo di comprensione documentale, accuratezza nella stesura dei testi, totale dedizione e rispetto. Zavoli e Biagi, le pietre di paragone. Mai un solo minuto di trasmissione gettato via in tic verbali, frasi vuote di retorica", dicono, aggiungendo: "Come sempre un grande ripasso di diritto e procedura penale". "C’è chi sogna soldi, belle auto e case. Io sogno di arrivare a 87 anni con la stessa energia di #FrancaLeosini", sottolineano, mentre sperano che "ci siano altre puntate".

Franca Leosini: “C’è una condanna senza certezze che mi lascia ancora sgomenta”. Flavia Piccinni il 04/11/2021 su Notizie.it. Franca Leosini torna in TV con Che fine ha fatto Baby Jane?. In un'intervista a Notizie.it racconta: "I miei interlocutori sono persone, come me e te, e meritano rispetto e attenzione umana". Franca Leosini non appartiene al tempo. Splendidamente identica a se stessa da quasi cinquant’anni, è una sentinella della cronaca nera italiana, in cui si addentra con animo gentile e parola bicuspide. Napoletana, marito direttore di banca, due figlie, una laurea in Lettere e una passione per la moda – è stata anche direttrice di Cosmopolitan – approdò negli anni Novanta in Rai chiamata da Angelo Guglielmi, che ne leggeva i commenti ai processi su Il Tempo. Negli anni ha intervistato tutti – da mandare a memoria l’incontro con Patrizia Gucci e quello con Angelo Izzo – e non ha mai cambiato stile. Quello della parola, e del look. Questa sera, 4 novembre, finalmente torna su Raitre – dopo la pausa obbligata legata al Covid-19, che le ha impedito di entrare negli istituti penitenziari e così proseguire con il suo amatissimo Storie Maledette – con un nuovo programma. Si tratta di Che fine ha fatto Baby Jane? – in onda anche giovedì prossimo – in cui accompagna il telespettatore in ciò che accade quando il carcere si apre e i riflettori si spengono.

Quando chi ha commesso delitti atroci ha la possibilità di ricostruirsi una vita dopo aver scontato la pena.

“Tutto – mi spiega Leosini, con quella sua voce incredibile, mentre scandisce piano le parole – ruota intorno a due protagonisti di Storie Maledette che hanno riacquistato la libertà. Cerchiamo di far scoprire al telespettatore dove sono oggi, che cosa fanno, in che modo hanno ripreso la loro vita”.

Come è nata questa narrazione inedita, che mette insieme materiali di repertorio e docufiction, vicenda umana e giudiziaria?

Nel corso della mia carriera, ogni volta che incontravo chi si era macchiato di un gesto drammatico, mi sono sempre chiesta: che cosa sarà dopo di lui? Che cosa accadrà quando tornerà in un contesto sociale? Ragionando su questo è nato il programma.

I protagonisti delle prime due puntate sono Filippo Adamo e Katharina Miroslawa. Entrambi li ho incontrati nei primi anni Duemila. Adamo lo conobbi per la prima volta 17 anni fa, nel penitenziario Bicocca di Catania. Aveva appena 23 anni, e avrebbe dovuto scontare 17 anni per aver ucciso sua madre Rosa con un colpo di pistola alla nuca.

Katharina Miroslawa invece la conobbi a Venezia, nel carcere La Giudecca. All’epoca faceva la ballerina in alcuni night club, fino al giorno in cui, nel 1986, furono esplosi due colpi di pistola contro il suo amante, l’imprenditore Carlo Mazza, che in suo favore aveva stipulato una polizza sulla vita da un miliardo di lire.

Quando li incontrò per la prima volta vide in loro due assassini?

Assassini è un termine che non mi piace. I miei interlocutori sono persone come me, come te. Persone che si sono macchiate di atti tragici e dolorosi, di cui scontano le conseguenze.

Entrambi oggi hanno un lavoro e una famiglia. Ma il giudizio sociale continua ad accopagnarli?

Sono convinta che la società sia più disposta a perdonare che a dimenticare.

Ed è ragionando anche su questo che è nato il programma. Dimenticare non è facile. Il rapporto di chi ha sbagliato con la società è un segno negativo che gli viene dal passato. Un marchio spesso indelebile. Chi dopo aver scontato una pena torna nel presente fa una grande fatica a vivere. Esattamente come Amato e Miroslawa.

Negli anni tutti quelli che hanno parlato con me ne hanno sempre avuto una ricaduta positiva. Un perdono sociale che non è facile. Il colloquio che abbiamo avuto è stato importante. La cosa che mi fa piacere è che entrambi siano riusciti a ricostruirsi una vita. Sono napoletana, e non so parlare napoletano, ma si vede che hanno ragione quando dicono che porto buono.

Porta buono, e sopporta con estrema eleganza la responsabilità di narrare storie atroci. Quali sono le regole che si è data?

Affrontare le storie con rispetto e attenzione umana. Cercare sempre le verità che ogni vicenda presuppone, studiare gli atti processuali a menadito, creare una puntata con assoluta meticolosità. Utilizzare il rispetto.

Un rispetto che spesso nel tritacarne televisivo viene a mancare.

I colori della cronaca sono sempre accesi, ma quando si verifica un crimine, una tragedia, i fatti vengono raccontati in tinte forti e gli schizzi di fango e di dolore vanno su chi il crimine l’ha commesso. A volte i colleghi, cui va tutta la mia stima, non hanno il tempo per approfondire, e raccontano in orizzontale le storie. Per andare in profondità ci vuole tempo. E poi c’è una cosa a cui tengo molto.

Quale?

Che si sappia che le domande non le fornisco mai prima. I miei interlocutori non sanno mai come li intervisterò perché credo che la cosa fondamentale sia l’onestà intellettuale. Da parte mia, ma anche da parte loro.

Si è mai pentita di aver raccontato una storia maledetta?

Mai. Io incontro le persone solo una volta prima della registrazione, per stabilire un rapporto umano, ed evitare che il primo appuntamento sia quello di fronte le telecamere. L’unica volta che ho avuto la sensazione che l’intervistato volesse manipolarmi ho rinunciato.

Come andò esattamente?

Dopo aver studiato per tre mesi il processo, andai in carcere per intervistare quest’uomo che aveva ucciso tre persone. Quando ci parlai, ebbi la netta consapevolezza che aveva intenzione di servirsi di me.

E allora?

I miei interlocutori sanno che rispetto loro e le vittime delle loro tragedie, ma pretendo che abbiano lo stesso rispetto per me. Decisi allora di andare dal direttore di rete. Gli dissi che avrebbe avuto una puntata in meno per quell’anno. Mandarla in onda sarebbe stato tradire chi segue il programma, e soprattutto tradire me stessa.

Negli anni ha girato ben 98 puntate di Storie Maledette. Ce ne è stata una che ha cambiato la sua percezione del male?

No. La percezione del male l’abbiamo vivendo quotidianamente. Non è con Storie Maledette che ho affrontato questo rapporto. I miei interlocutori sanno che la parola rispetto è la chiave di tutto. Io rispetto il loro passato, e naturalmente il loro presente.

Ha mai incontrato una vicenda che ha contaminato la sua idea di giustizia?

Generalizzare è sempre un crimine. Ma ci sono dei casi in cui ho trovato sentenze che mi sono sembrate sbagliate in un senso, per eccesso di colpa, o nell’altro. E poi c’è una condanna senza certezze assolute che tutt’ora mi lascia sgomenta…

La prego, me la dica.

No, mi dispiace. Le decisioni della magistratura non vanno discusse, naturalmente, ma leggendo i documenti si ha la possibilità di farsi la propria opinione. Parto dall’assunto che un delitto vada sempre condannato per rispetto delle vittime, ma in questi anni mi sono resa conto che le punizioni non sono quasi mai corrispondenti.

Come sceglie le storie che racconterà in televisione?

Studiando tutto quello che si verifica sul piano delle vicende del crimine privato. Poi agisco in base alla mia sensibilità. Se una storia mi cattura, se mi interessa, penso che possa farlo anche con gli altri. Oggi noto un maggiore incremento di crimini legati a fatti economici, che sono quelli che a me non interessano.

E c’è un aumento della violenza sulle donne.

È peggiorata, certo, ma per fortuna c’è una maggiore sensibilità. L’uomo non riesce ad accettare che la donna decida il destino della coppia, e non sopporta l’indipendenza economica.

Lei ormai è un’icona. Se lo sarebbe mai aspettato?

Mi gratifica molto essere seguita da un pubblico così variegato, che va dai quindicennni ai novantenni. Ma la cosa che mi gratifica di più è il grande seguito fra i giovanissimi.

I leosiners che spopolano sui social network e che citano alcune sue frasi come cult del contemporaneo.

Questa è una delle cose che più mi soddisfa. In fondo, il mio è un programma che tratta una materia difficile, con storie umane drammatiche e dati processuali. Non parliamo di un varietà! L’attenzione e la passione che mi viene riservata è uno sprone quotidiano a fare meglio, a dosare la mia presenza in televisione e naturalmente a studiare. A studiare, soprattutto. Sempre di più.

Annamaria Piacentini per “Libero quotidiano” l'1 Novembre 2021. Che fine ha fatto Baby Jane? Ce lo racconterà Franca Leosini una delle giornaliste televisive più apprezzate dal pubblico. Ha classe e savoir faire e non si è mai piegata a fare progetti in cui non credeva. Per lei, il lavoro è impegnativo, ma ancora più importante è il rispetto del pubblico. Al suo posto quante ne sarebbero capaci? Non bastano scollature audaci e stupide battute per vincere in tv: ci vogliono talento e intelligenza. Napoletana nata sotto il segno del Genio, prima di iniziare il suo programma studia gli atti giudiziari e cerca di conoscere il percorso di un assassino vagliando ogni passaggio della sua vita, e cercando di capire il motivo per cui un uomo insospettabile diventa il protagonista di efferati delitti. Dal 1994 è conduttrice della celebre trasmissione Storie maledette, l'ineguagliabile programma più volte imitato, senza successo. Il suo segreto? Lealtà e introspezione. Anche Sherlock Holmes al suo confronto potrebbe diventare un dilettante! Passiamo al programma: sarà composto da due puntate, la prima in onda il 4 novembre in prima serata su Rai 3 (ore 21,20), la seconda l'11. Nella prima puntata si parlerà di Filippo Addamo che a 23 anni, nel marzo del 2000 ha ucciso la madre Rosa. Oggi ha scontato la sua pena ed è un uomo libero.

Che fine ha fatto Baby Jane? è il titolo del film girato nel '62 dal regista Robert Aldrich. Perché lo ha scelto per la sua trasmissione?

«L'ho preso in prestito dal film horror, il tema delle due puntate tratta due efferati delitti. Il mio pensiero è proprio quello di capire qual è la realtà e quale sarà il destino di questi uomini che hanno commesso un crimine, ma che sono tornati liberi. La società li accoglie? Come vivono lottando contro i ricordi?».

Le domande sono difficili. E le risposte?

«Parlo con i protagonisti, si fidano di me, io non giudico e loro lo sanno. Dopo anni di carcere il debito con la società lo hanno scontato, cerco di recuperare il loro passato e il presente».

Li aveva già intervistati per Storie maledette?

«Sì, sono personaggi che avevo già incontrato in carcere per quel programma. Ora Addamo è fuori, ha pagato il suo debito con la società. Ma stare fuori per loro non è facile: c'è stato il perdono sociale? Ma la società che non dimentica è difficile che perdoni». 

Ricominciare non sarà facile... Nella nostra società a volte non c'è posto neanche per chi moralmente ha molti pregi...

«Sì, è cosi. Ma il programma vuole mettere in evidenza chi ha dovuto ricominciare da zero Mi interessava sapere come affrontano il "dopo", quelli che hanno scontato la pena». 

Quando li intervista per lei cosa conta di più?

«La verità. Le storie sono complesse, non mi limito solo a raccontare, ma anche a capire l'ambiente in cui sono vissuti». 

Infatti la violenza spesso si vive sin da bambini, ed è intollerabile. Purtroppo, spesso si trasmette da adulti...

«Infatti, ma c'è anche il diritto alla menzogna. E molti di loro aspirano all'oblio, per questo cerco di recuperare la vicenda, ma è molto difficile che si mettano in gioco». 

Che garanzie dà ai suoi interlocutori perché possano fidarsi di lei?

«Sanno che io non inganno, però non posso sostituirmi ad un magistrato, non è il mio mestiere. Ma quando cerchi di parlargli deve piacere il tipo di linguaggio che è composto da molti elementi. I colori della cronaca sono sempre accesi, però sanno che affidando a me il loro destino, avranno un restauro, un'immagine vera di ciò che sono oggi».

Cambiati, giusto?

«Il carcere cambia le persone, ed ogni storia che porto in tv è sempre frutto di un lungo lavoro. Per questo preferisco fare poche puntate e centrare i personaggi senza finzioni». 

Quali sono i suoi punti di riferimento quando decide di intervistare un omicida?

«Sono tre: capire, dubitare, raccontare. Solo così si cerca di entrare in una storia per cercare anche un piccolo errore». 

Non parla del femminicidio, perché?

«Non mi piace questa parola: che significa? È un delitto commesso ai danni delle donne e detesto questo termine che sembra alleggerire ciò che è stato commesso». 

Ha ragione, e si sottolinea sempre la fragilità della donna: lei ci crede?

«Parliamo di un efferato delitto e non copriamolo con la fragilità delle donne. La cronaca ha i suoi doveri e i suoi diritti, ma i colori spesso sono suggestivi. È sempre difficile trovare un equilibrio davanti ad un omicidio così terribile, bisognerebbe avere la saggezza di raccontarlo nel modo giusto». 

Quando smette i panni della giornalista investigativa, cosa le piace fare?

«Amo tante cose, mi piace leggere, scrivere, andare a teatro. Mi piace la vita e trovo che chi fa il nostro mestiere finirebbe per inaridirsi senza mantenere il rapporto con la società». Il futuro? «Lo vedo cangiante, ma vivo nel presente. La vita va vissuta nel modo giusto».

Spente le luci dei riflettori, che interessi ha?

«Sono una persona che di interessi ne ha tanti. Il lavoro ad esempio, che per me è molto importante, però amo stare anche con le persone che arricchiscono la mia vita. Dobbiamo ricordarci che esistiamo anche noi». 

Il pubblico la ama, ha una splendida famiglia e un grande pregio: l'onestà intellettuale...

«È ciò su cui conto. Ora spero che questa nuova avventura professionale trovi sempre lo stesso riscontro. È un programma molto difficile come tutto ciò che ho percorso. Bisogna studiare gli atti, non ci si può far trovare impreparati. Parliamo di fatti importanti». 

Ha la forza di non mollare mai. Questo non lo trova un grande esempio?

 «Sì, certo. Ho investito molto sul piano lavorativo e se tutto va bene a febbraio torno con altre storie. Anche più complesse». 

Quando ha "rubato" il titolo ad un vecchio film l'ha scelto perché lo considerava perfetto? Anche lì c'è un delitto tremendo. C'è il senso dell'horror, del mistero...

«E in me, la voglia di ricominciare. Sempre! Il dopo-delitto, mi interessa molto. Ho investito tantissimo sul piano umano, e non sono pentita. La mia aspirazione è quella di portare in trasmissione altre storie avendo la possibilità di spaziare. Riprendere il programma sarà sempre un atto dovuto per chi crede nella giustizia e nella possibilità di cambiare la propria vita».

Michela Tamburrino per “La Stampa” il 26 settembre 2021. Figli che ammazzano i genitori. Genitori che non conoscono affatto i loro figli. Un uomo che ammazza un bambino e poi va in pizzeria. Sorelle come Paola e Silvia che uccidono e poi mentono senza prevedere alcuna resipiscenza d'orrore. Un adulto come Mariano che neppure prende in considerazione il fatto tragico che ha causato gettando una creatura giù dal balcone. E poi ci sono quelli in cerca di visibilità, capaci d'affrontare le telecamere, senza che la loro verità venga scalfita. Una galleria di personaggi che da Pietro Maso alle ultime ore di questa strana estate porta alla ribalta l'omicida mediatico e l'omicida indifferente. Franca Leosini indaga, studia e racconta, in tv, il clic che scatta in una mente fino a un attimo prima ritenuta normale. Che cosa nella quotidianità porta alla banalità del male. Per poi in molti casi tornare indietro come nulla fosse, un azzeramento dei sensi di colpa e del senso di responsabilità.

Leosini, sappiamo che lei non giudica mai, ma un giudizio s' impone...

«Un giudizio molto difficile, perché in questi casi citati pare si sia talmente anestetizzata la sensibilità comune da farci trovare al cospetto di un'assoluta assenza dei valori, di vite ridotte in miseria. Sono i nuovi mostri? Difficile dire anche questo. Innanzitutto bisogna vedere che cosa, in loro, determina l'assenza assoluta di umanità. Purtroppo sono vicende sempre più diffuse con dati sempre più allarmanti».

Quali per esempio?

«Sgomenta che i protagonisti siano in maggior parte giovani. È giusto allora porsi delle domande, questi giovani da dove attingono i disvalori che poi li portano a delinquere senza provare neppure dolore o pentimento? Se li prendono dalla società nella quale tutti si vive, allora la responsabilità morale di quanto hanno fatto ce la dobbiamo prendere tutti noi». 

Forse in televisione si parla con troppa facilità di delitti e derivati?

«La troppa disinvoltura potrebbe dare loro alcuni spunti, ma non credo sia la strada giusta. La cronaca ha i suoi diritti che non si possono cancellare. Casomai restituire un segno di maggiore condanna, far comprendere ai ragazzi che guardano la tv che agire così equivale a rovinarsi la vita per sempre». 

E le famiglie di provenienza?

«Ho visto ragazzi responsabili di gesti atroci venire da famiglie che hanno percorsi limpidi. Casomai parlerei di amicizie e frequentazioni sbagliate. Quando si è giovani si è anche facilmente suggestionabili. Non è una storia da ascriversi solo all'oggi, va da Pietro Maso e Corrado Ferioli, giovani che ammazzano i genitori senza provare sensi di colpa. Troppo facile rifugiarsi nella malattia mentale».

Vogliamo tirare in ballo il Dna?

«Esiste una trasmissione dei geni, ma sarebbe troppo facile agganciarcisi. La scienza lo prevede, ma darei un'importanza relativa se si crede come me nel libero arbitrio. Quando il gesto omicida si accompagna alla freddezza e alla capacità di esibizionismo, allora l'allarme è maggiore perché significa che le radici affondano in un terreno malato. I giovani che trasmettono questo comportamento creano un allarme sociale». 

Lei si interroga sul domani di queste persone che hanno compiuto delitti terribili?

«Tanto spesso che ci ho costruito una trasmissione, che andrà in onda in autunno su Rai3 e gli ho dato come titolo "Che fine ha fatto baby Jane", dal famoso film anni Sessanta con Bette Davis e Joan Crawford. Qui indago sul terzo atto della vita di un individuo che ha ucciso e che ha scontato la pena. Mi interessa scoprire qual è il loro destino e che cosa possono ancora dare alla società. In che misura vengono riaccolti e qual è la loro nuova realtà umana. In questa serie, il primo caso che prendo in esame è proprio quello di un figlio che ha ammazzato la madre. Mi pongo nell'ottica della comprensione. Mi chiedo quale guasto abbia potuto portare dalla quotidianità al gesto estremo. I protagonisti scendono con me nell'inferno del loro passato per rintracciare il momento che ha stravolto la loro vita».

Spesso alla base di questi delitti c'è un interesse economico. Anche le due sorelle Paola e Silvia, omicide di poche ore fa, parlavano di comprare macchine e di fare vacanze, dopo. Erika e Omar anche pensavano a una libertà agiata da viversi, dopo. Sarà mica anche colpa della nostra società che spinge verso standard così elevati da richiedere di tutto pur di uniformarcisi?

«Seguendo questo ragionamento, ognuno di noi potrebbe essere candidato al delitto. La colpa casomai è di chi fa un uso distorto degli strumenti che la società mette a disposizione».

Torniamo alla tv e al caso delle due sorelle che a Chi l'ha visto si sono presentate quali vittime lanciando appelli per la madre scomparsa. Voglia di visibilità?

«No, esigenza di menzogna. Loro vanno, parlano per mentire, per negare eventuali sospetti che li coinvolgano. Ambiscono alla visibilità i mentitori, una visibilità che tende alla mistificazione. Io invece parlo con persone che hanno elaborato la loro colpa e che la stanno o l'hanno scontata. Il comportamento è completamente diverso». 

C'è un caso di questi citati o di altri non menzionati che l'ha particolarmente colpita nel senso dell'indifferenza provata dall'omicida?

 «Nelle mie 98 storie maledette nessuno ha mostrato mai indifferenza per quanto fatto. Se ci fosse stato un interlocutore di questo tipo non gli avrei dato modo di parlare. Io mi occupo dei guasti della vita, non dei guasti della mente. Le persone che intervisto si sono rese responsabili di gesti tremendi ma sono perfettamente consapevoli di quello che hanno fatto e del prezzo che stanno pagando». 

·        Francesca Baraghini.

Davide Desario per leggo.it il 14 aprile 2021. L’unica zona rossa che piace? È quella di Francesca Baraghini. Da gennaio la trentaseienne giornalista di Skytg24 ha lanciato “Red Zone” un podcast a cadenza settimanale prodotto da Dopcast (sinergia tra Sony e MNcomm) e ascoltabile gratuitamente sulle principali piattaforme. Un quarto d’ora tutto d’un fiato per scoprire un punto di vista originale sulle notizie di tutti i giorni a chi non si accontenta dei giornali fotocopia e cerca spunti per riflettere su quello che succede vicino ma soprattutto lontano.

Perché un podcast?

«Ho voluto strappare qualche minuto alla frenesia. Credo che in questo momento più che mai abbiamo bisogno di fermarci a pensare. Da giornalista ho deciso di analizzare delle notizie, magari quelle che non trovano spazio nei giornali o nei tg, perché credo sia importante. Mi sono fatta un regalo e ho voluto farlo anche a chi ha voglia di ascoltarmi. Sperando gli sia utile».

Ma perché qualcuno dovrebbe ascoltare Red Zone?

«Per curiosità. Un po’ come quando davanti alla tv si fa zapping con il telecomando, capiti su canali e trasmissioni che nemmeno pensavi esistessero, ascolti e se ti piace decidi di continuare. Questo podcast è per chi ha voglia di farsi qualche domanda, di conoscere fatti e persone dall’altra parte del mondo, cose che spesso non si conoscono».

In America i podcast hanno un gran successo e sono diventati una realtà importante della comunicazione. Ma in Italia? Vale la pena investirci energie?

«L’Italia a differenza di altri paesi ha delle abitudini fortemente consolidate. Siamo più restii al cambiamento. Un po’ come quando arrivò la lavatrice, molte donne si sentivano quasi in colpa che non dovevano più lavare a mano e potevano utilizzare quel tempo facendo altro. Ecco il podcast è un po’ così: non c’è solo il giornale la mattina e il tg all’ora di cena. Ci si può informare chiudendo con gli occhi chiusi sdraiati sul divano, con le cuffiette facendo jogging, oppure mentre si lavano i piatti».

Prima radio, poi i quotidiani e dopo la tv. Con questo podcast in un certo senso torna al primo amore?

«Il mio primo amore è il giornalismo. La radio (radio Babboleo nel 2009) è stata solo la prima a corrispondere il mio amore. poi tutti gli altri. E ora su Red Zone continua a fare la giornalista, ricerco, approfondisco, scrivo».

Cosa risponde a chi dice che senza video Baraghini ci perde.

«Dico che sono molto più della mia faccia. Che ho una quinta nel cervello».

Skytg24, poi la breve avventura al Tg8 e ora?

«Da Sky non me ne sono mai andata: il Tg8 si registrava negli stessi studi. Ora... ho grandi sogni per il futuro».

Ne riveli almeno uno.

«Non si può vivere senza sognare, senza progettare. Così sto scrivendo un format per una trasmissione tra giornalismo e attualità».

In questo periodo di zone rosse, qual è la libertà che più le manca?

«Quella di prendere la macchina e andare dai miei genitori, stare con loro, portarli a pranzo fuori, ridere. Insomma viverli».

·        Francesco Repice.

Massimo M. Veronese per "il Giornale" il 20 settembre 2021. Per «The Voice» la radiocronaca di una partita non è narrativa, ma ring. Dove si combatte, si suda, si soffre. Anche ascoltarlo è un'esperienza fisica: si va in apnea, i battiti a tamburo dentro il petto, l'urlo che si sovrappone al suo. Francesco Repice è il re dei radiocronisti, l'erede di Carosio e di Ameri, di Gentili e di Cucchi. Un gladiatore del microfono che ha riportato «Tutto il calcio minuto per minuto» al centro della scena alla faccia delle dirette via web e della tv on demand. E che al segnale dallo studio scatena l'inferno. 

Ricorda la prima radiocronaca?

«Serie C1, campionato 1978-79, Rende contro Paganese, avevo 16 anni. Trasmettevo per una piccola radio calabrese e non avevamo una postazione allo stadio. Così la domenica precedente la partita andai a pregare la signora che aveva il balcone di casa affacciato sul campo di farmi attaccare il telefono. Si intenerì e mi disse sì. E una domenica sì e una no a pranzo cucinava per me». 

La più emozionante?

«La finale di Champions del 2011, Barcellona-Manchester United, tre a uno per i catalani. Dopo il tumore Abidal non doveva nemmeno essere lì, invece aveva la fascia di capitano e Puyol gli fece alzare la coppa. Grande lezione di calcio e di umanità». 

La più triste?

«La più dolorosa fu quella del febbraio 2007 tra Catania e Palermo dove perse la vita l'ispettore Filippo Raciti. Ero solo e nessuno poteva raccogliere informazioni per me, un collega mi disse della tragedia. Fare quella radiocronaca fu sconvolgente». 

La più difficile?

«Una Confederation cup in Brasile, amichevole dell'Italia di Prandelli, Estádio São Januário del Vasco de Gama, in mezzo alle tre favelas più grandi di Rio. Ero con Riccardo Cucchi: la nostra postazione era una specie di ballatoio con i calzini e le mutande appese con le mollette e due fili elettrici. Ci siamo arrangiati». 

Le è mai capitato di scambiare un giocatore per un altro?

«È un classico. L'ultima volta quando qualche settimana fa l'Empoli ha battuto la Juventus a Torino. Ho detto gol di Caputo e invece era Mancuso. E sì che lo sapevo. Ma se un nome ti rimane in testa a volte ti frega: ho chiesto scusa». 

Il gol più emozionante?

«Uno scavino di Totti in Champions che mi mandò in sollucchero. Ma anche quello di Chiesa alla Spagna agli Europei mi ha esaltato». 

Che squadra è la squadra di «Tutto il calcio minuto per minuto»?

«Una squadra tecnicamente fortissima con ragazzi fantastici per bravura, competenza, applicazione».

Il migliore?

«Manuel Codignoni ha una ricchezza di vocabolario straordinaria. Ma la numero uno è Manuela Collazzo, una delle più grandi narratrici del nostro tempo». 

E non è certo la prima...

«Nicoletta Grifoni è stata la nostra Maradona: bravura mostruosa, talento straripante». Meglio Ameri o meglio Ciotti?

«Come dire: meglio Messi o meglio Ronaldo? Unici e irripetibili».

Da piccolo li ascoltava?

«Come tutti. Ricordo Ameri in un Juventus-Roma: intervenne per dire che Turone aveva segnato ma in fuorigioco. Io ero a Torino, con la cuffietta nelle orecchie e dissi: ahò, ma quale fuorigioco? Un'ingiustizia che non riesco a digerire ancora oggi». 

Ma «Tutto il calcio» non è ormai fuori moda?

«Al contrario: è tornato prepotentemente di moda. E le nuove tecnologie esaltano la radio che ha il merito di non farsi inseguire come la tv: come un'amica ti accompagna al cinema, in auto, quando porti i tuoi ragazzi a giocare a pallone e le tue bambine ai giardinetti». Ma senza immaginazione ormai che calcio è? «Il calcio è cambiato ma il modo migliore di vedere una partita resta sempre al campo con le cuffiette». 

Il numero uno dei radiocronisti?

«Victor Hugo Morales. Raccontò il gol di Maradona contro l'Inghilterra del 1986 senza nemmeno usare parole. Un mostro di bravura. Una volta durante la finale di Libertadores Boca-River a Madrid, lo vidi, mi avvicinai, stavo per chiedere una cosa e lui: ciao Francesco, come stai? Mi conosceva. Per me fu come un gancio sinistro al mento di Joe Frazier».

Lei è stato curvaiolo.

«Per una vita. Portavo gli striscioni allo stadio, andavo in treno dappertutto. Per questo ho sempre grande rispetto per il mondo delle curve». 

Ma lì ci scappò il dramma...

«Finale di Coppa dei Campioni 1984, la giochiamo in casa con il Liverpool e la perdiamo ai rigori. Una catastrofe che non auguro al mio peggior nemico. Dopo sette ore in curva ero distrutto, come catatonico. Sapevo che un'occasione così non sarebbe tornata mai più». 

E il giorno dopo...

«Avevo l'esame universitario di Diritto civile. Risposi ai professori con tanta e tale rabbia che penso me l'abbiano regalato per paura».

Anche come telecronista però...

«Juventus-Roma 2001, partita chiave per lo scudetto, ero a bordo campo, soffrivo l'inferno anche se raccontavo la partita in maniera algida. La Juve segna due volte, li rimontiamo. A fine partita corro in campo tra Batistuta e Totti facendo il gesto delle orecchie ai tifosi della Roma. Ma c'era un fotografo di Tuttosport...». 

E allora?

«La mattina dopo mi chiama il mio redattore capo Marco Martegani che mi dice con voce tetra: vai a vedé che razza di capolavoro hai combinato Su Tuttosport c'era la mia foto con un titolo: Radiocronista Rai fa festa con la curva. Sprofondai. Credevo che la mia carriera fosse finita prima ancora di cominciare». 

Sua moglie però è laziale...

«Sì, ma questo non ci ha impedito di avere relazioni civili... (ride) Ma nella finale di Coppa Italia 2013 vinta dalla Lazio sulla Roma sembro laziale. Ho esaltato il gol di Lulic come se fosse un gol della Roma». 

La Roma però...

«Non la posso vedere...».

In che senso?

«Se non sono obbligato alla radiocronaca non la guardo perché vado troppo in agitazione, mi chiudo in casa da solo, sbarro porte e finestre. I miei nipoti Francesco e Simone però, romanisti come me, che abitano al piano di sotto del mio, li sento quando urlano. Mia figlia a volte chiede ma che è successo? E mia moglie: non vedi che tuo padre sta immobile, terreo, non parla...». 

Amici tra i calciatori?

«Nessuno, me lo sono imposto. Semmai sono loro che vogliono fare amicizia con me». Però ha scritto un libro su Totti...

 «Lui è una divinità. E con gli dei non si può essere amici».

E problemi con i calciatori?

«Due o tre anni fa dissi che Ciro Immobile, secondo me, non aveva una dimensione internazionale. Lui, con una gentilezza, un garbo e un'educazione rare, mi disarmò durante una chiacchierata in un aeroporto. Ho preso una bella lezione, da un ragazzo meraviglioso di grande dolcezza. Ecco, di Ciro mi piacerebbe essere amico». 

Ma non si è stufato di raccontare sempre la Juventus campione?

«Scudetti meritati. La loro ferocia la vedi quando fanno il torello prima della partita. Gli altri scherzano e ridono, loro rischiano di spaccarsi le gambe. La differenza è tutta lì». 

Ma è vero che Cosenza e Tropea si contendono i suoi natali?

«Io sono nato a Cosenza, come mia mamma, mio padre era di Tropea. Sono due pezzi della mia anima. A Cosenza ho fatto il liceo, a Tropea vado tutte le estati». 

Cosa sognavano i suoi per lei?

«Mio papà Salvatore mi voleva deputato. Aveva un calzaturificio a Luzzi, in provincia di Cosenza, anche Clinton comprava scarpe da noi. Mandava dei pulmini che facevano il pieno di scarpe e poi volavano alla Casa Bianca. Mia madre Maria invece voleva solo che fossi felice».

Il vero idolo però era lo zio.

«Mio nonno ferroviere aveva nove figli. Il primo era zio Rocco, partigiano di Giustizia e Libertà, spirito libero e ribelle. Venne tradito da una donna e fucilato poco più che ventenne dai fascisti a Cuneo il 26 novembre del 1944. C'è una lapide sia lì che a Tropea. Lui è sempre stato il mio eroe anche se non l'ho mai conosciuto. Era bellissimo, moro, con i baffi e gli occhi scurissimi, lo chiamavano il Principe dei gagà perché era elegantissimo. Era una famiglia umile, il primo che si alzava metteva la camicia. Se l'è sempre meritata». 

E Francesco cosa sognava?

«Di giocare a pallone come tutti i bambini. Ma non avevo nessun numero per farlo a parte il 10 sulla maglia come Totti. Così in Prima Categoria ho detto basta». 

È vero che il suo primo direttore è stato Sergio Mattarella?

«Era il direttore politico del Popolo. Un uomo di pochissime parole, dette a bassissima voce, ma quelle poche erano sentenze: quando diceva non sono convinto doveva bastarti. E cambiare tutto». 

E che il suo primo scoop è stata l'intervista a un brigatista rosso?

«Germano Maccari, uno dei sequestratori di Aldo Moro. Stava andando nell'aula bunker di Rebibbia, lo avvicinai per il Gr1 e gli dissi: senti, me le dici due cose? E lui in diretta per un minuto e quaranta secondi mi raccontò di quel sequestro, di Moro infilato in una cesta, del primo colpo che si era inceppato...».

Lo sa di essere una star, vero?

«Star mi pare impegnativo. Credo che molti mi amino perché vivo le partite, faccio il tifo, non riesco ad astrarmi, a volte non ci dormo persino di notte. Se non mi emozionassi del resto non farei questo mestiere». 

Agli Europei di calcio ci ha esaltato. Il momento più tragicomico?

«Il rigore di Jorginho contro la Spagna, quello decisivo. Stavo per dire ora dagli 11 metri Jorginho che i rigori non li sbaglia mai, ma mi sono morso la lingua. Così ho cominciato a dire Jorginho e basta, Jorginho e basta, Jorginho e basta. Per sette volte. Ma l'ha messa dentro». 

Cosa ci ha insegnato l'Italia?

«Che più del talento, anche se questa squadra ha tantissima qualità, conta la voglia, lo stare bene insieme, lo stare bene fisicamente. Conta saper fare squadra per raggiungere un obiettivo. Puoi avere tutto il talento che vuoi ma se non hai la forza di volontà per tradurlo quel talento è come non averlo». 

Quasi una lezione per il Paese.

«L'Italia del calcio ci ha ricordato quello che siamo: una nazione forte piena di ingegno, talento, forza di volontà. E che sa sconfiggere, se vuole, ogni avversità».

Soprattutto dopo un anno così.

«È stata come una resurrezione dopo un anno e mezzo infame. Hanno avuto lo stesso impatto sul Paese dei ragazzi di Bearzot». 

Addirittura?

«Quando lavorava con noi Paolo Rossi si stupiva, con quel suo sorriso di eterno ragazzo, che la gente lo fermasse ancora alla dogana per chiedere una foto o un autografo».

E lei cosa gli rispondeva?

«Gli dicevo: ma tu non ti rendi conto di quello che hai fatto nel 1982. Tu non hai solo deciso un Mondiale, tu hai riportato gli italiani per strada dopo gli anni di piombo». 

Che lei ha vissuto da ragazzo.

«La mia generazione viene da quegli anni devastanti, le nostre mamme avevano paura a farci uscire di casa perché rischiavi una coltellata, una pallottola, di morire in piazza per una bomba. Gli azzurri di Bearzot fecero la rivoluzione». 

L'anno prossimo i mondiali...

«Sono calabrese e scaramantico non mi faccia dire niente...».

Però?

«Credo e spero sia nato un ciclo. E se vai ai mondiali a questo punto devi andare per vincerli».

E lei, fare altro? Un altro programma, andare in video...

«No, la radio è il massimo. Faccio il mestiere più bello del mondo. Non ne sogno un altro».

E da grande cosa vuole fare?

«Andare a cavallo. Ho cominciato a fare reining, sono gare da cowboy che guidano le mandrie nelle praterie del West. Fortuna che nessuno lì fa le radiocronache».

Tutto qui?

«E poi pescare per ore sulla mia barca, al largo, la radio accesa su Tutto il calcio minuto per minuto...».

·        Franco Bragagna.

Flavio Vanetti per corriere.it il 12 settembre 2021.

Franco Bragagna, pensa di essere diventato un personaggio, a maggior ragione dopo le telecronache degli ori azzurri nell’atletica ai Giochi di Tokyo?

«Un po’ sì, ma lo capisco poco. E me ne rendo relativamente conto». 

A freddo come rivive quelle emozioni?

«L’oro di Tamberi nell’alto è arrivato a ridosso di quello di Jacobs nei 100. Ha rubato spazio alla preparazione della gara regina, ma è stato bellissimo e umano, con l’abbraccio tra Gimbo e Barshim, due amici che hanno scelto di accomunarsi nel trionfo. Jacobs? Dopo il quarto di finale pensavo al podio, dopo la semifinale ho immaginato il successo».

E quando è scattato bene dai blocchi...

«Il cinese non contava, ho capito che andava a vincere. Mi sono concentrato su di lui, sul traguardo mi è venuto lo strillo “Marcello!”, quasi fossi Anita Ekberg che si rivolgeva a Mastroianni dalla Fontana di Trevi. Mi è scappato un errore tecnico: anziché “signori miei” ho detto “Signore mio”. Per non correggere, ho proseguito. Uno sbaglio: la religione va evitata».

Poi è venuto il trionfo della 4x100.

«Quando ho visto la curva di Desalu ho capito che si andava sul podio e ho commentato “sta succedendo qualcosa”. La Gran Bretagna ha cambiato meglio, ma è spuntato un Tortu diverso che ha tirato fuori tutto».

Quella della staffetta è stata la telecronaca perfetta?

«Non saprei. Un oro nella 4x100 è perfino più sensazionale perché lo vincono in quattro. Ma Jacobs con la sua impresa aveva reso meno impossibile il successo: così l’emozione è stata inferiore».

Invece l’hanno criticata perché quando ha vinto il marciatore Massimo Stano ha ignorato il titolo 2008 di Alex Schwazer. Come mai?

«Perché il mainstream segue concetti sbagliati e pompati dalla credenza fallace di altro. Ho documenti su quanto dico. C’è una sentenza nella quale lui ammette cose che poi finge di non ricordare. Schwazer ha chiuso persino con i suoi affetti, come Carolina Kostner».

Per anni ha commentato un’atletica minore: questa è una rivincita?

«Un po’ sì. Ero arrivato a parlare di “italianuzzi”, nonostante a volte spuntasse l’impresa che salvava la baracca».

Ci racconta il Franco Bragagna bambino e i sogni che aveva?

«Di madre veronese, sono nato a Padova perché papà, infermiere, purtroppo mancato a 42 anni, lavorava lì. Ci trasferimmo a Bolzano per esigenze familiari: mi ritrovai nella valle dell’Eden, mi sento bolzanino fino in fondo. Che cosa sognavo? Di fare proprio il telecronista. Amavo ogni sport, tranne il calcio anche se lo gioco ancora per divertimento. Ma dagli 8-9 anni ho pensato, vedendo le tv straniere, che l’Italia esagerasse per il pallone. E questo pur tifando per l’Inter del “Mago” Herrera».

In quel periodo c’era la Rai del Mago Zurlì, di Febo Conti...

«E di altri stupendi programmi. Seguivo tutto, era il vero servizio pubblico: molti atleti si sono dedicati allo sport conoscendolo sulla Rai. A Bolzano, però, nacque l’ente che tutelò, tramite le tv straniere, la conoscenza del tedesco: mi avvicinai così a più sport».

A Bolzano c’era (e c’è) l’hockey di alto livello.

«Per seguirlo bastava piazzarsi fuori dal palaghiaccio e aspettare un ipotetico genitore che ti portasse dentro. Grazie all’hockey cominciai con Radio Quarta Dimensione, sostituendo un amico chiamato alla naja. Avevo 16 anni, ne dimostravo la metà: il capo mi squadrò e disse “facciamo una cosa breve”. Parlai per 50 minuti su tutto lo scibile sportivo: assunto».

Ricorda la prima diretta dal vivo?

«Fu in mezzo agli ultras, con un “baracchino” pirata: improvvisai, andò bene e fui promosso radiocronista. Poi nel 1990 entrai in Rai, collaborando ancora con Telemontecarlo per gli sport invernali».

Qual è la sua hit parade dei telecronisti?

«Bruno Pizzul è un gigante. La sua attualità è ancora pazzesca: tempi perfetti sulla partita, enfasi corretta, espressioni rivoluzionarie come “folleggia in area”. Aggiungo Aldo Giordani, mito della pallacanestro: ero anche suo collaboratore a Superbasket, aspetto sempre il primo pagamento...».

Non cita Paolo Rosi?

«Non è stato un riferimento, conosceva poco l’atletica anche se pause e voce erano un proclama. Il fenomeno era piuttosto Sandro Vidrih di Telecapodistria, numero 1 pure negli altri sport».

Dov’era l’11 luglio 1982 quando l’Italia vinse il Mondiale di calcio?

«A casa mia, da solo. Vicino alla Upim di Bolzano giocavo a calcio per strada con gli amici. Poi vedevamo le partite assieme. Ma sentivo sciocchezze, per cui quel giorno mi rintanai con 3 televisori: uno sintonizzato sulla Rai, uno sulla tv tedesca e il terzo sulla tv austriaca. Volevo confrontare Nando Martellini con gli altri: ero già... un malato».

Amici e nemici: nulla da dichiarare?

«Rino Icardi mi prese sotto l’ala: noi sudtirolesi, o altoatesini che è poi lo stesso, eravamo una succursale per gli sport invernali e per quelli “indigesti”. Marino Bartoletti voleva che seguissi lo sci negli anni di Tomba, ma preferivo il fondo. Fu invece Ezio Zermiani a propormi per l’atletica. Nemici? Non vorrei citarli, ma ho superato una querela di Fabio Caressa: pratica archiviata con mia soddisfazione».

Il 5 gennaio 1991 le capitò un’esperienza pazzesca: ce la racconta?

«Non ero in turno, ma mi ci misero. Verso le 23 me ne andai e scivolai nel giro-scale esterno della redazione. Rimbalzai, rimasi semi-svenuto al freddo. Quando mi svegliai riuscii a trascinarmi giù. Ma nella memoria s’era formato un buco. Dieci anni saltati: papà era morto, io ero convinto che fosse ancora vivo. Non ho ricostruito tutto: nelle sedute psicologiche mi dissero di non farlo. La materia successiva ha costruito su quella precedente».

Lei è bolzanino della parte italiana.

«Sono però cresciuto con il figlio di un macellaio di lingua tedesca. Eravamo vicini di casa, nel cortile organizzavo le Olimpiadi rionali. Poi abbiamo praticato l’atletica — io ero una “pippa” — e giocato a calcio nella squadra di Hubert Pircher. Sono cresciuto con la visione dell’altro, oggi non è più così».

La questione sudtirolese ha generato anche fenomeni pericolosi.

«Nelle scadenze elettorali c’è chi punta su differenze che possono dare consenso. Invece ho sempre amato i rapporti interetnici: ero per Alexander Langer e quando si suicidò scoppiai a piangere sull’aereo che mi portava ai Mondiali di atletica di Göteborg. Nel mio ideale di Alto Adige una lingua vale l’altra».

Come vede l’Italia?

«Con un po’ di sufficienza, è un mio difetto. Non è vero che in Alto Adige funziona tutto, però il bilinguismo ha dato un vantaggio nella qualità della vita: si è creato un sistema sociale più vicino alla Mitteleuropa».

Quali sono le caratteristiche di un buon telecronista?

«Ciò che dici va sancito dall’interesse giornalistico; poi come lo dici, è un altro discorso. Devi raccontare con entusiasmo: se non l’hai come dote naturale, sforzati di modificarti».

Va di moda essere istrionici...

«Non lo condivido. E non sopporto né le cadenze regionali, pur amandole extra microfono, né espressioni come “i nostri” riferito agli italiani. Infine non puoi vendere per strepitosa una partita piatta: ritmo e tono di voce devono adattarsi, ricordando però che lo sport può infiammarsi all’improvviso».

Quindici presenze olimpiche: quali i Giochi indimenticabili?

«Tokyo 2020 anche per i punti negativi e i risvolti esterni di un’Olimpiade-non Olimpiade, priva di pubblico: raccontarla non è stato facile, ma è stato un privilegio. Poi Lillehammer 1994 per tanti aspetti, anche umani. Infine Sydney 2000, bella perché in pace, surreale, fuori dal mondo».

I suoi sport principali, atletica e fondo, sono stati spesso coinvolti nel doping.

«Odio l’illecito. Nella vittoria da estasi della staffetta azzurra maschile di fondo a Lillehammer c’è un dettaglio che rende tutto meno fantastico: una sentenza disse che quel gruppo usava sostanze non consentite, ma ci fu l’assoluzione perché all’epoca in Italia non esisteva una legge sul doping».

Qual è il suo campionissimo?

«Usain Bolt, il più grande. A breve distanza metto Michael Phelps: ha vinto di più perché aveva più gare».

Quale invece l’atleta sottovalutato?

«Adolfo Consolini. Ha rappresentato una storia importante anche sul piano sociale e del costume».

C’è una cosa di cui va fiero, al di là della professione?

«La vita in salita che ho affrontato e la mia famiglia. A 15 anni, morto papà, sono entrato alla Zurigo Assicurazioni, conciliando il lavoro con gli studi di ragioneria. Quanto alla famiglia, ho avuto 4 splendidi figli, due maschi e due femmine, dalla stessa donna — cosa non da poco —: ho conosciuto mia moglie facendo l’animatore in villaggi turistici della costa adriatica».

Perché si parla male della Rai?

«Perché si parla male dell’Italia. È lo specchio del Paese: è un’azienda troppo politicizzata che sconta l’idea, anche peregrina, che nell’impiego pubblico si lavora poco e male».

Come sarà per lei la televisione del futuro?

«Non lo so, ormai cambia in tempi rapidi: la prossima televisione sarà quella fruibile ovunque. Quindi più streaming e pay per view: la sacralità dei divani, che si sfonderanno di meno, è già passata».

·        Furio Colombo.

Furio Colombo, l’intellettuale ribelle finito nelle grinfie di Travaglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Gennaio 2021. Noi ex giornalisti dell’Unità – della vecchia, storica Unità dell’epoca pre-colombiana – abbiamo sempre preso un po’ in giro (dietro le spalle) Furio Colombo per la sua mania di parlare di un gran numero di personaggi storici o di divi dello spettacolo e della musica, come di suoi amici fraterni. In genere, anzi, Furio si vantava di averli scoperti lui. E noi gli ridevamo alle spalle: con simpatia, certo, anche con stima, ma considerandolo un po’ un mitomane. L’altro giorno, quando ho letto la sua intervista a Gad Lerner ho sorriso di nuovo. Iniziava con una domanda a caso: “Ti ricordi con chi hai passato il tuo compleanno dei trent’anni, il primo gennaio del 1961?” Come no? – ha risposto Furio – ero all’Hotel Nacional, all’Avana, venne a prendermi con la sua auto americana Che Guevara e mi portò a fare un giro in città con Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Francoise Sagan…Beh, il mio profondo scetticismo sulle conoscenze di Furio si è infranto un paio d’anni fa contro uno scoglio. È successo che Angela Azzaro è andata a intervistare – non ricordo più in quale occasione – il regista Giuliano Montaldo. E Montaldo le ha raccontato delle difficoltà che ebbe a girare quel film meraviglioso che fu Sacco e Vanzetti, che io vidi da ragazzo e mi commosse molto. Anche per la sua celebre colonna musicale, mi commosse: in gran parte con la voce di Joan Baez (personalmente, magari per motivi anagrafici, ho una vera e propria venerazione per Joan Baez). Montaldo ha raccontato ad Angela un episodio di circa 50 anni fa. Era andato a natale in vacanza a New York, una vacanza un po’ di lavoro perché voleva raccogliere materiale per il suo film sulla esecuzione dei due anarchici italiani. Una mattina, mentre passeggiava per Manhattan, incontrò proprio Furio Colombo, gli raccontò del film e gli disse che lui aveva un sogno: che Joan Baez incidesse la colonna sonora, ma che non aveva molte speranze e oltretutto non sapeva neanche dove andarla a cercare Joan Baez per fargli la proposta. Furio allora, con quella sua aria indifferente e vittoriosa che non ha mai perso, gli disse di passare da casa sua verso le nove di sera perché aveva Joan Baez a cena. Montaldo andò a casa di Colombo, trovò davvero Joan Baez e la convinse, anche grazie all’insistenza proprio di Furio, a cantare quelle fantastiche canzoni che ancora oggi sono rimaste nel cervello e nelle orecchie di chi ha più di sessant’anni. Così mi son dovuto ricredere. E magari è vera anche la festa dei trent’anni come l’ha raccontata a Lerner, o la corsa in macchina con Bob Kennedy verso Memphis, dove avevano ucciso Luther King, o il legame di amicizia con Bob Dylan e con Allen Ginsberg. Però…Ecco, il però è molto semplice: Furio Colombo non è solo il prodotto delle sue conoscenze, come talvolta, mi pare, piace anche a lui far credere. Colombo è Colombo. Un personaggio un po’ particolare, un cervello molto attivo, acutissimo, un impasto di conformismo e anticonformismo, di radicalità e moderazione, di sinistra e padronato, di modernità e di antico, di sessantotto e anni trenta. Furio Colombo ieri ha festeggiato i suoi 90 anni. È nato il primo gennaio del 1931 in Valle d’Aosta, in una famiglia con forti radici ebraiche e che come tutte le famiglie ebraiche visse in modo tragicissimo le persecuzioni razziali e lo sterminio. Faceva la terza elementare, Furio, quando scattarono in Italia le leggi razziali e iniziò la discriminazione antisemita, anche nelle scuole dei bambini. Diventò grande presto, iniziò a lavorare prestissimo, entrò in Rai vincendo un concorso a poco più di vent’anni, fece amicizia con grandi futuri personaggi dell’intellettualità italiana, in particolare con Umberto Eco. Poi iniziò la sua vita culturalmente e professionalmente avventurosa che lo portò a ondeggiare tra gli Agnelli e l’estrema sinistra. Il Gruppo 63, innanzitutto. Che fu la prima e forse unica rivolta di intellettuali nell’Italia del 900. Erano quasi tutti giovani tra i trenta e i quaranta. Con Furio c’erano Eco, Arbasino, Gigi Nono, Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Angelo Guglielmi, Enrico Filippini, Sebastiano Vassalli e moltissimi altri più o meno famosi. Si ribellavano alla cultura di regime, agli intellettuali e agli artisti inquadrati nella politica, o nella moda, o nell’ideologia del non ti disturbo. Ebbero un certo peso nel modificare l’asse di equilibrio dell’intellettualità italiana. Anche se tra loro non c’era nessuno dei mostri sacri, che restarono comunque isolati e divini mostri sacri: Pasolini, Moravia, Morante, Sciascia, Calvino, Guttuso, e poi i filosofi e gli economisti. Però il gruppo ‘63 diede una scossa. Inventò qualche rivista, sicuramente di élite ma fastidiosa, come ad esempio “Quindici”, stampata, se non ricordo male, quasi in cartoncino, e con pagine enormi che si piegavano in quattro o anche in otto e per leggerla ci voleva la scala e una stanza grande. Aprirono uno spiraglio, credo, al sessantotto, che arrivò cinque anni dopo e li travolse. Poi Furio viaggia tra impegno culturale e rapporti con la grande industria. È eclettico da tutti i punti di vista. È l’uomo di Agnelli, ma già alla fine degli anni sessanta è vicino ai gruppi extraparlamentari. Cammina a fianco del partito democratico americano, di Israele, dei grandi editori italiani, ma resta sempre impegnato a sinistra. Dov’è il vero Colombo? Io credo di saperlo. Furio è l’espressione – una delle migliori espressioni – di quella crema inquieta della borghesia italiana (della borghesia del Nord) che è stata l’anima della prima Repubblica. E che ha sparigliato le carte, gli schieramenti, anche i pensieri. La prima Repubblica si reggeva su due pilastri storico-sociali: la borghesia e la classe operaia. Però è più giusto dire: la borghesia e il movimento operaio. Erano due giganti in conflitto perpetuo, ma che si corteggiavano, si studiavano, si concupivano, talvolta si imitavano. Sapevano darsi grandiose legnate e far finta di niente. Pensate all’autunno caldo, quando il movimento operaio (siamo nel ‘69) all’improvviso attacca e travolge le prime file della borghesia, guadagna spazio, egemonia, influenza e anche soldi e potere. Si avvicina al fortino del potere. Tra il ‘69 e il 72 i contratti dei metalmeccanici sono un bagno di sangue per la borghesia, la quale reagisce in due modi: con la sua ala reazionaria che si incattivisce e ricorre alla violenza e anche al delitto (piazza Fontana) e con la sua ala progressista che fa da ponte col movimento operaio. E cerca di usare la forza del movimento operaio per stabilizzare e conquistare nuovi equilibri, e riaffermare però l’egemonia borghese. Furio è lì. Negli avamposti della borghesia. Che un po’ son fedeli ad Agnelli un po’ vagheggiano il socialismo. Quale socialismo? Un socialismo ragionevole, pacato, senza conflitto: quello di Adriano Olivetti. E così succede che, scossi dalle ondate della politica e della storia, queste avanguardie si trovano ora alla sinistra ora alla destra del Pci e del movimento operaio, senza mai però mischiarsi ma senza mai rompere. Poi tutto cambia negli anni novanta. Il movimento operaio si ritira sotto i colpi durissimi della globalizzazione, della tecnologia e del reaganismo. Perde tutte le partite. Si acquatta. E la borghesia, che ha guidato la Grande Italia della prima Repubblica, viene rasa al suolo dalla magistratura. Si salva qualche frangia, ma deve accucciarsi dietro le toghe dei Pm. E poi vien fuori Berlusconi, che assume la leadership dei moderati, ma non è più il rappresentante della borghesia. Anzi, si trova contro un pezzo fondamentale della borghesia. Che non riuscirà mai a conquistare. E allora cambia anche la natura della sinistra. E Furio inizia a sentirsi a suo agio. Avete presente quel momento nel quale il conflitto di classe viene sostituito dal conflitto giudiziario? E l’orizzonte della sinistra sfuma dal colore rosso del socialismo all’incerto colore del tribunale? Non c’è più Trentin, ci sono Di Pietro e Borrelli. Non c’è più il partito, ci sono i girotondi, guidati da Nanni Moretti e poi molto presto da Flores, dallo stesso Travaglio, infine dal popolo Viola, poi da Grillo. La frontiera non è più la giustizia sociale: è l’antiberlusconismo. La guida della sinistra passa dalle mani dei vecchi intellettuali comunisti e crociani a quelle più veloci e spicce dei borghesi di sinistra. C’è la trasmutazione genetica. Con tutti i suoi effetti secondari. da Marx a Torquemada il passo è lungo. Eppure dura poche ore. Colombo, in questo marasma, resta a suo agio finché ha un suo strumento per le mani. Proprio suo: l’Unità. La usa come vuole, aggrega forze, idee, la allontana dalle vecchie tradizioni comuniste e operaie. Pensa di poterla dominare e tenere nel solco della sua cultura. Assume Travaglio, che è un ragazzo di destra estrema, ma non ne ha paura. Sbaglia. Il sogno dell’Unità sfuma e Furio, con il suo enorme patrimonio culturale e di idee, finisce prigioniero dei mostri che ha contribuito a creare. Travaglio, Grillo, i vaffanculo, un giornale e un gruppo politico dominante nel quale dilaga il linguaggio scurrile, la xenofobia, il governo giallo verde. Forse ha pagato un prezzo troppo grande alla sua spregiudicatezza intellettuale. Forse l’aveva messo nel conto. Quel che è certo è che in questi settant’anni di attività ha dato un gran contributo alla cultura di questo paese. Cosa sarebbe stata l’Italia senza la borghesia illuminata? Quanto ci manca la borghesia illuminata? Tanto: e preghiamo per lei che riesca al più presto a liberarsi dalle catene dei Travaglio, dei Flores, dei Caselli, dei Gratteri. E tornare all’inizio: a Eco, a Balestrini.

·        Gad Lerner.

Qabalah, salotti buoni e falafel. Il finto "reietto" in prima fila. Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 22 Agosto 2021. Ebreo, laico e di sinistra: ha tutte le fortune ma si lamenta. Contro il potere, ha avuto i massimi poteri giornalistici. Narra una leggenda metropolitana che negli anni duri e puri della giovinezza Gad Lerner ebreo di sinistra con un rapporto tormentato, diciamo così, con le proprie origini - in una delle tante manifestazioni dell'epoca sotto il consolato di Israele a Milano, si ritrovò a urlare per ore, assieme ai suoi compagni filopalestinesi, «Israele, Israele sarai distrutto!». Dalle finestre del consolato assistevano alla scena il console Daniel Gal e la sua segretaria: l'imbarazzatissima mamma di Gad. «Lo so, è mio figlio, ma non posso farci niente», ripeteva sconsolata. Gad è così. Non possiamo farci niente Irredimibile, impronunciabile. Gast Leicester, Gas Lester, Gar Lerder. Beppe Grillo lo chiama Gad Vermer, o Gad Merder, pessima battuta dalla quale ci dissociamo. E comunque si dice Gad Eitan Lerner, giornalisticamente semplicemente «Gad». Pietista più che buonista (e forse è peggio), elitario ma non elitista (per quanto la sua cantina in Val Cerrina, Basso Monferrato e alto tasso alcolico, produca ottimi Nebbiolo e Barbera), più che moralista matrimonialista (due mogli, cinque figli), aziendalista più che operaista (nel senso che si trova meglio coi padroni che con quei pezzenti di salariati che gli rinfacciano persino un orologino da 15-18mila euro), semiologo più che semita (richiestissimo nei corsi di laurea in Scienze della comunicazione), Gad Lerner bersaglio incolpevole del peggior nazileghismo etnico e del più spietato berlusconismo mediatico è stato per anni vergognosamente accusato di colpe tanto spaventose quanto inconsistenti. Esempi. Di avere una casa a Portofino, quando ci andava solo per vacanza, e neanche gli piaceva: «Ci sono i Bevlusconi, che pacchianata Guavda, vengo qui, ma contvovoglia». Di essere di casa a Capalbio, dove invece è stato pochissime volte, e semmai sotto gli ombrelloni degli altri, i suoi amici, Ultima spiaggia e sempre primi della classe. E soprattutto di vestire di tweed «Che volgavità» - quando d'estate al massimo sceglie costosissimi abiti di lino. E tacciamo delle pretestuose critiche di faziosità. Ma questa Italietta cattiva, livorosa e reazionaria non può durare a lungo! Infatti resisterà molto meno della fulgida, lucrosa e sefardita carriera di un incrollabile intellettuale, apolide e poliedrico, prestato al giornalismo («Non si presta nulla, semmai si vende» è un antico insegnamento ebraico). Che poi, è curioso: i massimi splendori mediatici, e incarichi e direzioni e programmi tv, Lerner li ha avuti sia dalla sinistra tronfia di sentirsi superiore sia dalla destra che gode nel sentirsi inferiore, durante il liberticida ventennio del Cavaliere. Mai sotto una dittatura sono fiorite così tante redditizie carriere d'opposizione. Recita un proverbio yiddish: «Sulla porta del successo troverai due scritte: ENTRATA e USCITA». C'è chi s' imbatte solo nella prima. Gad, in ebraico, significa «buona sorte». L'infinita biografia di Gad Lerner nato a Beirut da famiglia ebraica ma residente a Milano sin dall'età di tre anni, una diaspora ma anche una disperazione (qabalah, kibbutz, liceo Berchet e un unico ghetto: quello interista) è più corposa del Talmud. Ebreo, laico e di sinistra (tre cose molto utili in Italia, soprattutto l'ultima) Gad Lerner è indubitabilmente una delle firme nobili del giornalismo e uno dei conduttori più apprezzati della televisione - e per chi lo nega invochiamo la legge Mancino - inventore di format che hanno fatto la storia dell'informazione italiana. Ovunque lui porta rivoluzione e passione. Sturm und Gad. Più portato alla contestazione che all'osservanza, più osservante dei Quaderni di Avanguardia operaia che della Torah, antisionista il giusto, il giovane Gad - detto Gaddino dai compagni di lotta e falafel - si avvicina al giornalismo grazie alla formativa esperienza di Lotta Continua, una sorta di Master in Comunicazione sociale dell'epoca, molto esclusivo. Lettera 22 per dettare ideologicamente la linea e Hazet 35 per educare chi non la segue. Ragazzi che volevano fare la rivoluzione e finirono tutti nei giornali dell'establishment Piombo, ciclostile e contratti d'oro. Da lì la scalata alle testate Salonkommunist: Il Lavoro di Genova, Radio Popolare, il manifesto, L'Espresso. La gioventù è un errore, la mezza età una battaglia, e la vecchiaia un rimpianto. La mezza età Gad Lerner la combatte in tv. Negli anni '90, tempi di Lega, federalismo e terùn, su Rai3 affronta la questione settentrionale con Profondo Nord e Milano, Italia, poi passa alla Stampa degli Agnelli la nomina a vicedirettore arriva il 1° maggio, festa dei lavoratori: falce e occhiello - quindi al Corriere della sera, di nuovo alla Rai dove nel 2000 è nominato direttore del Tg1, da cui deve dimettersi per un infortunio professionale ma - ex malo bonum subito dopo partecipa alla fondazione di La7: dirige il tg, fa da sparring partner a Giuliano Ferrara a Otto e mezzo e conduce per dieci anni L'Infedele. Intanto collabora con Repubblica e Vanity Fair. E per favore non tiriamo fuori le vecchie storie dei giri in elicottero con l'Avvocato Agnelli e le gite sullo yacht dell'Ingegnere De Benedetti. Una volta ha detto: «La razza padrona la si riconosce a pelle». Nel suo caso di Louis Vuitton. La Sinistra migliore è sempre quella senza operai. Azionismo torinese e azionariato diffuso, esclusivo «Toscano del Presidente» tra le labbra e idee populiste bene in testa, oltre a un consolidato rapporto di stima reciproca col padre Moshé, Gad Lerner - chutzpah e spigolosità - ha un pregio indiscusso. Sentirsi sempre dalla parte giusta, senza mettersi mai in discussione. Che è molto consolatorio. Puerile, ma consolatorio. Walter Veltroni ha detto di lui: «Che sia cattivo non credo sia una novità, credo sia la sua prevalente natura». Beffardo in video, stizzito sulla carta, Gad Lerner affronta i grandi temi dell'attualità - i conflitti religiosi, la questione dell'immigrazione, la Shoah ma soprattutto il razzismo di Matteo Salvini, Armageddon e origine di tutti mali dell'umanità offrendo soluzioni sempre radicali. Lerner ricorda un po' - al netto degli «occhi affossati e infocati» e il «sogghigno di compiacenza diabolica» - il Vecchio malvissuto di manzoniana memoria che vuole inchiodare alla porta lo sventurato Vicario di Provvisione. Contro coloro che si ritengono causa di ingiustizie, così ha insegnato il Sessantotto, non si deve andare troppo per il sottile. E per quanto riguarda il tema del garantismo, è indubbio che ultimamente Lerner, il Moshe Dayan del giornalismo italo-israeliano, si sia fortemente intravaglito. A proposito. A lungo firma tanto prestigiosa quanto costosa di Repubblica, Lerner ha lasciato il quotidiano per due volte. La prima nel 2015 perché l'editore non gli riconosceva «compensi adeguati alle prestazioni professionali». Lo pagavano troppo poco insomma. #largoaigiovani. La seconda, definitiva, nel 2020, formalmente per protesta contro il passaggio della testata da De Benedetti alla nuova GEDI degli Agnelli-Elkann, in realtà per migrare al quotidiano di Marco Travaglio, house organ dei Cinque Stelle. Qualcuno lo ha accusato di tradimento. Per noi, è assolto. Il Fatto non sussiste. E per il resto editoriali, Nigrizia, podcast, bestseller, blog e Laeffe alla fine Gad Lerner è sempre in prima fila. Immarcescibile. Come ha scritto uno che lo ha conosciuto bene, il suo amico arcinemico Giuliano Ferrara: «Gad lo trovo opportunista, vile, corrivo, obliquo, venato di una certa infamia da primo della classe e delatore del vicino di banco, ma anche intelligente, colto, curioso, vitale». Il guaio è che non si tratta di un pregiudizio. Ma di un complimento.

L'ignoranza del "Fatto". Luigi Mascheroni il 24 Agosto 2021 su Il Giornale. Ci risiamo. Appena si tocca Gad Lerner scatta automatica l'accusa di antisemitismo (e non si sa se più pretestuosa o più idiota). Ci risiamo. Appena si tocca Gad Lerner scatta automatica l'accusa di antisemitismo (e non si sa se più pretestuosa o più idiota). Domenica su queste pagine è stato pubblicato un ritratto di Gad Lerner a mia firma, all'interno di una serie dedicata a personaggi molto famosi e molto mediatici intitolata «Gli insopportabili». Un modo, ironico e leggero, per provare a svelare piccoli vizi e curiose contraddizioni di certa Sinistra italiana. Nulla più che un divertissement estivo. Abbiamo scritto di giornalisti, influencer, professori universitari, politici, scrittrici, maschi, femmine, forse anche omosessuali chissà, e cattolici, atei, narcisisti... Nessuno ha detto o replicato alcunché. Ora è toccato a Gad Lerner e ieri subito il Fatto quotidiano ci ha addirittura accusati di rilanciare «note fisiognomiche» antisemite perché in un passaggio paragonavo l'ottimo giornalista italo-libanese (di cui abbiamo riconosciuto fortuna e successi ma di cui abbiamo anche sottolineato certe, diciamo così, spigolosità) al «vecchio malvissuto» dei Promessi sposi. Spiace per gli amici del Fatto, che non hanno letto Manzoni, ma il «vecchio malvissuto» non è per nulla ebreo. Ma un anziano milanese. Come tanti. Manzoni lo cita senza alcuna distinzione di razza (che poi le razze non esistono), di sesso, di religione o di simpatie politiche. Magari era anche un reazionario, chi può dirlo? Se i colleghi del Fatto nella descrizione che fa il Manzoni del «Vecchio malvissuto» vogliono vederci un ebreo - spiegaglielo tu, caro Gad, che conosci il Manzoni e gli ebrei - è più probabile che gli antisemiti siano loro.

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi

·        Giampiero Galeazzi.

Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport” il 10 agosto 2021.

ATTO PRIMO. Immenso Giampiero, in tutti i sensi possibili. Il bisteccone più amato nella storia delle bistecche umane. Intervista in 3 round e 3 atti sulla scia dello stordente happening che accade in tempo reale a Tokyo. Mi parla dal divano di casa. Non lo vedo, ma è come se lo vedessi. Un’immagine lirica che infonde pace, anche oggi che è malato, con il suo diabete, la protesi al ginocchio, la difficoltà a camminare e i chili addosso che sono sempre tanti, troppi. La voce è quella che è, quella che resta, di un personaggio omerico. L’amabile orco faceva tremare le case degli italiani con la scusa dei fratelloni Abbagnale. Ci strappava di peso dalle case e ci portava dentro le cose. Che fossero gare, eventi, sketch, persone. Oggi i suoni si fanno largo a fatica. Qualche volta si spezzano lungo la strada. Ma la mente è più lucida che mai, i pensieri sferzanti. Lo slang romanesco traccia sintesi inesorabili. È come se fossi lì, sono lì, seduto al suo fianco, nella sua casa romana, a sbirciare i Giochi, tra l’avido e l’annoiato. Di questo Falstaff contemporaneo, che ha stravissuto, stramangiato, strabevuto, stragoduto, qualche volta straparlato. Gli sto accanto e sento di volergli bene, a questo smisurato omone, ostaggio di un mondo che aveva solo sapori e ora ha solo languori. 75 anni e non un solo giorno sprecato a contemplare ciò che era possibile vivere.   

Come te la passi Giampiero?

“Sto a pezzi, sto qui piegato in due sul divano, dopo la fisioterapia…”. 

Vuoi che rinviamo?

“Ma no, famola adesso, che poi devo stare con mio figlio…”. 

Li stai seguendo questi Giochi?

“Abbastanza. Sai, dovendo stare a letto tutto questo tempo. Ho difficoltà serie di deambulazione. Cammino a fatica. A giorni vado, altri no”. 

Come li stai vivendo?

 “Sono partiti a fari spenti con questo Covid. Mettiamoci al posto degli atleti. L’incertezza. Li fanno o no? Molto duro, dal punto di vista psicologico e della preparazione. Pensavo che li rimandassero. I giapponesi non li volevano”. 

Giusto non rimandarli?

“Sarebbe stato meglio evitare tutto questo gigantismo. Se ne poteva fare a meno di tutte queste discipline da esibizione, lo skateboard, il surf, l’arrampicata. Hanno portato 340 persone. Sai quanti eravamo noi in Messico?”

No.

“Quasi la metà, 180. No, non mi sarei allargato così, viste le circostanze…”. 

Sei andato come riserva del canottaggio.

“Amo lo sport e lo odio per questo motivo. È stata la più grande delusione della mia vita. Meritavo di essere titolare”. 

Ti brucia ancora?

“Mi brucia più di prima. Se ci penso divento idrofobo. Una delle più grandi ingiustizie sportive di sempre. Fosse stato oggi sarei andato in automatico e m’avrebbero portato le valigie. C’era un discorso politico sotto, il rapporto tra società e Coni. Se ero dell’Aniene andavo con la tromba”.

Tanti, forse troppi, a Tokyo, ma vincenti. E che vittorie!

“La vittoria di Jacobs sui 100 metri è tecnicamente la sorpresa maggiore. Un italiano sul podio più alto. Inimmaginabile. M’ha emozionato Tamberi. S’è portato il gambale dell’operazione come un totem e se l’è messo vicino all’asticella. Roba da pazzi. Solo l’assurdità dello sport può questo. Recuperi e vittorie miracolistiche”.

Mai visto Giovanni Malagò così commosso.

“È un combattente, un uomo che non s’è mai tirato indietro. S’è messo sulle spalle tutto il mondo sportivo, contro i politici che non lo possono vedere”. 

Malagò, bravo e fortunato

“C’ha un culo grande cosi, ma se lo merita tutto”. 

Vuole vincere ancora, è insaziabile.

“Ha imparato da Agnelli e da Montezemolo”.

Che altro ti ha emozionato?

“Le medaglie di Paltrinieri e l’oro delle ragazze del canottaggio femminile. Queste sono due ragazzine di Varese hanno sfondato ogni pronostico. Hanno fatto una cosa straordinaria. Erano quarte ai 200 metri…”. 

Giampiero telecronista a Tokyo: cosa ti sarebbe piaciuto raccontare, canottaggio a parte?

“Famme pensa’…Io ho cambiato lo stile d’interpretare il racconto dello sport. L’atletica leggera non è nelle mie corde. Mi sarebbe piaciuto raccontare i tornei oscuri che nessuno guarda, quelli sulle pedane, i tappeti, la lotta, queste cose qua”. 

Il tennis?

“Il tennis non fa parte delle Olimpiadi. Lasciatelo a Wimbledon, Roland Garros. Quello è il suo mondo, la sua liturgia. Il tennis all’Olimpiade è uno sport clandestino”. 

Più emozionato per i due ori in sequenza dell’atletica o la vittoria della Nazionale agli Europei?

“I due ori dell’atletica, senza dubbio alcuno”.

Insinuazioni malevoli sulla vittoria di Jacobs.

“Quello che ci hanno fatto gli inglesi dopo il calcio era roba da chiudere le ambasciate. Hanno rifiutato le medaglie, ci hanno sputato in faccia. Noi italiani non siamo molto amati all’estero per la brutta nomea. Hai visto Cuomo?”. 

Cuomo, il sindaco di New York?

“Lo stanno massacrando solo perché è italiano. Non contano nulla tutte le cose grandiose che ha fatto, prima da governatore, poi da sindaco”. 

Insomma, solo invidia e maldicenza su Jacobs?

“Non credo proprio che sia dopato. Questi poi stanno sempre sotto osservazione. Stiamo parlando di un italo-americano, un dna speciale. Ha vinto con una spontaneità impressionante. Noi, se togli Berruti e Mennea, certi ori dell’atletica l’abbiamo sempre visti dal buco della serratura”. 

Come ti sembra la copertura Rai dei Giochi?

“Abbiamo una buona scuola di base. Abbiamo sempre fatto bene alle Olimpiadi. Il Migliore? Bragagna con l’atletica. Bene anche il nuoto. In altri sport ci siamo arrangiati con i tecnici, cui manca però il senso del racconto, cioè tutto. Mi sono piaciute le donne a Tokyo, nei commenti e nelle cronache”. 

Guardi al passato?

“Mai guardato al passato. Non ero mai stanco. Una furia. Adesso mi sono fermato. Torno indietro con la mente”. 

E?

“Mi pesa  il distacco dall’ambiente lavorativo. Mi manca quella cosa lì. Prima sei un ufficiale a cavallo, poi non sei nemmeno un fante pedestre”. 

Maradona era un tuo amico. La sua morte?

“Era finito in brutte mani. Sfruttato da tutto l’ambiente, parenti e amici. Anche i medici. Si sono buttati addosso come le cavallette per aiutarlo, invece l’hanno ammazzato”. 

Hai avuto dalla Rai quello che meritavi?

“Mamma Rai ti dà e ti leva. Io sono stato fortunato perché a un certo punto ero come Baudo e Martellini messi insieme. Spettacolo e sport. Ho spinto troppo. Dovevo fermarmi prima e pensare un po’ alla carriera”. 

Invidia suscitata?

“M’hanno fatto veramente di tutto. Puoi immaginare..”. 

La più difficile da sopportare?

“M’hanno tolto il canottaggio due anni prima, di andare in pensione. Un dispiacere enorme. Diceva Lello Bersani: tutto è permesso in Rai fuor che il successo, Ho pagato questo. Andavo tra la gente e sembravo l’apostolo. Sempre dritto come un treno, mai fregato niente dei detrattori. Trovo solo ingiusto che alcuni devono andare in pensione a una certa età e altri invece…”.

Un esempio?

“Bruno Vespa.  Direttore megagalattico, per carità, ma non c’entra. Lo stesso Marzullo”. 

Ha annunciato l’addio anche Paola Ferrari. Ne sentirai la mancanza?

“Non molto. Ci ho lavorato parecchio insieme. Ultimamente era molto migliorata. È sempre stata troppo invadente. Monopolizza lo spazio, ha prevaricato il suo ruolo. Prima non si preparava, ora aveva imparato a farlo”. 

Il tuo erede?

“Mah, dicono tutti questo Pardo. È intelligente, bravo, ma fa troppe cose, lo vedo ovunque, così si perde… Sentiamoci domani, respiro male”. 

Come va la gamba?

“Sto cercando di recuperare dopo l’operazione a Bologna di cinque anni fa. La protesi al ginocchio ha portato a mille tutte le mie problematiche, la pressione sanguigna alta, la glicemia alta, il diabete, l’aritmia cardiaca”. 

Hai vissuto troppo generosamente.

“Il ginocchio è la mia croce, me lo so’ rotto a 25 anni. Me l’aveva detto Greco, il mitico massaggiatore del Coni: “Non te fa’ tocca mai...sfiammi, fai ginnastica, creme, massaggi”. 

Tornassi indietro?

“Non mi opererei di certo. Non mi fossi operato, oggi sarei salvo, pigliavo il bastone e chi se ne frega…”. M’ha dato più problemi che vantaggi questa protesi. E poi, ho fatto troppo sport…”. 

Lo sport fa male a certi livelli.

“Non c’è dubbio. Pensavo che facendo più sport avrei tenuto al riparo la muscolatura, la circolazione. Sbagliavo. Devi preservare il tuo equilibrio interno”. 

Esempio?

“Se fa il tennis non puoi fare il sollevamento pesi. Fa male assommare le cose. Io giocavo a pallone, a tennis, remavo, facevo la pallavolo, adesso il risultato è che sto piegato in due e sto respirando male”. 

Eccessi di cibo.

“Tu sai benissimo com’era la nostra vita in giro per il mondo. Tornando indietro, starei più attento non tanto al mangiare, ma a prendere più spazio per la mia vita privata. Per me e per la mia famiglia. Facevo tutto, andavo dovunque, mondiali calcio, tennis, motonautica, ciclismo”. 

Sei migliorato con il peso?

“Un po’ so sceso. Oggi sto sui 150 chili. Questo non m’aiuta”. 

La vita merita di essere vissuta?

“Assolutamente sì, sempre”.

Spiegandola a un ragazzo che non la pensa così?

“Dietro ogni ostacolo che affronti, scopri cose nuove di te, nuove energie, nuova vita, senza mai spegnersi, sempre all’attacco”. 

Campioni che si ostinano. Ha annunciato l’addio Valentino Rossi.

“I grandi campioni sono immortali. Alcuni soffrono la mancanza di cultura, la scarsa capacità di adattamento. Guarda Totti, immenso in campo, il più grande calciatore italiano, ma fuori dal campo lo vedo in difficoltà”. 

Il più grande sportivo mai raccontato?

”Maradona, senza dubbio. Di Federer ho fatto in tempo a raccontare solo gli inizi”. 

Il più grande telecronista italiano di sempre?

“Paolo Rosi è stato il primo telecronista moderno. Ma il più grande di tutti è stato quello della televisione svizzera…adesso m’è passato di mente il nome”.

Quando sei solo, il tempo che passa, gli acciacchi che aumentano, ha paura di quello che ci sarà o non ci sarà dopo?

“Non ancora. m’affaccio al balcone tranquillamente. Non mi butto di sotto”. 

Quando devi dire grazie a qualcuno

“A mia moglie Laura che per trent’anni ho visto poco per la mia vita esagerata, ma ha tenuto da sola in piedi la famiglia”.

ATTO SECONDO. Mi parla questa volta dalla terrazza di casa. Su una sedia di legno. In bermuda e dentro una canotta extralarge. Tre x. Prende il sole. Di ottimo umore. La voce è tornata bella e potente. Quella di sempre. Mi chiama.

“Aho, qui dovemo cambia’ tutta l’intervista.” 

Perché, che è successo?

“Ma come, non lo sai? Ma che stavi su Marte? Avemo appena vinto anche l’oro nella 4 x 100 uomini. Una pazzia. È come ave’ vinto la guerra”. 

Tornavo da Marte. Dici sul serio? Non ci credo.

“Incredibile. Qui piovono medaglie da tutte le parti. Tocca mettese l’elmetto…”.

Richiamami domattina alle 10 che dovemo cambia’ tutto”. 

ATTO TERZO. La voce è tornata debole. Parla a fatica di prima mattina dal letto di casa.  “Ho dormito male. Non riuscivo a respirare bene”. 

Sono le notti difficili di chi ha troppa vita alle spalle e troppa carne addosso. (qualcosa tra un grugnito e un sospiro)

Tornando all’ultima follia di questi Giochi, l’oro della 4x100.

“Ci ho ripensato. L’immagine più bella dei Giochi? La corsa in ottava corsia di Filippo Tortu. Lui lì era al bivio della sua storia di atleta: se perdeva era la fine per lui. Ha vinto contro tutti, ha vinto pure contro Jacobs…Ho rivisto il Mennea di Mosca, la corsia era la stessa”.

Ha vinto contro Jacobs?

“Jacobs l’aveva cancellato, l’aveva sportivamente ammazzato. E mi sa che tra i due c’è pure un po’ di freddo, non si prendono tanto. L’ho capito dalle interviste dopo l’oro. Filippo era un po’ sulle sue quando gli chiedevano di Jacobs…”. 

C’è stata poi la rosicante replica della vittoria sugli inglesi.

“Lì per lì non c’ho pensato. Era un’impresa di portata mondiale. Poi ch’ho pensato e ho concluso che noi siamo veramente superiori agli inglesi…E comunque, mi raccomando, scrivi della frazione di Filippo Tortu. Tutto il resto è noia”. 

Il tuo podio finale?

“Sul gradino più alto ci metto l’oro sui centri metri, al secondo la staffetta 4 x 100, al terzo ex aequo Tamberi e le due ragazze del canottaggio. Se resta uno strapuntino gli ori della marcia”. 

Chi t’ha messo il nome “Bisteccone”?

“Gilberto Evangelisti. Al nord sarebbe considerata un’offesa, ma da noi è affettuoso”. 

Tornerai in tivù?

“La mia amica Mara m’aveva proposto una rubrica tipo “La posta degli innamorati”, ma le ho detto di no, non c’ho più lo spirito pe fa’ ‘ste cose. Io e lei eravamo una bomba in tivù. Funzionavamo sul piano fisico…”. 

S’è fatta pienotta anche lei.

“A Mara je piace magna, cucina bene, io ne so qualcosa. Sai, il fatto di abitare da tanti anni a Campo de Fiori aiuta, la pasta la fa bene”.

Stavolta ci salutiamo davvero…

“Ah no, aspetta, me so ricordato il nome del telecronista più grande di sempre. Giuseppe Albertini, quello della televisione svizzera. Nessuno come lui.

·        Gianfranco Gramola.

Da Sordi a Manfredi a Brigitte Bardot. Il record di 921 interviste ai vip firmate da Gianfranco Gramola. Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2021. Per Nino Manfredi suonò semplicemente il campanello. «Avevo trovato l’indirizzo sull’elenco telefonico, con il nome di battesimo: Saturnino». Gli aprì la governante. «L’attore era in pausa e mi invitò a vedere il giardino. Restammo a chiacchierare per un’ora». Giulio Andreotti, invece, lo intervistò tre volte: «Per posta, via fax e via email. La prima annotai le domande su un foglio e spedii la busta: lui sulla stessa lettera scrisse le risposte e me le rimandò indietro». Claudia Cardinale lo chiamò una sera a casa da Parigi. «Per raggiungerla avevo contattato una nipote su Facebook».

Dalla drogheria alle interviste ai vip

Gianfranco Gramola, 64 anni di Mezzolombardo, in Trentino, è il prezzemolino di cui in certe barzellette si sarebbe detto: chi è l’uomo vestito di bianco accanto a lui in piazza San Pietro? In realtà, pur non essendo iscritto ad alcun albo giornalistico, ha al suo attivo una produzione di interviste straordinaria: 921, tutte orgogliosamente non retribuite. Perché il lavoro «vero», che gli ha pagato lo stipendio per 43 anni, è quello di commesso in drogheria. «All’inizio le scrivevo per il Rugantino, periodico in romanesco. Poi nel 2005 ho creato il mio sito internet, , dove ho raccolto quelle già pubblicate e dove ho cominciato ad aggiungere le nuove, fatte solo per passione», racconta per telefono mentre snocciola nomi di personaggi di cui talvolta si fatica a contattare anche solo l’ufficio stampa. Eppure, per esempio, è proprio a lui che Brigitte Bardot a febbraio ha scritto di suo pugno risposte che gli assistenti gli hanno inviato per email, con gli originali in allegato.

Gli attori trovati sull’elenco telefonico

A tutti chiede una foto ricordo con dedica, ma con Carlo Verdone l’emozione gli tirò uno scherzetto. «Aveva accettato di incontrarmi a Roma il giorno del mio anniversario di matrimonio. Ero con mia moglie e me ne scordai. Avevo già intervistato il padre, il grande Mario». Molte interviste sono arrivate grazie all’elenco telefonico. «Gigi Proietti lo trovai cercando la moglie Sagitta: mi accolse fuori dalla porta in ciabatte». Alberto Soldi lo rimbalzò di qualche ora, al telefono, perché doveva andare a mangiare il cocomero a Fregene. «Lì il gancio era stato Mimmo Pertica. Quando riuscii a parlarci mi bloccò: ”Ma perché mi dai del lei?”. E io: “Non posso il tu, lei è troppo grande”. E lui: “Fa’ come te pare, Gianfra’...”». Con Vittorio Gassmann, invece, non insistette: «Pure lui lo trovai con la moglie, sull’elenco. Ma quando mi rispose era così giù di corda che preferii non disturbarlo più».

Un libro e il Guinnes dei primati

Nel 2015 a Roma gli è stato consegnato il «Premio Simpatia in Campidoglio». E anche quella è stata l’occasione per concordare una nuova intervista con un altro premiato, Dino Zoff. «Il mio sogno è raccoglierle tutte in un libro: Enrico Vanzina mi ha già detto che scriverà la prefazione. Prima, mi piacerebbe intervistare di persona Francesco Totti, Mara Venier e Alba Parietti». C’è infine il Guinness dei primati, che aspetta: «Devo raggiungere quota mille, tutte senza scopo di lucro!».

·        Gianni Brera.

Vittorio Feltri, liti e pranzi riappacificatori con Gianni Brera: "un uomo di cui sarà difficile se non impossibile avere in futuro una copia". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 21 luglio 2021. È in uscita un libro di Franco Brera (Mai paura, Cinquesensi editore), figlio di Gianni, artista della penna che si distinse nella narrazione epica di vicende sportive. È piacevole e commovente scoprire l’intimità anche famigliare di un gradissimo giornalista, paragonabile a Montanelli per abilità e inventiva. Il fatto che sia un suo erede diretto a raccontarlo con affetto e ammirazione aumenta l'interesse verso un personaggio inimitabile quanto a scrittura e inventiva. Secondo me Gianni Brera, sebbene stimato da un pubblico colto amante non solo dello sport ma pure delle belle lettere, è stato sottovalutato dalla critica e dal grande pubblico, benché il suo nome fosse conosciuto dalle folle incapaci di cogliere certe raffinatezze stilistiche. Bravo il figlio Franco a riproporci il suo papà nel modo giusto, un uomo di cui sarà difficile se non impossibile avere in futuro una copia. Col quale io ebbi un rapporto altalenante tuttavia sempre improntato ad ammirazione. Nel 1988 litigammo brutalmente. Egli voleva con l'appoggio di Paolo Pillitteri, allora sindaco di Milano, che le successive Olimpiadi si svolgessero a Milano. Io non ero d'accordo perché il capoluogo lombardo, avendo subìto la devastante nevicata del 1985, era rimasto privo di strutture idonee a una manifestazione mondiale. Il Palazzo dello sport era crollato, il Vigorelli molto danneggiato, non esistevano né uno stadio in grado di ospitare gare di atletica né una piscina di dimensioni adatte a competizioni internazionali di nuoto. Tutte queste osservazioni le pubblicai sul mio giornale, il Corriere della Sera, in risposta a coloro che appoggiavano la candidatura di Milano per i Giochi che si sarebbero svolti 4 anni dopo. Tra l'altro, in quel periodo, mi trovavo a Seul dove erano in corso le gare dei cinque cerchi. Quando uscì il mio articolo critico, Brera montò su tutte le furie e mi contestò in maniera brutale. Al che risposi per le rime dicendo che l'illustre collega aveva toccato il fondo della bottiglia. La querelle si concluse lì. Passano quattro o cinque anni, e io divento direttore dell'Indipendente. Un dì mi reco in un ristorante di Corso Sempione, entro, e in un tavolo trovo Brera che pasteggia. Fingo di non averlo visto e mi accomodo il più distante possibile da lui per evitare di riaccendere la vecchia polemica. Trascorrono sì e no dieci minuti e il cameriere mi recapita un vino pregiato con un biglietto. Leggo: caro Feltri, spero che anche tu oggi possa arrivare al fondo della bottiglia. Più commosso che imbarazzato, mi alzo e vado a ringraziare l'immenso Gianni, il quale mi accoglie sorridendo e invitandomi al suo desco. Fu così che nacque una bella e indimenticabile amicizia. Brera era un affabulatore incantevole. Spiattellava argomenti a sfondo culturale che mi lasciavano a bocca aperta. Quando poi rientravo al giornale controllavo tutte le sue affascinanti chiacchiere sulla Treccani e verificavo che aveva detto soltanto cose esatte. Ammirato, frequentai a lungo in trattoria Brera. Un giorno mi consegnò affettuosamente cinque suoi inediti corposi. Me li regalò, non pretese una lira. Ne pubblicai uno alla settimana sul mio quotidiano guadagnando 5 o 6mila copie a botta. Miracolo: non ne persi più nemmeno una. Il mio successo all'Indipendente cominciò così: con l'apporto decisivo di Brera, a cui devo la mia consacrazione di direttore. Un'ultima annotazione. Allorché ero un giovane cronista ogni martedì acquistavo il Guerin Sportivo su cui Brera scriveva la rubrica di una pagina intera intitolata «Arcimatto». Un capolavoro settimanale leggendo il quale capii che in questo nostro mestieraccio non sarei mai stato all'altezza sua. Pazienza. Bisogna sapersi accontentare.  

·        Giovanna Botteri.

I "grandi scoop" di Giovanna Botteri e della Rai in Cina. Roberto Vivaldelli l'1 Giugno 2021 su Il Giornale. "Striscia La notizia" e "Rai Scoglio 24", con l’inviato (e candidato al cda Rai) Pinuccio, tornano a occuparsi di Giovanna Botteri e dei suoi "imperdibili scoop" da Pechino. Pinuccio e il programma Mediaset Striscia La Notizia "pungolano" Giovanna Botteri e i suoi imperdibili - si fa per dire - "scoop" dalla Cina, dove è stata trasferita dopo aver seguito per anni la politica americana e aver commentato l'inaspettata vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali del 2016. La storica inviata della Rai, già corrispondente e inviata speciale da Bosnia, Kosovo, e poi da Iran, Sudafrica e Algeria, oltre che da Afghanistan, dove ha seguito passo per passo la caduta del regime dei talebani, mentre il mondo dibatte sull'origine del Covid e dell'ipotesi laboratorio, ha firmato due servizi piuttosto "leggeri" - per usare un eufemismo - per il Tg1 (andati in onda il 28 e il 29 maggio), finiti nel mirino, durante la puntata di Striscia La notizia di ieri sera, della dissacrante ironia dell'inviato Pinuccio da Rai Scoglio 24. Botteri, infatti, si è resa autrice e protagonista di due servizi che Pinuccio definisce dei veri e propri "scoop". Il primo riguarda un gruppo turisti, alla ricerca di emozioni forti, mentre sfidano la forza di gravità sul tetto della torre astronomica di Canton, a oltre 600 metri di altezza. L'altro servizio è forse ancora più "memorabile": altra pandemia in arrivo? I nuovi casi di coronavirus in Cina? Certo che no! Si parla, in maniera quasi poetica, dell'arrivo della primavera. "L'arrivo dei primi stormi di uccelli migratori segnala che le tiepidi temperature primaverili hanno ormai conquistato le regioni più settentrionali della Cina. Poi al mattino una nevicata straordinaria, che punisce le azelee sgargianti" spiega la giornalista. Nei giorni scorsi Giovanna Botteri aveva dedicato un servizio sui Mystery Box, ossia le "scatole misteriose" che si acquistano in Cina senza sapere cosa ci troverai dentro. Come ha ricordato Pinuccio durante il servizio di Striscia La Notizia, tuttavia, in questi giorni si parla purtroppo di altri tipi di mystery box made in China, che purtroppo cercano di aggirare il divieto di commerciare animali vivi. Come scrive La Stampa, infatti, fra le categorie in questione ci sono anche cuccioli di cane, gatto, tartaruga, e tantissimi altri animali che purtroppo non sempre arrivano in vita a destinazione. Un vero e proprio commercio dell'orrore che nel Paese comunista sta prendendo sempre più piede. "Giustamente - ha ironizzato Pinuccio -la Botteri ha deciso di parlare dei giocattoli, che è più importante, dei bambini, dell'unione, in questo Paese che è turistico, un'isola felice. Andiamo a prenotare lì le vacanze in Cina, che si sta bene, qua siamo pieni di problemi. Secondo me Salini ha già prenotato". Insomma, di argomenti sulla Cina ce ne sarebbero a bizzeffe, ma piuttosto che evidenziare le disgrazie del regime comunista meglio parlare dell'arrivo della primavera, no? Magari con la stessa verve con la quale, un tempo, si attaccava l'odiatissimo Donald Trump.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News.

·        Giulio Anselmi.

Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 4 novembre 2021. Giulio Anselmi è stato, a parer mio, l’ultimo, grande monarca del giornalismo italiano. Un sovrano duro, severo, altero, a tratti spietato, e poco incline all’embrassons-nous. La prima volta che ho incrociato il suo sguardo risale all’aprile 2008. Questo genovese indurito subito dalla vita, era sulla plancia di comando della Busiarda, come i piemontesi di un tempo chiamavano la Stampa, già da qualche anno. Ero l’ultimo degli ultimi: stagista imberbe e idealista. Nello stanzone che occupavo insieme ai notisti politici e di cronaca – Magri, Martini, Grignetti, Masci – nella fu storica sede di via Barberini, il nome di Anselmi ricorreva sempre: il direttore vuole, il direttore chiede, il direttore mi ha detto di partire. Per me, invece, sembrava irraggiungibile, quasi una figura mitologica. Ogni tanto, trafelato, dal suo stanzino disadorno, all’ora di cena, ci raggiungeva il capo della redazione romana dell’epoca, Mattia Feltri, con le bozze del giornale magari già pronte. Il direttore – diceva – non è convinto di questo pezzo: bisogna rivederlo. Una mattina, ricordo, quando il giornale dormicchiava ancora – di solito si animava intorno alle 15 -, incrociai lo sguardo di Anselmi per pochi attimi. Mi guardò, accennò ad un timido sorriso e si dileguò. Non lo vidi più. Non aveva bisogno di farsi vedere troppo a Roma. Bastavano le sue telefonate e i suoi ammonimenti e le sue sfuriate e i suoi rimproveri per far rigare la redazione capitolina. Il cuore del giornale era a Torino, ma era a Roma che il Potere andava raccontato e, possibilmente, messo alle strette. Nel 2009, con grande stupore – qualcuno, probabilmente, con sollievo e gioia – accogliemmo la sua uscita. Evidentemente, la sua spina dorsale – sempre retta e poco adusa ai compromessi – cominciava a non piacere più. Troppo libero per essere amato dall’establishment. Troppo distaccato, forse, per essere ricordato con affetto dalle centinaia di redattori che hanno incrociato la sua strada. Tra i grandi direttori, o i grandi monarchi della carta stampata, Anselmi, in effetti, ha attraversato, senza perdere la flemma e lucidità, ma la poltrona sì, tutti i mari tempestosi della Prima e della Seconda Repubblica. Come pochi della sua generazione, ha fatto quello che doveva e poteva: informare i lettori senza farsi condizionare troppo dai capricci e interessi degli editori, men che meno dalle stupide bizze dei giornalisti che nel corso della sua carriera lo hanno affiancato, stimato, temuto e, perché non dirlo?, provato ad adulare. Senza cadere nella malattia italiana – il vittimismo! – quando è stato accompagnato alla porta, o messo nelle condizioni di andar via, questo genovese, burbero e timido, non ha issato la bandiera del martirio, anzi. Con dispiacere, dignità, e silenzio, ha alzato i tacchi e se n’è andato. Osservandolo da vicino, nella storica sede dell’Ansa (che presiede), proprio in prossimità del potere quirinalizio, “il mio caro direttore malvagio”, come, simpaticamente, l’aveva soprannominato il rimpianto Edmondo Berselli, ha fatto gli onori di casa. Ma avendo tante, troppe curiosità sulla sua storia, siamo arrivati subito al sodo. Le sue risposte, pronunciate dopo qualche secondo di silenzio, come a voler soppesare meglio le parole e a rinfrescare ricordi, i torti subiti, i dolori e dispiaceri, mi sono sembrate tutto fuorché diplomatiche. Ogni tanto, sorridendomi, ha affondato il colpo, quasi con piacere, così come le sue rasoiate. Abituato a parlare poco, e a mostrarsi meno, questa Confessione ha tutto il sapore di un redde rationem, in primis con sé stesso. 

Giulio Anselmi, lei nasce, se non sbaglio, a Valbrevenna, una frazione di Genova. A 11 anni, neanche il tempo di comprendere il mondo, è già orfano di entrambi i genitori. Che infanzia ha avuto?

Sono nato a Valbrevenna perché sfollato, ed era la casa di una cameriera di mio nonno: si arrivava a dorso di mulo. Tra i 7 e gli 11 anni persi dapprima mia madre e, poi, mio padre. Ho vissuto sempre con mia sorella e una governante (che non amavo molto), un po’ nella casa di Genova, un po’ in una vecchia villa di famiglia. Siccome mio padre non aveva rapporti eccellenti con i suoi parenti, lasciò come tutore legale il cardinal Siri, di cui mio padre era stato anche medico. 

Che bambino era? Timido, cattivo?

Ero un bambino non particolarmente timido. Mi fece diventare duro l’assenza di genitori e il pretendere che in casa mia tutto andasse come andava ai tempi dei miei genitori. Quindi cominciai, tanto per fare un esempio, col rifiutare di mangiare a tavola con la cameriera. La mia durezza cominciò a formarsi con il pretendere che le cose non cambiassero. Crescendo, soprattutto dopo i diciotto anni, cominciai a capire qualcosa di più del mondo che mi stava intorno.

Che ricordo ha dei suoi genitori? Ce n’è uno che rammemora ancor oggi?

Amavo mia madre come penso amino tutti i bambini. Ricordo la simpatia che nutriva verso la monarchia ma, al contempo, la sua rigidità e fermezza sui diritti delle donne; era una sorta di vetero-femminista. La prima volta che alle donne spettò il diritto al voto, lei, e non stava già bene, pretese a tutti i costi di andare a votare. Con mio padre, invece, ebbi un rapporto poco facile, come accade sempre tra padre e figlio. Pensavo, in maniera infantile, che lui tenesse più a mia sorella.

La sua vita, con la morte dei suoi genitori, s’incastra con quella del cardinale Siri, uomo potentissimo allora. A Stefano Lorenzetto ha confessato che i vostri rapporti non erano particolarmente buoni. Perché?

Fu un rapporto complesso, nel senso che Siri era un cardinale di grande intelligenza e di grande rigidità. Era un conservatore assoluto, a tratti reazionario. Un bambino di 11 anni, come può ben immaginare, difficilmente può trovarsi bene con una persona di tal fatta. 

Nonostante tutto, ho avuto con Siri un rapporto accettabile; ricordo che quando c’erano i consigli di tutela, tutti – avvocati, notai, vescovi – s’inginocchiavano in segno di riverenza. Per me, ragazzino, era segno di grande petulanza. Trovavo incomprensibile, tra le altre cose, anche il gesto di baciargli la mano.

Che qualità gli riconosceva?

Gli riconoscevo il rigore e dei consistenti livelli di apertura. E ricordo che quando i portuali ebbero una vertenza molto violenta contro gli armatori e gli industriali, chiesero che il mediatore fosse il cardinal Siri. 

È stato determinante nella sua formazione di uomo?

Io e Siri ci vedevamo poco, se non nelle feste comandate o quando ero in punizione – accadde, se non erro, due volte. Nella mia formazione di uomo non fu determinante, ma lasciò, dentro di me, un segno molto importante: il senso del dovere. 

Che Genova era in quegli anni?

Genova, insieme a Milano e Torino, formava il cosiddetto triangolo industriale. Era una città che aveva una sua importanza e influenza nel tessuto economico e sociale del Paese. Oltre a Siri, ad esempio, c’erano gli armatori, il presidente della Confindustria, Angelo Costa, diversi ministri della Prima Repubblica – penso a Taviani, Bo, Lucifredi, ad esempio. Ma negli anni della mia giovinezza, stava già slittando verso una dimensione più provinciale, declinante. I genovesi, ad essere franchi, pur non rassegnandosi al declino, non fecero nulla per mettere un freno alla triste piega che la città stava prendendo. 

Piangendosi un po’ addosso, proprio come i meridionali…

Quello lo fanno tuttora!  Le faccio un esempio: quando io vado a Genova a trovare, chessò, degli amici, non sopporto, e questo succede almeno da quarant’anni, gli stessi discorsi sul declino!

Per un periodo, breve, della sua vita, ha fatto l’avvocato; cosa ha imparato dai legulei? L’oratoria, l’arte della mediazione, la psicologia, l’ambiguità, la forma, l’ipocrisia?

Un po’ tutte queste cose… Io mi sono laureato in Legge perché non avevo la più pallida idea su cosa fare da grande, e Giurisprudenza, almeno allora, era una facoltà meno inutile di Scienze Politiche. Entrai in uno studio legale di un grande penalista dell’epoca, Garaventa, che faceva parte, tra le altre cose, del mio consiglio di tutela. Ci stetti circa un anno, ma nel frattempo avevo cominciato a frequentare il Corriere Mercantile del pomeriggio, di proprietà dei Fassio. Scrivevo di giovani, ma dopo un po’ la redazione fu chiusa, forse su diktat di Taviani (ma non so se sia vero, in realtà). Conservai un minimo di rapporto con il giornale. Una volta il direttore, Umberto Bassi, mi chiese se volessi veramente fare il giornalista. Gli risposi subito di sì, e, per otto-nove mesi, scrissi per il Corriere Mercantile. Durante questo periodo, conobbi un giornalista di Stampa Sera, il quale mi segnalò al suo giornale. E di lì a poco, passai a Stampa Sera e cominciò un’altra storia.

Perché sceglie di fare il giornalista? Vera vocazione, o, più semplicemente, voglia di scappare dai ritmi lenti, sonnolenti di una vita sicura?

Scelsi di fare giornalista perché mi piaceva scrivere. Ho imparato, negli anni, che lo scrivere è qualità importante, se si ha, ma non è la più importante in assoluto per fare il giornalista. 

Qual è stato il momento in cui ha capito di avercela fatta? Dirigere un giornale è cosa ben diversa che fare il giornalista: in quale, delle due, ha eccelso di più o, magari, fatto meno danni?

Ho fatto, come lei ben sa, tutt’e due, e con un certo successo. Lasciai l’avvocatura perché il mondo dei giudici e degli avvocati lo trovavo francamente insopportabile. A Stampa Sera cominciarono a mandarmi in giro per il nord Italia perché cominciava ad imperversare il terrorismo, prima nero, e poi quello rosso. Ad un certo punto, Lamberto Sechi, direttore fondatore di Panorama, lesse alcuni miei pezzi, e mi volle con sé. Rimasi tre anni, facendo cose molto interessanti, dal rapimento di Sossi a inchieste sul cambiamento della società italiana, tanto per fare degli esempi. Eravamo una squadra di ragazzi; molti dei quali, poi, diventarono direttori – io, Rossella, Rinaldi, Sabelli Fioretti… 

A Panorama, quindi, capì di avercela fatta…

Diciamo che a Panorama capii che stavo facendo la cosa che mi piaceva e che sapevo fare meglio. 

Ci sono articoli che lei ha scritto che, oggi, se potesse, cancellerebbe all’istante?

Articoli che cancellerei all’istante, direi proprio di no! Quello che posso dire è che eravamo molto profilati nei confronti del centro, e della destra. Avevamo un atteggiamento critico – e ci poteva stare – ma in altri casi, probabilmente, era iper-critico, e questo non era giusto. 

Quasi pregiudiziale…

Sì, questo lo devo ricordare per me e per altri della mia generazione.

Com’era Lamberto Sechi?

Sechi era un direttore bravo e capace nel cercare di farci fare un prodotto unitario, riconoscibile. La scrittura di quel Panorama era industriale, nel senso che tutti scrivevamo un po’ allo stesso modo, e non era detto che fosse una qualità positiva. Sechi era un uomo di una severità assoluta: tutti noi aspettavamo, come animali spauriti, una volta consegnato l’articolo, il suo giudizio inappellabile, inflessibile. Una volta, sapendo che sarei andato via, a fare il caporedattore al Secolo XIX, forse per ripicca, l’ultimo mio articolo – un colonnino sull’editoria – me lo rifece fare ben tre volte. 

Per dirigere un quotidiano – ha detto sempre a Lorenzetto – è necessaria una certa durezza. Non pensa, invece, che si possa lavorare e migliorare l’ambiente creando un clima di armonia e serenità? Che senso ha creare un clima di terrore?

Mediamente, nelle redazioni, sono stati di più i periodi di serenità che ho attraversato che non quelli di frustrazione (sentimento che ho conosciuto solo quando magari per due settimane di fila non mi mandavano a fare un pezzo). Io non credo che si possa essere amici in redazione; ci possono essere maggiori stime o più confidenza, ma che il direttore possa essere un compagnone, questo non lo credo. Ci vuole rigore, severità, perché se il rapporto è di confidenza eccessiva, quando ti alzi, chessò, dal mangiare una pizza con tuo redattore, è molto più difficile dirgli che il suo pezzo fa schifo o che è da rifare o cestinare proprio. Detto questo, serve più incutere timore che rispetto. 

Da direttore è stato più stronzo, cattivo o cinico?

Stronzo francamente no, perché non ho mai voluto fare del male. La mia lunga esperienza di direttore mi dice, però, che è più facile pentirsi di un gesto di debolezza che non di un gesto di crudeltà. Una certa dose di cinismo, sì, ma più nei confronti dei fatti e dei loro protagonisti, che non dei redattori con cui lavoravo. Una volta Mieli mi disse che ero una persona molto corretta, tant’è vero che avevo litigato con tutti i capi di governo che si erano succeduti, ma che avevo un difetto radicale: se stimavo una persona, da un punto di vista umano ed intellettuale, ero disposto a concedergli molto, ma se la disistimavo, poteva morire ai miei piedi senza che io facessi nulla per salvarlo.

Mattia Feltri mi ha detto che, con lei alla direzione alla Stampa, perse la bellezza di 8 chili. Direttore, cosa gli ha fatto?

Non so se ha perso dei chili perché era bene che dimagrisse. Ho avuto, con Mattia, un rapporto di grande e reciproca stima. Lo promossi capo dell’ufficio romano, perché lo meritava ampiamente. E, tra le altre cose, ho sempre considerato Mattia molto più bravo del padre. Sicuramente, nei suoi confronti, proprio perché lo stimavo molto, ho avuto dei momenti di severità, forse perché necessari. 

Non reputa, quindi, Vittorio Feltri un grande giornalista? E perché?

Vittorio è un bravo giornalista e con me è stato sempre generoso. Ma preferisco il figlio. 

Barbara Alberti mi ha detto che non possiede la grandezza della crudeltà. Lei se la riconosce?

Non credo di avere la crudeltà, e di possederne la grandezza, e neanche una versione minore. Qualche volta ho giocato con il personaggio del cattivo, del severo, perché avevo, dentro di me, elementi di timidezza. Ho sempre pensato che questo potesse essere un modo per non essere sopraffatto dalle redazioni, soprattutto quando dovevo essere severo. Quando ho avuto la sensazione, postuma, di essere stato troppo duro, ho trovato la giustificazione, mezzo vera, mezzo falsa, che mi avevano affidato sempre giornali in crisi, e che quindi dovevo per forza farli marciare. Sia Il Messaggero, che all’epoca della mia direzione era della Montedison, sia l’Espresso (è un giornale che muore, mi disse Marco Benedetto), per finire alla Stampa, non versavano di certo in buone acque…

A proposito della Stampa, visto che l’ha citata: perché l’hanno cacciata, nonostante gli ottimi risultati?

Penso che tutto sia partito quando raccontai lo scandalo che coinvolse Lapo Elkann: lo misi in prima pagina, dedicandogli dentro un’intera pagina. Credo che, da quel momento in poi, il rapporto di Elkann, con me, fu diverso, un po’ per l’affetto nei confronti del fratello, un po’ perché considerò la mia decisione una sorta di mancanza di rispetto per lui stesso. Credo che questo sia l’elemento di vera rottura. Un altro elemento è questo: quando io e Mieli, che all’epoca dirigeva il Corriere della Sera, facemmo scrivere sui nostri giornali di una bega tra Berlusconi e Murdoch, relativa a Sky, Berlusconi, da Tirana, disse che certi direttori dovevano essere mandati via. Ricordo che in quel momento ero all’Eliseo perché ospite di Sarkozy. Quando finii l’incontro con il presidente francese, il mio telefono cominciò ad essere bombardato di telefonate. Tutti mi dissero che Berlusconi aveva chiesto la mia testa e quella di Mieli. Se ci sia stato un rapporto di causa ed effetto oppure no, questo non lo posso dire, ma sta di fatto che Mieli venne mandato via dal Corriere e io lasciai, certo senza dolore di Elkann, la Stampa. Per non voler essere licenziato dal giornale, aspettavo di avere un’offerta, e l’offerta che poi mi arrivò fu la presidenza dell’Ansa, che forse non avrei preso se fossi stato in piena condizione di libertà. 

Chi gliela comunicò la cacciata dalla Stampa? Direttamente Elkann?

Nessuno, perché direttamente mi arrivò la proposta per presiedere l’Ansa e mi fu fatto capire che facevo bene ad accettarla.

Promoveatur ut amoveatur…

Esattamente.

Da direttore, quali sono state le toppe giornalistiche che si rimprovera ancor oggi, ripensandoci?

Quando ero al Corriere, giornale che di fatto dirigevo perché Stille era in America, ci fu un episodio – la tentata acquisizione della Société Générale de Belgique – che riguardò De Benedetti. Tutti ricorderanno che l’Ingegnere disse: per il capitalismo belga, la ricreazione è finita.

In realtà, per come andarono le cose, la ricreazione finì per lui. Ricordo che feci, di mio pugno, un fondo in cui trattai assai male De Benedetti. Fu un errore, non tanto perché non fosse vero, quanto inelegante, come poi mi fecero notare in tanti, a partire dall’Avvocato Agnelli. Sicuramente, un altro grave errore commesso, è stato quello di aver preso troppo per oro colato la versione dei magistrati negli anni di Mani Pulite. Fui io a spostare il giornale sulla linea del Pool milanese, e di questo non mi pento assolutamente. Si trattava di scegliere tra una stagione di corruzione, che vedeva complici buona parte della classe politica e imprenditoriale, e l’operato dei magistrati. Se non avessi fatto una scelta netta, credo che l’opinione pubblica avrebbe dato fuoco al giornale. 

Diciamo che lei non ha saputo cogliere le sfumature di quella stagione…

Sì, esattamente. Santificai Di Pietro, che non se lo meritava, e anche Borrelli. Detto ciò, ho un ricordo molto bello di un incontro tra Borrelli e l’establishment milanese al piano superiore del Savini, famoso ristorante milanese in galleria. C’erano tutti: Romiti, De Benedetti, Tronchetti Provera, e c’ero anch’io… Ad un certo punto, arrivò Borrelli, li guardò con una freddezza assoluta, e batté i tacchi come fosse un ufficiale di cavalleria, e gli si vedeva il sorriso, il ghigno, per la paura che incuteva. 

Qual è stato il giornale che sente di aver diretto in maniera modesta o non con i risultati che ci si aspettava da lei?

Il giornale che mi ha dato meno soddisfazione, anche se alcune cose furono ottime – tipo la copertina di Berlusconi con un’aria da clown e la scritta: e ora mi consento, o la copertina Rutelli-Palombelli con scritto: azzurroni, o ancora l’inchiesta sull’inizio della fortuna di Berlusconi con i soldi della mafia, ripresa addirittura da Le Monde –  è stato l’Espresso. 

Chi le comunicò la cacciata dall’Espresso? Caracciolo, De Benedetti?

Mi invitò a cena Caracciolo, e al convivio era presente anche Marco Benedetto. Mi dissero molto semplicemente che De Benedetti aveva deciso di sostituirmi. Il giornale non andava male come vendita di copie, tant’è vero che Pansa disse in un’intervista che io non gli volli mai spiegare il perché della mia sostituzione malgrado le sue ripetute richieste. La verità è che non sapevo il motivo di tale scelta, anche se lui non mi credette affatto. Forse, ma non ne ho la certezza assoluta, due querele (che vinsi) ricevute da Tatò – una delle quali a causa di una copertina in cui ritraevo lui e la Raule, e con scritto: storia d’amore e di potere – penso che abbiano avuto un certo peso nella mia cacciata. Grazie a Caracciolo, che mi offrì la vice presidenza dei giornali locali, e poi a Ezio Mauro, che mi chiese di fare l’editorialista per Repubblica, rimasi nel gruppo Espresso ancora per un po’. 

Un contentino, però, direttore…

Diciamo di sì. 

Visto che l’ha citato, le chiedo dell’Avvocato Agnelli. Tanti giornalisti – è storia risaputa – facevano a gara per compiacerlo. Lei che rapporti ha avuto con lui? Come tutti i potenti, anche Agnelli metteva bocca nei giornali? L’ha mai telefonato per lamentarsi di qualcosa? Ci dica la verità…

Nessuna telefonata di lamentele. Un elogio, che mi fu riferito da Piero Ottone, e una irritazione per una copertina dell’Espresso che lo raffigurava come un puzzle che perdeva i pezzi. 

Nei momenti in cui costruiva il giornale, ci sono stati, per lei, dei momenti di commozione?

Mi colpì molto la telefonata dell’industriale Sutter, padre di Milena, rapita e uccisa, quando lo informai che stavo per scrivere del tentativo di sequestro dell’altro figlio: “Se mi uccidono anche lui, me lo restituisce lei?”, mi chiese. Tante altre volte, di fronte a grandi eventi o fatti drammatici, mi sono ovviamente emozionato. Scelsi, per esempio, di pubblicare i corpi, irriconoscibili, delle vittime di un disastro aereo finite in mare. Erano immagini di grande impatto, fui molto criticato. Forse lo rifarei, ma non so ancora oggi se feci bene.

Da direttore, quali sono stati i più grossi bocconi amari che ha dovuto ingoiare dai padroni del vapore, per dirla con Ernesto Rossi?

Devo dirle, con molta franchezza, che ho ingoiato come bocconi amari delle cacciate, ma sulla fattura dei giornali, no. Una volta, da direttore del Corriere, mandai, in occasione del Duecentesimo anniversario della Rivoluzione Francese, ben tre giornalisti a Parigi. In contemporanea, scoppiò lo scandalo della Borsa Merci a Chicago, da cui cominciò la crisi di Gardini, e poi la sua caduta. Quest’ultimo mi chiese di mandare, a Chicago, Guatelli, che era, però, il nostro corrispondente da Parigi. Io rifiutai, perché sarebbe stata una figura pessima per il Corriere mandare il corrispondente di Parigi, durante i festeggiamenti francesi, da un’altra parte. Non dirò di più, ma era nota, tra l’altro, la vicinanza tra Guatelli e Gardini. Insistettero Gardini, Sama, perché facessi questi spostamenti, ma nulla. Un giorno mi chiamò Romiti, perché io ricordassi che trattavasi dei secondi azionisti del Corriere dopo la Fiat. Gli risposi: voi avere il diritto a mandarmi via, ma non di dire quello che devo fare! 

Qual è la cacciata che l’ha fatta soffrire di più?

Non essere stato nominato direttore del Corriere della Sera. Dopo averlo fatto, nella pratica, per diversi anni. Giorgio Fattori, allora presidente dell’azienda, comunicò al comitato di redazione di essere favorevole a questa soluzione, ma che l’azionista aveva deciso altrimenti.

Giorgio Bocca, nel suo Il Padrone in Redazione, scritto sul finire degli anni Ottanta, osservava come gli spazi di libertà per un giornalista fossero sempre più ridotti a causa dell’invasione dei poteri che contano e, in ultimo, della pubblicità. Come ha saputo preservare la sua libertà con i tanti interessi che un giornale porta con sé?

Quando diventi direttore, devi capire dove si è. Se dirigi la Stampa, non puoi scrivere che le Fiat sono brutte. Quindi, una certa dose di auto-controllo, o di autocensura, se lei vuole, sicuramente c’è stata.

Qual è stato l’editore, suo datore di lavoro, più liberticida?

Certamente non posso dire Caltagirone perché mi mandò via ancor prima di iniziare a lavorare insieme. Quando arrivò al Messaggero mi disse subito che aveva comprato il giornale perché voleva farlo con la testa sua, e non di certo con la mia. Ho sempre fatto il giornale che volevo, quindi, più che di editore liberticida, parlerei di editori con stili diversi. Parlandone in maniera non proprio positiva, a proposito di stili, dovrei citare un editore minore che non c’è più e lo lasciamo dov’è. Non sarebbe carino parlarne ora. Dirò, invece, quello che ha avuto più stile: Carlo Caracciolo, il migliore anche come editore. 

Se agli editori interessa poco la libertà, ancor meno, forse, frega ai giornalisti, troppo affamati di altro. Quanta autocensura ha dovuto stanare nelle redazioni?

L’origine dell’autocensura, o, nei casi peggiori, la falsificazione di una notizia, è la vicinanza al potente che si segue e racconta. C’era un giornalista, al Corriere, che diceva: prima di essere giornalista, sono craxiano. Ma non era mica un caso isolato. 

Quando lei individuava casi di giornalisti vicini a qualcuno, non potendoli cacciare cosa faceva?

O me ne servivo – che era un criterio seguito da molti direttori della Prima e della Seconda Repubblica – perché potevamo avere più notizie, o, nei casi peggiori, tendevo a far fare al giornalista coinvolto, altro.

E’ stato più schiavo della notizia o del potere che una direzione esercita?

Sono stato molto dipendente dalle notizie e anche dal potere, come direttore, di pubblicare e poter dare certi fatti. 

Quasi degli orgasmi, quindi…

No, perché sono sempre stato molto controllato e misurato. Certamente, avere notizie importanti in mano per tempo, è sempre stata una soddisfazione. Ho appartenuto a quella generazione che ha creduto, sbagliando, che le notizie potessero cambiare il mondo. Il più delle volte i giornalisti, nei confronti dei lettori, non hanno nessun potere o influenza. 

Quanto ha adulato per ottenere una direzione?

Mai, assolutamente, è una cosa che non mi appartiene.

Quanti leccapiedi, tra i giornalisti, ha dovuto tenere fuori la porta? Ci faccia qualche nome… O qualche episodio?

I nomi non li faccio, ma diciamo che ci sono stati parecchi giornalisti che mi sono stati raccomandati, magari anche da colleghi che stimavo, ma che non presi mai o perché troppo collegati a qualcuno o perché facevano parte di una o dell’altra camarilla, e io ho sempre avuto una concezione monarchica del mio lavoro. 

Chi è, secondo lei, il Bel Ami del giornalismo italiano?

Forse Marco Travaglio perché ha grandi capacità di adeguamento, però non so se Bel Ami avesse la grande, vera dote di Travaglio, che è la memoria. Nella mia scelta del Bel Ami italiano c’è anche un elemento di considerazione: vale a dire tener conto anche di alcune qualità.

Quali sono stati i giornalisti che ha apprezzato di più?

Giorgio Bocca, in primis. Giorgio era un uomo ruvido, taccagno, inelegante, timoroso e timido. Pensi che, quando arrivai all’Espresso, aveva paura di essere mandato via. Era una gloria del mestiere, eppure aveva paura di essere cacciato. E poi Giorgio Fattori, ancorché un po’ algido: in redazione lo soprannominarono Findus. Per la capacità di scrittura e versatilità, Giancarlo Dotto ed Edmondo Berselli. Come direttori, anche se non sapeva scrivere, ho ammirato molto, come le ho detto prima, Lamberto Sechi. Ezio Mauro, poi, è un altro direttore che ho apprezzato molto.

Donne, no?

Lucia Annunziata. E le altre, un po’ distanziate. 

Cosa pensa di Dagospia? Roberto l’ha avuto all’Espresso, se non erro? Che rapporti avevate?

L’ho avuto anche al Messaggero. Intelligente e creativo. Anche troppo. Una volta lo frenai. Era saggio, ma fu da parte mia un atto di prudenza. Abbiamo conservato ottimi rapporti.

Dopo l’Espresso, tutti si attendevano una sua promozione a Repubblica, il vero gioiello del gruppo. Chi, e cosa, si è messo di traverso? Eppure, aveva tutte le carte in regola… Leggenda narra che Scalfari non la volesse tra i piedi…

In via del Monserrato, a Roma, ci fu una riunione tra De Benedetti, Caracciolo, Marco Benedetto e il figlio dell’Ingegnere. Si parlò, da quello che seppi, molto concretamente della possibilità che potessi andare a fare il direttore di Repubblica. Le direzioni non sono mai tali se non quando sono già esercitate ufficialmente. Cosa possa essere successo non lo so, ma posso supporlo. E’ possibile che il troppo chiacchierare di questa faccenda, mise in guardia Scalfari dall’avere un successore che non fosse scelto da lui. Credo che le cose siano andate così.

Ci rimase male?

Un po’, ma non troppo. 

Quanto ha contato, per lei, nell’accettare una direzione, il denaro?

Non l’ho mai chiesto. Ho sempre immaginato di andare a guadagnare più di quanto guadagnassi prima. Non ho mai discusso la parte economica, mi creda. 

La massoneria, in Italia, gioca un ruolo importante, quasi fondamentale. E’ mai stato avvicinato dai grembiulini? E’ attratto dalle logge?

L’unica volta in cui sono stato in una loggia fisicamente, avvenne dalle parti di Villa Pamphili, a Roma. Stavo passeggiando con mia moglie: mi si avvicina una persona qualificandosi come massone e mi dice: direttore, il Gran Maestro sarebbe contento di conoscerla. Io andai, salutai il Gran Maestro, e tutto finì lì. Questo è stato l’unico rapporto avuto con la massoneria.

Pensa che abbia un ruolo importante la massoneria in Italia, soprattutto per chi vuole fare carriera?

Caspita! Più che tra i giornalisti, anche se ve ne sono, penso che la massoneria, ai fini della carriera, serva più per ruoli determinanti nella Magistratura, o nelle Forze Armate… 

Chi è stato il potente che l’ha chiamata di più per lamentarsi del giornale che faceva?

Craxi, sovente minacciandomi, e Berlusconi. Entrambi pari merito. Un altro che pure si lamentava, ma con garbo, era De Mita. 

Molti direttori, nei loro editoriali, sostengono che i politici sono troppo attaccati alla poltrona. Da che pulpito, mi verrebbe da dire…! A lei, quanto è piaciuta la calda e danarosa poltrona da monarca assoluto incarnato nella figura di un direttore?

Molto. Era un piccolo trono. Ho sempre usato la metafora del comandante di nave. L’armatore può dirmi dove vuole che io porti la nave, tutto il resto non gli appartiene né con che rotta, né con che deviazioni. E devo dire che ho sempre reso esplicito il mio atteggiamento, tanto nei confronti degli editori quanto nei riguardi dei redattori. E’ pieno di leggende sulla mia ferocia di direttore. 

Tanto tempo della sua vita lo ha dedicato al lavoro; che spazio hanno avuto gli affetti?

Ho sempre detto, nel corso di questi anni, che nella mia vita ho dedicato troppo tempo al lavoro. Ho voluto bene a mia moglie, pur con qualche distrazione.

Pensa di aver esercitato un fascino sulle donne?

Non ho mai pensato di essere bello. Quando qualche volta è capitato che qualche donna mi ha paragonato a qualche attore, mi ha fatto ovviamente piacere, ma non gli ho mai creduto. 

Una volta ha detto che con i suoi figli ha fatto parecchi errori; quali s’imputa, oltre alle numerose assenze?

Tutt’e due mi hanno rimproverato di aver trasmesso loro un senso del dovere e della responsabilità troppo forte.

Al mattino, guardandosi allo specchio, si è mai vergognato di qualcosa?

Sì, e anche senza aver bisogno di guardarmi allo specchio. Una volta, ricordo, chiamai, in una riunione di redazione, un giornalista degli Spettacoli che aveva lasciato la riunione senza essere autorizzato. Lui tornò da me, chiedendomi cosa fosse successo. Gli risposi: non ti avevo autorizzato ad andar via… Ecco: atteggiamenti simili li ho avuti talvolta e talvolta mi sono vergognato.

Cosa fa nel tempo libero? Ha degli hobby?

Leggo volentieri e, un tempo, amavo andare in bici, soprattutto nel centro di Milano. Ovviamente, mi piace molto viaggiare. Ho una preferenza per la Francia e per i Paesi dell’America Latina e del Nord.

Quali sono i suoi autori preferiti?

Thomas Mann, Lev Tolstoj, Joseph Roth, García Márquez, Umberto Eco. 

Ha paura d’invecchiare?

Ogni tanto mi viene in mente, avendo 76 anni, che potrei morire. Più che paura, sono infastidito dalla constatazione che questo sta avvenendo. 

Quale vita avrebbe voluto vivere?

Forse avrei voluto fare lo storico, perché amo molto la storia e i suoi personaggi. Ma, probabilmente, mi sarei presto stancato, perché il mio difetto principale è la noia. 

Cos’è che l’annoia facilmente?

La retorica, la prevedibilità. 

Ha dei rimpianti? Quali?

Avrei voluto essere sicuramente un padre e marito migliori e avrei dovuto temperare la durezza, che era necessaria, non con l’indulgenza, ma con la generosità. 

Nella sua vita personale, è stato più bugiardo o ipocrita?

L’ipocrisia non mi appartiene molto. Sicuramente bugiardo. Di fronte ad una contestazione, o all’essere colto con le mani nella marmellata, nego l’evidenza. 

Alla maniera di Fellini?

È un eccellente paragone, il suo. 

Alla sua età, facendo un po’ i conti con sé stesso, ha capito quali sono le cose che veramente contano nella sua vita?

Non sentirmi inferiore in un contesto determinato… E non giudicarmi al di sotto di quello che avrei potuto e dovuto fare. 

Come vorrebbe essere ricordato dai giornalisti che ha diretto?

Come un giornalista bravo, non presuntuoso e libero. 

Hai mai avuto complessi d’inferiorità?

Qualche volta ho sofferto, ma da piccolo, delle assenze legate ai miei genitori… E ho trovato che è molto più facile, nei rapporti con le donne, essere bellissimi…

·        Hoara Borselli.

"Linciata perché di destra. Vi rivelo qual è la deriva che ci travolgerà..." Martina Piumatti il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. La Nazionale "non inclusiva", Saman e il silenzio delle femministe, il ddl Zan, Letta e il “paternalismo dell’accoglienza”. Hoara Borselli mette in fila i paradossi del politicamente corretto e i punti di forza della destra in cui crede. Dichiaratamente di destra, attaccata, da sinistra, per le opinioni scomode. Nel mirino per il passato da showgirl, giudicato incompatibile con le attuali ambizioni giornalistiche. Hoara Borselli scomoda continua ad esserlo (scrive per il Secolo d’Italia ed è spesso presente come opinionista a Non è l’Arena e a Quarta Repubblica), dimostrando, anche a ilGiornale.it, di non temere i diktat del conformismo politicamente corretto. Perché la vera battaglia in favore delle donne è dimostrare che si può parlare di politica anche in minigonna.

L’Italia ha esordito agli Europei di calcio e ha vinto. Ma i francesi, ne ha scritto anche lei, ci contestano che non abbiamo giocatori di colore nella rosa. Si sta esagerando con il politicamente corretto?

“Non è che si stia esagerando si sta andando verso una deriva pericolosissima. Il politicamente corretto vuole riscrivere completamente i nostri usi e costumi, le nostre parole, il nostro modo di mangiare. Siamo al punto che addirittura la torta di mele viene definita razzista. Quello che mi preoccupa, ancora di più della deriva che stiamo prendendo, è la massa che ci va dietro. È un’onda che si autoalimenta e che ci vuole schiavi di un unico pensiero. Insomma, Orwell non è mai stato attuale come in questo periodo: abbiamo il neo-pensiero, la neo-lingua che ci impongono nuovi diktat da seguire. E questo è pericolosissimo”.

Poi, c’è anche il caso opposto: la Rai designa come co-conduttrice di Notti europee Danielle Madam, scelta secondo i social non per competenza in materia calcistica, ma per compiacere il politicamente corretto. Cosa pensa?

“Questa è la deriva pericolosa: qualunque scelta viene valutata da questo punto di vista È una sorta di discriminazione al contrario. Ora stiamo tutti più attenti a dover giudicare in base al colore della pelle e non in base alle competenze. Paradossalmente si realizza quello che i paladini del politicamente corretto contestano: il colore della pelle conta di più del merito”.

Dalle favole da riscrivere alla modella transgender Lea T, che accusa di discriminazione una trasmissione che invita anche Giorgia Meloni, a Rula Jebreal che ne boicotta un’altra in nome della parità di genere. È così che si difendono i diritti delle minoranze?

“Tutto ciò che è etichetta, distinzione per genere è tutto tranne che un concetto di inclusione, che tanto difendono e ci vogliono imporre i paladini dei diritti delle minoranze. Io sono rimasta molto contrariata quando si voleva introdurre delle lezioni gender nelle scuole. Ormai si sta sostituendo il concetto di rispetto della persona con il rispetto del genere e questo è sbagliato. Perché se tu hai un rispetto a 360° della persona non hai necessità di dover distinguere il genere. Se tu vuoi fare una distinzione è perché tu stesso ti senti diverso”.

Anche con il Ddl Zan si ha un po’ lo stesso cortocircuito?

“Il ddl Zan contiene una vera e propria deriva liberticida. Se tu esprimi qualche idea contraria, come per esempio che il sesso biologico sia una certezza e lo dici i rischi sono abbastanza importanti. Una limitazione della libertà di espressione per me che scrivo per un giornale e partecipo come opinionista a varie trasmissioni televisive. Io trovo che dietro il ddl Zan ci sia la più grande ipocrisia: la volontà di scrivere e imporre a tutti un pensiero unico. Non è in quel modo che si combattono le discriminazioni e le violenze. Questo si fa solo promuovendo una cultura del rispetto. Per cui nelle scuole più che fare educazione al gender, facciamo educazione civica e parliamo di quello. Insomma, abbiamo tolto l’educazione sessuale non vedo perché dobbiamo inserire l’educazione al genere”.

Sul caso Saman, lei ha contestato il silenzio delle sedicenti femministe. Perché?

“Noi siamo stati ammorbati per un mese su casi vari di catcalling che sicuramente sono atti di maleducazione. Per mesi titoli di giornali, televisioni e opinionisti per mesi non hanno parlato d’altro, fissandosi sull’importanza delle parole e crocifiggendo Pio e Amedeo perché hanno osato dissentire. Poi, però di fronte a una ragazza islamica barbaramente uccisa c’è la paura di usare la parola femminicidio. E anche le stesse sedicenti femministe che avevano difeso con forza queste battaglie in favore delle donne, quando si murano dietro un silenzio assordante, da una parte depotenziano la precedente lotta e dall’altra perdono totalmente credibilità”.

Anche lei è stata bersaglio del doppiopesismo delle paladine dei diritti delle donne. Come quando Selvaggia Lucarelli ha insinuato che i suoi trascorsi nel mondo dello spettacolo non le darebbero diritto a dire la sua in un talk di politica, applicando di fatto il classico pregiudizio maschilista “stai zitta che non capisci”. Cosa le risponderebbe?

“Io sono stata e sono tuttora bersaglio di questo doppiopesismo. Purtroppo penso che sia un pregiudizio ancora fortemente radicato con cui dovrò sempre convivere. Se tu non hai fatto un percorso precedente e in più hai la ‘sfortuna’ di essere una bella donna nell’immaginario collettivo le due cose non possono convivere col fatto che tu possa scrivere o parlare di politica. Mi viene persino contestato che sui miei profili social possa mettere delle foto che mettano in risalto la mia persona. Ma io credo che una donna sia tante cose: può scrivere di politica, può parlare di politica, ma può anche avere quell’atto di vanità da tirare fuori, perché altrimenti diventiamo tutti degli ipocriti che si nascondono dietro a delle maschere per compiacere gli altri. Per me la libertà assoluta della persona

è la vera battaglia a favore delle donne, non i decaloghi delle cose da non dire ad una donna che stilano le femministe. La donna non è un animaletto in via d’estinzione che non è in grado di proteggersi. Una minigonna o un pantaloncino corto non ti dequalificano. L’esaltazione della femminilità può andare di pari passo con le battaglie importanti. Si può parlare di politica in minigonna ed essere credibili. E dimostrarlo è la mia lotta quotidiana come donna”. 

Lei viene presa di mira perché dice cose di destra?

“Questo sicuramente. Io sono stata linciata sui media la prima volta che ho aperto bocca. Lo sapevo a che cosa sarei andata incontro facendo parte di una minoranza di donne che si espongono. Ma io continuo a rivendicare con forza le mie posizioni, anche qualora significhi essere continuamente bersagliata. Io non mi fermo”.

Se fosse stata dall’altra parte la Lucarelli le avrebbe ‘perdonato’ il suo passato?

“Lei probabilmente pensava che io non fossi in grado di parlare di politica. Poi è chiaro che, stando su due posizioni politicamente antitetiche, il bersaglio più facile. So bene che tante volte mi sarebbe convenuto tacere, anche per il mio percorso artistico. Tanti mi dicono: ‘Prima o poi, dato che sei di destra, non ti daranno più neanche la possibilità di parlare in televisione’. Allora vorrà dire che continuerò a scrivere, che è quello che mi piace fare, continuando a portare avanti questa mia ideologia di destra, che mi riconosco e che con orgoglio continuo a sostenere”.

Su Saman però non le è piaciuta nemmeno la reazione della sinistra che ha definito l’uccisione della diciottenne un femminicidio, slegandola dal contesto religioso radicalizzato in cui è maturata. Perché si ha così paura ad associarla all’Islam?

“Per la sinistra è molto più facile cavalcare il paternalismo dell’’accoglienza piuttosto che provare a risolvere dei veri e propri problemi culturali. Da una parte c’è una totale incapacità di farlo e dall’altra una volontà, taciuta, di non volersi inimicare un bacino potenziale di elettori. Compiacere il mondo islamico per convenienza elettorale: è questa la spiegazione reale del silenzio della sinistra su Saman”.

Letta sostiene che lo ius soli sia una necessità. Ma se Saman fosse stata cittadina italiana, formalmente, si sarebbe salvata?

Ma assolutamente no!

Qual è la via per far sì che non ci siano altre Saman?

“Il caso Samantha ha dimostrato che c’è un vuoto politico in termini di integrazione rispetto a delle culture ormai radicate nel nostro Paese. E non serve avere una schiera di Saman per accorgersi del problema. Il problema sta alla base. Se noi accogliamo in maniera indiscriminata senza avere una politica reale di integrazione e lasciamo che queste situazioni di radicalismo, di fondamentalismo pullulino, beh questi sono i risultati. Quindi Letta, più che parlare di ius soli, pensasse a delle politiche concrete per gestire il problema! Così forse farebbe qualcosa di meglio per la comunità”.

La politica dell’accoglienza indiscriminata nei confronti degli immigrati all’estero è stata sconfessata anche dagli idoli della sinistra. Da Kamala Harris alla social-democratica Danimarca. Perché, invece, la sinistra italiana insiste con la linea dei porti aperti?

“All’estero si sono accorti che l’immigrazione è un’emergenza e che va assolutamente gestita. E non è la destra razzista e sovranista, ma la sinistra ad aver capito che è intollerabile accogliere in maniera indiscriminata. Noi in Italia siamo rimasti gli ultimi a crederci, rimanendo inchiodati a un immobilismo di comodo a una certa parte politica. Quell’atteggiamento paternalista del ‘siamo bravi, siamo buoni e accogliamo tutti’ della sinistra incentiva l’arrivo di migliaia di persone lasciate allo sbando che, abbandonate a loro stesse, andranno a potenziare tutti i vari fenomeni di criminalità organizzata e radicalismo. Sono realtà evidenti di cui nessuno parla e ce ne accorgiamo solo quando muore qualcuno. E tutto per propaganda politica. Alla sinistra conviene che arrivino più persone a cui venga data la cittadinanza per ingrossare il proprio bacino elettorale”.

E cosa bisognerebbe fare invece?

“Ci vuole una gestione controllata. Ma non si può dire perché si viene additati come razzisti che giudicano in base al colore della pelle e preferiscono vedere la gente annegare in mare piuttosto che accogliere. Mentre il controllo è qualcosa che va a beneficio di entrambi, nostro e di chi arriva nel nostro Paese”.

A proposito di politica, il governo Draghi era l’unica soluzione possibile o no?

“Personalmente avrei preferito poter andare alle elezioni. Scegliere legittimamente un governo attraverso il voto e quindi creare una maggioranza di intenti e non una maggioranza messa insieme per poter traghettarci fuori dalla crisi. Tolta la possibilità di votare, ovviamente non posso che essere favorevole a una persona autorevole e competente come Draghi. Ma lo sarei stata di più se fossimo andati a votare”.

Secondo lei Giorgia Meloni ha fatto bene a chiamarsi fuori?

"Io ho appoggiato la scelta di Salvini: Sicuramente una scelta scomoda che sapeva fin dall’inizio che lo avrebbe penalizzato e oggi lo vediamo. Una scelta scomoda, ma coraggiosa dettata dal meglio esserci che non esserci. La Meloni ha puntato più sul suo valore non negoziabile da sempre: la coerenza. Sono due scelte opposte, ma condivisibili entrambe. Io se avessi dovuto scegliere sarei entrata nel governo”.

Vedrebbe bene la Meloni come premier?

"Giorgia Meloni ha competenza, merito e carisma: ne sarebbe assolutamente in grado. Ha tutte le carte in regola per poterlo fare”.

Dicono che Salvini tema il sorpasso della leader di FdI. Lei cosa pensa?

“Salvini non la teme. Perché, come dice lui, sono pur sempre alleati. Io credo che Salvini si sia preso un rischio calcolato: poter perdere qualcosa a breve termine per poi magari alla lunga riallinearsi. Ha guardato all’onda lunga e non all’onda alta, insomma”.

E dell’idea di una nuova federazione di destra senza Meloni cosa ne pensa?

“Io penso che la forza dei partiti del centrodestra sia quello di essere complementari. Ma l’idea di una nuova federazione di destra senza Meloni potrebbe andare a dare adito alle voci di disaccordo interno che vorrebbero vedere la destra divisa. Credo che, anche per coerenza, dovrebbero rimanere ognuno con le proprie ideologie personali aldilà della convenienza di coalizione. Rimanere complementari ritengo sia la carta vincente del centrodestra”.

Lei ha dimostrato con le sue opinioni di non temere il politicamente corretto. Ha mai pensato di fare politica?

“No, non l’ho mai pensato perché a me piace parlare, raccontare, scrivere di politica. Poi ritengo che la politica la debba fare chi è veramente capace di farla. Di incompetenti, in politica, credo ce ne siano già abbastanza e non vorrei andare ad ingrossare le fila, ecco”.

Però le sarà arrivata qualche proposta?

“Velata, diciamo”.

Da chi non me lo dice?

“No, no (ride, ndr). Sa, sono più le persone che me lo chiedono. Ma penso che sia giusto riconoscere i propri meriti e i propri limiti. Già mi sto portando dietro talmente tante ire così, figuriamoci se facessi anche politica. Quindi: assolutamente no grazie!”.

Martina Piumatti

·        Ilaria D'Amico.

Dagospia il 26 ottobre 2021. Da I Lunatici Rai Radio2. Ilaria D'Amico è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, live per una parte della trasmissione anche su Rai 2, sempre dal lunedì al venerdì notte, tra la mezzanotte e quaranta e le due e trenta circa.

Ilaria D'Amico ha parlato un po' di sé: "Come stiamo uscendo dalla pandemia? Io mi sono tranquillizzata. Grazie al vaccino. Avevo tantissima ansia soprattutto per mia mamma, che ha una certa età e un po' di patologie. Avevo veramente paura e angoscia. Una volta vaccinata lei e vaccinati noi, mi sembra che ci sia una rete in questa cascata libera in cui ci siamo trovati. Il vaccino mi dà la sensazione di una rete di protezione. La presenza del Covid è ancora tangibile e questo ci dice che dobbiamo stare ancora attenti. Anche vedendo cosa sta accadendo in Inghilterra".

Ilaria D'Amico ha parlato anche di parità di genere: "Ci sono stati passi in avanti. Le quote rosa? Le trovo orribili ma necessarie. Se l'ha fatto la Svezia figuriamoci se non possiamo farlo noi. Sono cose necessarie per scardinare un mondo che è stato governato dall'idea che siano i maschi a scegliere. E' importante far entrare le donne nei centri di potere. Non sono belle le quote rose, preferirei una selezione spontanea, ma siccome sono certa del valore delle donne, sono sicura che tanto il merito quando vai a scegliere una donna nove volte su dieci non è sprecato". 

Sulla bellezza nel lavoro: "E' sempre un buon biglietto da visita che la natura di abbia dato una parvenza buona. E' ipocrita chi dice che se si è belli si fatica di più. Si fatica di più se tu non gli dai un'inquadratura di un altro tipo. Se punti tutto sull'avvenenza le caselle che si aprono sono quasi sempre quelle. Invece imporre l'idea che dietro un bell'aspetto fisico ci possa anche la testa o la personalità è un lavoro che devi fare, costante". 

Sul #metoo: "Se da giovanissima ho mai incontrato qualcuno che ha provato a farmi proposte di un certo tipo? Una volta mi sono ritrovata in una situazione molto imbarazzante. Già lavoravo, erano i primi anni. Mi chiamò nella sua stanza il direttore e lo trovai con della musica romantica in stanza, poi iniziammo a parlare e lui iniziò a farmi dei massaggi sul collo. Era un segnale inequivocabile. Era il direttore di un luogo in cui lavoravo, ma ne sono uscita, ho bloccato la situazione e ne sono uscita. Il #metoo è stato fondamentale per dare strumenti a tutte le giovani ragazze e per spaventare chi trovandosi in certi posti di potere per buonsenso, civiltà e dignità dovrebbe evitare certi comportamenti e invece non lo fa. Io quella volta sono riuscita ad uscirne in modo diplomatico. E poi i rapporti sono continuati in maniera civile. Però è una sensazione molto molto spiacevole, che non dimentico. Mia madre mi ha sempre insegnato a farmi rispettare, rispettando prima di tutto me stessa".

Su Buffon: "Sono consapevole che mi dice delle stupidaggini ogni anno. Arriva a un certo punto e mi dice che smetterà, mi promette che ci faremo una estate incredibile, che faremo un viaggio alla scoperta dell'Italia che si conosce di meno. Ogni volta poi arriviamo a maggio che ha già preso altre decisioni. Lui è una fucina di talento e motivazioni, è un trascinatore vero, di se stesso e dei suoi compagni. E' un generoso, si sporca le mani nello spogliatoio, ha una parte umana meravigliosa".

Sul calcio: "Più lavori nello sport, meno sei tifoso puro. Però diventai della Lazio perché era più originale e difficile. Negli anni '80 la Roma era fortissima e la Lazio arrancava, tifare Lazio era più romantico".

·        Indro Montanelli.

Filippo Ceccarelli per il Venerdì di Repubblica il 2 agosto 2021. In definitiva gli italiani hanno un ottimo rapporto con le bugie. Non solo le perdonano e le dimenticano, ma le apprezzano e alcune se le tramandano pure come cose preziose, a patto che siano utili ai loro fini, ben dette, meglio inventate, comunque a tal punto ricamate e romanzate da recare addirittura una verità non così lontana da quella autentica. Si fa oggi un gran parlare di fake-news, espressione sospettamente anglosassone, ma da secoli gli italiani promuovono i bugiardi, li esaltano, li votano purché siano bravi e simpatici - e Indro Montanelli era davvero bravo, il più bravo giornalista di tutti i tempi, e a suo modo ea volte anche imprevedibile e simpatico nei suoi tratti cavallereschi - ma a volte no. Nessuno d'altra parte è perfetto, anche se nel suo caso il successo della perfezione giornalistica dipendeva anche dal suo essere un bravissimo e simpatico bugiardone, come del resto molti alti spiriti con varie sfumature sostennero (Croce, Montale, Bauer, Ernesto Rossi, lo stesso Longanesi che di Indro fu l'impresario), come già ampiamente dimostrato da storici di vaglia (Sandro Gerbi e Raffaele Liucci) e come lui stesso ammiccando riconosceva. Così, per il ventennale della morte la santificazione bibliografica montanelliana sembra normalmente ben avviata. Ma siccome gli anniversari non servono solo a giocare sul sicuro e sull'agiografico è opportuno e magari anche sano segnalare il volume di Silverio Corvisieri, Un cattivo maestro: Montanelli tra mito e fake news (Bordeaux, pp. 315 pagine, euro 18), che con meticolosità documenta invenzioni, balle, esagerazioni, furbizie, versioni contraddittorie, omissioni, acrobazie, doppi e tripli giochi, incoerenze, smanie di protagonismo e stregonerie varie. E la sorpresa è che ci si ritrova l'intero novecento italiano, dal fascismo alla resistenza, dai crimini di guerra all'antisemitismo, dalla mafia all'Eni al Vajont, fino a piazza Fontana, al maschilismo e alla rottura con Berlusconi, che nel torneo di bugie, anche rispetto a Montanelli risulta un bel competitor. Ma allora? Allora niente. Allora, seppure esausti e un po' sgomenti, viene da pensare che l'unica chiave che apre la mente e un po' anche il cuore sulla figura di Montanelli, sul giornalismo ieri e oggi e in fondo sulla storia d'Italia, è l 'inesorabile ambiguità che noi italiani, tutti o quasi, ci portiamo dietro e davanti da sempre. Quell' ambiguità che consente di stupirsi davanti alla più inimmaginabile faccia tosta e al tempo stesso commuoversi dinanzi a descrizioni da applauso. Va da sé che un saggio è molto più impegnativo che imbrattare una statua. Che poi, se la pulisci, torna come prima: bruttina, ma forse perfino trascurabile. Tutto del resto è relativo, a partire dai monumenti.

Fare i conti con Indro Montanelli a vent’anni dalla morte. Paolo Di Paolo su L'Espresso il 21 luglio 2021. La fede nel Duce. Il razzismo. La sposa bambina in Etiopia. Berlusconiano prima, anti-berlusconiano poi. Oggi il giornalista è un monumento contestato e imbrattato. Ma pochi come lui rappresentano le contraddizioni del nostro Novecento. E va bene, d’accordo, non vi piace Indro Montanelli, non ci piace più, la statua a Milano imbrattata più volte, il dibattito riaperto sui suoi trascorsi coloniali, sulla sposa bambina in Etiopia, su questo e quel passaggio di un’esistenza «lunga e tormentata», come lui stesso la definì. Però: se fosse un personaggio di romanzo? Piacerebbe anche a chi, dal vero, lo detesta. Piacerebbe a chi legge entusiasta le parole di Walter Siti: nel recente pamphlet “Contro l’impegno” (Rizzoli), lo scrittore invoca personaggi moralmente complessi, la cui parabola renda meno stabili, e meno comodi, i nostri criteri di giudizio morale. No, certo, non è un personaggio di romanzo, ma come si fa a definire altrimenti che romanzesca la vita di uno nato praticamente insieme al Ventesimo secolo e scomparso un mese e mezzo prima dell’11 settembre 2001, proprio mentre a Genova il sangue macchiava le strade? La Belle époque di provincia toscana. Un nonno che chiama figli e nipoti all’intervento nella Grande Guerra. La fede in Mussolini e la fronda. La rocambolesca e ambigua uscita dal fascismo, una condanna a morte. La rincorsa nella carriera giornalistica, la guerra russo-finlandese, l’Ungheria e i carri armati nel ’56, un incontro di sfuggita con Hitler, non comprovato, un dialogo con Perón, sicuro, e con Giovanni XXIII, con Golda Meir, con decine di protagonisti. Le pallottole delle Brigate rosse nel ’77. L’attrito con Berlusconi, editore del Giornale che Montanelli fondò nel ’74, l’addio al quotidiano, il ritorno al Corriere della Sera, di cui è stato indiscutibilmente, per decenni, la prima firma. L’ultimo articolo scritto un mese prima di morire. L’auto-necrologio dettato su un letto di ospedale: «Prende congedo dai suoi lettori, ringraziandoli dell’affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito». Non perdo niente a confessare che mi impressionò. Un uomo che da solo sceglie le parole con cui andarsene: «Non sono gradite cerimonie religiose né commemorazioni civili». Mi impressionò come mi avrebbe impressionato, di lì a poche settimane, il riaffacciarsi, dopo un lunghissimo silenzio, di Oriana Fallaci sulla prima pagina del Corriere della Sera. Stavo andando a scuola, presi il giornale, rimasi imbambolato: «Mi chiedi di parlare, stavolta». Raccontava le Torri di New York, l’immane nuvola di fumo vista dalle finestre di casa sua a Manhattan; e a furia di rabbia e di orgoglio marcava una pericolosa contrapposizione fra «noi» e «loro». Scandalizzò. Deluse anche chi l’aveva profondamente amata. (Avrei scoperto più tardi di un progetto fallito di libro a quattro mani Fallaci-Montanelli: sulla Resistenza i due si scontrarono con violenza. Fallaci chiuse all’ex amico: «Sono le quattro del mattino e su New York sta per levarsi l’alba. Che notte difficile mi hai dato, Indro, che notte dolorosa. Io vorrei che almeno servisse a qualcosa: a ritrovarci perché, su questo maledetto argomento, ci siamo davvero perduti»). L’estate del 2001! I giornali si affannavano a ribadire che il Novecento finiva. La parola globalizzazione. Genova. La morte di Montanelli. Il crollo delle Torri Gemelle. Ma un secolo non finisce in un’estate, continua a morire a lungo. Agonizza, si dibatte. Io ero un diciottenne confuso e appassionato ai giornali, che già cominciavano - loro forse sì - «a morire come immense falene» (è un’immagine, bellissima, di Bradbury). Leggevo, studiavo per prendere la patente. Avevo scritto lettere a Montanelli, ero riuscito a incontrarlo. Tese la sua mano lunga, magrissima, sulla mia guancia. «Ah, sei tu». Il ragazzino che gli aveva chiesto come tenere insieme «i giudizi contrastanti» letti non ricordo più su chi. Siamo un coacervo di contraddizioni, mi rispose. Te ne accorgerai crescendo. Me ne sono accorto. Continuano a sembrarmi più interessanti le vite altrui dei giudizi con cui le archiviamo; gli umani in carne e ossa, rispetto alle statue che imbrattiamo. Quelle restano ferme, noi possiamo muoverci. Il passato si può esplorare, analizzare, del passato si può riportare alla luce l’orrore, l’ingiustizia, e la figura anonima che quell’ingiustizia e quell’orrore ha subìto. Ma volgergli rivendicazioni, pretendere che risponda ai parametri etici dell’attuale è insensato. Come ritagliare dalle biografie altrui il segmento che stona, che non ci convince, che ci indigna. Ma nessuna esistenza somiglia a un’equazione, il risultato non torna mai. Adesso che il secolo vecchio è finito davvero – quello nuovo ha vent’anni! – potremmo leggerlo con occhi più adulti. Evitare il rischio di disegnarcene uno parallelo su misura. La versione ucronica, alla Quentin Tarantino, del Novecento. Il secolo breve emendato. In moviola, tagliamo questa e quella scena. Una volta cominciato, è impossibile fermarsi: «Chi sono questi stronzi che nel passato si permettevano di avere valori diversi dai nostri? Cancelliamoli. Non voglio dire che stiamo sullo stesso solco di quelli che sbarcavano in Australia e cancellavano gli aborigeni, ma l’istinto inconscio è quello». Parola di Alessandro Barbero. Dai, proviamo con gli scrittori. Di Pasolini, a breve celebratissimo per il centenario della nascita, prendiamo, per dire, la versione comoda, la versione light – e non le parole contro l’aborto, non le parole contro il femminismo. Nemmeno la scena di un suo romanzo, l’ultimo, in cui il narratore si china sul sesso di un ragazzo che «doveva essere molto più giovane di quello che dimostrava: forse era appena sui sedici anni». E poi sì, va bene, ci piace leggere Berto, il grande autore del “Male oscuro”!, ma come ce la caviamo con la pagina in cui scrive della sua sposa ragazzina in Etiopia e del «solito odore di burro rancido, di fumo e di sterco di animale»? E la straordinaria Ortese? Che nel ’97 parlava dell’ex capitano delle SS Priebke come di un «lupo ferito»? E la grande Morante che, venendo a “colpe” minori, non tollerava di essere chiamata poetessa? Nello stupido agosto, definizione sua, del 2006, lo scrittore tedesco Günter Grass confessò di essere entrato, a diciassette anni, nella sezione giovanile delle SS. Fu travolto dalle polemiche e dagli insulti. Qualcuno pretese che restituisse il premio Nobel. «A quell’età in certe situazioni non mi posi le domande che avrei dovuto o voluto pormi», spiegò. «Un tempo da cui uscii, come molti altri, sciocco, ignorante e limitato». Ringraziò infine i pochi che fecero lo sforzo di giudicarlo «come persona nella sua completezza». Un decennio dopo, allo scrittore spagnolo Javier Cercas fu rimproverato di essersi occupato, nel romanzo “Il sovrano delle ombre”, dello zio franchista. Ha redento l’irredimibile! Come si può giustificare chi era dalla parte sbagliata? Ma farsi carico del passato più imbarazzante non significa questo. Capire - insiste Cercas - non è giustificare. E in una pagina bellissima scrive: «Pensai: è qui, sono tutti qui, nessuno di questa casa dei morti è morto. Nessuno se n’è andato. Nessuno se ne va». Tocca così il segreto «più elementare e più occulto», e cioè che non moriamo, che lo zio Manuel non è morto; e capisce che scrivere di lui era scrivere di sé, «che la sua biografia era la mia biografia, che i suoi errori e le sue responsabilità e la sua colpa e la sua vergogna e la sua morte e le sue sconfitte e la sua paura e la sua sporcizia e le sue lacrime e il suo sacrificio e la sua passione e il suo disonore erano i miei, perché io ero come lui così come ero mia madre e mio padre e mio nonno Paco e la mia bisnonna Carolina, allo stesso modo in cui ero tutti gli antenati che confluiscono nel mio presente così come una moltitudine o una legione innumerevole di morti o una selva di fantasmi, come tutte le stirpi che sfociano nella mia stirpe provenienti dall’abisso insondabile della nostra ignoranza del passato».

Paolo Di Paolo è autore del libro “Montanelli. Vita inquieta di un anti-monumento” in uscita per Mondadori.  

Giampiero Mughini per huffingtonpost.it il 22 luglio 2021. Il 22 luglio 2021 saranno vent’anni dacché Indro Montanelli ha chiuso la sua esperienza umana. E sui media sarà un tripudio di ricordi, di elogi, di ammirazione la più sfrenata quale si addice a quello che nel Novecento è stato il sovrano indiscusso nel mestiere di battere ai tasti della macchina da scrivere un articolo da pubblicare l’indomani su un giornale di carta. Dubito che nel bel mezzo di quel tripudio a qualcuno sfuggirà un accenno al fatto che ancora negli anni Ottanta del secolo scorso non era affatto così, tutto il contrario. Che da tantissimi lui era bestemmiato e maledetto, almeno quanto lo sono stati più tardi Silvio Berlusconi, Bettino Craxi, Matteo Renzi. Altro che ammirazione la più sfrenata, nell’area larghissima del sentir comune di sinistra Indro era reputato un reietto. Un bieco reazionario, a dirla in parole semplici. Uno che aveva osato confessare che turandosi il naso avrebbe votato per la Dc anziché per il toccante comunismo alla Enrico Berlinguer. Un mio amico e collaboratore di punta del “Giornale” mi raccontò che il suo edicolante il quotidiano di Montanelli lo nascondeva e lo tirava fuori solo se un cliente glielo chiedeva espressamente. Una mia amica, quanto di più radical chic, mi chiese una volta “Ma come fai a scrivere su quel giornale fascista?”. Le cose erano andate così. Nei primi anni Ottanta avevamo fatto comunella un drappello di personaggi irrequieti che sino a quel momento avevano percorso i vari sentieri di quel bosco che era la sinistra italiana. Eravamo però tutti giunti a una latitudine in cui non ci identificavamo più con lo scontro bipolare destra-sinistra. Il mensile “Pagina” (creato da Aldo Canale) divenne il trampolino da cui far scoccare il nostro essere “né di qua né di là”. C’era Ernesto Galli della Loggia, Paolo Mieli, Massimo Fini, il sottoscritto. Uno dei collaboratori più assidui della rivista sarebbe stato l’allora giovanissimo Pigi Battista, che avevo conosciuto perché amico fraterno di Franco Moretti, il fratello maggiore di Nanni e a sua volta mio amico fraterno. Mi spiace che “Pagina” venga citata raramente nelle ricostruzioni culturali e “sentimentali” di quel periodo, del resto non si può pretendere che siano in molti a sapere ogni volta come siano andate le cose. Avevamo dunque deciso di mandare su ciascun numero una sorta di “lettera aperta” a un personaggio comunque rilevante della scena politico/culturale italiana del tempo. Se non ricordo male fui io a proporre, col pieno assenso di Paolo ed Ernesto, una “lettera aperta” a Montanelli, a quello che agli occhi della gran parte della nostra generazione passava né più né meno come un fascista. Badate bene, non era una lettera in cui volevamo convertirlo al Bene, o in cui ravvedevamo in lui qualità appetibili alla sinistra in quanto tale. No, no. Sarebbe stata una lettera in cui dicevamo che Montanelli ci piaceva esattamente per quello che era davvero, un borghese, un toscanaccio, un tantino conservatore. Era il fatto che lui testimoniasse alla grande questi tre atteggiamenti che ci piaceva. (A me personalmente ma anche ad altri di “Pagina” sarebbe poi piaciuto meno il duello mortale che lui ingaggiò a un certo punto con il Silvio Berlusconi senza i cui denari “il Giornale” non sarebbe arrivato a tre anni di vita, quel duello che agli occhi della sinistra trasformò un mostro in un santo). Quella “lettera aperta” non ricordo più se del 1982 o del 1983 la scrissi io, e ancor oggi ne sono orgoglioso. Per darle ancora maggiore risalto decidemmo di “lanciarla” fin dalla prima pagina del mensile. Indro mi telefonò dopo qualche settimana e mi invitò di andarlo a trovare nella redazione romana del suo quotidiano. Andai, e dire che ero commosso è dire niente. Aspettai un attimo nella sala di ingresso presidiata da una vistosa segretaria di redazione di cui sapevo che Mario Praz (una delle grandi firme del “Giornale”) arrivava con una scusa o un’altra pur di sedersi innanzi a lei e rimirarla. Indro mi propose di collaborare al suo quotidiano a mezzo di una rubrica cui aveva dato per titolo “L’invitato” . Lo feci per tre o quattro anni (dopo di me Indro avrebbe invitato Ernesto e Barbara Palombelli). Lo incontravo di tanto in tanto durante quegli anni, a Milano o a Roma. Lo ricordo ciondolante mentre se ne stava andando in redazione dopo un pranzo che avevamo fatto nella trattoria toscana da lui prediletta a Milano. Tutto in lui raccontava il borghese che era, un sapore umano che era anche quello di mio padre, uno che era stato fascista negli anni Venti e Trenta. Mai una volta Indro mi chiese di spostare una virgola in un mio pezzo. E siccome tutto finisce, anche la mia collaborazione al “Giornale” finì. Poche settimane dopo Vittorio Feltri mi chiese di collaborare all’ “Indipendente” che vendeva in quel momento 18mila copie stentate e di cui lui aveva appena assunto la direzione. Temo che Indro abbia pensato che ero andato a quel giornale magari perché mi avevano offerto di più, il che non era vero affatto. Da allora non l’ho mai più sentito, del resto sarebbe stato impossibile farlo. I suoi figli sempre lui li aveva divorati. Resta che l’ho amato più di chiunque altro, a parte mio padre. 

"Gli italiani? Non sono che pecore indisciplinate". Roberto Gervaso il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. In un'intervista di 40 anni fa il giornalista descrive un Paese identico a oggi: fatto di furbi, bugiardi, faziosi. Moderno Voltaire in cravatta e vigogna, Indro Montanelli ha il dono, così raro fra noi giornalisti, di rendere facile il difficile, limpido il torbido, digeribile l'indigesto. Sotto la sua penna anche i logaritmi diventano commestibili. Alla sua scomodissima scuola abbiamo imparato - o, almeno, ce ne siamo illusi - che la chiarezza è un dovere, l'obiettività non esiste, il lettore ha sempre ragione.

Siamo ancora uno Stato di diritto?

«Non direi».

Chi ha messo in crisi il principio d'autorità?

«Il fascismo, facendone un uso sbagliato».

Chi comanda in Italia?

«Tutti e nessuno. Forse, i vertici di partito. Ma fino a un certo punto».

E chi obbedisce?

«Nessuno».

Da noi, mangia solo chi lavora?

«Chi lavora è l'unico che non mangia. Solo i traffici rendono».

Le colonne della nostra morale pubblica?

«Non ne vedo più alcuna».

E privata?

«Nemmeno. Anche se ci sono ancora dei galantuomini».

Quale virtù più ci difetta?

«Un po' tutte».

Ma più di tutte?

«Il coraggio, la sincerità - ch'è un aspetto del coraggio -, il civismo».

E l'individualismo?

«Non ne parliamo».

Come?

«Gl'italiani credono d'esser individualisti, mentre non sono che pecore indisciplinate e asociali».

Abbiamo più intelligenza o carattere?

«Intelligenza, o meglio sveltezza, prontezza di riflessi».

Perché gl'italiani parlano tutti assieme?

«Per incapacità di vivere insieme. Ognuno fa il proprio monologo, infischiandosi di quel che dicono gli altri».

In Italia, è meglio aver torto in molti o ragione da soli?

«Guai ad aver ragione da soli. È la cosa più pericolosa».

Il più italiano dei verbi?

«Arrangiarsi».

C'è tolleranza, oggi, in Italia?

«Ma l'Italia è tutta una casa di tolleranza».

Perché crediamo tanto ai miracoli?

«Perché non abbiamo più alcun motivo di credere alla logica, alla ragione».

L'italiano è più cattolico a letto o in chiesa?

«Ovunque: a letto, in chiesa, in politica. È sempre cattolico».

È più fedele alla moglie o al matrimonio?

«Al matrimonio».

Come mai?

«Il peccato gli fa compagnia».

Pensi anche tu che, nel nostro Paese, di progressivo ci sia solo la paralisi?

«Certo».

La nostra classe politica è più inabile nel fare, abile nel non fare, abilissima nel disfare?

«È abile nel non fare. Non che voglia disfare: disfa per inabilità a fare».

Le colpe degl'imprenditori?

«Non alzare mai lo sguardo su quel che avviene fuori delle loro aziende».

Dei sindacati?

«Ma i nostri non sono sindacati».

E cosa sono?

«Corporazioni medievali, le quali non vedono che l'interesse di categoria».

Perché tanti somari in tanti giornali?

«Non c'è più il filtro. Ma, ormai, avviene ovunque. La lotta alla meritocrazia significa l'appiattimento sul più sprovveduto».

Con che criterio scegli i collaboratori?

«O so che sono bravi, o piglio dei giovani e li metto alla prova».

Devono tutti pensarla come te?

«Ci mancherebbe altro! Al Giornale c'è un po' di tutto».

Anche missini?

«No».

E comunisti?

«Ch'io sappia, solo il corrispondente sardo».

Perché è così difficile scrivere come si parla?

«Perché l'abitudine alla menzogna, in Italia, è istintiva, secolare. Bisogna coprire e, quando si copre, non si può scrivere come si parla».

Esiste l'obiettività?

«Come ideale, quindi irraggiungibile. Cerchiamo, comunque, d'avvicinarlesi, o, almeno, fingerla».

È buon giornalismo l'arte di mentire, avendo l'aria di dire la verità?

«È giornalismo abile».

Come mai i giornali di partito sono così indigesti?

«Perché strumenti di propaganda, che è sempre, per natura, cattivo giornalismo».

Cosa vogliono i giornali dal potere politico?

«Protezioni, coperture, finanziamenti, facilitazioni».

E il potere politico dai giornali?

«La stessa cosa».

La stampa è sempre il quarto potere?

«Ma come si fa a parlare di quarto potere in un Paese dove i poteri non esistono più, anzi esistono solo poteri usurpati, come quello esercitato dalla magistratura, che piglia iniziative anche legislative?».

Cos'è l'impegno? Solo incitamento - come diceva Prezzolini - alla bugia di gruppo?

«Nella pratica, in Italia, questo è stato».

Paga ancora buttarsi a sinistra?

«Sì».

Perché?

«L'errore commesso a sinistra non è errore».

E cos'è?

«Un generoso fraintendimento, riscattato dalle buone intenzioni. Pensa a quel ch'è stato scritto all'inizio del terrorismo. Ma nessuno ne chiede scusa a nessuno».

Perché tanti ex fascisti nei partiti antifascisti?

«Perché tutta l'Italia fu fascista».

Anche per te, come per Longanesi, l'intellettuale è un signore che fa rilegare libri che non ha letto?

«Sì».

A proposito di Longanesi: quanto gli devi?

«Moltissimo».

Ossia?

«Il gusto d'esser in disaccordo col gregge, l'anticonformismo, la lucidità». Roberto Gervaso 

Vent'anni senza Indro Montanelli, l’anarchico conservatore. Bruno Quaranta su La Repubblica il 21 luglio 2021. Il 22 luglio 2001 fa moriva il giornalista che ha attraversato il Novecento. Dal fascismo all'avventura nella carta stampata con inossidabile pessimismo. E una missione: scrivere per tutti, a partire dal "lattaio dell'Ohio". Quando il suo Giornale compì dieci anni, Indro Montanelli ricevette in dono la collezione della Rivoluzione Liberale. Al direttore di Fucecchio sovvenne ciò che gli profetizzò Emilio Cecchi: un destino da sciancato, con una gamba verso Gobetti, con l'altra verso Prezzolini, tra l'urgenza di rivoltare il Paese (la febbre dell'età giovanile) e un pessimismo sovrano, inossidabile (avanzando nelle stagioni), l'Italia dei furbi dominante sull'Italia dei fessi (chi paga le tasse, chi non passa con il rosso, chi non calpesta il galateo).

Conservatore, anarchico, italiano. Montanelli resta il migliore di noi. Stenio Solinas il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. "Loro" continuano a credere di essere superiori, nonostante i fallimenti storici e nonostante "lui" li avesse smascherati...Vent'anni dopo, Indro Montanelli resta ancora e sempre uno di noi, con buona pace di quelli che un tempo e per un momento fecero carte false perché lo si potesse definire uno dei loro La storia è nota e non staremo a tornarci su, eppure è sintomatica per cercare di capire la schizofrenia di un Paese quale l'Italia, dove l'egemonia culturale ha sempre marciato a sinistra fino a che il Muro di Berlino non le è crollato sulla testa Da allora essa vive di ricordi, qualche volta di abiure, quasi sempre di rimozioni, e però è come tarantolata dall'idea di non essere all'avanguardia del progresso prossimo venturo, nel nome di una rivoluzione altrettanto prossima ventura, di cui naturalmente non si sa nulla, se non che sarà salvifica. Per lei conservatore è un insulto, sinonimo più o meno di fascista, e Montanelli resta ancora e sempre il principe dei conservatori e quindi dei fascisti. Essendo stato anche per oltre mezzo secolo il principe del giornalismo italiano, l'egemonia culturale di cui sopra preferisce sorvolare. Volete un piccolo esempio? Qualche mese fa Gian Antonio Stella, che sul Montanelli ecologista ante litteram sta scrivendo un libro, mi chiese come mai sul tema la cultura ufficiale, ovvero sempre l'egemonia culturale di sinistra di cui sopra, abbia fatto tabula rasa, come se da Firenze a Venezia le prese di posizione montanelliane non siano lì nero su bianco, scritte e orali Una risposta migliore della mia gliela può dare ora L'ultimo della classe (Rizzoli), l'autobiografia di Andrea Carandini, archeologo illustre, presidente del Fai, e dove il nome di Montanelli non compare mai. Della cosiddetta classe dei colti orientata a sinistra, Carandini è un esemplare illustre: classe 1937, è il perfetto rappresentante di quella borghesia illuminata, sacri lombi, buone scuole, agiatezza di censo, che dagli anni Sessanta in poi sterzò verbosamente e non solo a sinistra, si iscrisse al Pci, fu contestatrice e maoista, vituperò e distrusse la classe sociale da cui proveniva e ora, superati gli ottant'anni, piange amaramente sul latte versato e vede i barbari all'orizzonte. Peccato che i barbari fossero loro. Montanelli fondò il Giornale proprio per difendere quella borghesia che i borghesi alla Carandini volevano distruggere. Nel difenderla difese anche una certa idea dell'Italia per come dall'Unità in avanti era venuta delineandosi. Un'Italia fragile, frutto di compromessi non sempre esemplari, e però verace, vogliosa d fare, ricca di potenzialità, ansiosa di ripartire. Nel loro snobismo e strabismo demagogico-ideologico i liberal-borghesi in salsa Carandini liquidarono quella che per loro era la media e piccola borghesia restia al sole dell'avvenire proletario, come «italiani alle vongole»: non avevano nerbo insomma, né ideali di palingenesi Il problema è che, anche qui, i vongolari erano loro, sensibili a ogni seduzione, statalisti nemici dell'imprenditoria privata, Bel Ami del giornalismo che si impancavano a maestrini della morale pubblica. Saremo anche un Paese senza memoria, ma quei singoli che ancora la conservano ricordano in quale clima ideologico nacque l'avventura del Giornale, dopo la cacciata del suo fondatore dal Corriere della sera, trasformato in gazzetta sudamericana, i salotti della Milano bene che brindarono alla sua gambizzazione da parte delle Bierre, il Corsera stesso che ne relegò il ferimento in una riga di sommario, lo sterminato proliferare editorial-politico di terzomondismo, teologia della liberazione, paradisi socialisti, piani quinquennali, internazionalismo e, in sovrappiù, borghesi, carogne e fascisti uniti nell'identico significato e nel medesimo ludibrio. A vent'anni dalla morte di Montanelli, purtroppo non è cambiato niente nonostante sia cambiato tutto. Resta quell'Italia dei loro, fallimentare nei risultati e però egemone per cooptazione, per abitudine al potere, per il cinismo disinvolto con cui fa il mea culpa e poi procede di nuovo a crogiolarsi nel suo sentirsi migliore, «diversa» Resta dall'altra parte quell'Italia di noi di cui Montanelli è il miglior rappresentante, anarchico per indole, conservatore per convinzioni, italiano, nonostante tutto e tutti, per scelta. Stenio Solinas

Quando Indro lesse l'Alighieri e lo raccontò a modo suo...Indro Montanelli il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. Due grandi italiani, due toscani, due "eretici". Così il giornalista vedeva il simbolo della nostra nazione. Per gentile concessione della casa editrice De Piante, pubblichiamo uno stralcio del profilo firmato da Indro Montanelli di Dante Alighieri, apparso in una serie del 1993 dedicata ai grandi italiani: Dante Alighieri ovvero Durante di Alighiero degli Alighieri (pagg. 54, euro 20, rilegatura a mano, tiratura in 500 copie; depianteditore.it; con prefazione del cardinal Gianfranco Ravasi). Firenze c'è ancora la casa di Dante. Ma non è certamente quella in cui egli nacque e crebbe, perché questa fu demolita quando venne bandito: la distruzione della casa faceva parte del castigo che s'infliggeva (...) (...) ai nemici politici vinti. Però sorgeva nelle vicinanze, in quello che allora si chiamava il «sesto di Porta San Piero». Non sappiamo come fosse fatta, ma sappiamo che le case di Firenze, a quei tempi, lasciavano piuttosto a desiderare in fatto di comfort. Non avevano acqua corrente né gabinetti, i pianciti erano di terra battuta cosparsa di paglia che marciva e puzzava, le finestre erano assi di legno. Firenze non era allora la stupenda e ridente città che oggi conosciamo. Avrà avuto un cinquantamila abitanti. Sebbene avesse già costruito una seconda cerchia di mura per potersi distendere un po' di più, era ancora piuttosto soffocata, con straduzze strette e a gomiti. Di edifici imponenti e artisticamente pregevoli aveva solo il Battistero di San Giovanni, ma non ancora rivestito di marmi. L'insieme era severo e arcigno, grazie alle torri costruite dai nobili, lunghe, strette e minacciose, che le davano un'aria di campo trincerato. Di bello, c'era solo il paesaggio: quella corona di colline, fra cui si srotolava l'Arno. L'abitato si stendeva tutto sulla sponda destra del fiume. Con quella sinistra era collegato da un solo ponte: il Ponte Vecchio. Di tutta l'infanzia del poeta, conosciamo solo un episodio, che però doveva restare decisivo per la sua vita e la sua opera: l'incontro con Beatrice. Gli storici hanno discusso a lungo sulla realtà di questo personaggio: alcuni hanno ritenuto che fosse di pura fantasia. Ma ormai è opinione comunemente accettata che si trattasse della figlia di Folco Portinari, banchiere molto stimato a Firenze. Era quasi coetanea di Dante, più tardi andò sposa a Simone de' Bardi, e morì nel 1290, probabilmente di un parto andato male. Dopo la scuola, dove aveva imparato ben poco, Dante ebbe un altro maestro, che gl'insegnò molto di più: Brunetto Latini. Era costui un notaio che godeva di notevole prestigio, e non solo per le sue qualità professionali. La gran cultura, la signorilità, il «tatto», ne facevano anche un uomo di mondo, un idolo dei salotti, e un diplomatico di prima scelta. Non aveva originalità di pensiero, ma aveva molto visto, molto viaggiato, molto letto, e sapeva parlarne. Era anche un buon cittadino, un funzionario capace e integro, un coerente uomo di parte. Solo la vita privata lasciava alquanto a desiderare per la sua imparzialità verso i due sessi. Ma questo, nella Firenze di allora (e anche in quella d'oggi), non faceva molta impressione. Il fatto che Dante, incontrandolo più tardi nell'Inferno, dove lo aveva collocato appunto per quel vizio, chiami affettuosamente Brunetto suo «maestro», ha fatto credere a molti ch'egli sia andato materialmente a lezione da lui. In realtà il rapporto non fu scolastico in senso stretto. Dante fu soltanto uno dei giovani letterati che intorno a Brunetto si raccoglievano e che formavano quella che oggi si chiamerebbe la nouvelle vague della poesia italiana, cui Dante stesso doveva dare il nome, passato alla Storia, di stil novo. La novità, per ridurla all'essenziale, consisteva in questo. L'amore dei provenzali era stato estetico e sensuale, ma anonimo. L'identità di colei che lo aveva suscitato veniva nascosta sotto il senhal o pseudonimo. Ed è naturale perché si trattava solitamente di un tributo alla padrona di casa, e bisognava salvare il prestigio coniugale del marito, cioè di colui che forniva l'ospitalità al poeta. Gli stilnovisti fecero il contrario. Tolsero all'amore ogni contenuto carnale. E, resolo in tal modo inoffensivo, poterono metterci sopra l'indirizzo della destinataria. A chi poteva dar noia? Disincarnata e angelicata, l'ispiratrice non è più la moglie né la figlia né la sorella di nessuno. È solo un simbolo di perfezione spirituale e uno strumento di elevazione a Dio. Ciò che conta non è lei, ma il sentimento che suscita. Ed è infatti su di esso che gli stilnovisti si accaniscono, vivisezionandolo e rivoltandolo con una casistica puntigliosa e, a dire il vero, abbastanza uggiosa. I cultori di questo nuovo credo poetico erano Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi. Erano degli esteti, i cui equivalenti si ritrovano a scadenza di ogni due o tre generazioni, e ogni volta credono di inventare chissacché. Predicavano quella che oggi si chiamerebbe «l'arte per l'arte», cioè una poesia «disimpegnata» da tutto, anche dal bisogno di piacere ai Signori che avevano mantenuto i trovatori nei propri castelli. E potevano permetterselo perché erano di famiglia aristocratica o della ricca borghesia. Costituivano insomma la «gioventù dorata» di Firenze. Che vita conducesse coi nuovi amici, non si sa. Ma si sa che costoro razzolavano in maniera assai diversa da come predicavano coi loro versi, tutti intesi ad angelicare la donna e a spiritualizzarla. Tuttavia i cànoni andavano rispettati. E quelli dell'«amor cortese» esigevano che anche Dante eleggesse una dama a ideale poetico di vita. Probabilmente fu soprattutto per questo che si ricordò di Beatrice. Non ci sarebbe nulla di bizzarro se l'amore, in Dante, fosse nato dalla poesia, e non viceversa. E nulla toglierebbe alla grandezza dei suoi risultati. Indro Montanelli

Ricordo di Indro Montanelli. Quelle parole su Giorgio Almirante: “L’unico italiano che…” Massimo Pedroni giovedì 22 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. “Se ne è andato l’unico italiano a cui si poteva stringere la mano senza paura di sporcarsi”. Questa affermazione fu espressa da Indro Montanelli, quando il Segretario del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, venne a mancare nel Maggio del 1988. Montanelli, giornalista principe del panorama della carta stampata nazionale, dal primo dopoguerra in poi aveva sempre assunto posizione chiare, nette. Ostiche da digerire, per i paludosi conformisti sempre in allerta nel cercare di schierarsi nelle situazioni più vantaggiose. Nato a Fucecchio, provincia di Firenze il 22 aprile 1909. Indro, nome che alcuni dicono sia la contrazione della parola cilindro. Leggenda metropolitana nella quale è rimasto abbindolato anche Umberto Eco. Ancor più curioso il quarto nome Schizogene, affibbiato dal padre Sestilio, in dispetto alla moglie e alla suocera. Nome di origine greca dall’approssimativo significato di seminatore di zizzania. Non pensiamo questo, anche perché ci appare riduttivo per la complessità del personaggio. Apparteneva, senz’altro, a pieno titolo, al lignaggio dei “maledetti toscani”, come direbbe Curzio Malaparte. Di quelli che “non se la bevono” a costo di diventare polemici fino alla provocazione per amore di verità. Su questa falsariga, il nativo di Fucecchio, sviluppò la sua vita. Personale e professionale.   “Io mi considero un condannato al giornalismo perché non avrei saputo fare nient’altro”. Dichiarazione nella quale quanto meno si sottovalutava, considerando la sua attività da Storico nella quale una delle sue opere “Storia d’Italia” raggiunse la tiratura di più di un milione di copie, cifra record per il settore della narrativa storiografica. La maestria dell’Indro nazionale, s’impose anche nella   scrittura drammaturgica in quella occasione spiccò con il testo “I sogni muoiono all’alba”. Elaborazione di una sua testimonianza, come inviato del “Corriere della Sera” su l’invasione dell’Ungheria effettuata ad opera dell’esercito Sovietico nel 1956. Drammatica vicenda che ebbe fortissime ripercussioni in tutto il mondo e ovviamente anche in Italia. Molti furono coloro i quali a causa di ciò, in casa nostra, e in altre Nazioni dell’Occidente abbandonarono il Partito Comunista di riferimento. I “fatti”, accaduti a Budapest avevano evidenziato la strutturale inconciliabilità tra Comunismo e Libertà. Dopo l’allestimento teatrale, l’opera diventò film di successo nel 1961. Per l’interpretazione in quella pellicola, alla splendida Lea Massari venne assegnato il David di Donatello.

Durante il Fascismo. Montanelli, si formò professionalmente e politicamente durante il Fascismo. Regime del quale frequentò i personaggi tra i più eretici a cominciare da Berto Ricci e il suo Universale, periodico che verrà soppresso nel 1935, e che aveva ospitato alcuni suoi scritti. L’”eretico Ricci” partì Volontario per la Guerra e perirà sul fronte africano nel 1941. Montanelli, come lettore seguiva con incuriosito interesse “L’Italiano” di Leo Longanesi. Personaggio di grande spessore e rilevanza. Fascista della “prima ora”, al quale viene attribuito il conio del motto” Il Duce ha sempre ragione”, Longanesi vivrà un rapporto complesso e contrastato con il Regime. Sempre sul filo dell’assunzione della presa di posizioni troppo azzardate. Il periodico da lui fondato nel 1937 “Omnibus” fu chiuso d’autorità, nel 1939 per il    mancato allineamento della rivista. Ovviamente Montanelli non poteva farsi sfuggire, l’occasione presentata dalla pubblicazione di Longanesi, per unire la sua firma, a quel veliero di carta stampata che sarà modello di tutti i rotocalchi seguenti, che già si trovava nel mirino della censura. Longanesi e Montanelli, diventarono amici.

Il rapporto con Longanesi. Avevano entrambi caratteri “difficili”, come si diceva un tempo. La litigiosità che spesso si accendeva tra loro, non faceva velo però al riconoscimento del grande reciproco valore. Montanelli riconobbe più volte pubblicamente, che Leo Longanesi fu il suo grande Maestro di giornalismo. Per dati anagrafici, il collaboratore di “Omnibus”, galoppò, tra le tragiche contraddizioni del secolo appena trascorso. Come volontario nella Guerra d’Etiopia, e corrispondente di Guerra da vari fronti ad esempio quello finlandese, dal quale ebbe modo di verificarle tutte e di sottoporle all’attenzione dei lettori con quel tratto di scrittura limpida e corrosiva che gli era propria.  Il comportamento di fiera resistenza del popolo finlandese opposta all’esercito Sovietico, che tentava di sottometterli, fu testimoniato magistralmente dall’inviato. Da qualunque contesto, nel riportare le cronache dei fatti, manteneva un’ampia visione delle circostanze. Dandone letture, approfondite, talvolta spiazzanti, sicuramente controcorrente.

Montanelli e i resoconti di guerra. I resoconti di Montanelli dalla narrazione dell’’eroismo del popolo del paese scandinavo, a fronte dell’invasione sovietica, a tutti quelli degli altri scenari rimangono testimonianze di primaria importanza. Seguendo per “Il Messaggero”, la Guerra di Spagna e nello specifico la battaglia di Santander, che vide prevalere le armi Italiane, per alcuni passaggi dei suoi articoli non graditi, fu privato della tessera del Partito Nazionale Fascista e fu radiato dall’Albo dei Giornalisti.  Tra le altre cose che gli vennero addebitate quella di simpatizzare per gli anarchici spagnoli. Dopo varie peripezie, inerenti al periodo della seconda Guerra Mondiale, tra esse ricordiamo l’abbandono del Fascismo e la conseguente adesione al gruppo clandestino di Giustizia e Libertà. Scoperto, e catturato dai tedeschi già condannato per essere messo al Muro, fu salvato in extremis dal Cardinale di Milano, Cardinale Schuster. Esordì nel dopoguerra votando Monarchia al referendum. La sua sarà per quarant’anni la firma di punta del quotidiano di Via Solferino. Costantemente, i suoi scritti erano impregnati del pensiero liberale e conservatore. Cercava una Destra possibile, con quelle caratteristiche. Non la individuò, tanto che pur di arginare l’avanzata che sembrava inesorabile dei Comunisti in Italia, esortò i suoi lettori a votare Democrazia Cristiana “turandosi il naso”. Frase rimasta celebre.

Nel mirino delle Brigate Rosse. Pagò la sua integrità, di onestà intellettuale venendo “gambizzato”, ossia gli spararono alle gambe, il disgustoso neologismo apparteneva a quegli anni, dalle Brigate Rosse, in quanto Direttore del quotidiano da lui fondato “Il Giornale nuovo”. Era il 1977, la cosa che ai giorni nostri appare incredibile che “Il Corriere”, quanto “La Stampa”, giornale quest’ultimo con il quale aveva collaborato dopo la fuori uscita dal “Corriere”, non condividendone la linea troppo spostata a sinistra. Le testate citate, di fronte all’attentato riuscirono con malefica maestria, a dare la notizia senza citare con il dovuto risalto il nome di Montanelli. Neanche quando non condivise più alcune scelte di Silvio Berlusconi, dando vita alla testata “La Voce”, di prezzoliniana memoria, giornale apertamente avverso al berlusconismo declinato in qualsiasi modalità venne meno il suo storico anticomunismo.

Il monito ai giovani. Ci lascia nel luglio del 2001. Fra i tanti preziosi insegnamenti ne riportiamo uno rivolto ai giovani “L’unico consiglio che mi sento di dare – e che regolarmente do – ai giovani è questo: combattete per quello in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Ma solo una potrete vincerne. Quello che s’ingaggia ogni mattina davanti allo specchio”. Non c’è che da farne tesoro. Giovani e meno giovani.

Da professionereporter.eu l'1 maggio 2021.  (A.G.) Indro Montanelli licenziato dal Corriere della Sera. Da Piero Ottone. Gesto clamoroso, storia del giornalismo. Come andò veramente? Piansero entrambi? O solo uno dei due? Era l’ottobre del 1973. Montanelli aveva lavorato quarant’anni per il quotidiano di via Solferino. Ai giovani tutto questo dice poco. Però, parliamo di due giganti del mestiere (o professione). Montanelli, principe della scrittura chiara e netta. Ottone, l’uomo che -assai prima di Paolo Mieli- cambiò il Corriere della Sera, tolse la polvere all’organo dei salotti milanesi, aprì le pagine a firme imprevedibili e prestigiose. Fece entrare aria nuova, un’operazione culturale. Nel nome di un giornalismo anglosassone, votato ai fatti. Come andò veramente? Su Facebook ne ha scritto Stefano Mignanego, per 37 anni capo delle relazioni esterne del Gruppo Espresso, poi Gedi, figlio di Piero Ottone: “In questi giorni sono uscite dall’archivio storico di Spadolini alcune lettere, una delle quali ha destato l’interesse dei giornali: Montanelli racconta il suo licenziamento dal Corriere, avvenuto per decisione di mio padre, d’intesa con l’editore Giulia Maria Crespi. Una bella ricostruzione della vicenda è dovuta a Cesare Lanza, che l’ha pubblicata sul suo sito qualche anno fa. Aggiungo qualche frammento di ricordo, da figlio già allora appassionato di giornali. Montanelli in un’intervista a Lanza contestava la linea editoriale del Corriere e si dichiarava pronto a fondare un giornale alternativo. Mio padre, in quanto direttore, non poteva accettare un attacco del genere, ricordo che ci diceva ‘è come se un alto dirigente della Fiat dicesse che le macchine che producono sono inaffidabili e non sono da comprare…’. Cosa poteva fare? D’accordo con l’editore, si tenne anche un consiglio di amministrazione, decise che Montanelli doveva lasciare il giornale. Andò a comunicarglielo a casa sua. Ci disse che si commosse, e aggiunse che così fece anche Montanelli: piansero entrambi. La perdita era grave, mio padre ne soffrì, ma era anche convinto dell’inevitabilità della decisione, il principio andava salvaguardato. Concludo con un accenno alla famosa prima pagina del Corriere sulla gambizzazione di Montanelli, visto che Lanza ne parla. Mio padre quel giorno era a Venezia per un incontro. Organizzò il giornale per telefono. Chiese di far intervistare Montanelli da Enzo Biagi, e così fu fatto. Lo spazio dato a Montanelli fu di tutto rispetto. E a riprova di ciò, ricordo che qualche giorno dopo Montanelli chiamò al telefono mio padre (in quel momento era a casa) per ringraziarlo. Qualcuno potrà pensare che si trattasse di ringraziamento ironico. Ma io non credo. Anche perchè negli anni successivi ripresero a sentirsi e a vedersi. Su tante cose la pensavano in modo molto differente, con prese di posizione anche forti, ma il rispetto reciproco non è mai mancato”. Lo stesso Mignanego pubblica poi il racconto di Cesare Lanza sulla vicenda: “Sono passati molti anni, ma sul licenziamento di Indro Montanelli dal Corriere della Sera le versioni si sono moltiplicate, sono diventate dieci, cento. Ero vicedirettore del Secolo XIX di Genova e collaboravo al prestigioso Il Mondo. Indro mi accolse nella sua bellissima casa in piazza Navona, a Roma. Non mi aspettavo la requisitoria con cui parlò della svolta filocomunista – a suo parere – del Corrierone, i toni sprezzanti verso la proprietaria Giulia (Giuda, così la definì), il tradimento verso la borghesia lombarda, il progetto di fondare un anti-Corriere. Quando mi congedai e gli dissi che l’intervista sarebbe apparsa su Il Mondo entro un paio di giorni, Indro ebbe un attimo di perplessità: forse aveva pensato che lo sfogo finisse nelle pagine del giornale di Genova, autorevole certo, ma con una diffusione regionale. Non so, non disse niente, allargò le braccia; ‘Va bene così’. Forse non aveva ancora maturato la rottura, forse pensava semplicemente di mandare un avviso, un messaggio. O forse fu solo una mia sensazione. Quanto al seguito, ecco ciò che so e presumo. Il licenziamento fu voluto da Ottone o dalla signora Crespi? Non ho una testimonianza personale. Piero ha dichiarato che fu lui a muoversi, dicendo alla proprietaria, Giulia Maria, che il rapporto con Indro non era più sostenibile. Un mio amico, Gaetano Greco Naccarato, presente all’incontro, mi disse che solo Ottone pianse, quando comunicò il licenziamento a Montanelli, che ne prese atto freddamente. Secondo altri, si commosse anche Indro”. Continua Lanza: “Sia Ottone che la Crespi, successivamente hanno riconosciuto, più volte, che il licenziamento del più famoso giornalista italiano fu un errore. Si trattò di due modi diversi di concepire il Corriere. Montanelli, liberale illuminato, era un conservatore, anticomunista, pregiudizialmente sostenitore della democrazia cristiana, anche a costo “di turarsi il naso”, come scrisse argutamente in una vigilia elettorale. Ottone era un liberale progressista, trattò i partiti in ugual modo, apri ai comunisti, fino al suo avvento emarginati. Era inflessibile e sicuro di sé. Non ebbe timore della fuga delle grandi firme, che seguirono Indro: il Corriere non perse una copia”. Infine: “Fuori tema, colgo l’occasione per rettificare una diffusa e violenta critica verso Ottone: avrebbe nascosto il nome di Montanelli in prima pagina, quando Indro fu gambizzato dalle Brigate Rosse. La verità è più complessa. Vero (e fu un’omissione grave) che il nome non apparve nel titolo di apertura. Ma nello stesso giorno gli attentati furono due, anche Vittorio Bruno del Secolo XIX fu gambizzato. E in prima pagina fu pubblicata un’intervista di Enzo Biagi a Indro. Fu Ottone a decidere o era assente, quel giorno, da via Solferino? E fu informato per telefono? Non so rispondere, non c’ero”. E andiamo ora alla lettera che Montanelli scrisse il 30 ottobre 1973 a Giovanni Spadolini, uscita in questi giorni dall’archivio dell’ex direttore del Corriere prima di Ottone e poi primo presidente del Consiglio non democristiano della Repubblica italiana. Montanelli era stato licenziato il 17 ottobre. La lettera è stata pubblicata sulla rivista Nuova Antologia, diretta dallo storico Cosimo Ceccuti. Ne ha dato conto l’Adnkronos. Montanelli racconta che la sera del 16 ottobre il direttore Ottone gli annuncia una visita, a casa sua, l’indomani, alle 9.30. “Naturalmente, ho già capito di che si tratta”. In “lacrime (vere)” Ottone lo informa dell’incompatibilità rilevata dal Consiglio di Amministrazione, dove il “più accanito” contro il giornalista sarebbe stato il rappresentante di Gianni Agnelli, Alberto Giovannini. Se avesse immaginato di trovarsi in questa situazione – confida Ottone a Montanelli – non avrebbe accettato la direzione del Corriere. Indro decide di rassegnare le dimissioni richieste. Alle ore 15 chiama Arrigo Levi, direttore de “La Stampa” per invitare Montanelli a collaborare al quotidiano torinese. Dato l’atteggiamento riferito di Giovannini, Montanelli dubita che la proprietà de “La Stampa” (Agnelli) veda con favore l’offerta del direttore. Dopo solo mezz’ora arriva da Levi la conferma: l’Avvocato è ben lieto dell’invito e pochi minuti dopo egli stesso chiama al telefono Montanelli per dargli il benvenuto a La Stampa. La sera è Ottone a chiamare al telefono. Si scusa per non poter pubblicare la lettera di commiato ai lettori ricevuta da Montanelli e gliene darà spiegazione l’indomani, con una visita. Non può accettare – chiarisce il giorno dopo – l’allusione al “pronunciamento padronale”, dal momento che egli stesso era presente e consenziente sulla decisione adottata dalla proprietà. E le lacrime del giorno prima? Ottone non dà risposta, racconta Montanelli. Davanti a quell’imbarazzato silenzio, Indro congeda Ottone (“Gli dico: "Vàttene". E non lo accompagno alla porta”). Arriva poco dopo la telefonata di Giovannini: felice di averlo a La Stampa: “A me ora dice: ‘Sì, è vero, non ho fatto nulla per trattenerti al Corriere: è mio interesse portarti alla Stampa, ma è interesse anche tuo’)”. Scrive Montanelli a Spadolini: «Così, in 24 ore, mi sono sistemato meglio di prima. Dal Corriere, nulla. Il comitato di redazione, organo di Giulia Maria, non ha trovato niente da dire contro un licenziamento fatto dal Consiglio d’Amministrazione e contro la risposta di Ottone –che avrai visto e giudicato – a una lettera non pubblicata. Alla Stampa mi hanno accolto col tappeto rosso. La sera a cena da Agnelli, che mi ha chiesto se ritengo rimediabile la situazione del Corriere. Gli ho risposto di no, ma non ho capito che progetti abbia. Secondo Giovannini, esita a riconoscere l’errore commesso acquistando, è tentato di vendere, ma l’orgoglio glielo vieta, non osa estromettere la scimunita per paura che diventi un altro Sandro Perrone, e forse aspetta che la situazione si deteriori al punto che la redazione lo chiami come salvatore”. Poi: “Dimenticavo: c’è stato al telefono un diverbio fra Ottone e Levi. Ottone ha detto che la mia assunzione è un atto sleale. Levi ha risposto: ‘Non ve l’ho portato via. Siete voi che lo avete buttato sul lastrico. Dovevo lasciarcelo un giornalista come Montanelli?’. Mi vorrebbero ramingo coi campanelli come i lebbrosi del Medio Evo. Ecco i fatti, caro Giovanni, come si sono realmente svolti. Non mi hanno affatto turbato”. Il resto è noto. Il Corriere, ovvero Ottone, rifiuta di pubblicare il congedo di Montanelli dai suoi lettori e l’interessato darà il testo alle agenzie di stampa. Ettore Bernabei, direttore generale della Rai, lo farà leggere di sua iniziativa al telegiornale delle 13.30 e a quello delle 20.30. Pochi mesi dopo, il 25 giugno 1974, uscirà il Giornale nuovo, l’organo di stampa fondato e diretto da Indro Montanelli in concorrenza al Corriere di Ottone: portandosi dietro prestigiose firme quali quelle di Piovene, Corradi, Bettiza, Zappulli, Cervi, Piazzesi ed altri ancora. Ottone avrebbe concluso la sua direzione in via Solferino il 29 ottobre 1977. Sul Corriere si avvicinava l’ombra della P2.

Dagospia il 21 luglio 2021. Dal profilo Facebook di Stefano Mignanego (figlio di Piero Ottone). Oggi Travaglio sul Fatto racconta Montanelli. Ci sono alcuni passaggi, tratti dai diari di Montanelli, che riguardano mio padre. Tutti molto interessanti, ma non so se pienamente fedeli al reale accadimento dei fatti. Provo pertanto a ricostruire, offrendo la versione dell'altra parte, quella di mio padre, raccolta nelle tante chiacchierate fatte in casa, in famiglia.

1) Nei suoi diari Montanelli dice che mio padre gli avrebbe annunciato in lacrime il licenziamento dal Corriere, come decisione esclusiva della proprietà. Non era così: la decisione era anche sua, e piansero entrambi, mio padre era commosso nel vedere Montanelli affranto. 

2) Mio padre non ha mai accusato Levi di "atto sleale" a seguito dell'assunzione di Montanelli alla Stampa. Una cosa del genere sarebbe stata lontana anni luce dal suo modo di fare e pensare: basti ricordare che quando mio padre lasciò la direzione del Corriere, propose come suo successore proprio Montanelli (Montanelli stesso lo afferma nei suoi diari).

3) In occasione dell'attentato, mio padre e Levi non decisero di omettere il nome di Montanelli dalla prima pagina di Corriere e Stampa. Quel giorno mio padre non era a Milano, la prima pagina venne disegnata da altri, lui chiese di far intervistare Montanelli da Enzo Biagi, e così fu fatto. Lo spazio che gli venne dedicato fu di tutto rispetto (qui allego la pagina dell'epoca). Montanelli è stato un gigante del giornalismo italiano, mio padre non ha mai avuto dubbi nel dire, anche pubblicamente, che era il più bravo. Ma aveva un carattere difficile e rapporti complicati con i direttori di turno. Era però sempre e comunque un gigante. 

Mio padre ha fatto un Corriere di rottura, apprezzato, ammirato e discusso. Che gran peccato gli sia mancato il gigante a bordo.

Francesco Specchia per "Libero quotidiano" " il 27 aprile 2021. «Soltanto un giornalista». Quando mio figlio Gregorio Indro (sì l'ho chiamato così, e appena ha cominciato a leggere, gli ho fornito la mia copia autografata de «Il generale Della Rovere») mi chiese per la prima volta chi fosse Indro Montanelli risposi con l'incisione che il Maestro invocava, vezzosamente, sopra la sua lapide. Soltanto un giornalista. Credo sia un dovere morale richiamare, a intervalli regolari, come un mantra, il Vecchio Cilindro. Il suo ricordo dev'essere un fuoco in grado di ardere in ogni occasione, un memento professionale, una botta etica che arriva quando l'abisso italiano di questo mestiere cerca d'ingoiarti. Diciamo che per me è un rito. Ogni volta che esce un libro sul vecchio Cilindro occorre porgerlo alle generazioni future, anche se non si è Shakespeare, Foscolo o E.L. Master, pensando al fatto che qualcosa resterà. Mio figlio, di anni nove, mi odia. Perché ora ci sono due scuse per perpetuare la liturgia. Una lettera e un libro. La prima è una missiva inedita di Montanelli datata 30 ottobre 1973, indirizzata all'amico Giovanni Spadolini e pubblicata ora dal Giorno (ripresa a sua volta dalla rivista Nuova Antologia, diretta dallo storico Cosimo Ceccuti). Si tratta di un foglio in cui il giornalista ricostruisce in maniera minuziosa gli eventi e i passaggi dell'interruzione del suo lungo rapporto, avvenuto il 17 dello stesso mese, con il Corriere della Sera, protrattosi per quarant' anni. «Caro Giovanni, mi vorrebbero ramingo coi campanelli come i lebbrosi del Medio Evo», scrive Montanelli (1909-2001) citando il suo direttore Piero Ottone in procinto di licenziarlo. «Quando mi volto è già sprofondato in una poltrona col viso inondato di lacrime (vere!) mi dice: "Se avessi saputo di dover affrontare un giorno come questo, non avrei accettato la direzione del Corriere, è il giorno più amaro della mia vita"». Poi Indro scoprirà che era stato proprio Ottone, in accordo con Giulia Maria Crespi, proprietaria del Corrierone, dai salotti della sinistra radical chic vicina agli ambienti eversivi, a volerlo metaforicamente morto. Infatti, non gli concesse nemmeno l'onore delle armi dell'articolo di commiato ai lettori. Il giorno dopo - resoconta sempre Montanelli a Spadolini - chiama Arrigo Levi, direttore de La Stampa, per invitare Indro a collaborare al quotidiano torinese.  Montanelli dubita che la proprietà de La Stampa (Agnelli, appunto) veda con favore l'offerta del direttore: «Gli dico che fa un passo falso perché ho tutti i motivi di ritenere che il suo padrone non approverà. Mi risponde che, come direttore, è lui che assume e licenzia, ma che comunque accerterà». Dopo solo mezz' ora arriva da Levi la conferma: l'Avvocato è ben lieto dell'invito e pochi minuti dopo egli stesso chiama al telefono Montanelli per dargli il benvenuto a La Stampa. Aggiunge Indro: «Ci fu un diverbio fra Ottone e Levi». Il primo si lamentò che l'assunzione «fosse un atto sleale. Levi rispose: non ve l'ho portato via, siete voi che l'avete buttato sul lastrico. Dovevo lasciarcelo un giornalista come Montanelli?». Nella lettera - conservata nelle carte personali di Spadolini- trapela per la prima volta il retroscena dettagliato di una storia nota; Montanelli con la sua «insolente capacità di scrittura» descrive gli sguardi dei colleghi che lo tengono vilmente a distanza di sicurezza; cita la coraggiosa solidarietà del caporedattore Di Bella, che poi diverrà anch'egli direttore dopo Ottone; fotografa il suo arrivo alla Stampa, sul tappetino rosso. E fu proprio in quest' interregno da esiliato che Indro progettò la sua vendetta: la fondazione del Giornale Nuovo. E qui subentra il secondo atto della liturgia. Ossia l'uscita di Montanelli e il suo Giornale (Albatros, pp 233, euro 14,90 con prefazioni di Barbara Alberti e Francesco Giubilei) saggio a firma di Federico Bini che ripercorre una straordinaria stagione italiana iniziata il 25 giugno 1974, quella del Giornale. Partendo, quindi, sempre dalla figura di Montanelli, Bini ricostruisce la storia del quotidiano nato dalla vendetta attraverso le vite dei protagonisti. Dalle pagine emergono testimonianze di grandi giornalisti ognuno interprete di un montanellismo di ritorno. Tra di essi Livio Caputo, Pasolini Zanelli, Tiziana Abate, Giancarlo Mazzuca, Roberto Crespi, Fedele Confalonieri, Roberto Gervaso, Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Paolo Guzzanti, Giancarlo Perna, Pietrangelo Buttafuoco, Marcello Veneziani, Alessandro Sallusti. Bini è giovane ma possiede un gusto per i talenti antichi. Ed è in grado di far riemergere ricordi leggendari per noi lettori della prim' ora. Gian Galeazzo Biazzi Vergani che ricorda Indro correggere i pezzi di Guido Piovene; Enzo Bettiza che faceva fuoriuscire diversi intellettuali da via Solferino per riversali nel nuovo giornale; Egisto Corradi che parlava il parmigiano per non farsi intercettare dai tedeschi in guerra. Dice Feltri: «Ho sempre cercato di leggere quelli bravi per tentare di rubare qualcosa. Montanelli è il numero uno. Mentre quella che ho stimato più di tutti è stata Oriana Fallaci». Soltanto un giornalista.

·        Jas Gawronski.

Alessia Ardesi per “Libero Quotidiano” il 31 gennaio 2021. Dalla terrazza di casa sua si domina il centro di Roma e si vedono gli affreschi dentro la cupola della Basilica di San Carlo al Corso. Ha visitato 130 paesi, è stato amico di Wojtyla e Fidel Castro, di Agnelli e Berlusconi. Ha intervistato, tra i tanti, la Thatcher e Khomeyni, Malcolm X e Walesa. È nato a Vienna, da un ambasciatore polacco, Jan, e dalla scrittrice Luciana Frassati. Jas Gawronski compirà tra pochi giorni 85 anni, anche se ne dimostra quindici di meno - sua madre è arrivata a 105. Ha un tratto di eleganza, educazione e rispetto d'altri tempi. Parlare di fede con lui viene abbastanza naturale.

Senatore Gawronski, lei crede?

«Sono credente, prego e vado messa. Ho trovato nella mia parrocchia un confessore molto generoso. Gli ho chiesto di poter partecipare alla messa durante la settimana, anziché la domenica quando la chiesa è troppo piena di gente».

E lui cosa ha risposto?

«Niente, ha sorriso. Non ha fatto obiezioni».

Suo zio, Pier Giorgio Frassati, è beato.

«Sì, ed è grazie a lui se sono vivo per miracolo».

Perché?

 «Una mattina di sette anni fa, uscendo di casa di corsa per raggiungere lo scooter, vengo abbagliato da un raggio di sole. La vista mi si offusca e non mi accorgo che c'è un tombino, profondo tre metri e mezzo, lasciato aperto senza alcuna segnalazione. Ci finisco dentro».

Quante fratture?

«Neanche un graffio. Mi ha salvato mio zio Pier Giorgio, è stato davvero un suo miracolo. Ne ha fatti altri».

Per questo è stato beatificato?

«Sì. Lui aiutava i poveri. È morto a soli ventiquattro anni, prendendosi la poliomelite a casa di un malato».

Suo nonno Alfredo Frassati, fondatore e direttore della Stampa, era ateo però...

«Non credeva. Ma al funerale del figlio, vedendo la folla di oltre cinquemila persone accorse per dargli l'ultimo saluto, dei dubbi gli vennero. E anche dei rimorsi».

Lei è nato a Vienna nel 1936, due anni prima dell'invasione di Hitler. Che infanzia ha avuto?

«Sono cresciuto in una famiglia cattolica. I miei frequentavano Alma Mahler, Arturo Toscanini, Wilhelm Furtwängler. I due direttori di orchestra litigavano spesso: Toscanini rimproverava al collega di non essersi schierato contro il nazifascismo».

È vero che Furtwängler si innamorò di sua mamma?

«Sì, le scrisse lettere d'amore bellissime ma molto rispettose. Non accadde nulla. Almeno che io sappia». Che donna era? «Era bellissima. Da antifascista incontrò sei volte Mussolini, nel periodo drammatico in cui scoppiò la seconda guerra mondiale».

Come mai?

«Perorava la causa della Polonia, la terra di mio padre. Mussolini non parlava affatto bene di Hitler, cercava ogni occasione per punzecchiarlo. Lei gli raccontò dei cento professori polacchi che erano stati convocati con il pretesto di una conferenza dagli occupanti nazisti e incarcerati. Il Duce chiamò il Führer e li fece liberare».

E suo padre?

«Aveva una cultura smisurata, parlava latino e greco. Era un diplomatico. Incontrò mamma a Berlino, dove il nonno era ambasciatore. Quando Mussolini instaurò la dittatura gli portarono via La Stampa per darla al senatore Agnelli, che non ebbe la cortesia di rifiutarla».

Non ne parlò mai con l'Avvocato?

«Quando mi canzonava, gli ricordavo che mio nonno non si era mai messo in camicia nera. Il suo sì».

Cosa ricorda della guerra?

«L'arrivo dei soldati polacchi a Roma. Erano gli eroi che avevano preso Cassino. Io, che parlavo polacco, li portai in giro per la città. Sparii per tutto il giorno, dimenticandomi di avvertire i miei. Erano disperati».

Come si immagina l'Aldilà?

«Il Paradiso esiste di sicuro. Tenderei ad escludere l'Inferno, perché se Dio è buono ci perdonerà. Però non bisogna spargere la voce, altrimenti qualcuno potrebbe essere invogliato a comportarsi male. Certo, ci sono crimini orribili per cui l'Inferno è giusto».

E il Purgatorio?

«È una passaggio di transizione, non molto interessante».

Posso proporle un gioco?

«Vediamo...»

Dove pensa che saranno alcune delle persone che ha incontrato o intervistato: all'Inferno, in Purgatorio o in Paradiso?

«Va bene, ma le faccio una premessa: non credo che nessuno sia finito all'Inferno».

Neanche Fidel Castro?

«Lo penso in Paradiso, perché era in buona fede. Per cinquant' anni, a capo di uno Stato con otto milioni di abitanti, ha condizionato la vita politica degli Usa e influenzato quella del Sud America. Credo sia l'unico dittatore che non ha avuto un conto in Svizzera».

E la gente che ha messo in galera?

«È vero; ma nella sua concezione era a fin di bene».

L'Imam Khomeyni?

«L'ho intervistato poco prima che tornasse a Teheran. Quando è diventato leader dell'Iran mi vennero i brividi».

Quindi all'Inferno?

«In Purgatorio, credo. Quando c'è una forte forza religiosa, ci possono essere anche buone intenzioni».

Malcolm X?

«In Purgatorio. Aveva un'idea del razzismo al contrario: l'America avrebbe dovuto creare uno Stato per i neri, non infiltrati dai bianchi. Disprezzava Martin Luther King. Aveva fascino. Era stato un ruffiano, uno che usava le donne. Poi ha cambiato atteggiamento ed è diventato un simbolo positivo».

Margaret Thatcher?

«Nel super paradiso economico, riservato a quelli che hanno salvato il mondo. Ha resistito agli scioperi. Era una donna innamorata di Reagan».

Dice?

«Al G-7 dell'83 si cambiò d'abito quattro volte. Per lui».

Andy Warhol?

«In Purgatorio per la vita che ha condotto, in Paradiso per i capolavori che ha realizzato».

Gianni Agnelli?

«Lo "scomporrei" in due. Una parte in Paradiso, per le tante cose belle che abbiamo fatto insieme, tra cui viaggi fantastici, e le persone interessanti che mi ha fatto incontrare. L'altra in Purgatorio».

Perché?

«Lui lo saprebbe».

Lech Walesa?

«In Paradiso, come rivoluzionario. In Purgatorio, come presidente della Repubblica. È difficile essere bravo nell'organizzare la rivolta e poi governare».

Cesare Romiti?

«Se lo mettessi solamente in Paradiso si offenderebbe. Anche in questo caso si deve sdoppiare. Sarà in Paradiso per come ha gestito la Fiat. In Purgatorio per certe frecciate e cattiverie fatte ad alcuni dipendenti».

Enzo Biagi?

«Ho lavorato con lui come interprete, gli organizzavo i viaggi. Per andare in Vietnam dovemmo cambiare cinque aerei. Decisi così di passare per il Cairo e di fermarci a vedere le piramidi. Ci trovammo, al tramonto, noi due soli di fronte a uno spettacolo meraviglioso... Ma lui non ne rimase colpito, volle andare via subito».

Quindi sarà...

«Sospeso tra Paradiso e Purgatorio... Diciamo che ho imparato di più da Sergio Zavoli».

Pensa alla morte?

«Ci penso sempre di più. Però, più si avvicina quel momento e meno mi fa paura. Anni addietro mi spaventava. Ora mi sembra un logico e giusto approdo».

Cosa intende?

«Quando mio papà era ormai anziano, spesso gli chiedevo se temesse di morire. Lui mi rispondeva serenamente di no, perché la natura è fatta in maniera fantastica: ti prepara e predispone a quel momento. Ti cominci a stancare di più, non ha più voglia di tante cose, hai meno curiosità».

Il Covid la spaventa?

«Non molto, perché comincio a pensare come mio padre».

Ha lavorato come portavoce di Berlusconi quando è diventato presidente del Consiglio per la prima volta. Che ricordo ne ha?

«Ho goduto credo del periodo migliore, forse quello con più entusiasmo intorno a lui. È un uomo di grande qualità. Teneva sempre la porta aperta a tutti, era disponibile. Mi faceva assistere a tutte le telefonate e tutti gli incontri».

In che modo ha conosciuto Karol Wojtyla?

«A Cracovia, ai tempi era cardinale. Quando fu eletto Papa telefonai al suo segretario, Dziwisz, e chiesi di vederlo. Avevo appuntamento alle sei di sera, mi invitò a restare a cena. La volta dopo mi portai un microfono per registrarlo. Parlò in polacco, a lungo, e di tutto. Lavorai alla sbobinatura della conversazione avuta con lui tutta la notte. All'alba mi chiamò il segretario per dirmi che non se ne faceva più nulla».

Perché?

«Era la sua prima intervista, e aveva affrontato solo argomenti di politica. Oltretutto, con parole comprensive per Jaruzelski, il generale comunista che aveva fatto il colpo di Stato. Non a caso lo incontrò due volte dopo che aveva lasciato la guida della Polonia».

Com' era Papa Giovanni Paolo II visto da vicino?

 «Un uomo vero, virile, affascinante. Di solito le persone così sono presuntuose. Lui no, era naturale, spontaneo. L'unico difetto, se glielo devo trovare, è che sempre rimasto polacco. Patriota, anche troppo».

È possibile ricevere segnali dall'Aldilà?

«Io non li ho mai avuti. Ma Gustavo Rol, il sensitivo, che era amico di mia mamma, riusciva davvero a mettersi in contatto con i morti».

Esistono agli angeli custodi?

«Penso ci sia un delegato di qualcuno che sta Lassù che si occupa di noi. A volte, ne abbiamo anche qui sulla Terra. Ma bisogna fare attenzione alle apparenze...».

A cosa si riferisce?

«Quand'ero corrispondente da Mosca, veniva spesso a cena a casa mia un collega russo, con una fidanzata bellissima, dall'aspetto angelico. Capitava che lui si ubriacasse, o fingesse di ubriacarsi, e la ragazza rivolgesse le sue attenzioni a me».

E lei?

«Io niente. Ero insospettito. Credo fosse una tattica per carpire informazioni, o farmi cadere in trappola. Più che a un angelo custode, somigliava a una spia».

·        Giovanni Minoli.

La Storia siamo noi: i diritti a Minoli, il tesoro in fuga. In Rai lo sguardo è a Sanremo, ma viale Mazzini lascia al giornalista l'archivio possente di 1000 ore che rischia di finire alla concorrenza. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 03 marzo 2021. Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Saranno il Covid, il Recovery, Sanremo, le circostanze avverse e gli interessi obliqui: ma la Rai sta rinunciando a uno dei suoi asset più pregiati, alla sua stessa memoria, e nessuna l’ha avvertita. Accade, infatti, che uno degli archivi più possenti del servizio pubblico, quello de La Storia siamo noi, rischi di finire nelle mani di un privato -Giovanni Minoli che pure ne è stato dal 2002 il deus ex machina- che potrebbe, teoricamente rivenderlo ai concorrenti La7, Mediaset, Discovery. Più ad alcuni grandi broadcaster americani i quali hanno già inviato i loro avvocati per sondare il terreno. La vicenda risale al contratto con cui la Rai, il 31/5/2010, al pensionando e dirigente Minoli assegnava la direzione delle iniziative per il 150° dell’Unità d’Italia. Minoli ottenne meno di quel che la Rai offriva (ma erano pure sempre 800mila euro); epperò, come clausola, en passant, pose alla Rai la condizione che, qualora la Rai stessa non avesse rinegoziato, i diritti della Storia siamo noi , questi sarebbero passati al giornalista. “Trascorsi i primi 10 anni le parte e/o i loro aventi causa valuteranno eventuali proroghe/estensioni dei suddetti diritti”, recita il comma suddetto. Così, per magia, senza alcuna opzione o diritto di prima scelta da parte di viale Mazzini, la proprietà di una nazione sarebbe passata ad un sol uomo. In Rai, si sa, il concetto del tempo è relativo e legato alle stratificazioni dei governi; sicché, evidentemente all’allora direttore generale Masi non parve vero di liberarsi di Minoli ad una cifra con cui evitò di coinvolgere il cda, e lascio il caso ai suoi successori. Con l’alternarsi dei governi e delle governance, nessuno tra presidenti, direttori generali o amministratori delegati Rai si è più ricordato di quella postilla contrattuale. Finché, il 31 maggio 2020 l’ex direttore di Rai Storia, pare sia diventato proprietario dei programmi. Da qui inizia una negoziazione di Minoli con l’attuale ad Salini, bloccata formalmente a una lettera del 7/8/2020: “…Ciò dovuto, nell’ottica della valorizzazione del proprio archivio, la Rai ribadisce la volontà di addivenire a un accordo per rinnovare i diritti facenti capo al suo assistito secondo condizioni economiche reciprocamente soddisfacenti”, firmato avvocato Francesco Spadafora ufficio legale Rai. Ora, La Storia siamo noi ideata da Renato Parascandolo nel 1997, sotto la gestione Minoli s’è guadagnata 4 Oscar delle Televisione e soprattutto, nel 2012, l’assegnazione dell’Emmy Award americano come “miglior programma di divulgazione storica nel mondo”. In più, vanta un deposito documentaristico immenso, quasi 1000 ore di trasmissione. Assieme al patrimonio immobiliare e all’archivio delle Teche che spaziano da intrattenimento e informazione, rappresenta uno dei pilastri anche economici della tv di Stato. Considerato che il footage -l’uso dei filmati da mandare in onda- vale per la stessa Rai 1 euro al minuto, 60 mila euro l’ora; e che qui ci sono programmi “ad utilità ripetuta” che sono andati negli ultimi 4 anni su Radio 24, poi 2 a La7 e l’ultimo a Radio1, e che più passa il tempo più acquistano valore; be’, il peso della vicenda può andare ad incidere non solo sulla cassa -60 milioni di euro, ad occhio, ma sulla mission del servizio pubblico. Si parla di programmi destinati alla posterità. La Storia siamo noi sta alla Rai un po’ come l’Istituto Luce allo Stato italiano. Viale Mazzini è in imbarazzo, ma reagisce. E, dietro nostra interpellanza, pronta arriva la risposta dal settimo piano Rai: “La titolarità dei diritti di utilizzazione economica delle opere nel loro complesso spetta a Rai, unica che può autorizzarne la diffusione, e non a Minoli, il quale può vantare diritti sui soli testi a suo tempo ideati. Ed è sulla base di tali diritti che. Minoli sta (legittimamente) esercitando un potere interdittivo, che impedisce al grande pubblico la visione di opere di Rai, che sono state prodotte con il denaro dei contribuenti”. La vena polemica da parte dei dirigenti del servizio pubblico ci sta: in effetti la clausola di proprietà è un obbrobrio etico e giuridico (ma l’ha controfirmata la Rai, i cui avvocati sono pagati dai contribuenti…). Continua la Rai: “Al momento è in corso una negoziazione volta all’acquisizione da parte di Rai dei diritti di titolarità di Minoli allo scopo di realizzare un nuovo progetto editoriale di durata biennale con il coinvolgimento dello stesso Minoli”. E aggiunge di non volere, al momento, tutto l’archivio in blocco, ma programmi alla bisogna. Minoli sostiene (vedi art.8 del contratto sulla direzione delle iniziative per il 150° dell’Unità d’Italia: “trascorsi i primi 10 anni le parte e/o i loro aventi causa valuteranno eventuali proroghe/estensioni dei suddetti diritti”) di essere titolare non solo di tutti i diritti ma su tutte le piattaforme e di non essere stato toccato da nessuna trattativa. E ufficialmente non entra in polemica. Ma, con gli amici si lascia scappare che “è come se al Louvre chiudessi la sala Cezanne perché ci sono meno visitatori”. Certo vedere La Storia siamo noi, per dire, alla Bbc, farebbe uno strano effetto…

Salvatore Merlo per “il Foglio” il 6 aprile 2021. Quando lo racconta ha l’aria divertita ed esterrefatta di quello che per primo non se ne capacita. Come diavolo ha fatto la Rai a cedergli la proprietà di circa tremila ore dei suoi archivi? Tremila ore della storia d’Italia attraverso la televisione pubblica. Eppure è così. Da maggio infatti  Giovanni Minoli, per effetto di un accordo siglato dieci anni fa ed entrato adesso in vigore, è proprietario dei diritti di “La Storia siamo noi”, il suo notissimo programma televisivo andato in onda   sulla Rai da ottobre 2002 a giugno 2013. E dentro c’è di tutto, ovviamente. Trattasi di patrimonio del servizio pubblico, comprese interviste e testimonianze video che non esistono altrove. Da Andreotti che con grande cinismo dice che l’avvocato Ambrosoli “se l’era andata a   cercare” fino alle confessioni dell’autista di Berlinguer sul presunto attentato in Bulgaria. Dall’intervista in cui Steve Pieczenik sostenne che “per il Dipartimento di stato americano Aldo Moro doveva morire”  alla testimonianza del generale Gianadelio Maletti, latitante in Sudafrica dopo la strage di Piazza Fontana.  Circa tremila ore. Che Minoli potrebbe vendere a chi vuole: a Netflix, a Discovery, ad Amazon o a Urbano Cairo (“che è interessato”). Solo che Minoli dice di volerle dare alla Rai “perché è al servizio pubblico che devono appartenere”. E va bene. Tuttavia  la vicenda che viene componendosi intorno ai diritti di questo archivio  dà un’idea di degrado complessivo della televisione di stato e  del suo management. Presente e passato. Dieci anni fa Mauro Masi, allora direttore generale, per risparmiare un po’ su un contratto milionario di tre anni che stava facendo a Minoli, in pratica gli cedette (a partire dal 2021) un tesoro preso dagli archivi dell’azienda di cui avrebbe dovuto tutelare gli interessi. E dieci anni dopo Fabrizio Salini, che ora sta al posto di Masi, si trova di fronte all’imbarazzo di dover spendere i soldi della Rai per recuperare ciò che in tutta evidenza è della Rai. E infatti tergiversa. Che cos’è il patrimonio della Rai se non i suoi archivi, le sue teche, la sua storia che bene o male coincide con quella di questo paese? Se la Rai perde la sua storia cosa le resta? In definitiva che cos’è la Rai senza la sua cineteca? E’ un carrozzone parastatale come gli altri. Forse peggio degli altri. Senza la sua storia, alla Rai  restano l’enormità di dodicimila dipendenti sul groppone del cavallo (morente) di Viale Mazzini, i conti in rosso malgrado il canone in bolletta e qualche palazzo sparso per Roma, Napoli e Milano. La Rai è la storia d’Italia. Se la perde, non è più niente.  Tuttavia  ciò che è evidente a chiunque non abbia portato il proprio cervello all’ammasso, lo è molto meno ai dirigenti che la politica porta in Rai, per lo più dei cetrioli presi al lazo per combinazione culinario-cabarettistica ed elevati al ruolo di direttori di area, direttori generali, amministratori delegati, presidenti e altri pennacchi e medagliette, sergenti e caporali. Tutta gente che non vive nella prefigurazione minuziosa del domani e del futuro della  sua azienda, bensì sopravvive nella prefigurazione dei quindici o trenta minuti che li attende a ogni cambio di governo, a ogni piccolo scossone del miserabile potere politico, tra riunioni della Vigilanza e del cda, pretese dei parlamentari e dei leader. E dunque figuratevi cosa potevano pensare nel 2010 i dirigenti della Rai quando firmavano spensieratamente una clausola per cedere tremila ore di archivio Rai a Giovanni Minoli. “E che ce frega? Mica ci siamo noi tra dieci anni”. Loro no. Chi li aveva nominati nemmeno. La Rai invece sì, c’è ancora, all’incirca. E l’Italia pure. Ma questi sono dettagli. Che dovrebbe sciogliere l’attuale dirigenza Rai. Solo che non lo fa. Traccheggia. Da maggio 2020 infatti c’è un surreale scambio di lettere tra Minoli (che vorrebbe vendergli l’archivio) e i vertici della Rai. Non s’è nemmeno mai parlato di soldi. “E non sono i soldi che mi interessano”, dice Minoli. Ma è ormai chiaro che l’attuale dirigenza Rai aspetta solo di scadere, tra un mese. In modo tale da lasciare a chi verrà dopo la grana imbarazzante di dover pagare coi soldi della Rai qualcosa che era già della Rai. Auguri. E complimenti a tutti.      

·        Lilli Gruber.

La colata d'odio della Gruber. Andrea Indini il 17 Novembre 2021 su Il Giornale. Sabato scorso, alla presentazione del libro, la Gruber prende in giro Giordano per il suo tono di voce e lo attacca: "Non è un mio collega". E i fan del politicamente corretto? Muti. Ma a parti inverse..."Non sono neanche sicura, se faccio un verso, se sai chi è questo Mario Giordano...". Lilli Gruber si rivolge al marito Jacques Charmelot e, ridacchiando, getta una colata d'odio contro il conduttore di Fuori dal Coro. Lo canzona per il suo tono di voce. Fa un verso in falsetto: me-me-me-me. Il coniuge sghignazza a sua volta. "Hai capito chi è?", rincara lei mentre il direttore del Mattino di Padova, Fabrizio Brancoli, presente sul palco a moderare la presentazione del libro La guerra dentro, li lascia fare. Sembra un siparietto studiato a tavolino. Ma no. Tutto nasce da una domanda del pubblico: "Ritengo che il requisito fondamentale per un giornalista sia la credibilità. Voi (Gruber e consorte, ndr) siete entrambi giornalisti: ritenete Mario Giordano un vostro collega?". E lei, dopo l'ignobile presa in giro, giù a sparare a pallettoni con fare da maestrina: "No, per me Mario Giordano non è un collega". E i soloni del politicamente corretto che sono sempre in prima linea a stigmatizzare, a puntualizzare e a bacchettare? Tutti muti. Non una presa di posizione. Nemmeno una timida lamentela si è levata da quelle parti. Li immaginiamo - a casa loro o in ufficio - a ridersela sotto i baffi, a fare "sì" con la testa, a sussurrare contenti "brava, Lilli, bel colpo". Ma pensate cosa sarebbe successo a parti invertite? Sarebbe scoppiato un vero e proprio putiferio. E non solo se il malcapitato avesse osato prendere in giro la Gruber di turno per un difetto fisico. Anche solo con un apprezzamento o una pungolatura di una peculiarità fisica sarebbe letteralmente venuto giù il mondo. Le femministe avrebbero ingrassato di post infuocati la bacheca di Twitter per ore e ore. Il video sarebbe rimbalzato ovunque, da Instagram a Facebook, in un crescendo di isteria generalizzata. I social si sarebbero letteralmente schierati contro il maschio aggressore. Anche la politica avrebbe fatto la sua parte: tutti progressisti (grillini non esclusi) avrebbero fatto a gara per rilasciare dichiarazioni sempre più dure, fino a intasare le agenzie stampa. Qualcuno si sarebbe addirittura spinto a presentare una qualche (assurda) interrogazione parlamentare. E lo stesso circo indiavolato sarebbe stato messo in piedi non solo se ad essere insultata da qualcuno di area centrodestra fosse stata la Gruber, ma qualsiasi personaggio della sinistra nostrana. Maschio o femmina, poco importa. Fosse finito nel mirino uno straniero, si sarebbe urlato al razzismo. Fosse stato un omosessuale, sarebbero stati tirati in ballo la omotransfobia e il ddl Zan. E così via. Ma a finire sotto il tiro incrociato è stato appunto Giordano, e dunque niente. Mario Giordano non se l'è presa. Sa com'è fatta certa intellighenzia rossa e sa che può sempre tutto. Le ha, comunque, risposto per le rime. "Ho una brutta voce. È un mio difetto fisico... che ci vuoi fare?", ha detto parlando col cartonato della Gruber piantato nel bel mezzo dello studio di Fuori dal coro. "Ma che la regina del politicamente corretto attacchi una persona per un suo difetto fisico: dove sei caduta, cara Lilli?". E l'ha informata che, se per essere suoi colleghi bisogna partecipare alle riunioni del Bilderberg e scorrazzare sullo yacht a finaco di De Benedetti, è profondamente orgoglioso di non essere un suo collega. E come dar torto a Giordano?

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia. Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore). Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Giovanni Sallusti per Dagospia il 17 novembre 2021. autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore. Caro Dago, non c’è niente da fare, tocca tornare a Orwell, per decrittare gli impazzimenti quotidiani dell’era Politicamente Corretta. “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”. Eccola lì, l’essenza di ogni autoritarismo, il doppiopesismo logico e morale tra l’oligarchia che impugna il manganello e la plebe che lo assaggia. E questo autoritarismo sghembo, patinato e buonista che ci è toccato in sorte non fa eccezione. Prendete l’ultima prodezza di una vera e propria Erinni del Politicamente Corretto, Dietlinde Gruber detta Lilli, occhiuta setacciatrice di ogni sbavatura stilistica in odore anche vago di machismo, sessismo, sovranismo (qualunque cosa voglia dire), fascismo (ammesso voglia dire ancora qualcosa). Ebbene, la giornalista competente e progressista si è sentita rivolgere la seguente, fondamentale domanda a un recente convegno (in queste occasioni l’intervistatore svolge invariabilmente la funzione dell’intellettuale cortigiano, con particolare attenzione al secondo aspetto, l’intelletto è opzionale): “Ritenete Mario Giordano un vostro collega?”. La Gruber quasi non crede a cotanto assist, a questo rigore a porta vuota davanti allo scalpo di un reprobo così manifesto per l’ideologia dei Buoni, e infatti esordisce con un risolino di compiacimento. Dopodiché si lancia: “Allora, rispondo prima io perché non sono neanche sicura…”, quasi a mettere in dubbio l’esistenza stessa del dissidente, come da consolidata tradizione sinistra. Ma è solo un pretesto per vibrare il vero colpo: “Sì, se faccio un verso sai chi è, questo Giordano”. E, avendo ormai creato il clima per l’esecuzione pubblica, può esibirsi in un forzatamente stridulo “Behbehbehbehbeh…”, che vorrebbe essere la parodia della voce del reprobo (il video è stato mostrato nella puntata di ieri di Fuori dal Coro). Il quale sì, è dotato di un timbro vocale più acuto della media, diciamo pure nettamente più acuto della media (per noi che non ci siamo mai candidati col Pd è una caratteristica descrittiva, non valutativa, quindi ci possiamo permettere di non essere reticenti). Quindi: l’anchorwoman impegnata, e sempre dalla parte giusta, che ha scritto un libro contro “la cultura delle 3 V” dell’odio maschilista (volgarità, violenza, visibilità), sforna un’uscita che sarebbe considerata volgare in qualunque bar di periferia, violenta come solo può esserlo l’irrisione per un (presunto, sempre dalle parti civili e democratiche) difetto fisico in assenza del difettato, e che sfrutta tutta la forza della visibilità dell’autrice, una signora (sì può dire, senza che indichi eccesso testosteronico?) che va in onda ininterrottamente da lustri in prima serata su reti televisive nazionali. Ci sarebbe materiale per dodici puntate di “Otto e mezzo” contro la barbara usanza contemporanea del body shaming, se la protagonista non fosse la conduttrice del medesimo. Per cogliere quanto l’ipocrisia doppiopesista sia l’alfabeto del Politicamente Corretto di rito gruberiano (che poi è una mera importazione di mode d’Oltreoceano, non vorremmo la nostra si montasse la testa), propongo un esperimento mentale: provate a invertire i poli attoriali della scena. Mario Giordano, in esordio di trasmissione, chiamando a sé l’ormai mitologico regista/spalla (“Donato!”), maramaldeggia: “Aspetta, questa Gruber, non sono neanche sicuro… Sì, se faccio una smorfia sai chi è, questa Gruber”. E si mette lì a stringere i labbroni, in una parodia oscena delle labbra della collega, fattualmente, legittimamente e innocentemente più voluminose della media. Chiaro cosa sarebbe accaduto, no? Fucilazione del reprobo a reti unificate, editoriali prestampati in serie sull’orrido maschilismo becero-destrorso che non passa, comunicato di scuse di Mediaset con pellegrinaggio in ginocchio di Piersilvio alla sede di La7. Noi non vogliamo niente di tutto ciò, ovviamente, siam mica sgherri del pensiero unico. Solo, ci permettiamo di dire a Lilli che, se lei chiude il suo libro con l’ambizioso programma di “rieducare il maschio”, a volte basterebbe la sana, antica, reazionaria educazione. E sì, vale anche per la femmina. 

Giorgia Meloni contro Lilli Gruber: "Sbeffeggia Mario Giordano? Una scena infantile, triste, imbarazzante". Libero Quotidiano il 18 novembre 2021. Una vergogna che sta facendo discutere, soprattutto da quando Mario Giordano ne ha parlato nel corso della sua ultima puntata di Fuori dal Coro, il programma in onda su Rete 4. Una vergogna firmata Lilli Gruber, la quale si è permessa di sfottere in pubblico il conduttore a causa della sua voce. E provate soltanto a immaginare se qualcuno, di famoso e in pubblico, si fosse permesso di dileggiarla per esempio per i suoi ritocchini chirurgici... Ma non solo: lady Otto e Mezzo, con tutta la spocchia tipica della sinistra, ci ha tenuto a sottolineare che "Mario Giordano non è un mio collega". Vergogna assoluta, appunto. E ora, contro la Gruber, piove anche l'affondo di Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d'Italia rilancia su Twitter le immagini incriminate, il video che mostra la conduttrice sparare a zero contro il "non collega". E la Meloni commenta: "Lilli Gruber, durante un incontro pubblico, sbeffeggia con tanto di verso Mario Giordano. Una scena imbarazzante e triste. E questa sarebbe professionalità? Solidarietà a Giordano, un giornalista fuori dal coro. Sicura che atteggiamenti infantili come questo non lo scoraggeranno", conclude la leader di FdI. Come detto, Giordano nell'ultima puntata di fuori dal coro ha risposto a simile bassezza: "Ebbene sì cara Lilli Gruber, ho una brutta voce. Che ci vogliamo fare? È un mio difetto fisico: ti chiedo scusa, vi chiedo scusa. Ho una brutta voce, ho un difetto fisico! Ma che la regina del politicamente corretto prenda in giro, attacchi una persona sui suoi difetti fisici, beh, a che livello sei caduta cara Lilli". Ko tecnico, ovviamente per Lilli Gruber. Lilli Gruber, durante un incontro pubblico, sbeffeggia con tanto di verso Mario Giordano. Una scena imbarazzante e triste. E questa sarebbe professionalità? Solidarietà a Giordano, un giornalista fuori dal coro. Sicura che atteggiamenti infantili come questo non lo scoraggeranno. 

Vittorio Feltri umilia Lilli Gruber: "Dice che Mario Giordano non è un suo collega? Perché ha ragione". Libero Quotidiano il 18 novembre 2021. Una valanga, una tempesta perfetta su Lilli Gruber. E, ammettiamolo, non poteva andare in modo diverso. Proprio lei, proprio la paladina dei diritti, del bon-ton, la nemica giurata del politicamente scorretto. Già, proprio lei ha sfottuto Mario Giordano per il suo tono di voce, aggiungendo anche di non ritenersi una sua collega. Frasi pronunciate in pubblico nel corso di un evento, frasi vergognose che hanno fatto il giro del web alla velocità della luce, frasi mostrate, riprese e stigmatizzate dallo stesso Mario Giordano nel corso dell'ultima puntata di Fuori dal Coro, dove si è ironicamente scusato per la sua "brutta voce" e dove ha sottolineato come la Gruber "sia caduta davvero in basso". "Che ne sa, la signora?". Rita Dalla Chiesa fa a pezzi Lilli Gruber: il peggio della vergogna contro Mario Giordano

Quanto accaduto ha scatenato durissime reazioni contro la Gruber. Tra le altre, quelle di Giorgia Meloni e Rita Dalla Chiesa, che sfruttando differenti argomentazioni hanno picchiato durissimo contro la conduttrice di Otto e Mezzo. Ma anche Vittorio Feltri, direttore editoriale di Libero, non si è sottratto. Già, anche lui ha preso la mira ed ha aperto il fuoco contro Lilli la Rossa. Il tutto su Twitter, nel conciso spazio concesso da un cinguettio: "La Gruber dice di Giordano che non è un suo collega. Giusto. Infatti lui è molto più bravo di lei", picchia durissimo Vittorio Feltri. Anche Pietro Senaldi, in un videoeditoriale pubblicato su LiberoTv, aveva preso posizione contro la Gruber: "La Gruber è una grandissima giornalista - ha premesso ironico - ha fatto uno scoop straordinario, gli italiani non se n'erano accorti. Ha scoperto che Mario Giordano ha una voce stridula. Non solo: la giornalista ha sentito il bisogno di fargli il verso. Giordano ha aperto la sua trasmissione Fuori dal coro rinfacciandole la caduta di stile. La solitaria sinistra, che ora per criticare gli avversari li attaccano sui difetti fisici. Se Giordano ipotizzato che la Gruber è una tirata chissà che cosa sarebbe successo", concludeva il condirettore di Libero.

Da liberoquotidiano.it il 18 novembre 2021. Anche Matteo Salvini si infuria con Lilli Gruber dopo le sue offese a Mario Giordano. "La Lega promuoverà una segnalazione all'Ordine dei giornalisti per le parole di Lilli Gruber nei confronti di Mario Giordano. L'obiettivo è chiedere una valutazione all'organo regionale in cui è iscritta la conduttrice de La7 per valutare la sussistenza o meno della violazione del codice professionale". La conduttrice di Otto e mezzo infatti ha insultato Giordano per il suo tono di voce, aggiungendo anche di non ritenersi una sua collega. Frasi pronunciate in pubblico nel corso di un evento, frasi vergognose che hanno fatto il giro del web alla velocità della luce, frasi mostrate, riprese e stigmatizzate dallo stesso Mario Giordano nel corso dell'ultima puntata di Fuori dal Coro, dove si è ironicamente scusato per la sua "brutta voce" e dove ha sottolineato come la Gruber "sia caduta davvero in basso". Parole quelle della Gruber che hanno indignato anche la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni: "Lilli Gruber, durante un incontro pubblico, sbeffeggia con tanto di verso Mario Giordano. Una scena imbarazzante e triste. E questa sarebbe professionalità? Solidarietà a Giordano, un giornalista fuori dal coro. Sicura che atteggiamenti infantili come questo non lo scoraggeranno". Sgomento e sconcerto generale. "La Gruber dice di Giordano che non è un suo collega. Giusto. Infatti lui è molto più bravo di lei", picchia duro Vittorio Feltri. "Quello che ha detto Lilli Gruber contro Mario Giordano, preso vergognosamente in giro per la sua voce, dovrebbe portare a qualche riflessione sul politicamente corretto che vale a senso unico. E non oso pensare se fosse successa la stessa cosa al contrario", commenta Rita Dalla Chiesa.

Antonello Piroso per “La Verità” il 21 novembre 2021. «Per principio non do pagelle ai colleghi, ognuno ha la sua cifra stilistica», giurava nel 2010 un'ecumenica Lilli Gruber. Poi le è apparso Mario Giordano e la papessa è passata direttamente alla scomunica: «Non è un mio collega». Con tanto di imitazione vocale «incredibile». Nel senso: non ci si crede che una paladina del politicamente corretto sia scaduta a tale livello. Immaginate lo Sturm und Drang che si sarebbe scatenato a ruoli invertiti, uomo - per di più «di destra» - su donna, tanto più «de sinistra». La querelle continua a tenere banco. Verdetto del Foglio di ieri: i due sono gemelli, praticando lo stesso mestiere, l'informazione-spettacolo. Ciascuno a modo suo, certo, ma con Gruber che «nasconde la sua pregiudiziale brutalità dietro a un contegno fintamente professionale e distaccato». Secondo me ha ragione Lilli, nata Dietlinde a Bolzano («Nell'antica lingua germanica significa colei che guida il popolo», mica cotica, ha puntualizzato lei): Giordano non è un suo collega. E non perché questi non sia un giornalista, che ha in tv una «cifra stilistica» che può non piacere, comunque immediata e riconoscibile (pure troppo). Ma in quanto è a lei che la definizione sta stretta. L'impressione, infatti, è che Gruber voli alto. Si veda altro. Si senta oltre. Una, anzi: «la» vestale della verità. Ovviamente la sua, che poi è quella dei «compagnucci della parrocchietta». «Sinistrismo ben temperato dall'Auditel» (peraltro positivo), l'ha fotografato Aldo Grasso che nel 2014 sul Corriere della sera si fece 10 domande (retoriche) sull'anchorwoman, una per tutte: «Perché interrompe spesso i suoi ospiti? Lo si fa con chi la pensa diversamente da noi». «Nei talk show politici i conduttori sono quasi tutti militanti (di sinistra) boriosi e arrabbiati. Sul ring televisivo non sono arbitri, ma pugili. La loro faziosità è sfacciata e ridicola. In questo difetto capitale si assomigliano tutti. Le loro trasmissioni hanno regole e ospiti decisi da loro a vantaggio della propria fazione», cannoneggiò nel 2012 Giampaolo Pansa in Tipi Sinistri. I gironi infernali della casta rossa. Unica signora nella compilation: Lilli la Rossa. Un'Eletta. Che una volta lo è stata davvero, eletta. Con l'Ulivo al Parlamento europeo, 2004, record di oltre 1.100.000 voti (in due circoscrizioni). Una bella nemesi, per un'antiberlusconiana doc: lo sbarco in politica come volto tv dopo aver imputato al Cavaliere un successo in virtù del suo strapotere mediatico. Si dimetterà nel settembre 2008, prima della scadenza, non senza far notare: «Lascio rinunciando a 3.300 euro mensili di pensione». Te credo, hanno mormorato i detrattori invidiosi: «Contestualmente La7 le ha affidato l'Ottoemezzo di Giuliano Ferrara», nel frattempo «spernacchiato» (immagine dello stesso Elefantino) dagli elettori alle politiche. Sbarco inaspettato, almeno per il comitato editoriale cui partecipavo da direttore del Tg: chiusosi con una rosa di nomi tra cui individuare il successore di Ferrara, si ritrovò sulle agenzie quello di Gruber (non in elenco) come prescelta. Dall'azionista Telecom, il cui amministratore delegato era Franco Bernabè. Incidentalmente, anche lui altoatesino e presente nel 2000 al di lei matrimonio con il giornalista francese Jacques Charmelot (rivalità con il coniuge? Macchè: «Lui è abituato a lavorare dietro le quinte, niente protagonismo che è la malattia di oggi», affermazione che pare un’autodiagnosi). Si sparsero due voci. Una l'accusava di aver cestinato, prima della conferenza stampa del programma, un video che ne ripercorreva la storia con le facce dei predecessori, per la serie: «Ottoemezzo sono io. Punto». L'altra, che lei lasciò circolare, insinuava fosse destinata anche a sostituirmi, equivoco in cui cadde perfino il capo dello Stato Giorgio Napolitano, che così si congedò da una troupe del TgLa7: «Salutatemi il vostro direttore Gruber». Quando poi feci realizzare, sulle note della marcia di Radetzky, un servizio satirico su tutti i candidati al mio posto, una nutrita pattuglia, il giorno dopo mi arrivò una telefonata del capo di Telecom Italia Media, editore diretto de La7, Gianni Stella detto «Er canaro» per modi e eloquio sofisticati. E difatti, urlando e forse millantando: «Ma che ca... te dice la testa? Franco è inca... nero. Gli ha telefonato la Gruber, avvelenata perché l'hai pijata per il cu…!». Professionalmente, Gruber si è reincarnata più volte, rimanendo sempre se stessa, «con quel viso di porcellana senza età» (Pansa, Carta straccia, 2011). La storia è nota. Conduceva il tg Rai regionale da Bolzano. Antonio Ghirelli, direttore del Tg2 al profumo di garofano (craxiano), la convocò a Roma. Prima donna a condurre un tg in prima serata, a un certo punto fu promossa al Tg1. Ne scrisse Clemente Mimun, oggi direttore del Tg5, nel suo libro di memorie Ho visto cose. Un capitolo di deliziose perfidie è su Lilli: «Quando nel 2002 approdai alla direzione del Tg1, mi disse che si aspettava di essere la prima inviata a Baghdad, in quel campo considerandosi la massima esperta. Mi sconsigliò in modo tranchant alcuni altri giornalisti degli esteri, Ennio Remondino e Carmen Lasorella. Al suo ritorno in Italia, a Fiumicino, era attesa anche da un'auto di Domenica in, che voleva festeggiare in diretta il suo ritorno in patria. Ricordo l'ingresso trionfale nello studio. Mara Venier le chiese chi avesse abbracciato per primo al suo rientro e Lilli rispose: "Mio marito". Grandioso, salvo che suo marito aveva vissuto tutta la crisi irachena al fianco della moglie, nella stessa stanza d'albergo!». «È stata lei a chiedere di essere trasferita al Tg1» spiegò Bruno Vespa nel 1990 a Repubblica. Conferma Mimun nel libro del 2012: Gruber - che con lui scambiava al massimo «rapidi saluti quando ci s'incrociava» - gli propose un caffè. All'incontro, gli domandò la cortesia di far sapere al direttore Vespa, amico e estimatore di Mimun, di voler traslocare al Tg1, pronta perfino a rinunciare al video. Mimun riferì a Vespa, che chiamò il presidente della Rai Enrico Manca per chiedergli il placet, che Manca si fece a sua volta rilasciare da Bettino Craxi, che alla fine della «fiera dell'est» benedisse l’operazione. Non è mai stata «lottizzata», Gruber (si sa: tutti noi siamo selezionati per meriti, in quanto bravi, sono sempre gli altri a essere cooptati dal potente di turno in quanto servi o scherani o maggiordomi con la livrea). Ma fu comunque grazie alla regole del «sistema», per dirla con Luca Palamara, che Gruber spiccò il volo. Che l'ha fatta infine atterrare a La7, dove con Mentana i rapporti non sarebbero idilliaci. «Non sembra esserci molto feeling tra i due», rilevò Grasso già nel 2010, aggiungendo: «La Gruber rappresenta un vecchio modo di giornalismo. Nel suo talk non c'è mai un percorso di conoscenza, ma solo uno scontro di opinioni, una parata di idee contrastanti». Più che altro oggi Gruber è sempre meno incline a controllare le sue idiosincrasie (il che è legittimo a casa propria, ma allora perché non riconoscere lo stesso diritto a Giordano?). Se invece si tratta di ospiti all'altezza (sua), sono inchini, rose e violini con tanto di cambio di format: un faccia a faccia alla Mixer, senza fastidiosi intrusi. È capitato con il citato Bernabè, Carlo De Benedetti, Ezio Mauro. Con cui, già direttore di Repubblica famoso per una certa «ingualcibilità psicomorfa», Gruber è stata sempre «tutta sorrisi, in pieno innamoramento, intenta ad ascoltare il verbo di un dio in terra» (ancora Pansa). A Matteo Renzi, invece, la settimana scorsa Gruber ha fatto trovare una «neutrale» compagnia di giro: Massimo Giannini e Marco Travaglio, due allegroni. Un assedio, più che un confronto. Ma quando, nel settembre 2013, Renzi era sulla rampa di lancio del consenso, le cose andarono diversamente. Beppe Grillo sul suo blog ironizzò: «La conduttrice ieri sera ha preferito non partecipare alla trasmissione: Renzi, unico ospite, ha infatti parlato da solo». Titolo scartavetrante del post: «Gruber, l'ancella del potere».

Dal libro Controcorrente di Matteo Renzi il 13 settembre 2021. (…) Nel dicembre 2020, Lilli Gruber chiede al ministro Gualtieri un giudizio quantitativo non sul Pil o sui posti di lavoro ma su quanto sia “stronzo” Matteo Renzi. (…) E, ancora, durante la crisi, Gruber chiede alle donne in studio se Conte sia anche fisicamente attraente.

Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera" il 13 settembre 2021.

Lilli Gruber, stasera ricomincia Otto e Mezzo. Che stagione sarà? Per lei, e per la politica italiana.

«Complessa, stimolante, decisiva: se sbagliamo questa fase di ripartenza - politica, economica e sanitaria - ne pagheremo le conseguenze a lungo. Sarà molto interessante, con Otto e Mezzo, seguire e raccontare questa sfida».

Cosa pensa del vaccino obbligatorio, ipotizzato da Draghi? È giusto? Ed è possibile?

«Penso sia giusto e anche possibile, visto che già oggi esistono dieci vaccini obbligatori. Il vaccino non è una questione ideologica, ma molto pratica di possibilità di ritorno alla normalità per il bene di tutti». 

Ma uno dei suoi ospiti abituali, Massimo Cacciari, è diventato il maître à penser degli avversari del green pass. Lei è d'accordo? O è imbarazzata?

«Non mi imbarazza e non credo che il professor Cacciari sia paragonabile in alcun modo ai No vax. È vero che ha un pensiero critico su questa fase così particolare della nostra vita pubblica e privata. Capisco alcune sue obiezioni, ma non le condivido». 

È giusto dare voce, oltre ai critici del green pass, anche ai No vax?

«Non credo sia giusto dare rappresentanza e voce a chi propaga fake news. Siamo giornalisti seri per questo: per combattere notizie false che non si basano sui fatti. La critica politica e giornalistica contribuisce alla qualità del nostro dibattito pubblico; la propaganda anti-scientifica avvelena i pozzi». 

Cosa pensa del governo Draghi? C'è troppo consenso acritico in giro?

«Sui due dossier principali, economia e vaccini, i risultati ci sono: era difficile far meglio di così in questa prima fase. Il consenso è dovuto a questo. Certo, essendo sostenuto da quasi tutte le forze politiche, il compito di critica e verifica è demandato ancora di più a noi giornalisti». 

Draghi finora non va in tv, se non al Tg1. Dovrebbe comunicare di più?

«Penso che uno dei punti forti di Draghi sia quello di essersi tolto sin dall'inizio dal chiacchiericcio politico che nel nostro Paese raggiunge vette altrove impensabili. Detto questo, spero sempre che il presidente del Consiglio prima o poi accetti il mio invito a Otto e Mezzo!». 

Se dovesse puntare un euro sul toto Quirinale, punterebbe su Draghi, su Mattarella o su un terzo nome?

«Non faccio scommesse, men che meno sul prossimo inquilino del Quirinale. È una questione politica che devono risolvere i partiti. Spero che sia un presidente all'altezza della guida che ha saputo esercitare Mattarella negli ultimi 7 anni». 

Forse neppure stavolta toccherà a una donna. L'Italia resta un Paese maschilista? «Maschilista ma che sta cambiando anche se lentamente, grazie alle generazioni più giovani che hanno imparato dagli errori di noi meno giovani e grazie alle cosiddette quote rosa». 

Lei spesso però con le donne è dura. Maria Elena Boschi ad esempio si è molto lamentata.

«Auspicare più donne competenti nei posti di comando e battersi per questo non significa non fare bene il proprio lavoro. Le domande non hanno genere, vanno fatte tutte e a tutti. A volte registro un'idea un po' distorta della cosiddetta solidarietà femminile nel nostro Paese».

Sono poi arrivati i fiori di Salvini? Lei giustamente fece notare che era stato sgarbato, quando disse in un comizio «domani mi tocca andare dalla Gruber, simpatia portami via». Il leader leghista è cambiato? Ora appoggia Draghi...

«I fiori sono arrivati con ritardo, me li ha dati in diretta in una puntata della scorsa stagione e ho apprezzato il gesto. Salvini è un leader energico che si spende molto per le sue idee: il problema è che ora queste idee sembrano un po' confuse. Da questo punto di vista Draghi rappresenta uno stress test decisivo per la Lega». 

Appunto: qual è la vera Lega? Quella quasi democristiana di Giorgetti e Zaia o quella antisistema che non vuole mollare Marine Le Pen?

«La classe dirigente più qualificata della Lega ha tracciato la rotta in modo inequivocabile a favore di green pass, sostegno a Draghi, euro ed europeismo. Ora dipende da Salvini scegliere: seguire questa strada, o inseguire la Meloni nei sondaggi?». 

Qual è il segreto della Meloni? Tiene fino alle elezioni o scoppia?

«È una donna intelligente e caparbia, con un grande problema di classe dirigente». 

Renzi è davvero finito?

«Non ha perso la capacità di determinare alcuni passaggi politici chiave, rappresentando spesso in Parlamento col suo piccolo partito l'ago della bilancia. Dovrà decidere prima o poi se fare il rappresentante del popolo o il conferenziere». 

E i 5 Stelle?

«L'era del Vaffa è finita con la pandemia che richiede più che mai competenze. Anche loro sono in mezzo al guado: alla fine hanno governato con la Lega prima, con il Pd poi, e ora con tutti. Chi sono i nuovi 5 Stelle? A Conte l'ardua sentenza». 

La pandemia ha rilanciato il ruolo della tv generalista e dei talk. Finirà tutto con la pandemia? O l'informazione passa ancora dai media tradizionali?

«L'ultima ricerca del Censis registra che durante la pandemia gli italiani si sono affidati più ai media tradizionali - tv in testa - che ai social. Questo evidenzia ancora una volta come l'unica informazione valida e credibile è quella basata su fatti e dati accertati e verificabili. E questo non cambierà». 

Lei che ha buoni contatti in giro per il mondo che sensazione ha? In autunno l'Europa e l'America richiudono? O si riesce a gestire il virus?

«La nuova amministrazione americana sul contrasto alla pandemia ha preso la strada giusta. Rispetto all'anno scorso abbiamo delle armi in più, vaccino in primis, ma ora davvero dipende molto dalle nostre scelte personali, dalla responsabilità individuale di tutti». 

Ha visto In Onda? Le piace? Non le secca perdere la puntata del sabato?

«D'estate guardo pochissimo la tv, ho bisogno di staccare. Penso però che La7 faccia benissimo a restare "accesa", rispettando la sua vocazione all'informazione e all'approfondimento. Riguardo al sabato: quella puntata di Otto e Mezzo, la sesta settimanale, ha rappresentato uno "stato d'eccezione". Siamo soddisfatti di aver svolto il compito con ottimi risultati d'ascolto, pensiamo sia giusto ora tornare alla normalità».

C'è qualche collega, anche uomo, in cui riconosce qualcosa di suo?

«Non so se c'è qualcuno che ha "qualcosa di mio", non cerco le somiglianze per capire chi mi piace. Apprezzo il lavoro giornalistico rigoroso di Corrado Formigli e Giovanni Floris. Così come penso che in Rai ci siano personalità di livello che dovrebbero essere valorizzate di più». 

Come cambierà la Rai con Fuortes&Soldi? Continueranno a comandare i partiti?

«È un'altra sfida importante per il governo Draghi, difficilissima. Per esperienza so che i partiti quando si parla di Rai predicano bene e razzolano malissimo: certi appetiti non si saziano mai». 

Lei è di madrelingua tedesca. Qual è secondo lei il bilancio della Merkel? Chi vincerà le elezioni?

«Angela Merkel governa da 16 anni. È stata la più influente leader europea di questo tempo che ha saputo tenere insieme un mondo tentato dalla continua frammentazione. È stata un potente modello di gestione delle crisi. Se l'Europa ha retto in questi anni - anche rispetto all'America di Trump - lo si deve soprattutto a lei. Credo che vinceranno i socialdemocratici di Olaf Scholz, che non disperderà quanto di buono fatto dalla cancelliera». 

Quanto c'è di germanico in lei? Pensa in tedesco o in italiano? In quale lingua sogna?

«C'è qualcosa di austro-ungarico forse, ma mi considero profondamente europea. Sogno nelle quattro lingue che conosco, a seconda della lingua che parlano i protagonisti dei miei sogni: tedesco, italiano, inglese, francese. Una fatica!».

Lei è cortese e corretta con tutti, ma lascia l'impressione che se qualcuno le facesse un torto la sua ira sarebbe funesta. È un'impressione sbagliata?

«Non sono irascibile né permalosa. Ma detesto la maleducazione, perché continuo a pensare che la forma sia anche sostanza».

Dagospia. Anticipazione da Chi il 24 agosto 2021. Questa settimana in esclusiva su CHI le foto di Carlo De Benedetti in vacanza in Costa Smeralda. L'editore festeggia il primo anno del quotidiano Domani in compagnia della moglie Silvia Monti e di alcune amiche, fra cui Lilli Gruber, a bordo del suo nuovo mega yacht. De Benedetti è spesso ospite della giornalista a Otto e mezzo, il programma che conduce su La7. Fra la Gruber e l'Ingegnere c'è un'amicizia di lunga data. Nelle immagini pubblicate da CHI li vediamo scambiare lunghe chiacchierate passeggiando sul ponte del lussuoso yacht: si tratta del Solo, che l'imprenditore ha acquistato quest'anno per 62 milioni e 900 mila euro. Lungo 72 metri, uscito nel 2019 dai cantieri Tankoa di Genova, accoglie 12 persone e dispone di spa, beach club, palestra vetrata, lounge, piscina di 6 metri.

Lilli Gruber, cosa spunta dal suo passato: non solo il vero nome all'anagrafe, dettagli da non credere. Libero Quotidiano il 15 agosto 2021. Lilli Gruber volto di punta di La7. Eppure la conduttrice paladina della sinistra non si chiama realmente Lilli. Il suo nome all'anagrafe è Dietlinde, dalle radici germaniche diot, "popolo", e linde, "tenero", quindi "benevola verso il popolo". A farne un ritratto ci ha pensato Il Giornale che ha ripescato dettagli del suo passato, tra cui gli esordi. "Stella televisiva di prima grandezza, taglia minuta ma inflessibile, soprattutto con le idee diverse dalle sue, primadonna (tutto attaccato) a condurre un Tg serale e inviata speciale nelle zone più calde del pianeta (il centro storico di Bolzano, le guerre nella ex Jugoslavia, Iraq, New York dell'11 settembre, i corridoi della Rai...)", si legge sul quotidiano. Riportati anche i rumors che la vedono irritata per l'arrivo di Concita De Gregorio nella rete di Cairo: "Scoperto che qualcuno sta raccogliendo le firme per tenere Concita De Gregorio al suo posto anche dopo l'estate a Otto e mezzo, la Gruber ha minacciato di annettere La7 alla provincia autonoma di Bolzano. Trouser, Parenzo e Anschluss". Poi ecco che si torna alle sue origini, al suo passato dove la Gruber ha sempre sfoggiato quella che Il Giornale definisce "un'altissima considerazione di sé, sempre prima della classe, già dai tempi del Kindergarten, laurea in lingue cum laude und Krapfen, Lilli Gruber è stata sempre la migliore: a scuola, studentessa modello delle Marcelline di Bolzano, e sul lavoro, incarnazione dell'etica capitalistica del padre, imprenditore di un'azienda di macchine edili: la Tiger". La Gruber però ha lasciato in fretta Bolzano per scalare le vette dell'informazione fino ad arrivare a Otto e Mezzo, il programma da lei condotto tutto l'inverno che pullula di personaggi alla stregua di Marco Travaglio e Andrea Scanzi, suoi ospiti quasi fissi.

Da liberoquotidiano.it il 20 giugno 2021. Non tutto gira intorno alla maternità. Lilli Gruber, conduttrice di Otto e mezzo su La7, intervistata da Barbara Stefanelli nel podcast Mama non mama del Corriere della Sera interviene nell'annosa querelle tra mamme e non mamme. Lei fa parte della seconda categoria, e a 64 anni non ha il minimo ripensamento né rimpianto. "Partiamo sempre dal presupposto che una donna che non ha figli abbia rinunciato a qualcosa - spiega la giornalista -, che sia meno realizzata, meno felice, meno completa. E ovviamente non facciamo lo stesso ragionamento per un uomo: è un assunto molto anacronistico e anche molto pernicioso". Una delle frasi più sentite (e più odiose) dette da donna a donna è "Non sei mamma, non puoi capire". "Superficialmente - ribatte ancora la Gruber - si potrebbe allora dire: sei madre, non puoi capire. Ma capire cosa? Usare la maternità come una illuminazione esistenziale rende un pessimo servizio alle donne...". La Stefanelli cita poi un passaggio-chiave del celebre saggio La madre di tutte le domande scritto dalla attivista americana Rebecca Solnit: "Una delle ragioni per cui le persone si fissano sulla maternità, come chiave dell'identità femminile, nasce dalla convinzione che i bambini siano la strada per realizzare appieno la nostra capacità di amore. Ma ci sono così tante cose da amare oltre la propria prole". Anche la Gruber è dello stesso avviso: "Ci sono altre forme di amore, cura e devozione".

Da Bolzano a La7, la vita (in video) di una radical speck. Luigi Mascheroni il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Prima donna a condurre un tg serale, è sempre preparata, gelida e inflessibile (soprattutto con chi non ha le sue idee). Per avvalorare il sospetto, latente nel telespettatore, che in tv siano tutti amici, in particolare delle donne «Ciao Bianca, come stai?», «Federica grazie per l'invito!», «Milena, complimenti per la trasmissione» - tutti la chiamano Lilli. Soprattutto Beppe Severgnini, che quando vede una Gruber in tv, una sera sì e l'altra sì, è come se ogni volta l'Inter vincesse la Champions. Lilli! Lillina! Lilluzza! Lilli qui, Lilli qua, Lilli qui quo qua: quote rosa, leather jacket e gonna midi di Gucci. Ma perché non la chiamano Gruber?! Perché all'anagrafe il suo nome è Dietlinde, dalle radici germaniche diot, «popolo», e linde, «tenero», quindi «benevola verso il popolo». Da qui il suo populismo a Cinque Stelle. Stella televisiva di prima grandezza, taglia minuta ma inflessibile, soprattutto con le idee diverse dalle sue, primadonna (tutto attaccato) a condurre un Tg serale e inviata speciale nelle zone più calde del pianeta (il centro storico di Bolzano, le guerre nella ex Jugoslavia, Iraq, New York dell'11 settembre, i corridoi della Rai...), Lilli Gruber quando compì i *0 anni - l'età delle telegiornaliste non si dice, è più importante lo share - intervistata da un noto magazine della Cairo editore (può succedere), disse di sé: «Il tratto principale del mio carattere? L'insopportabile forza di volontà». Lasciando ai lettori la scelta di mettere l'accento su «forza di volontà» o «insopportabile». Più che insopportabile diciamo intoccabile. Quando, giorni fa, ha scoperto che qualcuno sta raccogliendo le firme per tenere Concita De Gregorio al suo posto anche dopo l'estate a Otto e mezzo, la Gruber ha minacciato di annettere La7 alla provincia autonoma di Bolzano. Trouser, Parenzo e Anschluss. Dubbio a margine. Ma è Veronica Gentili che sembra una Gruber che non ce l'ha fatta o è la Gruber che non ce la fa a essere considerata collega della Gentili? Bassa Atesina e altissima considerazione di sé, sempre prima della classe, già dai tempi del Kindergarten, laurea in lingue cum laude und Krapfen, Lilli Gruber è stata sempre la migliore: a scuola, studentessa modello delle Marcelline di Bolzano, e sul lavoro, incarnazione dell'etica capitalistica del padre, imprenditore di un'azienda di macchine edili: la Tiger. L'aggressività è una dote di famiglia. Insomma, una donna perfetta, anche se nessuno alla fine la sopporta. Un po' come Bolzano: sempre in cima alla classifica delle migliori città italiane per qualità della vita, ma nessuno ci andrebbe mai ad abitare. Infatti se ne è andata prestissimo anche lei. Dal Südtirol alle vette dell'informazione per la Gruber è stato una discesa, libera. Quotidiani L'Adige e Alto Adige, quindi in Rai, prima a Sender Bozen, il canale di lingua tedesca, poi, primi anni Ottanta, al Tg regionale del Trentino-Alto Adige. Ma il traguardo è la Rai che conta. Tg2 e Tg1. Dove si fa notare per due cose. La seconda: da inviata riuscire a parlare per un intero servizio della dittatura dell'est Europa senza citare la parola comunismo, che è un po' come parlare un quarto d'ora della nipote di Mubarak senza fare il nome di Berlusconi. La prima: da conduttrice scegliere una postura atipica in video per un mezzobusto. Sempre di tre quarti davanti telecamera, ma teutonicamente allineata al Pci-Pds-Pd, Lilli Gruber, ligia ai suoi due principi giornalistici - primo, mai mettere il formaggio sui canederli; secondo, sempre sovrapporre i fatti alle opinioni - nel 2004 lascia la Rai e si candida con l'Ulivo alle elezioni per il Parlamento europeo. Avanti, miei Prodi. Bandiera rossa, riflessi ramati e radical speck. Non è mai troppo tardi per denunciare gravi ingerenze della politica sulla stampa. Basta entrare in un partito. Che poi. Le accuse di certa destra contro il mondo progressista e la sua supposta superiorità intellettuale, l'inclinazione alla doppia morale, lo snobismo esistenziale e le infatuazioni modaiole («Quest'estate cosa va? Ancora il Ddl Zan o torniamo allo Ius soli? No, sai: ho ancora nell'armadio le cerate gialle di Greta»), diciamolo, hanno stancato. Più che un vizio, quella della sinistra è una missione: considerare gli altri una massa di analfabeti da indottrinare. Se no, a cosa servono i talk show? Gelida come i ghiacci del Klockerkarkopf, paladina del potere femmine (ma di quel femminismo che detesta le donne: nessuna trasmissione ne ha mai invitate così poche, al massimo Jasmine Trinca, o la Golino, immunologhe a parte), icona della comunità LGBT (categoria Bdsm) e pasionaria al profumo di caviar, Lilli Gruber, la Madame Verdurin dei salotti tv orecchini diversi ogni sera, luci sparate in viso e impegnative sessioni di trucco - è dal 1980 che sta in video, sacrificando la famiglia - più filler, meno figli - e dal 2008 conduce Otto e mezzo su La7. Insomma: il voto medio della trasmissione (7, non 8 e mezzo), che resta ottima, al netto del «Punto di Paolo Pagliaro», la nota più di parte della storia dell'informazione italiana dopo i corsivi sull'Unità di Togliatti. Lei, Frau Iotti-Gruber, però, merita di più. Diciamolo: un 10 ripieno, come lo Strudel. Professionalmente è impeccabile, e chi lo nega è una Giorgia Meloni. Preparata, è preparatissima: lei studia, alla faccia di quegli ignoranti dei salviniani che leggono solo il Sudoku e Terra Insubre. Parla altre tre lingue: il tedesco (come pronuncia lei Lufthansa), il francese (è una delle poche a stimare Macron, quando lo declama con quella erre moscia) e l'inglese, lingua ufficiale del Gruppo Bilderberg. Ma soprattutto come sceglie gli ospiti, lei a seconda delle preferenze politiche nessuna. E come interrompe lei, ancora meno: come si sa non sono le domande, ma le interruzioni a svelare l'ideologia di un programma. E per quanto riguarda arroganza e faziosità «Guardi che le faccio togliere l'audio!». Più faziosa ma meno antipatica di Gad Lerner, più arrogante ma meno appariscente di Rula Jebreal («Sessismo, sessismo!»), più onesta intellettualmente e meno untuosa di Formigli, Lilli Gruber in realtà almeno: è la sensazione di noi telespettatori occasionali, per i quali Otto e mezzo è quello di Fellini non vorrebbe neppure fare finta di passare per intellettuale. Dipendesse da lei scriverebbe per Novella 2000. O Dipiù, che è di Cairo. Altrimenti non si spiega quel sottile godimento che la tradisce pupille a spillo e S sibilante quando chiede a SSSSalivini se in spiaggia ci va in ssssslip, o vuole sapere dalla Bosssssschi chi stava baciando al parchetto senza mascherina. Ma scusi, Gruber: noi le chiediamo quanti migranti clandestini può ospitare la sua villa in Sardegna? Per il resto, aspettando il ritorno della sua conduzione a Otto e mezzo vorremmo che l'estate non finisca mai - resta da capire, come ha insinuato un giornale malevolo, il rapporto inquietante che lega La7 e il Fatto quotidiano, per le cui firme la Gruber ha un più che un debole. Travaglio, Scanzi, Padellaro Tanto rigore per non avere un editore, e finire tutte le sere chez Cairo. Sposata con un giornalista, vedova di Conte, gentilissima fino al secondo prima che si accenda la luce rossa della telecamera, inesorabile il secondo dopo (regola base: con gli ospiti maschi, di destra, cattolici non si fanno prigionieri), alla fine nel suo ruolo di Signora del sinistrismo aristocratico-televisivo, resta la migliore, oltre che l'unica. E le critiche? Non se ne cura. Lilli Gruber, da sempre, ha le spalle larghe.

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi

·        Marco Travaglio.

Dagospia il 20 giugno 2021. Dall'account twitter di Lupo Rattazzi. Ti aspettavo al varco Marco Travaglio. La differenza tra gente come Marchionne e Draghi e te è che a loro verranno dedicati immobili, fabbriche, financo aeroporti, per cui entreranno nella Storia. A te non dedicheranno manco un sanpietrino e fra 20 anni sarai solo un brutto ricordo.

Ettore Boffano per il "Fatto quotidiano" il 20 giugno 2021. Non perdete tempo a guardare tutti i 112 minuti del documentario Rai sulla vita di Sergio Marchionne. Potete cominciare senza problemi dal minuto 61. A meno che non vogliate scoprire chi è più imbattibile (non i suoi collaboratori, perché è umano e comprensibile, ma imprenditori, qualche sindacalista, soprattutto giornalisti) nella gara a lodare, decantare e sbavare per qualcuno che, in quella prima parte del filmato, non ne avrebbe avuto certo bisogno: almeno per quanto riguarda la propria storia e, soprattutto, gli enormi benefici che ha assicurato alla famiglia Agnelli. Molto di più, invece, quel coro di laudatores gli sarebbe servito se il documentario avesse deciso di affrontare le sue responsabilità per le odierne e incerte sorti dell'auto in Italia e la fine della Fiat che fu, oggi feudo francese della Peugeot (e dello Stato transalpino). Non era quello, però, l'obiettivo dei suoi autori: se agiografia si deve fare, agiografia sia sino in fondo e senza cedimenti. Magari persino con tre brevissimi siparietti un po' banali (e magari un po' ingrati?) di John Elkann, e la rappresentanza della famiglia affidata di fatto a Lupo Rattazzi che pronuncia forse la frase più divertente, anche se più urticante per la storia dell'azienda: "Il capolavoro di acquistare Chrysler avvenne in un Paese nel quale la battuta era: se compri Fiat, sei sempre dal meccanico". Ma che cosa accade, invece, dal minuto 61? La ricostruzione della battaglia sindacale del gennaio 2011 e del referendum che segnò la sconfitta della Fiom. Molto spazio alle voci del dissenso, da Maurizio Landini a Marco Revelli ("Finì la storia della Fiat a Torino, o forse di Torino e della Fiat"), all'apparenza, ma con il gran finale affidato alle immagini di repertorio di Marchionne che afferma: "I diritti sono sacrosanti, ma se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo". Come dire: onore e gloria al vincitore. E così sia. 

Da Nerone a Berlusconi: un tempo c’era Tacito, oggi c’è Travaglio. Angelo Crespi su Cultura e Identità il 17 Novembre 2021. Ci viene facile inserire Nerone nella lista dei peggior criminali di sempre: come fosse un massacratore, il suo nome ben s’attaglia a quello di Hitler, di Stalin, di Pol Pot. Eppure l’imperatore romano non si macchiò di crimini simili, non decretò la morte di milioni di persone, non progettò olocausti né rieducazioni forzate e gli storici contemporanei faticano pure ad attribuirgli l’incendio di Roma, che tra tutti i delitti a lui imputati è il più eclatante e fantasioso. Nerone, per esempio, non partecipò a guerre né immaginò conquiste, non massacrò i Galli ai confini come fece Cesare, neppure sterminò gli ebrei come Tito e Vespasiano o distrusse definitivamente Gerusalemme cambiandole il nome come fece Adriano, che pure ci giunge, filtrato attraverso le “sue” memorie romanzate da Marguerite Yourcenar, per antonomasia “poeta e filosofo”. Certo Nerone qualche crimine lo commise, soprattutto dentro la cerchia più stretta dei familiari: per esempio è appurato che fece uccidere la madre Agrippina e costrinse al suicidio Seneca e sedò con rigore qualche congiura di palazzo, al pari dei suoi predecessori o successori, similmente immischiati in fratricidi, matricidi, uxoricidi, i quali però godettero di miglior stampa e sul cui capo non cadde la damnatio memoriae. Nerone fu colpito da una primordiale macchina del fango, screditato a futura memoria da storici del calibro di Tacito, Svetonio, Dione Cassio, Tertulliano (che lo bollò come primo persecutore dei cristiani), i quali per motivi diversi, pur scrivendone a morte ormai avvenuta, avevano ragioni politiche e ideologiche per dargli contro. E poco sono serviti nella storia tentativi di riabilitazione: quello del raffinato filosofo e matematico Gerolamo Cardano, che nel Cinquecento s’arrischiò in una lode a Nerone, o quello di Napoleone, che sentenziò: «Il popolo amava Nerone. Perché opprimeva i grandi ma era lieve con i piccoli». E benché la storiografia moderna sia ormai clemente nei confronti del giovane e bizzoso imperatore, dedito alla crapula e all’arte più che alle carneficine, la leggenda nera resta a imperitura memoria, a dimostrazione che il “metodo Nerone” ha funzionato bene e funziona. Fuori dal contesto storico, la cronaca politica italiana degli ultimi anni è stata determinata dall’agire della macchina del fango che non ha risparmiato nessun partito, né di destra né di sinistra, ma che a ben guardare è stata decisiva e ferrea solo ed esclusivamente quando a patire gli schizzi sono stati uomini non protetti dall’ombrello della sinistra: solo per fare gli esempi più famosi, Silvio Berlusconi massacrato per Rubi e poi assolto, Marcello Dell’Utri crocifisso per la trattativa Stato Mafia e poi assolto e ancora più di recente Stefano Morisi, lo spin doctor della Lega, messo alla berlina per semplici questioni sessuali senza che si potesse provare lo straccio di un reato. Casi, piccoli o grandi, che in certi momenti hanno cambiato il corso delle cose, facendo cadere governi, o impedendo che si andasse a elezioni, fomentando campagne diffamatorie, mettendo marchi di infamia a persone rispettabili, tenendole in galera o sottoponendole a snervanti, interminabili processi: in definitiva mettendo a rischio la democrazia italiana. Lo abbiamo scoperto con il libro “Il Sistema” di Luca Palamara e Alessandro Sallusti quanto fosse determinante, insieme all’agire della magistratura, la stretta connessione tra gli inquirenti e il mondo dei media: spesso la fuga di notizie serviva a corroborare inchieste giudiziarie che non avevano sempre fondamenti solidi e anche quando arrivava l’archiviazione o l’assoluzione (sempre tardiva), la fama aveva già marchiato in modo indelebile e condannato a priori, almeno dal punto di vista dell’opinione pubblica, le persone coinvolte. La questione che andrebbe sviscerata non è però “perché esiste la macchina del fango”. Abbiamo visto che già anticamente la doxa, un mostro dalle cento teste e dai cento occhi, faceva le proprie vittime. La cosa da chiedersi è perché in Italia abbia un verso solo: i giornali di sinistra sembrano ispirati da un macabro giustizialismo e da un altrettanto stucchevole senso di superiorità intellettuale ed etica che li porta a disprezzare la verità in nome dell’ideologia, ad immolare il buon senso sull’altare della battaglia politica, tutti difetti ben visibili e facili da condannare se non fossero i difetti di noi italiani e dell’umano in generale, che presagendosi migliore gode della malasorte altrui. Ma c’è di più: oggi il pensiero progressista si è incistato su quello che promana dal politicamente corretto, una sorta di intreccio inestricabile in cui le ragioni dell’uno si incrociano con le ragioni dell’altro, a formare un coacervo di false verità in un cortocircuito da cui sembra impossibile venir fuori, poiché fa leva sui nostri sensi di colpa e sulla propensione morale dell’agire sociale: così anche la cosa più stupida passa per intelligente, la cosa più scopertamente falsa passa per vera e nessuno ha il coraggio di denunciare il male, pena l’esclusione dal consesso dei giusti.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 16 novembre 2021. Repetita iuvant, e io ripeto: Marco Travaglio non è affatto uno sprovveduto, anzi è un ottimo giornalista, la sua prosa è brillante, ma anche lui come tutti, qualche volta scrive cazzate, delle quali io mi intendo abbastanza. Ieri per esempio nel suo fondo giornaliero ha accusato Alessandro Sallusti di essere stato l'artefice della patacca su Dino Boffo, veicolata dal Giornale quando in realtà il direttore responsabile ero io. Tanto è vero che l'Ordine dei giornalisti sospese me e non lui per tre mesi come se avessi stuprato una bambina. Sallusti che era mio condirettore al massimo può essere considerato mio corresponsabile, ma sarebbe una forzatura. In effetti il documento che accusava il direttore dell'Avvenire non era autentico, si trattava di una fotocopia. Tuttavia il contenuto raccontava un episodio vero. Tanto che Boffo si dimise dal vertice del quotidiano cattolico, e la chiesa si guardò bene dal trattenerlo. Qualche tempo dopo a Dino il Vaticano affidò la conduzione della propria televisione, dove egli non resistette a lungo: venne sollevato dall'incarico e sparì dalla circolazione, mentre io, che sarei stato il suo persecutore, sono ancora qui a rompere le balle. Travaglio si chieda perché, altrimenti siamo qui a prenderci per i fondelli. Chiaro il discorso? Proseguiamo. Marco scrive che Sallusti poi venne condannato agli arresti domiciliari per varie diffamazioni e graziato da Napolitano. Intanto le diffamazioni non erano varie ma una sola, causata da un articolo morbido vergato da Renato Farina. Poiché anche Travaglio è stato processato (ingiustamente) per lo stesso reato, dovrebbe sapere che la Corte costituzionale si è espressa contro il carcere per i giornalisti, quindi l'intervento dell'allora capo dello Stato più che una grazia fu un dovere, perché la libertà di stampa non è una barzelletta con cui i tribunali possono giocare a loro piacimento. Insomma, voglio dire che per attaccare me e Sallusti non c'è bisogno di inventare fandonie, sia io che lui siamo pieni di difetti e abbiamo commesso tanti errori, non quanti ne hai commessi tu, ma quasi. Un'ultima considerazione. I duelli tra colleghi sono leciti e in certi casi anche divertenti, però a una condizione: che rispecchino la realtà. Cosa di cui talvolta Travaglio si scorda. Nulla di grave, ma che palle.

Marco Travaglio vittima del suo stesso metodo. Luca Bottura su L'Espresso il 2 agosto 2021. L’indignazione collettiva per le sue parole su Draghi è figlia delle modalità da lui stesso create: estrapolare parole, decontestualizzare, condannare in base a un pregiudizio. Ma con una importante differenza: un giornalista dice quel che pensa. I politici che l’hanno travolto rappresentano invece un potere. E mai dovrebbero scatenare l’odio verso chi fa un mestiere diverso. Anni fa presentai un libro di Marco Travaglio, uno dei millemila, dei quali parlo con reverenza perché vendono molto di più dei miei, e che comunque invito ad acquistare anche per fare scherzi ad amici di qualunque schieramento politico. Principalmente renziani, al momento. Insieme a noi c’era il costituzionalista Augusto Barbera il quale, al termine della serata, ebbe a prendersela con me perché mi aveva ritenuto troppo affine al direttore del giornale dei giusti. Può darsi avesse ragione. Del resto era il periodo in cui tutti credevamo che Travaglio fosse di sinistra perché insieme a tutti noi (e persino al suo mentore, Indro Montanelli, che parlandone da vivo era stato anche un bel fascistone) combatteva il pensiero unico berlusconiano. Poi le cose cambiarono e parecchio fino all’apogeo del Fatto Quotidiano che, è bene ricordarlo, deve il proprio titolo alla gentile concessione di Enzo Biagi. che sta ai toni di Travaglio come i miei pettorali stanno a quelli di Alessandro Gassmann. Il fatto è una specie di monumento all’ego di chi lo dirige le cui fondamenta albergano nell’indubbia efficacia televisiva del nostro. Lo chiamano per alzare la voce, sbeffeggiare, sciabolare, e lui non si tira indietro. specie a debita distanza dal proprio bersaglio è una sorta di pugilatore invincibile. E se gli si muove una qualche forma di critica, dall’alto di una superiorità etica riconosciutagli da molti, arriva addosso al reprobo una colata di materiale organico praticamente inestinguibile. fateci caso: il 90 per cento dei suoi editoriali servono a colpire un qualche bersaglio (ho avuto questo onore) che gli ha tagliato la strada. con quella sorta di linguaggio a metà tra satira e mattinale della questura che costituisce il collante della fanbase. Detto questo, ha anche qualche difetto. però… ecco, però non ci si può esimere dal notare che la piena di indignazione coatta da cui è stato investito nei giorni scorsi sia figlia del “metodo Travaglio” applicato al suo inventore. Estrapolare parole, decontestualizzare, condannare in base a un pregiudizio e a un contingente tornaconto reputazionale. Con una importante differenza: un giornalista dice quel che pensa e, ove diffami, sconta il fio attraverso i tribunali. Il resto sono opinioni legittime. I politici che l’hanno travolto, i regolatori di conti a tempo scaduto, rappresentano invece un potere. E mai dovrebbero scatenare l’odio verso chi fa un mestiere diverso. Chiamiamolo contropotere. Esaminiamo l’accaduto: ospite a una festa della cosiddetta sinistra radicale, Travaglio definisce Mario Draghi «figlio di papà» e gli attribuisce la colpa di «non capire un cazzo» nell’ambito di temi diversi dall’economia. La prima definizione è forse ingenerosa, ma attiene a chiunque faccia una carriera anche adamantina partendo da una classe sociale avvantaggiata. La seconda è un giudizio politico, ancorché colorito. In sintesi, nulla di trascendentale. Invece, per un paio di giorni, la claque interessata dell’ottimo premier attuale ha pensato bene di usare l’accaduto per un vero linciaggio social, roba da 5 stelle degli esordi, propedeutico a un unanimismo che, di solito, corrode chi ne è oggetto. Morale: l’unico che dovrebbe preoccuparsi di questa malafede è proprio il presidente del consiglio. Di norma, gli aedi interessati stanno già pensando al prossimo cavallo.

Marco Travaglio, le accuse dal New York Times: "I legami con i magistrati, megafono per le calunnie M5s". Libero Quotidiano l'01 agosto 2021. La mirabile impresa di Marco Travaglio? Farsi ridicolizzare anche dal prestigioso New York Times. La ragione, ancora le raccapriccianti parole pronunciate da Marco Manetta alla festa di Articolo 1, gli insulti a Mario Draghi, "il figlio di papà che non capisce un ca***". In un lungo articolo firmato dal corrispondente del NYT Jason Horowitz, quest'ultimo ha riassunto la vicenda della riforma Cartabia, partendo dal caso di Simone Uggetti, il sindaco Pd di Lodi massacrato dai grillini nel 2016 e che, alla fine, è stato scagionato solo pochi mesi fa perché "il fatto non sussiste". E Horowitz, dopo aver dato conto delle scuse di Luigi Di Maio, ecco che tira in ballo il capo-ultrà di Giuseppe Conte, sul quale scrive: "Non tutti sono entusiasti, però. Marco Travaglio, direttore responsabile del Fatto Quotidiano, che ha profondi legami con i magistrati e che ha agito da megafono per le calunnie dei Cinque Stelle, attacca con ira e oppone strenua resistenza contro quella che dà sempre più la sensazione di essere la fine di un’epoca nella politica italiana. Questo mese ha sbeffeggiato Mario Draghi dandogli del ragazzino viziato e ha definito la sua Ministra della Giustizia Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, come una sprovveduta che 'non sa distinguere fra un tribunale e un phon", concludono dalle colonne del NYT. Insomma, altri schiaffoni per Travaglio...

Estratto dell’articolo di Augusto Minzolini per “il Giornale” il 17 giugno 2021. (…) P.s. Appunto, rispetto. A Marco Travaglio, che millanta una discendenza diretta da Montanelli e sprizza veleno da tutti i pori perché da mesi fa a botte con la notizia che Giuseppe Conte non è più a Palazzo Chigi, si attaglia un giudizio che il grande Indro dedicò ad un giornalista ben più degno di lui: «Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante». Ad una tale patacca del giornalismo nostrano (non ricordo scoop del personaggio a parte le «carte» di qualche Pm amico), che si diletta a leggere il casellario giudiziario tranne il lungo capitolo dedicato a lui alla voce «diffamazione», non dedicherò più una parola.

Da liberoquotidiano.it il 14 giugno 2021. Marco Travaglio è spesso in tv, spesso su La7. Ma sempre e solo in due programmi: Otto e mezzo da Lilli Gruber e DiMartedì da Giovanni Floris. Ma il direttore del Fatto quotidiano è contento così: “Non andrei mai a Propaganda Live perché mi fa venire le bolle, non mi piace il loro genere”, ha detto nell'intervista a Francesca Fagnani, a Belve, su Raidue. “Inoltre, non mi piace Piazzapulita (sempre su La7, condotta da Corrado Formigli). Nella lista nera di Travaglio c'è anche il talk di Bruno Vespa, Porta a Porta: “E’ un vanto non essere mai stato invitato”. E qui si riapre una vecchia questione legata a una sua apparizione su Rai 1 risalente al dicembre 2016, come aveva ricordato lo stesso Vespa. “Sì, lui ora risponderà che una volta ci andai. Era la sera del referendum perso da Renzi ed eravamo l’unico giornale che si era battuto per il no. Mi chiese di collegarmi cinque minuti", attacca, "è stata l’unica volta in cui sono apparso”. Del resto, a Travaglio non piace andare in televisione, anche se non si direbbe, data la sua presenza pressoché fissa dalla Gruber. Il direttore del Fatto ci va solo per fare pubblicità al suo giornale: “Sembrerà incredibile, ma ogni volta che inizia una trasmissione soffro. Ci vado perché serve, perché far circolare le nostre idee, le idee del Fatto, serve”. Ma c'è di più. Travaglio dice che a Mediaset le porte sono del tutto sbarrate. "I salotti hanno una lunga lista di ospiti che non possono essere invitati, formata dal mio nome. Punto”. Con ogni probabilità Travaglio si riferiva ai talk show politici, visto che nel 2017 fu vittima di uno scherzo de Le Iene organizzato con la complicità del figlio Alessandro. Il giovane rapper gli fece credere di essere stato contattato per entrare nella casa del Grande Fratello Vip. Ma questo Travaglio non lo dice.

Gianluca Nicoletti per pernoiautistici.com il 14 giugno 2021. E’ civile irridere una persona per la sua statura notevolmente sotto alla media? Sicuramente è una forma retrograda di bullismo o di body shaming, se vogliamo usare un termine più di moda. Oggi lo fa Marco Travaglio nella sua rubrica “Mi faccia il piacere” in prima pagina de Il Fatto Quotidiano di cui è direttore. Per giustificare dell’ironia nei confronti di una frase di Giorgia Meloni sul rapporto che ha con la sua “dimensione alta” usa, Renato Brunetta come esempio limite di persona il cui rapporto con l’altezza è sicuramente forte. Cito l’aforisma: “Sua Altezza: Ho un rapporto molto forte con la mia dimensione alta” (Giorgia Meloni leader FdI, Stasera Italia Rete4, 8.6) Mai però quanto Brunetta. Sarebbe un lecito esercizio dell’invettiva politica, in una chiave di irrisione dell’autostima etico mistica di un avversario ideologico, se non fosse che, come è noto, Renato Brunetta è una persona concretamente molto bassa. Per non dire che il paragone è gratuito che c’entra con la Meloni? Brunetta è al Governo lei all’opposizione. Travaglio con questa ultima uscita si consacra definitivamente un campione di “abilismo”, dopo aver usato “mongoloide” e “bambino ritardato” come categorie del disprezzo nei confronti di chi non giudicava assimilabile al suo pensiero. Non cercherò quindi di invitare Travaglio a riflettere su quanto sia meschino ironizzare su un deficit fisico altrui. Mi sorprende invece che nessuno faccia caso al fatto che, da anni, questo disagio di Renato Brunetta sia oggetto di dileggio, ammesso e tollerato anche dalla più benpensante delle anime belle che si battono per l’abbattimento delle discriminazioni di ogni genere. Ultimamente anche il comico Maurizio Crozza lo ha rappresentato in una sua imitazione con il paracadute addosso per scendere dalla sedia. A me non ha fatto ridere per niente l’ho trovato orribile, però si obietterà che per un comico sia lecito colpire senza limiti.  Tanto vero che forse sono stato il solo in tutta Italia a non farmici una risata sopra, probabilmente tutti pensano che siccome Brunetta è un Ministro e potente uomo politico, per giunta di destra, sia lecito sbeffeggiarlo perché è molto piccolo di statura. Questo a me però fa veramente tristezza. Non ho nessuna contiguità politica o ideologica con Brunetta, tanto meno con Giorgia Meloni se fosse necessario chiarire ulteriormente il senso di quanto scrivo, però ricordo di averlo una volta intervistato al telefono parecchi anni fa, l’argomento mi sfugge ma sarà stato per qualcosa che riguardava il suo ruolo nelle istituzioni, era sicuramente allora una persona di potere, di certo ancora più di quanto lo possa essere ora. Alla fine dell’intervista mi fece lui una domanda e avvertii sincero dolore in quanto mi diceva ricordandomi una gag di Fiorello, che la sera precedente aveva ancora una volta in tv ironizzato sulla sua statura. Brunetta mi chiese: “Secondo lei questo lei non è razzismo?”. La prova che a lui non facesse certo ridere che la sua statura fosse oggetto di scherno. Risposi allora quello che sottolineo questa mattina: certamente è una forma di disprezzo basata sulla limitata abilità fisica di una persona, questo è infame anche se quella persona fosse a nostro giudizio quanto di più detestabile possa esistere al mondo per quello che dice o pensa. La mia non è una presa di posizione “buonista” ma è frutto dell’esperienza che ho nel vivere in mezzo a persone con abilità limitate.  Una statura molto bassa crea concretamente molti problemi nell’affrontare barriere architettoniche in città, case, automezzi progettati e realizzati per un’umanità che mediamente ha almeno oltre venti centimetri in più di altezza. Non voglio poi fare accenno a quelli che possono essere stati e saranno tuttora i problemi di persone molto basse di statura durante l’implacabile rapporto con il resto dell’umanità che ci offre l’adolescenza. Soprattutto se si è uomini in questo caso, perché per una donna persistono i pur miseri palliativi di considerazione sociale in quanto “venere tascabile” o “botte piccola che contiene buon vino”, che sono comunque spregevoli ipocrisie usate come pietose scappatoie consolatorie. Per un uomo molto basso la condanna a essere deriso sin da ragazzo è totale e non trova difensori. A sinistra quanto a destra, tra buonisti e cattivisti, ogni volta che qualcuno, colpendo Brunetta, offende chi è molto al di sotto della statura minima della media, tutti fingono di non essersene accorti. Questo dimostra che lo stigma è forte, diffuso e persistente. Chi finge di non vedere o minimizza è complice di una discriminazione, che avviene tuttora in una società in cui stiamo ogni attimo attenti a come respiriamo, per paura di offendere qualche fragilità di cui non abbiamo nemmeno idea che esista. Ora l’ho detto e quindi dovrebbe iniziare a essere un problema anche per gli altri.

Dagospia Da “Belve” l'11 giugno 2021. Protagoniste della nuova puntata di Belve - condotto da Francesca Fagnani, in onda questa sera (venerdì 11 giugno), alle 22.55 su Rai2 - sono il direttore Marco Travaglio e la cantante Anna Tatangelo. L’unica canna mai fumata in vita sua?  “con i colleghi del Fatto”. Il rifiuto dell’ipotesi di diventare magistrato “perché è un mestiere terribile”. Il primo complimento della storia a Silvio Berlusconi, “l’uomo più tenace, più resistente, resiliente che si sia mai visto”. La cena con Conte per il sul suo nuovo libro. Le carognate di cui pentirsi: a Mara Carfagna, anni fa. La sorpresa nel sentirsi dire che è gay (“Sì, è girata anche questa…). Marco Travaglio, prima quota azzurra, intervistato senza filtri per Belve, svela a Francesca Fagnani alcuni clamorosi e inediti particolari sulla sua vita. Come quando la conduttrice gli chiede: Una canna se l’è mai fatta? e il direttore del Fatto Quotidiano “sì, per una scommessa persa. Qualche anno fa, hanno organizzato un viaggio a Marrakech Beatrice Borromeo e i miei colleghi Silvia Truzzi, Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Cinzia Monteverdi. Ho fatto il primo tiro, non è successo niente, e tutti mi guardavano come se fossi un animale raro. Ho fatto un secondo tiro e non è successo niente. Al terzo tiro se la sono ripresa e se la sono fatta loro perché hanno capito che andava sprecata...”. Quanto a Berlusconi, Fagnani riferisce a Travaglio i complimenti al lui rivolti dal Cavaliere e chiede al direttore di restituire almeno un complimento: Gli conceda perlomeno l’onore delle armi, è giusto... “Beh, sicuramente è l’uomo più tenace, più resistente, resiliente che si sia mai visto nella storia. È uno che per puntiglio, e per tigna, e anche per salvarsi le chiappe, ha resistito a qualunque cosa. Forse c’è solo la Raggi che ha resistito tanto quanto lui ... Tanto di cappello alla resistenza”. Berlusconi è un uomo simpatico? “Io credo che se non fosse entrato in politica, andarci a cena sarebbe stato molto più divertente che andare a cena con tutti gli altri uomini politici che abbiamo visto, che sono tendenzialmente noiosi e quasi tutti mediocri”. L’ex premier Giuseppe Conte ha letto il suo libro? L’ha chiamata?, chiede Fagnani. “Non so se l’abbia finito, so che aveva cominciato a leggerlo”. E che dice? “Mi ha scritto: accidenti, ho scoperto un sacco di cose che non sapevo o che non mi ricordavo più … non mi ero reso conto del livello dell’aggressione che avevo subito”. A pranzo con un politico? “Ma io non vado a pranzo con nessuno”. Non le è mai capitato di pranzare o cenare con qualche politico? “Mi è capitato di cenare con Bossi, mi è capitato di cenare con Veltroni…Con Conte? Mi è capitato di cenare una volta con Conte proprio durante la lavorazione del libro perché gli dovevo chiedere un sacco di chiarimenti, soprattutto sulla parte della ricostruzione del Recovery”. Non mancano le incursioni di Fagnani nella vita privata di Travaglio. Ma il fatto che qualcuno la consideri gay la sorprende? “Sì, è girata anche questa. Mi sono sempre domandato perché… Non ci troverei nulla di male a esserlo se lo fossi, e se lo fossi lo direi, non lo nasconderei Ma lei è un’icona gay? Insiste la Fagnani  “C’è un albo delle icone gay? Non lo so, dovrei consultarlo. Però cosa ho fatto io per essere un’icona gay?”, chiude ridendo Travaglio. Indomabili, ambiziosi, sempre all’attacco e mai gregari alle 22.55 i protagonisti di Belve si prendono il venerdì sera di Raidue, con un ciclo di dieci puntate. Il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani con domande dirette e mai cerimoniose puntano a far emergere forza e debolezze dei protagonisti. Feroci e fragili, al tempo stesso.

Da secoloditalia.it il 24 maggio 2021. Silvia Sciorilli Borrelli, corrispondente da Milano del “Financial Times”, è riuscita nell’impresa di far rinnegare il suo pupillo, Giuseppe Conte, a Marco Travaglio, al termine di un acceso botta e risposta andato in onda ieri sera a “Otto e mezzo”, sulla Sette. La giornalista, che segue le vicende politiche italiane da Milano, fa notare a Travaglio che “tutti volevano Draghi, e adesso, arrivato lui, dopo 3 mesi non va bene neanche lui…”. “Ma dove sono questi tutti? Tu lo volevi!”, replica Travaglio. E la Sciorilli Borrelli: “Se ragioniamo tra sostenitori di Draghi e vedove di Conte…”.

Conte rinnegato da Travaglio, poi il pentimento. Il direttore del “Fatto Quotidiano” abbocca alla provocazione e si sente direttamente chiamato in causa, esplodendo: “Ma chi se ne frega di Conte!”. Dallo studio, il direttore della “Stampa“, Massimo Giannini, gli fa notare che tutti i partiti hanno sostenuto e votato Draghi, ma Travaglio torna a fare il piccolo fan di Conte: “E’ stato Mattarella a chiamare Draghi per un governo che doveva sostituirne uno che stava lavorando bene…”. Vedova no, nostalgico sì, a quanto pare. Travaglio si comporta meglio di un addetto stampa. “Passi avanti merito di Draghi? Tutto il mondo esce dall’emergenza e tornano alla normalità. Anche l’anno scorso era accaduto in questi giorni, la differenza è che abbiamo i vaccini. Il merito di Draghi è quello di aver proseguito il lavoro del governo precedente”.

Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 24 maggio 2021. Marco Travaglio è la vedova inconsolabile dei casi umani della Repubblica. Dall' ex premier Giuseppe Conte all' ex super commissario Domenico Arcuri, e così via a risalir li rami fino ad Antonio Ingroia e Tonino Di Pietro, l' albo d' oro politico custodito dal direttore del Fatto è un camposanto d'amori sfortunati, un inventario di carriere stroncate dalla malasorte e dalla malagrazia giustizialista nel sostenerle. L'ultimo e ferale colpo gliel'ha inferto ieri il capo dello Stato, nell'anniversario della strage di Capaci, azzannando alla giugulare quell'idra impazzita che è divenuta la magistratura, un pozzo nero in cui «contrapposizioni, contese, divisioni e polemiche minano il prestigio e l'autorevolezza dell'ordine giudiziario». Così ha detto Sergio Mattarella nell'aula bunker di Palermo, il santuario laico di chi col teorema della trattativa Stato-mafia ha sancito la beatificazione dei togati e nutrito l'anatema antipolitico. Ma basta sfogliare le prime pagine del Fatto quotidiano per cogliere un generico dolore ormai trattenuto a stento e riversato ogni giorno in bile nera per dimostrare che si stava meglio durante il principato cinese di Conte; e ad armeggiare per la salute nazionale c'era l'amico Arcuri con i suoi vaccini fantasma e le sue primule, le mascherine e i respiratori pechinesi. Sembra passato già un evo, ora che l'Italia assapora la luce delle riaperture, ma in casa Travaglio ancora s' indossa il lutto d'ordinanza: il Recovery Plan? L'ha scritto Conte e i soldi che verranno sono merito suo, Mario Draghi sta vendemmiando sulle fatiche dell'avvocato di Volturara Appula; il decoratissimo generale Figliuolo? Poco meno che un inquilino abusivo, avvezzo al proclama stentoreo e vanitosamente piazzato laddove troneggiava ai tempi belli l'onnipotente compagno Arcuri. Per la verità, dacché i suoi sodali pentastellati sono finiti in maggioranza con Matteo Salvini (di nuovo!) e con l'arcinemico Silvio Berlusconi - il "cazzaro verde" e lo "psiconano" nel teatro di strada grillino - Travaglio sembra l'Alberto Sordi di "Tutti a casa": «Signor colonnello, accade una cosa incredibile, i tedeschi si sono alleati con gli americani allora tutto è finito». E oggi si ritrova a dover impersonare un'opposizione forsennata al governissimo di Draghi come nemmeno Giorgia Meloni, che dell'opposizione parlamentare è la monopolista legittima. «Il governo dei ricchi», lo chiama lui, esterrefatto dalle giravolte del Movimento balcanizzato. Perché Travaglio aveva scommesso tutto sui giallorossi, guidati vischiosamente da quel Conte che era divenuto il «fortissimo punto di riferimento» progressista dei democratici, quando a comandare al Nazareno c'era il gregario Nicola Zingaretti e il direttore del Fatto fungeva da spirito guida dell'alleanza assieme al Rasputin Casalino. Come noto, in inverno l'altro arcinemico Matteo Renzi s' è incaricato di spazzare via l'equivoco di Palazzo Chigi e la linea massimalista del Fatto - andare al voto con una lista Conte fresca di conio -è stata fragorosamente smentita dalla realtà e dal senso pratico dei grillini o di quel che ne resta. Risultato: fine di un sogno, tramonto di un'egemonia illusoria costruita sulle macerie pandemiche attraverso uno staterello di polizia sanitaria affidato alla giunta dei virologi di regime. Dolore acuto mutato in sindrome passivo-aggressiva - la denuncia del complotto ordito dai poteri forti - e sfociato in vendette sanguinarie come quell'altolà, suggerito a Conte con un editoriale sicario, alla candidatura di Zingaretti a Roma affinché non disintegrasse un'altra medaglia al valor politico travaglista: Virginia Raggi. E ora, che fare? Con Beppe Grillo fuori gioco per via del figlio sotto indagine per stupro; con Luigi Di Maio pietrificato come l'impronta delle sue terga sulle poltrone di tre governi in una legislatura; resta forse un pezzo di cuore da lanciare verso Alessandro Di Battista, il pupillo della rivoluzione populista. Chissà. Nel frattempo è lotta dura contro il tandem Draghi/Figliuolo e contro tutti i collaborazionisti del nuovo occupante tecnocratico. Una lotta dal sapore anche liberatorio perché, vuoi o non vuoi, Travaglio gravitava in area di governo da troppo tempo, sia pure senza poter ammetterlo: dal 2018, quando Grillo e il sempre detestato Davide Casaleggio gli avevano inflitto il contratto con Salvini. Adesso finalmente si torna ai fasti dell'antiberlusconismo e dell'antirenzismo, all'ebbrezza manettara degli Ingroia e dei Di Pietro, delle liste Tsipras d'ogni ordine e grado e insomma di tutto quel caravanserraglio della così detta e variopinta società civile. Ed ecco agitarsi invisibili, tra le righe del Fatto, come in un sabba antologico, le ombre dei fantasmi girotondini, le larve giacobine del popolo arancio e viola, i detriti di una verdeggiante giovinezza d'opposizione tetragona. Eccolo, dunque, l'ultimo Travaglio, gran cerimoniere di una seduta spiritica quotidiana convocata per riscattare le sconfitte rispolverando lo squadrismo della prima ora; sempre con l'indicibile gioia ottusa di non averne azzeccata una, in fatto di leader politici.

·        Marie Colvin.

Marina Valensise per “il Messaggero” il 14 febbraio 2021. Marie Colvin è una leggenda. Ma per capire cosa abbia spinto la figlia di un ex marine, nata a Long Island nel 1956, cresciuta in barca a vela e laureata a Yale in antropologia, a diventare una delle più temerarie corrispondenti di guerra non bastano i documentari come Under the Wire, e nemmeno il film, A Private War, realizzato sei anni dopo anni dopo la sua morte avvenuta nel 2012 per mano delle forze militari siriane, durante l' assedio di Homs.

LE TAPPE. Bisogna leggere questa poderosa antologia che racchiude tutte le tappe d' una vita spericolata trascorsa sui grandi teatri di guerra (da Tripoli a Bassora, da Baghdad al Kosovo, dalla Cecenia a Timor Est, in Etiopia fra le vittime della carestia, in Zimbabwe fra le vittime degli stupri dei miliziani di Mugabe, in Sierra Leone fra i guerriglieri drogati nel deserto, e in Sri Lanka fra gli indipendentisti Tamil, e poi in Iraq per la morte Saddam, e da lì a Gaza, a Beirut, in Afghanistan fra i talebani, in Egitto e in Libia per la primavera araba e la fine di Gheddafi, e quindi in Siria martoriata dalle bombe) e ne rivela le pulsioni più profonde. E cioè la passione per la verità, l' ansia di raccontare l' orrore della guerra nei suoi risvolti più banali, e soprattutto l' adrenalina che nasce dalla voglia di mettersi in gioco e sfidare se stessa con prove ardimentose e forti emozioni, sino a testare ogni giorno il nucleo inscalfibile della forza d' animo e testimoniare l' infinita sorgente che morte distruzione e sofferenza rappresentano per la compassione umana.

ASTUZIE. Marie Colvin era una donna che aborriva le astuzie femminili. Quando vinse il Women' s Media Foundation Award, lei stessa lo spiegò, citando la mitica Martha Gellhonrn («Non le posso reggere, le femministe») in un' intervista che le nostre grandi firme in pashmina dovrebbero imparare a memoria. Pur consapevole del fattore D, voleva essere un reporter di guerra e basta, senza concessione di genere, e ora sappiamo come riuscì nell' impresa. A trent' anni, quando guardava il mondo dai suoi due occhi azzurri, sottili come quelli di una lucertola (dopo aver perso il sinistro in Sri Lanka nel 2001 durante un servizio fra le tigri Tamil, se lo coprì con una benda nera), finisce a Bassora per la guerra Iran-Iraq. Due anni dopo racconta la violenza criminale alla corte di Saddam attraverso il sosia del secondogenito del dittatore, figlio di un ricco mercante curdo minato dalla distruzione d' identità e gravi turbe psichiche.

ORRORI. Nel marzo 1998, entra clandestinamente in Kosovo con un' unità dell' Esercito di liberazione, e ricostruisce gli orrori dell' artiglieria serba attraverso il racconto di un' undicenne albanese, unica sopravvissuta all' eccidio della sua famiglia a Prekaz. L' anno dopo, sempre clandestinamente, entra in Cecenia dalla Georgia con un fuoristrada presto crivellato dai russi. Trova riparo in un campo vicino a Grozny, dove intercetta una coppia di ceceni che dopo aver tentato tre volte la fuga attraverso il corridoio aperto dai russi verso l' Inguscezia, s' è rintanata in una minuscola grotta, con un letto posato sulla ghiaia, una stufa a legno e un sacco di cipolle e un po' di farina. Quando i bombardamenti riprendono, capisce che l' unico modo per sfuggire ai caccia russi è inerpicarsi a sulle montagne del Caucaso.

LA FUGA. Inizia così per lei, per il fotografo russo che lavora per il Sunday Times, e gli sherpa ceceni che si alternano nei traffici clandestini, una marcia di otto giorni, a 3800 mt di quota, segnati dal gelo, dalla fame, dalla fatica, lungo sentieri sospesi sull' abisso fra gole imbiancate, torrenti ghiacciati, valichi introvabili, nell' incubo del satellitare con la batteria allo stremo, finché il giornale di Londra non riesce a mandare da Tbilisi un elicottero dell' ambasciata Usa per trarre in salvo la sua corrispondente, concittadina americana.

·        Marino Bartoletti.

Giulia Cazzaniga per "la Verità" il 7 giugno 2021.

 Ha derogato alla sua riservatezza raccontando in tv la lotta contro il tumore.

«L'ho fatto per ribadire che la prevenzione è importante, e soprattutto per gratitudine per gli angeli che anche con un sorriso mi hanno curato, qui a Bologna», spiega sedendosi in poltrona per chiacchierare con la Verità. Ha appena fatto l'ultima Tac di controllo. Mentre spera di «non essere sconfessato da qualche valore sbagliato» e che la battaglia sia stata utile, è alle prese con la programmazione di un'estate intensa: scrittura, presentazioni, premi, uno spettacolo teatrale che racconta la storia d' Italia attraverso quella della bicicletta. «Dovrei darmi una regolata: mia nonna Sofia diceva che in una bottiglia da 1 litro non ce ne sta 1 e mezzo, io sto provando a mettercene 2», dice ridendo e poi facendosi subito serio: «Lavorare è una medicina, provo a mettermi alle spalle tante cose di questo periodo. Se poi trovo il tempo per vivere, o per fare un bagno in mare, meglio».

Già al lavoro quindi sul prossimo libro?

«Non uno soltanto. C' è da consegnare il quinto Bar Toletti che esce a luglio, e poi da fare i seguiti di La cena degli dei e dei volumi della Squadra dei sogni». 

Questi ultimi sono destinati ai ragazzi, dai 9 anni ai 99. Che ne pensano i suoi due nipoti?

«Filippo, 11 anni, è in pieno target. Con Alice, 8, mi hanno convinto a iniziare quando ho capito che con i bambini si deve parlare da uomo a uomo, o a donna».

Com' è Bartoletti nonno?

«Da papà, per le mie due figlie, sono stato un po' distratto dalla frenesia del lavoro, ma mi dò un voto "accettabile". I nipoti sono arrivati quando i sentimenti acquistavano una certa fragilità ed è meraviglioso confrontarsi con loro».

La cena degli dei (Gallucci editore) è tra i finalisti del premio Selezione Bancarella. Spera in un altro trofeo da aggiungere ai tanti della carriera?

«Sono onesto: sono andato già oltre il successo che avrei sperato, ma ogni volta c' è un pizzico di civetteria. Per una cosa del genere poi non ho mai concorso, è stato inaspettato e io sono un agonista per natura. Se penso che un giorno feci il voto di non scrivere libri». 

In quest' ultimo mette alcuni personaggi a cena in un Paradiso dove si beve Lambrusco e si canta con Lucio Dalla. Se lo immagina davvero così?

«C' è chi mi ha scritto: se è così, mi impegno fin da subito per andarci. Il libro credo sia un gesto di speranza: pensare che un giorno si possano ritrovare gli amici è per me un buon motivo per averne, anche se sono tendenzialmente scettico su un aldilà». 

Di recente ha raccontato di come si sia affidato alla Madonna, della devozione per quella del Fuoco, a Forlì.

«Ho un rapporto particolare con la fede. Ho tanti motivi per dubitare, ma faccio miei piccoli percorsi mentali e ci sono suggestioni che mi appassionano. Così è accaduto in momenti dolorosi. Vorrei andare a Medjugorje, quello sì. Negli ultimi mesi, sarà stata anche l' anagrafe, mi sono confrontato da laico con un' intimità che avevo trascurato, rimosso».

Riavvolgo il nastro. Bartoletti nasce nel '49 a Forlì.

«Da famiglia provinciale e artigiana, che sono poi i due aggettivi più belli a cui credo si possa ambire. Dalla provincia viene il desiderio di migliorarsi continuo, dagli artigiani il fare le cose con le mani - sulla tastiera nel mio caso - con il cervello e con il cuore».

A 20 anni parte per Milano.

«Con mia mamma che inseguendomi fino in stazione mi ripeteva: "Cosa c' è a Milano che non c' è a Forlì". Ancora rido, ricordandolo».

C' era molto.

«C' erano le ambizioni con le quali non avrei potuto confrontarmi altrimenti. C' era qualche anno di sofferenza e di cinghia stretta, e poi l' incontro con i giusti maestri». 

E il talento che trova sbocco?

«Preferisco parlare di entusiasmo e buona volontà. Tutto ha un prezzo, però, nulla mi è stato regalato». 

Cosa sente di aver perso?

«So di essere in una posizione invidiabile, io stesso mi invidierei. Certo però essere un personaggio in vista espone maggiormente alle cattiverie e alle gelosie. Non accade, se voli basso. Non mi lamento, ma ho avuto alcune delusioni e dolori anche dalla mia vita professionale». 

Laurea in giurisprudenza, poi giornalista sportivo.

«La laurea fu per far felice mio padre, anche se era già morto. Volevo onorare le 500 lire che mi dava per prendere il treno da Forlì all' università a Bologna. Ma la mia vocazione era diversa. Dalla mia piccola città veniva Ercole Baldini, il campione di ciclismo. Era l' Italia che mi faceva sentire orgoglioso. Anche se allora mai avrei pensato di raccontare io quelle emozioni, di seguire da vicino dieci Olimpiadi, dieci campionati del mondo, i festival di Sanremo». 

Lo sport italiano regala oggi le stesse emozioni di ieri?

«Sarà che sono vecchio, ma mi commuovo ancora quando un atleta sale sul podio e intona l' inno nazionale».

La musica è un' altra sua grande passione. Sembrano mondi distanti.

«Li accomunano proprio le emozioni. Accipicchia, quante ne ho provate ascoltando certe canzoni. Anche di segno opposto, a seconda del momento. Una colonna sonora nella vita è imprescindibile. Mi chiedono spesso come faccio a promuovere i Maneskin e ad amare Il Volo». 

Sarà che non assomigliano per niente ai suoi amici Vecchioni, Guccini, Ranieri

«Forse vivo guizzi di giovanilismo insospettabile (ride). Ma a quei ragazzi nessuno ha regalato niente e hanno rappresentato l' Italia con dignità. È sterile avere diffidenza per ciò che non corrisponde ai nostri gusti. Anche per Modugno, o per Celentano a Sanremo, ci fu chi alzò il sopracciglio. O per Vasco Rossi. La storia insegna che conviene essere prudenti nei giudizi. Vedi i Mondiali del 1982, dopo i quali eravamo tutti a fare il bagno nelle fontane». 

Iniziano gli Europei.

«Stimo molto Roberto Mancini, è l' uomo giusto al posto giusto. Ha riscattato l' amore per la Nazionale che si era perduto, ha investito sui giovani e nel gioco. Poi si vedrà come andrà, ma lo difendo da critiche e insulti, gratuiti. Gli Europei sono un inizio di normalità, ne abbiamo bisogno. Ben vengano le partite, ben vengano gli spettatori negli stadi. Inutile scandalizzarsi perché si cerca di andare avanti». 

Forse nel frattempo abbiamo sostituito il tifo calcistico per il tifo per i virologi?

«Il mio quinto Bar Toletti s' intitolerà proprio Così ho vaccinato Facebook. Di alcuni virologi ed esperti vari abbiamo avuto la netta sensazione stessero più in tv che al lavoro. L' esibizione televisiva di tante cose incoerenti, davanti a una popolazione smarrita, non mi ha fatto amare particolarmente la categoria. Sì, ci siamo divisi tra guelfi e ghibellini ma questo non ci ha fatto bene. I social non hanno aiutato, e poi gli italiani sono giurati di Sanremo, geologi o ingegneri esperti a seconda del momento. La tv, in ogni caso, non ha dato il meglio di sé».

Qual è la tv che invece ama?

«Quella che dà buoni esempi. Che con senso di responsabilità intelligente misura ogni parola. Ma si è perso tutto ciò. Al giornalismo sportivo è accaduto quando tutti noi ci siamo sentiti personaggi e abbiamo perso di vista la missione di divulgare ed educare, scadendo in eccessi per cui lo spettatore era portato a pensare: se lo dice lui in tv, posso farlo anche io. L' amico Aldo Biscardi ha fatto scuola, ma era tutto preterintenzionale. Guardi oggi i talk show: almeno lì si litigava solo per un pallone». 

In politica ha fatto una breve incursione, a Forlì, come consigliere comunale. Mai avuta la tentazione di continuare?

«Fu un gesto d' amore per la mia città, che presi con impegno e dedicando tempo e risorse. In molti mi chiesero se volessi proseguire a livello nazionale, ma per me finì lì». 

Chi glielo chiese?

«Non posso dire "cani e porci", suonerebbe male, scriviamo "parti politiche contrastanti". Non capivano che mai avrei rinunciato a indipendenza e libertà». 

Tanti anni in Rai, da conduttore e da direttore. La politica quanto era presente?

«La Rai è un' azienda dalla quale ho ricevuto tanto, alla quale penso di aver dato tanto, ma dove ho anche toccato con mano livelli di ingratitudine che mai avrei pensato potessero esistere. La Rai è immortale: riesce a resistere ai danni che essa stessa si infligge. Ferme restando le eccellenze e le professionalità straordinarie che ci lavorano, intendiamoci. Ma c' è un sottobosco scoraggiante». 

È vero che la volevano assumere a Sky?

«Come no, sono stato candidato alla direzione. Le cose poi sono andate in un certo modo e preferisco non indagare oltre. Credo Sky faccia il migliore racconto dello sport in Italia, con competenza e professionalità». 

Guarderà lì gli Europei?

«Non so, non credo. Sono abitudinario e come gli italiani medi ho la predilezione per il primo tasto del telecomando».

Da settembre invece il campionato se l' è aggiudicato Dazn.

«Non sono sicuro mi abbonerò. C' è chi fa regole che partono come buone ma poi sono mal interpretate. E così non ci si ricorda dell' interesse dell' utente finale, ma solo di quello di pochi». 

Creò il format di Quelli che il calcio. Lo guarda ancora?

«Qualche volta. È una trasmissione che ormai ha perso il significato di allora, perché il pomeriggio domenicale è stato spolpato. Mi sono piaciuti Luca e Paolo, e Nicola Savino: l' unico che mi ha dimostrato affetto e gratitudine. Nessuno mi ha più invitato.

Ma comunque non credo che ci andrei».

Deluso?

«Mah, semplicemente non eravamo più fatti gli uni per l' altro. Ho tanti amici e me li tengo cari. Oggi se mi invitano in tv vado dove so che mi troverò bene. Ultimamente, per esempio, mi ha mai visto parlare di sport?».

La confessione di Bartoletti: "Così ho scoperto la malattia..." Novella Toloni il 16 Maggio 2021 su Il Giornale. Il cronista sportivo ha raccontato della sua malattia al Corriere: "Ogni giorno mi infilavano in un tubo". E ora attende i nuovi controlli per sapere se l'incubo è finito. La notizia della difficile battaglia che Marino Bartoletti sta conducendo da mesi contro un tumore ha scosso il mondo dello spettacolo. Il popolare giornalista sportivo, nel corso dell'ultima puntata di Oggi è un altro giorno su Rai1, ha confessato a Serena Bortone di aver scoperto di avere un tumore "facendo tutt’altri controlli" e di essere in attesa degli ultimi esami, che potrebbero decretare la sua vittoria sul male. "A 70 anni suonati, voglio pensare al futuro", ha confessato Marino Bartoletti nell'ultima intervista rilasciata al Corriere di Bologna, citando Enzo Ferrari a cui ho dedicato il libro "La cena degli dei". Il cronista sportivo ha raccontato di aver intrapreso la lunga e difficile battaglia per sconfiggere il tumore dall'ottobre scorso con sei mesi di terapie importanti e due mesi di radioterapia. Oggi lui è positivo e attende gli esiti degli esami di giugno per sapere se l'incubo è finito. "Tutto sommato sto bene - ha raccontato al Corriere - Mai come in questo periodo ho pensato di essere stato fortunato ad essere nato e ad essermi ammalato in Emilia-Romagna. Ho fatto tutto il mio percorso di cura tra Villa Toniolo e Bellaria. La speranza è che l'operazione non serva". Accanto a Marino Bartoletti, in questo difficile momento della sua vita, ci sono le due figlie e i nipoti Filippo e Alice, che per lui rappresentano la "miglior medicina". A farsi sentire forte è stato anche l'affetto del pubblico: "Sui social network sono stato travolto da un’onda emotiva". La lotta contro il tumore, però, non lo ha tenuto lontano dalle sue passioni, anzi. Dopo aver scoperto di essere malato, Bartoletti si è buttato anima e corpo nella stesura del suo libro "La cena degli dei", oggi finalista al premio Selezione Bancarella. Una vita che corre parallela su due binari: "Ho consegnato il libro con rabbia, ma anche con orgoglio perché mi ci sono impegnato in un momento difficilissimo. Poi pensavo di essermi iscritto al Campionato di Serie B e invece mi sono ritrovato nelle Final Four di Champions: non vado per accontentarmi". L'attenzione e il clamore mediatico scatenatosi attorno alla sua malattia, gli ha offerto lo spunto per lanciare un messaggio di ringraziamento: "Io sono stato abbastanza fortunato e ho scoperto cosa avevo facendo tutt’altro esame. Voglio ringraziare il personale sanitario chiamandolo per nome e non per cognome. Grazie agli specialisti che mi hanno curato: Eugenio, Giovanni, Carlo, Marinella, Damiano, poi i tecnici paramedici che ogni giorno mi infilavano in un tubo sostenendomi e prendendosi cura di me".

Il giornalista e autore. Marino Bartoletti racconta la sua lotta contro il tumore: “Lo sport mi ha insegnato a combattere”. Vito Califano su Il Riformista il 17 Maggio 2021. Il primo regalo che Marino Bartoletti si è fatto dopo mesi di malattia e cure è stato commentare il Festival di Sanremo, quello andato in onda dal due marzo al sei marzo. Lo ha fatto negli studi di Rai1, ospite di quella settimana speciale di Oggi è un altro giorno, dedicata alla kermesse. E nello stesso programma, condotto da Serena Bortone, il giornalista, conduttore e autore televisivo ha raccontato il suo calvario: “Ho avuto un tumore e forse ce l’ho ancora perché le analisi definitive le farò a inizio giugno”. La confessione di Bartoletti a qualche giorno di distanza dalla vittoria di La Cena degli Dei, edito da Gallucci e dedicato a Enzo Ferrari, del Premio Selezione Bancarella 2021. Bartoletti si è occupato nella sua carriera di sport – calcio, ciclismo, motori – e di spettacoli. È uno dei volti più noti della televisione, esperto del Festival di Sanremo. Ha condotto ed è stato ospite di numerose trasmissioni televisive, soprattutto per la Rai. Ha scoperto la sua malattia incidentalmente, dopo altri controlli. “È una cosa che è scoppiata alla fine della scorsa estate e che per fortuna è stata presa per tempo – ha raccontato Bartoletti – Però non possiamo sempre essere figli della fortuna né dire: succede sempre agli altri. Quindi io devo benedire quattro angeli, che si chiamano Eugenio, Carlo, Giovanni e Marinella, che hanno dei cognomi oltre che dei nomi e dei titoli professionali, perché mi sono stati molto d’aiuto. Perché mi sono messo in buone mani. Perché noi dobbiamo essere i primi ad aiutare queste persone ad aiutarci”. Bartoletti ha quindi raccontato di aver affrontato mesi di terapie. “Ho provato, non dico fatalismo, ho provato quello che lo sport mi ha insegnato, che bisogna sempre battersi fino all’ultimo minuto, fino al novantesimo, e anche fino al recupero. Io mi sto ancora battendo, penso con decoro, sogno un’estate bellissima, con le persone che mi vogliono bene, con una in particolare e spero che questa parte oscura della mia vita possa metterla alle spalle”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Sara D'Ascenzo per "corriere.it" il 16 maggio 2021. «In questi mesi ho pensato tanto a Enzo Ferrari, a cui ho dedicato il mio libro “La cena degli dei”. Lui diceva che a 70 anni pensava al futuro. Ecco, mi sono appropriato di questa sua frase, perché anche io, a 70 anni suonati, voglio pensare al futuro». Marino Bartoletti è uno di quei volti amati che hanno fatto la storia della televisione e del giornalismo. Suo il baffo placido inquadrato nella mitica prima stagione di «Quelli che il calcio» fino al 2001 come sparring partner di Fabio Fazio. Sua la conoscenza enciclopedica da vero appassionato di Sanremo cui periodicamente la televisione attinge per carpirne le curiosità ogni volta diverse. L’altro giorno a “Oggi è un altro giorno” su Rai1, ha confessato a Serena Bortone di essere nel pieno di una battaglia importante, contro un tumore «scoperto facendo tutt’altri controlli».

Bartoletti, come sta?

«Tutto sommato bene. Ho fatto tutto il mio percorso di radioterapia e controlli tra febbraio e marzo e agli inizi di giugno dovrebbero dirmi se ne sono fuori».

Dove è stato curato?

«Mai come in questo periodo ho pensato di essere stato fortunato a essere nato e a essermi ammalato in Emilia-Romagna. Ho fatto tutto il mio percorso di cura tra Villa Toniolo e Bellaria. La speranza è che l’operazione non serva».

Come spesso accade nella vita, questo è pero un suo periodo lavorativo pieno di soddisfazioni.

«Sì, sto vivendo un doppio binario. A fine ottobre dell’anno scorso ho saputo di essere stato malato e mi sono buttato nella scrittura del mio libro “La cena degli dei”, che ora è in finale al premio Selezione Bancarella. Ho consegnato il libro con rabbia, ma anche con orgoglio perché mi ci sono impegnato in un momento difficilissimo. Poi pensavo di essermi iscritto al Campionato di Serie B e invece mi sono ritrovato nelle Final Four di Champions: non vado per accontentarmi».

Il libro racconta di un’ipotetica cena in Paradiso in cui si riuniscono mostri sacri che sono stati anche suoi amici, da Dalla a Pavarotti, a Senna. Ci sarà una “cena 2”?

«Io sono molto sui social e devo dire che a furor di popolo mi toccherà farne un’altra! I lettori vorrebbero Napoleone e Giulio Cesare. Appena l’ho pubblicato sono mancati Paolo Rossi, Maradona, Gigi Proietti, Stefano D’Orazio e tanti altri ce ne sarebbero, non ho che l’imbarazzo della scelta. Mi sa che a Ferragosto mi toccherà sistemare il condizionatore in studio!».

Chi ha sentito più vicino in questo periodo?

«Tutto e tutti mi sono stati vicini a cominciare dalle mie due figlie e dai miei nipoti Filippo e Alice che sono la mia medicina. Sui social sono stato travolto da un’onda emotiva. Vorrei però lanciare un messaggio: sono stato abbastanza fortunato e ho scoperto cosa avevo facendo tutt’altro esame. Voglio ringraziare il personale sanitario chiamandolo per nome e non per cognome. Grazie agli specialisti che mi hanno curato: Eugenio, Giovanni, Carlo, Marinella, Damiano, poi i tecnici paramedici che ogni giorno...

·        Mario Giordano.

Vittorio Feltri, i segreti dietro le quinte di Mario Giordano: perché la sinistra lo detesta. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 27 luglio 2021. Mario Giordano è uno degli ultimi giornalisti talentuosi del nostro Paese. Ha scritto decine di saggi pubblicati in altrettanti volumi, inchieste di notevole valore, ha diretto il Giornale e vari notiziari televisivi. È indubbio, si tratta di uomo di successo: ovunque abbia lavorato ha lasciato il segno. Attualmente conduce per Rete 4 un programma, Fuori dal Coro, che ottiene risultati di ascolto eccezionali (andrà nuovamente in onda dal prossimo settembre). La gente lo segue con simpatia e passione perché avverte in lui una spiccata sincerità oltre a una notevole capacità di interpretare il pensiero diffuso. Il suo linguaggio, benché popolare, è correttissimo e colloquiale, il che rende il personaggio familiare, uno capace come pochi di interpretare un sentimento di giustizia. Nonostante ciò Giordano non gode di una stima sconfinata a livello di critica televisiva né piace molto ai colleghi, forse perché invidiosi della sua forza mediatica. Il fatto che egli non sia celebrato come merita è francamente un mistero. Ho un sospetto malizioso che mi azzardo ad esprimere. Mario non ha una voce baritonale, sembra piuttosto femminile o infantile. Il che contrasta con gli argomenti duri che suole affrontare, non disdegnando di emettere autentici strilli specialmente nel caso in cui sia indignato davanti alle porcherie nazionali. Se la mia supposizione è fondata, mi sento autorizzato a essere indignato: si può non attribuire i meriti che spettano a un personaggio di valore solamente perché il tono della sua favella non è quella di Vittorio Gassman? Mi sembra una idiozia indegna di essere presa in considerazione. Qualcuno lo critica poiché talora esce dai gangheri nel denunciare certe storture che caratterizzano la vita italiana. Io invece ritengo che abbia ragione lui quando perde le staffe. Un esempio. Ci sono numerose famiglie che, dopo aver acquistato un appartamento, se lo vedono occupato abusivamente da alcuni mariuoli e non riescono più a riappropriarsene. Nessuna autorità le aiuta a ottenere ciò che spetta loro. Sindaci, polizia, carabinieri, vigili urbani non vanno in soccorso di chi è stato derubato di un bene prezioso quale la casa. Giordano è l'unico giornalista che si preoccupa di simili e diffusi torti. Si fa carico nelle sue trasmissioni di ripristinare la legalità, spesso riuscendo nei suoi nobili intenti. Eppure non c'è anima che gli riconosca di agire negli interessi dei poveracci che hanno patito determinati abusi. Ogni martedì va in onda Fuori dal Coro e non c'è settimana che a Giordano sfuggano le cose più assurde che accadono dalle nostre parti. Non nascondo che il suo giornalismo supportato da decibel altissimi a me garbi moltissimo. Stando alla retorica più scontata, i cronisti dovrebbero essere i cani da guardia del potere, in realtà essi più che belare non fanno. L'unico che abbaia e morde è Mario. Gli altri si accucciano ai piedi del potere pronti a leccare nella speranza di azzannare almeno un ossicino. Il signore Fuori dal coro lo conosco dai primi anni Novanta. Mi fu segnalato da Roberto Crespi, grande amministratore del Giornale, che mi chiese di incontralo per valutarlo. Ricevetti il giovanotto disoccupato (il quotidiano dove aveva lavorato, l'Informazione, aveva cessato le pubblicazioni) e invece di conversare con lui, esercizio che consideravo inutile, gli affidai il compito di scrivere per me un articolo su Fossa, candidato presidente di Confindustria. Mario un po' sorpreso se ne andò dopo aver annotato la mansione che gli avevo assegnato. Due giorni appresso egli mi recapitò un elaborato di quattro cartelle che lessi subito per pura curiosità. Era un pezzo perfetto, ben scritto, pieno di notizie. Mi prese la smania di assumerlo subito. Telefonai immediatamente a Crespi e lo pregai di fare un contratto al ragazzo che mi aveva presentato. Troppo bravo per lasciarlo sfuggire. Trascorse poco tempo e lo promossi inviato sul campo, lo strameritava. I primi passi Mario li ha compiuti con me, e ne sono fiero, poi da solo ha percorso chilometri e ora sono qui a elogiarlo in quanto è migliore di me, e non ci vuole molto. Pardon.

·        Massimo Fini.

Antonio Carioti per il “Corriere della Sera” il 20 giugno 2021. Oltre a mostrare un indubbio talento in veste di commentatore e saggista, Massimo Fini si è esercitato a lungo come inviato di cronaca e di costume, esploratore dei cambiamenti che attraversavano la società italiana, ma anche osservatore attento di altre realtà del mondo. Tuttavia non aveva mai raccolto in volume una rassegna di questo suo repertorio. Era tempo quindi che uscisse Il giornalismo fatto in pezzi (Marsilio), una ricca raccolta d'inchieste, interviste, reportage. Da battitore libero quale è sempre stato, Fini svaria sui più diversi argomenti. Indaga sugli equilibri di potere interni alla Fiat - instaura anche un rapporto amichevole con Susanna Agnelli -, come sui feroci rancori che all'inizio degli anni Settanta provocano una faida sanguinosa nel piccolo comune calabrese di Guardavalle. Che ci parli di personaggi potenti e famosi o dell'ergastolano uxoricida evaso dal carcere e rintracciato per caso dopo trentadue anni, quando ormai si era rifatto una vita onesta, il lavoro di Fini è sempre da giornalista vecchia maniera, che consuma le suole delle scarpe, come si usa dire, andando sul posto, parlando faccia a faccia con la gente. E in effetti la sua prosa palpita di umanità vissuta. Pare di vederle le persone che descrive, al Cairo o in Giappone, nella sua Milano o nella Bari del 1978 orfana di Aldo Moro. Particolarmente interessanti sono gli articoli di costume sulla crisi della coppia e in particolare del maschio, argomento che poi riprenderà in altri libri sulle relazioni tra i sessi e sul disagio indotto dalle trasformazioni turbinose della modernità (a suo avviso nel complesso deleterie). Già nel 1977 Fini scrive che la coppia «aperta, paritaria, progressista» finisce in realtà per risultare «schizofrenica», perché «ha in testa, culturalmente e ideologicamente, un certo schema», però «non riesce a viverlo se non a prezzo di grandi sofferenze e mistificazioni». Spiccano, per i ritratti e gli scorci che li punteggiano, i reportage di Fini dall'estero, realizzati in genere per la «Domenica del Corriere» diretta allora da Pierluigi Magnaschi. Nella Mosca ancora sovietica segnala il ribollire di «una miriade di commerci privati, semilegali ed illegali», per concludere: «Il Paese che ha abolito ufficialmente il mercato è, in realtà, tutto un mercato, un enorme e vorticoso bazar». Tra l'altro dimostra una notevole lucidità nei giudizi politici, per esempio quando indica il risentimento degli arabi di cittadinanza israeliana come un problema destinato ad aggravarsi per lo Stato ebraico. O come quando, nel 1987, suggerisce ai sudafricani bianchi di trattare al più presto con Nelson Mandela, come in effetti fortunatamente faranno, prima che sia troppo tardi e che subentri una generazione di leader neri più radicali. Il volume si chiude con due belle interviste a Pier Paolo Pasolini, un personaggio a cui l'autore si sente intellettualmente vicino e dal quale dichiara di aver mutuato molto della sua ispirazione antimoderna. Colpisce che il poeta già nel 1974 giudicasse ingenuo e innocuo prendersela con «un fascismo arcaico, che non esiste più e che non esisterà mai più» (quello storico di Mussolini), denunciando invece la società dei consumi come «una civiltà dittatoriale» molto più sottile e più insidiosa del passato regime. Peccato che Pasolini, di cui sta per ricorrere il centenario della nascita, non possa più farsi sentire per scuotere la banalità del dibattito pubblico. Abbiamo però Fini che a suo modo si muove su un'analoga scia. Vale la pena di leggerlo e ascoltarlo, ha il dono di far riflettere.

Perché non posso tifare Italia. Massimo Fini su Il Fatto Quotidiano/massimofini.it, 22 giugno 2021.

Io faccio il tifo contro l’Italia, benché Mancini abbia messo in piedi una bella squadra, che non è fatta di fenomeni ma che ha un gioco, va costantemente in avanti, abbandonando l’antica abitudine italica, sparagnina ma redditizia, di difesa e contropiede.

Non posso tifare Italia. Non oso immaginare cosa succederebbe se vincesse, come può, gli Europei. Draghi si approprierebbe della vittoria come fecero nel 1982 il presidente Pertini e persino Giovanni Spadolini, premier, che non solo non aveva mai visto un pallone in vita sua, ma era l’uomo meno fisico che si sia mai visto. Il generale Figliuolo, prendendo da Berlusconi (“il Milan vince perché adotta la filosofia della Fininvest”) direbbe che l’Italia vince perché adotta la sua logistica.

Non posso tifare Italia perché è un paese di corrotti, a tutti i livelli, anche i più infimi (alla Canottieri, antico e prestigioso Circolo meneghino per la cui iscrizione si pagano circa 1300 euro, dove vado a nuotare, mi hanno rubato anche le mutande sporche).

Non posso tifare Italia perché non mi ha dato nulla tranne i natali. Vogliamo ricordare Cirano, lo spettacolo televisivo dove, per la prima volta, a 60 anni suonati avevo il ruolo nemmeno di conduttore ma solo di commentatore, bloccato il giorno prima che andasse in onda, senza che nessuno l’avesse visto, dalla filiera Berlusconi-Socci-Cattaneo e il don Abbondio leghista Marano? Vogliamo ricordare Pagina, il bellissimo settimanale diretto da Aldo Canale, stoppato dai socialisti che ci fecero togliere tutta la pubblicità? Vogliamo ricordare che quando Guglielmo Zucconi mi propose per la vicedirezione del Giorno si mise di traverso il mio ex compagno di banco Claudio Martelli (facendomi, in realtà, senza saperlo, un favore, perché io non so dirigere neanche me stesso)? Vogliamo ricordare l’ostracismo, costante, continuo, capillare, che mi è stato fatto per anni da tutti i principali network televisivi e radiofonici, berlusconiani e non, per cui io posso essere invitato dall’Università di Kyoto a tenere una conferenza ma non da Lilli Gruber la cui carriera comincia perché davanti allo schermo non si mise difronte ma di traverso, una vera genialata, di grande spessore, giornalistica? Certo, ci sono giornalisti anche importanti che mi stimano (e in passato giornalisti anche più importanti, da Montanelli a Bocca, ma quelli erano altri tempi). Ma mai che a qualcuno di costoro venga in mente di nominarmi anche quando sarebbe ovvio. Dopo il ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan le Tv e i giornali hanno intervistato tutti, ma proprio tutti, anche gente che a malapena sapeva dove si trova quel Paese, ma non me che in una serie infinita di articoli e in un libro (Il Mullah Omar) quella sconfitta avevo previsto da tempo. Devo ringraziare Giorgio Dell’Arti che su Anteprima ha ripreso per intero il mio ultimo pezzo su Afghanistan, ma Dell’Arti, come Antonello Piroso, come Cesare Lanza, è uno di quelli che si son messi fuori dal coro e sono stati di fatto estromessi dal mestiere.

No, non posso proprio tifare Italia. Tifo Belgio, nonostante i nostri cugini d’Oltralpe chiamino i belgi, non senza qualche ragione, dei “francesi stupidi” (mi pare che questa icastica definizione sia del solito Baudelaire). Tifo Belgio perché vi gioca quello che, a parer mio e non solo mio, è oggi il miglior giocatore del mondo, Kevin De Bruyne. Anche questo cognome ha per me un qualche significato. Il ciclista Fred De Bruyne faceva parte di qual formidabile gruppo di corridori belgi, Rik van Steenbergen, Rik van Looy, Stan Ockers, Leon van Daele, che negli anni Cinquanta dominarono, insieme agli italiani, Coppi e Bartali su tutti, e ai francesi, Louison Bobet, Jacques Anquetil, lo sfortunatissimo Roger Riviere, in quel campo e mi ricordo un tempo in cui non solo i nostri ciclisti erano migliori, ma gli italiani erano migliori, per onestà, spirito di solidarietà (chi non ricorda lo scambio di borracce fa gli arcinemici Bartali e Coppi?), senso di appartenenza nazionale.

Io, come Giorgio Gaber, all’Italia di oggi non mi sento di appartenere. Ma torniamo al calcio dei nostri giorni. Giovedì s’è giocata la partita Danimarca-Belgio. C’è stato anche un momento di autentica commozione, non retorica alla Fabio Caressa, quando l’arbitro olandese Kuipers ha fermato il gioco e in omaggio allo sfortunatissimo Chris Eriksen si è messo ad applaudire, seguito dai giocatori e da tutti i tifosi, danesi e belgi. Un minuto di applausi che Kuipers non ha ritenuto nemmeno di dover recuperare.

È stata una partita bellissima. I danesi motivatissimi, per tutto il primo tempo non han fatto toccar palla ai belgi che pur sono molto più tecnici. In campo sembrava che ci fossero solo loro. Il risultato del primo tempo era 1-0 per i danesi.

A questo punto l’allenatore del Belgio Martinez si è trovato difronte a un dilemma. In panchina aveva De Bruyne, ma De Bruyne solo venti giorni fa, nella finale di Champions, era stato vittima di uno spaventoso incidente, testa contro testa, che gli aveva spaccato il setto nasale e l’arcata sopraccigliare, era stato al limite del collasso. Martinez pensava di risparmiarlo per le partite a seguire se il Belgio avesse passato il turno. Ma con quell’1-0 il turno poteva non passarlo affatto. Quindi, alla disperata, ha mandato sul terreno di gioco De Bruyne, senza poter sapere quale fosse la sua condizione fisica e soprattutto mentale. Con De Bruyne in campo è stata un’altra partita. Prima un assist meraviglioso, con una finta mette a sedere due avversari, potrebbe tirare lui ma passa ad Thorgan Hazard completamente libero, poi si mette in proprio e segna il gol decisivo del 2-1. Raramente ho visto un giocatore, si chiami pure Cristiano Ronaldo, cambiare in questo modo il corso di una partita.

Quindi forza Kevin e fanculo Italia, con tante scuse a Mancini e ai suoi bravissimi ragazzi.

Il Fatto Quotidiano, 22 giugno 2021

·        Massimo Giletti.

Renato Franco per il "Corriere della Sera" il 21 settembre 2021.

«Non ho ancora iniziato, ma sono già alle prese con le querele».

Chi la querela?

«Il recordman è Arcuri, è arrivato a quota cinque».

Perché ce l'ha con lei?

«Il potere non accetta di essere sottoposto a inchieste: la prima reazione è incutere timore e dunque querelare. È il tipico comportamento di chi comanda: vuole indebolirti psicologicamente». 

Massimo Giletti torna su La7 da mercoledì 29 con la nuova stagione di Non è l'Arena . Da chi si aspetta nuove querele?

«Io dico sempre che se ti arrivano querele vuol dire che hai fatto un buon lavoro. Certo non è semplice mentalmente, devi avere il sostegno di un editore che crede in quello che fai perché se sei lasciato solo è più pesante reggere lo scontro». 

Non le capita mai di sbagliare?

«A oggi ho totalizzato una cinquantina di processi e solo in un caso, nonostante fossi stato assolto in primo grado e in appello, la Cassazione annullò le sentenze e rinviò al civile. Penso che i numeri mi diano ragione». 

Tanti talk significa un buono stato di salute dell'informazione?

«Non sempre la quantità corrisponde alla qualità. Mi sembra che il mondo della tv sia simile a quella scena di Mulholland Drive in cui quando la cantante sviene sul palco e la musica continua ad andare avanti tutti finalmente si accorgono che era in playback. Credo che in tv si faccia troppo teatro, un teatro in cui tutti - anche noi conduttori - giochiamo un ruolo. Però io non faccio programmi in playback, dunque vengo attaccato». 

Fuori dal coro anche lei?

«Da sempre, e il fatto che io subisca attacchi, sia isolato, nuoti da solo in mezzo a un mare magnum e sia finito sotto scorta, ne è la conferma. Ma se qualcuno pensa che sia mia intenzione arretrare si sbaglia. Cambio giorno, ma non cambio le mie idee». 

 La domenica è arrivato Purgatori con Atlantide, mentre lei si sposta al mercoledì.

«Dopo 4 anni ho bisogno di sfide nuove. Non è semplice cambiare giorno, abitudine degli spettatori, però voglio stare al centro della settimana per essere al centro di quello che succede». 

Cosa risponde a chi la accusa di essere populista?

«Fare un'inchiesta sulla mancata attuazione del piano pandemico è essere populista? Fare inchieste sulla mafia e sulla criminalità è populismo? Io non sto nei palazzi ma basta con questa etichetta. Io sto con la gente, non con le piazze. Lo dico spesso ai miei: ricordate che il popolo tra Barabba e Gesù Cristo ha scelto Barabba. Dunque attenti alle piazze». 

E come replica a chi l'aveva accusata di troppo voyeurismo sul caso Genovese?

 «Il caso Genovese racconta molto di più del fatto di cronaca in sé; racconta la povertà culturale dei giovani di oggi, la non educazione al sentimento, l'esasperazione della pornografia. Racconta di terrazze dove si vuole tutto e subito, terrazze che portano inevitabilmente a una perdita di valori. Noi siamo entrati in quel mondo non per morbosità, ma per fotografarne la deriva». 

Giusto o no dare spazio ai no vax?

 «Io non do credito ai no vax, ma penso che ascoltare chi la pensa in modo diverso sia un dovere della televisione. Una certa liturgia va rotta anche ospitando opinioni differenti. Devi ascoltare, ma avere allo stesso tempo la forza e la capacità di contrastare con i fatti. Io non ho mai amato il pensiero unico e i regimi televisivi».

Aveva chiuso Non è l'Arena dicendo che era l'ultima puntata, c'erano voci di un suo passaggio in Rai. Poi cosa è successo?

«È nato tutto da un mio malessere personale, la mia vita è cambiata da quando ho perso mio padre e sono finito sotto scorta. Mentalmente si è modificato qualcosa, per un lungo periodo ho avuto molti dubbi su cosa avrei voluto fare nel mio domani. Se sono rimasto a La7 è per il mio rapporto con il presidente Cairo». 

Si sente solo?

«Beh da alcuni colleghi mi sarei aspettato maggiore solidarietà. Ma non è quello il punto. Non è un sms, a volte retorico, che fa la differenza. Io sono rimasto solo nella battaglia contro le scarcerazioni dei mafiosi avvenuta sotto Bonafede. E questa solitudine ha fatto sì che diventassi un obbiettivo».

Massimo Giletti, la rivelazione impensabile: "Successe un putiferio, cosa portai a casa". Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. La maturità è iniziata oggi per ben 540mila studenti: anche quest'anno non ci sono prove scritte, ma solo un maxi colloquio orale della durata di un’ora. Un colloquio diviso in quattro fasi: presentazione dell’elaborato, prova di italiano, analisi dell’argomento scelto dalla commissione e presentazione dell’esperienza di Pcto (ex alternanza scuola lavoro). In occasione dell'inizio della maturità, il settimanale Oggi ha voluto dedicare il prossimo numero ad alcuni personaggi noti e alla loro esperienza con l'esame di Stato. Tra i volti noti sentiti dalla rivista c'è anche Massimo Giletti, conduttore di Non è l'Arena su La7, che ha rivelato: "Mi presentai con mezz’ora di ritardo, successe un putiferio e mi cambiarono la materia. Faticai molto e portai a casa un 56 su 60". Oltre alla sua, vengono raccontate anche le esperienze - più o meno bizzarre - di colleghi come Serena Bortone, Myrta Merlino e Bianca Guaccero. A parlare del suo esame di maturità, poi, è stato anche l'attuale ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi. "Ho fatto il liceo scientifico, i primi due anni così e così, poi nel terzo anno hanno unito due classi, maschile e femminile, ed è stato bellissimo. Ero appassionato di storia. Ho preso 56, sono stato molto soddisfatto, ho un buon ricordo dell'Esame", ha spiegato durante il videoforum di Repubblica.

Giada Oricchio per "iltempo.it" il 16 giugno 2021. A#cartabianca, l’approfondimento sull’attualità di Rai3, martedì 15 giugno, Massimo Giletti svela il suo futuro televisivo e fa nomi e cognomi di chi lo ha deluso: “Da Lilli Gruber, Corrado Formigli e Giovanni Floris zero solidarietà”. Nel corso dell’ultima puntata di #cartabianca, Bianca Berlinguer ospita Massimo Giletti ed è inevitabile pensare che i corridoi di Viale Mazzini custodiscano per il giornalista i ricordi più importanti di una carriera iniziata quando aveva 28 anni. La conduttrice ha davanti a sé il pezzo pregiato del telemercato: “Ci sono troppe voci che ti riguardano. Ma partiamo dalla scorta, da quanto tempo vivi così per le minacce del mafioso Filippo Graviano?” e Giletti si leva il primo sassolino dalla scarpa: “Sono sotto scorta da un anno, la vita cambia perché la affidi ad altre persone. Non è tanto per me, io sono famoso, noto, ma ci sono tanti giornalisti, donne e uomini, che rischiano ogni giorno senza essere protetti. Il problema è perché chi si occupa di mafia deve finire sotto scorta? Sono solo e amareggiato. A chi mi riferisco? Soprattutto all’inizio mi aspettavo qualche segnale dai colleghi. Ma l’amarezza aiuta a temprarsi, nelle tempeste che affronti… anche un messaggio banale… da chi? Da Lilli Gruber, Floris, Formigli” e la Berlinguer: “In pratica da tutta LA7”. Giletti, che si definisce ancora come conduttore di “Non è l’Arena”, sottolinea: “Da me solo Merlino e Mentana mi hanno sostenuto. Se non lo sentono, fanno bene a non farlo, ma io non dimentico. Faccio i nomi perché me li chiedono continuamente e non voglio essere ipocrita. Per fortuna tanti altri mi hanno sostenuto. Se tutti avessero fatto la battaglia contro le scarcerazioni dei mafiosi, io non sarei rimasto solo e non sarei diventato un obiettivo. Del messaggio non me ne frega niente, ma se condividono il mio discorso allora io non mi sento più solo”. Bianca Berlinguer però vuole lo scoop, vuole sapere dove l’anno prossimo Giletti combatterà le sue battaglie: “Hai detto sono stati 4 anni meravigliosi. Ringrazio Cairo, ringrazio Mentana, hai dato la sensazione che fosse arrivata la fine di quell’esperienza, ti stai preparando a tornare qui da noi?” e il giornalista: “Io sono entrato in Rai a 28 anni con Minoli e Santoro, era una bella fucina, qui è come entrare a casa mia, ci ho vissuto 30 anni. Quattro anni sono un ciclo importante. Non so ancora cosa farò. Ho sentito che Gigi Buffon ha staccato 15 giorni per capire cosa fare. Io sono a fine contratto, ma non è una questione di contratto, io vedo Cairo e gli stringo la mano, non ho bisogno di contratti, però ho bisogno di stare sereno e tranquillo e sono stati due anni molto duri per me e uno deve riflettere in generale”. Parole al miele che sembrano avvicinare Giletti a LA7 nonostante la bomba appena lanciata sui colleghi di rete e così la Berlinguer prova a metterlo alle strette: “Prendi in considerazione l’idea di tornare in Rai?”, attimi di silenzio e poi: “Dico una cosa seria e serena, Cairo mi ha dato una libertà pazzesca in questi anni, io faccio una televisione dritta, senza sconti, c’è una dialettica forte – afferma Giletti -. E per fare certe battaglie devi avere un grande editore dietro, devi avere la garanzia di poter parlare” e qui la frecciata alla Rai: “Io non so se certe battaglie sulle scarcerazioni, su un sistema che non funziona, riesci a farle sempre in qualsiasi posto. Non rispondo alla domanda, ma sono contento di essere qua”. La conduttrice si arrende e concede l’onore delle armi: “Sono contenta di averti avuto qua, non vai molto in giro. Credo che la Rai sarebbe contenta di riaverti”, “Tanto non andrei di martedì” promette il conduttore che con questa risposta si tradisce e conferma la trattativa: la Rai lo aveva contattato per affidargli un programma il giovedì sera in modo da contrastare “Piazza Pulita” di Corrado Formigli.  Puntura finale della Berlinguer: “Non faresti il martedì? Oddio, non si sa mai, ci sono altri canali, qui tutto è possibile”.

CartaBianca, Massimo Giletti fa i nomi: "Gruber, Formigli e Floris". Un bruttissimo silenzio, terremoto a La7. Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. Un Massimo Giletti a tutto campo, quello ospite di Lucia Annunziata a CartaBianca, nella puntata in onda su Rai 3 nella serata di martedì 15 giugno. L'addio a La7 sembra sempre più vicino, così come il conduttore aveva lasciato intendere salutando il pubblico nell'ultima puntata stagionale di Non è l'Arena. E, ovviamente, Giletti viene interpellato anche sul suo futuro. "A La7 ho fatto quattro anni, un ciclo importante. Non so cosa farò domani... Vengo da due anni molto duri e devo riflettere", premette. Dunque, la Annunziata gli chiede conto delle indiscrezioni secondo le quali tornerà a Viale Mazzini, sul secondo canale per la precisione. La risposta di Giletti è sibillina: "Tornare in Rai? Urbano Cairo mi ha dato una libertà pazzesca, io faccio una tv dritta, senza scontri, con una dialettica forte". Insomma, possibile il ritorno ma soltanto a patto di avere totale libertà. La condizione posta da Giletti è chiarissima. Poi un durissimo attacco ad alcuni colleghi, di cui Giletti fa clamorosamente nome e cognome. Si torna a quanto accaduto lo scorso anno, con le minacce di morte subite dalla mafia dopo l'inchiesta proposta a Non è l'Arena sui boss scarcerati per l'emergenza coronavirus. E il conduttore si sfoga: "Dopo le minacce della mafia mi sono sentito solo, amareggiato perché mi aspettavo un segnale da certi colleghi vicini, penso a Lilli Gruber, Corrado Formigli, Giovanni Floris. Gli unici a farsi sentire invece sono stati Myrta Merlino ed Enrico Mentana", conclude picchiando durissimo Gilette. E insomma, tre nomi e tutti e tre de La7: l'addio, ora, pare cosa fatta.

Da "Oggi" l'11 giugno 2021. «Vivo da un anno sotto scorta, per le minacce di morte della mafia. È un’esperienza che ti cambia dentro. E non in meglio. Non è paura. È una sensazione di malessere più sottile. Mi addolora la quasi totale mancanza di solidarietà che ho avvertito intorno a me. E mi indigna che abbia dovuto scoprire dai giornali di essere finito nel mirino dei clan per la mia battaglia contro le scarcerazioni dei boss», spiega Massimo Giletti in un’intervista a OGGI, in edicola da domani. Giletti parla del suo Speciale sulla mafia in onda su La7 giovedì 10 giugno dove ha trattato il tema della trattativa Stato-mafia: «un viaggio rabbrividente nei luoghi dove ancora troppe verità sono nascoste». E per il conduttore è tempo di bilanci esistenziali: «Ho perso mio padre. Mia madre non sta per niente bene. Con lei avevo un dialogo costante, che ormai non c’è più. È una stagione nella quale cominci ad avvertire il peso dei distacchi. Vorrei frenare con il lavoro. Rifiatare. E concentrarmi sull’amore».

Marco Zini per tag43.it il 10 giugno 2021. Psicodramma a La7, teledivi che si schierano, editore imbarazzato. Tutto è successo per colpa di un no. Quello opposto da Lilli Gruber, la conduttrice di Otto e mezzo, a Massimo Giletti che aveva chiesto di andare ospite nel suo programma. Apparentemente nulla di strano, visto che spesso i salotti della tivù di Urbano Cairo sono frequentati dalle star della rete che vanno come ospiti nei programmi degli altri. Per esempio, qualche sera fa è successo a Giovanni Floris, titolare del talk del martedì, di andare proprio dalla Gruber. Lo stesso Giletti non aveva mancato in precedenti occasioni di essere ospite della combattiva Lilli. Quindi c’è da immaginare lo sconcerto del conduttore di Non è l’Arena di fronte al rifiuto. Chieste spiegazione, Gruber senza girarci troppo attorno gli avrebbe detto che è troppo di destra, quindi poco in sintonia con la linea del programma. Pazienza gli ospiti destrorsi, anche quelli che tentano di edulcorarla portandole mazzi di fiori, ma un giornalista della rete proprio non era il caso. Discretamente offeso, Giletti si è allora confidato con Floris sperando di trovare comprensione. Speranza subito smorzata perché il suo interlocutore ha preso le parti della Gruber, se pur dando una motivazione paratecnica (e leggermente paracula). Tu hai già il tuo programma, questo il senso delle parole di Floris, quindi stai a casa tua e non ti lamentare. A quel punto, ancora più inviperito, Giletti ha preso il telefono e chiamato Cairo in cerca di comprensione. E l’editore cosa ha fatto? A Roma si direbbe ha abbozzato, a Milano il pesce in barile. Conclusioni: Giletti ha capito che sta sulle palle ai suoi colleghi, oltre ad aver avuto la conferma della particolare avversione, per altro reciproca, della Gruber. Il gossip è girato immediatamente tra gli studi dell’emittente, e qualcuno, giusto per capire l’aria che tira (ogni riferimento al programma di Myrta Merlino è puramente casuale) è arrivato al punto di immaginare che il buon Giletti se la sia cercata apposta, in modo da avere un motivo per rompere con una rete dove si sente politicamente sempre più isolato. Fortuna che anche la stagione televisiva de La7 volge al termine, e forse la pausa estiva e il meritato riposo consentiranno di rasserenare un po’ gli animi. O forse no. Lo scopriremo solo a settembre.

Massimo Giletti "troppo di destra"? Dopo lo sfregio di Lilli Gruber, la telefonata a Cairo: è guerriglia a La7. Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. La bufera mediatica a La7 non si placa. Il no secco di Lilli Gruber a Massimo Giletti, che le aveva chiesto di andare opite nel suo programma, continua a far discutere. La colpa del conduttore di Non è l'arena? "Essere troppo di destra", secondo quanto riportato da Tag.43.it. A prendere la parola stavolta è il giornalista stesso. "Nella mia vita il verbo supplicare non appartiene al mio vocabolario. Non faccio chiarimenti o confidenze a persone con le quali non ho rapporti. Quello che mi interessa è lavorare sul mio prodotto. E tutto il resto... è noia", ha detto Massimo Giletti in merito alle indiscrezioni sulla richiesta di essere ospitato a Otto e Mezzo che avrebbe rivolto a Lilli Gruber. Pare che Giletti si sia offeso e che si sia quindi rivolto a Giovanni Floris, che conduce DiMartedì, per avere la sua solidarietà. Peccato però che Floris si sia schierato dalla parte della Gruber con una motivazione "tecnica", della serie, "tu hai già il tuo programma, non ti lamentare". Allora, sempre più sconvolto e infuriato Giletti ha telefonato anche a Cairo in persona per cercare un po' di comprensione. Ma l'editore ha abbozzato. Quindi Giletti ha capito di non essere particolarmente simpatico ai suoi colleghi, in particolare alla Gruber, per la quale anche lui nutre una certa avversione. In ogni caso ora si chiude la stagione televisiva di La7 e tutti i talk saranno in pausa per l'estate. Chissà che un po' di ferie e di vacanze per tutti non facciano calmare gli animi troppo accesi.

Massimo Galanto per tvblog.it il 26 febbraio 2021. Clamorosa presa di posizione di Adriano Celentano (che, intanto, sembra essere sempre più lontano dal Festival di Sanremo). Il Molleggiato, tramite il suo account Instagram (@celentanoinesistente, profilo verificato, seguito e commentato da personaggi del mondo dello spettacolo e da persone a lui legate – c’è pure la nipote Alessandra, professoressa di Amici, che lo saluta con un “ciao zietto sei forte“) si è scagliato contro le trasmissioni di Massimo Giletti e di Corrado Formigli. L’accusa rivolta ai conduttori di Non è l’Arena e a Piazzapulita è di essere scorretti. Qualche parola di conforto a Formigli e all’amico Giletti. Da tempo seguo le vostre trasmissioni poiché le ritengo interessanti e al tempo stesso educative, specie in questo periodo, che se non stiamo attenti, l’amara sorpresa potrebbe coglierci da un momento all’altro. Per cui è giusto invitare e sentire anche la voce di chi è contrario ai vaccini. Personalmente io credo che al momento non ci sia altra soluzione all’infuori del vaccino. Ma poiché il popolo dei “contrari” sta aumentando, quindi è più che giusto accoglierli e sentire anche la loro campana. Però fatecela sentire la loro campana. Celentano continua così la sua invettiva contro Giletti e Formigli, che per il momento non hanno replicato: Voi, scorretti, li invitate, tanto per far vedere che siete democratici, e appena aprono bocca li assalite, offendendoli e lasciando che le voci si sovrappongano senza permettere al pubblica a casa di capire in che modo la loro “ricetta” sarebbe meglio del vaccino. Quindi l’affondo che fa notizia, con una frase che tira in ballo l’editore di La7 Urbano Cairo: Se fossi Cairo vi licenzierei in tronco. Ricordiamo che Celentano di recente si è espresso – a Domenica In – proprio sul tema del vaccino anti-Covid. E che ad Adrian il cantautore ospitò Giletti, di cui ora sembra auspicare il licenziamento da parte di La7. Il commento laconico di Massimo Giletti via TvBlog: “Il confronto con le idee di Adriano è sempre stimolante”.

"Zittito chi è contro i vaccini". Celentano attacca Formigli e Giletti. Un Adriano Celentano inedito su Instagram attacca Corrado Formigli e Massimo Giletti, ammettendo cosa farebbe se fosse il loro editore. Francesca Galici - Ven, 26/02/2021 - su Il Giornale. Adriano Celentano prende posizione sui social contro Massimo Giletti e Corrado Formigli, conduttori di La7. Il Molleggiato dal suo profilo Instagram ha accusato i due anchorman della rete diretta da Urbano Cairo di essere scorretti nei loro programmi. Il profilo dal quale proviene l'attacco è verificato, pertanto si suppone sia questo il profilo ufficiale di Adriano Celentano, anche perchè non mancano i commenti di sua nipote Alessandra Celentano, che di tanto in tanto lascia un saluto a suo zio. "Qualche parola di conforto a Formigli e all’amico Giletti. Da tempo seguo le vostre trasmissioni poiché le ritengo interessanti e al tempo stesso educative, specie in questo periodo, che se non stiamo attenti, l’amara sorpresa potrebbe coglierci da un momento all’altro. Per cui è giusto invitare e sentire anche la voce di chi è contrario ai vaccini", ha esordito Adriano Celentano nel suo post, dicendosi comunque appassionato delle trasmissioni di La7. Il Molleggiato, poi, continua: "Personalmente io credo che al momento non ci sia altra soluzione all’infuori del vaccino. Ma poiché il popolo dei 'contrari' sta aumentando, quindi è più che giusto accoglierli e sentire anche la loro campana. Però fatecela sentire la loro campana". Lo sfogo di Adriano Celentano non si ferma qui, perché il cantautore poi pregue: "Voi, scorretti, li invitate, tanto per far vedere che siete democratici, e appena aprono bocca li assalite, offendendoli e lasciando che le voci si sovrappongano senza permettere al pubblico a casa di capire in che modo la loro 'ricetta' sarebbe meglio del vaccino". Un affondo che arriva improvviso da parte di Adriano Celentano, che non pago del suo sfogo, ha scritto la frase che sta facendo più discutere. Il Molleggiato, quindi, afferma: "Se fossi Urbano Cairo vi licenzierei in tronco". Parole di fuoco da parte di Adriano Celentano, che è stato anche ospite da Massmo Giletti. È strano leggere queste parole da parte di Adriano Celentano, che solo pochi giorni fa ha fatto un quasi un endorsement a Matteo Salvini, impensabile fino a qualche settimana fa. Cosa sta succedendo al Molleggiato? Le sue dichiarazioni hanno destato scalpore e sono destinate a far discutere per la forza e per l'inaspettata richiesta di licenziamento

Massimo Falcioni per tvblog.it il 23 febbraio 2021. “Da Giletti? Non ci andrò mai più”. Vittorio Feltri dichiara guerra a Non è l’Arena, confermando a La Zanzara l’avversione al programma domenicale di La7. “Non è che ce l’ho con lui – ha spiegato il direttore di Libero a Giuseppe Cruciani – mi limito a constatare che invita della gente e poi la aggredisce, fa delle domande e non aspetta le risposte, questo non mi sembra molto corretto, tutto lì”. Feltri se l’era presa con Giletti domenica sera, durante lo scontro tra il padrone di casa e il virologo Matteo Bassetti. “Giletti, tanto per cambiare, aggredisce i suoi ospiti, un vero signore”, aveva scritto il giornalista su Twitter. Per poi rincarare la dose: “Piantala di urlare come uno straccivendolo, vergognati”. Feltri ha quindi ricordato l’ultima apparizione a Non è l’Arena: “C’erano due cosiddette signore che ho pure chiamato signore e si sono offese per cui le ho mandate a farinc**o e me ne sono andato via”. Riferimento, evidentemente, all’episodio del 17 novembre 2019, quando litigò con Michaela Biancofiore e Nunzia De Girolamo prima di abbandonare anzitempo la trasmissione in segno di protesta. “Fai parlare solo quelle due signore lì – accusò – non me la sento di proseguire in una discussione dove non ho diritto di cittadinanza. Se le signore non sono d’accordo non mi importa niente […] Ogni volta che ho tentato di parlare sono stato sovrapposto a queste due signore. Se posso opporre le mie idee alle loro benissimo, sennò non mi straccio le vesti”. In realtà Feltri sarebbe tornato a Non è l’Arena nell’aprile 2020. Quella volta però non si trattò di un intervento in diretta, bensì di un’intervista esclusiva rilasciata all’inviato Carlo Marsilli. Erano i giorni delle furenti polemiche scoppiate in seguito alle parole sui meridionali pronunciate dal direttore a Fuori dal Coro.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 31 dicembre 2020. Leggo sul Corriere della Sera che Massimo Giletti, conduttore di "Non è l'arena", programma domenicale de La7, è considerato il primo dei giornalisti spregiudicati e arditi del 2020. C'è del vero in questo giudizio espresso da Affaritaliani. In effetti quest' uomo, scaricato ingiustamente dalla Rai, dove spopolava, si è rifatto una vita spericolata sull'emittente di Cairo, dove è riuscito a imporsi e a tornare ad essere una star del piccolo schermo. Non possiamo che complimentarci con lui nonostante la sua faziosità, che in tv è un'arma vincente. Giletti è diventato addirittura un eroe da quando, parlando di mafia e storture della giustizia, ha ottenuto di essere scortato dalle forze dell' ordine in quanto soggetto a rischio di gravi ritorsioni. Ciò gli consente di darsi delle arie e di presentarsi al pubblico come difensore della verità distillata. Però c' è qualche però. L' abilità principale di Giletti consiste nel fare domande ai suoi ospiti e di non ascoltarne le risposte, di cui non gli importa un fico secco. Se coloro i quali egli ha accolto nello studio argomentano il loro punto di vista, Massimo li sovrasta con la propria voce. Quello che dichiarano gli individui seduti accanto a lui è ininfluente ai fini di quanto il mattatore televisivo intende dimostrare: la sua idea deve trionfare e i suoi interlocutori non contano un cavolo. Una sera mi invitò nel suo bestiario per discutere di Alto Adige. Affermai la mia, che non piaceva a Biancofiore e neppure a De Girolamo, le quali di Tirolo sapevano quanto io so del Burkina Faso, cioè niente. Naturalmente mi girarono i santissimi e chiamai la ex ministra berlusconiana "signora", ed ella si offese a morte. Scoraggiato, mi alzai dalla sedia interrompendo il collegamento. Questo per spiegare il livello delle persone con le quali ho mio malgrado interloquito. In un' altra circostanza Giletti invitò a trattare il caso di Bellomo, ex consigliere di Stato sotto processo perché le sue allieve giacevano con lui, immagino volontariamente, la nostra Azzurra Barbuto, che non poté spiccicare due concetti in quanto il fenomenale conduttore le impedì di concludere ogni discorso, peraltro sensato. Insomma, il mio amico Massimo si è rivelato un mattatore, ossia specializzato nella mattanza degli ospiti. Adesso egli si pavoneggia poiché ha la scorta che lo protegge dalla mafia, che non gli torcerà un capello. Forse il presentatore ignora che io la scorta ce l' ho da 15 o 16 anni e continuo ad essere un signor Nessuno, proprio come lui.

·        Maurizio Costanzo.

"Io in pensione? Non ci penso. A Silvio ho detto: vai al Colle". Paolo Giordano il 7 Dicembre 2021 su Il Giornale. Dopo 40 anni, il re del salotto tv si confessa: "Sono troppo curioso per fermarmi". E rivela: "Racconterò i personaggi famosi attraverso i loro figli".

«Mo' parliamo subito di cose belle», dice. D'accordo. Allora la prima notizia è che, nonostante sia in onda da quarant'anni, il Maurizio Costanzo Show aumenta gli spettatori giovani, quelli compresi tra i 15 e i 34 anni, quelli che seguono sempre meno la tv. La seconda notizia è che l'autorevolezza non ha età e quindi piace a tutte le età. «È il dato che mi fa più piacere, è una conseguenza del lockdown ma anche dell'attenzione che abbiamo dato a temi come il Ddl Zan», conferma lui, classe 1938, senza dubbio uno dei padri fondatori della televisione moderna.

Alla tv Maurizio Costanzo ha portato l'anima popolare e popolana, mescolando l'alto con il basso e diventando un «format». Non a caso oggi si dice «tv alla Costanzo». Difficile trovare qualcosa che non abbia fatto in oltre sessant'anni di carriera: autore, conduttore, giornalista, talent scout, testimonial e via elencando. Poi, con il suo Show, è diventato uno snodo fondamentale dell'attualità, del costume e della politica. È arrivato prima dei social, trasformando lo schermo in un luogo d'incontri e condivisioni. Un rituale che va avanti da quarant'anni, restando sempre al centro della scena. «E se va come deve andare, continuerò ancora con altre edizioni».

Si ricorda la prima?

«Andava in onda soltanto una volta alla settimana su Rete4, allora di proprietà della Mondadori. Poi la comprò Berlusconi e mi chiese di fare una puntata al giorno».

Adesso siamo arrivati a 70mila ospiti. Da Kirk Douglas a Carmelo Bene all'uomo qualunque, passando per politici, giornalisti, cantanti, star.

«L'ospite che per primo mi viene in mente adesso è Aïché Nana, sa la ballerina che negli anni Cinquanta improvvisò uno spogliarello citato anche da Fellini nella Dolce Vita?».

La famosa festa organizzata dall'appena scomparsa Olghina di Robilant al Rugantino di Roma che diventò il manifesto di un'epoca.

«Un atto casuale ma dirompente. Uno di quei gesti che entrano nella storia del costume. Mi piaceva la sua voglia di vivere, di rimanere sempre la Aïché del ristorante Rugantino, piena di entusiasmo».

Il bello del Costanzo Show è che talvolta diventa un «confessionale».

«Una volta Andreotti disse: Lo sa che quasi tutti i miei compagni di scuola sono diventati cardinali? Loro hanno fatto carriera. Ma come, gli risposi, loro hanno fatto carriera? E lei?».

Era presidente del Consiglio.

«Ma quella risposta era forse la conferma di un suo riflesso mentale, magari una conseguenza dell'educazione per la quale il Vaticano restava per lui sempre il punto di riferimento più importante».

Ci sono stati ospiti che, da soli, valevano il biglietto.

«Sordi. Oppure Gassman. Oppure i tre tenori Pavarotti, Carreras, Domingo. O Monica Vitti, che ha appena compiuto 90 anni e che ricordo con tenerezza. L'ultima volta che è venuta da me ne aveva 70 e quella sera ho intuito che non stava già bene. Non aveva nulla di visibile, per carità, solo una mia sensazione poi purtroppo confermata».

Costanzo ha «importato» il talk show dagli Stati Uniti.

«E ho voluto l'orchestra sul palco perché l'avevo vista da Johnny Carson nel Tonight Show».

Negli States i talk show hanno fatto opinione e lanciato protagonisti. L'Ed Sullivan Show, ad esempio, lanciò Elvis e i Beatles.

«Il mio rapporto con la tv americana è sempre stato molto stretto. Ricordo sempre quando sono stato ospite del David Letterman Show, credo fosse il 1984».

David Letterman è a godersi la pensione già da qualche anno. E lei?

«Ma perché? Sono curioso di tutto. Se mi chiedessero di intervistare uno per strada che chiede l'elemosina, probabilmente gli farei domande per mezz'ora».

Nell'epoca di Google e del «sotuttosubito», anche ai giovani piace chi vuole approfondire.

«E questa necessità porta ad aumentare il confronto generazionale. Perciò in questa edizione del Costanzo Show ho voluto avvicinare personaggi famosi e politici ai loro familiari. Abbiamo iniziato con Maurizio Gasparri in studio con la figlia. E poi Meloni, Salvini eccetera. Chiedo ai figli che genitori hanno. Faccio il percorso inverso rispetto al solito».

Dopotutto questa è sempre stata la cifra di Maurizio Costanzo. Andare al contrario. Partire dall'uomo della strada per capire l'uomo di potere. Una chiave di lettura che oggi sembra più attuale che mai, vista che spesso le due figure si sovrappongono. E usare questa chiave è meno facile di quel che sembra: ci vuole impegno, mica basta googolare per fare la scaletta del Costanzo Show. «Per individuare gli argomenti ci lavoriamo quattro o cinque ora ogni volta».

Lui, che non è più un giovanotto dall'alto dei suoi 83 anni, anche stavolta parla dal suo studio di Roma pieno di libri e schermi tv, appoggiato a una scrivania come gran parte della giornata. Usando una parola inglese, Costanzo è un «workaholic», lavora ogni giorno finché può. Dopotutto legge, scrive sui quotidiani, fa tv. «Ah sono anche su Rai1 in terza serata con S'è fatta notte ideato con Pino Strabioli». Inarginabile. Ed è così da ben più di mezzo secolo.

C'è un suo erede?

«Mi piace molto Giovanni Floris, ha un bel modo di condurre sin da quando era in Rai. E anche, specialmente per come tratta la politica, Paolo Del Debbio. Non so se sono miei eredi. Comunque mi piacciono».

Pochi però hanno il coraggio di portare in scena volti sconosciuti.

«Sì io l'ho fatto spesso. E spesso sono diventati personaggi. Talvolta sono proprio esplosi, come Vittorio Sgarbi oppure Giampiero Mughini. Altre volte, come nel caso di Carmelo Bene, sono diventati popolari, hanno dato un'immagine di sé magari diversa da quella conosciuta, come nel suo caso, soltanto nel mondo teatrale o letterario».

I comici poi.

«Enzo Iacchetti, Dario Vergassola, hai voglia... Ne ho scelti tanti, sono sempre una componente essenziale, dopotutto la risata è una parte decisiva delle belle chiacchierate, no?».

A proposito di chiacchiere, se ne sentono molte dai no vax.

«I no vax che non rompessero i cog...».

Qualche volta comunque ci riescono.

«Leggo che le terapie intensive sono purtroppo piene di no vax».

Parliamo di sì vax.

«A scanso di equivoci, ho fatto la terza dose. Il vaccino al momento è l'unica vera soluzione a questo contagio, no? E allora facciamolo».

Chi è Maurizio Costanzo sul palco?

«Un signore che lancia gli argomenti di discussione».

Quanto ci vuole a fare una puntata del Costanzo Show?

«Prima c'è la selezione degli argomenti. Poi c'è tutto il resto, che non è poco».

Nella puntata che celebrava i 20 anni, nel 2001, arrivò anche un messaggio del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: «La sua trasmissione ha contribuito a stimolare il confronto e il dialogo».

«Spero di continuare a meritare questo giudizio anche vent'anni dopo».

Il pubblico conferma.

«Una media del 15 per cento di share dopo così tanti anni di messa in onda è senza dubbio straordinaria. È una soddisfazione enorme per chi, come me, ci ha dedicato una vita».

70mila ospiti. Infinite interviste. Scoop. Attentati subiti. Polemiche. Successi. A furia di assorbire la vita degli altri, si rischia di farsene condizionare. Mai avuto momenti bui o depressione?

«No, depressione mai. Quando ho qualche periodo difficile, trovo sempre qualcosa da fare, qualche novità, un progetto nuovo. Mi viene spontaneo, è il mio modo di reagire».

C'è qualcosa che non sopporta?

«Forse il politicamente corretto si è preso uno spazio esagerato».

Nel 1978 Rino Gaetano la citò nella canzone Nuntereggaepiù.

«Lo invitai nel mio programma di allora su Raiuno che si chiamava L'Acquario».

Quello con un acquario sotto la scrivania come quello di Fazio a «Che tempo che fa».

«In studio c'era anche Susanna Agnelli».

Pure lei citata nella canzone di Rino Gaetano.

«Quando lo vide entrare, sorrise».

Lui la cantò quasi tutta.

«La Agnelli confermò di conoscere il pezzo perché gliel'avevano fatto ascoltare i figli. E, alla fine, aggiunse che, se fosse stata nel ruolo del cantante, avrebbe fatto la stessa cosa, ossia avrebbe scritto un testo del genere. Si comportò da grande signora».

Un confronto che oggi sarebbe difficile.

«E io spero che si torni ai tempi di Rino Gaetano quando, nel rispetto di tutti, si poteva parlare più liberamente. Non a caso lui fece una canzone di protesta eppure venne tranquillamente in tv su Raiuno a parlarne senza alcuna censura o protesta».

Quando parla, Maurizio Costanzo ha una lucidità storica impressionante. Se volesse, potrebbe scrivere un best seller soltanto con i ricordi di una carriera iniziata a diciott'anni a Paese Sera e transitata attraverso interviste gigantesche (anche Totò, lo sapete?), programmi tv, nuovi personaggi comici (si immaginò Fracchia con Paolo Villaggio) e persino canzoni come Se telefonando, di cui ha scritto il testo con Ghigo De Chiara, mentre la musica e gli arrangiamenti sono di Ennio Morricone. La voce, naturalmente, è quella eterna di Mina.

Ha voglia di scrivere un’altra canzone?

«Eh ma quelli so' colpi de culo. Hai Mina che canta ed Ennio Morricone che scrive la musica e la arrangia. Quando ti ricapita? Di certo ci ripenso spesso, è stato un momento meraviglioso».

Qualche volta sul palco del Costanzo Show ha suonato il sax. Che musica ascolta?

«Ascolto un jazz morbido che mi aiuti a rilassarmi e a concentrarmi. E poi qualche volta ritorno indietro nel tempo con Buscaglione, Bongusto, Carosone, insomma grandi musicisti che sapevano come emozionare il pubblico».

Anche i ragazzi li stanno scoprendo.

«È importante conoscere le nostre radici. In un certo senso, il periodo del lockdown ha aiutato ad approfondire, a guardarsi indietro, magari a scoprire i maestri.

E penso che il lockdown abbia anche aiutato la tv generalista a confermare e magari aumentare il consenso, specialmente presso il pubblico più giovane».

In che modo Maurizio Costanzo parla ai giovani?

«Cercando di pensare a cosa pensano loro. E senza giudicarli».

Anche la politica torna a interessare i ragazzi. Come vede Silvio Berlusconi alla presidenza della Repubblica?

«Penso che gli piacerebbe».

Ma Costanzo cosa ne pensa?

«Gliel'ho anche detto: Silvio vai al Quirinale. Anche se so bene che a qualcuno darà fastidio. Però...».

Però?

«Prima di fare politica, Berlusconi è stato un editore liberale e illuminato e mi pare che anche successivamente abbia confermato queste sue caratteristiche. E poi, per quanto mi riguarda, senza di lui quarant'anni di Costanzo Show non li avrei mai fatti». Paolo Giordano

Maurizio Costanzo: «Da Andreotti a Platinette, i miei 40 anni di Show». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2021. Il giornalista: «Villaggio uno dei primi ospiti, a Montanelli devo tutto». Su Andreotti: «Mi disse: pensa che due miei compagni di scuola sono cardinali, loro sì che hanno fatto carriera». Su Baudo: «A Canale 5 gli feci un po’ la guerra. Ma lui voleva comandare».

Maurizio Costanzo, mercoledì parte la quarantesima stagione dello show che porta il suo nome. Come cominciò?

«Lo facevo una volta alla settimana, su Rete 4, che era di Mondadori. Berlusconi comprò tutto con me dentro. Mi chiamò a Portofino, c’era pure Freccero, e disse: d’ora in poi lo facciamo tutti i giorni».

Chi furono i primi ospiti?

«Eva Robbins, che si chiama in realtà Roberto Coatti. Dissi che era come le carte da gioco: metà uomo, metà donna. E Paolo Villaggio, che avevo scoperto io».

Cioè?

«A Genova mi suggerirono di andare in un teatro di piazza Marsala, dove si esibiva uno strano impiegato. Era lui. Uscimmo a cena e firmammo il contratto su un tovagliolo del ristorante. All’epoca avevo un cabaret a Roma, il Sette per Otto. Fu un trionfo, vennero a vederlo Flaiano ed Ercole Patti. Poi Villaggio andò in tv, e nacque Fracchia».

Al Costanzo Show cominciarono gli Uno contro tutti.

«Per Bossi scoppiò una rissa. Si menarono proprio: leghisti contro gli altri, sotto gli occhi dell’Umberto. Carmelo Bene invece litigò con il pubblico, e si prese gli insulti della prima fila».

Com’era Carmelo Bene? Antipatico?

«La simpatia non è la misura delle persone. Carmelo Bene era un uomo intelligentissimo. Quando morì, andai con Proietti nel Salento, a rendergli omaggio”.

E Alda Merini?

«Venne a raccontare gli elettrochoc che aveva subito. E’ stata una delle grandi voci del Novecento. La salvammo dallo sfratto».

Montanelli?

«Confessò che non si dava pace per non aver potuto aiutare sua moglie, Colette Rosselli, a morire. A Montanelli devo tutto».

Perché?

«Mio zio mi faceva leggere i suoi articoli sulla terza pagina del Corriere. Mi invaghii. Così, a 14 anni, gli scrissi una lettera. Incredibilmente mi rispose. Mi invitò alla redazione romana. Poi nella sua casa di piazza Navona, a pranzo con Carlo Laurenzi: un uomo raffinatissimo, che lo divertiva con i suoi bon mots. Montanelli mi ha seguito per tutta la vita. Mi fece pure assumere da Afeltra al Giorno».

Come aveva cominciato?

«Da volontario, a Paese Sera. Capo dello sport era Antonio Ghirelli. Mi assegnò un reportage sul giro del Belgio. Firmai Maurice Constance. Poi mi affidarono una serie di interviste: gli scrittori e lo sport».

Da chi andò?

«Da Pasolini. E da Curzio Malaparte, che viveva in albergo, circondato dai suoi bassotti, tra cui uno chiamato Curtino. Da allora pure io ho sempre avuto bassotti».

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Anche Scalfari fu spesso suo ospite.

«Uomo di grande fascino. Lo incontrai in aereo: aveva appena fondato Repubblica, io dirigevo l’Occhio. Disse: mi sa che nel giornale devo metterci un po’ di sport anch’io».

Lei entrò nella P2. Perché?

«Per stupidità. Un amico — non lo nomino perché non c’è più — insistette, e io gli diedi retta. Stupidità in parte emendata dal fatto che confessai subito, e feci bene».

Di Andreotti che ricordo ha?

«La prima volta venne a Bontà loro. Arrivò in anticipo, lo trovai già seduto in studio, e pensai a uno scherzo, credevo fosse Noschese. Un’altra volta raccontò che aveva fatto la dichiarazione d’amore a Livia, la donna della sua vita, al cimitero. Alla fine mi disse: “Pensa che due miei compagni di scuola sono diventati cardinali; loro sì che hanno fatto carriera”. Andreotti era primo ministro. Ma per lui il Vaticano contava più dell’Italia».

Cossiga?

«Andai a trovarlo durante il caso Moro. Lui era ministro dell’Interno, io direttore della Domenica del Corriere. Gli chiesi cosa si sapesse. Cominciò a urlare: “Di Moro non sappiamo un cazzo!”. Capii che era disperato».

Trump?

«Lo intervistai a New York, dopo l’11 settembre. Gran paraculo. Poi andai al Madison Square Garden a parlare con gli italoamericani. Lì ho capito cos’è la ‘ndrangheta».

Cioè?

«Tutti tenevano in casa la foto di Mussolini. Una volta, nel New Jersey, chiesi del bagno: aveva i rubinetti d’oro».

Falcone?

«Venne allo speciale su Libero Grassi, che condussi con Santoro. Fu un grande amore. E fu un immenso dolore quando lo uccisero. Tornai a Palermo per la morte di Borsellino, sentii l’odore della polvere da sparo. Io la mafia l’ho vista».

Cos’ha pensato leggendo la rivelazione della Boccassini sul loro amore?

«Ci sono rimasto un po’ male. Sono felice se Falcone è stato contento, se sono stati bene insieme. Ma lui è morto con la moglie... Ci sono cose che è meglio tenersi per sé».

La mafia tentò di uccidere pure lei.

«Riina disse: “Questo Costanzo mi ha rotto”. Cominciarono a pedinarmi, a spedirmi lettere anonime, ma non ci feci caso. Seppi poi che Messina Denaro era venuto nel pubblico dello Show, per vedere il teatro».

Una bomba. La sera del 14 maggio 1993.

«Fu un miracolo. Il mio autista mi aveva chiesto un giorno libero, e l’avevo sostituito con un altro, che conosceva meno bene la strada. Esitò al momento di girare in via Fauro, e questo confuse il killer che doveva azionare il detonatore. Sentimmo un botto pazzesco. Tra me e Maria passò un infisso».

Come reagiste?

«Andammo a casa. Il telefono stava squillando: era Mancino, il ministro dell’Interno. Poi arrivarono poliziotti, carabinieri... solo allora realizzai di essere un sopravvissuto. Sono convinto che mi abbia salvato mio padre».

Suo padre?

«È morto che avevo ventidue anni, non ha potuto vedere quello che ho fatto. È il mio grande rimpianto. Non c’è mattina in cui mi sveglio e non penso a papà mio. È come un angelo protettore. Spero tanto di rivedere lui e la mamma».

Quindi crede nell’Aldilà?

«Ci spero. Credo un po’ anche alla reincarnazione: da secoli siamo sempre gli stessi. Io ad esempio penso di essere stato un monsignore. Ma mi sarebbe piaciuto vivere a Betlemme, e veder arrivare i Re Magi».

Fellini?

«Ho qui la sua foto con dedica. Federico mi ha sempre entusiasmato. Gli riusciva tutto, anche i disegni, le caricature. Abbiamo avuto grandi registi: su tutti, Antonioni e Scola, con cui scrissi la sceneggiatura di Una giornata particolare».

È vero che scrisse pure il testo di «Se telefonando» di Mina?

«Certo che è vero. Era il 1966, con Ghigo De Chiara dovevamo preparare la sigla di chiusura del programma Rai di cui eravamo autori, “Aria condizionata”. Cercammo Ennio Morricone. Lui aveva appena sentito passare una sirena della polizia: con quel suono nelle orecchie si mise al pianoforte, e in un baleno compose la musica. Mina cantò le nostre parole e suggerì una correzione. Il testo originale diceva: “Poi nel buio all’improvviso/ la tua mano sulla mia...”. Secondo Mina era ambiguo. Così le mani divennero due: “Le tue mani sulle mie...”».

Mina in tv non va più.

«Non capirò mai la sua sparizione. Un artista non abbandona mai la scena».

Sgarbi?

«Si rivelò fin dal debutto, quando insultò un’insegnante che aveva declamato una sua poesia: “Stronza!”».

Non «capra»?

«Quella venne dopo».

Platinette?

«Una sera si sfilò la parrucca, e ridiventò Mauro Coruzzi».

Berlusconi?

«Prima della discesa in campo ci chiamò tutti ad Arcore, c’erano anche Mentana e Giuliano Ferrara. Alla fine lo presi da parte e gli dissi: io non ti voterò mai, ma non dirò mai una parola contro di te».

Davvero può salire al Quirinale?

«A vedere i numeri, la possibilità c’è. Ma chi glielo fa fare?».

Salvini?

«Al Papeete si è evirato. Si è fatto del male da solo».

La Meloni?

«È molto sveglia».

Sarà lei la prima donna presidente del Consiglio?

«Non mi faccia dare una risposta maschilista».

Renzi?

«Mi aveva colpito all’inizio, poi mi ha deluso. Ora mi piace Draghi. E spero continui a piacermi».

I 5 Stelle?

«Ho avuto simpatia per loro; e non solo perché Grillo mi è simpatico. Stimo Di Maio. E Sileri, che mi ha raccontato che guardava le mie interviste in tv da bambino».

Lei è stato anche consulente della Raggi.

«Le ho solo dato qualche consiglio».

Che non è bastato.

«Il partito non le è stato molto accanto».

Chi ha votato a Roma?

«Raggi. Poi Gualtieri al ballottaggio. Ma l’ospite della prima puntata sarà Beppe Sala. Poi farò una serata arcobaleno, con Zan e Leo Gullotta. Giuseppe Cruciani scriverà alla lavagna i buoni e i cattivi della settimana. I politici verranno solo accompagnati da un parente: Gasparri con la figlia, la Meloni con la sorella... E raccoglierò gli sfoghi del pubblico. I racconti migliori sono quelli della gente comune».

Ad esempio?

«Ho trovato una donna che ha avuto due gemelle e le ha chiamate Maurizia e Costanza».

Come incontrò Maria De Filippi?

«A Venezia, in un convegno. Poi mi raggiunse a Roma. Monica Vitti la sentì parlare nella stanza a fianco, senza vederla, e mi disse: “Senti che voce profonda, pare la mia. Dev’essere una donna intelligente...”. Insomma, Maria ebbe la benedizione di Monica Vitti. L’anno scorso abbiamo festeggiato le nozze d’argento. Il quarto matrimonio finalmente è stato quello giusto».

Ma lei cosa fa alle donne?

«Le ascolto. E le trovo più intelligenti degli uomini».

Quanto conta il potere nella seduzione?

«Può agevolare. Ma il potere vero ce l’hanno gli Andreotti, i Draghi. Che potere è quello di invitare un cantante?».

Però quando a Canale 5 arrivò Pippo Baudo, lei gli fece la guerra.

«Un po’ sì. Ma quello voleva comandare. Cominciò a sgridare la gente... Ora siamo in ottimi rapporti».

Sgridò anche lei?

«Non esageriamo».

Anticipazione da "Oggi" l'11 agosto 2021. Maurizio Costanzo è il nuovo responsabile delle strategie di comunicazione della Roma calcio. E alla vigilia dell’inizio del campionato, in un’intervista esclusiva a OGGI, in edicola da domani, racconta: «Questo impegno con la Roma mi ha risvegliato passioni sopite, come un amore quando non te lo aspetti». E confida il perché, nonostante un amore viscerale, non vada mai allo stadio: «Sono stato amico di tutte le proprietà, gli allenatori. I Sensi mi invitavano allo stadio ma io non ci andavo e rispondevo: “Non ci sono mai venuto, se vengo e perdiamo io non posso più uscire per strada”». Poi spiega come ha intenzione di rilanciare l’immagine della squadra: «Chiamando Mourinho, i Friedkin hanno risolto già due problemi, uno di immagine uno di sostanza, perché Mourinho sta rafforzando la squadra. Nel frattempo, io ho incontrato i club storici, ho parlato con le tifoserie, i tassisti. Ma soprattutto sto cercando storie: quella per la Roma è una fede che va raccontata attraverso le storie dei suoi tifosi», dice a OGGI. A ottobre a Roma si vota. «Virginia Raggi ha fatto due cose belle proposte da me: ha intitolato il Teatro Valle a Franca Valeri e una piazza a Gabriella ferri. Quindi Viva la Raggi. Non so per chi voterò. Ma se risolve almeno in parte il problema dei rifiuti, voto la Raggi».

Andrea Malaguti per “Specchio - la Stampa” il 6 giugno 2021. Sembra lievemente surreale, ma la verità è che qualche matto ha fatto il calcolo. Quanti esseri umani ha intervistato Maurizio Costanzo con la sua flemma sacramentale? Cinquantacinquemila, decina in più decina in meno. Da Gheddafi a Woody Allen, da Fiorello a Totti, da Andreotti alla Sora Lella. E tutti gli hanno detto: prego, mi chieda pure. Come se avesse un trucco solo suo per far parlare le persone. "Cosa c' è dietro l'angolo?". Che sembra l'inizio del nulla e invece è la scoperta del passepartout universale, l'apriti-sesamo del flusso di coscienza, capace di far oscillare il pendolo della curiosità dai brevi cenni sull' universo al privato più inconfessabile. Ma lui? Come si intervista uno come lui? Risposta: boh. Oppure: facendo finta che non sia il Venerato Maestro del genere e contando sul fatto che Costanzo - pur rassicurato dalla certezza che per lui la magia si riproduce e dunque, in definitiva, il mondo gli obbedisce - ha uno sguardo sulle cose che resta divertito senza mai essere allegro, come se alla fine la malinconia e il disincanto fossero più forti di tutto, persino del successo. A parte c'è l'amore. Che in fondo, poi, è il segreto di Pulcinella. Nulla conta e tutto è decisivo. Soprattutto - come in questo caso - quando provi a capire qualcuno.

Maurizio Costanzo, come l'è riuscito?

«Che cosa?». 

Il successo. A 82 anni può ammettere di averlo avuto, no?

«Ottantatré ad agosto. Il successo come arriva può anche andarsene, diciamo che nel mio caso è stata una convivenza sull' uscio di casa». 

L'uscio sarà stato anche aperto, ma il successo ci sta comodo a casa sua.

«Per fortuna, si vede che mi applico». 

Se l'è meritato?

«Quello lo decide il pubblico, personalmente credo di sì. Sono un uomo fortunato. Ho capito a dieci anni quello che volevo fare e non ho più smesso. Direi che la mia è stata la vocazione assoluta». 

Se dovesse riassumersi in tre parole?

«Sono un giornalista che si è sperimentato in molti settori diversi, cercando sempre una cosa sola: il divertimento. Che è figlio della curiosità». 

Eppure, più che divertito lei sembra malinconico.

«Ci sono nato con un fondo di malinconia. Anzi, direi che la malinconia è mia sorella e se vuole gliela presento. È una convivenza a cui mi sono abituato e che mi aiuta a pensare».

Lei ha avuto quattro mogli, come si diventa mariti seriali?

«Cercando la migliore». 

Maria?

«Maria. Stiamo assieme da 27 anni, abbiamo da poco festeggiato le nozze d' argento. Non mi era mai accaduto». 

Le secca?

«Al contrario, mi riempie di gioia. Prima di lei le relazioni tendevano ad annoiarmi». 

È il primo uomo famoso che ha sposato una donna che è diventata più famosa di lui. O per lo meno quanto lui.

«È una cosa bellissima, pensi alla seccatura di tornare a casa e trovare una moglie immobile che si domanda: caro, ma io ora che cosa faccio?».

La cito: quando ho incontrato Maria ho avuto l'impressione che fosse la donna che mi avrebbe chiuso gli occhi.

«Non subito, però è vero che presto mi sono detto: è la donna nella mano della quale vorrei morire». 

Innamorato come un pischello?

«Un tempo si chiamava trasporto». 

Al liceo classico immaginava che avrebbe avuto questo successo con le donne?

«No, ma figurarsi. Non l'ho mai pensato, né ho mai coltivato l'idea. Direi che non l'ho nemmeno mai completamente saputo. Non importa quante persone incontri, importa chi».

L'ha festeggiata la festa della Repubblica?

«Sì, lo faccio da sempre. Vado in ufficio, accendo la tv, seguo la cerimonia e guardo le Frecce Tricolori che passano sopra l'Altare della Patria. Prima del Covid sono anche andato un paio di volte di persona». 

Hanno ancora senso le feste di unità nazionale?

«Il generale Figliuolo insegna che le persone in uniforme non vanno guardate con alterigia. Forse è l'età: ma la fanfara dei bersaglieri ancora un po' mi emoziona. Sarà perché mio padre, che lavorava al ministero dei trasporti, aveva l'ufficio vicino a Porta Pia, la statua del bersagliere mi ha sempre colpito».

Dopo 25 anni, Giovanni Brusca è uscito di galera.

«La mafia mi ha dedicato settanta chili di tritolo, dopo che Riina disse: questo Costanzo ha rotto i coglioni. I suoi uomini eseguirono l'ordine, ma gli andò male. È la vita. Però non posso fare a meno di pensare che la legge sui pentiti fu voluta da Falcone, un uomo illuminato. Mi auguro che sia stata applicata in maniera giusta». 

Brusca ha sciolto un bambino nell' acido e fatto saltare per aria Falcone, sua moglie e la scorta.

«Certo, rimane difficile pensare che l'abbiano liberato. Ma da quel che leggo un pezzo di mafia è stato demolito grazie alle sue rivelazioni. E io non sono abituato a criticare il lavoro dei magistrati, specie di quelli che si occupano di Cosa Nostra». 

Ha ancora gli incubi per la bomba in via Fauro?

«No. Ma penso di avere avuto una gran fortuna. Né io, né mia moglie, né l'autista, né il cane ci abbiamo rimesso la vita. Credo di avere avuto un angelo custode grande come un drone».

Lei crede in Dio?

«Non direi. Ma non sono nemmeno così presuntuoso da ritenere che nasciamo e moriamo per puro caso. Mi faccio tante domande. Da sempre. Ho perso mio padre quando avevo 20 anni e non passa giorno senza che pensi a lui immaginando che ci sia ancora». 

La morte le fa paura?

«Assolutamente no. Spero solo che il trapasso non sia doloroso».

Se le dico loggia Ungheria, lei che cosa mi risponde?

«Che tutti fanno delle cazzate. E una, grossa, l' ho fatta anch' io. Dopo la P2 ho passato un anno in solitudine. È stato uno sbaglio che mi ha fatto crescere e che ammetto. Credo di essere uno dei pochi». 

Quale fu l'esca?

«La sciocchezza. L' amicizia per una persona che non c'è più mi convinse a farlo, ma io di massoneria non sapevo assolutamente nulla». 

Nella sua vita il potere lo ha cercato o lo ha trovato?

«L'ho trovato. Come le dicevo prima, ho sempre inseguito il meglio divertendomi e lo faccio anche adesso. Piero Angela una volta mi disse: immagina sempre nuovi progetti per tenere allenato il cervello. Se no ti viene l'Alzheimer. Un consiglio che continuo a seguire». 

Angela sostiene che sia stato lei a dare a lui questo suggerimento.

«Lo so. E temo che non verremo a capo del dilemma». 

Silvio Berlusconi è un genio del bene o del male?

«Io ci ho lavorato 40 anni, è la persona che mi ha consentito di fare la mia carriera». 

Non ha risposto.

«Un genio del bene è eccessivo. E un genio del male pure».

Come si fa a essere lo spin doctor sia di D' Alema che di Alemanno?

«In verità l'ho fatto di più per Rutelli, che forse è stato in assoluto il miglior sindaco di Roma. Con D'Alema invece mi sentivo ogni lunedì. Mi piace dare consigli su cose che non mi riguardano direttamente, studio la comunicazione da sempre. E l'ho pure insegnata per diciassette anni alla Sapienza. Fui chiamato su consiglio di Umberto Eco, convinto che le cose andassero spiegate da chi le conosce». 

La Raggi conosce le cose che fa?

«La Raggi non mi è antipatica per due motivi: le ho chiesto di intitolare il Teatro Valle a Franca Valeri e mi ha ascoltato e poi le ho suggerito di intitolare una strada a Gabriella Ferri e ha fatto anche quello».

Ferri con due erre?

«Sì, Ferri, non Feri. Ma se stiamo parlando della targa col nome di Ciampi trasformato in Azelio, io temo che sia stata una trappola fatta apposta da qualcuno per mettere la Raggi in difficoltà». 

Fa il dietrologo?

«Mai. Ma a Roma tutto è possibile». 

Draghi o Conte?

«Draghi gode di una grande fama internazionale, però non lo conosco. Conte, col quale mi è capitato di chiacchierare, mi ha dato l'impressione di essere una persona attenta, accorta e perbene. Ma per i marosi attuali forse serve Draghi».

Ci avrebbe mai creduto di vedere Rocco Casalino a Palazzo Chigi?

«In effetti no. Ai tempi del primo Grande Fratello io facevo Buona Domenica e ogni settimana ospitavo uno degli eliminati della Casa. Rocco lo conobbi così, era difficile immaginare dove sarebbe arrivato. Ma con me è sempre stato molto corretto». 

In fondo anche il Maurizio Costanzo Show era uno straordinario luogo di potere, no?

«Sappia che quando ricomincio, a fine ottobre, festeggio i quarant' anni». 

Glielo chiedo diversamente: era più influente il Maurizio Costanzo Show o Porta a Porta?

«Io mi sono sempre trovato molto bene al Maurizio Costanzo Show, ma Vespa era a teatro in prima fila quando festeggiammo i nostri vent'anni. Ho un ottimo rapporto con lui».

Che cos' hanno in comune Vittorio Sgarbi e Nik Novecento?

«Nik Novecento era un ragazzo dolcissimo morto troppo presto. Vittorio Sgarbi, che lo si voglia o no, è una delle persone più preparate del suo settore e anche delle più intelligenti». 

Costanzo, è normale regolare la sessualità per legge?

«No, non è normale. Ognuno deve essere libero di amare chi vuole: uomini, donne, cani. Io sono per la libertà assoluta. Nell'ultima stagione ho ospitato un ragazzo nigeriano picchiato a Roma perché baciava il suo fidanzato e una ragazza cacciata di casa perché lesbica. Nella vita amiamo chi ci pare».

Perché la diversità ci fa paura?

«Perché ci sentiamo più comodi nella normalità, anche il ragioniere del terzo piano che sa tre lingue o canta la Traviata ci fa impressione. Abbiamo bisogno di sicurezze anche un po' banali». 

Che cosa è stata la tv per lei?

«La vita, porca miseria, il mio modo di esprimermi. Mi ha permesso di incontrare tanta gente anonima e importante».

 Fazio o Cattelan?

«Fazio mille volte, perché lo conosco da sempre. È un carissimo amico e lo sento spesso.

Cattelan lo conosco poco e penso debba crescere».

Bonolis o Amadeus?

«Sono diversi, stimabili entrambi. Bonolis è un creativo, lo zio matto che quando sei a cena si mette a cantare. Amadeus è il portiere attento e fedele al quale puoi affidare i tuoi segreti. L' amico che tutti vorremmo avere. Per conferme chiedere a Fiorello». 

Maria la Sanguinaria, che effetto le fa il soprannome di sua moglie?

«È una cretinata che si è inventato D'Agostino». 

A sua moglie dispiace?

«Direi proprio di no».

I tronisti sono una fotografia della società o semplicemente intrattenimento folkloristico?

«Sono la proiezione di come alcuni di noi vorrebbero essere». 

È una tv che le piace?

«Mi piace il gioco dell'umanità che gira lì dentro, persino da un punto di vista morfologico». 

Che cosa ci ha raccontato il Covid di noi?

«Che potevamo restare chiusi senza andare al ristorante e a trovare gli amici e sopravvivere. Anche se adesso non se ne può più e il lockdown è stato tremendo. Io per età mi sono vaccinato, ma ancora oggi giro con la mascherina. Bisogna che continuiamo a tenere presente la sicurezza degli altri. Il Covid è davvero una gran brutta cosa».

Il disastro della Funivia Stresa-Mottarone è figlio dell'avidità o della stronzaggine?

«Della stronzaggine. Purtroppo la mamma dei cretini è sempre incinta. Finalmente il ritorno alla libertà, le famiglie in gita, il sole, il dramma, il piccolo Eitan che sopravvive salvato dall' abbraccio del padre. Ci penso continuamente. Una mascalzonata orribile». 

Costanzo, Rai o Mediaset?

«Ho sempre pensato che la tv è una. C' è chi la fa bene e chi la fa male. Io l'ho fatta per entrambe e continuo così senza esclusive». 

La Rai è irredimibile?

«La Rai è la Rai. La Rai è Roma, è viale Mazzini, però è anche il posto dove sono nati Mike Bongiorno, Enzo Tortora o la tv d' intrattenimento. Io da ragazzino, prendevo tre autobus assieme a mio padre per andare a vedere la televisione da mio zio. E per Lascia o Raddoppia le persone si radunavano nei bar. Adesso, al bar, al massimo si prende un caffè».

Saverio, Camilla, Gabriele. Quanto la commuovono i figli?

«Molto. Ci vediamo a pranzo tutti i giovedì, anche con i nipoti. Quando io ero ragazzo, le bombe mi facevano scappare nei rifugi assieme a padre, madre e zii. Quello spareggio con la vita crea un legame forte». 

Costanzo, lei è cinico o solo romano?

«Solo romano. Ma quando alla gente non va di dire che uno è intelligente allora dice: quello è un cinico».

Maurizio Costanzo, la struggente frase su Maria De Filippi: "Come voglio morire", mai così intimo. Libero Quotidiano il 13 maggio 2021. Il prossimo agosto, Maurizio Costanzo compirà 83 anni, 43 primavere in più del suo eterno Maurizio Costanzo Show. Tempo di bilanci, per il conduttore, che si racconta in una lunga intervista al Corriere della Sera, in cui Costanzo si sbottona su politica, televisione, errori, scelte e vita privata. Ovviamente, parla anche di Maria De Filippi, con la quale ha festeggiato lo scorso 28 agosto le nozze d'argento. E sulla moglie spende una frase toccante: "Vorrei morire senza accorgermene, senza soffrire, con la mano in quella di Maria...".  E ancora, Costanzo ha spiegato: "Ho sempre sperato di avere un’unione duratura, di condividere un’esistenza. Non rinnego il passato, la vita va vissuta per quella che è. Per fortuna ho incontrato Maria. Più di una fortuna. Molto, molto di più", ammette. Il segreto del loro amore eterno? Nessuno, "capita o non capita. Succede che esci senza ombrello e poi piove, o invece che esci e te lo sei portato. Succede", spiega. Dunque, una battuta sui figli Saverio e Camilla e sui legami familiari: "Sono solidissimi. Tutti i giovedì pranzo con Saverio e Camilla". Sull'essere nonno di quattro nipoti, il conduttore spiega: "È splendido. Ora la pandemia rende difficile vedersi. Ma essere nonni è meraviglioso". Infine Gabriele, il figlio adottato con Maria De Filippi: "Altro legame familiare intenso. Lui lavora con Maria, sono unitissimi. Gabriele rafforza il mio profondissimo rapporto con Maria. Ricordo ancora la mia commozione quando, avrà avuto dodici anni, mi chiamò “papà” per la prima volta. All’inizio è una paternità diversa. Poi diventa uguale all’altra, a quella naturale. Ritengo il suo arrivo un miracolo", conclude Maurizio Costanzo.

Paolo Conti per corriere.it/sette il 13 maggio 2021.

Maurizio Costanzo, a ottobre grande festa per i quarant’anni del Costanzo Show…

«Quarant’anni e quasi 55.000 ospiti intervistati. E dire che, a ripensarci, è stata una intera vita professionale nata sugli inciampi. Nella fortuna, dico».

Per esempio?

«Dal 3 maggio ho ripreso a fare la radio su R101 con Carlotta Quadri, in “Facciamo finta che…”. Ecco, io da ragazzino, avrò avuto undici anni, giravo il portasapone in bagno, lo trasformavo nella mia testa in un microfono, e fingevo di trasmettere in diretta alla radio leggendo commedie. Mia madre, poveraccia, era disperata. Però avevo capito dove volevo arrivare. E anche lei, penso. Un inciampo della sorte…. ».

Altro inciampo?

«Beh, uno più concreto. Uno zio, che aveva capito la mia passione precoce per il giornalismo, mi mandava a casa i ritagli della terza pagina del Corriere della Sera. Mi invaghii di Montanelli, trovai il coraggio di scrivergli, ero al liceo, ai tempi si andava metà settimana al mattino e metà al pomeriggio. Lui una mattina mi chiamò, avevamo il telefono appeso sulla parete in corridoio. Non ci credevo… Lo vidi alla redazione romana in via della Mercede. Mi aiutò nelle prime collaborazioni e mi incoraggiò per tutta la vita. Mi chiamava Costanzino. Lo ha fatto fino alla fine».

Passione precoce, diceva prima.

«Precocissima. Alle medie, alla “Tito Livio”, dirigevo un giornalino scritto a mano, l’Araldo. E una volta vinsi un concorso di temi dell’Associazione Protezione animali. Mi inventai di sana pianta un acuto pentimento per aver strappato le ali a una farfalla. Grande storia di finzione ed emozione. Piacque. Mi premiarono».

Invenzione assoluta?

«Totale. Mai andato per farfalle in vita mia. Ma quando mai».

 Molti inciampi familiari…

«Eccone un altro. Mia madre, si chiamava Jole, era impiegata in un ufficio e conobbe Felice Chilanti, grande inviato di Paese Sera. Grazie a lui arrivai ad Antonio Ghirelli, che dirigeva lo sport di quel quotidiano. Cominciai a collaborare a 17 anni. Mi fece scrivere da Roma persino il Giro del Belgio di ciclismo sulle agenzie, mi firmò “dal nostro inviato Maurice Costance”. Mi affidò anche una piccola rubrica sugli intellettuali e lo sport, lì conobbi per esempio Pier Paolo Pasolini. Imparai molto, moltissimo».

Dicono che la noia sia il suo peggior nemico, Costanzo.

«Sempre a quella povera donna di mia madre, dicevo continuamente da bambino “mi annoio”. Non sapeva cosa fare. Per questo non sto mai fermo, e per questo lavoro ancora così tanto. Il telefono deve sempre squillare… La noia mi terrorizza».

È capitato che il telefono non squillasse?

«Sì. Quando dovetti smettere di lavorare e mi dimisi da tutto. Da tutto, dico».

Iscrizione nelle liste della P2, era il 1981. Addio alla tv, agli incarichi editoriali alla Rizzoli, al ruolo da direttore del quotidiano «L’Occhio»....

«Già. Ricordo ancora giorni e giorni di telefono muto. Ero solo, in quel periodo, nella mia casa romana di viale Mazzini. Poi arrivò la prima telefonata, dopo più di un mese di assoluto silenzio».

Di chi?

«Non lo dimenticherò mai. Di Sergio Zavoli. Che mi disse: la vuoi smettere di fare l’ambasciatore a San Marino? Mi spronò a riprendere, a rimettermi al lavoro. “Diamoci da fare”, mi disse. Ricominciai da zero. Da Videolina a Cagliari e da una tv di San Benedetto del Tronto, facevo le interviste lì».

Un giudizio sul capitolo P2?

«Un errore, un grosso errore. Ma gli errori fanno bene e fanno crescere. Non credo a chi dice di non averne mai fatti, che fesseria… Però c’è anche chi, di grossi errori, ne fa due o tre. Io uno: e lo ammetto».

A proposito di errori. Pippo Baudo si rammarica ancora di non aver capito bene il talento di un giovanissimo Fiorello. Lei ha qualche errore del genere da rimproverarsi?

«No, non mi viene in mente. Lo avrò fatto, certamente, ma non saprei… So però che per esempio, tra gli ospiti, c’è chi si secca quando scrivono che è stato scoperto dal Costanzo Show».

Chi?

«Valerio Mastandrea. Lui si dispiace quando gli ricordano degli esordi….Vabbè, è fatto così. Ma la verità è quella».

Un modello di ospite ideale?

«Vittorio Sgarbi. Intelligente, colto, sempre reattivo. E Giampiero Mughini, per le stesse ragioni. Comunque l’ospite ideale è sempre quello che risponde subito: con le risposte crei altre domande. Quando qualcuno non risponde, inutile accanirsi. Ma se nella puntata c’è la giusta atmosfera, parlano tutti»

Quasi 55.000 interviste…

«Una cittadina intera»

Se le ricorda tutte?

«Ma no…. Ho un meccanismo che tutela la memoria. Fatta una puntata, cancello tutto e via.»

C’è anche un «altro» Costanzo. Per esempio l’autore di Se telefonando, il cavallo di battaglia di Mina…

«Devo la scrittura di quel testo al vecchio amico Ghigo De Chiara, era il critico teatrale de l’Avanti, lo firmammo insieme; e a Ennio Morricone, il magnifico brano era suo. Ricordo ancora quando Mina la cantò per la prima volta. Un brivido irripetibile».

Poi lei è anche uno dei padri di Fracchia, il personaggio di Paolo Villaggio.

«Paolo aveva dato vita a Fantozzi. Io lavoravo a Quelli della domenica nel 1969, domenica pomeriggio sul Canale Nazionale Rai. Un giorno, io e l’altro autore, Umberto Simonetta, vedemmo Villaggio che in una scena stava al gioco con Gianni Agus nel ruolo del capoufficio. Ci lavorammo, c’era la poltrona “Sacco” in cui sprofondava….. Lo vide il regista Antonello Falqui. Ci puntammo. Fu un grande successo».

Perché, secondo lei?

«Perché siamo tutti un po’ Fracchia. Come siamo tutti un po’ Fantozzi».

Il lavoro uccide la noia. E l’invecchiamento.

«Piero Angela, che ha dieci anni più di me, molto tempo fa mi disse: devi sempre avere progetti per la testa, così il cervello rimane attivo. Grande insegnamento. Piero poi si è pentito e giura che il suggerimento glielo avrei dato io. Ma era roba sua, giuro».

Lei colleziona tartarughe. Perché?

«Ne ho cinquemila. Mi dà l’idea di un animale che va piano ma arriva sempre dove vuole. Mi sono fissato che porti fortuna. Mi piacciono anche i pinguini, tutti insieme sembrano personaggi importantissimi. Dai tetti di casa seguo una famigliola di gabbiani».

E poi qui, nel suo studio di Roma in Prati, c’è Filippo.

«Il mio gatto Filippo. A casa ci sono i due bassotti di Maria. Qui lavoro con Filippo. Il gatto è un animale pazzesco, intelligentissimo, di carattere. Se manco qualche giorno dallo studio, mi tiene il muso, mi ignora».

Vita sentimentale intensa, quella di Maurizio Costanzo. Quattro matrimoni (il primo con Lori Sammartino, il secondo con Flaminia Morandi, la madre dei figli Saverio e Camilla, il terzo con Marta Flavi, durato appena un anno, infine Maria De Filippi, 25 anni di nozze e 35 complessivi di storia) un lungo legame con Simona Izzo. C’è un capitolo nel quale non si riconosce?

«Sì. In uno. Non lo dirò nemmeno sotto tortura».

Qualcuno potrebbe arguire che…

«Cavoli di chi arguisce».

Tanti matrimoni forse, paradossalmente, tradiscono il desiderio di una storia stabile.

«Ho sempre sperato di avere un’unione duratura, di condividere un’esistenza. Non rinnego il passato, la vita va vissuta per quella che è. Per fortuna ho incontrato Maria. Più di una fortuna. Molto, molto di più».

Ci sono segreti, formule, per far durare una storia lunga e solida come la vostra?

«No. Capita o non capita. Succede che esci senza ombrello e poi piove, o invece che esci e te lo sei portato. Succede».

Mai avuto pensieri omosessuali?

«Mai. Ho fatto grandi campagne contro l’omofobia con la parola d’ordine “amate chi vi pare”. Ma non ho avuto attrazioni verso uomini. Se mi fosse capitato, le avrei seguite, nessun problema. La vita va vissuta, sempre».

La gelosia è una brutta bestia, vero?

«Bruttissima. In passato ho avuto una lunga storia con una donna gelosissima. Frugava nelle tasche, cercava numeri di telefono. Un’ossessione. Ho scoperto che quel clima ti porta istintivamente a mentire, a creare motivi di gelosia….».

I figli Saverio e Camilla, quattro nipoti. I legami familiari reggono?

«Sono solidissimi. Tutti i giovedì pranzo con Saverio e Camilla».

Saverio è ormai un prestigioso regista. Aveva intuito dall’inizio il suo talento?

«No. Devo essere onesto. Poi a un certo momento, sì. Sta avendo grandi soddisfazioni anche internazionali, mi sono profondamente emozionato con l’affermazione per L’amica geniale. Poi mi piace perché non si atteggia, non si dà arie, come si dice a Roma non se la tira. Sono orgoglioso nello stesso modo di Camilla, lavora tanto e scrive».

Quattro nipoti. Bello essere nonno?

«Splendido. Ora la pandemia rende difficile vedersi. Ma essere nonni è meraviglio».

C’è poi Gabriele, il figlio adottato con Maria De Filippi.

«Altro legame familiare intenso. Lui lavora con Maria, sono unitissimi. Gabriele rafforza il mio profondissimo rapporto con Maria. Ricordo ancora la mia commozione quando, avrà avuto dodici anni, mi chiamò “papà” per la prima volta. All’inizio è una paternità diversa. Poi diventa uguale all’altra, a quella naturale. Ritengo il suo arrivo un miracolo».

Non teme che qualcuno dica, smanettando col telecomando: che strazio, ancora Costanzo…

«Certamente ci sarà. Per fortuna noi, dall’altra parte, non li sentiamo».

Però la trasmissione va bene come ascolti.

«Benissimo. Incredibili punte del 14-15%. Dalle analisi del tipo di pubblico abbiamo scoperto che ora ci segue una nuova fascia di pubblico femminile giovane. Beh, gratificante, lo ammetto. È bello sapersi rivolgere alle nuove generazioni».

Lei ha detto che vorrebbe morire con la mano in quella di Maria.

«Sì, proprio così. Mi piacerebbe non accorgermene, cioè non soffrire».

L’appuntamento la preoccupa?

«Beh, un po’ mi rompe le scatole… Lo ammetto. Ma ditemi a chi non le rompe».

LA VITA — Maurizio Costanzo è nato il 28 agosto del 1938 a Roma. Il padre, Ugo, era impiegato al ministero dei Trasporti, la madre, Jole, casalinga. Si è sposato 4 volte: con Lori Sammartino, Flaminia Morandi (dalla quale ha avuto due figli, Camilla e Saverio), Marta Flavi e Maria De Filippi, sposata nel 1995, conosciuta nel 1989 a un convegno organizzato da lei sul tema della pirateria. Nel 2002 la coppia ha adottato Gabriele. È nonno di quattro nipoti, due avuti da Camilla e due da Saverio.

LA CARRIERA — Maurizio Costanzo ha esordito nel 1956, dopo il diploma in Ragioneria. Ha cominciato a collaborare al quotidiano Paese Sera e, l’anno successivo, al Corriere Mercantile. È giornalista, scrittore, sceneggiatore e conduttore televisivo.

"Dopo 39 edizioni sogno di intervistare Papa Bergoglio". Il "Costanzo Show" riparte su Canale 5. "L'ospite che avrei voluto avere? Fidel Castro. Ma dopo 39 anni sogno di 'confessare' Papa Bergoglio". Paolo Giordano - Mer, 24/03/2021 - su Il Giornale. Non a caso è il più longevo di tutti: stasera il Maurizio Costanzo Show compie 39 anni, dicesi 39, praticamente un record, non a caso è il padre di tutti i talk anche perché è stato il primo qui dalle nostre parti. «Stavolta all'inizio mi sono anche emozionato, ho sentito gli occhi velarsi di commozione», ha detto Maurizio Costanzo (82 anni) ieri dopo aver registrato la puntata in onda stasera in seconda serata su Canale 5. Per quattro decenni al Costanzo Show si è fatta e disfatta l'Italia mostrando gli italiani e l'italianità, vincendo scommesse (quanti personaggi nuovi) e scoperchiando scandali o magagne che altrimenti se ne sarebbero rimasti al buio ancora chissà quanto. Insomma, la cronaca della nostra vita in ben 4500 puntate, praticamente una enciclopedia.

Cosa accade quando si alza il sipario del Maurizio Costanzo Show?

«Me lo sono chiesto tante volte anche io. Non so, è come se si creasse una atmosfera magica, qualcosa di impalpabile ma positivo. Forse non sta a me dirlo, ma è come se fosse un effetto magico».

Stasera si riparte da Ornella Muti, Katia Ricciarelli, Eva Grimaldi e un altro plotone di ospiti.

«In tutti questi anni su queste poltroncine abbiamo avuto circa 45mila ospiti, mettiamo molta attenzione nello sceglierli».

Uno dei cardini del Costanzo Show è l'«Uno contro tutti». Stasera è un «Uno contro tutti» di nome e di fatto visto che c'è Giorgia Meloni che appunto rappresenta l'unico partito all'opposizione.

«Una grande ospite, molto chiara, davvero tosta».

Qual è un «Uno contro tutti» che per lei è davvero simbolico?

«Non dimenticherò mai quello con Carmelo Bene».

Della prima puntata chi l'ha impressionata?

«Tommaso Zorzi».

Attuale opinionista dell'Isola dei Famosi.

«È uno che potrebbe davvero andare lontano. La gente lo ama, lo percepisce come se fosse il figlio o il fratello. Una sorta di semi parente che attira fiducia».

E lei su questo se ne intende.

«In effetti al Costanzo Show sono nati tanti personaggi poi diventati famosi, talvolta si sono trasformati in opinion leader oppure hanno trovato la loro strada definitiva».

Quello cui è più affezionato?

«Beh direi senza dubbio Vittorio Sgarbi».

E poi?

«Ce ne sono tanti, da Enzo Iacchetti a Giampiero Mughini, che ho voluto anche in questo inizio della 39esima stagione».

A proposito di interviste, si parla moltissimo di quella fatta da Oprah Winfrey a Meghan Markle e al principe Harry.

«Beh Oprah è molto abile, si sa. E Meghan ha dimostrato di avere un carattere estremamente forte. Harry ha preso la debolezza di sua mamma Lady Diana mentre suo fratello, forse, ha preso altre caratteristiche più dure. Non sono un grande conoscitore della Casa Reale inglese. Di certo, tra tutti, la mia più grande simpatia va al principe Filippo che è stato capace di rimanere sempre tre passi dietro sua moglie, la Regina».

Quante puntate di Costanzo Show in questa stagione?

«Adesso sei. Poi ne faremo altre sei in autunno per la quarantesima stagione».

Chi avrebbe voluto intervistare?

«Fidel Castro, sarebbe stato un gran bell'incontro, ne sono sicuro. Invece è rimasto un sogno che non ho realizzato».

Quale invece vorrebbe realizzare adesso?

«Avere Papa Bergoglio al Costanzo Show. Se lei ha aderenze in Vaticano, glielo faccia sapere (sorride - ndr). Sarebbe un gran bel modo per chiudere la carriera».

Francesco Persili per Dagospia il 15 febbraio 2021. "Mi hanno offerto di fare politica ma ho detto sempre di no. Mi hanno proposto anche di fare il sindaco di Roma ma l’idea che l’avversario mi potesse riempire di insulti sui manifesti, mi ha fatto dire: “Ma chi me lo fa fare”. La quota 100 fa un baffo a Maurizio Costanzo che racconta a “Che tempo che fa” 65 anni di carriera. “Non ho faticato. Volevo fare il giornalista sin da bambino e non ho mai cambiato idea”. Gli inizi a "Paese Sera", come inviato al Giro del Belgio, anche se lui in Belgio non c'è mai stato. “Il mio caposervizio, Antonio Ghirelli, mi girava le agenzie e io raccontavo la tappa. Mi mise in firma come "dal nostro inviato, Maurice Costance”. Una storia alla Simenon, una delle sue grandi passioni. Fu grazie al commissario Jules Maigret, ad esempio, che si accorse che Maria De Filippi era tagliata per la tv. "Mi fece un riassunto perfetto di un libro Simenon. Da lì ho capito che poteva fare televisione. Direi che non mi sono sbagliato". Come faccio a ricordarmi tutto del mio lavoro e di quelli che ho intervistato? “Sono anziano e quindi vivo di passato”, confessa Maurizio Costanzo che ricorda la nascita del talk in Italia con “Bontà loro”. “La seconda puntata fece 11 milioni di spettatori”. Arrivò il riconoscimento del pubblico. “Mi accorsi che la gente per strada iniziava a fissarmi. E io mi dicevo: “Ma che c’avranno questi da guardà”. Ospitò Andreotti, il primo presidente del Consiglio che partecipò a un talk: “Mi sembrava Alighiero Noschese”. In un’altra occasione il Divo Giulio gli confessò che due suoi amici della scuola avevano fatto carriera. Erano diventati cardinali. "E invece lei è disoccupato...", la risposta sarcastica di Costanzo. Si parla dell’intervista a Trump (“i capelli li aveva sempre di quel colore biondo lì”) e del gemellaggio con il “Late Show” di David Letterman: “Ho imparato tantissimo dai talk show americani. Lì avevano uno che gestiva le persone del pubblico. Quelle più carine, andavano nei punti in cui finiva l'inquadratura. Quelle orrende, le spostavano tutte da un’altra parte". Dai talk show americani ha tratto ispirazione anche per l'orchestra in studio. "E mi sono inventato Demo Morselli…” Si ripercorrono interviste, immagini, aneddoti su Totò, Pasolini, Falcone (“Ho la sua foto nel mio studio, è il mio protettore”). Fino a quando Costanzo infilza Fazio, con un sorriso sornione: “Ti porti avanti per il giorno in cui devi fare il necrologio…”

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 22 febbraio 2021. «La regola è semplice», dice Maurizio Costanzo, «chiedere tutto e rispondere a tutto». A 82 anni non si è stancato di fare domande, dal 17 marzo torna su Canale 5 con il Maurizio Costanzo Show , è il 39esimo anno. Dal Teatro Parioli ai Lumina studios, il suo mondo è un palcoscenico dove incontra gli ospiti: politici, scrittori, attori, soubrette, registi e aspiranti famosi. Nel 1976 inventava il talk show in Italia grazie a Angelo Guglielmi.

Come ricorda il debutto?

«Mi convocò Gugliemi. Gli risposi: "Chi fa le domande?". Avevo paura, non avevo mai fatto tv, mai stato davanti a una telecamera. Ero autore, lavoravo alla radio. Prima ci sono stati Bontà loro, Acquario, Grand'Italia. Nel 1982 è nato il Costanzo Show. C'erano sceneggiati e varietà, l'impatto del talk show fu importante. Non c'era concorrenza, la seconda puntata di Bontà loro fu vista da 11 milioni di spettatori».

Né il "Maurizio Costanzo Show" con tanti ospiti, né "Che tempo che fa" hanno lo stile dei late show americani.

«Il talk all'americana lo fanno gli americani, appunto. Noi lo facciamo all'italiana. Andai ospite da Letterman, era bravissimo. A Johnny Carson rubai l'orchestra, scattò la simpatia, ho sempre risposto a tutto. Domandare è lecito, rispondere cortesia. Sono arrivato a 4455 puntate: se calcola ospiti e puntate vuol dire avere intervistato una cittadina».

Non è stufo di fare domande?

«No, mi sono rotto le scatole di non avere risposte».

Immaginava che il suo talk show sarebbe durato così tanto?

«No. Berlusconi dovette insistere per farmelo fare quotidiano. Gli dissi: "Silvio, è un azzardo, andiamo a sbattere contro un muro". Aveva ragione lui. Andavamo in onda la sera e la mattina veniva replicato, un incubo, diciamo la verità. Tutte le sere era un po' stancante però esaltante: avevo 40 anni di meno».

Sente ancora Berlusconi?

«Raramente. Lo chiamo per fargli gli auguri, gli devo molto».

Le pesa l'età?

«No. Mi pesa il Covid, meno male che mi sono vaccinato, sono più tranquillo. Ma è una sciagura».

I momenti più belli?

«Quelli col giudice Giovanni Falcone, ho la sua foto nel mio studio. Sono legatissimo alle serate antimafia con Michele Santoro. Ho intervistato varie volte Giulio Andreotti, era spiritoso, rispondeva pensando a altro. Mi disse: "Sa che tre compagni di scuola sono diventati cardinali? Hanno fatto carriera, loro". "Perché, lei no?"».

Che si fa con l'ospite antipatico?

«Si evita. Se si rivela odioso lo lascio perdere e vado da un altro. Più complicato quando erano solo tre. Però i peggiori sono quelli che per problemi di digestione hanno l' alito pesante, allora mi alzavo».

Capisce quando mentono?

«Ormai se ne accorge persino la sala, c'è un' abitudine al talk show che le persone capiscono subito. Però da qualche anno diminuiscono i mentitori».

Il personaggio di cui va più fiero?

«Tanti: Iacchetti, Sgarbi, Mughini, Ricky Memphis, Vergassola, David Riondino».

Si sarà pentito di qualcuno.

«No. Quando è successo ho pensato che era colpa mia, perché non ero riuscito a farlo venire fuori. Amo gli ospiti. Non mi vedo ai giardinetti o a controllare i lavori stradali. Però ogni volta che debutto spero in un terremoto o in un incendio, mi viene l' ansia. Non do per scontato che lo show venga bene».

È sempre affezionato alla formula dell'"Uno contro tutti"?

«Sì. Vorrei cominciare con Rocco Casalino».

Cosa vede in tv?

«Dimartedì con Giovanni Floris, che considero un po' il mio erede. Poi Maria (De Filippi, la moglie, ndr) a C'è posta per te perché mi piacciono le storie, Chi l'ha visto?, Quelli che il calcio. Stimo più di tutti Piero Angela e il figlio Alberto, persone che studiano. Seguo meno le serie. Amo la televisione "a pizzichetti"».

"L'amica geniale" diretta da suo figlio Saverio l'avrà vista.

«Quella sì. Mi ricorderò finché campo la telefonata di Christian De Sica: "È nato il nuovo neorealismo". Mi sono emozionato».

Come definirebbe lo stile di conduzione di sua moglie?

«Algido passionale. Sembra algida e non lo è, dentro è passionale. Tiene le emozioni agli arresti domiciliari».

Chi le piace tra i nuovi personaggi?

«Vincenzo De Lucia, imitatore bravissimo. Mi piace il clima di Stasera tutto è possibile , stimo Gigi e Ross, li ho avuti ospiti e sono belle persone».

Seguirà il Festival di Sanremo?

«Sanremo è come le feste comandate. Puoi non stare con i parenti a Natale? Allo stesso modo, puoi non vedere il festival? Ricordo Nunzio Filogamo alla radio, posso non seguire Fiorello e Amadeus? Chissene importa se non ci sarà il pubblico in sala».

Negli spot Fiorello ironizza col "Comitato ignora Sanremo".

«Io invece dico: "Seguitelo" o: "Ignorate Sanremo e poi andatevi a confessare"».

Le polemiche sulla presenza di Barbara Palombelli?

«È bravissima, è la persona che fa più ore di televisione tra Forum e Stasera Italia . Si documenta. Ho molta simpatia per lei, basta polemiche».

Cosa chiederebbe al neo premier Mario Draghi?

«Lo sa che tra un po' si dovrà trasferire? Al Quirinale, naturalmente. Mi sembra ovvio, dopo Cristoforo Colombo è l' unico italiano che mette d' accordo tutti».

·        Melania De Nichilo Rizzoli.

Dagospia il 18 giugno 2021. Da "Belve". Melania Rizzoli, intervistata senza filtri per Belve, svela a Francesca Fagnani alcuni clamorosi e inediti particolari sulla sua vita pubblica e privata. Come quando la conduttrice, a proposito del marito Angelo Rizzoli iscritto alla P2, le chiede: C’è qualcosa che non si è saputo e che lei dirà in futuro? E Melania risponde, svelando un passaggio clamoroso e inedito: “Sono stata interrogata ultimamente come testimone nel processo sulla Strage di Bologna perché è emersa la notizia che la strage era stata organizzata con i soldi sottratti alla Rizzoli. Il Pm mi ha detto: suo marito è stato una vittima”. Fagnani insiste: Lei conserva dei documenti inediti che prima o poi pubblicherà? “Sì”, replica Rizzoli “li conservo perché abbiamo due figli, per tutelare la dignità del padre”. Sul precedente matrimonio di Angelo Rizzoli con Eleonora Giorgi, Melania dice: “Io non conosco la signora Giorgi. In 25 anni non l’ho mai incontrata, non c’ho mai parlato, non ci siamo mai viste, anche perché mio marito non voleva. Angelo ha preteso e ottenuto la cancellazione di quel matrimonio”. Allora Fagnani le domanda: ha fatto bene Eleonora Giorgi a presentarsi al funerale? e Rizzoli rivela: “Mio marito mi diceva sempre: “Se io dovessi morire ricordati che non la voglio al mio funerale”. Poi, sa, le persone dello spettacolo amano le telecamere e fare notizia”. Quanto alla sua attuale situazione sentimentale, Fagnani ricorda la pubblicazione di alcune foto maliziose con Vittorio Feltri e Melania non si sottrae alla sollecitazione: “Vittorio Feltri è il mio migliore amico, la persona a cui voglio più bene, ci conosciamo da tantissimi anni, ci sentiamo tutti i giorni, ci vediamo, usciamo sempre insieme, ci confidiamo, parliamo. Lui mi vuole bene e me lo anche dimostrato in tante occasioni, mi è stato vicino nei momenti più difficili della mia vita, io questo non lo dimentico”. È un amore diverso? chiede Fagnani. “Sì”, risponde decisa Rizzoli. Inoltre, senza mai risparmiarsi, Melania Rizzoli racconta “l’incontro con Angelo Rizzoli grazie a Craxi”, “la valigetta di Mastella piena di mozzarelle di bufala”, quella volta che “fui aggredita dal produttore Carlo Tarallo per Gabriel Garko”, Renata Polverini che la imita “indossando i miei stessi tubini”. Infine si riconosce il merito “di aver fatto scoprire le scarpe con i plateau a Giorgia Meloni”. Indomabili, ambiziosi, sempre all’attacco e mai gregari alle 22.55 i protagonisti di Belve si prendono il venerdì sera di Raidue, con un ciclo di dieci puntate. Il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani con domande dirette e mai cerimoniose puntano a far emergere forza e debolezze dei protagonisti. Feroci e fragili, al tempo stesso.

·        Mia Ceran.

DAGONOTA il 20 aprile 2021. Chi è il misterioso fidanzato con cui Mia Ceran aspetta un figlio? Tanto misterioso non è, visto che si tratta di Federico Ferrari, Global Event Manager di Diesel, come recita il suo profilo su Linkedin. La giornalista e conduttrice di "Quelli che il calcio" aveva dato l'annuncio a sorpresa domenica, prima della puntata, pubblicando una foto del "pancino" su Instagram: "Grandi attese (e per una volta non parlo della puntata)", ha scritto la 34enne…

Carmen De Sio per donnaglamour.it il 20 aprile 2021. Andiamo a conoscere meglio Federico Ferrari, alias il compagno della giornalista e conduttrice televisiva Mia Ceran. Si chiama Federico Ferrari ed è salito agli onori della cronaca rosa nell’aprile del 2021 quando la sua compagna, Mia Ceran, ha annunciato in diretta televisiva, durante una puntata di Quelli che il calcio, di aspettare il primo figlio da lui. La bella giornalista e conduttrice televisiva ha sempre mantenuto lontano dai riflettori la sua sfera sentimentale, ma ecco tutto quello che siamo riusciti a scoprire sulla sua dolce metà. Chi è Federico Ferrari, dove vive e cosa fa nella vita privata?

Chi è Federico Ferrari. Sulla biografia di Federico Ferrari non abbiamo alcuna informazione, essendo lui estraneo al mondo della tv e dello spettacolo. Non si conosce la sua data di nascita né il suo segno zodiacale e tutto quello che è noto è stato rivelato dalla sua stessa fidanzata, Mia Ceran durante un’intervista rilasciata sul settimanale F: “Viviamo insieme e non c’entra col mio mondo ed è un uomo molto solido, molto amorevole”.

Federico Ferrari, vita privata (e dove vive). Sulla sfera privata di Federico si conosce davvero poco. L’uomo convive da un paio d’anni nella Capitale insieme alla conduttrice tv di Quelli che il calcio ed il loro adorato cane. Inoltre sembra non essere particolarmente avvezzo al mondo dei social ed appare davvero di rado, nelle foto condivise sull’Instagram da Mia Ceran.

Chi è Mia Ceran, la fidanzata di Federico Ferrari. Mia Ceran è nata in Germania il 15 novembre del 1986, sotto il segno zodiacale dello Scorpione, da papà tedesco e mamma slava. Proprio come sua madre, Mia si è appassionata fin da giovanissima al mondo del giornalismo ed è cresciuta negli Stati Uniti. Dopo il conseguimento del diploma a 19 anni, ha poi scelto di trasferirsi in Italia dove ha svolto uno stage alla sede romana della CNN e contemporaneamente si è laureata in Economia alla John Cabot University a Roma. Nel corso della sua carriera ha lavorato ai programmi tv: Matrix, L’aria che tira, Agorà, Unomattina estate fino ad arrivare alla conduzione della trasmissione tv, Quelli che il calcio su Rai 2 insieme a Paolo Kessisoglu e Luca Bizzarri.

·        Michele Salomone.

Michele Salomone: «Con il microfono sconfissi la balbuzie e divenni la voce del Bari». Icona biancorossa e amico dei grandi. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Gennaio 2021.

Sai che cosa penso? Penso che uno guardando la tua faccia da Michele Salomone deduca che la disdetta sia foriera di opportunità. E quell’uno sono io.

«Diciamo che sono d’accordo, ma devi spiegarmi meglio che vuoi dire. Se quello che probabilmente penso io, se quello che pensano gli altri, o che non pensiamo né tu né io».

Mi riferisco a ciò che racconta la tua esistenza lunga finora 67 anni. Tu corri, per esempio, sei fra quei fanatici che ticchettano sull’asfalto stramazzando all’inseguimento di cadenze cardiache.

«No, aspe’, un momento, Alberto: che fanatico e fanatico. Io sono drogato proprio di running e tanto è vero a Gesù che capisco i drogati».

Io di più, Salomone.

«Vabbè, te lo dissi una volta, o no? No? Boh. Comunque, ehi, insomma, io alle 5.10 sto già sveglio, vedo RaiNews e tutte le sfilze di notizie. Caffè, yogurt e alle 5.45 sto già a Parco Due Giugno, Bari, la città dove abito da sempre, scarpette e pantaloncini. Faccio un po’ di corsa e un po’ di camminata veloce, 22 minuti e mezzo in un senso e 22 minuti e mezzo cronometrati nell’altro per riequilibrare le due gambe nei percorsi a ellissi: consiglio fornitomi dal preparatore atletico di Paolo Pinto, il fondista di nuoto buonanima. Stretching leggero e poi a casa, doccia e lavoro. Certi giorni mi dimeno un po’ nel letto, mi dico, no, stamattina non vado, e invece ci vado a correre. Sempre, ovunque mi trovi, pure quando viaggio, tanto che ho l’attrezzatura sempre pronta, alberghi prenotati in zone dove si sgambetta tranquilli. È una benedizione che mi viene effettivamente da una disgrazia, da un episodio per me brutto, sconcertante, mai chiarito».

La Provvidenza ti votò a esempio giornalistico.

«Può darsi, pure io ne sono convinto. Fumavo 50 sigarette al giorno diciott’anni e mezzo fa».

Io di più, Salomone.

«Eh, vedi? Brutta cosa. Ma una sera caddi in preda a una specie di collasso cerebrale, non sapevo più chi fossi, Albertino, non ricordavo più niente: chi sono che faccio dove abito dove lavoro da dove sono venuto per cui non appena…».

Piano, parli troppo veloce, da radiocronista, non riesco a seguirti, io sono rimba, e me ne vanto.

«Va bene, procediamo più tranquilli. Insomma, che stavo a dire?, ah, la mattina mia moglie Silvana che lavorava in uno studio radiologico mi fece fare tutti gli esami possibili e immaginabili, lastre, prelievi, sopra e sotto, non si capisce. E in questa occasione si rivelarono i miei valori sballati, con un bel 365 di colesterolo, soprattutto. Il medico il 27 giugno del 2002 mi prese sotto e mi consigliò di scansare i farmaci anche per problematiche tipiche di noi radiocronisti che, sempre seduti davanti al microfono, scarichiamo giù dall’addome la pressione sanguigna parlando a mitraglietta. Correre, fare sport era la medicina. Così il 28 giugno comprai il primo paio di scarpe da running. E il 29 completai il primo percorso con la lingua di fuori a uso di cane».

Quella stessa lingua incespicante che ti assegnò un posto da emarginato in panchina. Un’altra disgrazia destinata a tramutarti nell’icona biancorossa salomonica che sei.

«Ero balbuziente, un balbuziente che diceva c-c-ci-ao pure alla madre, che stava molto attenta a non far pesare niente. Un diverso schernito dai compagni della Carlo del Prete, della media Oreste del Prete, del Cesare Vivante: mi chiamavano “Salomone ‘u ca-cà”. Era terribile. Eppure ho sempre voluto essere libero. Così la Provvidenza, visto che la chiami così, e soprattutto Michele trasformarono l’handicap in una partita della vita. In un’epoca in cui per noi handicappati non ci stava pietà».

Sàlomon, continua.

«Nel novembre 1975 nasceva radio Bari Canale 100, con inaugurazione prevista nel febbraio ’76. In quegli anni per conoscere i risultati della serie C, nella quale competeva la Bari, si doveva aspettare il giornale radio delle 20. Perciò l’emittente ebbe l’idea di lanciare le radiocronache per la squadra cittadina. Organizzò nel vecchio Stadio della Vittoria, Curva Nord, una specie di casting. Durante una partita afferrai uno dei tre microfoni del registratore Nakamichi multitraccia, senza pensarci, anzi per ridere di me, e improvvisando la radiocronaca sentii che la lingua correva sciolta come un puledro. Cacchio. Albe’: non credevo a me stesso e alle mie orecchie. Pensai, sarà un caso; ma un caso non era».

Mi hai fulminato, per la miseria.

«I nastri vennero esaminati dal compianto Ignazio Schino della Rai. Dopo qualche giorno squillò il telefono a casa in via Carnia, quartiere Carrassi, e mi convocarono come prescelto radiocronista. Risposi: guardate che io sono balbuziente, tengo 22 anni, ho il problema. Che però svanì nuovamente appena mi rimisero il microfono davanti. Il 20 marzo 1976 avvertii mio padre: mi hanno preso per seguire il Bari, domani parto in trasferta. Lui gridò: Michele sei matto?! Gesù Cristo ti ha dato la disgrazia e tu vuoi fare ridere tutta la Puglia? Frase che dentro mi rimase. Arrivai in volo il 21 a Trapani, mezzogiorno circa. A casa avevo lasciato la radio sintonizzata su 100.500. Dio sa che faccia fecero ascoltandomi le mie sorelle Grazia e Nietta, mia madre Rosa, casalinga, e soprattutto papà Nicola, sarto».

Come nel film «Il discorso del re», con Colin Firth nei panni del re balbuziente Giorgio VI. Oggi sei la voce storica dei biancorossi su Radionorba, dirigi la redazione sportiva di Telenorba, sei direttore responsabile della testata online Bariseranews.it, hai superato i 40.000 seguaci su Facebook, spunti perfino nelle canzoni di rapper quali il Nano e Gotik, «U Baar nest».

«Il rapporto con i tifosi è di amore e di rispetto. Come centrocampista nella Valentino Mazzola del Centro sportivo italiano ero ciuccio ma frequento stadi da quando avevo sette anni, con mio padre. E continuo perfino nel pessimo San Nicola di Renzo Piano, astronave nella quale non riescono a vedere nulla manco le aquile dalla tribuna stampa. Quando per i quarant’anni di radiocronache pubblicai La mia voce in biancorosso per Adda editore di Bari gli ultras stesero per me un gigantesco striscione augurale sugli spalti. Per la duemillesima partita commentata è accaduto lo stesso a Trapani, dove tutto è incominciato. Ho avuto punti di riferimento come Enrico Ameri e Sandro Ciotti, grandi amici e estimatori come Nando Martellini».

Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo..!

«Lui, esatto, che ha dormito pure sul divano di casa da mia madre».

Poi Paolo Rossi, Gianni Morandi, quel tizio che pare più giovane di tuo figlio Niccolò, 26 anni, che studia e fa l’arbitro.

«Eh, quasi quasi. Per me, oltre che amico, resta il più grande cantante italiano. Mi cita sui social elencando i miei buoni consigli per il nuovo anno: mangiare la metà, muoversi il doppio, ridere il triplo e fare l’amore quando si può. Durante un concerto mi ha fatto arrossire salutandomi sui versi di Quant’è bello lu primm’ammore di Tony Santagata, che insieme per l’occasione avevamo rivisitato. Ho patito anche amarezze durante lo scontro con Eugenio Fascetti che vide i colleghi solidarizzare con l’allora tecnico del Bari, escluso Martellini che lasciò la sala stampa. Ma ho riso anche tanto. Ho gioito, sono stato premiato a Berlino nel 2015 in occasione del riconoscimento conseguito dal film Una meravigliosa stagione fallimentare. La vita mi ha sempre offerto l’opportunità per trasformare un danno in fortuna. Una “buona vita”, come auguro ai follower sui social. E ho poco da rimproverarle».

·        Michele Santoro.

FULVIO COLUCCI per lagazzettadelmezzogiorno.it il 25 giugno 2021. «Non è stata una scelta, ma una condizione in cui mi sono trovato: avevo tra le mani una storia importante e non avendo una trasmissione televisiva ho scritto un libro». Michele Santoro spiega la genesi di Nient’altro che la verità, (Marsilio editore, 19 euro) libro concepito insieme a Guido Ruotolo, già giornalista della Stampa e del Manifesto. 

Santoro, il suo rapporto con i libri non è ordinario né banale. Ce lo racconta?

«Scrivere non è stato il mio core-business da quando ho smesso di lavorare per la carta stampata. La mia scrittura oggi è una scrittura-montaggio: più cinematografica, televisiva, che letteraria. Poi esiste un elemento di pudore: se c’è tanta gente che scrive libri, lo faccio anche io? A me piace Pepe Carvalho, il personaggio di Manuel Vàzquez Montalbàn che bruciava i libri nella stufa, partendo dai più importanti. Certo non vorrei che nella stufa finisse un mio libro».

Immagine terribile…

«Sì, ma se fa freddo e hai bisogno di riscaldarti… La cultura è importante, produce ricchezza, ma il disagio è qualcosa di duro, impellente, c’entra con la sopravvivenza. E comunque la ragione per cui Pepe Carvalho brucia libri è lontana anni luce dai roghi nazisti». 

Come nasce «Nient’altro che la verità»?

«Idealizzavo un’inchiesta partendo dalla figura del superlatitante Matteo Messina Denaro e sull’evoluzione di Cosa nostra. Messina Denaro è l’“ultimo padrino conosciuto” che ha lasciato qualche minima traccia di sé. Da quindici anni, però, è scomparso dai radar degli investigatori: in Sicilia hanno utilizzato mezzi importanti per trovarlo, ma nulla. Lui è uno dei primi ad aver compreso l’importanza del digitale e ad aver familiarizzato con gli strumenti informatici. In alcuni affari “nuovi” come l’eolico si trovano sue tracce. Un latitante ha bisogno di risorse per restare in clandestinità. Così oggi può spostare soldi con una semplice scommessa on line. La mafia non è più quella degli anni ’80 e ’90; ha assunto altre forme. Quali? Ho parlato con diversi investigatori, ma non lo sanno. Il libro vuol far nascere una riflessione di questo tipo: è urgente tornare a parlare di mafia, capire in cosa si è trasformata». 

Come arriva a Maurizio Avola?

«Avola è legato a Messina Denaro: si autoaccusa di 80 omicidi e, parlando ai magistrati, cita il boss a proposito delle informazioni ricevute da quest’ultimo sul giudice Antonio Scopelliti. Il magistrato calabrese avrebbe dovuto sostenere in Cassazione la pubblica accusa al maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino, ma fu ucciso prima, nell’agosto del 1991. Il suo omicidio rappresentò la risposta del capo di Cosa nostra Totò Riina a Giovanni Falcone, che dirigeva all’epoca la sezione Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, sostenuta dal ministro Claudio Martelli: far ruotare i processi in Cassazione per evitare l’annullamento della sentenza di Palermo, confermata in Appello, con la condanna dei capi e dei gregari della mafia in base al “teorema Buscetta”. Grazie al lavoro di Guido Ruotolo siamo riusciti a incontrare Avola. Il suo è un racconto preciso dei fatti, in particolare della strage di via D’Amelio in cui morì il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta». 

Non sono mancate le polemiche

«Non mi hanno sorpreso, ma Avola ha raccontato prima ai magistrati e poi a noi la sua presenza sul luogo della strage. Se non fosse stato così, mi sarei preoccupato. La magistratura farà ulteriori verifiche, finora, però, non è stato smentito nulla. Il libro è nato dopo un importante lavoro svolto insieme a Guido Ruotolo: lettura delle carte processuali, dialogo con i magistrati. Le polemiche sono la reazione alle mie domande: cosa è diventata la mafia? 

Chi si interroga oggi su questo? Nient’altro che la verità è il tentativo di far emergere una riflessione diversa: gli strumenti in campo per combattere la “nuova” mafia sono vecchi, risalgono alla cultura dell’emergenza degli anni ’80 e ’90. Pensiamo che Cosa nostra voglia compiere nuove stragi, ma la mafia non ammazza più nessuno. Prolungando l’emergenza gli apparati ad essa legati si autoalimentano, continuando a ritenersi indispensabili, ma non è così. Se la mafia va combattuta con altri mezzi vorrei essere sicuro che le forze di polizia siano dotate degli strumenti utili; oltretutto non si può ancora impiegare otto anni per un processo. Per non parlare della mafia che si traveste da anti-mafia. Sciascia aveva visto giusto». 

La sua trasmissione, «Samarcanda», sostenne la lotta alla mafia, Giovanni Falcone, cercò di unire le forze e dar voce a cittadini come Libero Grassi. Una stagione irripetibile?

«Fu uno straordinario movimento che coinvolse la gente, non alcuni giornalisti e magistrati. Ma non essendo mai state realizzate le riforme, rimasti intrappolati dal crollo della Prima Repubblica e poi dal ventennio berlusconiano, con il gigantesco conflitto di interessi, siamo ancora prigionieri di quelle logiche. Il Paese è diventato piccolo, insignificante. Io e Falcone commettemmo due errori di valutazione. Il magistrato ritenne che la sua onestà, la sua trasparenza, fossero sufficienti a sferrare il colpo decisivo a Cosa nostra; io pensavo che Cosa nostra e i partiti di governo costituissero un blocco organico. Invece la mafia, come dimostra l’omicidio di Salvo Lima, decise di affossare Giulio Andreotti e la Prima Repubblica e di favorire nuovi equilibri politici».

A proposito di giornalismo, ha criticato la gestione della pandemia, quali errori sono stati commessi?

«Le istituzioni politiche hanno gestito la pandemia concentrando potere. La tentazione è stata irresistibile. Un bravo medico, nel curare il paziente, lo invita a reagire, respinge l’idea che l’ammalato resti lì inerte. Sin dall’inizio della pandemia bisognava chiedere alla società di reagire. Faccio l’esempio della Francia: lì reagire ha significato non chiudere le scuole, per esempio. Tutta questa esibizione della bravura degli italiani nel gestire la pandemia non mi convince quando poi ci sono realtà, come la Calabria, dove la sanità è un disastro. Il generale Figliuolo è bravo, ma non combattiamo una guerra. A me dà fastidio l’idea che i cittadini debbano ubbidire agli ordini. Anche perché, nel caso del Governo Draghi, non solo la democrazia perde terreno, ma la stessa credibilità del Governo: si parla della necessità di sveltire i processi, ma per la riforma della giustizia occorre una visione politica ed è difficile pensare di trovarne una condivisa da Lega e Pd. Draghi è un personaggio di grande spessore, i partiti intorno a lui no». 

E il giornalismo? Tornerebbe in Tv?

«Il giornalismo è più povero come la cultura. Siamo periferia dell’impero. Passati da Rossellini a Netflix, l’arte la governa un algoritmo e per i film che vogliono raccontare la realtà la vedo dura rompere il muro del conformismo. Ci sono eccezioni ma trionfa il dibattito social fatto di logiche da gruppettari anni ’70, mancando peraltro un social europeo. Chi dissente viene massacrato, attraverso la tastiera. Questo libro mi ha ridato il coraggio di riprendere a combattere per le mie idee e rivolgermi al Paese perché si torni a discutere, senza barriere e disprezzo. Tornare in Tv? Ci sto pensando, ho qualcosa in mente, ma se torno devo fare a modo mio».

Claudio Sabelli Fioretti per “il Fatto Quotidiano” il 12 maggio 2021. Solo i cretini non cambiano idea. Frase ormai famosissima anche se cretina. Sarebbe una frase intelligente se fosse completa. Perché se cambi idea devi almeno avere il pudore di dire chi o che cosa ti ha fatto cambiare idea. Io ero del Pci, ma poi c'è stata l'invasione dell'Ungheria e ho stracciato la tessera. Io facevo il tifo per la Lazio, ma poi mi accorsi che c'erano troppi fascisti fra i dirigenti e i giocatori. Io stavo bene con mia moglie, ma poi ho scoperto che mi tradiva col mio migliore amico. Io ero felice di lavorare in quel giornale, ma poi è arrivato un direttore antipatico. Cambiare idea è un diritto. Ve lo dico io che ho passato anni a intervistare gente sul tema dei "voltagabbana". Ricordo arrampicate sugli specchi mitiche come quella di Emilio Fede che, tifoso della Juventus, quando andò a lavorare per Berlusconi divenne tifoso del Milan perché - mi disse - si era accorto che il Milan giocava molto meglio. Così, forte delle mie esperienze passate, sono corso a leggere l'intervista che Michele Santoro ha rilasciato a Pietro Senaldi, direttore di Libero. Una delle tante interviste che sta rilasciando in questi giorni di giri della Madonna Pellegrina per lanciare il suo libro Nient' altro che la verità, basato sul suo lungo incontro con il mafioso Maurizio Avola, uno di quelli cattivi, uno che racconta di avere ammazzato 80 persone, compresi alcuni fra i giudici eroi della lotta antimafia. E che cosa scopro? Scopro che Santoro ha cambiato idea. Che oggi pensa che Berlusconi e Dell'Utri non c'entrano con la mafia, che la mafia comandava ai politici non il contrario, che fu un errore la trasmissione su Libero Grassi in staffetta con Maurizio Costanzo. E a ben leggere si scopre anche che secondo lui Matteo Salvini crea problemi alla sinistra molto più di quanto facesse Berlusconi. E che la Rai lottizzata era molto meglio della Rai di oggi. E che i grillini hanno contribuito a peggiorare il sistema che volevano abbattere. Solo i cretini non cambiano idea. Tutto merito di Maurizio Avola.

Felice Manti per "il Giornale" l'11 maggio 2021. A volte ritornano. L' ultima sera in cui Michele Santoro aveva varcato gli studi Mediaset c' era ancora la lira. Ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, l' ex conduttore di Samarcanda e Moby Dick è sembrato perfettamente a suo agio. Il suo libro sul pentito di mafia Maurizio Avola ha spaccato l' antimafia rossa, i giornali si sono messi a cercarlo, ha dispensato interviste e commenti taglienti sulla giustizia. Santoro è così, prendere o lasciare. Ricorda quando a 18 anni la sua casa era stata perquisita per alcune soffiate su Piazza Fontana «Avevo 18 anni, vidi la polizia alle 5 del mattino, con i mitra. Mio padre ferroviere, mentre rovesciavano i cassetti di mia madre con dentro le mutande, mi guardava, come a dire cosa hai fatto, poi ha capito». Si parla di mafia e di giustizia. La tesi che dietro le stragi di Capaci e Via D' Amelio non ci fossero i servizi segreti, sostenuta da Avola con colpevole (e sospetto) ritardo, non trova aderenze con carte e atti dei tribolati processi sulle morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tanto che ancora l' altro giorno a Tommaso Labate del Corriere della Sera Santoro si era arreso all' evidenza: «La mano sul fuoco non la metto per nessuno». Quale migliore scenario, quello di un giustizialismo alle corde con i suoi esponenti finiti nella polvere, per sparigliare le carte? «Cosa nostra è sparita nel nulla? Noi non sappiamo cos' è diventata, parliamo di quello che era trent' anni fa». Poi difende Avola: «Ha ucciso 80 persone ma non è un mostro - e Porro lo contesta subito - Il bene e il male non sono così separati, sono bivi nei quali ci troviamo». Sulle stragi di Capaci e Via d' Amelio assolve il Cavaliere: «La mafia non ha preso ordini da Berlusconi. La sua statura come politico è fuori discussione, come i suoi giganteschi conflitti d' interessi». Poi si rimangia l' idea che i servizi non c' entrassero nulla. «Non ci sono le prove». Dopo aver ipotizzato un possibile format Rai-Mediaset come quello con Maurizio Costanzo negli anni '90 su Libero Grassi - suo pallino anche nel libro - scorrono le immagini del linciaggio mediatico contro Falcone. «Pensavo che si fosse fatto strumentalizzare con il Palazzo e da Andreotti, ormai non più organico a Cosa nostra. Ho sbagliato», è la sua scusa. Al direttore del Giornale Sallusti che lo rimprovera di aver già dato credito a pentiti come Massimo Ciancimino Santoro risponde che senza i pentiti non sapremmo niente. «Sì, ma di quelli affidabili, ribatte Sallusti». «Ma io non posso verificare, tocca alla magistratura farlo», sibila. «Non ha certo bisogno di dimostrare quanto è autorevole nell' antimafia - dice al Giornale il massmediologo Klaus Davi - Anche se la sua provocazione su Avola può essere discutibile lui l' ha usata per riproporsi nel sistema mediatico e ha vinto anche questa volta. Che la sua tesi sia vera o meno è totalmente ininfluente. Con tutto il suo peso ha saputo imporre il suo racconto a un mondo, quello degli antimafiosi, che era diventato asfittico e autoreferenziale, sterile». E quando Porro lo accusa di aver dato spazio ai grillini, come «quelli che applaudivano i nemici di Falcone» lui si inalbera. «Era l' Italia delle battaglie referendarie, del maggioritario, dell' antimafia come frontiera indispensabile». Non è vero, dice ancora Sallusti, hai creato tu la cultura del sospetto, il giustizialismo, l' odio mediatico. «Mai stati forcaioli», ribatte Santoro. Sallusti e Porro sorridono. Sipario.

Quarta repubblica, Alessandro Sallusti contro Michele Santoro: "Tu eri divisivo, cosa sono state le tue trasmissioni". Libero Quotidiano l'11 maggio 2021. "Non la vedrete più questa televisione". Michele Santoro e Alessandro Sallusti, faccia a faccia da Nicola Porro a Quarta repubblica, guardano con un sorriso pieno di nostalgia lo stralcio della mitica puntata di Servizio Pubblico del gennaio 2011, quella della indimenticabile intervista di Silvio Berlusconi. Il Cav contesta a Santoro la presenza di Marco Travaglio, "10 condanne per diffamazione", il giornalista che gli rinfaccia "E Sallusti allora cos'è?", l'ex premier che costringe il direttore del Fatto quotidiano ad alzarsi per poi spolverare e pulire la poltroncina su cui si si siederà. In una parola: cult. "Quella scena di disprezzo per il suo interlocutore pensavo che fosse la fine di Berlusconi, invece gli ha regalato la simpatia dei suoi sostenitori", ricorda Santoro con un misto di rammarico e divertimento. "Con Berlusconi c'era lui che combatteva in campo e c'eravamo noi che contrastavamo Berlusconi, finito questo dualismo non c'è stato più niente". E Sallusti conferma: "Tu eri talmente divisivo che il giorno dopo la tua trasmissione la gente comprava i giornali di destra per leggere le nostre critiche".  Critiche che Sallusti ribadisce anche da Porro: "Ritieni violento che un signore come Berlusconi abbia subito 24 processi oppure sei convinto che la violenza è solo quando lo Stato è venuto a casa tua?".  E ancora: "Nelle tue trasmissioni è nata la cultura del sospetto, il giustizialismo e anche l'odio". In una parola: la culla del Movimento 5 Stelle, il "travaglismo" imperante, il giornalismo e la politica a braccetto con le Procure. Santoro prova a difendersi: "Sono i demeriti dei partiti che hanno portato i 5 stelle al successo, Grillo ha fatto il suo lavoro". Quel che è certo, conclude Santoro, è che "la violenza di Stato è scritta nella Dna della nostra Repubblica. Questo Paese dopo il crollo del muro aveva la possibilità di liberarsi e Berlusconi ha colto questa possibilità, ha avuto un'intelligenza tattica che gli altri non hanno avuto".

Ecco la svolta di Santoro: così rivaluta il Cav. Federico Giuliani il 10 Maggio 2021 su Il Giornale. Ospite a Quarta Repubblica su Rete4 Michele Santoro ha parlato, tra le altre questioni, di Silvio Berlusconi e degli anni del berlusconismo. "Fare l'ospite non è nella mia natura. Già stare seduto mi mette in imbarazzo". Dopo 22 anni Michele Santoro torna in uno studio Mediaset. Il giornalista e scrittore è stato intervistato da Nicola Porro a Quarta Repubblica, il talk show dedicato ad attualità politica ed economica. Santoro ha parlato, tra l'altro, della sua ultima fatica Nient’altro che la verità (Marsilio), testo in cui si narra la storia del killer mafioso Maurizio Avola. "Questa volta ho deciso di parlare con il pubblico in tutte le sue articolazioni perché il libro merita di essere segnalato all'attenzione. Mi auguro che qualcuno lo legga", ha esordito Santoro. Che, nel corso della puntata, ha ricordato approfonditamente anche dei suoi trascorsi e delle sue battaglie con Silvio Berlusconi.

Il Bene e il Male. Il giornalista ha quindi raccontato un episodio della sua vita per dare l'idea dell'aria che si respirava ai tempi della strage di Piazza Fontana. "Avevo 18 anni. In Italia si è seguita subito la pista anarchica. Sono state perquisite 50 case. Una di queste era la mia. I militari sono entrati. Cercavano esplosivi perché un informatore ha detto che da me potevano trovarli", ha dichiarato Santoro. "La mia strada poteva diventare quella di tanti ragazzi che poi hanno scelto la strada di terrorismo. Il bene e il male non sono così separati. Sono bivi nei quali ci troviamo nella nostra vita", ha aggiunto. All'epoca, ha sostenuto Santoro, c'era uno Stato "che non poteva considerarsi completamente dalla parte del bene". "Oggi è facile ricostruire quei fatti e dividere in buoni e cattivi. La violenza che ho subito io poteva portarmi a scegliere la strada del terrorismo. Poi ho avuto la fortuna di avere una educazione e mi sono salvato. Ma altri non si sono salvati", ha chiosato l'ospite di Porro. Santoro ha quindi tratteggiato il killer Avola: "Dire che è un mostro vuol dire impedirci di pensare tutto ciò che c'è stato intorno a lui. Le complicità, i magistrati, i poliziotti, l'insieme di una società corrotta che quando questo andava a scuola, solo perché non era bravo, lo consideravano uno senza capacità. Quindi quando incontra il male, il male gli dà il rispetto. È lì che diventa gigantesca la sua passione per il male".

Mafia e toghe sporche. Nel suo libro Santoro sostiene che è la Mafia a decidere. "Lo ribadisco. Non nego che ci siano complicità, servizi segreti, politici che cercano forme di collusioni, favoreggiatori. Ma Cosa Nostra non aspettava gli ordini che arrivavano dai servizi segreti. Altrimenti tutto sarebbe stato deciso dallo Stato", ha sottolineato Santoro, stroncando una narrazione per anni predominante. "Berlusconi non ha dato l'ordine di fare stragi e non le ha ideate", ha quindi aggiunto il giornalista. Per quanto riguarda il nodo "toghe sporche", se fosse vero che la magistratura è inquinata da una loggia più o meno segreta, saremmo di fronte a un problema per la democrazia. "Dopo il crollo della prima repubblica non abbiamo mai creato una nuova repubblica. Il passaggio di Berlusconi non ha portato riforme che sarebbero servite. Abbiamo perso 20 anni. Non c'erano partiti seri. Oggi siamo agli sgoccioli", ha commentato Santoro.

Gli anni del berlusconismo. Santoro, parlando del passato, ha tuttavia ricordato come ai tempi di Berlusconi ci fosse un dualismo – da una parte la visione del Cav, dall'altra quella di chi lo combatteva – mentre oggi "non è rimasto più nulla". Nel frattempo il Movimento 5 Stelle è salito al potere "senza avere la cultura per governare un Paese" perché "i partiti si sono sgretolati". Il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, presente in studio nelle vesti di ospite, ha incalzato Santoro con alcune domande. "Ritieni violento che un signore come Berlusconi abbia subito 24 processi oppure sei convinto che la violenza è solo quando lo Stato è venuto a casa tua?", ha chiesto Sallusti al suo interlocutore. Santoro ha quindi parlato specificatamente di Silvio Berlusconi, "rivalutandone", in parte, la figura: "La sua statura è fuori discussione, così come le sue capacità politiche. Berlusconi ha avuto un'intelligenza tattica che gli altri non hanno avuto. Oggi i protagonisti della politica sono tutti minori tranne Draghi. Che però non viene dalla storia politica italiana". A detta di Santoro, insomma, ci troviamo in una democrazia "molto più in crisi di allora perché non siamo mai usciti dalla prima repubblica".

Libertà e politicamente corretto. Per quanto riguarda le polemiche che hanno travolto i comici Pio e Amedeo, Santoro sembra avere le idee chiarissime: "Non possiamo ridurre il linguaggio di due comici a quello del politicamente corretto. Questa è la fine della libertà. Possiamo guardarli o non guardarli, ma non possiamo giudicarli col metro con cui giudicheremmo un politico". Santoro ha infine parlato del lockdown causato dalla pandemia di Covid-19 e della sofferenza derivante dalla mancanza di libertà. "Non mi piace delegare la mia vita al potere. Ciò che è successo è “siamo noi che gestiamo la vostra vita. Fidatevi di noi”. L'espropriazione della creatività di ognuno di noi, in futuro, farà dei danni".

Pietro Senaldi per "Libero quotidiano" il 10 maggio 2021. C'è più dignità in un killer della mafia che in un dirigente della Rai di oggi? La domanda sale dalla lettura di Nient' altro che la verità, il libro (Marsilio, 19 euro) con cui Michele Santoro si riprende la scena dopo anni di «rassegnata emarginazione». Si tratta di un'inchiesta, un saggio, un'intervista che sconfinano nell' autoanalisi su Cosa Nostra, l'Italia, la televisione e il giornalismo, frutto di una serie di incontri tra l'anchorman e Maurizio Avola, ottanta omicidi sulle spalle, artificiere della bomba che uccise il pm Paolo Borsellino e autore con il boss tuttora latitante Matteo Messina Denaro dell'assassinio del giudice Antonino Scopelliti. «Avola è un freddo, non si fa sconti e non chiede perdono, una sorta di Eichmann della mafia, sa di sangue come io so di Sud, e quando lo vedi avverti il peso di tutti i suoi morti; incontrarlo mi ha fatto capire che dovevo iniziare un percorso di autocritica, il libro si regge sull'alternanza tra la mia e la sua storia». «Io come lui, due scappati dalla famiglia d'origine per entrare in un'altra», scrive Santoro nelle prime pagine del libro, destando lo scandalo dei perbenisti. «Mi ha colpito il fatalismo con il quale Avola si racconta, come se uccidere sia il suo destino immutabile» spiega l'autore, «e ho capito che lui è uno scienziato dell'assassinio, ma a muoverlo non è stata la sete di denaro o la disperazione, bensì la ricerca di rispetto e dignità, voleva l'approvazione della Famiglia Santapaola, ambiva a essere considerato il killer numero uno e a conquistare un posto nel mondo. Anche io, tutto quello che ho fatto nel giornalismo, l'ho fatto per ottenere rispetto, per difendere la mia dignità, il mio lavoro; ma ci sono riuscito solo in parte, visto che alcuni miserabili sedicenti dell'antimafia mi trattano da delinquente. Tanto per cambiare, aveva ragione Leonardo Sciascia: alla lunga le strutture emergenziali dell'antimafia si sono rivelate un intralcio al diritto e all'efficienza. Le similitudini con il killer naturalmente finiscono qui, con Santoro che lo immagina a preparare le bombe «con la medesima meticolosità che io mettevo nel costruire i servizi in sala-montaggio, cosa che ormai non si fa più, perché al giornalismo d' inchiesta si preferiscono i talk». Questione di costi sì, ma anche un fatto culturale, perché «oggi i leader politici sono piccoli, i funzionari Rai ancora più piccoli. È tutto più piccolo, in Italia e in Europa, tant'è che arriva la pandemia e il vaccino lo scoprono ovunque tranne che nell'Ue».

Dopo quarant' anni che studi la mafia, cosa hai imparato dall' incontro con Avola?

«La mafia delle bombe, quella pre-Tangentopoli, aveva capito prima dei magistrati e di noi giornalisti, che i partiti erano morti e non controllavano più la televisione. Quando con Maurizio Costanzo, nel settembre del '91, organizzai la serata Rai-Fininvest per commemorare Libero Grassi, Cosa Nostra avvertì il desiderio di libertà e rivolta che c'era in quel teatro ed emise tre condanne a morte: per me, Maurizio e Pippo Baudo, che invocò misure più dure e meno garantiste».

Perché fu così importante quella serata?

«Perché la mafia capì che Giovanni Falcone stava modificando le leggi per combattere Cosa Nostra. La politica, a sua volta, lo lasciava fare per salvarsi dalla rabbia popolare ed era disposta a cambiare le regole penali che da sempre favorivano i boss, ritenendoli responsabili di omicidi e attentati utilizzando le dichiarazioni dei pentiti».

Su Falcone lei ha cambiato giudizio?

«Lo ritenevo intrappolato nel Palazzo, strumentalizzato. Invece, introducendo con Martelli il principio della rotazione dei collegi giudicanti, che sottrasse a Carnevale il monopolio delle sentenze sui boss, stava condannando a morte se stesso e Scopelliti, al quale irritualmente aveva operato per affidargli il ruolo d' accusa nel maxi-processo a Cosa Nostra. Ma anche altri».

E quali altri?

«Proprio quei politici come Lima che noi ritenevamo formassero ancora un unico blocco con la mafia».

Vicende lontane...

«Fondamentali però per capire che la mafia raramente affilia i politici e comunque non prende ordini da loro, semmai li dà».

E tutte quelle puntate su Berlusconi e la mafia con il figlio del sindaco Ciancimino testimone d' accusa?

«Non ho mai inseguito teoremi personali. E quando ho capito che Ciancimino su alcuni punti nodali mi voleva portare a spasso sul nulla, l'ho mollato».

Però intanto ci hai dato dentro...

«Ma io sono un narratore, non un magistrato, e vuoi mettere la potenza del racconto del figlio di un mafioso di quella grandezza?».

A quale verità giornalistica, se non giudiziaria, sei arrivato?

«Che né Berlusconi né Marcello Dell'Utri abbiano potuto ordinare a Cosa Nostra le stragi.

Ma che Cosa Nostra ha valutato politicamente che con l'arrivo al potere del leader di Forza Italia si sarebbero creati equilibri a lei favorevoli. E a quel punto le stragi sono finite».

Però oggi la mafia non c'è, lo dice Avola nel tuo libro...

«Dice che non si sa più cosa sia; e per questo non la si riesce neppure a combattere».

E dov'è?

«Si è messa la cravatta, e una parte di essa si è travestita da antimafia. Oggi basta un click sul computer per spostare ricchezze immense...».

Perché la sua ricostruzione dell'assassinio di Borsellino non è piaciuta alla sinistra?

«Non confonderei la sinistra con i critici del racconto di Avola. La sinistra dibatte, non insulta. Chi mi critica sono dei gruppuscoli e persone che, per motivi nobili o meno nobili, hanno fatto del coinvolgimento dei Servizi Segreti nell' attentato la propria ragione di vita. Comunque a dare fastidio è stata la testimonianza di Avola, che racconta che nella strage di via D' Amelio non c' è la mano dello Stato».

Anche i magistrati oggi sono cambiati e non li riconosci più?

«Tutte le istituzioni della Repubblica sono andate in crisi con Tangentopoli. La magistratura, come i partiti, andava riformata, ma subito dopo Tangentopoli irruppe sulla scena Berlusconi».

L'uomo che ha fermato il fotogramma Italia per venticinque anni?

«La seconda Repubblica in realtà non è mai nata. La lotta tra Berlusconi e i suoi oppositori ha cristallizzato il Paese e la magistratura, che sembrava straordinariamente protagonista durante gli anni del Cavaliere, si è disintegrata appena lui è venuto meno».

Ha vinto la battaglia ed è morta con il nemico?

«Senza Berlusconi la magistratura ha perso il proprio profilo corporativo e i giudici hanno cominciato a scannarsi. La realtà fotografata dal "pentito" Palamara, a parte le sue teorie bislacche sui complotti contro Berlusconi, è il punto più basso a cui sono arrivati i giudici dal dopoguerra a oggi».

Sistema è una parola di moda, la usano Palamara e Sallusti e la usano i censori di Fedez.

«Posso dirti cosa era una volta la Rai: capistruttura che erano dei produttori. Oggi abbiamo gente che sceglie dopo aver visionato cassette prodotte all'estero. Ai tempi di una sola rete c'era il varietà il sabato sera ma gli autori si sforzavano di cambiare ogni anno cast: Mina, la Carrà, la Pavone; si cercavano, si creavano nuove star ogni anno. Oggi, un format e un conduttore te li tieni all' infinito. I dirigenti Rai una volta erano, si ritenevano e agivano come responsabili di un prodotto culturale, non come servi delle star televisive, degli impresari e dei partiti».

Ma la Rai è sempre stata politicizzata...

«Io mi sono sempre battuto contro ma magari tornasse quella lottizzazione che nasceva dalle diverse visioni del mondo dell'universo politico. Raiuno cattolica e per le famiglie, Raidue più laica e giovane, Raitre per dare al popolo comunista uno spazio per esprimersi che non aveva mai avuto: non erano semplici spartizioni di poltrone e potere come oggi. Abbiamo sostituito la visione del mondo con le clientele».

Hai il dente avvelenato perché sei fuori dal sistema?

«No, posso continuare a rimanere fuori. Ce l'ho con i partiti che hanno ucciso la tv pubblica. E mi hanno deluso i grillini: hanno annunciato la rivoluzione e poi hanno aderito al sistema che c'era prima, peggiorandolo. Con il risultato che la Rai non è mai stata così conformista e marginale e l'Italia mai così esposta al colonialismo culturale americano. Netflix, Amazon, ma non esiste una piattaforma dei film europei, abbiamo una produzione provinciale e marginale, che mi ricorda i melodrammi napoletani di Mario Merola».

Ma cosa ti aspettavi che facessero i grillini, non dirmi che pensavi che avessero i mezzi culturali e le capacità manageriali per cambiare qualcosa?

«Questo no, però potevano chiamare qualcuno in grado di aiutarli, anche persone non d'accordo con loro. Certo, il problema è che se metti uno come me a dirigere un tg o una trasmissione, poi non puoi chiamarlo per dirgli cosa deve fare».

Non ti è mai venuto il dubbio di essere stato estromesso quando non eri più funzionale a certi interessi?

«Io non sono mai stato funzionale. La sinistra non ha fatto barricate quando venni cacciato. Paolo Mieli era candidato alla presidenza della Rai e gli fu sufficiente dire che avrebbe richiamato me e Biagi perché la sua candidatura saltasse nel silenzio della sinistra, e cosa ha fatto la sinistra? Ha trovato un altro candidato. Si è ricordata di me quando le ho portato un milione di voti contro Berlusconi girando l'Italia come una Madonna Pellegrina per sostenere l'Ulivo, senza neppure i santini da distribuire».

Allora sei arrabbiato con la sinistra?

«Sono arrabbiato con Bersani, che si piegò all' avvento di Mario Monti perché l'Italia non poteva fare debito. Cosa stiamo facendo oggi?».

Dicesti che Renzi era l'ultima occasione della sinistra: treno perso?

«Non mi ricordo di averlo detto. Dire che Renzi è di sinistra è azzardato. Aveva una visione riformista ma ha confuso le esigenze del Paese con una battaglia personale; e questa è stata una strategia perdente. Senz' altro è il politico più dotato che si è visto negli ultimi tempi, il più dotato e dinamico, ma non ha una visione e ha limiti culturali impressionanti».

Troppo berlusconiano per essere amato dalla sinistra?

«Non è solo una questione di modi, ma anche di idee...».

Ci sono similitudini tra l'antiberlusconismo e l'antisalvinismo?

«Salvini mette la sinistra di fronte ai suoi limiti più di quanto non faceva Berlusconi. Silvio potevi attaccarlo sulla giustizia, sui conflitti d' interesse, sulle donne. Salvini lo devi battere sulla politica e per farlo ti serve una visione del mondo che alla sinistra manca».

Letta non ce l'ha?

«La sinistra non può essere rappresentata solo da qualche campagna per i diritti. Ci sono i problemi del lavoro, dei giovani e della redistribuzione della ricchezza».

Così è, anche se non vi pare; tanto per tornare in Sicilia, dove questa storia è iniziata.

«Perché io sono allergico alle divise fin dai tempi del militare», come Avola; solo che il mafioso da soldato ha imparato a usare gli esplosivi e «io a nuotare in una vasca con i pesci rossi».

E. Pa. per “Libero quotidiano”. Il ritorno di Michele Santoro in Tv, ospite di Otto e mezzo, il programma de La7 condotto da Lilli Gruber, lascia il segno. Parlando del caso Grillo, l'ex conduttore di Servizio Pubblico, ha affermato di essere molto «interessato dalla vicenda», rimarcando come siano «fuori discussione sia le cazzate di Grillo che il suo dolore, due aspetti che non meritano un dibattito». Fatta la premessa, Santoro ha affondato il colpo. «Voglio capire perché questi ragazzi sono stati sentiti un mese dopo la denuncia della ragazza. Qualcuno mi deve dare una risposta a questa domanda», afferma il conduttore televisivo, «la cosa è stata tenuta in silenzio, mentre i Carabinieri andavano in giro a fare domande questi ragazzi intanto si sono preparati e poi dopo un mese sono stati interrogati già con gli avvocati e una versione stabilita e in comune». Dubbi, quelli esternati da Santoro, quanto mai legittimi, presentati dall'ex volto della Rai e de La7, con la sua solita verve. «Spero che sia falso e che qualcuno stesso stasera mi smentisca», chiosa Santoro. Rivolto ai 5 Stelle, il giornalista non nasconde la sua profonda delusione. «Mi sarei aspettato che l'era dei grillini avrebbe portato una trasgressione violenta nella Rai, invece mi sembra che si siano accomodati alle proprie poltrone, piuttosto che riformare il servizio pubblico. Mi sarei aspettato Travaglio direttore del Tg1, perché così si fanno le rivoluzioni, ma evidentemente ognuno sta meglio dove sta». Infine un passaggio sul suo futuro professionale. «La televisione è ovvio che mi manca, è il mio lavoro, e io mi sento ancora capace di fornire qualche contributo», afferma Santoro, «ma evidentemente un personaggio come sono io, in una situazione dove il conformismo si estende ovunque come una cortina di fumo, è un po' difficile. Ma io non mi sento un reduce, delle cose le avrei da dire anche oggi».

Nello Trocchia per “Domani” il 4 aprile 2021.

Santoro, la pandemia ci ha migliorati?

Siamo un paese schiacciato dall’emergenza, dove gli spazi democratici si sono ridotti e questo dovrebbe essere un problema per tutti. Hanno trattato gli italiani come un popolo da teleguidare, da rinchiudere in casa, in una zona rossa perenne. L’ospedalizzazione è stata la sola risposta, hanno chiuso le scuole mentre vaccinavano i docenti, non c’è un esperimento di ripartenza, un’idea, qualcosa che coinvolga le persone, ma solo il loro confinamento. Poi c’è una cosa che mi ferisce particolarmente di questo anno che ci lasciamo alle spalle.

Cosa?

L’informazione non doveva fare così schifo come ha fatto nel racconto della pandemia. Il pensiero critico non trova cittadinanza. Il dibattito politico, culturale e scientifico viene ridotto alle linee imposte dal governo. 

E la Rai?

Più che servizio pubblico, parlerei di servizio di ordine pubblico. La Rai è indietro. Sono rimasti due monumenti, Vespa e Berlinguer, che vanno in onda per il cognome che portano, ma salvando Report, non c’è comunque nessuno in grado di cambiare l’agenda politica, di incidere veramente. Ormai la produzione di senso si è spostata dalla tv alla rete. Non è solo questione di informazione, anche nella fiction vedo lo stesso appiattimento. La fiction Rai è ridotta a una collezione di commissari. Tutto ciò che è problematico è stato espulso pregiudizialmente. I produttori propongono e offrono ciò che i dirigenti sono già disposti ad accettare.

Hai programmi da proporre alla Rai?

Io l’ultima cosa che ho proposto alla Rai era un lavoro critico sui social, fatto non da me, ma da cronisti giovani. Non l’hanno preso neanche gratuitamente. Non saprei cosa proporre e a chi. L’ultima volta ho visto Fabrizio Salini (amministratore delegato Rai, ndr), gli ho offerto gratuitamente nove anni di programmi di cui detengo i diritti a condizione di rendere disponibili in rete anche gli altri programmi di proprietà Rai che ho realizzato. Non l’ho più sentito.

Tra poco si rinnovano i vertici, sei pronto?

No, sono loro che non sono pronti per uno come me, ma se mi chiamano per dare idee su nuovi programmi, anche di approfondimento, ci sono. Gli ultimi che hanno prodotto hanno fatto l’uno per cento. 

Ma non salvi neanche La7?

Una volta l’ho chiamata Cnn all’amatriciana e una collega del tg di Mentana si è offesa. In realtà amatriciana è un sugo povero e immediato con poca spesa e ottimi risultati. È una televisione dove per mettere un microfono nuovo… una fatica. Per diventare Cnn devi avere uffici di corrispondenza, realizzare reportage. Sono costretti dentro un genere unico: il talk, immediato, che non teme l’usura del tempo e che costa poco.

Li guardi?

Certo, ma non troppo, a pezzi. Piazzapulita ha qualche similitudine con i miei programmi, ma quello che non trovo è lo spirito con il quale andavamo in onda noi, quello dire qualcosa di diverso. Giletti, a modo suo, fa una sorta di tv popolare, però mena. A volte ripete cose che mi piacciono meno, però rispetto al potere ha un atteggiamento più irriverente, da cane da guardia.

Che programma faresti oggi?

Se facessi oggi un programma di attualità ripartirei da Samarcanda, ma non sarebbe un’impresa facile, ci vorrebbe un dirigente come Angelo Guglielmi (all’epoca direttore di Rai3, ndr) alle mie spalle. Non prendevamo mai in considerazione quello che dicevano i telegiornali. I politici se non c’erano era meglio anche perché un programma si fa con le idee e non in base all’ospite che hai. Abbiamo portato in tv il dramma dei sequestri, il tema mafie, il caso vaccini, 30 anni prima del movimento No Vax. Dopo quella puntata arrivarono quattro sacchi di lettere sugli effetti indesiderati. Oggi c’è un conformismo impressionante. 

Chi avresti voluto intervistare?

Bettino Craxi. Io per i socialisti sono stato una bestia nera, ma sono stato molto vicino al loro spirito laico rispetto a quello cattocomunista. Quando io lasciai la Rai per andare a Mediaset, Craxi mi fece avere un messaggio chiaro che io stavo sbagliando visto che, a suo avviso, ero l’unico che poteva dare filo da torcere ai comunisti. Sono passati anni, abbiamo fatto battaglie, ma il conflitto d’interessi è ancora lì sia sul fronte berlusconiano, sia sul fronte della sinistra che sulla cultura, in tutte le case di produzioni, presenta figli, mogli e parenti.

Berlusconi è tornato decisivo?

Per me è drammatico che siamo ancora a Berlusconi. Come è drammatico che vada al potere un comico, Beppe Grillo, e abbiamo il servizio pubblico più controllato della storia senza un programma di satira sul potere. 

A proposito di politica, ti piace il governo Draghi?

È un governo mostro, ma neanche quando l’hanno incaricato avrei immaginato Di Maio e Carfagna insieme. I partiti dovevano stare fuori e recuperare credibilità, ma Draghi era l’unica scelta possibile. Giuseppe Conte è stato mitizzato, è una persona di buona volontà, ma senza statura politica. Quel governo non si capiva con chi stava, ha comprato mascherine dalla Cina grazie a faccendieri e questo lo sanno tutti anche i servizi segreti. C’erano persone influenti all’esterno che condizionavano il governo e lo spingevano, un po’, verso la Cina, e, un po’, verso la Russia. Quando c’era Trump, Giuseppi era perfetto, ma oggi la pandemia è diventata geopolitica, bisogna scegliere con chi stare. Draghi nasce per dare certezze sul piano internazionale per essere sicuri di dove vanno soldi e investimenti. Nasce per una questione di necessità, non certo per i capricci di Renzi. Renzi è indifendibile, però questo è un paese che ha fretta di liberarsi degli individui fuori dall’ordinario. Renzi ha una velocità di pensiero pari alla sua ignoranza. Velocissimo a vedere i problemi, ma senza gli strumenti culturali per gestire il cambiamento si finisce male. La sua riforma costituzionale non mi piaceva, ma era evidente che se l’avessimo bocciata saremmo tornati indietro. Perfino Fedez, vicino al M5s, aveva i miei stessi dubbi. Se avesse vinto il sì, il M5s avrebbe governato da solo senza fare accordicchi. 

Oggi cosa è diventato il M5s?

All’inizio il M5s era una gigantesca domanda di rinnovamento nei confronti delle istituzioni e degli altri partiti. Questo è stato determinato anche dal fatto che la sinistra, quando è caduto Berlusconi, poteva governare il paese, ma non non l’ha fatto. Bersani, oltre le metafore delle mucche e del giaguaro, non ha proposto una visione di paese. Oggi il M5s è un partito alla ricerca di un leader. Ha smarrito i principi dell’uno vale uno e cerca un leader in Conte. Ma Grillo ha già detto cosa dovrebbe fare il leader, ma perché non lo fa lui?

Serviva Letta al Pd?

Letta è il Draghi del Pd. Spero che lui non si illuda che nominando Serracchiani dia un’identità al partito. Se queste operazioni restano di facciata, il potere reale è altrove. Ormai il Pd sembra un sindacato del ceto medio, una corporazione. I dirigenti sono tutti eleganti, di buone maniere, ma le radici dove le hanno? Nel quartiere dove abito io, ai Parioli, vanno fortissimo, ma nelle periferie?

A Roma voteresti Gualtieri?

Non lo so. A Roma vorrei capire con quali idee vogliono rimettere mano alla città, è già anomalo che la scelta del candidato stia arrivando così tardi. Il Pd deve iniziare dalla lotta alle disuguaglianze e si fa solo ridando centralità ai diritti. Il diritto alla giustizia non può essere solo riservato ai ricchi. Cento euro in più non cambiano le cose, ma se io ho un asilo dove mandare mio figlio mi cambia la vita. Se io posso andare a mare a Ostia in un mare balneabile, la mia vita migliora in modo decisivo. Ci vuole la transizione, ma vera.

Allora voti Raggi?

No. Ha introdotto qualche elemento di novità sulla questione legalità, ma Roma dal punto di vista culturale si è spenta. Non ha nulla di paragonabile a una metropoli come Parigi o Londra. Cinque anni fa le ho fatto un favore non votando, questa volta cercherò di non ripetermi.

·        Milo Infante.

Milo Infante, la magnifica ossessione per Denise Pipitone. Il conduttore ha una spropositata passione per i delittazzi. E, a forza di indagare, è arrivato a fare partire una commissione parlamentare d'inchiesta in Senato sul caso della bambina scomparsa. Francesco Specchia Libero Quotidiano il 07 dicembre 2021.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Miilo Infante, a volte, sembra uscito da un film di Alfred Hitchcock di quelli con Jimmy Stewart protagonista che inciampa nelle ossessioni e cade nei labirinti della memoria. Infante, milanese, classe ’68, vicedirettore Rai, è il conduttore di Ore 14, il programma di Raidue che viviseziona -con dettaglio investigativo e senza beceraggine- la cronaca nera. E, da secoli, da giovanissimo cronista vive nell’ossessione di ritrovare, possibilmente viva, Denise Pipitone, la ragazzina scomparsa nel 2004 a Mazara del Vallo, uno dei casi mediatici più oscuri della storia della Repubblica. Me lo ricordo, l’Infante, con qualche ruga in meno sulla faccia da educatissimo vicino di casa, quando nei pomeriggi televisivi si faceva largo tra la politica, la cronaca bianca e le paillettes rosa shocking dei fotogrammi dell’Isola dei famosi, alla ricerca della verità sulla ragazzina affogata in un abisso assurdo. Sono passati sette anni, per lui, di gioie e disgrazie: dai riconoscimenti di pubblico e di critica (culminati con un Ambrogino d’oro, la massima onorificenza milanese) alla causa vinta alla Rai per demansionamento; ma ora è tornato fiero e vendicativo proprio nel ricordo di Denise. E, a furia di trovare nuovi documenti, di sfruculiare su nuove testimonianze, di ravanare sui depistaggi e sui fatti “che non tornano”, non solo ha fatto riaprire il caso, “ a causa della pressione mediatica”, come sentenzia bizzarramente la Procura di Marsala. Ma è riuscito, l’Infante, attraverso la Commissione Affari Costituzionali del Senato, a spingere per avviare una Commissione d’inchiesta sul “Caso Pipitone” presentata dagli onorevoli Alessia Morani e Carmelo Miceli. Dice lui, visibilmente commosso davanti alle telecamere: “La commissione serve per dare giustizia ai genitori della piccola e per mettere il dito sulla piaga dei minori scomparsi”. Che, per inciso, in Italia sono 40mila. Da che mi ricordo è la prima volta che un programma del pomeriggio nato dal nulla –ma che cresce d’ascolti ogni giorno- riesce a smuovere una commissione interparlamentare. Naturalmente hanno subito fatto al conduttore l’inopportunità del gesto; e non solo in Rai, ma pure parte della stampa, tra cui il critico Aldo Grasso sul Corrierone che non vedeva l’utilità di un cold case riaperto via tv. Milo è talmente educato che ha risposto abbozzando un sorriso. Lo conosco bene. Per questo che non mi capacito perché, pur vantando una carriera solidissima e costruita sulla gavetta delle tv locali per sfociare in programmi nazionali di successo, Infante, da sempre in quota Carroccio (ha sposato la prima miss Padania), è misteriosamente trattato dalla politica come il figlio della serva. Personalmente questo lo ritengo questo un atout. Ma continuo a non spiegarmi perché la Rai -che oramai ha programmi serali dal 2% di share- non abbia mai pensato a lui come risorsa per il prime time. Anche quando faceva l’unico programma di servizio pubblico per ragazzi, Generazione Giovani lo piazzavano ad ore antelucane. Infante, per me, nutre un’inesplicabile passione per i delittazzi; conosce le sentenze e i casi a memoria; gode quasi fisicamente nella frequentazione di criminologi come la Bruzzone o il colonnello Garofano. Inoltre, l’uomo ha fatto della battaglia contro i femminicidi e la violenza alle donne un punto d’onore; quando la rete gli ha chiesto quante ore dedicasse alle donne, lui ha risposto, sempre con garbo, “faccio prima a dire quanti minuti non gli dedico..”. Mi correggo. Infante mi ricorda sì un film di Hitchcock, dove però il protagonista non è Stewart, ma Luciano Rispoli…

·         Myrta Merlino.

Myrta Merlino e l’amore per Marco Tardelli: “Senza di lui impazzisco”. Alice Coppa il 24/06/2021 su Notizie.it.  Myrta Merlino ha raccontato dettagli e retroscena della sua storia d’amore con l’ex calciatore Marco Tardelli, a cui è legata dal 2017. Oggi Myrta Merlino è più innamorata che mai di Marco Tardelli: i due sono legati dal 2017 e da allora la loro storia d’amore non ha fatto altro che crescere. La conduttrice tv ha dichiarato che per amore nei suoi confronti Tardelli – che già la conosceva – si è trasferito a Roma in meno di 48 ore. Lei a sua volta ha dichiarato che avrebbe intuito subito di essere innamorata di lui, e che per questo oggi non vorrebbe trascorrere mai troppo tempo standogli lontana: “Ho fatto un mese e mezzo andando in onda sei giorni su sette: stavo impazzendo. Io ho bisogno di stare con Marco, di vivere Marco. Il mio lavoro conta, ma lui molto di più. Non posso rinunciarci. […] Stiamo male se non ci vediamo, se non stiamo vicini. I miei figli mi prendono in giro, ma io un amore così non l’ho mai avuto, nemmeno a 18 anni. Mi sono sposata giovane, dicendo ‘finché morte non ci separi’ senza manco capire cosa significasse. Ora ho chiaro in mente che cosa significhi: Marco è questo, da cinque anni”, ha dichiarato Myrta Merlino.

Stando a quanto rivelato da Myrta Merlino Tardelli le avrebbe confessato di essere innamorato di lei già da 15 anni durante il loro primo incontro. “Uscimmo una sera a cena e dopo 48 ore lui si era trasferito a vivere a Roma. Rimasi frastornata da tanta audacia. Mi confidò che era innamorato di me da 15 anni. Mi disse persino come fossi vestita la prima volta che mi vide e mi confidò che non si era mai fatto avanti perché ero sposata. Lui è un uomo perbene. L’avesse fatto avremmo passato più tempo insieme, questo è il mio grande rimpianto. Anche se forse non era il momento per me”.

Myrta Merlino: la vita privata. In passato Myrta Merlino è stata sposata con Domenico Arcuri, che è stato il Commissario straordinario per l’emergenza Covid. Dalla loro relazione è nata la figlia Caterina. La giornalista ha avuto anche i due gemelli Giulio e Pietro Tucci da una sua precedente relazione, ma oggi sembra aver trovato definitivamente la felicità accanto a Marco Tardelli. 

Da Oggi.it il 23 giugno 2021. «L’amore mi ha regalato una pace che non avevo. Sono diventata sicura. Mi esprimo meglio anche nel lavoro. Avevo una maschera, ora non più… Adesso mi sono liberata». Myrta Merlino, per la prima volta, racconta a OGGI, in edicola da domani, il suo amore per Marco Tardelli: «Ho fatto un mese e mezzo andando in onda sei giorni su sette: stavo impazzendo. Io ho bisogno di stare con Marco, di vivere Marco. Il mio lavoro conta, ma lui molto di più. Non posso rinunciarci. Stiamo male se non ci vediamo, se non stiamo vicini. I miei figli mi prendono in giro, ma io un amore così non l’ho mai avuto, nemmeno a 18 anni. Mi sono sposata giovane, dicendo “finché morte non ci separi” senza manco capire cosa significasse. Ora ho chiaro in mente che cosa significhi: Marco è questo, da cinque anni». E rivela: «Uscimmo una sera a cena e dopo 48 ore lui si era trasferito a vivere a Roma. Rimasi frastornata da tanta audacia. Mi confidò che era innamorato di me da 15 anni. Mi disse persino come fossi vestita la prima volta che mi vide e mi confidò che non si era mai fatto avanti perché ero sposata. Lui è un uomo perbene. L’avesse fatto avremmo passato più tempo insieme, questo è il mio grande rimpianto. Anche se forse non era il momento per me».

Da liberoquotidiano.it il 25 febbraio 2021. Domenico Arcuri non piace a nessuno, neppure a Vittorio Sgarbi. Ed è proprio il critico d'arte, ora in corsa per Roma, a rompere un tabù a L'Aria Che Tira. Il commissario per l'emergenza coronavirus è anche l'ex marito di Myrta Merlino. La conduttrice, nonostante Arcuri sia stato il vero protagonista di questa pandemia, si è ben vista dal nominarlo. Fino a quando non ha avuto in collegamento su La7 Sgarbi. “Guardavo i messaggi arrivati su di noi, sono molto positivi”, ha confessato il parlamentare quando la conduttrice gli ha chiesto cosa stesse facendo con il suo cellulare. Parole che hanno ingolosito la giornalista: “Sono anche per me?”. “Sì, sì - ha subito replicato -. Tutti dicono che sei bella, buona e gentile e non capiscono come hai fatto a vivere col commissario, perché sei in uno stato d’emergenza e invece tu devi vivere una vita serena. Ero io adatto a te”. Una battuta che ha creato imbarazzo in studio. La stessa Merlino ha tentato di cambiare discorso, senza però lasciare "impunito" l'ospite: “Sgarbi ti odio, ti odio!”, ha tuonato. Lo scorso novembre, interpellata da TvBlog proprio sul tema Arcuri e sull’opportunità di intervistarlo, la Merlino aveva ammesso l’esistenza di un "ostacolo": “C’è un problema che ha a che fare con la mia vita privata: ho tre figli che condivido con Domenico. Ma di mezzo ci sono tre ragazzini, che sono già affaticati perché la mamma è in tv ogni giorno, il padre è sulle prime pagine dei giornali… ci manca solo che ci mettiamo a fare le cose insieme in tv. Non ci ho neanche pensato, per rispetto alla serenità dei miei figli”. Ecco dunque spiegata la reale motivazione che costringe la Merlino a stare alla larga dal "tema Arcuri", nonostante questo sia sulla bocca di tutto il governo visto il flop nella gestione della pandemia.

"Come hai fatto a vivere con Arcuri?", "Ti odio", Vittorio Sgarbi punzecchia Myrta Merlino. Botta e risposta a tratti imbarazzante tra Vittorio Sgarbi e la conduttrice de L'Aria che tira sulla questione Arcuri, ex compagno della conduttrice. Novella Toloni - Gio, 25/02/2021 - su Il Giornale. Imbarazzo in studio nella scorsa puntata de L'aria che tira, il format di attualità e politica condotto da Myrta Merlino su La7. Tema della serata la pandemia e il piano vaccini. Il nome del commissario all'emergenza straordinario, Domenico Arcuri, ex compagno della conduttrice, non viene menzionato dalla giornalista, ma a farlo ci ha pensato Vittorio Sgarbi. Il candidato a sindaco di Roma è stato ospite nel finale di puntata e non sono mancate le scintille con la padrona di casa. Durante il collegamento Vittorio Sgarbi ha avuto modo di parlare anche della sua candidatura alla poltrona di primo cittadino della capitale. Quando l'attenzione è stata catturata dal suo telefonino e la conduttrice non è riuscita a trattenersi: "Che fai conti per i sondaggi?". Immediata la replica di Vittorio Sgarbi: "No, guardavo i messaggi arrivati su di noi, sono molto positivi". Myrta Merlino, sorpresa, ha chiesto all'ospite se i messaggi riguardassero anche lei. Una domanda che ha stuzzicato Sgarbi, che non si è lasciato sfuggire l'occasione di punzecchiare un po' la conduttrice sul suo recente passato: "Sì. Tutti dicono che sei bella, buona e gentile e non capiscono come hai fatto a vivere col commissario, perché sei in uno stato d’emergenza e invece tu devi vivere una vita serena. Ero io adatto a te". Le parole di Sgarbi hanno creato un certo imbarazzo in studio per la Merlino che, sulle prime, ha cercato di tamponare la situazione ("Lo sapevo, prima o poi ci dovevi arrivare") provando a cambiare totalmente discorso. Ma poi si è fatta trasportare dall'enfasi e ha deciso di replicare all'ospite: "Sgarbi ti odio, ti odio!". La questione Domenico Arcuri per la giornalista e conduttrice de L'Aria che tira, infatti, è decisamente ostica. Un conflitto di interessi in piena regola visto il matrimonio passato e i tre figli che la coppia ha avuto. Intervistata da TvBlog qualche mese fa, Myrta Merlino non aveva nascosto la problematica legata a una possibile intervista di Arcuri: "C’è un problema che ha a che fare con la mia vita privata: ho tre figli che condivido con Domenico. Sarebbe molto difficile sia per me, sia per lui. Ma se fossimo solo io e lui, potrei dire: “Ci provo”, giornalisticamente ci sta".

·        Monica Maggioni.

L'ex Presidente Rai. Chi è Monica Maggioni, la giornalista in pole position per la direzione del Tg1. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Novembre 2021. Monica Maggioni è in pole position per diventare direttrice del Tg1. Le nomine Rai si sono sbloccate oggi, dopo un’accesa discussione tra i partiti. Al Tg2 dovrebbe rimanere Gennaro Sangiuliano al Tg3 Simona Sala. Le proposte di nomina presentate dall’amministratore delegato Carlo Fuortes ai consiglieri in vista del cda in programma domani a Napoli. Le proposte dell’ad devono essere sottoposte al parere del cda, che è vincolante in caso di maggioranza dei due terzi. Alla direzione di Rainews potrebbe arrivare Paolo Petrecca. Al Gr Radio e Radio Uno, al posto di Sala, l’attuale direttore del Tg1 Giuseppe Carboni. Alla Tgr confermato Alessandro Casarin, mentre a Raisport l’indicazione dell’ad è Alessandra De Stefano al posto di Auro Bulbarelli. Maggioni attualmente è Responsabile del nucleo produttivo relativo al programma Sette Storie di Rai Uno. La sua retribuzione lorda nel 2020 è stata di 240mila euro. La giornalista è nata a Milano il 20 maggio 1964. È laureata in Lingue e Letterature Moderne. È stata inviata speciale, scrittrice, documentarista, direttore di telegiornale e Presidente Rai. Alla Rai è entrata nel 1992 dopo aver vinto il concorso per il primo Master della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia. Ha lavorato a Lione alla redazione di Euronews, tra il 1994 al 1996, e quindi è tornata alla Rai a TV7, il settimanale di approfondimento del TG1. Ha seguito la Seconda Intifada; la guerra in Iraq; le crisi in Siria, Iran, Afghanistan, Birmania; la campagna elettorale di Barack Obama per la corsa alla Casa Bianca; la crisi economica. Ha realizzato e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia due documentari: Ward 54 e Out of Tehran. Ha intervistato il Presidente della Siria Bashar Al-Assad. Nel 2013 è stata chiamata a dirigere il polo all-news composto da Rainews24, Televideo e Rainews.it. Ha vinto prestigiosi premi giornalistici come il Biagio Agnes e il Luigi Barzini. È componente del CdA dell’ISPI e dell’European Council on Foreign Relations, membro dell’Aspen Institute e della Trilateral Commission. È docente di Storia dei Conflitti contemporanei, Facoltà di Scienze Politiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. I suoi libri: Dentro la guerra (Longanesi, 2005), La fine della verità (Longanesi, 2006), Terrore mediatico (Laterza, 2015); è autrice inoltre di diverse pubblicazioni tra le quali Twitter e jihad (ISPI, 2015). Da agosto 2015 a luglio 2018 è stata Presidente della Rai-Radiotelevisione Italiana “con l’incarico di sviluppare relazioni e strategie con Istituzioni e Organismi internazionali compresi i vertici dei Broadcaster di servizio pubblico”, come si legge sul sito della Rai. L’Ansa scrive che la lite tra i partiti sarebbe andata avanti fino alle ultime ore prima dell’invio dei curricola con insistenti voci di rinvio. La nomina di Maggioni al Tg1 sarebbe stata contestata dal Movimento 5 Stelle. I consiglieri stamattina a Viale Mazzini si sarebbero rifiutati di incontrare l’ad Carlo Fuortes contestando di non essere stati coinvolti nelle scelte. Le proposte dell’ad devono essere sottoposte al parere del cda, che è vincolante in caso di maggioranza dei due terzi.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        Natalia Aspesi.

Chi ha inventato l’età delle donne. Natalia Aspesi su La Repubblica il 28 giugno 2021. Ovviamente sono stati gli uomini che, al cinema o in letteratura, le fanno morire o sparire prima che invecchino. Eppure qualcosa sta cambiando, avete presente Meryl Streep? L'età delle donne l’hanno inventata gli uomini, e le donne, anche le più soavi sorelle tuttora in guerra contro il patriarcato, o meglio i suoi rimasugli, quella battaglia lì non avevano mai pensato di combatterla. Amici o nemici, amati amanti o mariti in fuga, per gli uomini la donna in quanto tale esisteva e ancora esiste sino a una certa età dai limiti fluttuanti, ma poi basta, sarà solo una buona nonnina o una rapace strega, dipende, se passa la pensione al nipotino che vuole andare al Billionaire o è una amministratrice delegata massimamente severa.

Maurizio Caverzan per la Verità il 26 giugno 2021.

Mercoledì, 23 giugno 2021.

Buonasera, signora Aspesi. Stamattina le ho mandato un messaggio…

«Sì, ha ragione. Ma non capisco perché vogliate intervistare una citrulla ex comunista come me».

Perché abbiamo stima dell’intelligenza e della curiosità.

«O perché volete farmi dire qualcosa contro i vostri avversari?».

Dirà quello che vuole.

«Ma il vostro giornale a dispetto della testata scrive solo bugie».

Tipo?

«Non starò a fare l’elenco. E poi si sa che i giornalisti inventano. Solo noi bacucchi fedeli al giornalismo ci atteniamo ai fatti».

Lei è la Regina madre del giornalismo. Se si fida di un semplice suddito, l’accompagnerò per mano e credo che alla fine si divertirà.

«Non sarà mica una cosa a sfondo erotico».

Si sa dove si comincia non dove si finisce.

«Adesso non posso perché sto scrivendo la rubrica per il Venerdì di Repubblica».

Imprescindibile.

«Mi chiami domani».

Giovedì, 24 giugno, ore 12.

Buongiorno signora, avevamo un appuntamento.

«Ha ragione, ma oggi è il mio compleanno, sono subissata…».

Allora auguri. Come festeggerà?

«In casa di amici. Faremo festa in terrazza, sono piena di fiori, ma non ho più vasi dove metterli».

Quale desiderio esprimerebbe in questo giorno?

«Vorrei andare alla Rinascente a comprarmi delle mutande, molto caste. E cose per la cucina, piatti, posate. La casa mi piace moltissimo».

Aveva detto che ci sarebbe andata finito il lockdown.

«Non ce l’ho ancora fatta perché mi stanca stare in piedi. Però adesso, tra molti regali, ne ho ricevuto un bellissimo dal mio ex direttore Mario Calabresi. È un oggetto che si usa come un bastone e si tramuta in un seggiolino. Lo usano i giocatori di golf. Fantastico».

Le sono pesate le restrizioni?

«No, esco comunque pochissimo. Ricevo i film sul computer, volendo potrei non uscire mai. Ho sperimentato che stare sola alla mia età è bellissimo. Mi occupo solo di me, se non mi rompono le scatole i giornalisti».

Preferirebbe andare a cena con Mario Draghi, Al Pacino o Papa Francesco?

«Ovviamente con Draghi, un uomo meraviglioso da vedere».

Perché lo apprezza tanto?

«Mi piace che parli il necessario, come la Merkel. E che, sconvolgendo tutti, pur essendo considerato di destra, faccia politiche di sinistra. Se durasse potrebbe essere la salvezza del Paese, lo dico da ex comunista».

Da quando lo è?

«Da quando il comunismo non c’è più. In Cina, a Cuba... E neanche nello Stato di Kerala, in India».

Segno dei tempi?

«Nulla avviene per caso. Forse è il segno che la gente è diventata più egoista. Siamo disposti a fare la qualunque per un nuovo cellulare. Il mondo è peggiorato e quindi non si può più pensare al comunismo».

Che qualche danno l’ha fatto, da parte sua.

«Da noi no. Dobbiamo distinguere tra tirannia e comunismo. In Italia c’è stato un po’ di comunismo negli anni Settanta, che grazie a Dio ci ha portato lo statuto dei lavoratori. Della Russia non m’importa. Quella era una dittatura, tant’è che non c’era libertà di parola. Anche adesso, che non c’è il comunismo ma è al potere un ex dirigente del Kgb, i russi se non sono mafiosi stanno male».

È contenta che possiamo togliere la mascherina?

«Per me cambia poco perché esco raramente, data la decrepitezza. Alla mia età la mascherina dà fastidio.  Si sono sentite previsioni disperate di povertà. Invece, martedì volevo andare al ristorante con degli amici, ma non siamo riusciti a trovare un posto. Spero che i ristoratori paghino le tasse… A questo punto, i suoi lettori saranno disperati».

Sono opinioni sue. Si aspettava di finire nel mirino delle neofemministe?

«Direi di no, visto che sono più femminista di loro».

Che cosa le rimproverano esattamente?

«La mia generazione ha combattuto battaglie autentiche come la patria potestà, il divorzio, l’interruzione della gravidanza. E, con l’aiuto del Parlamento perciò anche degli uomini, le abbiamo vinte. Le femministe di oggi dovrebbero continuare, mentre vedo che si perdono sull’essere fluidi o binari, cose così».

Le rimproverano di aver scritto che è colpa anche dell’intransigenza islamica se Saman è finita male?

«La parola corretta non è colpa, ma responsabilità. Conosco l’islam solo in generale. So che in Pakistan il matrimonio forzato è reato. Perciò penso che questo delitto non sia dettato dalla religione ma da un clan. In Italia ci sono 150.000 pakistani e questa è la prima volta che accade. Mentre nelle famiglie italiane ammazzare le donne è normale».

Tra i pakistani non mi risulta sia la prima volta, quanto all’Italia è un crimine.

«Il delitto d’onore che consentiva ai mariti di ammazzare le mogli se traditi è stato cancellato solo nel 1981. In ogni Paese meraviglioso, compreso il nostro, resistono comportamenti orribili. Siamo troppo ignoranti per parlare di cattolicesimo e islamismo».

Le femministe le rimproverano di aver scritto che anche le mamme a volte uccidono?

«Ci sono processi e condanne. La madre di Cogne, la madre di Loris, in provincia di Ragusa, quella di Cosenza… L’infanticidio c’è sempre stato e c’era ancora di più finché non è arrivato l’aborto».

Resta da vedere se sia anch’esso soppressione di una vita umana.

«L’aborto è legge dello Stato, non riapriamo questa discussione».

Il femminismo storico mirava all’emancipazione della donna mentre quello di oggi si occupa soprattutto di questioni linguistiche?

«Penso che le donne abbiano ancora battaglie importanti da fare. È sbagliato limitarsi a protestare perché un uomo ci ha detto: “Stai zitta”. Basta replicare: “Stai zitto tu”. Non c’è più questa disparità. Quando avevo vent’anni e qualche maschione m’importunava per strada, mi arrestavo: “Lei ce l’ha troppo piccolo per infastidirmi”. Restavano terrorizzati e non mi seccavano più».

Ci si occupa di desinenze e di linguaggio schwa.

«Sono amenità. Amo l’italiano, che è una lingua meravigliosa da scrivere e da leggere. Dante non si occupava di queste cose. E anche oggi non lo fa nessuno, tranne due o tre invasati».

Però nei documenti pubblici si scrive genitore 1 e genitore 2.

«Abbiamo appena finito di dire che madri e padri uccidono i loro figli. Guardi anche quel bambino ritrovato in una scarpata del Mugello: voglio proprio vedere cosa viene fuori… Magari se aveva due papà o due mamme non capitava. Io sono cresciuta senza padre, tirata su da una madre e una zia, e sono cresciuta credo normale, per lo meno non infelice».

Perché scrivere padre e madre è discriminatorio?

«Sono sottigliezze inutili. Conta che ci siano buoni genitori. Se uno adotta un bambino è genitore di uno che non ha fatto lui. Se conta l’amore un bambino può essere cresciuto da tre zie o quattro fratelli».

Meglio da un padre e una madre. Secondo lei c’è troppo antagonismo tra i sessi?

«A volte manca la capacità di condividere le ragioni per essere una famiglia. Dopo un po’ la passione può diminuire, ma si continua ad amare quella persona perché è il padre dei tuoi figli, perché insieme si è costruito qualcosa di grande. Nel tempo, queste motivazioni contano più dell’essere innamorati. A volte mi sembra che questa responsabilità difetti e gli uomini vadano avanti per la loro strada».

Parlando del suo ruolo nel prossimo 007, l’attrice inglese Lashana Lynch ha detto che stiamo superando la mascolinità tossica.

«Cosa ce ne frega di un’attrice inglese, non stiamo mica parlando di Freud».

Anche Michela Murgia la usa spesso.

«Che brutte cose legge. I mariti che ammazzano figli e mogli non esprimono una mascolinità tossica?».

Cosa c’entra? Quelli sono squilibrati arrestati e condannati. Mascolinità tossica riguarda l’intero sesso maschile.

«È un discorso che non m’interessa, voglio parlare di argomenti importanti non di queste cagate».

Ha ripreso ad andare al cinema?

«Non me la sento ancora. Sono stata in Salento a riposare. Non so se ci andrò più, preferisco leggere i classici».

Gabriele Salvatores dice che il politicamente corretto ingabbia la libertà d’espressione.

«Non ci vuole Salvatores per dirlo. Il politicamente corretto mi fa ridere, io sono scorrettissima. In America c’è il puritanesimo, mentre in Italia per fortuna siamo cattolici e i peccati ci vengono perdonati».

Le tante minoranze stanno diventando troppo intransigenti?

«Basta non ascoltarle. Io sono molto insultata nei social, ma me ne frego e continuo a scrivere quello che voglio, nei limiti della legge».

Cosa pensa del fatto che Franco Nero ha chiamato Kevin Spacey nel film che sta girando a Torino?

«Penso che Spacey sia un bravissimo attore».

Discriminato dal #metoo?

«Non m’interessa. Rivederlo in un film, sia pure di Franco Nero, mi farà piacere».

Cosa l’aiuta a mantenere questa vivacità intellettuale?

«La curiosità mi ha consentito di lavorare pur non avendo studiato. Anche da bambina acquistavo le riviste femminili e collezionavo le foto delle attrici. La mamma mi accompagnava al cinema. Ho sempre desiderato uscire dalla mia vita e occuparmi della realtà. Leggo ancora quotidiani e settimanali stranieri, libri americani e inglesi. Da ragazza, facendo la cameriera a Losanna e a Londra ho imparato il francese e l’inglese, e la sera andavo a scuola. È stato un periodo divertente, con molti fidanzati».

Quando è scoccata la scintilla del giornalismo?

«Tornata a Milano, un ex fidanzato che lavorava alla Notte, ricordando le mie lettere, mi suggerì di provare a scrivere e mi mandò a una mostra di cani a Bellagio: “Tanto alla Notte pubblicano tutto”».

E da lì…

«Ho capito che scrivere mi piaceva. Provenendo da una famiglia miserevole il massimo dei miei sogni era lo stipendio per potermi comprare le calze anziché usare quelle smesse da mia sorella. Ho iniziato a scrivere per scherzo».

E ha proseguito sul serio. Le dispiace non aver avuto figli?

«Tutt’altro. Non li ho voluti. Intanto, non mi piacciono i bambini. Poi non so se sarei stata una buona madre e se avrei amato talmente i figli da non lavorare più. Ma lei deve riempire tutto il giornale?».

Siamo alla fine, le piace Enrico Letta?

«Mmmh, non posso dire che lo adoro. È una brava persona, ma sono stanca delle brave persone. Preferisco persone che incidano, anche se oggi la politica non conta nulla. Contano solo Amazon e queste cose qui. La grandiosità dei consumi decide tutto. È anche inutile dirsi di destra o di sinistra».

Cosa vuol dire oggi essere di sinistra?

«Purtroppo nulla perché la sinistra non c’è più. È stato un bel sogno, il sogno di aiutare la gente, di essere insieme, un po’ come il cristianesimo. Era una forma laica di religione. Oggi siamo sotterrati dalla finanza e dal consumismo. E ci dobbiamo barcamenare tra centro, centrodestra e destra estrema... Basta, sono stanca».

Click.

La Verità, 26 giugno 2021 

"Femministe vittimistiche. Biancaneve? Faccia la p......a". Le "stoccate" di Natalia Aspesi. Martina Piumatti il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Dal neofemminismo vittimista alle storture della cancel culture, alla politica ridicola, alla stampa polarizzata, fino all’’amore’ per Draghi. Nessuno “si salva” da Natalia Aspesi. Insultata dalle neofemministe da social perché ha osato bacchettarle. Vista con sospetto dai nuovi maître à penser dall’ideologia formato hashtag. Lei, Natalia Aspesi, 92 anni e femminista da cinquanta, non si tira certo indietro. La giornalista de La Repubblica contrattacca con stile, impartendo una lezione di politicamente scorretto che infilza le ipocrisie diffuse su tutte le questioni che scottano. Fedez? “Un episodio privo di valore per gli omosessuali”. Ddl Zan? “Preferisco leggere l’Ulisse di Joyce”. Biancaneve e il consenso al principe? “Ma basta. Faccia la puttana e si diverta”. A ilGiornale.it tutte le stoccate di una femminista vera.

A giudicare dalle critiche al suo pezzo, il femminismo sembrerebbe morto inseguendo i like?

“Non guardo i like, sono qualcosa di irrilevante e non mi interessa cosa pensano sul web. Queste sedicenti neofemministe, non è che mi hanno criticata, hanno proprio chiesto la mia testa. Siccome sono molto anziana e ho vissuto una vita di cui sono abbastanza soddisfatta, vedo tutto da molto lontano e la critica mi fa sorridere, perché poi sono anche molto presuntuosa. Io penso sempre di esser meglio, capisce? Per cui le critiche le leggo volentieri e non ne tengo conto”.

Catcalling, bodyshaming, body positive: sono queste le nuove battaglie del femminismo?

“Sono tutti termini che copiamo dall’America e di cui non abbiamo neanche la traduzione. Non ci appartengono. Sono solo etichette che consentono di parlare, di scrivere, ma le battaglie sono altre. Questo nuovo modo di essere femminista dipende dai tempi. Quando lo eravamo noi, le donne non avevano nulla, non avevano le leggi che le proteggevano e se volevano sposarsi dovevano essere vergini. Noi abbiamo tracciato un terreno di libertà e adesso le libertà sono molto modeste, ecco. Non sono come chiedere la parità di compenso, di lavoro o la possibilità di fare carriera come si chiedeva prima, adesso si chiede che gli uomini non ti dicano: ‘Stai zitta’. Insomma, è questione di prospettive e queste mi sembrano piccole”.

Le ha definite “vittimistiche”.

“È un femminismo vittimistico perché non pensa mai di sbagliare. Ma anche noi donne commettiamo degli errori, non siamo perfette. Sono tutti discorsi abbastanza inutili che si fanno perché c’è quella maledizione dei social, che io non seguo per cui non ne so nulla. Non perdo il mio tempo a rincorrere i social, dove poi tutti dicono le stesse cose”.

Lei, cinquant’anni fa, avrebbe insultato una donna non in linea con le sue idee o il femminismo di allora era più democratico?

“Una volta si era più educati, non si insultava nessuno. Non sapevamo nemmeno come si faceva, non eravamo proprio abituati a insultare. C’era più solidarietà tra le donne, adesso le donne sono apparentemente solidali, ma in realtà si detestano. Fanno finta di essere tutte unite contro l’uomo cattivo, il patriarcato poi quando lavorano insieme si detestano. Negli anni settanta c’era un’unione mondiale vera delle donne. Adesso noi siamo molto provinciali, non ci interessa minimamente se negli altri paesi migliaia di donne vengono violentate o lottano perché non venga cancellata la legge che consente l’interruzione di gravidanza. Allora non è vero che siamo femministe. Siamo egoiste”.

Tutta colpa del Metoo?

“La parola colpa non fa parte del mio linguaggio. Per me nessuno è mai colpevole, parlerei più di responsabilità. Il Metoo è stato un movimento americano. Ha funzionato in quel contesto perché l’America è un paese molto moralista. Noi siamo molto più vivaci e cattolici. Chi pecca da noi ha la confessione e quindi il perdono. Gli americani appartengono soprattutto a gruppi protestanti ossessionati dal peccato, noi, invece, ce ne fottiamo del peccato. Andiamo a chiedere il perdono e con tre Ave Maria siamo a posto”.

L’applicazione indiscriminata di un principio anche giusto può essere pericolosa. Qual è il pericolo nel caso della censura contro il biografo di Roth?

“La cosa divertente è che parliamo sempre di molestia, ci scandalizziamo perché l’uomo di turno ha toccato il sedere, però, non si parla mai di sesso. Per esempio, nei libri di Roth si parla di sessualità, che non sarà quella di tutti ma è la sua, quella di un uomo che ha raccontato in modo meraviglioso cosa significa amare col corpo, non con l’etichetta”.

È un po’ quello che accade con le distorsioni della cancel culture: dai libri da censurare alle statue da abbattere o alle favole da riscrivere in modo conforme agli ideali, o etichette, di turno.

“Questa è una cosa vergognosa di cui non voglio neanche parlare, perché cancellare la storia è sempre sbagliato”.

In una società dove la difesa dei diritti si ribalta in gogna o bavaglio per chi dissente, il politicamente corretto seppellirà ogni coscienza critica?

“Io sono per la totale libertà, anche per chi dice delle cose su cui non sono d’accordo. Altrimenti tutto si appiattisce in una sola direzione. Adesso lei mi vuol dire perché tutti hanno scoperto di essere fluidi, non binari? Frase stupenda, che tra l’altro mi fa sempre pensare al tram”.

Che idea si è fatta del caso Pio e Amedeo? Conta la parola o l’intenzione?

“Io non guardo la televisione. Ma certo che hanno ragione: conta l’intenzione. Cosa me ne frega che non si può dire ‘negri’ se poi di fatto non li paghi adeguatamente per il lavoro che fanno. Chiamali come vuoi, ma poi considerali degli esseri umani. Si dà troppa importanza alla parola. Poi, certo, dipende da come lo dici. Se io dico al mio amico omosessuale ‘frocio’, lui non si offende perché siamo amici, ma se lo dico a un ragazzetto con disprezzo, ha ragione ad offendersi. Dipende tutto dall’intenzione, dal contesto. La guerra alle parole non serve e purtroppo la si fa per ignoranza. L’ignoranza è pericolosa, ma io sono vecchia e non me ne importa nulla”.

A proposito di parole, la Treccani ha appena cancellato dal dizionario online “cagna” e “zoccola” come sinonimi di donna. Era ora o no?

“Non si può dire che zoccola è sinonimo di donna, ma non andava cancellato. La storia non va mai cancellata. Anziché cancellare, si potrebbe inserire che in passato veniva usato in modo dispregiativo. Ora non lo usi più, sono parole vecchie. Adesso al massimo lo dici in inglese”.

E Fedez ha fatto bene a usare il palco del primo maggio per parlare del ddl Zan?

“Ognuno è libero di fare quello che vuole, ma non ha fatto nulla, né di importante né di straordinario. È la pochezza della nostra testa che fa si che un cantante dica ‘viva il ddl Zan’ e tutti i giornali poi ne parlino. È un episodio privo di valore nella storia degli omosessuali e nella quotidianità. A me non ha fatto nessun effetto”.

Lei è d’accordo con il ddl sulla omotransfobia e se non lo fosse me lo direbbe o avrebbe paura di risultare omofoba?

“Non lo posso dire perché non lo conosco e mi pare che non la conosca nemmeno la maggior parte della gente che ne parla. Io non l’ho letto e non mi pronuncio su una cosa che non conosco fino in fondo. Bisogna leggeralo e io non ho voglia. Preferisco leggere l’Ulisse di Joyce che occuparmi di queste cose. Sono molto vecchia e queste questioni su cui si dibatte tanto per me sono una grande perdita di tempo. Posso avere un mese, un anno, un minuto e allora mi occupo d’altro”.

E Letta le piace?

“A me per ora, perché poi gli amori finiscono, l’unico che piace è Draghi. Perché non è un politico ma sa fare un mestiere che non è il suo e che in questo momento sa fare solo lui. Che è anche quello di aiutare questo paese a uscire da queste discussioni politiche ridicole. Perché tanto è ovvio che alle prossime elezioni vincerà la destra. Per cui è inutile star lì tanto a litigare. Fate vincere la destra e poi tra dieci anni tornerà la sinistra. Se sarà capace di farlo”.

E la stampa come sta? C’è polarizzazione o confusione?

“La stampa si divide tra un giornale come il suo e i suoi accoliti e gli altri giornali quasi democratici come Corriere e La Repubblica. L’unico giornale che forse...no ma questo non lo posso dire”.

Me lo dica pure...

“No, no...non posso! Senta, io ogni giorno leggo The Guardian e New York Times. Praticamente i giornali italiani non li leggo, perché le diatribe tra Salvini e Meloni, o chi per essi, non mi interessano. A me piace il New York Times che in prima pagina ha sempre un enorme foto a colori: un punto del mondo che mi porta là dove la gente muore, non ha una casa o da mangiare. E mi ricorda il mondo, non la provincia italiana. Ormai dovremmo vivere nel mondo, basta un click e parli con uno dell’isola di Pasqua, e invece più possiamo raggiungere il mondo più parliamo del nostro villaggio”.

A proposito del nostro "villaggio", il caso del figlio di Grillo: cosa ci dice? Per la donna non è cambiato niente o invece sì?

“Io ho cominciato a seguire le cause di stupro negli anni Settanta, i processi erano veramente tremendi e gli avvocati difensori si scagliavano contro la vittima come fosse la vera colpevole. Oggi le cose sono molto cambiate. Infatti mi pare che nessuno abbia preso le parti del figlio. Per cui il video di Grillo mi sembra sia un tentativo di difesa ormai fuori tempo”.

Quote rosa: è una vittoria o una sconfitta?

"Intanto una una cosa di cui non si parla più. Sono roba del passato le quote rosa. Secondo me però erano giuste, perché non basta essere molto brave per ottenere quello che si merita. E siccome sono sempre gli uomini che scelgono la quota rosa è indispensabile. Era, perchè adesso non ci sono più".

Ministra o ministro?

"Non me ne frega nulla delle parole. Le parole non contano, l’importanza e avere quella funzione. Poi se ti chiami ministro, ministra, ministressao ministrona non ha importanza.

Cosa direbbe a Rula Jebreal che boicotta una trasmissione perché gli ospiti sono tutti uomini?

"Dipende dalla trasmissione. Se la trasmissione è sui baci voglio che ci siano sia uomini che donne. Invece, se è una trasmissione partitica e sono tutti uomini che dicono stupidaggini, mi va benissimo perché così almeno noi donne non facciamo una brutta figura".

Oggi solo “chi non ha più futuro” ha coraggio di dire quello che molti pensano ma non dicono?

“Io non avendo futuro posso permettermi di dire quello che voglio. Tanti non possono farlo, perché se dicessero qualcosa contro il proprio datore di lavoro probabilmente oggi verrebbero licenziati. Io non ho nulla da dire contro il mio direttore, però, se lo avessi probabilmente lo direi”.

È ancora possibile dire quello che si pensa o non essere conformi al politicamente corretto ci fa paura?

“Francamente mi sembra che si può ancora dire tutto. Se poi degli scemetti ti augurano la morte sui social chi se ne frega. Tanto poi non ti ammazzano”.

Se fosse Biancaneve, vorrebbe le venisse richiesto il consenso, come è stato invocato dalle neofemministe, o si riserverebbe il diritto di dare uno schiaffo una volta sveglia?

“Cosa vuole che me ne freghi di Biancaneve. Io non voglio parlare di queste cose insignificanti, e nemmeno divertenti tra l’altro. Questi discorsi minimi mi hanno davvero stufata. Basta Biancaneve. Faccia la puttana e si diverta”.

·        Paola Ferrari.

Da liberoquotidiano.it il 4 dicembre 2021. Paola Ferrari è una delle ospiti di Verissimo, in onda domani sabato 4 dicembre su Canale 5. La giornalista ha raccontato a Silvia Toffanin la scelta di abbandonare la sua famiglia quando aveva solo 16 anni: "Ho vissuto un incubo. Avevo una madre con dei problemi mentali seri: ha cercato per ben tre volte di uccidermi quando ero piccola. Poi, sono riuscita a difendermi e sono scappata via di casa. Ero sola, mio padre era assente e non avevo fratelli che mi proteggessero. È stato un trauma molto difficile da superare", ha confessato davanti alla conduttrice del programma, Silvia Toffanin. "Mi rammarico di non essere riuscita a perdonare mia madre, nonostante lei me lo avesse chiesto. Quando poi è venuta a mancare mi sono sentita in colpa. Su certe cose non riesco a voltare pagina. Non avevo istinto materno, volevo solo lavorare. La gravidanza non è stata un periodo felice, non ero me stessa. Alla fine, ho fatto pace con tutte le mie paure e quando sono nati i miei figli è nato un amore fortissimo", ha rivelato. Tra le tante confessioni anche quella di aver subito molestie sul lavoro: "Mi è capitato moltissime volte. Chi dice che non succede è ipocrita, perché è un mondo maschile. In tutti gli ambienti lavorativi le donne purtroppo devono fare i conti con delle proposte spiacevoli", ha spiegato.

Luigi Bolognini per "la Repubblica" il 6 settembre 2021. Malgrado l'1-1, giovedì un vincitore in Italia-Bulgaria c'è stato: la Rai, che ha ottenuto 7 milioni e 366mila spettatori, il 36% di share, che per una partita non fondamentale di inizio stagione è un ottimo risultato. "Questa Nazionale piace, e non solo perché è campione d'Europa, ma perché diverte e si diverte, è fatta da un gruppo di amici, è unita e unisce". Parla chi a questa squadra (e questa vittoria) ha associato il proprio viso, la giornalista Rai Paola Ferrari.

"Nel mio piccolo, nel mio minimo, l'Italia ha fatto entrare nella storia anche me che non c'entro nulla". E soprattutto ci entrerà ancora per poco: dopo i Mondiali del Qatar lascerà l'azienda. "Ma preferirei parlare di oggi, perché ai Mondiali dobbiamo ancora arrivarci e la partita di domenica è importantissima, la Svizzera ha fatto bella figura agli Europei e ha due partite meno di noi, se le vincesse ci andrebbe avanti. Il secondo del girone deve giocare i play-off. Visto com'è andata con la Svezia nel 2017, eviterei".

Sembrano lontane le notti magiche di luglio che lei ha cantato con toni quasi nazionalistici.

"Ora non siamo più la sorpresa. Oggi vedremo se è un appannamento o c'è qualche problema in più, forse in attacco. Gli Europei per me, come per tutti gli italiani, sono stati una liberazione, il poter tornare a festeggiare, in momenti così difficili. Un successo esaltante, grazie a cui siamo tornati a essere rispettati nel mondo. E io sì, sono fiera e orgogliosa di essere italiana". 

Eppure lascia. Sul serio?

"Credo che non tornerò indietro. Bisogna sapersi reinventare, nella vita, e non farlo troppo tardi, voglio fare tante altre cose, soprattutto con la Lucisano Media Group, di cui faccio parte. Scriviamo format per la tv, giriamo documentari. Se ne potrebbero fare anche sul calcio, che ora va raccontato così vista l'overdose di partite. Puntare sulle storie, penso a Messias, in tre anni dalla D al Milan. Ma vorrei anche mettere in piedi un allevamento di cani bovari bernesi. Di idee ne ho, dormo 5 ore a notte". 

A tanti spettatori mancherà. A uno no: Giampiero Galeazzi, che le ha dato della invadente e della prevaricatrice.

"Che dolore queste parole. A me invece Giampiero manca, anche se il rapporto non è stato facile. Però sì, sono stata un po' invadente e prevaricatrice, e lo rivendico. Perché è il solo modo delle donne di potersi fare avanti nel giornalismo sportivo, dove spesso siamo considerate solo ornamento, solo bellezza e mai competenza. E tante giornaliste donne, evito i nomi, ci sguazzano, puntano sul vestito succinto, sull'ammiccamento, e di calcio non sanno nulla, facendo del male a tutta la categoria. Un errore che fa parte di quello più generale: pensare che il calcio non sia cose da donne. È un caso se non c'è mai stata una donna a dirigere un giornale sportivo o Raisport? Vice, al massimo, ma direttrici mai. Non mi candido, eh? Io sono fuori, ormai".

A proposito, mai avuto problemi di #MeToo in Rai?

"Non sa quanti! Tutti tentativi, sia chiaro, tutti respinti con perdite. La prima volta ero a Portobello, il mio debutto tv, nel 1977. Enzo Tortora, signore come pochi, mi difese a spada tratta. Chi nega che certe cose in Rai esistano è un ipocrita". 

Per tornare alla Rai, fantastica estate tra Europei e Olimpiadi, ora c'è giusto l'Italia da seguire, il grande sport è su satellite e streaming.

"La novità di Dazn impiegherà un paio d'anni a essere digerita. Nel frattempo 90° minuto e Domenica sportiva svolgeranno un servizio pubblico ancor più importante per chi non può pagare gli abbonamenti alle piattaforme. Io avrei fatto qualche sacrificio in più per la Champions League, ma i soldi sono quelli che sono e le scelte aziendali pure. Spero che la gente riscopra la nostra straordinaria radio e che si cerchi di sparigliare facendo trasmissioni evento, racconti di storie. Oppure si vada su idee nuove, ad esempio a me diverte la Bobo Tv". 

Ha rimpianti professionali?

"Dopo essere stata la prima donna a condurre sia 90° che la Ds direi di no. Ecco, magari mi è dispiaciuto non poter condurre un talk show, avere una riconoscibilità maggiore che quella solo del giornalismo sportivo". 

E cosa le manca di più?

"La Domenica Sportiva, l'ho condotta nove anni ed era il mio sogno da bambina quando guardavo Alfredo Pigna, Sandro Ciotti, Gianni Minà, e c'era la straordinaria Maria Teresa Ruta. Arrivarci è stato davvero realizzarmi professionalmente". 

E se la Rai gliela riproponesse tornerebbe indietro sul suo addio?

"No. Anzi sì, ma a una condizione: presentarla assieme ad Amadeus".

Le è venuta la sindrome di Fiorello?

"Ma no! Abbiamo fatto anni assieme a Radio Deejay parlando di calcio, siamo amicissimi. Verrebbe una trasmissione di culto. Ma direi che ha troppo da fare. Oppure, già che l'ha citato, l'Edicola di Fiorello, il lunedì, tutta dedicata alla rassegna stampa dei giornali sportivi". 

Torniamo ai rimpianti. Forse essersi candidata nel 2008 alla Camera per La Destra è un errore che non rifarebbe.

"Ai tempi fu un errore sicuramente, diventai una donna di parte, il pubblico non capì. Adesso potrebbe essere una delle opzioni post-Rai, ho le mie idee e mi piace portarle avanti". 

Chiudiamo tornando agli inizi, a "Portobello". Ci racconti di più. Era una bambina.

"Beh 16-17 anni, ero una delle centraliniste. Facevamo 28 milioni di ascolti, Italia-Inghilterra ne ha fatti 20. Tortora era straordinario. E aveva un senso etico: non ci fece mai mettere la scollatura. Ed era sempre prodigo di consigli".

A lei cosa disse?

"Tenere la schiena dritta e la testa alta e guardare sempre la gente negli occhi, in senso fisico e metaforico. Mai dimenticato". 

E poi l'inizio del trionfo europeo. C'è stato un momento in cui ha capito che era fatta? Prima del rigore di Saka, ovviamente.

"Il clima di Coverciano, gli scherzi, gli abbracci tra Vialli e Mancini. Era come se aleggiasse qualcosa di soprannaturale. Però no, solo dopo l'errore inglese ho pensato che fosse fatta davvero".

Non aveva studiato qualche scaramanzia, qualche festeggiamento speciale?

"Se intende spogliarmi, non è il caso, ormai. Scherzi a parte sì, l'idea era di baciare Luca Toni, accanto a me. Tra l'altro è così un bel ragazzo... Ma non ho osato, è anche sposato. Però poi il bacio gliel'ho dato. A telecamere spente. E sulla guancia".

Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 23 agosto 2021. Risponde dalla Grecia, «ma sono già di ritorno a Roma, pochi giorni di mare». È con il figlio Alessandro, che lavora nella moda. Reduce dal successo degli Europei in Rai - «mi hanno dato grande energia» -, da allora Paola Ferrari racconta di non essersi mai fermata. Si sta occupando del documentario su Marco Pannella, Romanzo Radicale, con Lucisano media group: è tra gli amministratori della società. 

Nuovi progetti per dimenticare qualche dispiacere? Non c'è più lei alla guida di Novantesimo minuto: via anche Enrico Varriale, presenta Marco Lollobrigida.

«No, non c'entra: con Lucisano ho iniziato la mia avventura già da tre anni, perché volevo fare un'esperienza diversa, affrontare nuove sfide. Devo dire però che sì, un po' mi dispiace non essere a Novantesimo minuto, a cui sono molto legata. Ma è una scelta che volevo fare da tempo».

La scorsa stagione era andata bene.

«Mi ha dato molte soddisfazioni, ma non posso fare tutto io: sono stata confermata dal direttore di Rai Sport e dall'azienda come giornalista volto della Nazionale, fino ai mondiali. Ne sono orgogliosa». 

Ha già nostalgia del campionato?

«Sarà una stagione molto divertente e avvincente, soprattutto visti i ritorni di Mourinho, Sarri, Allegri».

Ma sulla Rai si vedrà ben poco.

 «Sono però convinta che sarà vero servizio pubblico, e che i programmi andranno molto bene: ci vorrà tempo perché gli italiani capiscano come vedersi le partite». 

In streaming.

«I miei complimenti a Dazn: ha investito sui diritti in tutto il mondo, sta affrontando un cambiamento molto complesso, storico, per la tv e il calcio. Ma si stanno consolidando su un pubblico giovane, mentre la stragrande maggioranza di quello televisivo è più maturo. Il mio pubblico mi ha da sempre rispettata. Sarà per questo che mi piace essere "più grande"».

I suoi sono programmi di successo, ma pure di critiche. Perché quando c'è lei non mancano mai?

«Ottengo sempre ottimi ascolti, anche grazie alla professionalità del team di Rai Sport, però è vero: sono anche molto criticata. Sono una persona che divide perché ha sempre detto quel che pensava. Ho dato spesso fastidio». 

Il calcio è ancora roba da maschi?

«E poi c'è il nome che porto di famiglia». 

Suo marito si chiama Marco De Benedetti. Suo suocero Carlo.

«E c'è pure chi non mi ha amato perché in passato ero legata a Daniela Santanché». 

 La critica che più la fa soffrire?

«Quella sulle luci, anche se mi sono messa una corazza e ci faccio autoironia». 

Perché?

«Perché è squallido che non si possa accettare che una donna non più ragazzina sia ancora bella». 

La sua è vanità, quindi?

«Il fastidio è più perché nessuno mi ha mai difesa e per la solita ipocrisia di questo Paese». 

Ipocrisia?

«Si parla tanto di critiche sull'aspetto fisico delle donne, ma io sono stata presa di mira in modo volgare e forte, anche da molti comici della sinistra, paladini delle donne quando fa comodo a loro. Ma sa che c'è? Che sulla professionalità è difficile attaccarmi: faccio i miei errori, ma cerco di essere preparata. E allora ecco: sei vecchia, se vieni bene è merito delle luci». 

Lei è coetanea della Berlinguer, della De Filippi, della Sciarelli

«È anche per le cose che ho letto e percepito in giro sul mio conto, che ho pensato che tra un po' sarà il momento di fare un cambiamento nella mia vita. C'è tanta invidia in giro». 

La sua amica Alba Parietti ha criticato Diletta Leotta che alla sua festa aveva donne vestite da lampadario, e anche a lei hanno dato dell'invidiosa.

«Povera Alba, di solito evita queste cose. Attaccano sull'età quando non sanno a cos' altro aggrapparsi, le solite stupidaggini. Ormai i giornali seguono i social, che ci stanno portando indietro con ragionamenti di cattiveria gratuita, anziché essere pagine di libertà». 

Il suo volto ha anche affrontato una malattia.

«Questa è un'aggravante delle critiche. Ho avuto un tumore maligno, in viso. Destabilizzante, per chi lavora in video. L'ho affrontato e sono stata fortunata perché non sono stata in pericolo di vita. La paura semmai mi è venuta dopo».

L'accavallamento alla Basic instinct è diventato un caso addirittura internazionale. C'è chi ha detto che l'ha fatto apposta.

«Ma lì non mi sono offesa, mi ha divertito. Semplicemente, non ci siamo accorti dell'inquadratura. Se l'avessi pensata, non mi sarebbe venuta così bene. Il resto delle puntate le ho passate immobile, terrorizzata (ride)». 

Quindi è proprio vero che lascerà la Rai dopo i mondiali in Qatar, o cercava conferme?

«Sono molto contenta di seguire la Nazionale, gliel'ho detto. Il mondo del calcio è però davvero molto misogino, continua a valutare le donne per l'aspetto fisico. Combatto da trent' anni per l'emancipazione della donna, ma le mie battaglie non sono state capite. Non ho più le energie, o meglio preferisco spenderle con chi può capire». 

La politica la corteggia da sempre. Non starà per cedere.

«Assolutamente no. Le battaglie importanti sono quelle sociali, fatte con la gente. La politica fa le leggi e i decreti». 

 Sente di aver mancato il bersaglio?

«In qualche modo ho raggiunto i miei obiettivi. Ci sono colleghe brave quanto me, adesso, e la Nazionale di calcio femminile ha trovato il suo spazio. Poi ogni tanto anche le donne di questo mondo fanno qualche scivolone».

Giampiero Galeazzi ha detto che non sentirà la sua mancanza.

«Son contenta che abbia detto che sono stata invadente: sì, ho sgomitato, per conquistarmi un ruolo e metter la testa fuori dall'acqua. Ne sono orgogliosa. A 16 anni ero fuori di casa, o mi mantenevo o studiavo. Ho sempre lavorato». 

Come si rende lo sport meno maschile?

«Serve un direttore donna alla guida di un quotidiano sportivo, o di una testata televisiva. Quello sì che sarebbe un cambiamento dirompente». 

Più quote rosa?

«Ho collaborato ai tempi al disegno di legge sulle quote, ma quella fase è passata. Non siamo panda da proteggere, le battaglie importanti sono per la parità salariale e gli asili nido. Il resto è altra ipocrisia». 

Esiste una questione di merito in Rai?

«Di Rai non parlo, rispetto le regole. Ci sarà tempo per farlo, in futuro». 

La prendo in parola. Le chiedo allora quante volte le hanno dato della raccomandata.

«Per molte persone sono sempre stata "la moglie di", anche se ho fatto tutto per non esserlo. Ma chi lo ha detto non conosce il mio passato. Mio marito l'ho conosciuto a 36 anni, me lo presentò Alba, ero già alla Domenica sportiva e avevo già conquistato molto, dagli inizi nelle tv private, il Telegatto a Telelombardia».

Il suo matrimonio l'ha penalizzata o aiutata?

«L'aver accanto un uomo da 25 anni con il quale mi confronto mi ha di certo aiutata, non il suo nome. Non voglio essere ipocrita a dirlo, è così. Ci sta, fa parte del gioco. Ci sono persone che hanno avuto il compito di farmi fuori per motivi politici. Ma so bene di essere molto fortunata. Le critiche mi tengono viva, sono fumantina e divento più reattiva quando mi arrabbio». 

Ha perso la causa contro il procuratore Mino Raiola: disse di lei, tra varie parolacce, che era sposata con una persona che «va a letto e pensa ai soldi».

«Non solo: ho dovuto pure pagare le spese processuali. Ma ho fatto ricorso. Raiola convocò una conferenza stampa a casa sua per parlare male di me e del fatto che non potevo fare un discorso etico su un comportamento di un suo assistito».

Donnarumma.

«Sono stata insultata. Ma non voglio commentare la sentenza perché ho fiducia nella magistratura. Non l'ho trovata giusta, per questo ho fatto appello». 

Raiola è potente.

«Non m' interessa, sono fatta così: quando qualcosa urta la mia coscienza parlo. Ci sono cose nel mondo del calcio che non mi piacciono». 

Ad esempio?

«Che il Paris Saint Germain diventi una squadra-accozzaglia di fantastiche star, quando lo spogliatoio dovrebbe essere sudore, fatica, talento».

Ci dice su cosa bisticciate, con il marito, di argomenti politici?

«No, non le parlerò neanche di politica perché sono una giornalista del servizio pubblico. Ci sarà un tempo anche per quello, magari. Le posso solo dire che amo le persone, più che le idee. Odio le preclusioni. Non dico nulla di nuovo: sono in una famiglia che ha idee diverse dalle mie. Spesso ho avuto discussioni, anche con mio suocero, e non mi sono mai tirata indietro. Sono una donna libera, orgogliosa del suo pensiero. Se uno dice una boiata, lo riconosco, da qualsiasi parte stia, e viceversa se dice qualcosa che ritengo giusto». 

Dopo il Covid ci si divide di più?

«Siamo un Paese generoso, in realtà. La politica ha il compito di far fronte alle tante difficoltà che ci incattiviscono. Abbassare le tasse, creare posti di lavoro, ad esempio. Ma non mi faccia uscire dal mio ruolo».

 Le domando se ha rimpianti.

«Vengo da una famiglia umile, non ho mai finito gli studi. Avrei fatto l'università. Sono attratta da chi ha cultura». 

 Che cosa avrebbe studiato?

«Prima di restare affascinata da Oriana Fallaci e decidere di diventare giornalista sognavo di essere procuratore della Repubblica. Ho un senso di giustizia che mi perseguita da sempre. Ma mi sarebbe piaciuto anche conoscere il greco antico, l'archeologia, la storia Sento di sapere sempre troppo poco. Vorrà dire che non andare più in onda tutte le domeniche mi permetterà di conoscere di più».

Giampiero Galeazzi e Paola Ferrari: botta e risposta al curaro. Da leggo.it l'11 agosto 2021. Botta e risposta tra due big del calcio Rai in tv. Giampiero Galeazzi commenta così la decisione di Paola Ferrari di lasciare la rai dopo i Mondiali del Qatar: «Non ne sentirò molto la mancanza», sottolinea l'ex canottiere e giornalista al Corriere dello Sport. «Ci ho lavorato parecchio insieme. Ultimamente era molto migliorata. È sempre stata troppo invadente. Monopolizza lo spazio, ha prevaricato il suo ruolo. Prima non si preparava, ora ha imparato a farlo». Non è mancata la risposta della Ferrari che su Instagram punge il collega con stile moderato e rispettoso: «Giampiero, io sento la tua mancanza. Sei stato un Maestro per me. Hai ragione: sono stata invadente. Ho voluto invadere il vostro mondo di uomini che consideravano il calcio loro territorio. E sono fiera di averlo fatto».

Giampiero Galeazzi contro Paola Ferrari: “Sempre stata troppo invadente”. Alice Coppa il 10/08/2021 su Notizie.it. Giampiero Galeazzi ha scagliato una frecciatina infuocata contro Paola Ferrari, che ha da poco annunciato il suo ritiro alla Rai. Giampiero Galeazzi ha commentato la notizia del ritiro di Paola Ferrari, che la giornalista ha annunciato avverrà dopo i Mondiali in Qatar del 2022. “Non ne sentirò molto la mancanza. Ci ho lavorato parecchio insieme. Ultimamente era molto migliorata. È sempre stata troppo invadente. Monopolizza lo spazio, ha prevaricato il suo ruolo. Prima non si preparava, ora ha imparato a farlo”, ha dichiarato Galeazzi in merito alla decisione della giornalista. Paola Ferrari replicherà?

Dopo 25 anni di carriera all’interno della Rai Paola Ferrari ha annunciato il suo addio all’emittente tv.  “Basta, mi dicono che sono vecchia, accompagno la nazionale in Qatar e poi saluto tutti per dedicarmi a tempo pieno al cinema insieme con il gruppo Lucisano”, aveva dichiarato. In seguito al suo annuncio la giornalista è entrata più nel dettaglio per quanto riguarda le motivazioni che l’avrebbero spinta a lasciare la Rai, specificando che la sua decisione sarebbe dovuta alla voglia di un cambiamento: “Dicono che sono vecchia, anche se io, a dirla tutta, mi sento ancora una ragazza. Comunque ho ottenuto tanti successi e raggiunto dei grandi traguardi personali. Senza dubbio di più alla mia carriera non potevo chiedere di più. Anzi, devo ammettere di sentirmi una privilegiata. Il mio futuro? Vorrei far crescere il gruppo Lucisano, di cui sono socia responsabile. Stiamo preparando dei bellissimi progetti. Il mondo dello sport mi ha dato tanto, ma ora voglia cambiare”.

Paola Ferrari: il futuro lavorativo. Paola Ferrari ha dichiarato che in futuro si concentrerà maggiormente sui propri impegni familiari e sulla sua vita privata e a seguire ha anche affermato che tra i suoi obbiettivi futuri vi sarebbe anche quello di far crescere il gruppo Lucisano, di cui è socia e responsabile dei documentari.

“Stiamo preparando bellissimi progetti. Intanto è partito Romanzo radicale, sulla storia di Pannella. Il mondo dello sport mi ha dato tantissimo ma voglio cambiare e ricominciare, non stare ferma. E magari fare qualcosa in tv”, ha affermato la giornalista che da oltre 25 anni era uno dei volti di punta dello spettacolo italiano legati al mondo del calcio.

Maria Berlinguer per "la Stampa" il 9 agosto 2021. «La prossima volta che nasco voglio essere un cane di Paola». Al telefono da Ibiza dove ha una casetta e dove presto la raggiungerà Paola Ferrari, l'amica del cuore, Alba Parietti scherza. È nota la passione di Paola per i cani (a casa ha quasi uno zoo). Ed è anche grazie a un cucciolo di bobtail che è nata la loro amicizia più che trentennale. Una sorellanza. «È un'amicizia molto, molto forte. L'ho vista per la prima volta a Sanremo. Ma a Milano, al Derby, tutti parlavano di questa ragazza giovanissima e bellissima per cui Franco Oppini aveva perso la testa. Non ne parlavano male ma insomma poi un giorno vado a Sanremo con il mio fidanzato del tempo e vedo Franco con una stragnocca alta un metro e 80, pelliccia di volpe, allora si portavano ancora, calze velate e capisco tutto quel vociare. Aveva un cucciolo di bobtail in braccio e ho avuto subito simpatia per questa donna bellissima. Per fortuna io non conosco la parola invidia». A dire il vero la bellezza non faceva certo difetto neppure a lei... «Sì ma lei era spettacolare» risponde Ferrari. «Ci siamo conosciute, abbiamo scoperto che abitavamo vicine, e abbiamo cominciato a frequentarci. Abbiamo vissuto una bella parte di vita insieme. Ci siamo molto divertite e condiviso tante cose. Persino gli amori: in tempi diversi abbiamo avuto fidanzati comuni». Il debutto a «Galagoal» A rinsaldare e rendere unica l'amicizia anche Galagoal, la trasmissione che lanciò definitivamente Alba. «Avevamo trent'anni, lei aveva ricevuto un'offerta da Telemontecarlo per un programma che poi non andò in porto, le offrirono di condurre Galagoal per gli Europei di calcio a una cifra importante. Alba era molto incerta. Eravamo due ragazze e i soldi facevano comodo. Di calcio non ne sapeva molto mentre io avevo già fatto la mia prima Domenica sportiva: le davo lezioni di calcio sul terrazzo di casa mentre Francesco faceva i compiti». Va nei dettagli: «Scegliemmo insieme i vestiti, come il primo abitino nero con le borchie. Il successo può allontanare, invece per noi non è cambiato niente, abbiamo sempre gioito per i traguardi raggiunti dall'altra. Sono stata orgogliosa dei successi di Alba e anzi ho cercato di proteggerla perché io delle due sono quella più bacchettona, rompipalle. Poi lei dice che le devo anche i miei figli. Ed è vero. È stata lei a presentarmi mio marito». Quell'amico che la sposò Paola usciva da una storia molto lunga «con un ragazzo perbene e un po' noioso e non avevo nessuna intenzione di accasarmi. Alba mi ha letteralmente costretto ad andare a una cena a casa di una sua amica, Emanuelle. Non avevo idea di chi fosse. Quando ho capito che era la moglie di mio cognato e che eravamo in attesa di quel Marco ho cercato di scappare ma Alba è stata bloccata da Tronchetti Provera. Me l'hanno presentato ma sono fuggita subito per andare a ballare al Plastic che era un locale underground molto divertente. Lui chiamò Alba per avere il mio numero, io le proibii di farlo ma lei continuò a lavorare sotto traccia. Ed è finita che ci siamo sposati. La nostra amicizia è scandita dalle coincidenze, entrambe figlie uniche di madri problematiche che abbiamo recuperato in età avanzata. Caratteri forti, tante affinità».

Cane e gatto in politica. Tra le tante affinità certo non c'è la politica. «L'abbiamo sempre pensata in modo opposto, ci siamo molto scontrate sulla Santanchè - dice Paola - per tantissimi anni, e abbiamo anche litigato diverse volte ma poi su tante battaglie la pensiamo nello stesso modo». Parietti spezza una lancia al capitolo fidanzati: «Confermo abbiamo avuto fidanzati in comune evidentemente abbiamo gli stessi gusti, ma ovviamente non ci siamo mai rubate un compagno». Continua: «Ci siamo conosciute che eravamo ragazzine e sono stata io a presentargli Marco. Sono stata davvero un cupido speciale visto che è un amore che dura da così tanto. Sono stata testimone di nozze». Il racconto si ferma un attimo: «Ma sono le coincidenze che fanno paura. Io sono nata lo stesso giorno e lo stesso anno del fratello di Marco, Rodolfo, nella clinica Sant' Anna di Torino e pure Alessandro è nato il 2 luglio». La passione per il viaggio Che cosa vi ha legato in particolare? «I viaggi, le tante risate, un reciproco soccorso ma il primo gancio è stata la passione per i cani. Eravamo due ragazze. Io non ero nessuno, facevo cosette in tv, lei faceva la giornalista man mano abbiamo assistito ai successi dell'altra sempre con grande contentezza. Non c'è mai stata nessuna forma di invidia ma la piena condivisione delle fortune dell'altra», conferma Alba. Continua: «Tutto quello che abbiamo avuto io e Paola ce lo siamo straguadagnate. Mi ricordo di lei giovanissima che lavorava come una pazza. Forse ci lega anche il fatto che siamo due persone che hanno sempre basato le loro vite sulle loro forze. Due donne forti e belle. Ma ci siamo anche divertite tanto. Ancora oggi riusciamo a farci grandi risate. Paola è una persona molto autoironica».

Più sorelle che amiche. «La nostra è direi una sorellanza. Abbiamo discusso, ci siamo anche allontanate per periodi ma ci siamo sempre capite. Abbiamo avuto un'educazione severa. Eravamo due ragazze che avevano voglia di vivere però con il complesso di non essere prese sul serio dai genitori. Chissà forse anche a questo dobbiamo la nostra forza. Siamo state due donne estremamente fortunate nella vita ma è una fortuna che ci siamo costruite sempre lavorando».

Paola Ferrari lascia la Rai: "Mi dicono che sono vecchia". Novella Toloni il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Dicembre 2022 segnerà l'addio della giornalista sportiva al piccolo schermo. La Ferrari lo ha confermato nell'ultima intervista rilasciata a Italia Oggi: "Alla fine dei Mondiali in Qatar lascio e mi dedico al cinema". Addio, pensionamento, turnover. Chiamatelo come volete ma Paola Ferrari ha deciso: con i mondiali 2022 in Qatar la sua trentennale esperienza televisiva si concluderà. "Basta, mi dicono che sono vecchia - ha raccontato a Italia Oggi - accompagno la nazionale in Qatar e poi saluto tutti". Alla soglia dei 61 anni, che compirà il prossimo ottobre, la Ferrari è pronta a congedarsi dalla Rai, dove lavora dal 1990. Oltre trenta anni di carriera televisiva, per lo più nell'ambito sportivo, che le hanno regalato momenti di gioia (come l'ultima vittoria agli Europei degli Azzurri), altri di difficoltà (quando la Rai ha perso i diritti della Champions League e della Coppa Italia), ma anche siparietti imbarazzanti per colpa della sua prorompente fisicità. L'accavallamento di gambe in stile Sharon Stone durante uno dei match di Euro 2020 l'ha fatta finire sulle tv di mezzo mondo: "Avessi voluto farlo apposta, non sarebbe riuscito meglio. Mi sono divertita tantissimo, mi hanno scritto dalla Thailandia, dall'America". Quello che è certo è che questa sarà l'ultima stagione tv di Paola Ferrari, che si appresta a seguire per l'ultima volta le gesta della Nazionale destinazione Qatar per i mondiali. Dopo per lei si apriranno le porte del grande schermo. "Mi dedicherò a tempo pieno al cinema insieme con il gruppo Lucisano", ha rivelato alla rivista. L'addio alla Rai arriva non senza qualche punzecchiatura ai vertici di viale Mazzini: "Dopo gli Europei di calcio e le Olimpiadi di Tokyo, il messaggio degli italiani alla Rai è molto chiaro: vogliamo lo sport in chiaro, ci piace vederlo sulla Rai. Lo sport è importante per gli italiani, accresce l'orgoglio nazionale, la voglia di rinascita: perciò meglio tagliare uno show e usare quel budget per regalare dello sport in chiaro". Il suo modo di condurre, familiare ma diretto, la parlantina e il linguaggio semplice hanno reso Paola Ferrari uno dei volti simbolo dello sport televisivo, anche se non le sono state risparmiate critiche e polemiche: "Qualche mezza cattiveria su di me, il mio trucco, le mie luci, ne hanno dette tantissime". Sul portale Italia Oggi, infine, la giornalista è tornata a parlare anche di Diletta Leotta e delle nuove bellissime dello sport sul piccolo schermo: "Della Leotta non condivido l'esprimere in modo troppo vigoroso la sua sensualità. Certo io alla sua età ero meno brava. Ma quest'anno avrà filo da torcere: da Mediaset arriva Giorgia Rossi, una molto simile a Ilaria D'Amico". In attesa dell'addio definitivo, la Ferrari è pronta a tornare in video il 12 settembre a Firenze con gli Azzurri di Mancini.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi 

Terry Marocco per “Panorama” il 23 giugno 2021. Paola Ferrari, nota giornalista sportiva, decana delle commentatrici di calcio e in pole su Rai1 per le partite degli Europei ci ha fatto trepidare quasi più degli azzurri. Durante la diretta in elegante abito nero, capello biondo sciolto sulle spalle, a dare ragione a Marc Augé che l'età è un nonluogo e pertanto i boccoli si possono portare dalla generazione di Shirley Temple alla pensione, è partita con uno stratosferico accavallamento delle gambe. Proprio come Sharon Stone nella scena cult di Basic Instinct. Il pubblico social è rimasto accecato da cotanta audacia e subito è corso a premunirsi di lenti d'ingrandimento, microscopi, che neanche al laboratorio di Wuhan, per sciogliere quello che è subito diventato un social dilemma amletico: le mutandine c'erano o non c'erano? È partito il tormentone con una tifoseria che si divide tra chi il video se l'è visto in loop e quelli che come al solito benpensano. Cominciamo dalla moltitudine dei poracci che non avendo proprio niente da fare si sono impegnati a zoomare sulle cosce della Ferrari: Sharon scanzate, Adoro, Ecco la famosa galleria del vento della Ferrari, Milfona da grande parata. E arrivano anche certezze importanti: Ho guardato con la mia lente da orologiaio: ha le mutande. Ora siamo tutti più tranquilli. Qualcuno arriva a dire: Perizoma di pizzo. Altri insinuano brutali: Per me c'ha er pelo. Infine emerge un'amara verità: Ma allora non è bionda?. La pandemia ci ha resi ancora più crudeli e cecati (forse nella solitudine di questi mesi qualcuno ha esagerato, la mamma lo ha sempre detto che poi le diottrie calano). Ma Paola Ferrari resta una Queen assoluta. Lei che con nonchalance chiama il difensore tedesco Hummels, autore dell'autogol che ha fatto vincere la Francia, Homeless, ossia vagabondo, ci dà l'idea che ne sappia una più del diavolo. Perché solo un vagabondo tirava così nella sua porta. La Leotta ne deve mangiare di polvere prima che un isolato di Roma Nord vada in blackout affinché a lei arrivi quella luce meravigliosa che la trasfigura fino a farla diventare una Madonna del Crivelli. Soave e crudele insieme. Ma i rosiconi social sono più cattivi di una schiera di iene: Vecchia babbiona, Imbarazzante e senza coerenza. Ha attaccato la Leotta, dicendo che punta sugli attributi fisici e cosa sta facendo in questo video?, Ha 300 anni come le tartarughe e ancora finge di girare Basic Instinct. Piuttosto Plastic Instinct, Lei è Sharon Flin-Stone, Cosa non si fa per lo share. Signora mia, è un duro lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. Giù il cappello per Paola Ferrari. Basta solo che: Varriale non si levi le mutande e il resto può andare, supplicano da Twitter. Ma si sa: Rai, di tutto di più.

Da "Un Giorno da Pecora" il 16 giugno 2021. Il video in cui accavallo le gambe? “E' diventato un video virale, stanno usando più il var su quello che in campo agli europei...” A scherzare è Paola Ferrari, giornalista e conduttrice, che oggi a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha commentato il video che la vede protagonista e che negli ultimi giorni fatto impazzire i social. Come mai quella inquadratura 'hot'? “E' capitata, niente di grave. Ma vi posso assicurare che non ho la farfallina tatuata, non volo così alto...”, ha ironizzato la giornalista. E' giusto il paragone con Sharon Stone e la famosa scena di Basic Instinct? “E' azzardato, visto che lei è una delle donne più sensuali del mondo. Insomma, video virale mi sembra un po' esagerato, ho condotto due sere coi pantaloni”. Sharon Stone in quella scena non indossava l'intimo... ”Io invece preferisco tutelare la salute e la pulizia igienica...“ Secondo lei, chi è il giocatore più bello di questa Italia? “Jorginho, è un bel fio come si dice a Milano, proprio un bel ragazzo. Ma vorrei spendere due parole sul nostro ct: ha il '5' davanti" all'età "ma ha un fisico da paura”. Quindi chi è tra i due il più bello della nazionale? “Direi entrambi, ma se dovessi uscire a cena direi Mancini perché anche come età siamo più vicini, avremmo più cose da raccontarci”.

Dagospia il 21 giugno 2021. FLASH “EURO-FREGNA 2020”! – TUTTÒ INIZIÒ SU DAGOSPIA, E ORA ANCHE I TEDESCHI SI ECCITANO PER PAOLA FERRARI IN VERSIONE SHARON STONE! DOPO IL QUOTIDIANO SPAGNOLO "AS", ANCHE IL TABLOID PIÙ POPOLARE DI GERMANIA, LA “BILD” (CINQUE MILIONI DI COPIE) SI CHIEDE: “ERA IN DIRETTA SENZA MUTANDINE?” – LA CONDUTTRICE HA GIÀ CHIARITO IL CASO: “SHARON STONE IN QUELLA SCENA NON INDOSSAVA L'INTIMO, IO INVECE PREFERISCO TUTELARE LA..."

Eric Santos per as.com il 21 giugno 2021. La giornalista sportiva Paola Ferrari è diventata protagonista sui social dopo un piccolo incidente durante una diretta del Campionato Europeo per Rai1. Le immagini dello scavallamento sono diventate virali e sono state paragonate da molti utenti con quelle di Sharon Stone nel famoso film "Basic Instinct". Lei, tuttavia, l'ha presa con umorismo. "Stanno usando il VAR più sul video in cui accavallo le gambe che in campo agli Europei", ha confessato divertita la 60enne in un'intervista radiofonica. “E' capitata, niente di grave. Ma vi posso assicurare che non ho la farfallina tatuata, non volo così alto..” , ha aggiunto, confrontando così l’episodio con il piccolo disegno che Belén Rodríguez ha insegnato al Festival di Sanremo e che ha provocato tanto rumore in Italia. Paola Ferrari ha fatto riferimento anche a quei commenti che l'hanno paragonata a Sharon Stone. E' azzardato, visto che lei è una delle donne più sensuali del mondo. Insomma, video virale mi sembra un po' esagerato, ho condotto due sere coi pantaloni”. Sharon Stone in quella scena non indossava l'intimo... ”Io invece preferisco tutelare la salute e la pulizia igienica.” 

Già protagonista dopo Francia-Germania. L’Europeo è a malapena iniziato da pochi giorni ma la giornalista italiana ha già fatto notizia due volte, entrambe virali sui social. La Ferrari era stata criticata dopo Francia-Germania vinta dalla dai campioni del mondo per un gol a zero: non ha saputo dire correttamente i nomi di diversi calciatori. Mats Hummels è diventato "Homeless", Mbappé "Mappé" e Paul Pogba "Pobgall".

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 18 giugno 2021. Dal giorno del debutto in tv, nel 1977 come centralinista in Portobello condotto da Enzo Tortora, Paola Ferrari non ha più abbandonato il piccolo schermo. Ancora oggi è tra i volti simbolo della Rai e di certo quello più rappresentativo per il racconto del calcio, come negli ultimi Europei in corso. La sua carriera, però, non è costellata solo di presenze, ma di vere e proprie rivoluzioni: è stata la prima donna a condurre la Domenica Sportiva (dopo 42 anni di presenza solo maschile), la prima donna a presentare 90° minuto e la prima donna a guidare Dribbling. L’abbiamo contattata a margine di quello che definisce «il frullatore» delle partite “spezzatino”, che la tengono costantemente impegnata, perché negli ultimi giorni è diventata addirittura trend topic per un accavallamento delle gambe “alla Sharon Stone” che ha mandato in visibilio i social. Lei non si è scomposta, abituata a essere sempre sotto i riflettori, e da grande professionista ci ha fatto una risata ed è passata oltre. Ma la giornalista è anche una persona che non si è mai tirata indietro nell’esprimere quel che pensa, a volte attirandosi le ire dei colleghi (e soprattutto delle colleghe). E anche questa volta, a ogni domanda ha risposto con la consueta schiettezza: dal femminismo che non la rappresenta («come fascismo e comunismo sono concetti del passato»), alla battaglia sulle parole scatenata dalla scrittrice Michela Murgia («assolutamente inutile, sono altre le cose importati»), o sul gesto di Rula Jebreal di non partecipare a Propaganda Live perché unica donna («io sono sempre da sola, però faccio sentire la mia voce più degli uomini»). Dopo tante polemiche, ha sentito persino di tendere la mano a Diletta Leotta («Insieme in studio? Due generazioni a confronto, perché no…»), ma su certi atteggiamenti fatica a perdonare, riferendosi alla rottura dell’amicizia con Daniela Santanché («se mi viene fatto del male in modo gratuito faccio fatica»). Mentre sulla Nazionale di Roberto Mancini è convinta che comunque andrà «ha già vinto per l’amore che ha saputo ricreare». In questi giorni sui social si è parlato solo di due argomenti: la Nazionale italiana che continua a vincere e del tuo accavallamento delle gambe alla Sharon Stone.

Che effetto ti ha fatto?

Mi ha divertito, però non mi turba un fatto così casuale. Però effettivamente c’è stato più Var sul mio accavallamento che su quello che accadeva in campo. È stato trend topic per un giorno intero, mi ha fatto piacere, qualche bacchettone mi ha persino sgridato, ma non è responsabilità di nessuno: siamo in diretta per diverse ore e può succedere di tutto. Sicuramente non mi ha distratto dal mio amore per l’Italia e il bel momento che stiamo vivendo. Certo non mi aspettavo gli insulti sessisti, ma ormai mi sono abituata.

Sui social ci si chiede ancora che tipo di biancheria indossavi…

Ancora??! No, ma veramente… non sono abituata a queste cose, pensa che sono da 30 anni in tv e ho sempre chiesto ai registi di non riprendermi il seno, nonostante sia piuttosto abbondante. Di questo Europeo mi ricorderò, fra le tante cose belle, anche di questo. Siamo in un frullatore, capita. 

Qual è il rapporto con il tuo corpo?

Spero di non essere giudicata solo per quello, visto che sono una professionista. Cerco sempre di essere precisa, sia nella preparazione che nel trucco e nelle luci. Sono di scuola berlusconiana, ho cominciato da ragazza quando ti dicevano che entri nelle case degli italiani, quindi sempre al meglio possibile. Mi tengo bene, faccio ginnastica il giusto ma non troppo, faccio attenzione a quello che mangio, prendo gli integratori, sono in forma e soddisfatta. Non posso avere il fisico di una ventenne, ma non ho mai fatto ricorso alla chirurgia estetica pur avendo avuto due figli, poi accetto anche i difetti. Però sono più magra di quando avevo 25 anni, quindi benissimo così. 

Ti senti femminista o è un concetto che non ti appartiene?

I termini del passato, come femminismo, comunismo, fascismo, non appartengono più a questo millennio. Se intendi se sono una persona che si è sempre battuta per l’uguaglianza delle donne sul posto di lavoro e in società, lo sono da quando ero ragazza. Non per questo sono favorevole alle quote rosa. 

Come mai?

Perché i nostri spazi ce li dobbiamo conquistare e non dobbiamo farceli regalare. Bisogna meritarli, anche se può essere più difficile da donna, ma non si può imporre per legge. Dev’essere una mentalità che gli uomini devono acquisire. Non sono neanche per difendere sempre le donne, se fanno qualcosa di sbagliato lo dico. Ognuno è responsabile di quello che fa come persona umana.

Cosa ne pensi della battaglia della scrittrice Michela Murgia sulla declinazione delle parole?

È assolutamente inutile! Se vuole farla, che la faccia se ci crede. Ma se fossi io direttore di Rai Sport e mi chiamassero direttore o direttrice non cambierebbe assolutamente nulla. Alcuni termini sono più facili da declinare, professore-professoressa, dottore-dottoressa, ma non sono queste le cose che ci offendono. È invece il bullismo sul nostro corpo che fa male, io ne sono vittima da sempre. Ha fatto benissimo a indignarsi Vanessa Incontrada quando le facevano notare qualche chiletto in più, ma io avrei dovuto entrare in depressione da anni per le cattiverie che mi hanno rivolto. Questo lo trovo grave contro le donne. Oppure mi ha fatto soffrire la pallavolista che, solo perché incinta, ha perso il contratto. Direttore-direttrice, va bene ma non lo trovo determinante.

Eppure, certi gesti vengono rivendicati, anche in tv, come a favore delle donne. Come quando Rula Jebreal non accettò l’invito di Propaganda Live perché unica donna ospite.

Io sono sempre l’unica donna, in quasi tutte le trasmissioni di calcio che ho fatto. Meno male che ce ne sia almeno una. Io faccio sentire la mia voce più degli uomini. Penso che in quel caso sia stata una casualità, perché conosco il programma e chi lo conduce e non mi sembra che siano misogini. Ce ne sono di trasmissioni del genere, che usano il corpo delle donne per attirare telespettatori. È un discorso che ho fatto tante volte, ma vedo che non interessa a nessuno…

Il riferimento mi sembra chiaro verso Diletta Leotta, che hai criticato apertamente. Ma ti sei pentita di quelle dichiarazioni?

Preferisco non aggiungere altro, perché le cose che dico vengono spesso interpretate in modo troppo “colorato”. Le auguro molta fortuna, il prossimo anno con Dazn avrà tutto il calcio e quindi sarà per lei un momento importante. 

Prima o poi ti piacerebbe averla in studio, o viceversa essere invitata da lei, anche solo come gesto simbolico di riappacificazione?

Magari fra due generazioni a confronto ci potrebbe essere uno scambio culturale. Perché no…

In tv hai fatto praticamente tutto, ora ti manca un ruolo dirigenziale?

Se devo guardare le barriere che ho aiutato a demolire nel giornalismo sportivo televisivo sono molte e sono contenta di averlo fatto. Mi piacerebbe vedere una donna diventare direttore della Gazzetta dello sport, ma ora mi occupo di tante altre cose, come di docufilm. Finirò gli ultimi anni in Rai, dopo questa meravigliosa esperienza degli Europei, essermi spesa come volto dell’Italia femminile e arrivare con la mia azienda ai mondiali in Qatar. Poi cercherò altre strade, perché devo sempre essere in movimento.

Prima hai parlato di insulti sessisti. Ricordo che anni fa sei stata la prima anche a denunciare quello che accadeva su Twitter nei tuoi confronti.

Sono stata la prima a denunciare il cyberbullismo su Twitter. Perché mi butto a capofitto, non ci penso tanto. Allora tutti dicevano che ero pazza, poi abbiamo visto che piaga è stata. Ne parlavo già otto anni fa quando mi prendevano in giro. Sono anche stata vicepresidente dell’Osservatorio sul bullismo e il doping. 

Ma ti vedresti mai fuori dalla Rai?

In questo momento la vedo difficile. Mi piacciono le sfide, come quella di Dazn che è diretta da una donna molto brava come Veronica Diquattro. Però io sono Rai, sono legatissima alla mia azienda che mi ha dato tantissimo e qualcosa anch’io le ho restituito. Delle offerte mi sono arrivate, ma sto bene dove sto. Non so cosa farò domani. Mi sveglio al mattino, ho delle intuizioni e delle sensazioni e poi decido. Sono molto molto istintiva come carattere, anche troppo. 

Vista la tua istintività, fu un errore la candidatura in politica?

Fu una scelta di cuore, perché ero molto legata a una donna che però alla fine mi ha profondamente tradita. Rimango attenta e ricettiva al mondo della politica, ma non credo seguirò la strada di alcuni miei colleghi come David Sassoli che ora ha un ruolo imporrante in Europa. Mi piace ancora raccontare i fatti. Se la politica serve a fare qualcosa di buono per gli altri la farei volentieri, ma rimango sempre prima di tutto una giornalista. 

Quando ricordi di un tradimento è chiaro che tu stia parlando di Daniela Santanché, con la quale si è rotta una grande amicizia. Ma oltre a essere istintiva, sai anche perdonare?

È una domanda complicata. Non sono una che dimentica con grande facilità. Se mi viene fatto del male in modo gratuito faccio fatica. È uno dei miei difetti, ho un po’ la memoria dell’elefante. Non sono una che tiene il muso, io mi arrabbio, sono fumantina, mi accendo come una torcia però poi mi dispiaccio quasi subito. Ma nelle cose che ti feriscono personalmente cambio completamente pelle e faccio fatica ad archiviare. Peccato, perché fa più male a me che agli altri, ma è la mia natura. 

Chi vince questi Europei?

Intanto la Nazionale di Roberto Mancini ha fatto rinnamorare della maglia azzurra gli italiani. Per questo sono convinta che li abbia già vinti questi Europei, con il bellissimo gruppo che l’allenatore ha saputo formare e i valori che ha saputo infondere. Per vincere, però, oltre alla tattica e alla tecnica serve la testa. La Francia è una corazzata e resta la favorita, noi speriamo di arrivare a Wembley in finale e poi ce la giochiamo.

Massimo M. Veronese per "il Giornale" il 10 maggio 2021. È sempre stata una primadonna fin da quando, liceale negli anni di piombo, metteva in riga i capi della contestazione con uno sguardo blu fulminante. Prima donna a condurre la Domenica Sportiva, dopo 42 anni di dittatura maschile, prima donna a presentare 90° minuto, prima donna a guidare Dribbling, tutte le roccaforti inespugnabili dell' uomo abbattute una dopo l' altra da una che ha sempre fatto di testa propria, orgogliosa delle proprie idee e del proprio lavoro, «gior-na-li-sta», scandito come si deve. Un simbolo di emancipazione femminile, ma fuori dal coro, una vita da combattente fatta di sorrisi, dolori e rivincite. Prima di lei il calcio non era uno sport per signorine. Dopo è diventato uno sport per primedonne.

Cosa le è rimasto degli anni di piombo, dei ragazzi della sua età che si ammazzavano per strada?

«Li ho vissuti molto intensamente e porto ancora le ferite dentro. Salvai la vita a un mio compagno di scuola ideologicamente molto lontano da me, ma in quegli anni ho ricevuto pesanti minacce di morte. Ho visto tanti ragazzi cadere, c'era grande violenza, grande scontro ideologico, tanta droga che girava. Quegli anni hanno forgiato chi ne è uscito».

A 16 anni viveva già da sola pubblicizzando cosmetici.

«Sono andata via da casa ragazzina e per mantenermi dovevo lavorare. Vivere da sola non era facile: non ricordo quante volte mi tagliarono i fili della luce e del telefono. Così ho prestato il viso a una casa molto famosa di cosmetici e per anni sono stata il volto della Rinascente».

Papà dirigente d' azienda, mamma casalinga. Cosa non andava?

«Mamma e papà non si occupavano molto di me. Sono nata in una casa di ringhiera milanese e ho rischiato tante volte di prendere strade sbagliate. Mi hanno salvato il carattere e la buona stella».

Dopo gli anni di piombo la Milano da bere...

«Avevamo voglia di tornare a vivere dopo tanti lutti. Ero una bella ragazza, avevo molto tempo mio, era la Milano delle discoteche. Ho conosciuto anch' io le case di Terry Broome, anche lì girava droga. Ma i brutti giri li ho sempre evitati».

Ha detto una volta: anch' io ho fatto una vita di discoteche, champagne e ore piccole...

«Diciamo che non mi sono fatta mancare niente...»

Per 8 anni ha fatto fotoromanzi.

«Cesare De Marchi, il fotografo, diceva che ero così timida che fermavo le riprese quando dovevo recitare una scena di bacio. Ero così».

Cosa voleva fare da bambina?

«La truccatrice. Ero incantata dalle bellissime ragazze di Fiorucci che, sembravano fate. Ma anche la veterinaria. Vivo con cinque cani e due gatti, la mia vita la vedo in campagna tra mucche e agnellini».

Faceva sport da ragazza?

«Vivevo vicino al Palazzetto del ghiaccio di via Piranesi. Sognavo di diventare una campionessa di pattinaggio come Rita Trapanese».

Ai suoi figli piace lo sport?

«A mia figlia no. Mio figlio era un bravo tennista, poi si è dato al canottaggio. Ora fa il portiere a calciotto».

Papà da bambina la portava a vedere l' Inter ma poi «vidi giocare Rivera e capii che la mia squadra del cuore era il Milan». È vero?

«Papà, che ha 91 anni, me lo rinfaccia ancora. Lui voleva farmi innamorare di Boninsegna ma Rivera mi sembrava più carino, elegante».

A dieci anni, con papà per mano, incrocia Beppe Viola.

«Facevamo colazione a Città Studi, ricordo questo signore con il cappotto scuro, papà e i suoi amici lo adoravano. È stato un orgoglio, anni dopo, lavorare alla scrivania che era stata sua. E vincere il premio giornalistico che porta il suo nome».

Poi l'incontro con Enzo Tortora.

«Lui è stato la svolta della mia vita. Scappata di casa mi ero rifugiata da una zia a Busto Arsizio dove aveva sede una tv privata che si chiamava Telealtomilanese: Enzo lavorava lì dopo essere stato esiliato dalla Rai. Una sera ero con la zia tra il pubblico e il regista insisteva a farmi primi piani. Tortora mi vide e cominciò a cercarmi per tutta Busto».

Poi arrivò Portobello...

«Ero la più piccola delle ragazze della trasmissione, ci teneva moltissimo che nessuno ci desse fastidio. Era molto protettivo. Mi è stato vicino anche dopo, sapeva la situazione complicata che avevo. È stato un padre, un maestro e un signore».

Ha iniziato con un' intervista a Cabrini prima del Mundial: è vero che le tremava il microfono?

«Direi proprio di no. Carlo Tumbarello fu il primo a portare calciatori a fare i conduttori tv e le donne le interviste sul campo. All' inizio ero l' unica, ma senza soggezioni».

Ma come? Cabrini, l' uomo più bello e più desiderato d' Italia...

«L' amica con cui dividevo l' appartamento aveva una storia con uno della Juve e casa nostra, era piena di calciatori. Era normale conoscerli».

Ma tentazioni mai?

«Cabrini una volta mi venne a prendere sotto casa con la Ferrari, ma era solo amicizia come con Paolo Rossi che adoravo. Per me era inconcepibile avere love story con calciatori, avrei perso tutta la credibilità di giornalista che stavo costruendo con una fatica spaventosa».

Ha detto: capii che valevo quando Capello mi mandò al diavolo.

«Era un derby. Chiesi a Capello perché aveva fatto giocare Weah che fisicamente non era a posto, mi rispose piccato: lei ha visto un' altra partita. Volevo morire. Ma lì ho capito che cominciavano a rispettarmi. Non era facile sopportare i sorrisi ironici di chi al campo ti vedeva come un' ochetta in cerca di gloria».

Ennio Vitanza diceva di lei: «Non fatevi ingannare dallo sguardo d' angelo: Paola è una dura».

«Ennio mi ha aiutato tanto, è stato uno dei pochissimi a venire al mio matrimonio e consideri che eravamo una decina. Vero: io sono molto dura, ma perché sono esigente con me stessa e con gli altri.

Mi dico sempre: se fossi nata a Sparta mi avrebbero buttato dalla rupe, perché sono piccolina, magrolina, per questo ho sempre voluto sfidare i miei limiti. Per farlo ci vuole una certa durezza. Lavoro 12-13 ore al giorno e a volte mi arrabbio quando gli altri non lavorano come me».

E le nuove generazioni?

«Abbiamo insegnato a chi è venuto dopo di noi che non vale più la pena di eccellere. Siamo un Paese che non premia il merito, che mortifica chi fa di più. Gli occhi della tigre li vedo in pochissime persone».

Disse: per una donna più facile fare l' inviata di guerra che la cronista di Cremonese-Piacenza.

«Inserirsi nell' ambiente sportivo era estremamente difficile per una ragazza che non avesse fratelli o padri giornalisti, la figura della donna non era considerata credibile. È stata una guerra anche quella».

Una disavventura tragicomica?

«Durante la finale di Champions a Istanbul tra Milan e Liverpool presi una colica renale. Io sono tornata a casa in ambulanza e il Milan ha perso una partita vinta. Peggio di così».

Trent' anni fa disse: il mio femminismo è non voler essere un modello alla Raffaella Zardo. E lo disse della Trevisan, della Elia...

«Vede quanti amici mi sono fatta negli anni? Ho sbagliato fin dall' inizio. Come mi è venuta sta fissa che dovevo impormi per quello che ero e pensavo e non per i mie occhi blu. Chi me l' ha fatto fare».

Sento dell' ironia nella sua voce...

«Anche quando alla Domenica sportiva sfidavo la Casalegno su Pressing che si presentava con i vestitini trasparenti: godevo quando la battevo negli ascolti. Ma è un mio difetto, mi arrabbio e non so perché...»

Ma sta pensando alla Leotta?

«Quando vedo queste ragazze che usano il corpo per diventare famose, mi arrabbio e sbaglio perché ognuno è libero di fare quello che gli pare. Io ho sempre considerato invece un affronto che qualcuno mi ascoltasse solo perché sono carina. Devo essere più zen».

Ma un consiglio alla Leotta?

«Ma lei deve darli a me: è ricchissima, famosissima, mica come me che ho fatto tanta fatica per così poco. Continui così, faccia un sacco di soldi e se li goda: lei però non può rappresentare le giornaliste italiane, come Anna Billò, Giorgia Rossi o Simona Rolandi. Lei può rappresentare solo se stessa. O forse Belen...».

Ma lei è la star di Dazn, del calcio.

«Alla guida di Dazn c' è una donna molto in gamba, molto bella e molto capace come Veronica Diquattro. Spero che con lei i modelli femminili possano cambiare».

Anche essere un simbolo di emancipazione femminile ma non essere di sinistra non è facile.

«Io sono una donna libera e non ho mai avuto buoni rapporti con la sinistra radical chic ipocrita e moralista che mi ha fatto una guerra oscena anche in certi programmi tv. Da quel mondo ho subito body shaming durissimi, sono stata vittima di cyberbullismo, io che sono portavoce dell' Osservatorio Nazionale sul bullismo. Perché se non sei dei loro e hai successo, dai fastidio».

La Dandini scrisse un monologo sul femminicidio che la tirava in ballo senza alcun motivo.

«Un monologo che mi definiva un' illuminata che faceva schifo su un tema così tremendo. La Cortellesi, che lo lesse, poi si scusò. Ma fosse solo quello: mi hanno detto cose spaventose, che sono un mostro, che ho lo stucco in faccia, che sono tutta rifatta. Ho pianto e sono stata male. Loro che predicano il rispetto per le donne: che si vergognino».

E del Metoo cosa pensa?

«Una volta un direttore mi invitò a cena, prenotò il ristorante tutto per me perché diceva che aveva capito che io ero una donna affascinata dal potere. Me ne andai all' istante e da quella volta mi fece una guerra senza tregua. Capita, è capitato e capiterà, bisogna sapersi difendere. Come diceva Tortora: devi avere spalle dritte e testa alta».

Anche la sua migliore amica e testimone di nozze Alba Parietti infranse i tabù sul pallone: è vero che le dava lezioni di calcio?

«Verissimo. Per lei Galagoal era un' occasione fantastica. Le davo ripetizioni e ci divertivamo un mondo. Diventò famosissima in un attimo e io ero felice come una Pasqua. Non conosco l' invidia e la gelosia».

È vero che la notte che litigò con Christopher Lambert andò a casa sua a farle i bagagli?

«Si vedeva che era un furbetto, immaginavo che sarebbe durata poco. Mi chiamò, ero al mare, le ho fatto i bagagli e l' ho portata da me».

Dice che l' incontro con suo marito è merito suo...

«Una sera Alba mi porta a cena da un' amica, mi ero appena lasciata dopo una storia di otto anni. Solo lì capii dov' ero finita: c' erano i Tronchetti Provera, i De Benedetti. Non mi sentivo a mio agio, chiamai degli amici. Dissi: portatemi via il più presto possibile, che qui non ci voglio proprio stare».

E suo marito?

«Non ne volevo sapere di lui, non c' entrava nulla con me. Temevo fosse un figlio di papà in cerca di avventure. Invece non era così. Mi cercò approfittando della complicità di amici e parenti anche se vietavo a tutti di dargli il mio telefono. Lui appariva nei ristoranti dove andavo a mangiare. Poi tutto è precipitato: a novembre eravamo cotti, prima di Natale decidemmo di sposarci, ad aprile il matrimonio. E l' anno prossimo festeggiamo le nozze d' argento».

Più facile difendere le sue idee in famiglia o fuori?

«Non è stato facilissimo costruire un rapporto e anch' io ho fatto degli errori come quando mi sono candidata in politica. È una famiglia complicata: ho cercato sempre di crescere i miei figli nel rispetto ma l' ultimo anno è stato difficile per il rapporto tra Carlo e i figli. Avrei preferito una famiglia più affettuosa, più morbida, più avvolgente. E che certi screzi familiari non diventassero pubblici».

E adesso?

«Sono entrata in società con la Lucisano che produce film dai tempi di Sordi. Leggo copioni, incontro attori, seguo progetti di respiro giornalistico, inchieste, documentari, docufilm. Quello su Bukowski lo abbiamo portato al festival di Venezia, bellissimo come il film di Calopresti sulla Calabria degli ultimi. Sarà la mia seconda vita. Una vita da film...».

·        Paolo Brosio.

Missione Medjugorje: il cammino tra due mondi paralleli con Paolo Brosio e la sua fidanzata Marialaura. Le Iene News il 12 marzo 2021. Il nostro Gaston Zama ci porta in un lungo e incredibile cammino in compagnia di Paolo Brosio e della sua fidanzata Marialaura De Vitis. Inizia da qui "Missione Medjugorje": un’esperienza in due mondi paralleli ma distanti anni luce l'uno dall'altro, un tentativo di dialogo tra la galassia di chi non ha fede e chi invece crede nell'esistenza di Dio, di Gesù e della Madonna. Gaston Zama ci accompagna in un cammino in due mondi paralleli ma distanti anni luce l’uno dall’altro. Un tentativo di dialogo tra la galassia di chi non ha fede e chi invece crede nell’esistenza di Dio, di Gesù e della Madonna: è la Missione Medjugorje. I protagonisti sono Paolo Brosio e la sua fidanzata Marialaura De Vitis. Brosio, giornalista, scrittore e conduttore televisivo, nonché icona della tv anni ‘90 e della bella vita, si fece prendere la mano precipitando nel vizio più estremo: sesso, droga e alcol. Dipendenze che lo inghiottirono fin giù nell’abisso, poi però Dio gli tese la mano e Paolo si dimenticò della depravazione aprendosi alla devozione più assoluta, specie verso la Madonna di Medjugorje. Questo lungo e incredibile cammino ha avuto inizio da una telefonata. “In questo momento sono fidanzato con una ragazza che si chiama Maria… Diciamo che non crede molto, è scettica”, ci dice. Un particolare della sua Topolina - 41 anni di differenza - che non lo fa dormire la notte. “Le ho parlato di Medjugorje mille volte e mi piaceva portarla lì…”. Iniziano così i nostri 1.000 chilometri attraverso tre stati. Dopo 5 ore, la prima tappa è al santuario mariano del Grisa che Paolo vuole mostrare a Marialaura in questo cammino verso la fede. “Non ci credo, c’è la messa ora…”, dice. Per lui è un segno inequivocabile. La seconda tappa del nostro pellegrinaggio è invece vicino a Spalato dove c’è una sorgente d’acqua che a dir di Paolo sarebbe miracolosa: “Tante malattie che la scienza non riesce a curare, qui invece ci sono stati miracoli...”, sostiene. “Stai attenta Maria a tutto quello che ti accadrà dopo questo viaggio, ne sono sicuro”, dice alla sua fidanzata. “Per me è una gioia portare Maria da Maria perché Medjugorje è la scintilla che ti fa innamorare di Dio”. Dopo 35 ore di traversata, eccoci. Paolo scoppia in un pianto liberatorio. Con lui andiamo sulla collina Podbrdo dove sarebbe apparsa la Madonna: “Qui sono nati i veggenti, tutti i giorni alle 17.40 appare loro ovunque si trovino”. Ora spera che la fede di Marialaura possa fare un balzo in avanti. Lo fa mostrandole la statua del Gesù risorto da cui si formano gocce come se fossero lacrime (“c’è gente che è guarita con queste”) e poi con un altro fenomeno “il profumo intenso di rose che si sente su questa collina”. Per alcuni questa essenza è sinonimo di santità e della presenza della Beata Vergine e quindi è associata alla vicinanza della Madonna. Ma le visioni di Topolino e Topolina sono divergenti anche a proposito dell’aborto. “La nascita di un essere umano è un progetto di Dio, se tu lo impedisci vai contro Dio”, dice lui. “Il corpo è nostro e siamo libere di fare le nostre scelte. Una donna può subire uno stupro e il feto è solo il risultato di questo trauma”, replica lei. Posizioni che gettano Paolo nello sconforto che ribadisce: “È Dio che dà la vita, non l’uomo”. “Ma è lo Stato che fa la legge. E lo Stato non è la Chiesa”, aggiunge lei. Paolo ci parla anche di eutanasia e famiglia naturale: “Dove un uomo e una donna fanno l’amore e nasce un figlio”. Ma anche in questo Marialaura ha un’altra visione: “Può anche essere una coppia omosessuale a casa mia oppure una donna con un gatto. Famiglia significa amore”. Durante il nostro cammino incontriamo Ivo, un caro amico di Paolo, che ha qualcosa da raccontare a Marialaura. Lui era una giovane promessa del basket. “Ma sono rimasto senza gamba per un tumore”, dice. In base a quello che dice lui, l’arto gli è stato amputato perché il male non si fermava: “Mi avevano dato pochi mesi di vita”. Ed è così che si affida a Vicka, una delle veggenti più carismatiche di Medjugorje. Ivo le chiede di parlare del suo caso alla Madonna durante una delle sue apparizioni delle 17.40. “La Madonna tramite Vicka mi ha fatto sapere che sono un suo figlio prediletto e che sarei completamente guarito”, sostiene Ivo. Per lui il tumore sarebbe guarito e addirittura scomparso. Ma sarebbe successo un altro fatto straordinario: “Mi ricordo che Vicka ha preso la mia mano e mi ha fatto toccare la testa della Madonna. Al contatto ho sentito come una piccola scossa”. C’è un altro aspetto del tutto incredibile: “Subito dopo ricevo la mia gamba”. Questo racconto fa sorgere in Marialaura una curiosità: “Non credo assolutamente a questa cosa, ma vorrei sapere se lui crede che pelle, ossa e muscolo possano crescere così?”, gli chiede. “So cosa vuol dire non credere, anch’io ero come te. A molte cose non credevo, ma pregherò per te finché Dio ti darà la fede”. Topolina conserva il suo scetticismo e Paolo spinge per rientrare a Milano. La nostra missione Medjugorje volge al termine ed è il momento di fare un bilancio con i suoi protagonisti. “Ho fatto piccole cose dopo il ritorno a casa, erano 5 anni che non andavo a trovare mio padre al cimitero e ci sono andata. Ammetto che ho aperto la porta a questa entità”, ci dice Marialaura. “E poi quando ero sola ho pregato davanti alla statua della Madonna. Sono piccoli cambiamenti che per me sono grandi”. Dopo questo viaggio Marialaura conserva comunque il suo scetticismo. Oltre alle questioni di fede, ce n’è un'altra che rimane irrisolta attorno alla collina dove apparirebbe la Madonna, un fatto accaduto quasi 6 anni fa. Il 2 agosto 2015 poco dopo un’apparizione a una veggente è scomparso da lì padre Luciano Ciciarelli. Da quel giorno non si è più saputo nulla.

·        Paolo Crepet.

Maurizio Caverzan per “La Verità” il 28 marzo 2021. Avete presente quel signore che indossa sempre maglioni sgargianti? «Sono nato tra i colori, avevo nonni pittori e artisti. E poi detesto le uniformi». Con Paolo Crepet, 69 anni, psichiatra e sociologo, misurato ospite di talk show, autore di Vulnerabili (Mondadori) e La fragilità del bene (Einaudi) viene tutto facile. Ci si saluta al telefono e ti inonda. «Io e l'università ci siamo lasciati consensualmente, sono un uomo libero, non subordinato. Non lo ero nemmeno con Franco Basaglia. Sempre stato inquieto, ma mia madre, anche se è morta giovane, ha potuto intuire che non tutto sarebbe andato male».

C'era il rischio?

«Ho sfiorato la droga e il terrorismo. Negli anni Settanta bastava andare a una festa, ho visto come sono finiti alcuni amici. Con mio padre ho visto anche l'invasione dei carri armati sovietici a Praga. Sempre stato progressista e antifascista, ma per me quella violenza è uguale a quella praticata dal nazismo. Non c'è alcuna differenza, mentre per buona parte degli intellettuali italiani non è così. E si vede».

Chi è stato per lei Basaglia?

«Un eroe dei diritti dell'uomo, molto più che un luminare della psichiatria. Quando iniziai a lavorare c'era il dibattito per l'abolizione delle classi differenziali, poi quello per la chiusura dei manicomi. Oggi m' indigno quando vedo che l'indifferenza e il cinismo che giustificavano quelle situazioni non sono stati estirpati».

Dove li vede?

«La lunga reclusione domestica dei bambini avrà conseguenze pesanti. Tenerli davanti alla televisione dieci ore al giorno è una tortura. Un bambino ha bisogno di giocare a pallone, di litigare con gli amici, di complicità. Maria Montessori o don Lorenzo Milani cosa direbbero del lockdown? Se si toglie la voce isolata di qualche psichiatra infantile c'è un silenzio preoccupante».

Lei è stato invitato a parlarne al Senato.

«Sì, qualche settimana fa, c'era anche Matteo Salvini. Ma è come se avessi parlato della Juventus che non vince il campionato. Sembravano tutti sponsorizzati da Aquascutum».

Cioè?

«Impermeabili. Ai politici, agli imprenditori, agli intellettuali non importa niente dei nostri ragazzi».

Anche agli intellettuali?

«A loro interessano i 12 che concorrono al Premio Strega. Capisce? Fossi stato l'organizzatore avrei dato un segnale di discontinuità. Invece si continua come in un anno qualsiasi. Accorarsi per lo Strega ora è come lucidare l'argenteria sotto i bombardamenti».

La responsabilità maggiore è della politica?

«Lei ha sentito qualcuno scusarsi con il popolo italiano come ha fatto la Merkel in Germania? Io ho chiesto le dimissioni del ministro Speranza che invece va avanti come se avesse sconfitto il Covid. Un anno fa vedendo i dati dei decessi nelle Rsa mi vergognavo di essere italiano. Adesso continuiamo a dare i vaccini ai trentenni o alle categorie professionali influenti».

Ha scritto un libro intitolato Vulnerabili: la vulnerabilità è la conseguenza della fragilità?

«No. La vulnerabilità è un talento. Ogni grande artista o genio è stato vulnerabile. Gli invulnerabili sono stati Hitler, Stalin e Mussolini».

Perché abbiamo bisogno di eventi tragici per riconoscere i nostri limiti?

«Siamo fisiologicamente egoisti, solo quando ci manca il pane ci svegliamo. È un bene che ci siano i dirupi, altrimenti non ci accorgiamo di niente».

I periodi di opulenza e progresso ci fanno sentire invincibili?

«Onnipotenti, immortali. Guardiamo i giovanotti che prendono lo spritz fregandosene di mascherine e distanze, sono imbecilli nati dal boom economico in poi. Ma la colpa non è tutta loro».

Non sanno cosa sia la sofferenza?

«Non l'hanno mai vissuta. I loro genitori pensano che educare sia togliere dolore».

Riduzione della mobilità, lavoro da remoto, diminuzione dei consumi sono formule della decrescita. L'uomo ne trae felicità o malinconia?

«Per me sono motivo di tristezza. Lo smart working è la più grande fregatura che la Silicon valley poteva regalarci. Credo che quello che ci può salvare, la via d'uscita, sia una maggiore sobrietà».

Come definirebbe la società del lockdown?

«È una via crucis che produce due tipi di comportamento. Da una parte la rabbia, anche sociale, che chi governa dovrebbe studiare in modo approfondito, dall'altra l'immobilità. Perché la paura può produrre una creatività straordinaria, ma può anche paralizzare come il veleno di un serpente».

Qual è il sentimento che ha sostituito i balconi canterini e gli slogan ottimisti?

«L'angoscia. Quando finirà la battaglia dei vaccini - siamo i più lenti d'Europa - si concretizzerà l'angoscia per la situazione economica. Ora siamo in coma farmacologico: ci somministrano le elemosine, i sostegni, la cassa integrazione, sospendono i mutui. Ma tutto questo finirà. Non so se a settembre Unicredit sarà ancora compassionevole».

Che cosa prevede?

«Dovremo fare i conti con 10 milioni di non dipendenti statali. Si rischierà la guerra civile tra i garantiti, gli insegnanti, gli impiegati dei ministeri e dei comuni, e tutti gli altri».

La pandemia ha creato nuove patologie?

«In generale no. Sono aumentate quelle che c'erano già, depressione, diminuzione dell'autostima, ansia, stati di panico, insonnia, calo della libido».

E nello specifico?

«Sono patologie derivate dall'enorme quantità di ore che passiamo davanti allo schermo per la didattica a distanza, lo smart working, le esigenze private. Ci sono ragazzi che trascorrono anche 10 ore davanti al pc. Già prima del Covid abbiamo conosciuto il fenomeno degli hikikomori. Oggi questa sindrome si chiama online brain e definisce il cervello che funziona in rapporto a uno schermo».

Che sintomi ha?

«Simili alla demenza: perdita di memoria breve, incapacità a concentrarsi, mal di testa, irritabilità, difficoltà a relazionarsi. È una patologia che durerà più della pandemia. Con i vaccini i sintomi del Covid finiranno, invece queste sindromi non cesseranno se non cambieremo il sistema di funzionamento della scuola e del mondo del lavoro».

Perché scrive che dove non è arrivato il virus arriva un male peggiore come la paura?

«Ci sono persone che non escono di casa anche se non hanno il virus. È uno stato d'ansia collettivo, la paura di ciò che si potrebbe subire. Riducendo la nostra vita si riducono enormemente gli stimoli cerebrali. Questo spiega meglio anche la demenza da eccesso di tecnologia».

Dando informazioni non stimola il nostro cervello?

«A chi produce tecnologia non interessa ciò che facciamo dopo che riceviamo le informazioni».Però ci profila con gli algoritmi.«E la nostra creatività è morta. Non a caso quando è nato il pc si chiamava terminale. Per i giganti dell'hi-tech il computer è il capolinea, il fine corsa».

Perché in una recente intervista al Mattino di Padova dopo il raid di una baby gang in una multisala ha preconizzato un'estate di scorribande?

«Se si apre il recinto delle pecore non succede niente perché sono mansuete e il cane pastore le tiene in fila. Speriamo tutti di poter andare a mangiare un piatto di spaghetti al mare, ma è evidente che una parte della popolazione da mesi è schiacciata come una molla e ora è pronta a scattare. L'abbiamo già visto l'anno scorso, temo che sarà peggio».

Un autorevole studio di epidemiologi, biologi e statistici prova che la scuola in presenza non trasmette contagi, eppure si continua ad adottare la dad. Con quali conseguenze?

«Devastanti anche a livello affettivo e relazionale, oltre che cognitivo. Un bambino che da un anno non può abbracciare o fare la lotta con gli amici subisce un danno grave. La notizia di quella ricerca produce sgomento in chi, come me e altri studiosi, ha dato l'allarme da mesi. Purtroppo non solo il ministro della Salute, ma anche la comunità scientifica ha dimostrato tutti i suoi limiti».

Virologi ed epidemiologi sono i nuovi oracoli.

«Commentano i bollettini quotidiani analizzando le cellule. Come se non esistessero le emozioni. Nel Comitato tecnico scientifico non sono presenti studiosi della mente e dell'anima».Un amico mi ha raccontato che suo figlio iscritto alla prima liceo dove si studia in dad prende tutti 2, mentre alle medie aveva la media del 9.«Non mi sorprende, è un caso che vale come esperimento sociale. Pensi, in proposito, al capolavoro di uno dei maggiori editori italiani che ha avviato un'iniziativa per regalare un tablet a tutti i bambini italiani».

Perché è un errore concentrarsi sugli eccessi dei giovani?

«Perché sono cuccioli di gorilla. Mal educati o non educati».

Deficit di educazione, responsabilità degli adulti?

«Lo segnalo da 30 anni, ho anche creato una Scuola per genitori che ha 36 sedi in tutta Italia. Il deficit di educazione ha ricadute economiche devastanti».

Per esempio?

«Giovani che non studiano come potranno prendere sulle spalle le aziende create dai padri e dai nonni? O le venderanno o le chiuderanno. È una generazione di mantenuti che vivrà grazie all'eredità».

O ai sussidi.

 «Com' era quota 100 che Mario Draghi ha deciso di togliere e Salvini ha potuto solo incassare. Presto toglieranno anche il reddito di cittadinanza. Credo non ci sia provvedimento più diseducativo che dare del denaro a chi non fa niente».

Cosa pensa delle risse organizzate via social?

«Sono sintomo d'impotenza. Non potendo pensare un progetto di vita, si sfoga la propria aggressività contro il mondo dando botte da orbi, come si diceva una volta. L'orbo è il miope che non vede il futuro».

La stranezza è che sono organizzate.

«È consolatorio sapere che ci sono tanti orbi. Chi ha un'idea, una passione, è da un'altra parte. Un ragazzo che studia per laurearsi non va ad ammazzarsi di botte in piazza».

Come sarà la nostra vita dopo la pandemia?

«Ne scriverò nel prossimo libro che uscirà il 18 maggio da Mondadori e s' intitolerà Oltre la tempesta. Non si potrà fare il copia incolla del 2019, ma non ce lo dicono perché altrimenti cresce l'ansia. Resteranno quote consistenti di vita digitale, mi auguro non eccessive. Provi a immaginare uno scenario che sommi smart working, intelligenza artificiale e robotizzazione e mi dica cosa vede».

Oltre a lavarci le mani e indossare le mascherine, tutti abbiamo un antivirus personale: qual è il suo?

«Scrivo».

·        Paolo Del Debbio.

Paolo Del Debbio? "Se li è bevuti tutti, come è diventato una colonna a Mediaset": Feltri svela ciò che nessuno sa. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 02 dicembre 2021. Ora che sono vecchio mi rendo conto di essere un uomo fortunato. Da qualche tempo mi capita perfino di leggere un buon libro e non resisto alla tentazione di commentarlo sui giornali per i quali distrattamente lavoro. Ormai non faccio che maneggiare volumi, è il modo più semplice per vincere la noia. L'ultimo testo che ho compulsato, edito da Piemme, è firmato da un mio amico caro, Paolo Del Debbio. Il titolo è le Dieci cose che ho imparato dalla vita. Dieci sono tante e costituiscono un patrimonio. Io ne ho assimilate molte meno pur avendo una maggiore età. La più importante che ho appreso è che nella nostra esistenza valgono solo due cose: la salute e il denaro. Il quale denaro serve prevalentemente a evitarti rotture di scatole. Paghi e amen, problema risolto. Per il resto basta aver ricevuto in famiglia una buona educazione, un'impronta indelebile. E l'autore in questione ha avuto la buona sorte di "scegliersi" genitori e fratelli di ottima estrazione anche culturale. La storia di Paolo è a tratti entusiasmante. Egli è nato in un contesto modesto, ma fin da piccolo ha respirato aria pura e ciò gli ha consentito di crescere come fosse un principe. Ha studiato bene, molto bene, si è laureato in filosofia, è diventato professore universitario e da Lucca, la sua città, ha spiccato subito il volo verso Milano dove è diventato qualcuno. La sua fatica è stata tanta, ma quando viene affrontata con lo spirito tipico del provinciale intelligente non pesa al punto di paralizzarti, anzi, la sofferenza aiuta a superare grandi difficoltà. Il nostro non è un eroe, semplicemente è un uomo solido che si è piazzato con le proprie forze nel bel mezzo della mischia degli intellettuali, la maggior parte dei quali si fa spingere dalle raccomandazioni. Del Debbio si è spinto da solo ed è arrivato in alto senza dover ringraziare nessuno tranne se stesso.

I PRESOCRATICI 

Giovanissimo affianca come ausiliario Fedele Confalonieri, un genio con una caratteristica peculiare: se ti può fare un piacere stai certo che non te lo fa. Ti costringe ad arrangiarti. E Paolo si è arrangiato conquistandosi il podio allorché ha scritto lodevolmente il primo programma di Forza Italia, il partito creato dalla mattina alla sera da Silvio Berlusconi. Un lancio così ha consentito a Del Debbio di prendere il volo non solo in politica, bensì pure in televisione ergendosi a campione di ascolti. Oggi conduce un programma, il primo talk show, Dritto e rovescio, con abilità consumata ed è una colonna di Mediaset. Forse mi fa velo l'amicizia, ma questo personaggio affabile e cordiale riesce a domare il suo pubblico con il sorriso e l'intelligenza. È amato e seguito. La sua dote di comunicatore collide un po' con la sua preparazione scientifica nettamente più importante di quella di coloro che lo seguono, compreso me stesso. Anche io ho tentato di studiare filosofia, ma mi sono fermato ai presocratici, che hanno detto tutto ciò che mi interessava. I pensatori che sono venuti dopo mi sono sembrati rimasticatori e non li ho seguiti con sommo interesse. Paolo invece se li è bevuti perché è più sapiente di me, che sono un semplice scrivano. È utile leggere il suo libro per imparare a stare al mondo.

Dritto e Rovescio, mistero-Del Debbio: "Nessun ordine di servizio". Un caso a Mediaset, che fine fa il conduttore? Libero Quotidiano  il 30 novembre 2021. Giallo in caso Mediaset. Un problema che riguarda due stelle di Rete 4 come Paolo Del Debbio, conduttore di Dritto e Rovescio su Rete4, e Mario Giordano, conduttore di Fuori dal Coro. Il primo, ospite di Un Giorno da Pecora su Rai Radio, ha risposto alle indiscrezioni uscite in questi giorni sulla possibilità che i due programmi in questione dovrebbero fermarsi per una lunga pausa natalizia, esattamente dal 9 dicembre al 27 gennaio. "Sui siti hanno scritto che io e Mario Giordano ci fermiamo per troppo tempo, ma io l'ordine di servizio non l'ho ancora ricevuto...", ha detto ironicamente Del Debbio. Le indiscrezioni dicono che i talk sarebbero fermati perché soffierebbero sul fuoco dei No Vax e sarebbero quindi preferibili trasmissioni più moderate. "Io non occhieggio a nessuno, i no vax mi attaccano violentemente spessissimo, ultimamente anche su WhatsApp. Ho fatto la terza dose, sono assolutamente favorevole al vaccino. Io faccio un dibattito e per farlo bisogna esser in due, non si può fare un talk show con una sola voce. Io faccio parlare tutti ma poi a casa ognuno si fa la sua opinione. Io faccio così, se non vogliono che faccia così lo fa un altro, ci sono tanti conduttori in Italia", ha spiegato Del Debbio respingendo le accuse. "Io non sono per nulla preoccupato da questa eventualità. Non voglio sapere nulla, faccio il mio lavoro. Se dovesse essere confermato questo lungo stop, sarebbe innaturale perché di solito si finiva a metà dicembre come tutti e si ricominciava dopo l'Epifania", aggiunge Del Debbio. Quanto alla possibilità di Berlusconi di essere eletto Presidente della Repubblica, Del Debbio afferma: "Non lo so, io penso che la persona che ci crede di più sia lui. Non lo sento da un pò di tempo ma mi hanno detto che lui ci crede molto. Cosa c'entri la mia trasmissione con la sua eventuale elezione al Colle, comunque, mi sfugge", conclude amaramente.

Paolo Del Debbio: «Mio padre Velio deportato in Germania. Fame, freddo e botte: non si piegò». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2021. «È la prima volta che scrivo di questi fatti. Prima non ce l’ho mai fatta, ma ho preparato tanto materiale per poterne scrivere nel modo più accurato...». Si potrebbero raccontare molte storie, tratte da «Le 10 cose che ho imparato dalla vita», il libro di che Piemme pubblica martedì: la scelta del seminario, l’uscita dopo due anni, la scoperta della «passione della carne», gli studi di filosofia, la fondazione di Forza Italia, il successo televisivo. Proprio a «Dritto e rovescio», la sua trasmissione, qualche tempo fa Del Debbio sbottò: «A me non dovete rompere le scatole sul fascismo, sono figlio di un deportato». In queste pagine l’autore racconta, tra le altre, la storia di suo padre: Velio Del Debbio, uno degli 800 mila italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’8 settembre, uno dei 650 mila che restarono per quasi due anni nei campi di prigionia in Germania. Una pagina di Resistenza di cui si è sempre parlato troppo poco. «Velio Del Debbio era nato il 20 aprile del 1922 in una famiglia di contadini. Nacque a Sant’Anna, frazione di Lucca, come me e come Lilia che sarebbe diventata sua moglie e che morì un 20 aprile di un anno tanto tempo dopo la sua morte: il giorno in cui il suo amore di una vita era nato. Mi piace pensare che sia successo così perché in un certo senso quel giorno, incontrandola di nuovo in Paradiso, anche lui era nato un’altra volta». Velio aiuta il padre nei campi, arrotonda lavorando in un’officina e in un autolavaggio. Unico svago, la pista da ballo, dove conosce Lilia. A 19 anni, l’esercito, la guerra, la Grecia: aviere aiuto automobilista. «L’8 settembre 1943 il mio babbo fu fatto prigioniero dalle truppe tedesche, detenuto per qualche tempo in una prigione improvvisata dove prese anche un sacco di legnate, poi messo su un treno, su un vagone merci per il bestiame, e da lì spedito in Germania, come un numero, come un animale, perché questa era la considerazione che dell’uomo aveva il nazismo, e mio padre l’avrebbe sperimentato sulla sua pelle. Nel vagone dove rimasero per dieci giorni erano circa una sessantina. Erano stremati, affamati, morti dalla stanchezza». Nelle stazioni dove il treno si fermava qualcuno, sfidando la sorveglianza dei tedeschi, portava loro qualcosa da mangiare: un po’ di pane, acqua, qualche frutto. Ma quando il convoglio «iniziò l’attraversamento dell’Austria e della Germania, la gente si rivolgeva a loro urlando: “Badogliani traditori...”, agitando le mani in segno di minaccia e di disprezzo. In tutto il viaggio furono fatti scendere una sola volta e gli dettero un ramaiolo di miglio cotto che dovettero mettere in mano o nel berretto di chi lo aveva e poi berlo da lì. Erano vestiti come erano partiti, con i pantaloni di tela e una camicia addosso». Arrivarono nel campo di concentramento di Luckenwalde, nel Brandeburgo, sessanta chilometri a Sud di Berlino. «Furono spogliati, lavati con una canna dal potente getto di acqua fredda, gli fu buttata addosso della polvere bianca contro i pidocchi — che sarebbero stati il loro tormento durante tutta la prigionia —, gli furono fatte le fotografie, preso il nome, gli fu dato un numero (da ora in poi sarebbero stati chiamati per numero e non per nome), gli rasarono i capelli e gli furono consegnate quella specie di divise a righe verticali, di una tela che doveva andare bene sia per l’inverno che per l’estate». Tutte le mattine, dopo la sveglia alle 6, freddo o caldo che sia, dopo aver dormito su un pagliericcio, i prigionieri italiani si fanno la barba. «Loro ci consideravano e ci trattavano come delle bestie, mi diceva il babbo, ma noi gli dovevamo far vedere che ci tenevamo a essere puliti e ordinati, come degli uomini, e a mostrargli la nostra dignità». Un altro momento di dignità sono le pulizie della domenica, dopo la messa celebrata dal cappellano militare: tenere in ordine la baracca è una missione comune, un modo per stare insieme, rafforzare la solidarietà, ricordare la semplicità e il rigore delle loro case contadine. Commenta l’autore: «L’umanità di questa povera gente veniva da un luogo dell’anima più profondo e puro della malvagità nazista, e a essa resisteva perché radicata nella loro realtà e non nell’idea folle suicida di quella ideologia. Il mio babbo era un uomo piagato da questa esperienza disumana, ma non era un uomo piegato. Non so francamente come, ma anche sotto le bastonate, le manganellate e le botte inflittegli col calcio del fucile aveva mantenuto la schiena dritta». Ad alleviare la sofferenza, Velio ritrova nel campo un suo compaesano di Sant’Anna, un uomo grande e grosso, Alfio. Ma alla fine della prigionia peseranno quaranta chili. Nei campi nazisti decine di migliaia di internati militari italiani (Imi) morirono di fame, botte, stenti. «Le guardie mettevano in bella vista le ciotole piene di carne destinate ai cani, come a voler significare che i cani meritavano più rispetto di loro, i prigionieri deportati». Luckenwalde era anche un campo di smistamento, dove passavano gli ebrei prima di essere avviati ai campi di sterminio. Per prima cosa venivano privati degli occhiali, calpestati davanti ai loro occhi dagli scarponi delle Ss. «A turno, Alfio e il mio babbo facevano loro la barba proprio per lasciar loro almeno quel brandello di dignità di un po’ di cura e igiene personale. Per questo tutti e due furono bastonati varie volte e lasciati senza il rancio quotidiano o in piedi fuori dalla baracca tutta la notte, dovendo il giorno dopo andare comunque a lavorare. Con la proverbiale ironia un ebreo disse a mio padre, non so in che lingua e come mai mio padre riuscì a capirlo: “Grazie Velio, almeno morirò con la barba fatta”. Sempre parlando di loro il mio babbo mi ha detto spesso: “Ho conosciuto qualche santo in vita”. Si riferiva alla loro fede, alla loro compostezza, alla loro dignità». Poi i tedeschi si fecero meno arroganti, meno crudeli. La guerra ormai era perduta. Il 22 aprile 1945 nel campo arrivarono gli americani. Il viaggio di ritorno dei prigionieri durò mesi. Da Verona a Lucca Velio andò a piedi. Un bagno nel Serchio, il fiume citato da Dante e da Ungaretti, per non tornare sporco da Lelia, che l’aveva aspettato. Come tutti gli altri, della prigionia Velio non parlava quasi mai. A differenza di altri, Velio non divenne astioso, era anzi un uomo dolcissimo. E però gli incubi notturni, i risvegli improvvisi, le lacrime davanti al documentario tv sul campo di concentramento. E la morte prematura, improvvisa. «Un medico mi disse che i segni della prigionia, le ferite da qualche parte, erano rimasti nascosti e a un tratto erano venuti fuori». Le pagine sul funerale sono commoventi, come la sintesi della storia: «Dagli ebrei ho imparato che ti possono togliere anche tutto e provare a renderti niente, ma anche in queste situazioni puoi continuare a mantenere la tua dignità nel fondo dell’anima, il luogo dal quale non la può sradicare nessuno, perché ce l’ha porta Iddio e per sempre».

·        Peter Gomez.

Stefano Lorenzetto per "L’Arena" l'11 ottobre 2021. Per capire da chi abbia preso la stoffa del combattente il giornalista Peter Gomez, basta vedere una foto custodita nella casa di famiglia a Parona, che lo ritrae nel 1963 a New York, appena nato, fra le braccia di Aleksandr Kerenskij, il politico russo che sarebbe morto in esilio negli Stati Uniti di lì a sette anni, già ministro della Giustizia, poi della Guerra e infine capo del governo dopo la Rivoluzione d’ottobre, il quale nel 1917 cercò di tenere testa a Lenin e ai bolscevichi. Già molto tempo prima di approdare nella ridotta del Fatto Quotidiano come azionista («possiedo il 3 e qualcosa per cento») nonché direttore del sito e del mensile FQ Millennium, e in tv su Nove quale conduttore del talk show La confessione, il veronese d’adozione aveva provveduto ad accorciarsi il cognome, tagliando, in anticipo sulle teorie gender, quell’Homen maschilmente connotante: in cima o in fondo ai suoi articoli non è mai comparso. Allorché sul Giornale apparve «Peter Gomez» in calce a uno scoop sui diari di Aldo Moro prigioniero delle Br, la rassegna stampa di Radio Radicale ebbe buon gioco nel dichiararlo «firmato chiaramente con uno pseudonimo». Il taglio del cognome avvenne già sui banchi del liceo scientifico Messedaglia. Per compagna di banco aveva la figlia del questore di allora, Luigi Zingales. Siccome erano due chiacchieroni irredimibili, un professore spazientito li richiamò all’ordine con una crasi frutto della concitazione: «Gonzales, basta!». Che sia Speedy, non si discute. Primo stage all’Arena ad appena 20 anni. Segue Il Giornale, chiamatovi da Indro Montanelli, che lo porterà con sé anche nella sfortunata avventura della Voce. Resta disoccupato pochi mesi: Stampa ed Espresso se lo contendono. Sceglie di accasarsi nel settimanale come inviato. Lo lascia nel 2009 per dar vita al Fatto Quotidiano insieme con Marco Travaglio, che era stato suo sodale al Giornale. Oggi della famiglia Gomez Homen rimane nel Veronese solo Francesca, sorella minore di Peter, psichiatra, dirigente medico all’ospedale Orlandi di Bussolengo, che abita a San Floriano. Il padre Filippo, detto Lippo, se l’è portato via il coronavirus lo scorso 2 gennaio, nel giro di 48 ore. Meno di due mesi prima, era morta di tumore la madre, Patricia Fossati. Le loro ceneri sono nel cimitero di Marano. Peter, 58 anni il 23 ottobre, nacque nella Grande Mela perché in quel periodo Filippo Gomez Homen lavorava nella sede newyorchese della Bbdo, colosso mondiale della pubblicità. Lo raggiunse lì la fidanzata Patricia, proletaria milanese, figlia di un operaio socialista, femminista, simpatizzante del Pri. Si sposarono e nove mesi dopo arrivò il primogenito. Nel 1965 la coppia tornò in Italia con il frugoletto e si stabilì a Milano, poi a Firenze, quindi di nuovo a Milano. Il capofamiglia divenne direttore generale di varie agenzie pubblicitarie, sulle orme del padre Pier Filippo, per gli amici Piffi, che nel dopoguerra aveva fondato la Sirpi, ceduta negli anni Sessanta all’americana Bbdo. «Si deve al mio nonno paterno se siamo arrivati a Verona».

Racconti.

Affittò per le vacanze il casino di caccia della Villa Canossa di Garda, dove la marchesa Alessandra di Rudinì, prima di farsi suora, incontrava l’amante Gabriele D’Annunzio. Si diceva che il Vate comunicasse con lei con segnali dalla sponda opposta del lago. Da bambino verificai con il binocolo: di Salò o Gardone da lì non si vede un tubo. Poi il nonno si costruì una casa sulla Rocca di Garda. Morì nel 1983. È sepolto a Bardolino.

Mi parli di suo padre.

Aveva conosciuto un giornalista veronese, Gino Colombo. Insieme aprirono un’agenzia di pubblicità. Non andò bene. Tornò a Milano a lavorare per il fernet Branca. In seguito andò a Valdagno, a dirigere l’advertising della Marzotto. Dopodiché a Verona lanciò Vecom, sempre nel settore. Intanto mia madre aveva messo su un’agenzia di viaggi, Everywhere, vicino ai Portoni della Bra.

Dove abitavate?

In via Sant’Antonio, nel palazzo di fianco al cinema Corso, oggi chiuso. Da lì traslocammo in lungadige Re Teodorico. Infine a Parona. 

Che cosa pensa di Verona?

Sarà toccato anche a voi qualche ladro, ma nel complesso la città è sempre stata ben amministrata. Te ne accorgi visitandola. Le sono molto, molto affezionato. Da pensionato vorrei tornare a viverci. 

Ha un cognome iberico.

La stirpe arrivò dalla Spagna circa 500 anni fa: a Roma c’è un Palazzo Gomez acquistato da Baldassar Gomez Homen nel 1669. Da lì si espanse a Napoli, quindi a Firenze, dove nacque mio padre. Mio nonno ne fu il vicepodestà. Nel 1934 aveva sposato l’inglese Eleonora Haslip, chiamata così in onore di Eleonora Duse. La madre di mia nonna, austriaca, era una fan scatenata dell’attrice: aveva fatto piovere su Vienna petali di rosa in suo onore. In segno di riconoscenza, l’interprete dannunziana le fece dono di una Divina Commedia autografata, che oggi conservo io. Mio nonno non fece carriera con il fascismo perché sua cognata Joan Haslip, importante scrittrice, lavorava a Radio Londra. Anche lui se la cavava bene con la penna: collaborò con Tempo Illustrato, La Stampa e Il Borghese di Leo Longanesi. Era molto amico di Indro Montanelli, Luigi Barzini e Gaetano Afeltra.

Mi risulta che suo nonno sia stato deputato dal 1939 al 1943.

Esatto. Alessandro Pavolini, cui era legatissimo, progettava di portare in Valtellina il Duce e gli ultimi fascisti della Rsi per la battaglia finale, ma non lo volle con sé. «Noi siamo militari, tu sei un civile, vattene», gli ordinò. 

Dei suoi anni al liceo Messedaglia chi ricorda?

L’insegnante d’italiano, Valente Isolan, e quello di religione, don Giovanni Cremon, ossessionato dal sesso. Quante litigate. Per farlo arrabbiare, scrivevo sulla lavagna: «Che gaia la vita gay». Dava di matto. 

Com’è diventato giornalista?

Ero al terzo anno di giurisprudenza alla Cattolica di Milano. Mandavo lettere d’amore a Laura. Mi rispose: «Scrivi bene. Perché non fai il giornalista? Hanno appena aperto una scuola vicino a casa mia. Se vuoi, t’iscrivo». Accettai. Si trattava dell’Istituto Carlo De Martino per la formazione al giornalismo. Su 800 candidati, il mio tema si classificò primo, insieme con quello di Goffredo Buccini. L’orale lo sostenni con il veronese Giulio Nascimbeni, capo della Cultura al Corriere della Sera. 

E Laura l’ha poi sposata?

No. Ho avuto per compagna un’altra Laura, la stilista Urbinati. Siamo separati. Nostra figlia Olga, 16 anni, vive con lei. 

Arrivò all’Arena per uno stage.

Non pagato. La scelta fu mia. Gli altri puntavano ad andare nelle grandi redazioni. Pensai: in un piccolo giornale mi faranno lavorare sodo, quindi apprenderò di più. Al primo colloquio, il direttore Giuseppe Brugnoli mi disse: «Se qui impara bene il mestiere di cronista, poi potrà farlo anche a Beirut», e si riferiva alla guerra che infuriava in Libano. Aveva ragione. È vero, è così.

Ha imparato bene.

Fui affidato alle cure di un redattore eccellente, Giuseppe Anti. Primo servizio: sagra di San Vito al Mantico. Pensavano che tornassi con la classifica del palo della cuccagna. Invece scoprii che c’era un esposto alla Soprintendenza perché il sagrato della vecchia chiesa era stato coperto con una colata di cemento per trasformarlo in pista da ballo. 

Prometteva bene già allora.

Il secondo servizio fu legale. I vigili urbani avevano sequestrato la Leica al fotoreporter del giornale, Tiziano Malagutti, che aveva ripreso senza permesso alcuni lavori stradali. Siccome avevo dato sei o sette esami di legge, Anti mi trascinò al comando di via Pallone. Si unì Ermanno Ferriani, delegato sindacale. Uditi gli articoli del codice civile e penale, e persino della Costituzione, che secondo noi erano stati violati, la polizia municipale ci restituì la Leica all’istante.

Come fu assunto al Giornale?

Mio padre incontrò Montanelli alla presentazione di un libro. Gli parlò dell’esperienza all’Arena. Indro gli disse: «Per un Gomez ci sarà sempre un posto al Giornale. Mandamelo». Andai. Il direttore lesse i miei articoli: «Sei un bravo cronista, ma cerco uno per gli Spettacoli». Mi assunse al posto di Ugo Tramballi, promosso inviato. Trasferito in Cronaca, ci fu un epic fail (insuccesso clamoroso, ndr) che ancora mi fa svegliare di soprassalto la notte. 

Che accadde?

A 22 anni fui lasciato da solo a coprire il turno di notte. Alle 0.30, quando mancava un quarto d’ora all’ultima ribattuta, feci il giro di nera: incendio allo Skorpion center, una sauna appena dietro il Duomo. Evacuato il cinema sottostante. Telefonai a casa al vicecapocronista: «Corri sul posto». Andai. Né morti né feriti, solo danni. Quindi niente ribattuta. L’indomani tutti i giornali milanesi avevano la notizia in prima pagina. Il capocronista Ettore Botti per punizione mi tolse la firma. 

Quando la riebbe?

Dopo molti mesi. Mandato alla Pinacoteca di Brera per un appuntamento di routine, una guardia mi confidò che era stato rubato un quadro ma la notizia veniva nascosta. Però lo scoop in prima pagina lo firmò un altro. Il mio pezzo fu relegato all’interno. 

Erano tempi severi, quelli.

Riebbi la piena titolarità di nome e cognome solo quando a Firenze incontrai Giorgio Conciani, radiato dall’Ordine dei medici per aver procurato molti aborti clandestini. Aveva fondato il Club della dolce morte. Durante il nostro colloquio, ricevette una telefonata. Lo sentii dire: «Signora, gliel’avevo spiegato che 10 pastiglie di Roipnol non bastano...». Un’aspirante suicida. Me la passò e la intervistai. Ne nacque un casino infernale. 

Sentiva il peso dell’editore Silvio Berlusconi al Giornale?

All’inizio no. Finché non incontrai il suo amico Marcello Dell’Utri, presentatomi da un tipo che te lo raccomando, Filippo Alberto Rapisarda. Il manager di Publitalia fu allusivo: «Dottor Gomez, lei scrive molto bene. Però non è importante come si scrive, ma cosa si scrive». Arrivò Natale e Rapisarda mi mise in mano un pacchetto. Gli dissi che per tradizione aprivo i regali solo sotto l’albero. Il giorno fatidico lo scartai: era un Rolex d’oro che valeva quanto il mio stipendio di un anno. Informai Montanelli. Mi dirottò dal suo braccio destro Gian Galeazzo Biazzi Vergani. Che sentenziò: «Restituiscilo con una lettera garbata, spiegando che non puoi accettare un dono così importante». Rapisarda s’incazzò come una biscia.

Perciò seguì Montanelli quando si dimise per aprire La Voce.

Io, Travaglio e altri otto eravamo già nella lista di quelli che Indro avrebbe voluto con sé in un settimanale. Intendeva chiamarlo Il Caffè. Ero accanto a Berlusconi quando il Cavaliere venne in redazione al Giornale a promettere che ci avrebbe aumentato gli stipendi se lo avessimo difeso con la spada, anziché con il fioretto, nella sua lotta politica. Ugo Finetti  chiese a Montanelli di licenziarmi per gli articoli che avevo scritto sul Psi ben prima di Mani pulite. Il direttore lo accompagnò fino al pianerottolo e gli sibilò: «La prossima volta, queste scale gliele faccio fare a calci nel culo». Bobo Craxi spifferò in Consiglio comunale che al Giornale sarebbero saltate molte teste. Indro commentò: «L’unica testa che potrebbe rotolare è la sua, a patto che qualcuno sia in grado di trovarla».

Non crede che La Voce abbia firmato la propria condanna a morte quando l’art director Vittorio Corona, padre del noto Fabrizio, in un fotomontaggio raffigurò Enrico Cuccia come Dracula?

Lo credo sì! Ci ritrovammo contro non solo Mediobanca, ma l’intero sistema. Aggiunga la gestione economica folle. Incassavamo stipendi che manco al Corriere. 

Perché dal Fatto Quotidiano cartaceo si è spostato sul Web?

Sono andato lì con l’idea di costruire la piattaforma digitale. Dirigo 22 giornalisti, siamo al terzo posto fra i siti dei giornali, abbiamo 10.000 abbonati, fatturiamo 5 milioni di euro l’anno, guadagniamo. 

Italia Oggi nel 2013 la dava favorito per la direzione del giornale.

Il direttore Antonio Padellaro offrì la condirezione a Travaglio e a me, ma questo avrebbe significato trasferirmi da Milano a Roma. Rinunciai.

Il miglior pregio di Travaglio?

Ha una capacità di lavoro mai vista in vita mia. Alle 4 del mattino è ancora lì che scrive. 

Il peggior difetto?

Non dimentica mai. Ricorda le scortesie di 20 anni fa. Io no. Se perdoni, vivi meglio. 

Siete appiattiti sulle Procure.

Non direi. Abbiamo condotto battaglie durissime contro le correnti nella magistratura e la Procura di Roma, allora guidata da Giuseppe Pignatone.

E appiattiti sul M5s e sull’ex premier Giuseppe Conte.

Nell’edizione su carta è vero. Però Marco e io siamo nati molto prima dei 5 stelle. La riforma della prescrizione del ministro Alfonso Bonafede la lanciammo noi. Idem l’idea del reddito di cittadinanza. 

Chi vorrebbe a Palazzo Chigi?

Finché dura la pandemia mi sta bene Mario Draghi. 

E al Quirinale?

Lo sa che non lo so? 

Espatrierà, se ci va Berlusconi?

Ma no! Siamo stati governati da lui, da Craxi, da Andreotti, da Prodi... I politici passano, i giornalisti restano. 

Come sceglie gli ospiti televisivi per La confessione?

Devono avere una storia e un lato oscuro nel loro successo. 

Per questo ha intervistato la pornostar Valentina Nappi?

Il canale Nove è poco conosciuto. Ho bisogno di volti che attirino chi fa zapping. 

O l’ha scelta perché scrive su MicroMega, pensosa rivista alla quale anche lei collaborava?

Anche per quello. 

Si è bevuto senza battere ciglio che Nappi guadagna 3.000 euro al mese. Lordi. Ma dài!

Ha ragione, chiedo venia. Avrei dovuto sfruculiarla. 

Vittorio Sgarbi dice di lei: «Un inquisitore intelligente e affettuoso che da ognuno estrae emozioni e riflessioni insolite e acute».

L’intervista con lui fu tra le più belle. Mi aveva dato del mafioso. Avrei potuto querelarlo e spillargli molti soldi, ma sono contro i reati d’opinione. 

Dopo la tragedia di suo padre, come giudica i no vax?

Il vaccino è l’unica coperta che abbiamo. Magari avrà qualche buco, ma quando fa freddo devi usarla, se non vuoi morire di gelo.

Il dibattito sulla pensione a Formigoni. “Guadagno 160mila euro, teniamo stipendi bassi per far lavorare i giovani”, Peter Gomez e lo scontro con Telese. Fabio Calcagni su Il Riformista il 7 Giugno 2021. Uno scontro in cui sono volate parole grosse. È quello andato in scena domenica durante la trasmissione di La7 Non è l’Arena che vedeva ospiti l’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, il direttore del Fatto Quotidiano online Peter Gomez e il giornalista Luca Telese: al centro del dibattito la polemica politica sui vitalizi, con Formigoni che si è visto riconoscere il diritto alla pensione da senatore dopo la condanna a 5 anni e 10 mesi per corruzione. Secondo il direttore web del Fatto infatti sarebbe sbagliato assicurare il riconoscimento di una lauta pensione da senatore a Formigoni in virtù della sua condanna. Un punto su cui è Telese, ex firma del giornale di Travaglio, ad attaccare Gomez: “Peter quanto prendi di stipendio come direttore del Fatto? Non guadagni il doppio di un parlamentare?”. “160mila euro lordi, meno di un parlamentare, lo dico in televisione senza problemi”, ribatte Gomez, che aggiunge anche di avere uno stipendio più basso di altri colleghi direttori “perché qui (al Fatto Quotidiano, ndr) teniamo gli stipendi bassi per dare lavoro ai ragazzi”. Il dibattito si sposta quindi su Formigoni e la sua pensione da senatore. Secondo Gomez l’ex governatore lombardo ha diritto “a una pensione che gli garantisca di non morire di fame, ma non di quelle dimensioni”. Ma sono gli stessi Telese e Formigoni a spiegare che in realtà si tratta di un trattamento da circa 2mila euro al mese: “Si tratta – ha sottolineato ancora Formigoni, ricordando di aver lavorato 34 anni “al servizio del Paese, 18 in Regione Lombardia” – di 2mila, 2.200 euro al mese. Lo vedremo appena arriva, non certo di 7 mila come è stato detto”. Sempre Telese ricorda come dopo la condanna a 5 anni di Formigoni, la giustizia italiana ha sequestrato case e conti corrente a Formigoni, anche gli appartamenti cointestati con i fratelli: “Formigoni ha fatto il politico – sottolinea Telese – e non ha un’alta pensione. È molto semplice: c’è la giustizia o c’è l’accanimento? Se no istituite la pena di morte e quando uno viene condannato lo ammazzate”. Toni che si accendono quando il giornalista ricorda al direttore del Fatto online che era un garantista “e ora sei diventato un Torquemada”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Gianmarco Aimi per mowmag.it il 28 marzo 2021. “Ciao, dammi del tu”. Peter Gomez è da anni il direttore del Fattoquotidiano.it, oltre a essere uno dei migliori giornalisti italiani e autore di libri (d’inchiesta) bestseller, ma il suo approccio è sempre quello del cronista di razza: pochi fronzoli e dritto al punto. E, vista la sua esperienza, dopo avergli chiesto cosa ne pensa del caos in Lombardia sulla distribuzione dei vaccini, non si è sottratto anche a tante altre domande che, solitamente, la maggior parte degli intervistati vorrebbe conoscere in anticipo. Solo a una non ha voluto rispondere. “I giovani giornalisti più promettenti? Ce ne sono due al Fatto, ma non farmi fare nomi che poi è un casino”. Comprensibile. Su tutto il resto, invece, nessuna remora. Così come non ha mancato di criticare Andrea Scanzi per aver reso pubblica la sua vaccinazione: “Siamo giornalisti: troviamo e commentiamo notizie, non siamo noi la notizia”. Molti si sono stupiti che non abbia difeso un collega del suo stesso giornale, ma lui ci ha fatto notare che ultimamente non era d’accordo neanche con Marco Travaglio: “Sul governo avevamo idee opposte, ma è proprio questa la forza del Fatto: rispetto a tutti gli altri non siamo in una caserma”. E così, mentre sui ritardi del sistema di vaccinazione “le responsabilità sono tutte politiche” e infatti “in Lombardia Fontana non lo faranno ricandidare” anche dal cambio al governo Conte-Draghi non ha visto innescarsi sostanziali miglioramenti: “Quasi nessuno, né sui vaccini né sui ristori che invece sono più bassi”. Lo abbiamo poi sollecitato su Matteo Renzi: “Non ricordo un politico che abbia dilapidato un tale consenso in così poco tempo” e su Silvio Berlusconi: “Non provo nostalgia. È stato un "corruttore", ma il tempo ridimensiona tante cose”. Così come su un suo possibile cambio di giornale dopo tanti anni: “Ho rifiutato la direzione del Tg1 e mi piacerebbe anche dirigere il Corriere o Repubblica, però l’ostacolo è sempre il solito: non sarei mai così libero come sono adesso”.

Direttore, dall’avvicendamento al governo fra Giuseppe Conte e Mario Draghi è cambiato qualcosa sul fronte delle vaccinazioni?

No, si è smosso poco o niente. Lo ha ammesso lo stesso Draghi quando ha fatto il suo appello alle regioni per sollecitarle a rispettare quanto stabilito. Quando è andato via Arcuri si facevano 200mila vaccini e ad oggi se ne fanno 240mila circa. Ma obiettivamente non si smuoverà niente di rilevante finché non arriveranno davvero tanti vaccini.

Però sembra che, anche con quei pochi che abbiamo, le differenze di efficienza fra regione e regione siano particolarmente accentuate.

È innegabile che ci siano regioni più organizzate e regioni meno. Fra queste ultime la Lombardia, inutile girarci intorno se la confrontiamo con il Lazio. E poi c’è stato un problema di fondo: quando Astrazeneca è arrivato in Italia era concesso fino ai 55 anni, quindi sono saltate fuori le famose categorie. Ma poi l’età si è alzata ai 65 anni e ora sembra che aumenterà di nuovo. Questo ha causato disagi enormi. Inoltre, nessun governo può autorizzare la centralizzazione della gestione, perché la clausola che dà potere alle regioni è in Costituzione. Però è innegabile che sia necessario un coordinamento. A questo punto, però, non è ancora cambiato nulla.

La Lombardia è dal primo giorno il fronte più caldo. Di chi sono le responsabilità per gli errori che sono stati commessi?

Gli errori politici sono moltissimi, la cronaca lo dimostra. Per esempio, a un certo punto si disse che la Lombardia avrebbe fatto un accordo con Poste per usare la sua piattaforma. Ma Poste fece presente che non era in grado di aggiornarla sui desiderata della Regione. A quel punto cambiarono rotta dichiarando di voler utilizzare Aria (Agenzia regionale per l’innovazione e gli acquisti, nda), ma a sua volta non aveva un sistema a disposizione per fare questo tipo di attività. Nonostante ciò, invece di organizzarsi con Poste o di costruire una piattaforma con Aria, hanno deciso di partire lo stesso per non rimanere indietro rispetto ad altre regioni e i risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti. Queste sono responsabilità politiche, perché se si sono trovati a riempire dei fogli Excel, come ho letto, è evidente che qualcuno a monte doveva informarsi prima. E in base a quello che puoi fare seguono gli annunci pubblici, non il contrario. 

Pensi che il governatore Attilio Fontana si ricandiderà?

Non lo faranno ricandidare. Mi sembra evidente. Adesso viene sostenuto perché sarebbe controproducente per la Lega lasciarlo solo, ma per molti motivi ha fallito. E dico purtroppo, perché io abito in Lombardia e sarei stato felice che non avesse fallito. Anzi, i primi due mesi non ero così critico verso di lui, perché mi ero reso conto che ci era piombato addosso uno tsunami. Qualcosa di veramente impressionante. Ma il grave è accaduto dopo, quando abbiamo perso mesi in regione con decisioni sbagliate. Dalla piattaforma per la prenotazione dei vaccini, al Piano della mobilità che puntava a riaprire scuole, negozi e uffici e invece a settembre-ottobre non era ancora pronto e si sono trovati a dire “oddio e adesso come facciamo?”, senza contare la miriade di messaggi contraddittori che hanno lanciato. 

La politica, ancora una volta, non si è distinta per efficienza e lungimiranza?

Uno dei pregi di questo governo, che gli va riconosciuto, è che avendo dentro anche Lega e Forza Italia almeno ci sta risparmiando una serie di polemiche surreali a cui assistevamo su ogni provvedimento di Conte. Questo però ha anche dei difetti, perché nessuno ha ancora detto una parola sul fatto che i sostegni arriveranno in ritardo e saranno inferiori ai ristori precedenti.

Ora si è infilato nel cul-de-sac dell’amicizia con Bin Salman, considerato il mandante dell'omicidio del giornalista Kashoggi. Ma ricordi un politico che, come Matteo Renzi, ha dilapidato un enorme consenso politico in così poco tempo?

Effettivamente no. Ho letto de L'Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, ma non ero ancora nato (fu fondato nel 1914, nda), ma non credo avesse un consenso così ampio. La parabola di Matteo Renzi ha qualcosa di straordinario per quello che era riuscito a fare e ora è anche molto triste.

Che effetto ti fa, invece, vedere Silvio Berlusconi sempre più defilato e indebolito dall’età. Dopo tante battaglie, provi forse un po’ di malinconia?

Cerco di essere obiettivo. Tutto quello che ho scritto su Berlusconi era vero, però dal punto di vista politico, sia per l’età che per la consistenza attuale del suo movimento, alcuni dei problemi strutturali che rappresentava per il nostro paese stanno venendo meno. Il famoso conflitto di interessi esiste ancora? Non ho particolari simpatie per lui, ma quando passerà a miglior vita, e spero il più tardi possibile, credo che larga parte di quei problemi verrà a mancare. Il tempo chiude tante cose.

Lo riabiliti sul piano storico?

No, perché resta il fatto che per tanti anni è stato un "corruttore" di questo paese. Non perché pagava qualcuno, ma rispetto ai modelli dell’etica pubblica che ha diffuso. Molti si sono lamentati di Trump, ma moltissime cose simili le aveva già fatte Berlusconi nel suo periodo d’oro. La gente purtroppo dimentica in fretta. Ora dicono anche che Umberto Bossi è diverso da Matteo Salvini, ma io i manifesti contro gli stranieri me li ricordo anche della Lega Nord bossiana, così come tutto quello che dicevano contro il Sud. Ma adesso non vedo tanti diavoli in giro in politica, ma gente che va a caccia di consenso. È comunque un guaio, perché pensano solo alle elezioni e non al bene del paese.

Torno sul tema dei vaccini e ti lancio una provocazione. Se fosse successo in un’altra testata giornalistica, forse il Fatto quotidiano avrebbe titolato: “Volano gli stracci fra Gomez e Scanzi”. Mi riferisco al caso aperto dalla sua vaccinazione. Esagero?

Ma no, io ho solo affermato un principio. Ci sono cose che la legge consente di fare e Andrea mi pare abbia seguito la legge, fino a prova contraria, ma non per forza sei tenuto a farle. Io mi sarei comportato in maniera diversa. Non avrei fatto il vaccino o, se lo avessi fatto, non lo avrei pubblicizzato. Siamo giornalisti e possiamo trovare notizie, commentarle, ma non trasformarci in notizie noi stessi. Possono diventare dei simboli per la vaccinazione il presidente della Repubblica o Lukaku, se decidono di prenderlo come testimonial, ma non noi giornalisti. Comunque, non è la prima volta che in questo giornale la pensiamo in maniera diversa.

Per esempio, su cosa non ti trovi sempre d’accordo con la linea editoriale?

È capitato più volte, anche recentemente. Per esempio, io e Marco Travaglio, che siamo due direttori diversi, abbiamo sostenuto posizioni differenti su questo governo. Io ero convinto che dovesse nascere, perché non potevamo permetterci di andare a elezioni durante una pandemia. Lui invece la pensava in maniera diversa, in particolare sull’ingresso del M5s nel governo. Ma proprio per questo è un giornale che in confronto agli altri non è una caserma.

Negli altri giornali i giornalisti non sono liberi?

Basta ricordare qualche mese fa quando tutti ci raccontavano che sarebbe arrivato Draghi e con la sola l’imposizione delle mani avrebbe risolto tutti i nostri problemi, creando delle aspettative enormi e quindi correndo il rischio di enormi delusioni. Tutti insieme lo hanno sostenuto all’unisono. E adesso, dove sono finiti? Come tutti i paladini del Mes, che sostenevano fosse un dibattito ideologico. Ma chi applicava l’ideologia in realtà erano loro, infatti Draghi ha detto la cosa più ovvia: noi quei miliardi non saremmo stati in grado di spenderli nel giro di così poco tempo e quindi sono soldi che sarebbero stati buttati. Adesso se lo dici vieni definito “pragmatico”.

Dicci la verità, nonostante abbiate scritto insieme libri di inchiesta diventati bestseller, fondato Il Fatto e condotto insieme una miriade di battaglie, c’è qualcosa che non sopporti di Marco Travaglio?

Nulla, però ha delle cose che gli invidio. Una mostruosa capacità di scrittura e il suo temperamento che lo porta ad avere molte più certezze di me. Forse perché io vengo dal giornalismo investigativo. L’essere sicuro di sé è un vantaggio, perché il pubblico chiede certezze, non dubbi. Sono caratteristiche che vorrei avere anch’io, ma non farmi apparire come invidioso…

Passati quasi dodici anni, Il Fatto quotidiano lo ritieni ancora il progetto editoriale più interessante in circolazione, o ne vedi altri nuovi che stanno facendo bene?

Ce ne sono di belli in giro, però sono ancora piccoli. Tpi (The Post Internazionale, nda) è un buon progetto. Ma noi siamo stati bravi ad allargarci alla Tv e con la casa editrice ai libri. Siamo ancora “piccoli” rispetto ad altri, ma riusciamo a resistere in un sistema dominato da alcuni colossi. Noi sul sito avevamo l’obiettivo di diventare più grandi possibile, perché in quel momento storico c’era il rischio che il mercato avrebbe fatto fuori proprio i più piccoli, ma ora che Google e Facebook forse hanno deciso di pagare le notizie agli editori potrebbero cambiare molte cose. Diciamo che, comunque, siamo diventati abbastanza grossi da pensare che è difficile buttarci giù.

Chi sono i giornalisti giovani più promettenti?

“Ce ne sono due al Fatto, ma non farmi fare nomi che poi è un casino (ride, nda). Ci sono bravissimi giornalisti in qualsiasi giornale. Anche in quelli con le linee editoriali peggiori. Non bisogna confondere le testate con i colleghi. Io ne leggo di bravi in qualsiasi giornale o ne vedo in qualsiasi televisione o sito. Spesso i più bravi fanno poca carriera, ma questo è un altro discorso.

Dopo tanti anni, persino Cristiano Ronaldo ha cambiato squadra e a breve lo farà anche Messi. Ma Peter Gomez non ci ha mai pensato di andare a lavorare altrove?

Se avessi abbastanza libertà, andrei ovunque. Solo che finché avrò tanta libertà al Fatto non succederà. Ho rifiutato la direzione del Tg1 tre-quattro anni fa, perché il problema era proprio quello. Non poteva esistere che mi mettessi addosso una casacca di partito, nello specifico quella del governo gialloverde. Ma anche di qualsiasi altro colore avrei detto di no. Per anni avevo chiesto una Rai libera dai partiti e non potevo far finta di essermi dimenticato tutto. Però, cavoli se mi sarebbe piaciuto fare il direttore del Tg1. Così come mi piacerebbe fare il direttore del Corriere e di Repubblica. Ma la domanda è: con gli editori che hanno quei giornali, credi possa avere tutta la libertà che ho in una società editoriale come il Fatto? La risposta è no.

Si torna ancora alla libertà dei giornalisti.

Quando sento i colleghi di altre testate che mi dicono “noi siamo liberi” gli rispondo: “Ma dai, ragazzi, non raccontatemi puttanate”. Ho lavorato con editori di tutti i tipi e, certo, puoi rifiutarti di fare cose che non ti vengono chieste in maniera diretta, ma se le fai avrai determinate possibilità di fare carriera. Così funziona il sistema. Come è evidente che ogni editore ha il diritto di scegliersi, non un direttore che obbedisce, ma un direttore che la pensa esattamente come lui. Solo che prima succedeva molto meno, perché con i giornali gli editori guadagnavano un sacco di soldi. Adesso, invece, con i giornali ci perdono e i direttori sono meno liberi.

Un esempio?

Quando lavoravo a l’Espresso, che era una macchina da soldi, Claudio Rinaldi era molto libero, anche se poi andava d’accordo con Carlo De Benedetti che era il suo editore. Però portandogli tanti soldi, la sua libertà era sicuramente maggiore rispetto a chi adesso di soldi ne porta pochi o ne fa perdere.

Un consiglio a un giovane giornalista che vuole emergere?

La competenza è utile, il senso della notizia lo puoi acquisire, ma diciamocelo: guarda Cristiano Ronaldo, c’è gente che si può allenare tutta la vita ma non diventerà mai come lui. Così anche nel giornalismo. Comunque, il mio consiglio è di non avere paura. Non bisogna diventare dei rompicoglioni, ma essere disposti a fare delle battaglie su alcuni principi rispetto ai quali non si è disposti ad arretrare. Il rischio è duplice. Da una parte, nel 99% dei casi farai poca carriera. Però se ti guardi intorno, noti che chi ce l’ha fatta, a parte quelli che leccavano il culo all’editore, è tutta gente che ha avuto il coraggio di andare controcorrente.

Giornalista d’inchiesta, scrittore, direttore. Peter Gomez si sente realizzato?

Ma no, è impossibile! A volte sono felice, ma realizzato no. Le cose che hai fatto, poi te le dimentichi. È come nello sport. Dopo che hai vinto a cosa pensi, alla vittoria o alla prossima partita? Io penso ancora alla prossima partita.

·        Piero Sansonetti.

Piero Sansonetti contro Piercamillo Davigo: "Un bulletto. Un politico al suo posto sarebbe già stato incriminato". Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. «Non è inverosimile che la loggia Ungheria esista. Ma il punto è che la magistratura opera nella totale illegalità» «Piercamillo si presentava come un Savonarola... Ma se le cose che ha fatto lui le avesse fatte un politico, sarebbe già stato incriminato» «Con questi referendum Salvini sta facendo la cosa migliore da quando lo conosco: ma i quesiti non devono lasciare scampo» La giustizia italiana, oggi, sotto l'ala del nuovo Corvo, respira le caligini di un romanzo noir. C'è un avvocato trafficante di favori; un ex magistrato dalla virtù intermittente; una segretaria che sfarfalla tra verbali segreti, procure e giornali; e una loggia massonica di quelle oscure come ai bei tempi. E c'è un giornalista allergico al sistema, Piero Sansonetti, direttore del Riformista, il quale, alle soglie di un'annunciata, storica riforma del sistema, mastica cinismo e querele.

Caro Sansonetti, come vedi questa storiaccia del pm Storari di Milano che consegna al collega Davigo i files dell'avvocato Amara; e il suo Procuratore capo Greco che contrattacca; e l'indagine che rimpalla tra Roma, Brescia e Milano. Esiste davvero questa "loggia Ungheria" tra le zone d'ombra delle Procure?

«Non è inverosimile che esista. Anzi, per me potrebbero esistere pure una loggia Bulgaria, Cecoslovacchia, Romania. Non cambia molto. Il punto vero è che quello che sta succedendo dentro una magistratura che opera nella totale illegalità, io lo denuncio da tempo. Ci sono oramai episodi, fatti, comportamenti che superano la mia fantasia. Gli atteggiamenti di Davigo sono di una gravità inaudita, ma ancor di più lo è un potere dello Stato, quello dei magistrati che da anni schiaccia gli altri senza che nessuno reagisca».

Suppongo che faremo quest' intervista camminando sulle uova di possibili querele. Questa tua idea della magistratura si riflette in un sondaggio pubblicato da Libero: il 77% degli italiani non si fida più dei giudici. Perché?

«È molto interessante questo spostamento dell'opinione pubblica, esattamente contrario al trend della grande informazione, specie di giornali come Repubblica o Il Fatto - che, di solito, pubblicano anche il colore delle mutande degli indagati - e ora hanno inguattato documenti e verbali, senza risponderne a nessuno. E conferma che la gente si è resa conto che per decenni i magistrati hanno fatto tutto quello che volevano in una situazione di pura sopraffazione».

E dalli. La poggi leggera leggera.

«È la verità. D'altronde se c'è un vuoto politico e non sei in grado di riempirlo, è naturale che qualcuno ne approfitti. Li hanno lasciati fare per decenni. La conclusione è che la magistratura non ricerca più la giustizia ma la gestione del potere. Non siamo un paese normale». 

È sempre la solita storia del "vuoto di potere" politico provocato da Tangentopoli, e occupato dalla magistratura col sostegno della sinistra?

«Guarda, secondo me risale prima, agli anni 70, quando il Pci decise di delegare la lotta contro il terrorismo al potere giudiziario. Che, da allora, ha avuto una delega armata che non è mai tornata indietro. Se ci pensi, l'organo che giudica i magistrati, il Csm, è fatto soprattutto da magistrati; e ti rendi conto della follia, la democrazia è completamente saltata. Il Csm dovrebbe essere formato da giuristi, politici, avvocati, solo in minima parte da togati i quali, però, a fine mandato, non dovrebbero più poter tornare alle attività precedenti».

Tornando alla "loggia Ungheria". Trovi verosimili le denuncie dell'avvocato Amara al pm Storari, inascoltato?

«Io non mi sforzo di cercare una verità che poi sfocia nel complottismo. Mi attengo a i fatti. E i fatti sono che Amara ha patteggiato una pena col magistrato Ielo attraverso un tale avvocato Mondello che era il compare di nozze dello stesso Ielo. Una cosa mai vista. Poi io non so se Amara dice il vero o il falso, se lo faccia per motivi processuali o economici (mi pare sia molto ricco); o qual è il suo rapporto con l'Eni».

Non sei mai stato, diciamo, un fan di Piercamillo Davigo. Credo neanche della sua segretaria Marcella Contrafatto alias il Corvo che ha spedito i verbali ai giornali. Mi immagino i tuoi sorrisetti di soddisfazione.

«Davigo si presentava come Savonarola, invece ci fa la figura di un bulletto qualunque. Se le cose che ha fatto lui le avesse fatte un politico sarebbe già stato incriminato. Invece qui, inspiegabilmente, non è nemmeno indiziato di reato. Io non so se i documenti li avesse spediti la segretaria con o senza il suo consenso, ma a questo punto non è essenziale».

Matteo Salvini, assieme ai Radicali, sta raccogliendo le firme per quattro referendum per mettere mano alle carriere della magistratura e al Csm. Tu pensi sia una mossa elettorale o un'esigenza vera questo spiazzare il guardasigilli Marta Cartabia sulla riforma della giustizia?

«Penso che con questi referendum Salvini stia facendo la cosa migliore da quando lo conosco, e con lui non sono mai stato tenero. Io aggiungerei anche la responsabilità dei giudici, che passò col referendum e poi fu annacquata. Bene. Ma per fermare la deriva devono studiare bene, costruire dei quesiti che non lascino scampo».

C'è tutto un brulicare attorno alla giustizia. Si parla di cancellare la legge Bonafede sulla sospensione della prescrizione. La stessa Forza Italia, per dire, ha presentato 183 proposte di riforma del processo penale tra giusto processo, durata ragionevole e sospensione dei termini prescrittivi legati all'udienza di stralcio. Cose molto tecniche. Ma credi che, finalmente, complice il Recovery Fund, stavolta si rivoluzioni tutto?

«La verità? Bisogna cancellare la Bonafede, e la Spazzacorrotti e tutte le altre leggi terribili maturate nel "periodo del terrore" (ma, tieni conto che a quelle leggi ha partecipato anche Salvini nel governo gialloverde). E Forza Italia fa bene a presentare proposte ed emendamenti; ma purtroppo non andranno da nessuna parte. E onestamente, spero di sbagliarmi, ma a parte qualche cambiamento sul processo civile, la giustizia penale non sarà toccata».

Non credi nella ministra Cartabia che chiede a voce alta le riforme?

«Il ministro Cartabia dice cose giuste, e molto spesso. Ma un conto è dire, l'altro fare. La Cartabia la vedo presidente della Repubblica, e per diventarlo ha bisogno del voto dei 5 Stelle. Ma anche se non andasse al Quirinale, non ha la maggioranza in Parlamento. E non l'avrà fino a quando in aula il partito dei giudici, cioè il M5S, avrà la maggioranza. Per questo credo che i referendum siano un ottimo strumento alternativo».

Ma il "partito dei giudici", scusa, una volta non era il Pd?

«Una volta. Il Pd ha anche quella componente, ma ha una storia sua, ed è più strutturato, può vivere anche senza giudici, in fin dei conti. Ma al M5S togli la forca, il patibolo, che rimane? I discorsi di Grillo?».

Non è che il Pd s' impunti sul garantismo. Solo l'altro giorno con "l'emendamento Bazoli" ha chiesto uno sconto di un terzo della pena se il processo ha durata irragionevole, cosa che molti hanno letto come l'ennesima apertura al M5S. E quindi come se ne esce?

«Questa situazione incancrenita si può risolvere solo con la fine di quest' alleanza folle col partito più reazionario e qualunquista della Repubblica italiana. Se il Pd tornasse ad essere una forza autonoma si aprirebbero nuovi scenari anche per gli equilibri tra le forze liberal del centrodestra, cambierebbero i rapporti di forza nelle coalizioni. Ma il Pd deve rompere con Grillo».

Una lacerazione alquanto impegnativa. La può fare Letta?

«Mah. A me Letta sembra Pisolo, sta lì, sonnecchia. Prima o poi farò un titolo: "Aridatece Zingaretti"»

Cosa pensi del dibattito sul 41bis e sull'ergastolo ostativo che la Consulta ha dichiarato contrario alla Costituzione?

«Che il 41bis e l'ergastolo ostativo oltre ad essere mostruosità incostituzionali, hanno introdotto la tortura nel nostro ordinamento. Anzi, la tortura è più veloce. Raffaele Cutolo non ha potuto parlare con nessuno per 25 anni. Io non li avrei mai introdotti; entrambi sono il frutto di leggi d'emergenza, e l'emergenza non può essere a vita».

Navighi ancora, col tuo giornale, tra le querele?

«Me ne arriva una a settimana. L'ultima è dei due magistrati che hanno perseguito Bassolino per 19 volte, che poi per 19 volte è stato assolto. Ho in ballo una trentina di querele di magistrati di tutte le correnti e latitudini. In Sicilia vado fortissimo. Mi hanno denunciato Scarpinato, Lo Forte, Di Matteo. Di Matteo perché durante il suo interrogatorio a De Mita, 88 anni, lo trattava senza rispetto gli dava del "tu". Io scrissi: "Ma la mamma di Di Matteo gli ha insegnato l'educazione?" . Mi ha denunciato e ha pure vinto. Altrettanto onestamente devo dire che Di Matteo è l'unico che si è ben comportato nella vicenda Amara; senza di lui questa storia non sarebbe pubblica. La parola d'ordine è: "Resistere!"»

Lo diceva anche un noto magistrato.

«Sì, ma lo diceva tre volte. Se vuoi tre volte io dico, allora: Referendum! Referendum! Referendum!...».

·        Roberta Petrelluzzi.

Francesca D’Angelo per Libero Quotidiano il 2 maggio 2021. Un giorno in pretura, ma soprattutto 33 anni in tv, con un programma che dal 1988 continua a macinare alti ascolti. Così si potrebbe riassumere il cv di Roberta Petrelluzzi, la Signora della cronaca nera più amata. Dall' 8 maggio torna su Rai3 con una nuova edizione: tra i primi casi, Cutolo e il processo Napoli bene.

Roberta Petrelluzzi torna dall' 8 maggio su Rai3 con "Un giorno in pretura" Le viene mai da sorridere ripensando al polverone di critiche sollevato, nel 1988, da Un giorno in pretura?

«In realtà ancora adesso non piacciamo a tutti. Lo rispetto, ognuno ha le proprie idee, anche se onestamente non ho mai capito le ragioni delle critiche. Passi Aldo Grasso, al quale non piace mai nulla...».

All' epoca Umberto Eco disse addirittura: «Questo tipo di gogna vale un ergastolo».

«Qui nessuno vuole mettere alla gogna nessuno. Nutro un grande rispetto per i criminali: sono persone umane, come me e te. Non vengono mica da Marte. Non si tratta di condannare qualcuno ma di prendere atto che, nel mondo, esistono persone così. Non giudichiamo, ma rappresentiamo la realtà. Inoltre, mi creda, chi è forcaiolo lo è al di là di Un giorno in pretura. Anzi...».

Lunga vita al garantismo?

«Certo, anche se in Italia esiste a fasi alterne. Dipende se la persona coinvolta è un nostro amico o nemico (ride, ndr)».

Cosa pensa della proposta di ripristinare la pena di morte?

«Come può immaginare, sono contrarissima. Come sono contraria al 41-bis in eterno: è un fallimento dello Stato che, non essendo in grado di proteggersi, ricorre a questa soluzione che è peggio della morte».

Lei ha assistito a tantissimi processi. Mi dica: la giustizia è davvero uguale per tutti?

«Sì, perché alla fine il ricco sbaglia tanto quanto il povero.

Più che la giustizia, il vero tema sono le procure e i PM: è a questo livello che le indagini possono essere pilotate».

Negli anni 90 avete raccontato Tangentopoli: cosa ricorda di quell' epoca?

«È stata una fiammata talmente forte che forse ci ha bruciato un po' tutti. Le aspettative di cambiamento erano troppo alte, sognavamo chissà quale rinnovamento invece la politica continua ad avere le stesse inadeguatezze del passato.

Prendiamo per esempio la situazione attuale: dovremmo dare vita a un Piano di rinascita di un intero Paese, e siamo qui a discutere se chiudere alle ore 22 o alle ore 23».

Recentemente vi siete anche occupati di Berlusconi...

«...ma magari! Con nostro massimo dispiacere, non siamo mai riusciti a seguire tutto il processo a Berlusconi ma solo il caso Tarantini, che lo lambiva. Però ci siamo divertiti: quel caso era una farsa boccaccesca, molto godereccia, dove non c'era la tragedia».

Le piacerebbe seguire il processo al figlio di Grillo, qualora ci fosse?

«No, grazie: è diventato un caso troppo mediatico, un agone con tanto di schieramenti. Non mi interessa far parte di questa arena. Tra l'altro se, come si dice, circolano i video della serata (dove le ragazze non si stavano certo smaltando le unghie), ecco quello sì che è da galera! È una cosa indegna di un Paese civile».

Lei, la Leosini e la Sciarelli avete lo stesso approccio distaccato: è l'unico modo per fare cronaca nera senza scadere nel sensazionalismo?

«Sì. Io poi sono così di natura: mi piace sempre pensare che le cose siano diverse da come vogliono far credere».

È una negazionista?

«Ma quando mai! Mi sono persino vaccinata con AstraZeneca. Semplicemente, sono per farmi sempre un'opinione personale, informandomi e approfondendo. Non mi piace "appecorarmi ai gruppi" anche perché quando ci sono le tifoserie non si cerca la verità, si ragiona per preconcetti».

Se dovesse mettere a processo la pandemia, sul banco degli imputati vedremmo il governo o i virologi?

«Bella domanda. Forse nessuno. Il governo ha fatto quello che poteva e sfido chiunque, nelle stesse condizioni, a commettere meno errori. Quanto ai virologi, è gente che viveva chiusa in laboratorio: è normale che l'esposizione abbia dato loro un po' alla testa. Ma, suvvia, è un peccato veniale...».

·        Roberto Alessi.

Gianmarco Aimi per "mowmag.com" l'1 settembre 2021. Roberto Alessi conosce i segreti di mezza Italia (e forse più), eppure sembra non scomporsi mai. Tratta ogni notizia, anche la più pruriginosa, con il garbo che ne contraddistingue il carattere e lo stile, probabilmente fedele al motto di Giorgio Armani: “L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare”. Ha soltanto tre tabù: i bambini, gli anziani e le malattie. Tutto il resto non solo si può, ma si deve raccontare. Perché, chiaramente, dipende sempre dal come lo si racconta. Il direttore di Novella 2000, non a caso considerata “La Bibbia del costume”, appartiene infatti all’aristocrazia del giornalismo che ha le sue radici nel re del “gossip filosofico” Diogene Laerzio (vissuto tra la fine del II e l’inizio del III secolo d. C.) ed è arrivata ai giorni nostri attraverso Truman Capote, che nel ‘900 ha tenuto a battesimo l'epoca delle celebrità per come la conosciamo ancora oggi. Con buona pace di Roberto Saviano, il quale nel suo ultimo libro, Gridalo, si è scagliato contro il settore: “Il gossip è squadrismo” ha tuonato. Alessi, senza perdere il consueto aplomb, nell’intervista che ci ha concesso, gli ha risposto per le rime: “Lo scrittore dovrebbe sapere che si tratta invece della prima forma di democrazia. ‘Il re è nudo!’ gli ricorda qualcosa?”. Il settore è in continua trasformazione. Per questo, il suo giornale da anni non si affida più soltanto al cartaceo, ma può contare su un sito che registra 15 milioni di visualizzazioni mensili. È qui che scorrono giornalmente i vizi e le virtù – più i primi che i secondi – dei vip o presunti tali che poi trovano profondità (e verifica delle fonti) in edicola. Con lui abbiamo provato a capire quali sono le storie più trend di questo periodo di fine estate, scoprendo che il sexting (l'invio di messaggi, testi o immagini sessualmente espliciti) è l’ultima frontiera, in particolare fra i calciatori, mentre tengono ancora banco i personaggi con una lunga storia alle spalle. Ma anche che il gossip può cambiare il corso della politica, come quando un suo scoop favorì la nascita del Popolo della libertà.

Direttore, ormai siamo in piena era social e ogni foto, video, indiscrezione, pettegolezzo circola in rete alla velocità della luce. Com’è cambiato anche il suo mestiere?

Il rapporto di base è sempre lo stesso: c’è chi rincorre e chi cerca di fuggire. In questo non è cambiato poi tanto. Ma soprattutto, se ci sei esisti, se non ci sei non esisti. Comunque, bisogna distinguere tra chi fa vera informazione, cioè non filtrata dagli uffici stampa e chi invece è appunto influenzato da questi ultimi. È vero che esistono grandi sollecitazioni che vengono dai social, spesso anticipano alcune questioni, ma alla fine la verità viene sempre fuori in un secondo momento, quindi sui giornali. Perché le notizie vanno verificate. 

Eppure, spesso il mondo del gossip è considerato poco attendibile dal resto dell’informazione.

Forse una volta ci si poteva azzardare a tirare un po’ di più la notizia per i capelli, oggi invece no perché saresti subito smentito. A differenza di quello che dicono alcuni, il gossip, soprattutto per quanto riguarda Novella 2000, è sempre stato molto più attento di quel che si potesse immaginare. Tanto che grandi giornalisti sono usciti da questo settore, come Maria Venturi, Paolo Occhipinti o Paolo Mosca.

Quindi la carta, almeno per il gossip, si difende ancora bene?

Ecco, questo è un argomento importante. Ormai dirsi giornalisti non è più legato solo al giornale cartaceo, voi di Mow lo dimostrate. Quando ho iniziato io a lavorare Novella 2000 vendeva 1 milione di copie, numeri oggi impensabili. Però non c’era Netflix, non c’era Sky, non c’erano i social, quindi questo tipo di giornali erano l’unico momento di evasione pura. Ora la parte digital è fondamentale da integrare con quella cartacea. Il sito di Novella 2000 macina 15 milioni di visualizzazioni al mese, ma il giornale non se la passa affatto male rispetto alla concorrenza. 

Per cui la pubblicità, in alcuni casi, preferisce ancora il giornale cartaceo?

Non voglio fare nomi, perché non sarebbe corretto, ma basta guardare la foliazione. Noi nell’ultimo numero avevamo 43 pagine di pubblicità, mentre altri competitor non arrivavano a 10. Questo non è solo grazie al cartaceo, quanto invece alla sinergia tra cartaceo e digital. In più, possiamo contare su un inserto come Visto, che è ricco di varie rubriche con collaboratori illustri, come altri tre direttori che scrivono per noi, che sono Don Aldo Buonaiuto, dirigente vaticano e direttore di Interris, Cristiana Schieppati direttrice di Chi è Chi della moda e Luca Raimondi direttore del Sussidiario insieme al suo caporedattore Vittorio Crippa. Inoltre, spesso su Novella 2000 firmano gli articoli gli stessi personaggi. Un paio di settimane fa ha scritto un pezzo di copertina Mara Venier. Vittorio Feltri ha una sua rubrica. Lino Banfi ha scritto un articolo su Orietta Berti.

Immagino che avrete la fila di vip o presunti tali pronti a qualsiasi cosa pur di finire in un articolo di Novella 2000…

Le richieste, esplicite e non, sono infinite. Anzi, spesso mi fanno arrabbiare. Ci sono uffici stampa che mi propongono personaggi che non lo sono e a volte sorridendo gli rispondo: “Non dico tanto, ma almeno portatemi quelli che sono almeno un po’ più famosi di me”. Noi dobbiamo meritare l’attenzione della gente, oltre che del giornalista. Per cui, o mi porti una notizia o una persona che ha una propria fama. Ma purtroppo il narcisismo fa perdere la ragione di questi tempi. 

Oltre alle richieste strampalate, nel mondo del gossip circolano spesso documenti, foto, video particolarmente scottanti. Come vi regolate con questo tipo di materiale?

Eh sì, ne arrivano tante. È ovvio che da giornalista sono contro ogni tipo di censura, però mi sono imposto tre tabù sulle notizie: se riguardano bambini, malattie o anziani. Se queste ledono una di queste tre categorie, io non le tengo neanche in considerazione in maniera molto ferrea. Così come quelle troppo volgari. Pensa che ora c’è la moda del sexting (l'invio di messaggi, testi o immagini sessualmente espliciti, ndr) e ci arriva davvero di tutto. Devo dire che i più attivi sono i calciatori. Non so cosa hanno nella testa, ma quello che hanno nelle mutande lo vedo… il problema è che le simpatiche signorine a cui inviano queste cose poi le girano a Novella 2000. Chiaramente è materiale impubblicabile, però è pericoloso anche per noi… 

A cosa si riferisce?

Al fatto che rischiamo noi stessi di incappare nel reato di revenge porn. Quando ricevo un messaggio o una mail del genere, solo condividerli con qualcuno della redazione può rischiare di essere valutato come un reato. È un terreno molto scivoloso, per cui spesso diciamo “no” ancora prima di guardare. 

Come ci si sente a conoscere i segreti intimi di mezza Italia?

Intanto, a scanso di equivoci e che vale come mia assicurazione, condivido tutto con la mia squadra, per cui se qualcuno pensasse di farmi fuori dovrebbe compiere una mezza strage. Comunque, finché ero un ragazzo potevo impressionarmi. Oggi che sono un uomo, diciamo, “quasi maturo” ho una tolleranza molto maggiore. Sui vizietti di varia natura, se non fanno del male a nessuno, non ci faccio più nemmeno caso.

Qual è il momento in cui si è trovato più in difficoltà con una notizia?

Era tanti anni fa, quando Al Bano si era separato da Romina Power. L’ho saputo e l’ho pubblicato in esclusiva. Poco dopo, lui mi ha chiamato tenendomi al telefono per due ore, dicendomi in sintesi: “Se volevi sottolineare che la mia vita è una merda in questo periodo è vero, però mi hai dato una pugnalata terribile perché ho anche perso da poco una figlia”. In quel momento mi sono sentito malissimo, perché ci si rende conto che non sono solo personaggi. Sono padri di famiglia o madri in situazioni difficili o con dei figli con un trauma, in quel caso la perdita di una sorella. 

È da quel momento che si è imposto i suoi tre tabù?

Sì, ma ti racconto un aneddoto. Ho avuto una lunga convivenza, poi mi sono sposato con la stilista Betta Guerreri. Sono cattolico, solo che mi sono confessato due volte in vita mia: per la prima comunione e quando sono dovuto andare all’altare. Prima di sposarmi, però, ho sentito di dover confessare quel peccato a don Aldo Boga, giornalista e parroco. Mi faceva ancora soffrire aver provocato quel dolore. Quando glielo spiegai, lui mi rispose: “E ti pare che questo è un peccato?”. Insomma, era un giornalista più cinico di me. Alla fine, mi ha assolto. 

Quale, invece, il momento migliore della sua carriera?

Ce ne sarebbero tanti, uno in particolare mi ha colpito. Era il periodo dei Family Day in Piazza San Giovanni a Roma. Un giorno l’allora segretario di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, si presenta a una di queste manifestazioni con la moglie Daniela Di Sotto. Nello stesso momento, vengo a sapere che lui, molto in vista anche per la possibile fusione con Forza Italia di Berlusconi, aveva una amante segreta, Elisabetta Tulliani, la quale era incinta di 7-8 mesi. Puoi immaginare lo scandalo…

Che cosa ha deciso di fare?

Ho telefonato a Fini, che ha smentito tutto. Poi ho telefonato anche alla Tulliani, che mi ha risposto testuale: “A questo punto smentisco anch’io”. Ho deciso comunque di pubblicare l’articolo con la notizia, dicendo che i diretti interessati smentiscono, però circola questa voce. L’aspetto incredibile è che nessuno riprese la notizia. A un certo punto, mi chiama Antonio Ricci di Striscia la notizia e parliamo del più e del meno, poi gli faccio notare che avevo fatto uno scoop. Lui mi dice che non ne sapeva niente e riattacca in fretta.  Poche ore dopo la notizia di Fini e la Tulliani era su Striscia, che ha proseguito con diversi servizi… 

E come se le è spiegato questo atteggiamento di Antonio Ricci?

Antonio Ricci è un sadico, ma poi scrisse dell’episodio nel libro che celebrava Striscia la notizia. Lo raccontò dicendo che il Pdl nacque grazie a me e a lui che divulgammo quella notizia su Gianfranco Fini. In pratica Berlusconi, per timore che potesse andare a vuoto la fusione tra Forza Italia e An, decise di annunciarla ancora prima che Fini accettasse. Il Pdl quindi lo avremmo fondato io e Antonio Ricci. Ma magari abbiamo soltanto anticipato di qualche settimana ciò che era inevitabile. 

Veniamo all’estate del 2021, quali sono i gossip che hanno appassionato di più?

L’ultima notizia che ha fatto piacere a tutti è di Valentino Rossi, che ha preferito il cuore ai soldi, decidendo di ritirarsi visto che diventerà papà di una bambina insieme a Francesca Sofia Novello. In generale tante notizie positive, forse a causa della pandemia e della mancanza della mondanità. Poi Fedez e Chiara Ferragni sono un fenomeno di costume che coinvolge moltissimo, visto che ormai sappiamo tutto di Leone e Vittoria, i loro bellissimi e tenerissimi figli. È interessante la nuova trasmissione di Elisabetta Canalis, mentre la sua amica storica Maddalena Corvaglia frequenta Paolo Berlusconi, ma le due non si parlano più per questioni finanziarie. Dall’estero, invece, c’è Charlotte di Monaco che è sparita per mesi e ora il principe l’ha raggiunta e la saga di Meghan e Harry con la regina Elisabetta. Le vere leve della vita sono il sesso, i soldi e il sangue, anche se con sangue intendo le litigate perché non voglio entrare in questioni troppo gravi. E io aggiungo la quarta “S”… 

Che starebbe per... ?

Gli stupefacenti, un argomento più occulto e del quale è difficile parlare. Sono tutti molti ipocriti, nel mondo dello spettacolo soprattutto, anche se rimane purtroppo un collante molto forte. 

Si è parlato molto anche del ritorno di fiamma di Flavio Briatore ed Elisabetta Gregoraci.

Sono amico di entrambi, Briatore lo conosco ancora meglio. Lui esclude nella maniera più assoluta che possano tornare insieme. Io penso che non ci sia mai stato un allontanamento. Flavio è di certo legatissimo a Elisabetta e viceversa, lo conferma il fatto che sono costantemente in contatto, come durante il primo lockdown che hanno passato insieme.

Nel mondo dei piloti di moto il più paparazzato è ancora Andrea Iannone. Per lui si è parlato di Tv, anche se per ora nessuna conferma è arrivata.

Iannone si trova in una posizione nella quale può scegliere. È molto ricco, un particolare da non sottovalutare. Credo prendesse diversi milioni all’anno quando correva, visto che era uno dei primi piloti al mondo. Inoltre, mi sembra un tipo decisamente oculato. Di sicuro non è un cretino. Prendendo spunto da Iannone, si può generalizzare… perché i cretini nel mondo dello spettacolo durano davvero poco. Quando parliamo di un personaggio vuol dire che ha dei numeri in fatto di carisma, di fascino, comunque può contare su qualche tipo di valore aggiunto. 

Novella 2000 si è occupata spesso di Lapo Elkann. C’è chi lo considera un genio, chi invece soltanto una persona problematica. Lei come lo descriverebbe?

Prima di tutto Lapo ha già dimostrato molto di più di tanti altri. Da ultimo, con la Fondazione Laps opera in in Italia, in Israele e in Portogallo e ha realizzato tantissime iniziative a favore del prossimo, non solo dal punto di vista imprenditoriale. Sugli altri business, come Italia Independent o Garage Italia, sono stati ricapitalizzati con altri soci e hanno una loro evoluzione. Anche per lui, comunque, non bisogna dimenticare che è un uomo molto molto molto ricco e potrebbe starsene a casa a far nulla come tanti altri suoi amici o parenti. Lui invece ha voglia di fare e ha fatto tanto, lasciando sempre un segno. C’è tanta gente che ha lavorato grazie alla sua creatività. 

Di certo anche con la sua vita privata vi ha dato moltissimo da scrivere.

Ha un carisma pazzesco, oltre alla capacità di mettersi nei casini come nessuno. A differenza di altri, lui però ne parla. L’ho conosciuto diversi anni fa al giardino dell’Hotel Bulgari. Ero seduto con un collega, quando è arrivato lui. Io non ho fatto niente per attirare la sua attenzione, ma a un certo punto Lapo viene da me e mi dice: “Ti vedo in Tv e ho notato che hai degli occhi intelligenti”. Facciamo due chiacchiere e ci salutiamo. Il giorno dopo cade in coma e finisce nel casino che tutti conosciamo. Non ci sentiamo più, ma dopo un anno esatto, nello stesso posto, arriva ancora Lapo. Mi saluta, ricambio, ma ipocritamente faccio finta di nulla. Lui invece mi dice: “Ricordi Roberto, ci siamo conosciuti qui un anno fa” e aggiunge: “Pensa che proprio il giorno dopo c’è stato quel casino…”. Io avrei fatto finta di niente, quindi ho replicato: “Non vorrei che pensassi che porto sfiga” e ci siamo fatti una risata. 

Avrà sentito che Roberto Saviano, nel suo ultimo libro, si è scagliato contro il gossip. Lo ha definito “squadrismo”. Lei che ci lavora da tanti anni, come sentirebbe di rispondergli?

Visto che non è un uomo così colto, gli ricorderei che già i filosofi facevano gossip e lo consideravano la prima forma di democrazia. Oppure “Il re è nudo!”, chissà se ne ha mai sentito parlare, quella era una notizia che arrivava dal popolo. E poi, prima di sputare sul lavoro di altre persone, bisogna sciacquarsi un po’ la bocca. Certe volte è informato altre meno, ma dovrebbe utilizzare un po’ di prudenza quando va a toccare il mestiere altrui. Lui stesso lavora per giornali che utilizzano il gossip a piene mani, compresi i quotidiani. In questo caso, però, se ne guarda bene dal dire che fanno schifo. Insomma, il buon fatturato non è peccato.

Lo scorso 29 agosto lei ha compito gli anni. Prima mi ha detto di sentirsi “quasi maturo”, per cui mi sembra che accolga bene il passaggio del tempo.

Ho compiuto 68 anni e, detto con classe, non me ne fotte nulla del passaggio del tempo. Sicuramente fa un certo effetto aver superato la sessantina, ma sono molto contento di festeggiare i compleanni, anche perché l’alternativa sarebbe soltanto un’altra… direi che è meglio invecchiare.

·        Roberto D’Agostino.

Roberto D’Agostino per vanityfair.it l'1 settembre 2021. Lo chiamano “delirio sanitario”. E tuonano: “Il green pass, la campagna vaccinale, la pressione psicologica verso l’immunizzazione anti-Covid, sono un attentato alla democrazia”. E non si tratta mica di no-vax da bar sport al quinto spritz. No, tale voci si levano da filosofi acclarati come Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Gianni Vattimo. Protetti dal “chiagni e fotti” filosofico, si inalberano: “Come è potuto avvenire che un intero Paese sia crollato politicamente ed eticamente di fronte a una malattia?”. Una volta davanti all’insegna di una farmacia, lo spirito critico dei nostri sapienti grida all’apocalisse: ‘’L'agire politico ha lasciato il posto alla Scienza medica col risultato che siamo totalmente prigionieri della farmacopea’’. In breve, facciamola finita: indietro il vaccino, avanti l’estrema unzione, la salma è la virtù dei morti e salutame ‘a soreta. Ogni limite ha una pazienza, ironizzava Totò, e cosa abbia fatto di male a tali sofisti la Scienza medica e il suo braccio più amato, la farmacia, non riusciamo a immaginarlo, nemmeno con l’Intelligenza Artificiale. Anzi, vista la venerabile età dei nostri filosofi li vediamo festosi mettersi in fila a far incetta di pillole betabloccanti per scongiurare la pressione alta onde evitare di finire fulminati da un attacco cardiaco; oppure mettersi in tasca una capsula blu di Viagra, che ha concesso alla senilità dell’uomo di poter godere dei tempi supplementari per la sua vita sessuale. Essì, in molti casi funziona più un Cialis che un pensiero di Heidegger. Il sole dell’avvenire, anziché dalle rivoluzioni politiche, è arrivato – e senza spargimenti di sangue – da un vaccino. L'umanità è cambiata non perché Karl Marx abbia scritto il Manifesto ma perché Gregory Pincus e John Rock hanno inventato la pillola anticoncezionale, che ha fornito una fortissima identità sociopolitica alle donne (più del femminismo). Le rivoluzioni non le fanno le idee ma gli strumenti in grado di cambiare la realtà. La storia della civiltà umana si può ripercorrere attraverso gli oggetti: tipo la ruota, l’aratro, le armi da fuoco; l’invenzione della stampa di Gutenberg nel 1400 fu una mossa rivoluzionaria che ebbe immani conseguenze, leggi Rinascimento; l’auto e il treno hanno fondato la civiltà industriale, etc. Negli Anni ‘70 il guru della rivoluzione digitale, Stewart Brand, disse: “Volete provare a cambiare la testa delle persone? Perderete tempo. Cambiate gli strumenti, i dispositivi, gli oggetti che hanno in mano e cambierete il mondo”. Certo, il pensiero è azione, nulla è producibile che non sia pensato. Ma più ancora che i grandi movimenti artistici, le ideologie, la letteratura, sono i prodotti della Scienza medica che hanno separato la vita dalla morte, scongiurandola, e condotto tutti noi in una nuova chiesa, la farmacia, alla ricerca continua di un antidoto alla fine. Datemi retta, cari filosofi, inoculatevi una dose di “AstraSeneca”, il nuovo vaccino contro la variante ignorante.

Massimo Murianni per “Novella 2000” l'1 settembre 2021. Far ballare la gente è come cucinare un soufflè, devi sapere come farlo crescere. È come fare l’amore: non puoi fare il coniglietto, bam bam bam a martello, ma devi alzare la tensione, e poi rallentare, spingere e mollare, arrivare al climax e poi rilassare... Fare il deejay è come avere un atto fisico con gli avventori del locale». 

Roberto d’Agostino, il pubblico ti conosce come anima di Dagospia,  il tuo sito di informazione, da quando fai il deejay?

«Ho iniziato alla fine negli anni Sessanta, quando, in ritardo di dieci anni rispetto all’America, anche l’Italia scoprì l’esistenza di un essere sociale chiamato “giovane”, che aveva nella discoteca il luogo di incontro. Si era passati dalla balera degli anni Cinquanta alla discoteche, che era il posto dove stare insieme, godere del corpo e della testa, come aveva insegnato Elvis dieci anni prima in America. In discoteca trovavi i tuoi simili, i giovani che avevano voglia di fare la rivoluzione sociale».

Avevi vent’anni, immerso in quella che si chiamava la “controcultura”.

«Frequentavo il Piper, la discoteca aperta nel 1965. Ero pazzo della musica, che all’epoca non era solo evasione come oggi, ma uno stile di vita, che andava in duplex con la cultura della beat generation. Mi piaceva il rock di Zappa, Santana, i Pink Floyd, i Rolling Stones... Ho anche suonato da principiante la chitarra, ma poi l’ho lasciata. Lavoravo e non avevo il tempo necessario per mettermi a studiarla seriamente, e neanche un enorme talento. Così come tutti quelli che falliscono in un’arte, sono diventato un critico». 

Per chi scrivevi?

«Per le testate di musica dell’epoca: Ciao 2001, Rockstar, Popstar... Poi nel 1975 ho iniziato a mettere musica per un radio privata di Roma, Radio Blu, e da lì ho iniziato a fare il deejay».

Quando hai iniziato nei locali?

«Poco dopo, nel 1978, alla discoteca Titan, sempre a Roma. L’idea era quella di fare una discoteca di sinistra. All’epoca c’era l’idea che la discomusic fosse da “fascisti”. Erano anni di grandi divisioni, nette. Io avevo i capelli lunghi e l’eskimo, allora ero di sinistra. Se avevi il giubbino di renna eri di destra. La disco music di Donna Summer, dei Bee Gees era considerata di destra, così decidemmo di fare una programmazione solo rock: Lou Reed, Patty Smith... Con l’invenzione della discoteca rock di sinistra al Titan abbiamo preso il riflusso dei ragazzi di sinistra che dopo l’attentato Moro (nel 1978, ndr), avevano abbandonato le manifestazioni».

Ricordi di serate clamorose?

«Tutte quelle dove riesci a far ballare la gente che è in pista. Quando metti musica, devi prima di tutto capire chi hai davanti, riuscire a portarli in alto, farli esaltare. Non è facile: basta un disco sbagliato e vedi la pista svuotarsi. Se esageri con troppi brani veloci, il pubblico non ce la fa e molla, se ne metti troppi tranquilli rischi la noia. Devi alternare, mischiare, mettere e togliere, spingere e rallentare, leggere il desiderio e il piacere di chi hai davanti».

Parli di musica con una passione che raramente ti si sente: non hai il distacco un po’ cinico, un po’ ironico e disilluso che è il tuo marchio quando commenti le notizie su Dagospia.

«Far ballare la gente mi dà un piacere superiore a qualunque altra cosa che ho fatto, più del giornalismo, più della televisione, più anche di Dagospia». 

Continui a fare il deejay?

«Qualche volta per amici lo faccio, ma è diverso, perché oggi i ragazzi non hanno più quell’esaltazione che c’era negli anni 70 e 80 per la musica, manca quella comunione, quell’amplesso collettivo. Continuo ad amare la musica, continuo a fare playlist che pubblico anche su Dagospia. E faccio il deejay per me: metto su la musica che mi piace, e ballo per i fatti miei».

Da “Novella 2000” il 12 agosto 2021. Peperoncini che bruciano, ma quelli di Roberto D’Agostino, in arte Dago, illuminano anche, svelano, raccontano. Il suo sito, Dagospia, continua a macinare utenti (ma non si possono chiamare lettori anche se sono digitali?!), ed è ormai il canale di informazione su politica, economia e di costume più importante d’Italia. Chi è citato si arrabbia, perché spesso è svelata la magagna. Ma chi non è citato si arrabbia di più. In un paese normale, Dagospia non ci sarebbe, ripete spesso Dago. Ma l’Italia non è un paese normale, purtroppo o per fortuna.

Maurizio Caverzan per la Verità il 17 luglio 2021. Nonostante il pizzo mefistofelico, i tatuaggi e gli anelli, Roberto D'Agostino, visionario titolare del sito Dagospia (3,5 milioni di pagine visualizzate al giorno), sa interpretare il ruolo del saggio, del politologo, dell'analista attaccato alla realtà e ai problemi della gente. «Davvero», dice, «pensiamo che un padre di famiglia quando torna a casa dica a sua moglie: hai visto che hanno segato l'uomo di Giorgia Meloni nel cda della Rai? Oppure che l'operaio che si alza alle 7 del mattino per andare in fabbrica abbia come primo pensiero cosa si son detti Beppe Grillo e Giuseppe Conte al ristorante? Io penso di no, penso che il distacco tra la vita dei cittadini e la narrazione dei media sia ormai abissale».

Un po' l'ha colmata la sbornia degli Europei?

«Un po' sì, ma non parliamo di sbornia. La politica è anche un fatto emotivo». 

La politica?

«Anche lei vive di emozioni. Il Covid ci ha sconvolto anche perché è venuta a mancare la nostra fiducia negli altri. La vittoria agli Europei rimette in circolo energie nuove».

Si parla di Rinascimento italiano

«Più che altro una Rinascente cheap. Quello che lei chiama sbornia è un'onda emotiva che arriva dopo un anno e mezzo di afflizione, i 120.000 morti, i camion di Bergamo, le bare ammassate. La Nazionale ha fatto gridare "Viva l'Italia" a tutti, facendo tornare il senso di appartenenza e dello Stato». 

Addirittura

«Di solito quando si parla di senso dello Stato viene l'orticaria perché si pensa alle tasse. Ma dopo la pandemia si pensa anche che con le tasse si costruisce un ospedale che serve quando stai male. La vittoria degli Europei è come un integratore per affrontare il post Covid». 

Tutti patrioti? Qualcuno ha scritto che è tornato il piacere di abbracciarci

«Stato vuol dire fiducia, come la Galbani della pubblicità di una volta. Si ricomincia a fidarsi degli altri anche se sappiamo di correre un rischio. Infatti, tanti portano ancora le mascherine nonostante si possa stare senza. Questa vittoria è come un tiramisù. Al contrario, i no-vax pensano solo alla loro libertà e non che può danneggiare gli altri. Io sto con Macron: la mia libertà finisce quando mette a rischio quella di un altro».

Per la Nazionale abbiamo fatto due giorni di rave e adesso ci vuole il green pass per andare al bar?

«I festeggiamenti di domenica sera erano difficilmente gestibili, anche le forze dell'ordine guardavano la partita. L'errore è ciò che è accaduto il giorno dopo, con la gente assiepata attorno al pullman e senza mascherina. La trattativa Stato-Bonucci è qualcosa d'insostenibile. Si sa che il pullman era già stato preparato, Bonucci stia tranquillo. Ma Draghi non può gestire tutto, ci sono i ministeri competenti. Toccava alla Lamorgese gestire la grana, ma non l'ha fatto».

Non l'ha infastidita un certo eccesso di retorica: la Nazionale simbolo di concordia, Mancini gemello di Draghi?

«Ognuno scrive quello che vuole. L'editoriale di un quotidiano non è le Tavole della legge». 

È bastato rimettere all'ordine del giorno il ddl Zan per vedere la concordia andare in frantumi?

«Da una parte c'è la politica politicante, dall'altra 60 milioni di cittadini che dopo due anni come questi hanno ricevuto un'iniezione di fiducia e positività. Non credo che le sorti del ddl Zan incidano sulla quotidianità dei cittadini. In periferia o in un paesino nessuno s' interroga sull'identità di genere. Sono pippe dei giornali. Le persone comuni hanno altre priorità. Mio figlio troverà un lavoro? Riuscirò ad arrivare a fine mese? Sarò licenziato dopo la fine del blocco?».

Chi esce meglio dalla curva?

«I cittadini. Molto meglio della politica, che si balocca con questioni superflue. Immagino tanti lettori che aprono i giornali e mandano affanculo politici e giornalisti. La pace tra Conte e Grillo, i consiglieri del cda Rai: chi si alza alle 7 del mattino per andare a lavorare guarda a questi mondi come agli animali dentro le gabbie di uno zoo. Con il mio sito lavoro in un altro modo». 

Cioè?

«Il direttore è un algoritmo che mi dà in tempo reale il traffico degli articoli più letti. Così capisco gli interessi prioritari. Se il pubblico mi chiede la ricotta prendo la ricotta e la metto in vetrina. Il cliente ha sempre ragione, questo è il barometro. Ho 3,5 milioni di pagine visitate al giorno. I giornali raccontano le correnti del M5s o del Pd, mentre i cittadini si chiedono perché non si affronta il problema del debito pubblico che viaggia verso i 3.000 miliardi». 

Il distacco tra popolazione e narrazione è colmabile?

«A questo punto non lo so. Fossi direttore di un grande quotidiano mi chiederei perché i lettori rifiutano il mio prodotto. Qualche anno fa Repubblica e Corriere vendevano 6/700.000 copie, ora sono a 100.000. Il Fatto quotidiano era sopra le 100.000 e ora è a 25.000».

Ci si informa anche in altri modi?

«In parte sì. L'edicola sta diventando un residuato bellico come la cabina del telefono. Però i giornali cartacei hanno stravenduto il giorno dopo la vittoria dell'Italia. Vuol dire che i lettori volevano avere un ricordo del trionfo acquistando il giornale con il poster della squadra vincitrice. Se dai, in cambio ricevi». 

Responsabilità dei giornali ma anche dei vari Enrico Letta, Matteo Salvini eccetera?

«Purtroppo i nostri leader non hanno un'idea seria della politica, di come sono cambiati gli equilibri geopolitici dopo l'arrivo di Joe Biden alla Casa bianca, dopo l'avvento della Brexit, dopo la crescita del ruolo della Cina che sta sostituendo gli Stati Uniti e ha in mano tutta la produzione strategica, dalle auto alla telefonia. Con tutto questo, noi continuiamo a parlare del consigliere di Fratelli d'Italia in Rai».

E Draghi?

«Non pensa al Quirinale. Punta a diventare il successore di Charles Michel alla presidenza del Consiglio europeo. Invece sul piano del carisma, prenderà il testimone da Angela Merkel. Già adesso Biden parla solo con lui, anche per la debolezza di Macron». 

Con questi nuovi scenari hanno ragione Meloni e Salvini a credere che dopo Draghi toccherà a loro?

«Da qui al 2023, quando si andrà a votare, vedremo cambiamenti copernicani. Già ne abbiamo le avvisaglie. Il più draghiano dei leader è Salvini, che è una sorta di pontiere-pompiere del centrodestra nel governo. Quando di recente Forza Italia si è incazzata per la mediazione della Cartabia con i 5 stelle è stato Salvini a fare da pompiere. Tutto cambia. Basta guardare il patto tra i due Matteo che, con la regia di Denis Verdini, vecchia volpe democristiana, stanno lavorando a una federazione centrista con Berlusconi e Forza Italia».

Quindi l'idea della federazione resiste?

«È l'approdo futuro. Salvini non parla più di migranti e ong, ma di giustizia. La politica in Italia sta vivendo una trasmutazione, a destra nascerà un centro con Salvini, Renzi, Calenda e Berlusconi. Questo dispiacere dato alla Meloni è un segnale: tu resta a destra, al centro stiamo noi». 

Conviene lasciar fuori il partito più in crescita dell'area?

«Se l'ideologo della Meloni è Guido Crosetto che è presidente dell'Aiad (Aziende italiane per l'aerospazio e la difesa, ndr), apparato di Stato da Fincantieri a Leonardo, che opposizione può fare?». 

Al di là dell'opposizione è conveniente per il centrodestra escludere il partito più in salute?

«Questo riguarda l'ego dei leader. Non si può parlare di alleanze e poi ci si comporta da ducetti. Il problema di Salvini era che prima twittava e poi ragionava. Ora ha capito che bisogna capovolgere il processo e che la politica è mediazione. Con i fondi del Recovery in arrivo non possiamo permetterci di mandare il Paese al macero. Bisogna mediare gli obiettivi di parte con il bene del Paese. E poi c'è un altro discorso». 

Prego.

«Oltre allo Stato c'è il Deep State, lo Stato profondo. Burocrazia, magistratura, servizi segreti, macchina dei ministeri: tutte realtà che sia Renzi sia Salvini in passato hanno trascurato. Pagandone il conto». 

Nel centrosinistra niente rivoluzioni copernicane?

«L'idea di Goffredo Bettini che vedeva Conte punto di riferimento dei progressisti è entrata in crisi». 

Infatti Bettini sta tornando in Thailandia.

«Per Letta il governo Draghi è il governo del Pd. Ma Conte è contrario alla riforma Cartabia mentre il Pd è a favore. Perciò anche quest' asse è in discussione. Cosa siano oggi i 5 stelle nessuno lo sa». 

Quanto crede alla pace di Bibbona?

«Ah, saperlo». 

Conte è andato a Canossa?

«Non so. Se Conte piazza una persona sua in un posto di rilievo, Grillo potrà sfiduciarla. Mi sembra una diarchia che non ha grande futuro».

Invece Letta ce l'ha?

«Con il 18% come fa a tornare a Palazzo Chigi? Tanti gli consigliano di aprire a Salvini, così che in futuro ci possa essere un'alleanza con la federazione di centro. Che nel Pd potrà essere appoggiata dalla corrente maggioritaria, formata da ex renziani». 

Letta è la persona giusta per aprire a Salvini?

«Credo che le amministrative del 20 ottobre daranno una botta a tante posizioni ideologiche. Si capirà se l'alleanza con i 5 stelle ha un futuro. E se ce l'ha Letta. Nei grandi Paesi europei governano le grosse coalizioni. In Germania i socialdemocratici con i democristiani, in Francia i gaullisti con Macron. In Italia potrà nascere un governo di centrosinistra con la federazione di Verdini, Salvini e Berlusconi alleata al Pd: un governo fattuale, che toglie di mezzo troppe battaglie di bandiera». 

Chi è messo meglio in vista le amministrative di ottobre?

«Credo che il risultato lascerà molti a bocca aperta. Dopo due anni di Covid non sappiamo come si orienteranno gli elettori. Molti sondaggi sono apertamente taroccati e io vorrei avere la palla di vetro per capire cosa ci aspetta. Abbiamo ancora un Parlamento con il 32% di grillini eletti». 

E tra poco inizia il semestre bianco in preparazione alla successione di Mattarella?

«Il copione del Quirinale è tale e quale a quello usato per Napolitano. Mentre Mattarella continuerà a dire di voler tornare a dedicarsi ai nipotini, dopo le prime fumate nere tutte le forze politiche andranno in fila indiana a dirgli di restare. E lui accetterà. Poi nel 2023, con il nuovo Parlamento, si deciderà in base al voto dei cittadini». 

E i vari Casini, Veltroni, Franceschini, Berlusconi?

«No future». 

Maria Corbi per “Specchio - la Stampa” il 6 giugno 2021. Parliamo di cortesia con un fuoriclasse del genere. Roberto D' Agostino, fondatore del sito più «spione» e «scortese» d'Italia: Dagospia. 

Non ti offendi se chiedo se sei scortese di nascita o solo di professione?

«Io non sono scortese e nemmeno cattivo, sono stronzo. E comunque dobbiamo capirci sui termini. Si può essere gentili, scortesi o antipatici. O tutti e tre. E comunque nel mio caso la scortesia è libertà. Per dire la verità non bisogna essere gentili».

Un esempio?

«Massimo D'Alema. È scortese, ma non antipatico. Ogni volta che si ha a che fare con lui si viene trattati dall' alto in basso. È un atteggiamento. È sempre quello con il ditino alzato che ti fa la morale. È una persona scortese». 

E Nanni Moretti? Ho letto sul tuo sito che Battiato raccontava di essere rimasto malissimo quando a Venezia si rivolse contro una sconosciuta dicendogli: «Ma non ti vergogni di pesare così tanto»?

«Quelli che si sentono superiori agli altri, quella è scortesia. Chi ha il potere diventa subito il genere "lei non sa chi sono io". Un atteggiamento che vediamo spesso nella politica. Gente che ogni giorno, come dice Longanesi, deve cambiare "l'odio al motore". Una sindrome che nasce dal loro bisogno di sentirsi vivi. E' sempre più difficile sostenere il palcoscenico, sono grida di paura. Come quando i bambini si mettono a strillare. Scortesia che nasce dalla paura. Pensa ai leoni da tastiera. Hanno paura di non esistere. Il terrore di essere dimenticati. Incontinenza triviale continua». 

I social sono la culla della scortesia?

«Oggi non devi essere te stesso, ti devi inventare, e spesso si inventano scortesi per stupire il popolo e abbattono tutte le barriere della buona creanza. Oggi dobbiamo abituarci a qualsiasi villania. E' l' età della scortesia, della violenza verbale. Più sono intolleranti e faziosi, più hanno i like».

Parlavi prima della politica. Qualche nome?

«Quando arrivò Renzi sulla scena politica, sognava la rottamazione e ci siamo innamorati di uno che diceva pane al pane e vino al vino. Diverso da Enrico Letta, di una cortesia dorotea che però non è vera cortesia, e infatti ci ha fregato per 40 anni. Craxi a tavola era scortese perché soffriva di diabete e non poteva mangiare, e metteva la manina nei piatti degli altri. Poi aveva anche un modo di dire le cose scortese nella forma, ma giusto nella sostanza. Craxi non cercava il consenso e diceva le cose in faccia. Tra lui e un Berlusconi, cortese, il simpatico per eccellenza, la fregatura te la dà Berlusconi, non Craxi».

Mai pentito per non essere stato gentile?

«Vado a una festa e viene verso di me tutta ingioiellata Marta Marzotto, allora metto le mani sulle guance e le dico "per favore non baciarmi che mi attacchi le rughe". Ho sbagliato perché era comunque una persona anziana, non mi ha parlato per due anni. Poi con Renzo Arbore, quando ci incontriamo, ci chiediamo "come va la prostata?". Certo non è cortese, ma giocoso. Se una persona è scortese non vuol dire che non sia una persona di valore. Io non sono certo considerato uno gentile, per una battuta ho perso amicizie. Anna, mia moglie, ha sempre paura quando faccio le feste. Perché una delle mie attività è quella di cacciare le persone di casa. Perché si portano sempre qualcuno senza avvisare. Allora prendo e li butto fuori. Ma qual è la scortesia, la mia o la loro?».

Uno scortese da manuale che hai frequentato?

«Uno che era scortesissimo, ma che io invitavo a cena perché era molto intelligente, era Paolo Villaggio; diceva delle cose atroci. La battuta è bi-lama, fa ridere, ma anche soffrire. Corbucci chiamava Sergio Leone Francis Ford Caccola. Boncompagni era scortese, Moravia era brusco, apodittico. Mia moglie per esempio è stata educata a dare la mano rigida perché non vuole il bacetto. E questo può risultare scortese. Invece lei ha un suo percorso. Anna può risultare fredda, un po' alla Draghi. Poi la gente è permalosa...».

Insomma, elogio della scortesia?

«Tutti gli amici che ho avuto sono in qualche modo scortesi e antipatici, come Giampiero Mughini e Irene Ghergo, per citarne solo due, ma sono gli unici che mi hanno dato qualcosa e che mi hanno cambiato. La simpatia e la gentilezza, sono quelle che ti fregano».

DAGONOTA il 23 maggio 2021. Oggi Dagospia compie 21 anni. Per l'occasione riproponiamo gli articoli scritti nel 2021 da Marco Molendini, Pierluigi Panza e Luigi Mascheroni, in occasione del ventennale di questo disgraziato sito.

Marco Molendini per Dagospia il 23 maggio 2021. Ricordo bene quando Roberto decise di lanciare Dagospia. Per caso, per ripicca (la rottura con l'Espresso dove aveva una rubrica, titolo Spia, dove osò l'inosabile: avanzare il sospetto che l'avvocato Agnelli portasse sfiga), per intuizione. Vent'anni fa: lancio e brindisi a casa sua, allora a via Condotti. Una scommessa in tempi in cui google era ancora in fasce e i giornali non fiutavano l'aria di crisi che li avrebbe stravolti. L'informazione, era ingessata. Come oggi mediata, legata a logiche di appartenenza, di scuderia, di amicizie e rapporti. Il progetto era chiaro: dire quello che i giornali non dicono. Lo spazio era tanto. All'inizio Dagospia ascoltava e riportava soprattutto il dietro le quinte, i sussurri di salotto di un mondo edonista, animato da un presenzialismo sfrenato (i leggendari morti di fama), raccontava quello che ci si poteva raccontare al telefono ma che nessun giornale avrebbe scritto. Il non detto Dago lo strillava. Ma si occupava più di società che di politica o economia. Era più il Dagospia delle bocche sguaiatamente spalancate, rifatte, esagerate di Cafonal, invenzione folgorante resa visivamente esplicita con l'occhio di una trottola che girava la città come Umberto Pizzi, addobbato di macchine fotografiche come un albero di Natale. Dagospia è diventato come la conosciamo oggi, per naturale evoluzione: risorsa informativa pret a porter, dove la notizia si confonde con la non notizia, la politica con la non politica, il non schierarsi con lo schierarsi, il chiaro con l'oscuro. Caso unico nel panorama mondiale, velocissimo nello stare sul pezzo, nel raccogliere sussurri e grida, informazioni e suggestioni, pronto a bruciare o quotidiani e siti, attento a leggere i giornali, a scegliere le spigolature, riportarle con una titolazione accattivante, spesso molto più dei giornali stessi. Passati al setaccio di Dagospia gli articoli vengono rivitalizzati dall'uso di un linguaggio esplicito, giocando su invenzioni, slogan che sono entrati nel vocabolario quotidiano: come sogno o sondaggio?, l'ovvio dei popoli, Giletti di baccalà eccetera, eccetera. Calembour usati per alleggerire, prendere le distanze, suggerire. Soprattutto per contribuire a dipingere un mondo colori che ne fa di tutti i colori e raccontare una commedia disumana che esercita su Roberto un'attrazione irresistibile. Impudente, famelico, temerario, cinico romano. incapace di resistere a una notizia, esplicito fino al rossore (dei lettori), spregiudicato fino all'esorcismo della volgarità, senza compromessi, strumentalizzato (c'è chi ci prova) e instrumentalizzabile se non dal desiderio smodato di raccontare l'irraccontabile e dannatamente attuale, fatto su misura dell'Italia («in un paese decente non esisterebbe Dagospia», l'autodefinizione), dove si passa agilmente da Efe Bal a Di Maio, a Balotelli. Così attuale da raggiungere dimensioni inimmaginabili per un bollettino fatto in casa, che non ha gerarchie di titoli, se non quello della collocazione, diventato a sua insaputa lettura obbligata per le élite e per il mondo dell'informazione, fino a mettere insieme cinque milioni di visualizzazioni al giorno. Roberto lo conosco da una vita. La prima volta che l'ho visto aveva in testa un cesto di capelli alla sor Pampurio. Lavorava in banca, scriveva di musica, si vestiva come un pazzo. A unirci la passione per la musica, tanti amici in comune, la simpatia naturale, la stessa età. Quando ho lasciato il Messaggero mi è venuto spontaneo inviare a lui il mio racconto del perché lasciavo il giornale dopo tanti anni. Adesso ogni volta che mi viene voglia di scrivere qualcosa gli telefono. Sono sicuro che Roberto capisce al volo e soprattutto che titolerà al meglio: nella mia vita professionale non ho mai avuto nessuno che mi titolasse bene i pezzi come lui, nemmeno io che me li sono titolati per tanti anni.

Pierluigi Panza per fattoadarte.corriere.it il 23 maggio 2021. Il 22 maggio di vent’anni fa nasceva il sito di retroscena “Dagospia”, fondato e curato da Roberto D’Agostino. “Dagospia”, che si definisce “risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena”, è diventato un sito molto popolare, specialmente nell’ambito dell’informazione, ma è qualcosa di più: è il diritto a un desiderio, è la testimonianza di essere oggi presenti a se stessi. L’origine del modo d’essere di sito e fondatore va cercata negli anni Sessanta, anche prima del ‘68. “L’anno cruciale per me è stato il ’64 – raccontò Dagostino in una intervista -; Bandiera Gialla, Arbore, Boncompagni… Andavamo a via Asiago, nella sede Rai. Stavamo seduti lì, in studio, accanto a Lucio Battisti, Loredana Bertè, Renato Zero… E la sera andavamo al Piper”. Poi va cercato nel ’68 e nella passione per la letteratura americana: “Ricordo il nostro incontro con Fernanda Pivano. Ci presentammo io e Paolo Zaccagnini all’Hassler vestiti da Kerouac e Ginsberg de’ noantri, gilet da mercatino dell’usato, jeans stracciati, capelli lunghissimi, proprio on the road”. Quindi nell’Arbasino di “Fratelli d’Italia”,  un grande romanzo di gossip…All’inizio, “Dagospia” era un sito di gossip. Ma poiché ogni “merce” deve diventare comunicazione spettacolarizzata, come scrisse Debord, per essere visibile e vendibile progressivamente anche economia, finanza, società, media, cultura e arte entrarono docilmente in scena sul sito facendo di Dagostino un taumaturgo del copyright (Pierfurby Casini, Daniela Santadeché, WalterEgo Veltroni, Marpionne…), l’ideatore del più godibile e intelligente programma di arte contemporanea (“Dago in the Sky”), l’inventore di un genere, “Il cafonal”, ovvero “la cafoneria trasformata nel massimo rito sociale della comunicazione, l’esibizionismo pacchiano che travolge tutti”, una specie di antieorico Proust. E così, nell’età dell’ipercomunicazione social, Dagospia è diventata una testimonianza dell’apertura di senso gadameriana e del pragmatismo di Richard Rorty, un mondo dove non esiste più una specularità tra reale e razionale, tra reale e sua descrizione, ma dove “è vero ciò che è vero nel senso della credenza” (Rorty). Non dandoci più limiti all’interpretazione, Dagospia ha favorito l’affermarsi della creazione del consenso attraverso la costruzione di discorsi aperti che non necessitano di un sistema di verifica. Nell’età della finanziarizzazione i significati che emergono da un sito così sono quelli di uno storytelling che crea quel Capitale di visibilità (quel Potere di visibilità di cui parlava Bourdieu) su fatti e persone che vengono coinvolti e triturati. Si attua quanto descritto da Gianni Vattimo in “La società trasparente”: “Invece che procedere verso l’autotrasparenza, la società della comunicazione generalizzata ha proceduto verso quella della fabulazione del mondo”. Il ricorso allo choc e alla spettacolarizzazione, al cafonal sono gli storytelling messi in atto per amplificare il valore della merce comunicativa: l’individuo spettacolarizzato, ridotto a macchietta, amplifica il suo Capitale di visibilità che diventa Capitale economico. Vanni Codeluppi ha ben descritto nei suoi testi questo aspetto di costante “messa in scena”: è il fenomeno della “vetrinizzazione del mondo” e riguarda sia la comunicazione che le arti contemporanee, che i comportamenti sociali… Nella società dei consumatori, nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce. La Rivoluzione consumistica ha trasformato i desideri nell’esperienza centrale della vita e la loro sguaiata esibizione in una pratica. Per l’individuo, la celebrità è diventata il corrispettivo della gloria rinascimentale. Una fama che si consuma nel massimo falò delle vanità sotto l’arcobaleno di un non dissimilato nichilismo. Se fama e celebrità non legate al reale successo di un’opera e di breve durata sono tanto ricercate è perché essere conosciuti fa sentire co-essenziali al mondo (tema caro a Sartre) e la riconoscibilità genera economia, denaro. Inoltre, l’essere ri-conosciuti è la condizione psicologica ideale per lo “stare in società”. Oggi le celebrità, ovvero le persone dotate di riconoscibilità, diventano eroi quotidiani perché consegnano tessuti di discussione agli altri. E oggi, le persone riconosciute, le celebrities, sono spendibili dalla finanza come dei bond umani, dei legami sostitutivi capaci di generare capitale.

Luigi Mascheroni per “il Giornale" il 23 maggio 2021. L'insostenibile leggerezza di Dagospia. Tratta tutto, a partire dai contenuti hard - finanza, politica estera, nuove tecnologie, dalla blockchain al Gruppo Blackstone - nel modo più soft possibile: gossip, pissi-pissi, bau bau. Facendo il cane da guardia contro i poteri. Ecco perché è un bestseller. Roberto D' Agostino, professione lookologo, in Quelli della notte - trasmissione cult, diventa popolarissima - trasformò un romanzo pesantissimo, di uno scrittore ceco, pubblicato da Adelphi (un concentrato di élitarismo ai limiti della leggibilità!), nel libro del decennio. Il capolavoro fu di D' Agostino, non di Kundera. E poi, vent' anni fa, s' inventò una pubblicazione web di informazione generalista, un aggregatore - cioè che saccheggia gli articoli più interessanti dei maggiori quotidiani - trasformandolo nel sito giornalistico più specialistico e insieme più popolare che esista. Dagospia non è per tutti, ma tutti gli addetti ai lavori, e molti di più, lo leggono. È la nuova stampa, bellezza. Bello, non è bello. L' impaginazione alla Drudge Report è inguardabile, le foto rubate dal web sono quelle che sono, i fotomontaggi terribili, la titolazione graficamente monocorde, le pubblicità spesso grattano il fondo... Eppure Dagospia resta in cima. E non è soltanto una questione di costi (minimi) e ricavi (dicono ottimi). È che Dagospia è l' unico modello giornalistico innovativo e vincente che si è visto in Italia negli ultimi vent' anni, a parte il Foglio di Ferrara, e per ragioni opposte. I quotidiani generalisti, sia le corazzate sia i vascelli «da battaglia», a partire dal Fatto quotidiano, che spentasi l' onda antiberlusconiana si è arenato sulla battigia, sono tutti in crisi nera, oltre che vecchi. Per tacere del web. Non sarà stato innovativo il Post di Sofri... E Open di Mentana? Sembrava dovesse cambiare il mondo delle news... Chi l' ha visto? La verità è che Dagospia lo vedono tutti. Né di destra né di sinistra, basta che sia contro il Potere (chi altri in Italia?), è la formula vincente di Quelli della notte declinata nel giornalismo: una banda di disperati che ha cambiato la televisione. Allo stesso modo D' Agostino e la sua banda - a molti piace, a molti no, non importa - hanno rivoluzionato l' informazione. Leggerezza, velocità, gossip, riflessione alta e Cafonal basso, retroscena e lati B, artigianalità e un certo genio. Ci vuole del genio a rubare i pezzi a tutte le più grandi testate senza che nessuno dica «beh» (anzi: per i giornalisti essere ripresi da Dagospia è l' unico modo per essere letti da tutti), rititolare ogni cosa «à la D' Agostin», persino a pubblicare un pezzo per l' importanza di ciò che NON dice, e a metterci del proprio. Tra le specialità della casa: le indiscrezioni finanziarie, i retroscena politici, gli scoop nel mondo dei media, il cinema di Marco Giusti, l' arte contemporanea, il battitore libero Mughini... E tutto gratis, purtroppo per noi giornalisti. Dagospia nel 2000 partì con 12mila visite quotidiane in media. Oggi sono 3,5 milioni di pagine consultate al giorno. Il lato popolare dell' informazione di nicchia. A proposito, clic clic: «Auguri».

Fernando Proietti per Dagospia il 23 maggio 2021. Caro Roberto, l’onore che mi riservi di celebrare con qualche riga i 21 anni di Dagospia è davvero un compito che forse avrebbe meritato altri ben più autorevoli del sottoscritto che qui ricorderò a ragione. E non lo dico per falsa modestia. Dunque, mi considero solamente l’amico-collega al quale hai raccontato confidenze e timori nell’accompagnarti nella lunga e faticosa traversata del deserto che hai dovuto affrontare in solitaria. E alla maniera epica di Bartali e Coppi, ho saputo offrirti – io nella parte del Ginettaccio di “è tutto da rifare” -, appena una borraccia riempita di qualche buon consiglio e alcune ideuzze. Penso, in primis al “Diario di Cuccia” (sobillatore Cossiga) e al “Cafonal”, grazie al grandangolo feroce di Mario e Umberto Pizzi.  A volte partecipe persino di qualche scoop. In una occasione addirittura con la complicità - pensa un po’ -, di Cesare Romiti, ai tempi patron del “Corriere della Sera”: l’uscita improvvisa di Tronchetti Provera da Telecom con l’arrivo al vertice di Guido Rossi. Una anticipazione resa possibile dall’autocensura (o codismo peloso) dei giornaloni, non soltanto per tua bravura. E grazie a quella sorta di catena di Sant’Antonio costruita e manovrata abilmente da te se tra i ‘’porter’’ di notizie potevi contare sulle stesse “vittime” illustri di Dagospia. Nelle redazioni dei quotidiani c’era la caccia alle spie, che sottobanco avrebbero passato le informazioni al sito dissimulando perfino il suo linguaggio urticante e irriverente. Anch’io ci provo con questa lettera delle rimembranze.  Senza immaginare, i presunti spioni da scrivania, che spesso erano i loro direttori, per salvarsi la faccia (e l’onore perduto) nella trincea di carta, ad intercedere con Dagospia qualche grazia. Una partecipazione fraterna dunque la mia. Rafforzata dalle riserve - e a volte dalle critiche (nulla di trash-endentale, per carità -, nell’incoraggiarti a portare l’asticella del tuo sito verso l’Alto). Insomma, a cercare un nuovo equilibrio informativo dopo “Alta Portineria” o il “net-tegolezzo” degli esordi. A stare al bel neologismo coniato da Edmondo Berselli. Già, il D’Agostino “che da ideologo, testimonial e scoopista assurge a punto di riferimento per l’informazione tout court (…) Mettiamola così, una volta c’era il pensiero forte. Adesso c’è Dagospia”, aggiunge l’autore, ahimè scomparso, di “Post Italiani” e “Venerati maestri”. Due operette morali meritevoli di ristampa da parte della Mondadori. Per Berselli, una volta aver travalicato il gossip alla “Novella 2000” di cui era incriminato (a torto) il sito, Dagospia era riuscita a “inventare una sovra-realtà”. Cos’altro aggiungere all’analisi acuta di Berselli? Il recentissimo giudizio di Aldo Grasso sul Corriere: “D’Agostino nel 2000 inaugura il sito Dagospia che, dietro il paravento del gossip, si offre come l’over the top del giornalismo italiano”. Nonostante sia difficile stabilire cosa sia il pettegolezzo, che per Umberto Eco resta pur sempre “una virtù politica”. Nel frattempo Dagospia era snobbata - anzi per anni ignorata o peggio boicottata - dai media tradizionali e dalle istituzioni pubbliche e private. Fino a negare il suo accesso ai pc con la ridicola accusa di pornografia. Gli stessi quotidiani che riprendevano le notizie-primizie senza citarne la fonte. Diciamocela tutta, al vizioso cultore del trash e del porno che nella tv di Arbore sbeffeggiava l’insostenibile leggerezza di Kundera e l’edonismo reaganiano non è stato risparmiato davvero nulla in questi ultimi ventuno anni: censure, calunnie e querele. L’editore romano del “Messaggero”, Franco Caltagirone, paparazzato dai Pizzi in compagnia di una giovane donna, ordinò al suo direttore di non citare mai il nome D’Agostino, che del giornale era stato un collaboratore da prima pagina. Franco Tatò, allora numero uno di Enel, che aveva tentato di mettere la sua compagna, Sonia Raule, alla guida della futura La7 alla fine lo perdonò. “Forse Roberto mi ha evitato guai maggiori”, mi confidò l’ex Kaiser di Mondadori. Silvio Berlusconi, che all’inizio del 2000 con Publitalia assicurò un minimo pubblicitario al sito non chiese mai nulla in cambio. E il Cavaliere nero, il “Pompetta” non fu certo risparmiato dalle bordate del sito. E il “chi lo paga”? intanto rimbalzava nella città dove tutto a un prezzo (si compra) anche tra chi si era presentato a casa tua con un assegno per metterti la mordacchia. Ricevendone in cambio uno sdegnato rifiuto. La Maria-saura Angelillo, che contava entrature al Viminale nei servizi segreti, non è mai riuscita a conoscere il nome del suo invitato di pietra che spifferava a Dago le sue cene d’affari nel villino di Piazza di Spagna. Chi è Mister X? Ah saperlo? L’identità dei querelanti è nota, e dovrebbero fare ammenda nell’aver reclamato i soldi a un sito che si autofinanzia. Tant’è, che per uscire dal cono d’ombra e dal venticello delle calunnie in cui ti avevano cacciato (compresi alcuni cari amici che ti evitavano o provavano imbarazzo a sederti con te al ristorante) ti sei sempre difeso sostenendo che non facevi gossip, ma informazione alta e bassa. E l’unico padrone del sito e redattore unico, a costo zero, eri tu. “Nel suo insieme – ha osservato il giornalista di costume Filippo Ceccarelli a proposito di quella delazione ottica di “Cafonal” che prendeva a modello, in chiave politicamente neutrale e con un occhio al patinato a “Vogue”, il “Borghese” destrorso di Gianna Preda e Mario Tedeschi – può assurgere al rango di un trattato di sociologia della visibilità di epoca di arcaismi post moderni”. Già, la Roma godona, potentona dei morti di fama di quel primo decennio del terzo millennio che il cine-fissato Marco Giusti titolò “La truce vita degli anni Duemila”. Per il sommo Eugenio Scalfari, il mondo di Cafonal (senza nominarlo) segnava anche la morte dei Vip d’antan (finiti nella Rete): “Le loro fortune hanno avuto come piedistallo la società in technicolor dei settimanali in rotocalco e della televisione. Ebbene – concludeva -, il Web metterà quel tipo di strumenti informativi ai margini del mercato e con essi gli stili di vita che ne derivano e i protagonisti che li rappresentano”. Con la nascita dei social (Instagram, Facebook, Twitter) a far da specchio ustorio e narcisistico dei morti di fama a colpi di selfie, scandisce la stessa fine dello storico e inimitabile “Cafonal”. Del resto nel fotoromanzo kitsch di “Cafonal”, la sua forza reggeva proprio nell’assenza del buon gusto (o signorilità) dei suoi attori (e comparse). Quasi a voler dare conforto al filosofo del pessimismo Emile Cioran: “Il gusto, di fatto, è l’appannaggio degli oziosi e dei dilettanti, di coloro che, avendo tempo in eccesso, lo impiegano in sottili inezie…”. A Roma, però, il “fare caciara” come regola di vita e del divertimento serve solo a confutare l’altra faccia, un po’ ipocrita, del “non facciamoci riconoscere” che raccomandavo le nostre madri quando uscivamo di casa. “Ma davvero siamo così orribili, così sfatti, così volgari, così cadaveri, così ultrasupertopcafonastri?”, s’interrogava la sublime Natalia Aspesi. Ma nell’Urbe, le avrebbe replicato il soave Arbasino, da sempre la caciara, la battuta volgare e greve, “le paraculate contro quegli stronzi è una intimazione di grandezza…”. Oramai in Italia i panni sporchi si lavano in trattoria o sui social, non in casa. E Dagospia nient’altro è stato (ed è) che lo specchio, a volte deformante, che riflette questo pianeta informativo invaso e scombussolato dall’offerta digitale. E gli specchi, ci ricorda il poeta Borges, “hanno qualcosa di mostruoso”. E nello specchiarci a ritroso in questi ultimi ventuno anni con indossando la tuta dei dagonauti impertinenti, non possiamo iniziare dall’anno Duemila che – come scrissi ironicamente tempo addietro sulla nascita del sito - aveva preso a camminare minaccioso tra i timori del Millennium Bug per andare incontro al peggio: l’esordio in tv del Grande Fratello e di Dagospia on line. Aspettando l’Apocalisse che verrà, un giorno di primavera del 2000 invitasti a colazione pochi amici. Da poco avevi “rotto” la tua collaborazione all’Espresso. Imprudente, avevi pestato lo zampone dell’Avvocato. Dandogli dello iettatore. Fine della rubrica. E porte chiuse nei giornali. Nonostante la tua scrittura al vetriolo, rasente il nonsense e il calembour, sembrava la sola ad accordarsi con il grande disordine dell’Italia Cafonal, ancora sommersa. Ma tutti facevano finta d’ignorarla pur rientrando nella categoria degli italiani che secondo Ennio Flaiano “non erano una razza, ma una collezione”. L’idea di Cafonal sbocciò nelle dune di Sabaudia, sede estiva del sito, dove la linea telefonica era più zoppicante dei conti in rosso di Telecom. Tanto per fare il verso a “Capital” alla cui direzione era stato chiamato il caro amico Pietro Calabrese. E tra un cazzeggio e l’altro, sul finire del 2005, è la morte di Cuccia a suggerire quel “Diario impossibile”, che a mio sentire segna un punto di svolta nella storia di Dagospia. Il sito si trasforma in un network dove nel gioco duro finiscono manager, banchieri, direttori di giornali. Sbocciano i Poteri marci. D’incanto, evidenzia ancora Berselli, tutti i protagonisti “della nostra società contemporanea esistono in quanto figurine di Dagospia. Un gioco di prestigio, et voilà”. Ma se Barbara Palombelli non aveva dubbi: “apri un sito e scrivi quello che vuoi”, l’impresa sembrava impossibile agli occhi degli scettici. Una scommessa al limite dell’impossibile. Incrociando lo sguardo dolce di tua moglie Anna, pensavo perplesso che avrebbe fatto la fine della cameriera di Balzac: legarti al letto per allontanarti alla fatica del lavoro. Ma ormai era impensabile che potessi sfuggire da quella tentazione. E l’ho capito meglio oggi leggendo il saggio “Sulla libertà” (Einaudi) del professore di Harward, Cass R. Sunstein: sono i “pungoli” o “nudges” che possono indicarci la via della libertà. Ma – prosegue – tutto ciò non basta se non siamo in grado di orientare la bussola nella direzione giusta in cui vogliamo andare. Riusciremo a sopravvivere nella giungla informativa in cui abitiamo e dove come il Selvaggio del “Mondo nuovo” di Adous Huxley gridiamo: voglio la libertà, voglio la bontà, voglio il peccato? Ah saperlo…

Ottavio Cappellani per "la Sicilia" il 18 aprile 2021. Eravamo io Roberto D’Agostino, Vittorio Sgarbi, Giuliano Ferrara, Lino Jannuzzi, Barbara Alberti, Sergio Perroni… Sono passati trent’anni dalla puntata de “L’Istruttoria” nella quale Sgarbi lancio dell’acqua a Dago e Dago rispose con uno schiaffo. In quella Roma, studente ventenne, scorrazzavo con quello che chiamavo (e chiamo anncora, le rare volte che ci incontriamo, “professo’”), portati in giro dal compianto Sergio Perroni, all’epoca agente di Vittorio, stipati su una Mini Minor. Ricordare quell’epoca oggi, in tempi di Covid, è bello è straziante. Sono passati trent’anni da quella sera, e se oggi, giustamente, si celebra l’anniversario di quel momento storico è perché D’Agostino, Ferrara, Sgarbi, hanno davvero cambiato la maniera di comunicare in Italia. In meglio. Per un breve periodo, prima che l’Italia diventasse nuovamente borghese e sbirresca, si accese la scintilla del litigio tra intellettuali. Cosa ovvia in Inghilterra e in America, ma non da noi, dove l’intellettuale ha da avere quell’aria compitina e noiosa, lontanissima dalla vita vera (e litigiosa) che vissero Truman Capote, Gore Vidal, Hemingway, Martin Amis, ma anche Bret Easton Ellis, Franzen, Foster Wallace. Houellebecq. Qui, in Italia, il litigio non è contemplato, è sempre tacciato di invidia o frustrazione. Ma per le idee si deve lottare, si deve litigare. Sergio Perroni (quanto manca) quella sera fece il diavolo a quattro perché quello spezzone non andasse in onda (era l’epoca della cosiddetta diretta-differita) ritenendo che quell’episodio potesse intaccare l’aura “intellettuale” di Sgarbi, che invece se la rideva sotto i baffi. Si disse che fu il culmine della televisione “trash”, ma io me la stavo spassando. Allievo di Manlio Sgalambro (lui non mi manca, è sempre accanto a me nei momenti di bisogno) che aveva mandato a quel paese tutto il sistema filosofico accademico (leggetevi la sua premesse a “La filosofia delle Università” di Schopenhauer) ero e sono convinto che le idee debbano scontrarsi. Sono un grande sostenitore della sintesi hegeliana, ma prima che vi si giunga bisogna prendersi a calci nelle palle, altrimenti non se ne fa niente. Roberto D’Agostino con Dagospia, Giuliano Ferrara con Il Foglio, Vittorio Sgarbi con “Vittorio Sgarbi” (è una installazione situazionista, un capolavoro della pop art) sono tre meravigliosi individui senza i quali l’Italia sarebbe molto più noiosa di quanto è destinata ad essere. Nessuno dei tre – e credo siano gli unici – hanno mai rivendicato con quella stizza da ballerini di tango, il loro essere “intellettuali”. Eppure sono tra i pochissimi (aggiungerei un altro “eterno”, Emanuele Severino) a potersi fregiare del titolo in quest’era non solo postmoderna, ma “postutto”. Io c’ero, quella sera. Sono passati trent’anni, e vedere il video (su Dagospia) dove Vittorio e Roberto raccontano la serata mi ha un po’ commosso. E mi ha ricordato Sergio Perroni, che della serata fu un protagonista dietro le quinte, e avido di vita.

La vera storia dello schiaffo tra Sgarbi e "Dago". Novella Toloni il 17 Aprile 2021 su Il Giornale. Sgarbi e D’Agostino hanno "celebrato" il trentennale dalla famosa rissa che li vide protagonisti a L'Istruttoria, storico programma di Giuliano Ferrara: "Lo schiaffo è dialettica". L'acqua gettata in faccia da Vittorio Sgarbi a Roberto D'Agostino, il ceffone di quest’ultimo sul viso del critico d’arte. Il tutto mentre Ferrara tentava di separarli. Era il 1991 e in diretta a L'istruttoria, il celebre programma di Italia1 condotto da Giuliano Ferrara, andava in onda una delle prime vere risse della storia della televisione italiana. A 30 anni esatti da quel 16 aprile, i due protagonisti di quella rissa hanno deciso di raccontare come andarono veramente le cose. Una reunion che ha il sapore dell'amarcord e che oggi ha un tono decisamente meno ostile: "Sono passati 30 anni da quel famoso schiaffo. Adesso, però, non abbiamo più l'età per accapigliarci", ha scritto Vittorio Sgarbi sul suo profilo Facebook, pubblicando uno scatto recente di lui insieme al fondatore di Dagospia. Negli anni '90 i due erano come cane gatto, l'uno agli antipodi dell'altro. Ferrara li aveva invitati entrambi nel suo programma, il 16 aprile del 1991, pur sapendo che erano due micce pronte ad esplodere e infatti la rissa è rimasta negli annali. Da tempo Vittorio Sgarbi e Roberto D'Agostino hanno sotterrato l'ascia di guerra e a distanza di trent'anni hanno raccontato - in tandem - quanto realmente successo in quella serata. Lo hanno fatto a La Zanzara, il programma radiofonico di Giuseppe Cruciani su Radio 24, dove hanno virtualmente celebrato l'anniversario di quello scontro diventato "leggenda". Chi dette lo schiaffo a chi? Chi iniziò per prima? Domande a cui Vittorio Sgarbi ha replicato ironico: "Forse fu lui, non mi ricordo ormai sono 5-6 anni che abbiamo ripreso a frequentarci. Lui mi diede uno schiaffo, ma molti pensarono che l’avessi dato io a lui". Quello che non si sapeva l'ha però spiegato D'Agostino sul suo sito. La trasmissione era registrata e il critico d'arte "si fiondò sul corpaccione di Giuliano dicendo: 'Questo non va in onda'. E Giuliano Ferrara, che fino a quel momento aveva tenuto in mano il catetere di Vittorio disse di no in nome dello share". E infatti gli archivi custodiscono un filmato ormai cult. Rimpianti o rimorsi? Quando mai, ha replicato Roberto D'Agostino a La Zanzara: "Non esistono pentimenti nella mia vita, i pentiti ce li ha la mafia. Lo schiaffo è dialettica, quella era una dimostrazione rafforzata e fisica di un’idea, di un concetto, di un pensiero. Lui mi tirò un bicchiere d’acqua, un punto esclamativo; io gli diedi uno schiaffo, due punti esclamativi. Io prima meno, poi chiedo perché. Certe volte devi stabilire un rapporto dialettico formato sul fisico".

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 17 aprile 2021. Dal letame nascono i fiori. Giovedì, alcuni siti hanno riproposto una sequenza famosa de «L’istruttoria», il talk condotto da Giuliano Ferrara su Italia 1. Era il 15 aprile del 1991 quando un diverbio, scoppiato nel corso della trasmissione, culminò prima con dell’acqua gettata da Vittorio Sgarbi in faccia a Roberto D’Agostino, poi con un sonoro schiaffo in faccia al critico d’arte, come reazione scomposta di D’Agostino. Adesso, per la cronaca, i due si amano. Per molto tempo, quello scontro è stato additato come l’esempio più «palpabile» della tv spazzatura. L’equivoco nasceva anche dalla meravigliosa sigla della trasmissione: Ferrara usciva da un bidone della spazzatura, si proclamava l’orco del trash, ma intanto cantava l’aria di Leporello dal «Don Giovanni» di Mozart: «Voglio far il gentiluomo, e non voglio più servir...». Insomma, i tre avevano sufficiente coscienza linguistica del concetto di tv spazzatura. Lo schiaffo de «L’istruttoria» è stato per la tv quello che per il cinema sono stati gli schiaffi alla stazione di «Amici miei». Il dopo schiaffo. Ferrara nel 1996 fonda «Il Foglio», una delle più stimolanti esperienze editoriali del mondo dell’informazione. D’Agostino nel 2000 inaugura il sito Dagospia che, dietro il paravento del gossip, si offre come l’over the top del giornalismo italiano. Sgarbi primeggia in vari campi, dalla critica d’arte all’attività politica. Insomma, gli schiaffi non sempre sono morali. Quello che è difficile da sopportare è l’assenza di Giuliano Ferrara dalla tv. Nei suoi programmi, lo scontro di opinioni (sempre rispettoso) era un tonico salutare, una via di fuga dalla monotonia (il male peggiore di tutti i talk), un cammino di conoscenza (partire da un punto e arrivare a un altro, non girare sempre attorno alla preda). Sì, Ferrara è una grave perdita per la tv italiana.

Andrea Parrella per fanpage.it il 16 aprile 2021. Il 15 aprile del 1991, un'era geologica fa. In televisione la rissa non era ancora la norma, sebbene Vittorio Sgarbi avesse già dato prova, in diverse occasioni, di come quella sarebbe diventata la sua principale forma espressiva, nel corso degli anni perfezionata e portata a livelli che, con una certa audacia, si potrebbero definire artistici. In quel giorno del 1991 si materializza quella che è forse la rissa televisiva per eccellenza, sebbene ce ne siano state altre successivamente. Il contesto è quello de L'istruttoria, programma di Italia1 condotto da Giuliano Ferrara, il quale decise con un certo ardire di mettere nello stesso studio televisivo due personaggi allora notoriamente animati da una certa antipatia reciproca. In particolare sembra che Sgarbi non sopportasse affatto Roberto D'Agostino. Quale pretesto migliore per farli confrontare in televisione? Quello che è successo è storia nota, con un diverbio che culminò prima con dell'acqua gettata da Sgarbi in faccia a D'Agostino, poi con la reazione di quest'ultimo, un sonoro schiaffo in faccia al critico d'arte. Il tutto mentre Ferrara tentava di dividerli. Un momento passato alla storia, che per entrambi è acqua passata, visto che con il tempo i loro rapporti si sono rasserenati. “Il primo a chiedere scusa? Forse fu lui, non mi ricordo – racconta Sgarbi a La Zanzara – ormai sono 5-6 anni che abbiamo ripreso a frequentarci. Lui mi diede uno schiaffo, ma molti pensarono che l’avessi dato io a lui”. 

Ospite del programma radiofonico anche D'Agostino, che invece ha celebrato così il trentennale della lite: Non esistono pentimenti nella mia vita, i pentiti ce li ha la mafia. Lo schiaffo è dialettica, quella era una dimostrazione rafforzata e fisica di un’idea, di un concetto, di un pensiero. Lui mi tirò un bicchiere d’acqua, un punto esclamativo; io gli diedi uno schiaffo, due punti esclamativi. Io prima meno, poi chiedo perché. Certe volte devi stabilire un rapporto dialettico formato sul fisico. Un anniversario che Sgarbi ricorda anche con un post sui social in cui ad una foto con D'Agostino accompagna la didascalia: “Sono passati trent’anni da quel famoso schiaffo. Adesso, però, non abbiamo più l’età per accapigliarci…”.

Francesco Tripputi per kronic.it il 15 aprile 2021. Uno schiaffo che fece la storia! Ma vi sono dei retroscena che hanno portato in quel lontano 1991 a quella sberla clamorosa che il giornalista Roberto D’Agostino aveva rifilato al suo collega Vittorio Sgarbi, conosciuto certamente per essere non proprio una persona calma e pacata. Questi retroscena di quello schiaffo sono stati delineati proprio in un’intervista che è stata rilasciata da D’Agostino in questi ultimi tempi: Ospite de La Confessione di Peter Gomez sul NOVE di Discovery Italia, il fondatore e direttore del sito Dagospia risponde alla domanda del giornalista: “Ad un tratto lei si alzò e gli diede un ceffone. Come andò?”.

Lo schiaffo. Tutto parte dal presentatore del programma, Giuliano Ferrara, che inizia a mettere zizzania tra i due: "Ferrara ci mise uno contro l’altro e ovviamente io, da ex balbuziente, non potevo competere con Sgarbi, perché lui aveva una parlantina travolgente. Quando alla fine ero messo con le spalle al muro dissi: ‘Scusi, ma lei è professore di cosa? Tre volte ha fatto gli esami e tre volte è stato bocciato.” Da li esplode la miccia che accenderà la discussione: “Lui saltò sulla sedia infuriato io ho continuato a fare quel gioco retorico: tre volte, tre esami, tre bocciature. Lui non sapeva come contenere la sua ira, prende un bicchiere d’acqua e me la tira in faccia. Io ho perso la testa e in quel momento ho preso la bottiglia per spaccargliela in testa”. Conclude D’Agostino: “Io sono sempre stato un grande picchiatore e gliela volevo spaccare in testa, lui mi prende la bottiglia, mollo la bottiglia e con la mano sinistra, a favore di telecamera, gli allento uno schiaffo che gli volano via gli occhiali”.

Il rapporto di oggi. A oggi le cose non sembrano cambiate tra i due, come conferma anche l’ultimo confronto a tema coronavirus che li ha visti prendere parte sul programma di Rete4 Stasera Italia condotto da Barbara Palombelli. I due infatti non sembrano molto concordi sull’utilizzo delle mascherine, dove è risaputo che il critico d’arte ha da sempre un’avversione all’uso, come lo dimostrano le sue parole sulla tematica: “La mascherina si porta in automobile? Ha un senso solo per chi ha rubato l’automobile. Basta diffondere panico, dicendo che la mascherina ci difende da un pericolo reale. Sono ormai sei mesi che vengo intervistato solo sul coronavirus. Vorrei non parlarne più.” La risposta per le rime di D’Agostino: “Sgarbi, non sei un virologo.” Replica stizzita di Sgarbi, che inizia a scaldarsi: “Non stai parlando tu, caro D’Agostino, che stai benissimo. Come Briatore, Chiambretti, Porro.” E il giornalista replica: “Ma la mascherina la devi mettere.” Botta e risposta: “La mascherina te la devi mettere nel cervello.” Replica del direttore di Dagospia: “Io me la metto anche nel sedere, ma non c’è da scherzare.” E Sgarbi di nuovo: “Stai scherzando tu, piccolo terrorista”. E per concludere il diverbio: “Vai a Bergamo a dire quelle cose”. Chiude Sgarbi: “Vado anche a Bergamo. Certo non vado a Matera: vado, ma smetti di dire idiozie, scemo”.

·        Rosaria Capacchione.

Fabio Sasso per “il Venerdì di Repubblica” il 20 ottobre 2021. Dopo essere stati anni nel mirino dei clan, averne scritto vita e morte e aver cambiato lavoro, tornare a una esistenza "normale" non avviene in seguito a uno schioccar di dita. Da tre anni e mezzo Rosaria Capacchione, ex giornalista del Mattino - che è stata senatrice del Pd e ha fatto parte della Commissione Antimafia - è tornata a casa. Studia, legge, mette da parte documentazione per il futuro. E, a sorpresa, confessa, «mi annoio mortalmente». Ha varie passioni, tra cui le borse anche firmatissime, «ma sempre di budget contenuto, senza schiaffi alla miseria altrui».

Il suo bagaglio pieno di cose brutte e belle, non l'ha mollato perché ad animarla è sempre la curiosità. Pochi giorni fa, una piaga si è riaperta: dopo aver letto la motivazione della sentenza di maggio con cui il boss dei casalesi Francesco Bidognetti e un avvocato, Michele Santonastaso, sono stati condannati per minacce lette in aula a lei e a Roberto Saviano, Rosaria ha ricordato quel giorno del 2008.

«Facevo il mio lavoro tranquilla nella redazione del Mattino di Caserta, quando cominciarono ad arrivarmi decine di telefonate di colleghi dell'avvocato che aveva letto in aula un messaggio terribile diretto a me. Il presidente aveva tentato di fermarlo, ma lui era andato avanti lo stesso. Rimasi sbalordita: c'erano riferimenti non espliciti ma si diceva che era colpa mia se il giudice che avrebbe dovuto firmare la sentenza di appello del processo Spartacus contro i casalesi era stato rimosso». 

Come cambia l'ascolto del linguaggio e la comunicazione per chi deve tradurre per i lettori la "grammatica" dei boss?

«Capii che dovevo fare riferimento a Cosa Nostra, non alla camorra. Molti erano fermi a dinamiche e linguaggi dello scontro tra Nuova Famiglia e Cutolo. Ma a un certo punto non era stato più così, per capire gli interessi dei casalesi dai canoni di Scampia dovevo spostarmi a quelli di Palermo. Le modalità mafiose non sono di vera e propria minaccia, ma sguardi, sussurri, piccole calunnie fatte circolare in certi ambienti. È la differenza che passa tra chi ti dice "vengo lì e ti sparo" e chi diffonde veleno. Non mi impressiono facilmente, ma un parente di un boss che venne a trovarmi e mi baciò in fronte, lo ricordo con raccapriccio». 

Vive ancora sotto scorta?

«La mia e quella di Saviano sono state decise con lo stesso provvedimento, interrompere la scorta a lui assumerebbe un significato politico». 

Un giornalista è libero (anche di spostarsi) per definizione. Che cosa ha significato per lei non poterlo più fare?

«Ho 61 anni, ma nella mia testa ne ho ancora 48, sono ferma a quando non avevo la scorta. Ero abituata a tornare tardi, a volte sparivo per lavoro e non dicevo dove mi trovavo. Da un giorno all'altro, per la prima volta, ho dovuto rendere conto, cosa che non facevo neppure con mio padre e mia madre. Fino a poco fa avevo una scorta napoletana, ora dev' essermi assegnata quella di Caserta e sto vivendo il cambio con molta ansia. C'è chi considera la scorta come degli autisti, ma il mio spirito non è quello. Se potessi camminerei a piedi, mi siederei su una panchina a pensare ai fatti miei. Cose come le vacanze al mare non si possono fare: mi è capitato poche volte, e solo all'estero. Di alcuni degli agenti sono diventata amica personale».

Alcuni giornalisti pianificano la propria carriera, scelgono il luogo, il settore, altri no. Lei?

«Cominciai giovanissima nel 1985 al Mattino Estate. Venni spedita a Fondi, in provincia di Latina, a seguire dei dibattiti culturali e intervistai Alberto Moravia. Poi però scoppiò un incendio in cui morirono due bambini e passai alla cronaca nera. Mi trasferii nella redazione di Caserta, dove la cultura non c'era, ma in compenso erano continui gli scontri tra Raffaele Cutolo e la Nuova Famiglia. Sono curiosa, cominciai a studiarmi l'argomento, mi feci mostrare le foto segnaletiche che incollavo su un quadernone come figurine. Le foto erano un pretesto, volevo conoscere le storie». 

A casa sua condivisero?

«Nessuno mi ha mai sconsigliato. E non è cambiato niente nemmeno con la scorta. Abito in un parco con 64 famiglie, e una sola persona ha avuto da ridire. Ho risposto "Non c'è problema, compratemi un'altra casa e io me ne vado". Tutti gli altri condomini sono miei amici e ancora di più lo sono della scorta a cui offrono spesso il caffè».

Che cosa legge?

«Molti sudamericani e francesi. Ma chi mi ha aiutato nei momenti brutti è stato Oscar Wilde, perché riesce a strapparmi una risata. Il fantasma di Canterville l'avrò letto 150 volte a scopo terapeutico, anche se non ha un lieto fine». 

Lei non si è più voluta candidare. Come vive ora?

«Collaboro con Fanpage. La mia idea era anche lavorare in un settimanale, perché le 70 righe a un certo punto non bastano più. Al Mattino mi hanno prepensionato e l'esperienza parlamentare mi è servita anche a diluire il trauma. Quando accettai la candidatura si andava in pensione a 60 anni, quindi sapevo di essere a fine carriera, ma non ho sopportato che me l'accorciassero ancora». 

È stato peggio andar via dal giornale che subìre minacce?

«Quarant' anni di giornale non sono pochi. Mi manca molto di più la quotidianità del mio lavoro che la libertà. Ho cominciato che avevo 20 anni, al Diario. Un sogno impossibile che si realizzava, non venendo io da una famiglia di giornalisti e vivendo a Caserta. A 15 anni andai a bussare alla redazione del Tempo. Domandai come fare per entrare in redazione. Risposero "studia, ci vediamo tra una decina d'anni", era come voler fare l'astronauta. Non mi sono mai abituata al miracolo di avere un foglio bianco davanti e di andare poi a casa con la copia stampata: per me sarà sempre una cosa meravigliosa». 

Un'emozione condivisa dai colleghi più giovani?

«Non credo. Manca la curiosità, la voglia di una notizia che gli altri non hanno. Una volta scrissi che un boss delle ecomafie era stato arrestato mentre usciva da casa per comprare una Coca Cola. Gli altri avevano scritto "una bibita". Sembrano niente, ma i dettagli compongono le storie. Ora i ragazzi non scrivono mai l'età di un arrestato. Sarà perché le forze dell'ordine danno l'anno di nascita e loro forse non sanno fare i conti». 

La sua famiglia, la sua città, qual è il racconto di Rosaria su di loro?

«Mia nonna paterna era pugliese, papà si era trasferito a Roma da ragazzo. Ha lavorato come dirigente delle coop bianche tra Napoli e Caserta e lì conobbe mia madre casertana con cui ebbe sei figli, 4 femmine e due maschi, nessun giornalista a parte me, la primogenita. A casa mia, tutti "tosti": mamma ha fatto 6 figli pur lavorando all'Inps. All'epoca Caserta era meglio di adesso. Era la città dove Toni Servillo faceva teatro, dove nacque il nucleo storico della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ora quasi tutti gli ingressi della Reggia sono chiusi, noi invece la vivevamo a pieno: il primo filone a scuola, il primo bacio. Era una città provinciale, ma molto più viva. Sono andata via, e quando sono tornata ho trovato questo. È rimasto il peggio: l'invidia». 

In che senso?

 «Prenda la polemica tra me e Saviano: non c'è mai stata. Eppure provano sempre a dire che lui ha avuto più successo e io meno. Io avrei comunque seguito una strada diversa. Roberto ha 20 anni meno di me, era il collega giovanissimo che mi chiedeva materiale sui casalesi, e io una giornalista affermata». 

Non sposarsi e avere figli è stata una scelta?

 «Molte bambine sognano il matrimonio, io mai e neanche i figli. Ho sette nipoti, le femmine fanno la corte alle mie borse: ho una vera mania ma non le presto. Non devono essere troppo grandi, sennò la roba si perde nella vastità».

Se tornasse a nascere?

«Farei la genetista». 

Come si immagina in futuro?

«Ripenso al passato: a quando ero in redazione, al tempo delle minacce, e se avevo una notizia, mi dicevano "tu devi fare altro" perché ero un brand. Il Parlamento è stata una fuga: conosci tante persone, però è una noia per chi viene da un quotidiano. Ogni seduta a cui partecipavo, in Senato, in Commissione Antimafia, mi vedeva impegnata per pochi minuti, poi se ne riparlava dopo 8 giorni. Si poteva studiare, ma solo la notte. Per chi è abituato ai ritmi del giornale è tutto stressante e spesso incomprensibile. Il futuro come lo immagino? «Non lo immagino».

·        Rula Jebreal.

Andrea Parrella per fanpage.it il 24 marzo 2021. Rula Jebreal è tornata a raccontare la sua difficile storia personale, divenuta nota in particolare in Italia dopo la sua partecipazione al Festival di Sanremo del 2020. La giornalista italo-israeliana si è confessata sabato 20 marzo durante un'intervista a Verissimo, in occasione della presentazione del suo nuovo libro "Il cambiamento che meritiamo", che le ha permesso di ripercorrere la sua storia complessa, caratterizzata dalla tragica vicenda familiare riguardante sua madre che, vittima per anni di abusi, si è tolta la vita.

Il racconto di Rula Jebreal. Jebreal ha ammesso a Silvia Toffanin: "Per anni mi sono vergognata di mia mamma. In Medio Oriente c'è proprio lo stigma dello stupro che viene considerato un disonore ed è anche per questo che si impone alle donne il silenzio. Soltanto pochi anni fa ho deciso di raccontare questa storia che potrebbe aiutare anche altre donne e parlarne mi ha liberata".

"Quello che è successo a mia madre non è un'eccezione". La sua storia è divenuta motivo di testimonianza a sostegno di una questione ben più ampia, relativa ai diritti di tutte le donne. La storia di sua madre le offre costantemente spunti di riflessione importanti perché le dà modo di capire qualcosa in più rispetto alla condizione generale che le donne vivono in questa società, spesso vittime di violenza: "Quello che è accaduto a mia mamma purtroppo non è l'eccezione. Il suo è stato un abuso avvenuto all'interno delle mura di casa, come nell'80% dei casi", ha raccontato la giornalista nel corso della puntata di Verissimo. Per poi aggiungere: "Quando mia mamma ha denunciato non le hanno creduto e purtroppo anche questo è quello che succede a tante donne. Mia mamma si è suicidata perché ha subito una doppia ingiustizia: dallo stupratore, il suo patrigno, e dalla società che non le ha creduto".

Paolo Mastrolilli per “La Stampa” il 25 maggio 2021. Altro che disputa televisiva, o trucco pubblicitario: «La discriminazione delle donne in Italia», denuncia Rula Jebral, «è una pandemia che contagia tutti. Ho lanciato un sasso, per aiutare a riconoscere e risolvere questo problema».

Perché ha rifiutato l'invito a Propaganda Live?

«Per anni ho sollevato la questione della sotto rappresentanza delle donne con autori, direttori, colleghi, ma nulla è cambiato. In Italia la discriminazione è palese. Quando ho visto sette invitati e una donna, ho detto che lo consideravo inaccettabile. Ho voluto mandare un messaggio forte, non solo a Propaganda Live, ma a tutti i programmi tv. Lancio l'allarme per un tema che rispecchia il Paese, anche in politica, task force, lavoro. È un problema inquietante, che viene normalizzato e ignorato».

Le donne sono invitate in tv anche per bella presenza?

«Sicuro. Lo capisci quando fanno interventi da 30 secondi, e poi restano ad ascoltare una trasmissione di due ore in cui parlano solo uomini».

I critici notano che è uno scontro tutto interno ai progressisti.

«Il mondo non progressista dovrebbe tacere, perché almeno noi parliamo dei temi, ci confrontiamo. Dall' altra parte ci sono solo attacchi sessisti, misogini e razzisti. Si va dalla violenza verbale al silenzio tombale. Almeno tra i progressisti c' è un dialogo acceso, aperto, magari anche aspro, ma c' è. Fa capire che le idee non sono morte, dalla nostra parte. Anzi, proprio perché siamo progressisti, vogliamo evolverci. E siccome siamo onesti intellettualmente, ci critichiamo anche fra noi. Non è un monologo, ma un dialogo aperto e continuo».

Propaganda Live ha risposto che sceglie gli ospiti in base alla competenza.

«Ciò riflette una cultura generale. È difficile accettare le critiche, quando sei un conduttore televisivo osannato. Nessuno però è immune dalla critica. Tutti possiamo essere colti in fallo, ma a quel punto fai autoriflessione. Io ho lanciato questa critica anche negli Usa, alla Msnbc e su altri canali. C' è stato un confronto aspro, momenti di disagio, però siamo arrivati a guardare onestamente la realtà per cambiarla. Perché senza questo confronto nessuna persona concede il suo privilegio. Anche chi non crede che le donne siano inferiori. Sono sicura che quelli di Propaganda Live non lo pensano, ma tanti uomini e colleghi mi hanno mandato messaggi privati, con cui esprimevano solidarietà. Non serve a nulla. E qui c' è tutta la tristezza, perché credono che la battaglia per la parità sia una faccenda delle donne. Non è così. È una questione che riguarda tutti, di democrazia e giustizia. Se l' uomo non vuole rinunciare al privilegio, mi dà una pacca sulla spalla e dice "brava, continua a lottare", le cose non cambieranno mai».

Perché gli uomini le hanno mandato messaggi privati?

«Nessuno vuole pagare il prezzo: ti sostengo, ma questa non è la mia battaglia; il sistema è così, non l' ho scelto io. Sì, può darsi, ma le regole si possono cambiare solo insieme. E finché non saremo tutti liberi, nessuno lo sarà davvero».

Alcune donne l' hanno accusata di cercare pubblicità.

«Mi hanno ricordato momenti del movimento #MeToo, quando donne che hanno denunciato stupri in Italia sono state accusate di farsi pubblicità. È la stessa cosa: loro denunciavano violenza e ingiustizia, io una discriminazione palese. Chi non vuole ascoltare dice che è pubblicità, ma io non ne ho bisogno. Che pubblicità è quella? Non mi avrebbe fatto più comodo andare in tv a promuovere il mio libro? Ho preso posizione, sapendo che avrei scatenato l' ira del programma, per agitare le acque e far riflettere. Magari adesso ci sono colleghi che ci pensano. Tante donne hanno interiorizzato l' anomalia e credono sia la normalità. Ma molte madri, mogli, figlie, sorelle stanno riflettendo: così comincia il cambiamento».

I conservatori accusano i progressisti di «cancel culture».

«Sì, sono cancellati, ma ogni giorno vanno in tv a parlarne».

Non esiste?

«Ma quale cancel culture, se ne parlano tutti i giorni? È un' arma di distrazione di massa: se discuti di questo, non badi alle questioni vere del Paese».

In Italia le rinfacciano di criticare «l' uomo bianco», praticando la discriminazione inversa.

«Non meritano risposta. La discriminazione delle donne danneggia il nostro Paese da tanti punti di vista. Molti non investono nelle nostre aziende perché hanno regole precise che richiedono la parità. Leggendo i dati sul Covid, l' occupazione femminile è stata la più colpita, gli asili nido erano chiusi, tante donne sono state costrette a scegliere tra lavoro e figli, e hanno scelto la famiglia. Il dibattito in Italia dovrebbe riguardare i diritti e come migliorarli. Io ho lanciato l' allarme su un fenomeno ovvio, anche tra i progressisti: basta guardare alla dirigenza del Pd. Se non ne parliamo ora, quando lo faremo?».

Dove vede la discriminazione?

«Governo, Pd, aziende, task force. Il 100% degli istituti di cultura è guidato da uomini, come le università o i teatri. Le donne guadagnano meno dei colleghi. Una pandemia dilagante».

Esiste anche il problema del consenso, come ha dimostrato la vicenda del figlio di Grillo?

«Esatto. È ora di cambiare la narrativa. Dobbiamo dire agli uomini che quando una donna è ubriaca non può consentire, e quindi la state stuprando. Lo stupro non può essere la punizione perché una donna ha bevuto o indossato la minigonna».

L' origine è culturale?

«L' immagine di una società patriarcale è tappezzata ovunque. Sento parlare delle donne come minoranza da difendere: no, sono la metà. Quando vuoi relegarle a minoranza, categoria protetta, il ragionamento è distorto a monte».

Questo non riguarda anche casi come la legge Zan?

«Stessa cosa. Io non combatto solo per l' inclusione delle donne, ma anche di gay, lesbiche, immigrati, musulmani, ebrei. Ho l' obbligo morale di liberare chiunque sia discriminato. In Italia c' è una trasversalità della discriminazione che va raccontata».

Quote rosa, leggi: come se ne esce?

«Nessuno rinuncerà al privilegio senza qualche meccanismo di coercizione, perciò servono nuove leggi. Bisogna lanciare l' allarme, e le donne devono smettere di votare candidati che non si impegnano a fare i loro interessi. È necessario sgravarle dalle mansioni della cura, investire e legiferare su istruzione, asili nido, emancipazione economica, parità sul lavoro. Io devo molto all' Italia, è il mio Paese e lo amo profondamente. Spero che questa protesta sia costruttiva, per spingerlo verso la modernità. Altrimenti sono molto preoccupata per il futuro dei nostri figli».

·        Selvaggia Lucarelli.

Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 16 novembre 2021. Non mancano le fibrillazioni in Rai. Ad Oggi è un altro giorno, il programma di Serena Bortone in onda su Rai 1, arriva Morgan, che è uno dei concorrenti di Ballando con le stelle (e che insieme ad Alessandra Tripodi sta spopolando al programma di Milly Carlucci, tra risse e colpi di testa). Durante l'ultima puntata dello show, Morgan e la giurata Selvaggia Lucarelli hanno litigato. E di brutto. E ora Castoldi svela di aver querelato la giornalista.  “A Ballando è successo di tutto sabato, forse qualcosa che non doveva succedere…”. Così introduce l’argomento Serena Bortone a cui fa subito seguito la replica di Morgan: “Ciò che non doveva succedere è proprio che il nostro lavoro venisse trascurato”. Gli fa eco Alessandra Tripoli: “Vero, lui si impegna molto, questa cosa è passata inosservata”, dice. Morgan è un fiume in piena a ad Oggi è un altro giorno va giù duro senza mezzi termini. “La Lucarelli fa il diavolo a quattro, non dirò niente perché esistono codici civili e penali”, continua Morgan. “Si chiama Ballando e deve essere giudicato il ballo, questo è il dispiacere“, ribadisce la Tripoli. Bortone: “Se tu decidi di metterti il gioco stai a quelle regole però...”. Morgan si scatena: “Per me non è dispiacere ma imbarazzo. La Lucarelli è imbarazzante, per me", dice. E la Bortone domanda: “Perché? perché?” “Lei mi costringe ad abbassarmi a un linguaggio che non mi interessa, va fuori tema”, continua Morgan. Ma quando la Bortone si appresta a leggere la chat privata tra loro due accade di tutto. "Non lo leggere perché questo è oggetto di querela. Vuoi che ti leggo il codice civile e penale? La messaggistica privata è un reato se la pubblichi, specialmente se ci sono di mezzo personaggi pubblici“, continua. "E' violazione della privacy e anche dell’onore perché lei sta svelando un messaggio confidenziale. Io sto parlando di meccanismi professionali che lei non è tenuta a svelare. La signorina ha un problema sia civile sia penale in questo momento”. Già, perché la Lucarelli, seguendo il suo vergognoso metodo, ha pubblicato online i messaggi privati che si era scambiata con Morgan.  “Ovvio, alla quinta puntata basta. Lei deve stare al suo posto. Lei un giudice? E io vado da un giudice della Repubblica. Quel testo poi è privato e pubblicandolo ha commesso reato penale. C’è la privacy". Ma Morgan non si placa. E non fa sconti a nessuno: "Una che non capisce che sto scherzando è una matta, non capisco di chi stia parlando. La Lucarelli sta facendo il diavolo a quattro, io trovo sgradevole il fatto che si parli di altro in un luogo in cui dovrebbe farla da protagonista la musica. Non torniamo sul luogo del delitto, lei mi ha messo i piedi in testa".

Da ilfattoquotidiano.it il 16 novembre 2021. L’acceso scontro in diretta a “Ballando con le Stelle” tra Morgan e Selvaggia Lucarelli, come immaginabile, non si è concluso all’interno dello show del sabato sera di Rai1 ma è proseguito sui social. La giurata ha provato a fare chiarezza pubblicando il messaggio ricevuto dal cantante: “Selvaggia, ma io stavo giocando stasera con te, non c’era la minima intenzione né di offesa, né di aggressione. Anzi, pensavo saresti stata al gioco, sapendoti capace di volare alto. Mi hai frainteso, mi dispiace, io avevo intenzioni del tutto teatrali, nel gioco delle parti di uno spettacolo improvvisato che siamo perfettamente in grado di fare andare dove vogliamo. Se ti incazzi mi dispiace sul serio. Se vuoi parliamone a voce”. Tra le righe le sue scuse. Parole a cui Lucarelli ha risposto così: “Caro Morgan, io non recito e ancor più non recito con copioni e ruoli decisi da te, in uno stato di scarsa lucidità. E a tutti quelli che hanno pure fatto finta di credere al povero concorrente provocato dalla giuria cattiva: ora andatevi a nascondere, grazie. Come al solito c’è chi ama sabotare se stesso, e mentre lo fa, sistematicamente, tira fuori la sua incurabile sindrome rancorosa del beneficato. Le persone a cui far pagare i propri fallimenti sono inevitabilmente quelle che hanno più provato a consigliarlo e sostenerlo“. Il sito Leggo aveva poi riportato un retroscena parlando di una lite avvenuta dietro le quinte tra Marco Castoldi, questo il suo vero nome, e una persona vicina a Selvaggia Lucarelli, accennando ad “atteggiamenti tutt’altro che amichevoli” e all’intervento di vigilantes e forze dell’ordine per ristabilire la calma ed evitare la rissa. Una versione differente fornita dalla giornalista che ha fatto delle precisazioni proprio su questo punto: “Riguardo quello che è uscito su alcuni siti sul ‘dietro le quinte’, le cose non sono andate affatto come raccontate. Morgan, mentre ero in onda, dopo la sua esibizione, davanti a molte persone dietro le quinte ha detto cose molto gravi, di quelle che ovviamente si dicono solo a una donna. Attendo le sue scuse, e le attendo pubblicamente. Non mi faccio usare e, come dicevo ieri sera, non amo la disonestà. La disonestà di chi cerca sempre il colpevole dei suoi casini fuori da sé e, se possibile, ti ci trascina dentro“. La replica di Morgan è arrivata a stretto giro, sempre attraverso Instagram, ma non per scusarsi: “Quando una donna fa del bullismo ad un uomo attraverso strumenti e principi di natura ‘femminista’, danneggia in primo luogo il genere femminile e vanifica anni di lotta che donne realmente vittime di violazioni e sottomissioni hanno compiuto in modo intelligente per conquistare pezzi di civiltà che sono proprio gli argomenti impugnati e manipolati con superbia dalla donna-bullo“. “Quando saranno le femmine stesse ad accorgersene allora insorgeranno e capiranno. Rispetteranno, saranno complici degli uomini sensibili, gli uomini vulnerabili. Sapendoli distinguere bene dai violenti e dai prepotenti che circolano tranquillamente incensurati. La prima nemica della donna è la donna-bullo, che guarda caso si aggira nelle file della borghesia sventolando i diritti della donna moderna e libera, non certo dei marciapiedi. Dove soccombono le donne che svendono il corpo e il sogno di emergere prima e poi da quella schiavitù”, ha concluso il concorrente dello show. Ci sarà un confronto nella prossima puntata di “Ballando con le Stelle” o lo scontro potrebbe avere strascichi di altra natura? 

Dopo il caos a Ballando, Morgan querela la Lucarelli. Novella Toloni il 15 Novembre 2021 su Il Giornale. Dopo lo scontro avvenuto a Ballando con le stelle, il cantante ha deciso di querelare la giornalista. Al centro della querela ci sarebbe la pubblicazione di alcuni sms privati su Instagram. Finirà in un'aula di tribunale la lite consumatasi a Ballando con le stelle tra Morgan e Selvaggia Lucarelli. Nel corso dell'ospitata a Oggi è un altro giorno, l'artista ha dichiarato di avere querelato la giornalista in seguito allo scontro consumatosi durante l'ultima puntata del programma del sabato sera di Rai Uno. La notizia è arrivata a sorpresa negli studi del programma condotto da Serena Bortone. Morgan è stato ospite di Oggi è un altro giorno insieme alla sua insegnante di ballo, Alessandra Tripoli, ed è tornato a parlare dell'accesa discussione avuta con Selvaggia Lucarelli dopo la sua esibizione. Prima delle votazioni della giuria, tra i due sono volate parole grosse e a stento Milly Carlucci è riuscita a riportare la calma tra i due litiganti. Da una parte la giornalista, che nel programma riveste il ruolo di giudice, ha dato del "disonesto, maleducato e capriccioso" all'artista, dall'altra quest'ultimo ha rifiutato il ruolo di giurata della Lucarelli, paragonandola alle "scimmie di Stanley Kubrick" per la sua "incompetenza" musicale. E la lite è degenerata. A fine puntata Selvaggia Lucarelli ha preteso le scuse di Morgan per le parole dette nei suoi confronti e ha spostato la discussione su Instagram. La giornalista ha pubblicato un messaggio inviatole dal cantante, nel quale quest'ultimo si difendeva parlando di "gioco" e di essere dispiaciuto che la sua intenzione "teatrale" fosse stata male interpretata e l'avesse ferita. Pubblicando l'sms, Selvaggia Lucarelli ha dato nuovamente del "disonesto" a Morgan: "Io non recito e ancor più non recito con copioni e ruoli decisi da te in stato di scarsa lucidità. Morgan ha detto cose molto gravi, di quelle che si dicono alle donne. Attendo le sue scuse pubblicamente". Le scuse non sono arrivate, ma una querela in compenso sì. Morgan lo ha detto chiaramente nel corso dell'ospitata nel programma di Rai Uno condotto dalla Bortone. La conduttrice stava per citare il messaggio pubblicato dalla Lucarelli, quando Marco Castoldi l'ha bloccata. "È un messaggio privato, non puoi leggerlo. È un reato penale - riferendosi alla pubblicazione sui social fatta dalla Lucarelli - violazione della privacy e dell'onore, perché lei sta svelando un meccanismo professionale e lei mi sta mettendo in difficoltà". Serena Bortone ha provato a indagare: "Tu vuoi dirmi che la stai per querelare?". E Morgan non ha esitato: "No l'ho già fatto. Ho presentato una denuncia. È la quinta puntata che sarebbe da denuncia, ora è arrivato il momento. Mettere i piedi in testa è una cosa sbagliata". Dalla televisione ai social, il decorso della lite proseguirà dunque in tribunale, dove entrambi hanno più di un contenzioso aperto.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi

Selvaggia Lucarelli, pesante accusa dopo le vacanze a Noto: "Non ha pagato", "Chiederemo i danni". Libero Quotidiano il 17 agosto 2021. "Non ha saldato il conto": volano stracci tra Selvaggia Lucarelli e l'agenzia che le ha affittato una villa per le vacanze in Sicilia. E' da giorni ormai che la giornalista denuncia le condizioni nelle quali avrebbe trascorso le ferie, definendo spesso l'alloggio un incubo per via di vari disservizi, come la mancanza di elettricità la sera o l'impossibilità di fare la raccolta differenziata. Dopo giorni di silenzio, l'agenzia ha deciso di scrivere un post di chiarimenti, accusando la Lucarelli di non aver pagato. "La famosa Selvaggia Lucarelli si è esposta per rabbia e amore della Sicilia o per alzare una cortina fumogena sul fatto che ha trascorso alcune settimane in una villa da lei stessa definita bellissima, pagando solo i duemila euro di anticipo, perché ad oggi non ha manifestato intenzione di pagare il resto? - si legge sulla pagina Facebook dell'agenzia - Giunta il 29/7/2021, presso la proprietà da noi gestita, avrebbe dovuto provvedere al saldo della pigione concordata entro il 28/7/2021, avendo versato già un acconto. L’abbiamo ugualmente accolta in buona fede, certi che avrebbe onorato l’obbligazione assunta contrattualmente". Invece, stando alla versione dell'agenzia, il saldo non ci sarebbe mai stato nonostante le loro cortesi richieste nei giorni successivi. Poco dopo sarebbero partite le lamentele. A quanto pare, inoltre, l'agenzia - dopo diversi disagi - avrebbe offerto alla giornalista anche la possibilità di uno sconto con rescissione anticipata del contratto e il pagamento dei soli giorni goduti. La Lucarelli, però, avrebbe rifiutato "palesando da allora l’intenzione di non pagare e diventando estremamente aggressiva e volgare nelle comunicazioni telefoniche con i membri della nostra agenzia". La replica della giornalista non si è fatta attendere: "Ho pagato, purtroppo, una caparra presso un conto estero (come mai? Dove pagate le tasse? Perché su vari siti è richiesto pagamento in soli contanti al proprietario?)". Poi ha chiesto ai suoi follower cosa si possa fare in questi casi se non chiedere i danni per una vacanza rovinata e infine ha aggiunto: "Il resto in altre sedi".  

Stefania Miretti per “Specchio – La Stampa” il 9 agosto 2021. Quand'era al liceo classico Selvaggia Lucarelli dirigeva Lo Spiraglio, giornalino scolastico da lei fondato insieme con il professore di Filosofia, e capitava che sullo stesso numero firmasse l'editoriale battagliero sull'importanza di legalizzare le droghe leggere e l'articolo di consigli ironici su dove nascondersi a Civitavecchia per limonare col fidanzato. Un paio di copie sono sopravvissute al tempo - la tenace resistenza della carta - e stanno lì a testimoniare gli inizi d'un percorso che ad alcuni sarebbe poi apparso leggermente strampalato, ma di certo non a lei. «Quando lo Spiraglio mi ricapita tra le mani, realizzo quanto le cose che facevo allora assomigliassero a quelle che faccio oggi. C'erano già tutte le mie attitudini». Siamo a parlare del giornalino perché quello in cui la intervisto è, casualmente, il giorno in cui Selvaggia compie gli anni, e io subito ne approfitto per scansare le fresche polemiche che la vedono coraggiosamente opporsi ai "no-vax" e "niente green pass" buttandomi su domande vaghe di stampo celebrativo. L'infanzia, i percorsi formativi, il diventare quel che si è «Sono cresciuta in una famiglia eccentrico-borghese, intellettuale», m'asseconda lei, «I miei genitori erano entrambi appassionati d'arte, politica, storia. Mamma conosceva i nomi e le date di tutti i papati; mio padre, laureato in Legge, era anche un grande esperto di geografia, perciò passavamo molto tempo insieme a guardare il mappamondo e le cartine. Diciamo che erano entrambi attentissimi ai problemi del mondo e un po' distratti coi figli, perciò io e i miei fratelli, Brando e Fabio, siamo cresciuti godendo di molta libertà. Vivevamo in un piccolissimo quartiere tra Tarquinia e Civitavecchia, dove il passaggio di un autobus ogni ora era il legame col resto del mondo. Tutto si poteva pensare, tranne che lì potesse nascere qualcuna che se la sarebbe cavata con la comunicazione». 

Invece, vocazione salda e precoce?

«Alle elementari già lavoravo ai copioni per le recite scolastiche e sì, ho sentito molto presto che in me c'era il germe della scrittura. Però una parentesi di disorientamento c'è stata: ho attraversato un periodo, crescendo, in cui mi sembrava che scrivere fosse qualcosa di poco concreto, così per un po' ho scelto il teatro. Ma non ero nata per fare l'attrice: gli attori dicono che per loro ogni replica è un'esperienza diversa, mentre per me ripetere lo stesso spettacolo ogni sera era un po' un giorno della marmotta. M'annoiavo, una cosa che scrivendo non m'è mai capitata». 

Però c'è stata, e c'è tuttora, la televisione. Il piacere di esibirsi.

«Sì, certo. La televisione è arrivata per caso, come qualcosa che non avevo minimamente messo in conto. Nel 2002 avevo aperto un blog, allora eravamo poche migliaia a usare quel mezzo ed era molto facile essere notati. Mi cercarono i giornali, Il Tempo, Max, Capital, ma anche Simona Ventura. All'improvviso io, quella veniva dal nulla, quella che scriveva sul computerino in soffitta, mi sono ritrovata a dover scegliere tra la Domenica In di Bonolis e la prima Isola dei Famosi. E sai qual è la cosa che adesso mi fa più ridere? Alle mie prime esperienze televisive venivo spesso rimproverata perché intervenivo poco. Mi dicevano: sei poco battagliera, non sei abbastanza incisiva». 

Tornando un passo indietro: ci sono letture che ti hanno aiutata a mettere a fuoco ciò che volevi essere?

«A casa c'era una stanza intera dedicata ai libri. Mamma non ci permetteva di guardare la tv, quindi divoravo un po' di tutto, i grandi romanzi russi, quelli francesi. Ma la rivelazione è arrivata con Bar Sport di Stefano Benni. Fino a quel momento avevo letto cose che facevano piangere, lì ho capito che si poteva far ridere scrivendo e che quella strada m' appassionava. I miei primi articoli erano tutti ironici». 

 Ti piacciono ancora, quando li rileggi?

«Sì, in realtà sì, anche se a volte ci vedo qualche ingenuità. Più che altro mi stupisce quanto si potesse osare, essere scorretti e puntuti, dieci anni fa. Oggi per alcuni di quegli articoli verrei arsa sul rogo, ho persino cancellato qualcosa, qua e là, pensando: se ritrovano questa roba, finisco dritta al tribunale dell'Aia».

Tribunali a parte, t'è mai capitato di pentirti per aver ferito qualcuno scrivendone?

«Penso che a tutti i giornalisti possa succedere di ferire qualcuno».

Te lo chiedo, infatti, da giornalista che ha talvolta sentito il disagio d'entrare nella vita delle persone.

«Il disagio c'è sempre, ma una notizia è una notizia: sai che può far male, ma se ci sono i riscontri la devi dare. A me spiace soprattutto quando una notizia investe qualcuno che è impreparato ad affrontarla, quando una critica colpisce chi non ha gli strumenti per elaborarla». 

Per ferire te cosa ci vuole?

«Intanto non è facile: ho una certa robustezza sviluppata in vent'anni di sopportazione. La prima cosa terribile su di me la scrisse una giornalista del Messaggero tra i commenti sul mio blog. Mia madre si spaventò moltissimo: allora non c'era esperienza di questo fenomeno, se qualcuno scriveva ti odio, potevi pensare che sarebbe passato all'azione. Oggi provo dispiacere solo quando le critiche su di me investono le persone cui voglio bene, patisco quel tipo di meschinità lì». 

 I commenti che prendono a bersaglio il corpo, invece, ti scivolano addosso?

«Quelli non mi feriscono, mi irritano. Sono forte e strutturata, ma so che esiste un problema più ampio: l'idea che prendere di mira il corpo sia un modo per rimettere al suo posto la donna che si muove su terreni considerati maschili. Io sono una la cui opinione conta nel dibattito pubblico, una delle poche che si espongono sui social in maniera diretta, senza troppi filtri, parlando di politica e, secondo qualcuno, inquinando con materiale nazional popolare, cosa che viene giudicata imperdonabile. Nessuno direbbe mai che il tal direttore di telegiornale è frivolo perché parla di calcio, ma se noi commentiamo la politica e siamo giurate in un programma di ballo, ecco che entra in ballo la taglia di reggiseno».

Si parla troppo di corpo, non trovi?

«Sai una vicenda che mi ha molto colpita quest' anno? Quella dell'infermiera simbolo del Covid, la ragazza bellissima che è stata invitata a Sanremo e a Venezia: non che non lo meritasse, ma è chiaro che tra tante infermiere che hanno combattuto in prima linea e mostrato sui social il proprio volto distrutto dalla fatica, s' è scelto di premiare la più bella. Così come s' è parlato moltissimo della tragica fine di Luana D'Orazio, a fronte di nessuna attenzione per altri morti sul lavoro. Sono, come minimo, scelte un po' pigre anche da parte dei media: io penso invece che le storie abbiano sempre una potenza che il corpo non ha». 

Sulla pigrizia dei media sono più che d'accordo, invece volevo confrontarmi con te su certe coazioni a ripetere tipiche dei social. Sembra che avere degli haters sia diventata una forma di distinzione cui molti aspirano. Ci si alza al mattino e si cerca uno stagno in cui gettare il proprio sasso, magari per poi lamentarsi degli attacchi ricevuti. C'è anche un po' di responsabilità dei "buoni", nel processo d'incattivimento generale?

«No, secondo me no. Cercare il dibattito, anche in modo molto acceso, non vuol dire cercare l'insulto. Non esiste l'attenuante della provocazione e non credo che abbassare i toni sia la soluzione. Ti assicuro che, oltre un certo numero di follower, pure se ti alzi e scrivi che il sole è caldo avrai qualcuno che ti dà della stronza. Quell'odio esiste, è endemico e inestirpabile. Io sono partita lancia in resta nella battaglia contro l'odio, ma ormai noto una rassegnazione generale. Facci caso: non va neanche più tanto di moda parlarne». 

In realtà, noto che qualcuno comincia, timidamente, a invocare il sollievo d'un po' di gentilezza. È forse una possibilità?

"No, guarda, non c'è una strada più gentile in questo momento. E neppure la via legale funziona, purtroppo. Ho appena vinto una causa. I due che sono stati condannati hanno fatto una raccolta fondi per pagare la sanzione amministrativa, ma per quel che dovevano a me si sono dichiarati nullatenenti». 

Ok: quindi?

 «Quindi, quello che faccio è mostrare ogni tanto il volto dei miei odiatori: loro cercano il palcoscenico e io glielo regalo, in modo che capiscano anche il concetto responsabilità, le conseguenze di quell'esporsi. Mi dicono che è una cosa da bulli, ma chi lo dice non ha sperimentato su di se l'urto dell'odio. Guarda Burioni: ha detto rimanete a casa, è stato investito d'insulti».

Ha detto: "a casa come sorci". Sono un'ammiratrice di Burioni, ma penso che qualcuno possa aver trovato la metafora un po' forte.

«Forse lo è, ma prova a immedesimarti nello stato d'animo di un uomo che per tutta la vita ha studiato una materia, e quando espone il suo punto di vista ci sono il pizzaiolo, l'imbianchino e il notaio che gli danno del cretino. Tutti i giorni, centinaia d'insulti al giorno». 

C'è da dire che i social non sono un congresso di virologi. Torno alla domanda: polemizzare dentro quell'arena non è - anche - un modo per contribuire al casino?

«No, perché la discussione e il confronto c'interessano e per starci dentro ci prendiamo tutto, il bello e il brutto. Sui social si svolgono anche dibattiti irrinunciabili con interlocutori stimolanti. S' imparano un sacco di cose. Certo, devo ammettere che si fa sempre più fatica: non credo ci sia mai stato un momento così basso della discussione».

Pensi mai di prenderti una pausa?

«Sarebbe come dire che hanno vinto loro, gli odiatori seriali e organizzati; e io purtroppo già penso che stiano già vincendo: vedo molta prudenza in giro, un continuo aggiustamento di tiro anche da parte dei giornali. Il fazzoletto bianco non lo alzo, non arretro d'un passo». 

Allora ti chiedo come ti vedi tra vent' anni.

«Io e il mio fidanzato ci siamo detti che prima o poi andremo a vivere a Udaipur. L'India è un luogo in cui ti metti a un incrocio di strada e accade tutto, non serve neanche più girare. Mi vedo così, dall'altra parte del mondo, ma sempre intenta a scrivere. Prima, però, potrebbe esserci un'esperienza nuova. Pare che Proprio a me, il mio podcast sulle dipendenze affettive, diventerà un film. Dal podcast al cinema, non avrei mai immaginato che potesse accadere».

La più amata dagli "odiatori" innamorata del proprio Ego. Luigi Mascheroni il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Conduttrice, influencer, polemista, volto tv, tuttologa... Ma non le basta, vuole essere anche giornalista. La cosa che le piace di più, è stare a sbirciare gli altri tutto il giorno. Poi, scriverne. Che - di per sé - è l'essenza del giornalismo. Ma anche, se si sbaglia a prendere le misure, del pettegolezzo. Tra l'analisi di costume e il «chissenefrega» - #selvaggialucarelli #rosicona #tepiacerebbe - è questione di sottilissime sfumature. Splendida in costume marca NotOnlyTwenty, elegantissimo indosso alle over 45 chissenefrega se parla troppo di tutto dalla dittatura militare in Myanmar, che noi ad esempio non sappiamo neppure dove sia, al look di Emma Marrone, che comunque porta traffico social Selvaggia Lucarelli dio, quanto vorremmo uscire una sera a cena con lei: «Io anatra laccata, gnocchi di riso e banane fritte. E tu?». «Involtini primavera, grazie...» è ricca di tutte le sfumature della femminilità. Compostezza. Discrezione. Riservatezza. Docilità. Senso della misura. Eleganza. E un certo savoir-faire. «Madonna come vorrei un virus che ti mangia gli organi in dieci minuti riducendoti a una poltiglia verdastra che sta in un bicchiere per vedere quanti inflessibili no-vax restano al mondo!»... Sì, Selvaggia Lucarelli ha lo stesso fanatismo per le vaccinazioni del senatore Pillon per la famiglia tradizionale. Dalle bimbe di Giuseppe Conte alle fanciulle di Massimo Galli è stato un attimo. È proprio vero: i social sono gratis. Social oltre ogni dire un numero formidabile di follower, fan e amici su Twitter, Instagram, Facebook, TikTok, Google+, Linkedin, Tumblr, Youtube, Pinterest, Snapchat, Twitch, Reddit, WhatsApp e Wechat, noi no ma molto affezionata anche alla vecchia carta stampata, Selvaggia Lucarelli si annoia molto quando legge (basta uno scroll sotto gli account dei Vip e l'idea di un pezzo la tiri fuori), ma è felicissima quando scrive. «La tivù è la vacanza, la radio è il lavoro vero, la scrittura è casa mia». A giudicare dalla qualità media degli articoli, un bilocale con cucina abitabile. Webnauta, editorialista, ospite televisiva, speaker radiofonica, blogger, conduttrice, commediografa, attrice teatrale, scrittrice, doppiatrice, polemista e giudice televisivo, sempre e in tutto con eccellenti risultati. Ma soprattutto influencer: è fra le più ritwittate in assoluto, prima di Roberto Burioni e dopo Valentina Nappi. È più in tendenza lei sui social che la bandiera arcobaleno tra la comunità LGBT. E poi - finalmente - giornalista (pubblicista, cosa che la manda ai matti. Tiè). Selvaggia Lucarelli, nome esotico e cognome da Civitavecchia (dove «'sti cazzi nun è na parolaccia, è na filosofia de vita!»), è dal 2002, dai tempi di Stanza Selvaggia e del secondo governo Berlusconi - speriamo ce se siano altri cinque o sei - che non si lascia sfuggire una tendenza, un personaggio, un fenomeno, una polemica del dibattito televisivo e social. Ci vuole costanza. E anche un principio di disturbo oppositivo provocatorio. Ossessiva compulsiva nello spidocchiare le vite degli altri per ostentarne una propria, multitasking per scelta digitale e monocorde per limiti linguistici (metafore e similitudini laziali alla «Ti desidero come na carbonara dopo mesi de dieta» in effetti sono un po' ripetitive), più permalosa che graffiante e più rissosa che ironica, è però coraggiosissima. Duellare su Twitter con una laureata in Medicina e Giurisprudenza su un tema delicato come la sperimentazione vaccinale in atto, non è da tutti, le va riconosciuto. Selvaggia sandali fetish da amazzone guerriera e criniera maestosa da leonessa da tastiera è, indubitabilmente, bellissima. Ma non è detto sia un vantaggio. Nel mondo dello spettacolo e anche del giornalismo, che in fondo, soprattutto nel suo caso, sono la stessa cosa si lamentano tutte che sia un limite. «Per primeggiare devi essere due volte più brava!». O più perfida. Perfida (è nata il 30 luglio, segno zodiacale leone, ascendente serpente a sonagli), irresistibile (per il 50% è simpatica, per il restante 180 insopportabile), splendida suffragetta vetero-femminista incattivita col mondo maschile e nello stesso tempo impietosa castigatrice delle donne-vip al limite della misoginia - #femministelivorose da eclettica giornalista quale è, Selvaggia Lucarelli è l'unica firma della storia dell'informazione del sud Europa a essere riuscita a scavalcare l'intero ventaglio partitico-politico passando da Libero al Fatto Quotidiano senza fare un plissé. Olè! Salvini quando saltò dall'antimeridionalismo feroce al nazionalismo commosso, fu più elegante: deve ammetterlo anche lei. Che vita. Toy boy, selfoni, battutine su Maria Elena Boschi - «Ammazza che rosicata Lucarè...» - thread&Travaglio, critiche da giornalino Cioè e Get real @stanzaselvaggia. Sosta selvaggia, natura selvaggia, vita selvaggia, immigrazione selvaggia, cementificazione selvaggia, lite selvaggia, invidia selvaggia. Il mito del buon Selvaggia. Cento ricette per cucinare la selvaggina. Infatti è insieme a un cuoco. «E questo cosa c'entra scusa?». «Niente, però ho visto che da quando sta con te è in Rai». Fidanzata a lungo con il proprio Ego, la pasionaria dei reality show - detta «la Simone de Beauvoir de La fattoria (3...)» - ha inoppugnabilmente una insana passione per celebrities tendenti al narcisismo (Scanzi, Morgan, Cruciani e Fabrizio Corona: film culto, I 4 dell'Oca selvaggia). E per le querele. Il catalogo è questo: hater, vip, intellettuali, politici, Daniela Martani, Zorzi del Grande fratello, tronisti - cosa volete, la tavolata è quella... cantanti, Massimo Giletti e «Un raro caso di donna bella, intelligente e simpatica». «Ma chi, lei?». «No: Alba Parietti». Querela e controquerela. A volte si danno, a volte si prendono. «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura/ esta selva selvaggia, aspra e forte/ che nel pensier rinova la paura!». «Se rinasco ha confessato una volta - vorrei rinascere Barbara d'Urso». Intanto, come tanti di noi, è costretta a riempire pagine di parole, noia e commenti. Ha una trasmissione su Radio Capital ed è anche responsabile delle sezioni Cronaca e Interni (il primo che dice che la Lucarelli è la Tina Cipollari del giornalismo politico lo denuncio per bodyshaming) del sito di informazione TPI. Che è un acronimo, come Milf. Del resto - lo dice uno che lo fa da sempre - si può anche scrivere per una vita senza sapere perché. Come si può fare il giudice di Ballando con le stelle - è l'orribile spirito dei tempi, e non scriviamo Zeitgeist per evitare accuse nazi-fasciste - senza sapere ballare. Comunque, la Lucarelli è una donna - moglie, madre, compagna, amante, collega - che o si ama o si odia. E noi la adoriamo. Selvaggia, indomita, affascinante, bellissima. Sì, quella dei Famosi è la mia isola.

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della 

Gaia Tortora, lite con Selvaggia Lucarelli e il "Fatto": "Ripassate il codice penale", "Titolano tutti così". Libero Quotidiano il 03 luglio 2021. Botta e risposta tra Gaia Tortora e Selvaggia Lucarelli. Ad aprire le danze è la prima che su Twitter commenta duramente un titolo del Fatto Quotidiano: "Un indagato non è un colpevole. Un indagato non è un colpevole. Codice penale da ripassare. Quando usi un titolo per fare passare un concetto distorto", è l'accusa della giornalista all'articolo che aveva come titolo "Nuova tangentopoli, 1 indagato ogni 14 ore". Non la prende però bene la firma del Fatto che si è scagliata in difesa del quotidiano: "È una notizia. Oggi tutti titolano così. In questo caso mi sembrano notizie, nulla di più". Insomma, per la Lucarelli se lo fanno tutti, lo possono fare anche loro. Ma la Tortora non demorde: "Uno è generico. L'altro parla di una inchiesta specifica". "Beh, quindi ancora più vago", è nuovamente la replica della Lucarelli che vede a sua volta la risposta della conduttrice di La7: "Non ti preoccupare comprendo la linea editoriale. Ho solo voluto ricordare cosa prevede il codice penale alla voce 'indagato'". A dire l'ultima è però la Lucarelli che va dritta per la sua strada: "Sai quanto articoli così ovunque?". Ma Gaia Tortora non è nuova a liti con Il Fatto. L'ultima volta la giornalista aveva preso a male parole Marco Travaglio. "Non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere", erano state le parole del manettaro che aveva visto la reazione dura della Tortora: "Finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta. Travaglio…Mav****". D'altronde quello della giustizia è un tema che sta molto a cuore la Tortora visto che il padre, Enzo fu condannato a dieci anni di carcere per associazione camorristica e traffico di droga. Il conduttore televisivo fu accusato da soggetti criminali e sulla base di tali accuse infondate fu ingiustamente incarcerato. Dopo sette mesi di reclusione, arrivò a condanna a 10 anni e solo dopo un anno Tortora fu scarcerato perché riconosciuto innocente. Tortora morì poi un anno dopo la sua definitiva assoluzione.

Selvaggia Lucarelli dà della "gatta morta" a Concita De Gregorio: "Non ha colpito a caso", sospetto sulla vera motivazione. Simona Bertuzzi su Libero Quotidiano il 04 luglio 2021. Alla voce "solidarietà femminile" ho trovato in rete 8 milioni di articoli. Questione di sfumature, ma la domanda era più o meno la stessa: esiste la solidarietà femminile? No, che non esiste. Tuttavia, non ci stanchiamo di cercarla nei pertugi del quotidiano e di ascoltare delle femministe petulanti che infarciscono litanie sull'argomento mentre gli uomini - tutti - si divertono a coglierci in castagna. Per esempio, questo pezzo dovrebbe essere la dimostrazione plastica di quanto siamo stronze noi donne con le donne. Affidato non a caso a una donna. Partendo dal presupposto che di uomini str*** ne ho incontrati parecchi ma di donne stronze molte di più e a partire dalla terza elementare, proverò a spiegarvi la questione. Insomma il 2 luglio è andata In onda una puntata divertente dello sfanc***o femmil-progressista di cui sono capaci certe primedonne - attenzione, non ho detto solo donne - del panorama politico e giornalistico attuale.

GATTA MORTA?. Selvaggia Lucarelli, penna assai brillante del Fatto quotidiano e maestra nello sminuzzare l'avversario fino a farne una macchietta da fumetto, ha preso di mira la rossa (ideologicamente parlando) Concita De Gregorio al suo esordio accanto a Parenzo nella trasmissione "In onda" de La 7. E poiché De Gregorio (non dico Concita perché preferisce il cognome) aveva ospite Salvini, Lucarelli è partita leggera leggera come sa far lei ogni volta che si imbatte nel leader della Lega: «Con Salvini ospite non abbiamo visto una gatta più morta di lei (De Gregorio, ndr) neanche dopo un giro di polpette avvelenate in una colonia felina». Due righe sotto delucida il concetto: «L'unica quota che rappresenta la De Gregorio è televisivamente parlando la quota Palombelli. Sguardo fisso in camera che sembra però mirare un punto indefinito nello spazio e nel tempo o, in alternativa, un Poltergeist». Leggerissima, dicevamo, al punto che, mentre leggevamo, immaginavamo l'editorialista di Repubblica nei panni della Carol Anne del celebre horror (bionda anche lei) che parlava a una televisione accesa senza segnale e gridava "sono arrivati!". Credete, il ritratto che Lucarelli fa della collega è a tratti esilarante. Cito a casaccio qualche perla: «Flemma alla Palombelli... sguardo con dentro tutto, dal brodo primordiale all'energia nucleare... parole lente trascinate come note vocali». Ma è così sprezzante il tono che vorresti quasi entrare nel pezzo e prendere le difese della De Gregorio. Se non fosse che poi rivedi l'ex direttrice dell'Unità col ditino alzato e la flemma di cui sopra mentre demolisce l'avversario di destra ma non risparmia l'amico Zingaretti (definendolo «ologramma») e ti mordi le mani. Comunque sia chiaro: Lucarelli non colpisce a casaccio ma solo dove c'è da puntare alto, ovvero a Salvini. Che evidentemente era l'unico ospite di una trasmissione in cui la De Gregorio si ostinerebbe a "invitare solo uomini!". Salvini parla - «è bello confrontarsi in modo civile»... «il reddito di cittadinanza è un ostacolo al lavoro»... «con me i bambini morti annegati nel Mediterraneo si erano dimezzati perché non partivano» - e Concita resta immobile, secondo Selvaggia. Un ologramma appunto. Al pari di Zingaretti e fa piacere che si prestino le definizioni. Non capite più niente, comprendiamo. Succede sempre quando noi donne alziamo i toni. Scivoliamo in quel parlarci sopra - anche se qui è un parlarsi a distanza - e accappigliarci vicendevole che taluni uomini chiamano starnazzamento in nome di un maschilismo becero. E che invece è quasi sempre un sano confronto dialettico. A favore (e per il godimento) degli uomini va però detto che un filo di livore primordiale si evince dal modo in cui Lucarelli scende a valanga sulla collega. Entrambe giornaliste di talento. Entrambe stimate. Entrambe ricercate. Primedonne appunto, che è diverso da donne. Penne. Opinioniste. Capacissime di demolire l'avversario senza fare un plissé.

LUCI DELLA RIBALTA. Lucarelli ha lasciato al tappeto - ridotti peggio di ologrammi - l'universo mondo femminile e maschile e non è stata colpita da rimorso. De Gregorio ha indossato la flemma di cui sopra e fatto altrettanto. Una conduce «In onda». L'altra è il giudice temutissimo di «Ballando sotto le stelle» che alza la paletta e stronca ballerini incapaci. Normale annusarsi di traverso. E mettere i puntini sulle "i" delle luci della ribalta dell'altra. Detto questo vi confido un fatto: mentre una donna, la sottoscritta, registra la lite di due donne (che poi per essere lite servirebbe la replica dell'imputata) qualche giornale racconta sommessamente il parallelo scazzo Concita-Parenzo, colui che finora è rimasto incomprensibilmente in ombra. La trasmissione è la stessa. Ospite del duo Parenzo-De Gregorio è stavolta Antonio Bassolino. Parenzo evoca PCI e DC usando parole ironiche: «Un partito del Novecento, dove c'erano statuto, congressi. Tutti che fumavano, le mozioni, Cossutta, Ingrao...». De Gregorio prima sbuffa poi si incazza e zittisce il collega: «Porta rispetto e lascia parlare il sindaco». Tutto questo alla prima settimana di co-conduzione. Ma fa molto più clamore e portineria la lite tra donne. Ps. Resta solo un dubbio. Che c'entra in tutto questo la flemma della Palombelli? 

Da “Libero quotidiano” il 20 giugno 2021. Selvaggia Lucarelli contro Giorgia Meloni e Matteo Salvini presenti ai funerali di Michele Merlo, il giovane cantante morto di leucemia. La verità è che la penna del Fatto ignora i rapporti di amicizia tra Francesca Verdini, fidanzata di Salvini, e lo sfortunato 28enne e non sa che il padre di Michele, Domenico, è stato scelto per guidare il circolo Fdi di Rosà. Francesca Verdini ha replicato duramente alla Lucarelli: «Meschina e vuota. Si vergogni».

FRANCESCA VERDINI METTE A POSTO LA SOLITA “SELVAGGIA” LUCARELLI, CENSORE DEL NULLA. Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2021. La presenza della Meloni e Salvini in realtà non è stata una passerella, essendo stati invitati dalla famiglia dell’ex cantante di Amici. In particolare Giorgia Meloni ha un rapporto stretto con Domenico Merlo, ex carabiniere scelto nel 2019 per guidare il circolo territoriale di Fratelli d’Italia. È la famiglia Merlo che ha invitato sia la Meloni che Salvini al funerale. La solita “Selvaggia” Lucarelli non sapendo cosa fare, in perfetto stile “Fango Quotidiano” ha criticato la presenza di Matteo Salvini e Giorgia Meloni al funerale del giovane cantante Michele Merlo accusandoli di aver fatto “passerella” scrivendo come sempre sul suo profilo social: “La presenza di Salvini, fidanzata di Salvini e la Meloni al funerale di un ex ragazzo di Amici morto di leucemia fulminante, perché?” scagliandosi contro i leader del centrodestra. La presenza della Meloni e Salvini in realtà non è stata una passerella, essendo stati invitati dalla famiglia dell’ex cantante di Amici. In particolare Giorgia Meloni ha un rapporto stretto con il papà del giovane cantante deceduto, Domenico Merlo, ex carabiniere e amministratore comunale del Comune di Rosà, nonché scelto nel 2019 per guidare il circolo territoriale di Fratelli d’Italia: infatti il padre di Michele Merlo e Giorgia sono stati fotografati in un abbraccio molto sentito. È la famiglia che ha voluto sia la Meloni che Salvini al funerale e non il contrario. La risposta non si è fatta attendere solo che non è arrivata dai leaders di Lega e Fratelli d’Italia, che l’hanno letteralmente ignorata, ma bensì da Francesca Verdini figlia di Denis ed attuale compagna di Matteo Salvini che attraverso un post pubblicato su Instagram le ha risposto definendola: “Giornalista meschina, violenta, inacidita da una vita che evidentemente non va come avrebbe sperato, giornalista vuota e arrabbiata”. “Ho pensato molto se scrivere o meno quello che sto pubblicando in questo momento – ha aggiunto Francesca Verdini – perché ho imparato da piccola che la stupidità va ignorata, altrimenti fa male. Ma a volte, anche se provi ad ignorarla fa male lo stesso. E per la prima volta in vita mia, sento il bisogno di rispondere: rispondo alla Signora Lucarelli”, aggiungendo: “La invito a vergognarsi. Si vergogni perché andare in giro a giudicare in modo meschino e triste come è solita fare. Deve avere un limite. Si vergogni e chieda scusa a chi legge, ai giornalisti perbene per essersi permessa di parlare di un momento così difficile solo perché non è in grado di sospettare che le persone si vogliono bene e si supportino a vicenda”. Ci chiediamo a questo punto: ma la Lucarelli ha una vita? Anche lei si sente un'”unta” del Signore come il suo nuovo direttore-protettore, il pluricondannato Marco Travaglio? In realtà potrebbe fare la protagonista di un nuovo serial “Casalinghe & Pennivendoli disperati”.

Filippo Facci per "Libero quotidiano" il 26 maggio 2021. Nell' aprile 2020 ho scritto che la giornalista non-professionista Selvaggia Lucarelli è un'incompetente, e che farla scrivere di Covid - benché sul Fatto Quotidiano - era una follia. Ho scritto che aveva pubblicato delle spettacolari sciocchezze sulla Regione Lombardia, e che il suo giornale era scivolato sull'untuosa strisciata di lingua che ogni giorno dedicava al governo. Poi, in un tweet su internet, ho invocato la pensione anticipata piuttosto che qualsiasi demente potesse «pensare che questa gossipara spargizizzania, che porta male a tutto quel che tocca ed è diventata nota pelopiù per le sue tette da vecchia matrona, possa essere accomunata allo stesso mestiere che faccio io». Allora lei mi ha querelato, perché vedete, lei querela molto. Ha denunciato che l'avevo anche definita «ignorante» e «attempata stagista del giornalismo tradizionale». È vero. Ha precisato che le avevo dedicato «insulti di stampo sessista», «discriminazioni di genere» e che avevo «denigrato la sua capacità professionale». Confermo l'ultima cosa. Morale: il 20 ottobre 2020, il pm ha chiesto l'archiviazione della querela. Lei non se n'è fatta una ragione, e ha subito fatto opposizione alla richiesta di archiviazione. Però il giudice, il 18 maggio 2021, insomma l'altro giorno, ha confermato l'archiviazione. Fine. Oddio, la signora potrebbe ricorrere in Cassazione: ma saprà che cos'è? Fa bene "il giornalista" a porre l'attenzione sugli insulti da me subiti e sull'archiviazione a seguito della mia querela, perchè tale archiviazione racconta molto bene due cose: il livello del giornalista (ormai in verità noto a tutti) e quello del giudice Livio A. Cristofano, il quale ritiene che ad un articolo (mio) sulla sanità in Lombardia si possa rispondere "tette da vecchia matrona" e "portasfiga". Anzi, specifica pure che il commento del giornalista è "aspro e ironico".   Mia Martini, in effetti, si divertiva assai quando le davano della portasfiga. In sintesi: capito amiche colleghe? Voi scrivete di sanità, libri, tv o politica e un collega vi insulta commentando le vostre tette o parlando di iella che portereste?  E' ironia. Lo dice la legge. Alla fine hanno ragione Pio e Amedeo: se ti dicono "negro" sei tu che devi riderci su.  Olè. 

Dagospia il 27 maggio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, la cosa, Selvaggia Lucarelli, ti ha scritto delle sciocchezze che sono costretto rettificare: non per evitare che il giudice Livio Cristofano la quereli (chi se ne frega) ma per essere certi che non quereli te, questo per aver riportato le sciocchezze omissive (al solito) che lei ti ha scritto. Non è vero, infatti, che io abbia risposto «tette da vecchia matrona» e «portasfiga» a un articolo della cosa sulla Regione Lombardia: cioè sì, l’ho anche scritto, ma su Facebook, questo mentre su Libero ho anche demolito l’articolo di una pagina: che lei aveva pubblicato sul Fatto facendo «disinformazione», titolammo. La cosa, infatti, aveva intervistato con soddisfazione («l'incredibile racconto») un mentitore che aveva una polmonite interstiziale e che perciò aveva raccontato una balla ai sanitari (si era inventato degli incontri ravvicinati con dei codognesi) pur di farsi ricoverare, questo nel periodo in cui gli ospedali scoppiavano e talvolta dovevano selezionare chi doveva vivere e morire. Insomma: uno che non doveva neppure essere ospedalizzato, ma che, mentendo, aveva rubato un posto a gente morente: la polmonite interstiziale se la poteva curare a casa sua, come tanti altri, infatti lo tennero in corsia per una settimana con un po' di mascherina e poi ciao, tanti saluti. Lo dimisero da positivo come da assoluta prassi: quando uno era clinicamente guarito, infatti, si libera e liberava il letto (al tempo c’erano moribondi in lista d'attesa) e lo si mandava a casa a fare una cosa che si chiama quarantena, come da linee guida risalenti al 24 febbraio precedente. Il dialogo accademico tra la cosa e questo Marco tuttavia fu il seguente. Lucarelli: «Ma come guarito? Dimissioni non vuol dire per forza guarigione». Marco: «Infatti! Io ero positivo e lo sono stato ancora per 20 giorni, dopo che sono uscito». (la normalità assoluta per ogni malattia infettiva, ossia: non è che ti fanno fare pure la convalescenza in ospedale, servito e riverito). Poi Marco aggiunse, a peggiorare il duo dell’ignoranza: «Mia madre era stata qui mentre ero infetto, è tornata in Sicilia con l'aereo da Bergamo». E lo disse pure: era volata, cioè, a infettare la Sicilia. «Marco, alla fine sei tornato a casa da positivo» si stupì la Lucarelli. Scoop. Titolo dell'articolo: «Dimesso, ma infetto: Gallera disse che era guarito». Infatti lo era. Da qui il mio invocare la pensione anticipata – più le cose che ho scritto su Facebook - piuttosto che la cosa, lei, potesse essere accomunata allo stesso mestiere che faccio io. Scusa il disturbo, lo so che mi butto via, me lo dicono tutti, ma è che mi diverto un casino, mi basta poco. Lei invece si inacidisce e querela, però marameo. Filippo Facci

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2021. «Mi sono bucata per quattro anni. Non mi infilavo una siringa nel braccio perché la mia droga non era una sostanza, era una relazione». Comincia così e non te l'aspetti. Perché Selvaggia Lucarelli, giornalista e scrittrice temutissima e seguitissima sui social da quasi quattro milioni di follower, non sta raccontando la storia di un'altra: è la sua. «La mia storia» è la prima di sei puntate del podcast «Proprio a me» dedicate alle dipendenze affettive, che ha realizzato per Chora Media e che da mercoledì sarà disponibile su tutte le app free. Ed è la storia di un amore sbagliato con un uomo che un giorno dopo l'altro le toglie fiducia in se stessa, dignità, bellezza. Che le ruba quattro anni, il tempo necessario perché riesca infine a guardarsi con tenerezza e a uscire dal pozzo della dipendenza. L'incipit è spiazzante. «Dare alle cose il nome giusto è importante. Molti confondono gli amori infelici con le dipendenze affettive. Io volevo che chi ha attraversato quello che ho vissuto io si riconoscesse: non è infelicità, è malattia».

Perché proprio ora?

«Era una di quelle cose che macinavo dentro di me da tanto tempo, questa vicenda si è chiusa molti anni fa. Ne avevo già accennato nei miei libri, sia in quelli più sentimentali come Che ci importa del mondo sia in quelli più ironici come Dieci Piccoli Infami . Poi è successo che davanti a un caffè Daria Bignardi, con la quale ci passiamo il testimone nelle Mattine di Radio Capital, mi chiedesse perché fossi a Milano. Ero arrivata per amore, risposi, e poi ero rimasta per guarire da quell'amore. Guarire non è un verbo consueto, abbinato all'amore. Lei era stupita che potesse essere capitato a una come me. Ne riparlammo in tivù a L'assedio e per me è stata una liberazione. Lì ho provato il desiderio di condividere questa esperienza».

Leon, piccolissimo, l'ha vissuta con lei. La sua mano che stringe Godzilla è uno dei rari sprazzi luminosi di quegli anni neri.

«Il mio rimpianto più grande è di avere perso con mio figlio almeno tre anni, perché forse l'ultimo è stato un po' più di guarigione. Mi sono persa tre anni di maternità felice. Non che non abbia dato priorità a mio figlio: non ho mai pensato di lasciarlo al padre e di non prendermene cura. Ma non ho dato priorità alla sua felicità. Quando sei vittima di una dipendenza la priorità è avere la dose».

Ne avete più riparlato?

«Quando sono guarita ho cercato spasmodicamente di recuperare e ne ho fatto quasi il mio fidanzato, forse eccedendo nel senso opposto. Dopo abbiamo fatto tante cose belle insieme. E l'ho portato in Giappone a vedere dove è nato Godzilla, come mi aveva chiesto. Era molto piccolo e buona parte di quel passaggio della nostra vita l'ha dimenticato. Si ricorda alcuni episodi e il senso di infelicità. Però vuole sentire il podcast».

E il suo compagno, Lorenzo Biagiarelli, lo ha ascoltato?

«Sì, era molto scosso. Dopo averlo sentito ha pianto».

Non gli aveva raccontato nulla?

«Sì, stiamo insieme da quasi sei anni. Ma non avevo voluto investirlo con questa cosa: sei guarito quando non hai più bisogno di parlarne».

Le amiche sono impotenti.

«In queste vicende purtroppo hanno un ruolo disperato. Ti vedono governata da una cosa su cui non hai alcun controllo e non possono fare niente. Diventi inaffidabile, non fai nulla per salvarti e loro si stancano di soccorrerti perché capiscono che se non ti salvi da sola non ti salverà nessuno».

Nella sua storia non c'è vittimismo. Lei racconta di averla superata quando ha accettato il male che si è fatta e che si è lasciata fare.

«Ho avuto la mia parte di responsabilità, lui si è infilato in una serie di mie pieghe e lati irrisolti. È stato un incontro sfortunato e io ho amplificato in questa relazione tutte le mie problematiche».

Si è fatta aiutare da uno psicologo?

«Ho fatto molta psicoanalisi fai-da-te. Oggi non dico "meno male che è accaduto" perché il prezzo è stato altissimo. Ma se non avessi avuto uno choc emotivo così violento non avrei potuto vedere i miei limiti nella sfera sentimentale e non li avrei potuti risolvere».

Cosa consiglia a una donna che si riconoscerà nella sua testimonianza?

«Al contrario mio, di farsi aiutare. E non dall'amica che ti sgrida, ma da psicologhe che curano le dipendenze affettive».

Ha pensato che l'uomo di cui parla potrà ascoltare il podcast?

«Sì. Magari riterrà che sia la mia versione dei fatti. E forse lo è. Di queste storie non parla nessuno perché non sono drammatiche come i femminicidi. Ma sono pericolose. E bisogna salvarsi».

Dagospia il 12 marzo 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ma ancora con la Lucarelli? Fate capire: si è doluta che i giornalisti non compaiano tra le categorie anzitutte da vaccinare («siamo stati noi a raccontare… Siamo stati non utili: necessari») ma dimentica che lei nell’elenco dei giornalisti professionisti neppure compare: è una pubblicista, alias una delle 75.500 persone «per le quale il giornalismo non è la primaria occupazione e fonte di reddito». Nella sua spaventosa incompetenza dimostrata nello scrivere di Covid, poi, non consiglio di andare a controllare, e non lo consiglio neanche al mio peggior nemico. Riesce persino a lagnarsi, la nostra donna professionista (ecco, la professione meriterebbe un albo) perché il Foglio ha pubblicato una sua foto «scollata» o «scollacciata». Perché, ne esistono in cui non lo è? Compresa, forse, quella del passaporto. Filippo Facci

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 22 marzo 2021. Selvaggia Lucarelli senza dubbio non è una stupida, anche se le capita di dire e scrivere corbellerie, succede a tutti, pure a me. Ieri ho letto sul Corriere della Sera una intervista - una paginata - che le ha fatto Elvira Serra. Mi ha incuriosito il titolo: "I 4 anni di amore tossico che mi hanno tolto la dignità. Sono guarita e ora ne parlo". L' ho bevuta ma non sono sicuro di averne afferrato il senso. Mi ha meravigliato il fatto che una donna disinibita e addirittura sfrontata, con un nome aggressivo, Selvaggia, - nomen omen -, abbia potuto soffrire a livello patologico per motivi affettivi. In questo mio articolo non intendo essere critico nei confronti di una persona che a un certo punto della propria vita si è legata a un uomo in maniera tanto forte da descrivere in seguito il suo rapporto con lui alla stregua di una dipendenza. Capita a tutti di essere innamorati o di pensare di esserlo, ma so che spesso si confonde il desiderio con il sentimento più celebrato nelle canzonette. Quando si è così coinvolti e si perde il senso della misura, può accadere di vedere  lucciole e di scambiarle per lanterne. Su questo non si discute. Tuttavia farsi travolgere dalla "malattia" per quattro anni e considerarla addirittura una dipendenza, tipo quella dalla droga, mi risulta eccessivo e merita una chiosa. La gente normale dopo un paio di anni che frequenta un fidanzato o una fidanzata si annoia e brama di variare, sparire, liberarsi dal peso di una compagnia per forza di cose divenuta stucchevole. Per non parlare del sesso, il quale nel periodo iniziale di una relazione è decisivo, però è altrettanto vero che a lungo andare si trasforma in un esercizio obbligatorio e quindi tedioso, da evitarsi con cura. Mi stupisco che una signora sgamata come Selvaggia abbia patito quale alcolista tenace l' unione con un maschio probabilmente superficiale al pari di tutti i suoi simili. Insomma, cara Lucarelli, ammesso tu sia stata ammaliata da un qualunque pistola, ti consiglio di non narrarlo in giro poiché fai una figura di palta. Una femmina che si dà tante arie, verga pezzi che guastano la digestione, imperversa su emittenti nazionali, a un determinato momento non può confessare impunemente di essere stata fragile come una ginnasiale rincoglionita, dissipando un patrimonio non indifferente di credibilità. Non ci piove che tu sia antipatica come uno scarafaggio nelle mutande, tuttavia questo conta poco. Ti immaginavo ragazza solida e mi dispiace constatare che invece il tuo passato non differisce da quello di tante oche divoratrici di rotocalchi rosa. Se l' amore è un tormento significa che amore non è. Si tratta semmai di mania, qualcosa da combattere al suo manifestarsi.

Selvaggia Lucarelli insulta Il Foglio: "Siete dei miserabili". La ragione? Non la descrivono come vorrebbe lei. Libero Quotidiano il 12 marzo 2021. Accade che Selvaggia Lucarelli, tra il lusco e il brusco, chieda il vaccino per i giornalisti. Certo non lo fa direttamente, spiega di essere rammaricata per il fatto che gli stessi giornalisti si pongano in autonomia nella categoria di quelli che non dovrebbero avere subito il siero. "È già una categoria che gode di poca (pochissima) stima e spesso a ragione però forse bisognerebbe ricordare ogni tanto l’utilità di questo mestiere", scriveva su Twitter la sacerdotessa del giusto Selvaggia Lucarelli. E ancora, aggiungeva: "Non chiedo il vaccino però questa cosa che i giornalisti siano nella lista delle categorie non utili a detta degli stessi giornalisti mi dispiace. In questo anno di paura, siamo stati noi a raccontare alla gente cosa succedeva, a denunciare, siamo stati non utili. Necessari", rimarcava. Insomma, dato che la sacerdotessa del giusto fa la giornalista, come lei stessa rivendica, saprà benissimo che esiste una sintesi giornalistica, necessaria per i titoli, essenziale nel nostro mestiere, certo a volte opinabile ma non necessariamente meritevole di insulti. E Il Foglio, rilanciando la questione della Selvaggia-chiamante-vaccino su Instagram, la sintetizza così: "Come accanto alla farmacia c'è la parafarmacia, come oltre ai medici ci sono i paramedici, così il cerotto sull'informazione lo mette il paragiornalista. Ebbene sì, il paragiornalismo dilaga nei social dove Selvaggia Lucarelli non solo richiede per sé il vaccino ma stabilisce il pandemicamente corretto dalla sua finestra fotografando i passanti assembrati a favore di grandangolo", riferimento quest'ultimo all'ossessiva campagna denigratoria della Lucarelli contro chi, a suo insindacabile giudizio - lei che è sacerdotessa del giusto - non si comporta "bene" al tempo della pandemia. Ma tant'è, nella sintesi giornalistica del Foglio, Selvaggia chiede il vaccino per sé. E non fa una piega: dice che i giornalisti sono necessari, aggiunge che "in questo anno di paura siamo stati noi a raccontare alla gente cosa succedeva", e poiché sacerdotessa-Selvaggia è sempre stata in prima linea a raccontare la pandemia se ne evince che lei stessa sia meritevole di vaccino. Che insomma lo chieda anche per sé: è forse scorretto? Sia chiaro, sul fatto che lo chieda per sé non eccepiamo, per carità, ognuno fa quel che vuole. Eccepiamo però sulla reazione violenta, isterica, con cui la Lucarelli risponde al Foglio. La sacerdotessa del giusto apre il fuoco, ovviamente, sui social: "Il Foglio scrive che ho chiesto per me il vaccino, mentendo e deformando la realtà", premette. Ma trattasi solo di sintesi giornalistica, come spiegato fino a questo punto dell'articolo, e la giornalista-Lucarelli dovrebbe saperlo. Ma non è finita. Perché a stretto giro aggiunge: "Soprattutto, prende una foto di Ballando con le Stelle (la più scollata, badate bene) e cita solo quello, fingendo che non lavori per due testate e una radio. Il giornalismo, spiegato bene". Il riferimento è alla foto scelta dal Foglio per rilanciare su Instagram la vicenda. Dunque Selvaggia si vergogna di Ballando? Oppure ritiene inconciliabile il look sfoggiato da Milly Carlucci con il suo status da giornalista? Ma che cortocircuito è? Che problema c'è, se viene citato solo Ballando? E soprattutto la foto scollata perché sarebbe "il giornalismo, spiegato bene"? La foto giusta la sceglie lei? La buttiamo sul sessismo perché le critiche sono sgradite e per scatenare un'ondata di sdegno? Ma non è finita, perché poi Selvaggia passa all'insulto: "E il capolavoro di mistificazione (e svalutazione ovviamente ai danni di una collega donne) è di Salvatore Merlo, vicedirettore del Foglio, siete dei miserabili". "Ovviamente" cosa? E svalutata perché? Perché nel lancio sui social hanno riportato quanto detto dalla sacerdotessa del giusto senza ricordare che scrive per Tpi e per Il Fatto? Questo sarebbe da miserabili? La Lucarelli conclude il suo sfogo composto con un terzo tweet: "Sarebbe interessante vedere cosa succederebbe se un qualsiasi giornale prendesse la foto scollacciata di una delle giornaliste molto protette dai colleghi, fingesse di ignorare che fa la giornalista, le attribuisse una frase falsa e le desse della cretina. Verrebbe giù il governo". Convinta lei...

·        Sergio Rizzo.

Da tpi.it l'11 novembre 2021. Sergio Rizzo fino a trenta giorni fa vicedirettore (ad personam) di Repubblica, da novembre 'costretto' alla cassa integrazione con una comunicazione via mail.

Sergio, dopo “La Casta”, sei uno dei giornalisti che più ha scritto di pensioni in Italia.

(Sorriso amaro). «Vedi? E tuttavia mi sono trovato, con 53 colleghi, anche io costretto a lasciare Repubblica». 

Perché dici «costretto»?

«Se il 29 settembre ti arriva una mail dove c’è scritto “Caro Sergio, da novembre sei in cassa integrazione a mille euro”, ti resta poca scelta».

Ma come: solo una mail?

«Proprio così. Mi si diceva che avevo i requisiti anagrafici per il prepensionamento. Cassintegrato per l’età». 

Ti hanno messo con le spalle al muro?

«Io, come gli altri 53. Un'azienda in crisi ha il diritto di cercare tutte le soluzioni possibili, anche se sui prepensionamenti a carico dello Stato ci sarebbe molto da dire. Ma c’è modo e modo». 

Cioè?

«Un giornale non è una fabbrica di auto. Nel mio caso non era nemmeno legittimo: qualcosa non torna».

Cosa?

«Sono giornalista da 43 anni, avevo già da tempo i requisiti per la pensione. Se la cassa integrazione è legata ai prepensionamenti, perché applicarla a chi, come me, non è prepensionabile?». 

Vai in pensione senza scivolo?

«Zero. C’è una bella differenza con il prepensionamento». 

L'hai fatto presente al giornale?

«Ho chiesto spiegazioni scrivendo la lettera di dimissioni. Mi è stato risposto che tutti i 54, se non accettavano di andarsene, se ne stavano in cassa integrazione un anno. Che io non fossi prepensionabile non gli importava...». 

Ma eri un vicedirettore del giornale!

«Si, ma nessuno mi ha consultato: era un aut aut: prendere o lasciare». 

Cosa ci insegna questa vicenda?

«Non riguarda solo noi. Come dice Federico Rampini, è una ennesima testimonianza: di un sistema folle e iniquo». 

Torniamo alla vicenda di Repubblica. Tu dici provocatoriamente una frase...

«Questa: “La libertà del giornalismo coincide con la democrazia”».

È una iperbole?

«No, una constatazione. I grandi giornali americani nascono con la guerra di indipendenza. Corriere, Messaggero e Il Carlino con l’unità d’Italia. Il Mondo è l'Italia liberale. L’Espresso e Repubblica sono i figli della Costituzione». 

Quindi, per te, la vicenda dei 54 non è una disputa aziendale.

«Nooo!: Vorrei dire agli Elkann: “Se volevate smontare un giornale potevate comprarne un altro. Era meno fatica". I giornali che hanno fatto la storia sono dei loro lettori, non di chi acquista un pacchetto azionario». 

Addirittura.

«La Repubblica è un pezzo di identità italiana. Scalfari la fonda nel 1976 per rappresentare non solo la sinistra progressista, ma anche la coscienza critica del Paese. Se la snaturi la uccidi». 

Spiega meglio.

«Se per ragioni anagrafiche tu amputi un giornale come questo, non azzeri solo la memoria ma un patrimonio di conoscenze non più trasmettibili.»

Dicono: «Ci sono le scuole».

«Maddai! Studio e istruzione sono fondamentali, ma il giornalismo non si impara a scuola. Quasi tutto quel che so, dalle interviste non genuflesse alle inchieste, l’ho imparato da chi l'aveva già fatto. Non c’è altro mestiere dove le navi scuola sono così importanti. È gravissimo che questo sia del tutto ignorato. Come fossimo una cassetta di melanzane marce». 

Lo hai detto a Molinari?

«Non ho avuto il piacere. Mi è arrivata solo la mail. Nemmeno una telefonata». 

Non ci credo. Sei arrabbiato?

«Per nulla. Deluso sì. Mi avesse chiamato per dirmi “Sergio, mi spiace, l'azienda è in crisi. Visto che puoi andare in pensione, lo fai?” sarebbe bastato. Invece c’è stato un epilogo grottesco». Quale?

«Il giorno successivo a quella mail il direttore ci convoca in uno stanzone». E cosa dice?

«“Questo è il momento di far vivere lo spirito di corpo della famiglia di Repubblica. Di restare uniti. Non perderci. Sto studiando una iniziativa perché possiate continuare tutti ad avere un ruolo”». 

E tu?

«Resto di sasso. Come tutti». 

E poi?

«Si alza Lavinia Rivara, professionista coi fiocchi, colonna del politico, e dice ciò che tutti pensano: “Ma come? Collaborare è vietato ai prepensionati”». 

Mamma mia. E che succede?

«Il gelo. Nessuno ha avuto il coraggio di fare una piega».

E tu?

«Mi è sembrata una situazione assurda e me ne sono andato».

Hai un rimprovero da farti?

«Sì. C'erano segnali già da un pezzo che lo spirito di Repubblica stava svanendo. Cacciarono Mario Calabresi, una mattina, in un modo brutale». 

E lui?

«Un signore. Continua a lavorare venti giorni. La sua ultima sera ero di turno. Chiude con me a mezzanotte, con la stessa cura della prima. Il giorno dopo fa colazione con Carlo Verdelli e poi vengono in riunione: lo presenta, con affetto. Questo è lo stile Repubblica».

E poi?

«Il giornale viene venduto ai proprietari di oggi: improvvisamente viene cacciato anche Verdelli. Mentre è sotto minaccia. Se possibile, con più brutalità». 

Pare incredibile che Molinari non ti abbia fatto nemmeno una telefonata.

 «Non lo so perché. Francamente non m’importa». 

Cosa intendi?

«Sai che in ogni quotidiano le scrivanie sono la carta di identità dei giornalisti». 

Certo.

«Dietro a Verdelli c'erano decine di palle di vetro con neve: ogni volta che il figlio viaggia gliele regala una. Cartoline d'amore padre-figlio. Uno spettacolo vederlo che le sistemava soddisfatto». 

E la scrivania di Molinari?

«Dietro ha tante sue foto con i grandi del mondo». 

Meno romantico di Carlo, più egotico.

«Sì. Trasmette un sentimento di malinconia. Come certe pizzerie in cui c’è di tutto, le foto da Bombolo a Harrison Ford. Poi magari scopri che metà di quei vip non hanno mai messo piede nel locale. Ecco, non ho nulla contro Molinari» 

Però?

«Se ti metti la foto con Obama dietro, ma poi non hai coraggio di guardare negli occhi chi mandi via, fai tenerezza».

·        Sigfrido Ranucci.

Ranucci ha dichiarato di aver presentato denuncia. “Molestie sessuali e mobbing a Report, la Procura faccia chiarezza”, parla Michele Anzaldi. Riccardo Annibali su Il Riformista il 30 Novembre 2021. Sul caso del dossier anonimo inviato a luglio alla commissione di Vigilanza contenente accuse di presunti abusi sessuali, mobbing e servizi preconcetti, il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, ha dichiarato in prima serata su Rai3 di aver presentato denuncia alla Procura della Repubblica di Roma ben 4 mesi fa.

Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, quali sono i punti su cui è necessario fare chiarezza?

Come è possibile che dopo un tempo così lungo non si sappia ancora nulla sui contenuti e sull’origine di quel dossier? Come è possibile che la Procura non abbia fatto nulla? Oppure se, come è auspicabile, ha effettuato le dovute verifiche, perché non diffonde oggi subito un comunicato per dire cosa hanno appurato le indagini? Dopo che il caso è stato portato a conoscenza di milioni di italiani in prima serata sul servizio pubblico, è davvero doveroso e irrimandabile che venga fatta piena chiarezza, innanzitutto a tutela di una trasmissione come Report, che negli anni ha rappresentato il fiore all’occhiello dell’informazione pubblica italiana, ma anche a tutela delle stesse donne nominate nel dossier e della redazione intera. Ranucci è sotto scorta per aver subito pesantissime minacce di morte: se c’è un dossier che lo riguarda è doppiamente doveroso fare chiarezza, perché se si trattasse di un fake aprirebbe scenari non meno inquietanti del gravissimo scenario che vedesse quelle accuse confermate.

Il tema in questione è all’ordine del giorno e sempre più sentito, la convincono gli addebiti del dossier?

Parliamo di un caso, come quello di presunti abusi sessuali nei confronti delle donne, che dovrebbe avere massima precedenza proprio per la delicatezza di tali addebiti, che nel caso del dossier in questione appaiono circostanziati sebbene personalmente non mi abbiano convinto, tanto che da luglio non ho dato seguito pur essendo stato tra i destinatari dell’invio.

Il primo a chiedere chiarezza è stato lo stesso Ranucci in diretta tv, che aspettano i magistrati a chiarire?

Anche la Rai ha il dovere di fare la sua parte, sebbene in questi giorni sia apparsa, almeno pubblicamente, poco reattiva: avviare subito un’indagine dell’Audit interno, sentendo le persone coinvolte e verificando la fondatezza dello scenario contenuto in quella denuncia che sembrerebbe apparentemente avere le caratteristiche di un caso di whistleblowing. L’ad Fuortes si è impegnato ufficialmente in Vigilanza ad effettuare le dovute verifiche: passata una settimana dall’audizione, che verifiche sono state avviate? Riccardo Annibali

"In passato ha già provato a uccidere un avvocato: vivo per miracolo". Sigfrido Ranucci sotto scorta: “Un boss della ‘ndrangheta ha assoldato due killer per ammazzarmi”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. “Da metà agosto sono sotto scorta 24 ore su 24. C’è un buontempone che dal carcere avrebbe incaricato due killer stranieri. Sarebbe un personaggio che gestisce il narcotraffico, legato a famiglie di ‘ndrangheta“. E’ quanto rivela a ‘Un giorno da pecora‘ su Rai Radio1 il conduttore e giornalista di Report nonché vicedirettore di Rai 3, Sigfrido Ranucci. Interpellato al telefono dall’Ansa, alla domanda che significa un buontempone?, Ranucci chiarisce: “Era un paradosso, è un uomo molto pericoloso al comando di una piazza del narcotraffico, negli anni passati ha avuto anche legami con il cartello di Pablo Escobar, con la destra eversiva, e non solo. Le indagini sono partite a luglio e a metà agosto quando è stato tramite indagini accertato dagli investigatori che aveva dato l’ordine a due killer stranieri, forse due albanesi, di colpirmi, hanno deciso di intensificare la scorta – , dal 2009 sono sotto tutela. La mia abitazione è già attenzionata, ora è sorvegliata anche di notte”. Ranucci poi spiega di aver parlato del boss in questione “in trasmissione in più di un’occasione”. Il malavitoso in questione “pare una volta abbia ordinato di colpire un avvocato, si è salvato per miracolo per la fuoriuscita di un proiettile, che non ha toccato organi vitali“. In una puntata di Report del 4 gennaio scorso, il pregiudicato Francesco Pennino aveva rivelato che Ranucci era stato bersaglio di minacce già nel 2010 da ambienti vicini al boss Beppe Madonia, dopo la pubblicazione del libro Il Patto, scritto con Nicola Biondo sulla presunta trattativa Stato-mafia.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

·        Tiziana Rosati.

Antonio Rossitto per “La Verità” il 29 agosto 2021. Per cogliere la natura selvaggia dell'essere umano, basta partecipare a una riunione condominiale: pretese lunari, duelli rusticani, urla belluine. Il cagnolino del secondo piano non smette di abbaiare. Il signore del settimo ruba il parcheggio alle vecchine. I giovanotti del quarto danno festicciole più rumorose di quelle organizzate da Alberto Genovese. Spesso finisce male. Altre, malissimo. A Tiziana Rosati, ex giornalista del Tg5 celebre per aver esibito in diretta capelli blu, è andata ancora peggio: l'hanno messa ai domiciliari con l'accusa di essere l'autrice di un raid incendiario, a orario antidiluviano, contro un'inquilina di 73 anni, non a caso consigliera di condominio. Blitz scattato poco dopo le sei del mattino, in via Friuli, a Milano. Prima la cronista in pensione dà fuoco a una finestra della rivale, al piano terra, armata di liquido infiammabile e accendigas. Poi arde l'auto dell'anziana, parcheggiata in cortile, danneggiando anche un'altra automobile. Le fiamme si alzano. Anneriscono la facciata. Lambiscono pericolosamente un tubo del gas. Insomma, se non fossero arrivati alla svelta i vigili del fuoco, le conseguenze potevano essere disastrose. Quando i carabinieri accorrono in via Friuli, la giornalista nega. Ma poi, di fronte al militare che indica il suo polpaccio bruciacchiato, deve ammettere. Anche perché le telecamere di videosorveglianza immortalano una persona che indossa un giubbetto uguale a quello dell'improvvisata piromane. Per non parlare dell'inequivocabile armamentario trovato nel box e in casa di Rosati: tanica di cherosene, scatola di cubetti accendifuoco da grigliatore della domenica, farmaci e garze per ustioni. A quel punto, emerge pure il movente. Quello che fa periodicamente accapigliare l'italiano medio: la lite condominiale. Reduce da un'infuocata assemblea, che autorizzava a maggioranza lavori all'interno del palazzo, la donna decide di vendicarsi contro colei che reputa l'artefice delle intollerabili spese: l'arcigna consigliera. E nella brughiera dell'alba, decide in autonomia l'arma del duello: la Diavolina. Non è la prima volta che l'ex giornalista del Tg5 guadagna, suo malgrado, il warholiano quarto d'ora di celebrità. Torniamo dunque all'autunno 1998. Va di moda il blu elettrico. Le più audaci esibiscono chiome color Puffo. Rosati è una stimata relatrice economica del notiziario, allora diretto da Enrico Mentana. Va in onda alle 8 del mattino e poi nell'edizione delle 13, per informare sull'andamento della borsa. Anche quel disgraziato giorno è impeccabile: prima indossa un abito grigio, poi una rigorosa giacca dello stesso colore. Mise intonatissime alla sua nuova nuance tricologica: blu elettrico, appunto. La sfumatura non sfugge al rigoroso Mentana, noto per le intemerate in diretta contro i malcapitati colleghi. Chiama la giornalista, lagnandosi dell'inopportuna tinta. Lei, diligente, gli assicura che avrebbe ripristinato quanto prima la tonalità naturale della chioma. Quella volta, però, il diabolico Enrico elabora un piano più sottile. Poco dopo le 20, nel seguitissimo tg della sera, parte un servizio sulle mattane dei giornalisti. Ricorda lo spogliarello di una reporter inglese e le esuberanze del grande inviato Everardo Dalla Noce, fino a stigmatizzare la capigliatura oltremare della collega: «La nostra Tiziana Rosati». La conclusione è perfida: «Guardatela adesso perché così non la vedrete mai più, altrimenti dovrete chiamare un antennista o un buon oculista». Anche Striscia la notizia infierisce: «Dopo una bella lavata di capo andrà tutto a posto» ironizza il conduttore, Ezio Greggio. Maschilisti, retrogradi e bacchettoni. S' accende il dibattito. Santa miseria, una sarà pure libera di mostrarsi ai suoi fedeli telespettatori come meglio crede. Difatti lei, paladina delle estrose d'Italia, replica furiosa a Mentana, accusato di averla messa alla gogna: «La sua è stata una reazione fuori luogo. Attaccare in diretta una sua dipendente È pazzesco. Certo, domani andrò a lavorare con la stessa tintura, e probabilmente non mi faranno andare in video». Inaudito. «Sto pensando a come muovermi, consulterò qualcuno». Ovvio: la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo rischia di trasformarsi in coriandoli. Tiziana aggiunge: «Mentana si stupisce del blu, però sta zitto quando la mattina presto vado in video struccata e magari con una pettinatura non esattamente perfetta, perché nessuno ci mette a disposizione un parrucchiere». Insinua: «Se mi fossi tolta la camicetta, forse Mentana sarebbe stato più contento». Da quel momento, si dedica a una sacrosanta battaglia per la libertà di chioma. Sparisce dal video. Riappare a marzo 2000, ma è un lampo. Torna nelle retrovie. Va in pensione. Comincia a dedicarsi, con la solita passione, alle beghe condominiali. S' accalora come una volta. Prima infiamma gli animi. Poi la finestra e l'auto di una zelante vicina. Questa volta, pare, sfoggiando un impeccabile caschetto castano.

·        Toni Capuozzo.

"Una minaccia la divisa? No, peggio i politici in giacca e cravatta". Claudio Rinaldi 15 Aprile 2021 su Il Giornale. Intervista al giornalista Toni Capuozzo: "Il Pd ha un pregiudizio nei confronti delle partite iva. Speranza è figlio della cultura del posto fisso". “Se c’è una minaccia oggi in Italia, viene più dalla politica, da chi è in giacca e cravatta, non certo dai militari in uniforme”. Toni Capuozzo è un giornalista che si è sempre tenuto lontano dai palazzi romani. Alla Buvette di Montecitorio ha preferito le montagne dell’Afghanistan o le lunghe strade dell’Iraq. Estraneo al politicamente corretto ha raccontato i fatti senza pregiudizi, quelli che invece il mainstream italiano mostra spesso di avere. Ne è un esempio la polemica sulla divisa del generale Figliuolo (o uniforme, come sarebbe più corretto chiamarla secondo Rita Dalla Chiesa). Discussione nata dopo le parole di Michela Murgia, la scrittrice a cui spaventa avere un commissario che gira, appunto, con la divisa.

Che cosa ne pensa?

“Si è dato anche troppo peso a questo polemica. In ogni caso le parole della Murgia mi sembrano derivino da una cultura di basso conio per cui i militari sono sempre golpisti, tutti dei Pinochet”.

E invece non è così?

“Pensare che dove c'è un militare, ci sia una minaccia per la democrazia ovviamente non ha alcun senso. In Portogallo fu proprio l’esercito a porre fine alla dittatura e a inaugurare un nuovo corso democratico. Ma per me l’insulto più grave all’uniforme è quello che hanno ricevuto i due marò”.

A cosa si riferisce?

“L’Italia ha deciso di risarcire con più di un milione di euro le famiglie dei due pescatori indiani. È una notizia difficile da digerire ed è un’offesa al buonsenso. È come se Totò avesse venduto la Fontana di Trevi…”.

Hanno voluto chiudere una faccenda spinosa?

“Sì, certo. Ma è assurdo che i primi a non credere alla loro innocenza siano stati proprio gli italiani. Perché il risarcimento di fatto significa questo”.

È un’ammissione di colpevolezza?

“È come dire: non avete fatto bene il vostro lavoro, avete scambiato due pescatori per due pirati armati e dunque è giusto che l’Italia ora paghi il risarcimento. È un’accusa troppo pesante e infamante nei confronti di due uomini che hanno sempre mostrato grande dignità nei confronti del proprio Paese. Per non parlare poi del disinteresse che la politica ha avuto nei confronti di Latorre e Girone in questi anni. Se fossi in loro sarei deluso e amareggiato…”.

Un po’ come sono delusi e amareggiati anche tanti lavoratori autonomi che in questi giorni stanno protestando nelle piazze…

“È in atto uno scontro sociale tra chi può sopportare le chiusure come insegnanti, dipendenti pubblici, percettori del reddito di cittadinanza e chi invece non sa più come arrivare a fine mese”.

È una lotta tra garantiti e non garantiti?

“Io ormai sono pensionato. Lavoro solo per passione. Ecco, mi pesa non poter fare quello che facevo prima, ma non mi cambia di certo la vita. Chi invece vive di turismo o di ristorazione e ha finito i soldi che aveva da parte, non può far altro che manifestare”.

La violenza però non è mai la scelta giusta…

“La violenza non serve. Ma se avessi 30 anni e fossi il proprietario di un bar o chiringuito in città o sulla spiaggia, oggi sarei pazzo di rabbia. Altro che proteste pacifiche… mi sembrano persino troppo poco. Ma d’altronde certe cose la sinistra fa fatica a capirle”.

In che senso?

“I 5 Stelle sono quelli del reddito di cittadinanza e sono composti per lo più da gente che non ha mai lavorato”.

E il Pd?

“Il Pd ha sempre alimentato la cultura del sospetto nei confronti delle partite iva. Zingaretti, una volta, ha parlato addirittura di ‘lavoretti’. Evidentemente per lui avere una pizzeria è un po’ come fare il parcheggiatore abusivo. Per non parlare poi del ministro della Salute…”.

Speranza…

“Secondo me, Speranza la gazzetta dei concorsi ce l’ha scritta sulla fronte. Appartiene in pieno a quella cultura del posto fisso. Non sa forse che esistono anche i commercianti, i ristoratori, i lavoratori autonomi, quelli che creano molti posti di lavoro. E poi sa qual è il punto?”.

Qual è?

“Chiudere è molto semplice e non costa nulla. Ti dà un potere enorme, è come avere lo scettro del re. Mentre per aprire devi attuare un piano vaccinale veloce ed efficiente. Proprio quello che noi non abbiamo fatto”.

Di chi è la colpa?

“Sicuramente del governo precedente. Conte è stato peggio che mediocre”.

Addirittura?

“Ha capito che il Covid poteva essere un’opportunità da un punto di vista politico e l’ha sfruttato per crescere nei consensi. Ma non è stato in grado di gestire la pandemia. Ha svuotato l’attività parlamentare con l'arma dei dpcm; ha dato la colpa dei contagi ai cittadini senza però preoccuparsi di migliorare i trasporti…”.

E poi?

“Avrebbe dovuto creare un tavolo permanente con le opposizioni e invece ha alzato un muro. Io ricordo che in occasione del terremoto in Friuli nel ’76, maggioranza e opposizione si unirono, sospesero le guerre… ecco, perché non si è comportato così?”.

Ora però c’è Draghi e un governo di larghe intese…

“Draghi credo sia la persona giusta in questo momento, ma il mio è solo un auspicio. Di solito la politica ha sempre avuto uno sguardo corto. Ci vorrebbe un’impronta duratura, ma non sarà semplice perché l’Italia è fatta da corporazioni che portano avanti i propri interessi. Veda cosa è accaduto con i vaccini…”.

Che cosa ne pensa dei furbetti?

“Da un lato mi preoccupano. Ogni volta che leggo la conta dei morti, penso che se si fossero vaccinati magari si sarebbero potuti salvare. Ma la storia dei furbetti mi diverte anche molto. Si sono sentiti più intelligenti e poi si sono beccati AstraZeneca, facendo anche da spalla involontaria alla ricerca scientifica. Il furbetto è un elemento molto italiano: è il sorpasso di chi pensa di avere una marcia in più… del giornalista famoso o del fidanzato della Boschi”.

Ma tutti i problemi che sta avendo AstraZeneca sono legati solo alla scienza o c’è anche qualcos’altro?

“Io non sono un dietrologo. Ma mi pare evidente che nella questione vaccini entrino interessi geopolitici. Prendiamo il caso dello Sputnik: dovremmo tutti avere il diritto di sapere se ci sono delle ombre oppure no. L’Ema dovrebbe dare una risposta in 24 ore”.

E invece…

“Invece l’Europa si è dimostrata inadatta, paga una burocrazia macchinosa. Basta vedere come stanno andando le cose altrove…”

Parla, per esempio, di Israele?

“Certo. Noi abbiamo cercato di risparmiare sulle dosi, mentre loro le hanno pagate di più e adesso possono tornare a una vita normale. Non è un caso poi che gli unici due paesi - mi riferisco a Serbia e Regno Unito - che nel continente stanno avendo successo con le vaccinazioni non facciano parte dell’Unione Europea”.

Si tratta di un autogol?

“Hanno dato ragione a chi non ha mai creduto all’Unione Europea. Mi chiedo perché i vari Stati non siano riusciti a unire le forze per produrre un vaccino autonomo. Sta iniziando una sua produzione persino l’Iran…”.

Hanno ragione dunque i sovranisti?

“Mah, in italia abbiamo un pregiudizio nei confronti del sovranismo. Lo consideriamo un insulto, una piaga. Ce ne vergogniamo. Ma non mi risulta che la Germania o la Francia abbiano rinunciato a pezzi di sovranità. Prenda il caso dei flussi migratori…”.

Quindi per lei il sovranismo è ormai un’etichetta?

“Esatto, un’etichetta che viene però appiccicata solo ad alcuni. Un po’ come il populismo… i 5 Stelle erano da tutti considerati tali, poi si sono alleati col Pd e improvvisamente si sono ripuliti. Ma poi che cos’è il populismo?”.

Che cos’è per lei?

“Tutto può essere populismo. Sul terreno dell’immigrazione anche l’idea di un’accoglienza diffusa senza limiti, che non badi alla sostenibilità, è populismo. Non è populista solo Salvini… magari lui lo è a volte, ma di sicuro non è l’unico”.

Chi altro lo è?

“Mah, per esempio Conte. Scusi, le conferenze stampa all’ora del tg non sono esibizioni populiste? Magari un po’ più moderate, ma la sostanza non cambia”.

·        Valentina Caruso.

Da rumors.it il 18 luglio 2021. Di giornaliste sportive belle e preparate ce ne sono tante. Le donne non sono più, e giustamente, relegate a mere presenze mute chiamate, al limite, a enunciare i risultati della schedina come è stato fino al recente passato. Ora intervengono nei programmi che si occupano di calcio intervistando i protagonisti e discettando di schemi tattici e strategie. Tra queste spicca Valentina Caruso che oltre alla competenza tecnica può vantare anche una certa pratica, è proprio il caso di dirlo, sul campo. Valentina ha praticato lo sport più bello del mondo fin da giovanissima, e non, badate bene, in un semplice cortile, come più o meno chiunque di noi ha fatto da piccolo. La Caruso si è tesserata in una squadra che successivamente ha raggiunta la serie D e per giunta composta da maschi, come lei stessa ricorda: “Ho giocato nel Flumini Quartu, in quel periodo non c’erano squadre femminili, ed essendo i settori giovanili misti, ho giocato solo con maschietti. C’era una squadra femminile, ma erano tutte ragazze più grandi, dai 20 in su, ed io avevo 10/12 anni”. In ogni caso nessun problema: non c’erano discriminazioni, né da parte dei compagni di gioco, né da parte degli allenatori ed è una sorpresa considerando che ancora oggi, nel 2021, si sentono brutte storie di sessismo. Valentina, invece, è sempre stata libera di giocare senza per questo scalfire minimamente la sua femminilità che esprime nei tratti e nell’eleganza, mentre la tempra è quella di un “maschiaccio”.  “A quell’età ero un maschiaccio, giocavo a calcio o con le macchinine telecomandate. Le bambole le buttavo, ci rimanevo anche male quando me le regalavano, perché mi divertivo di più con giochi che poi alla fine erano da maschietti – ha dichiarato Valentina – Magari altre mamme storcevano il naso, nel vedere una bambina giocare a calcio in mezzo ai maschi, ma i miei genitori mi hanno sempre lasciato fare, erano contenti, e hanno fatto bene perché poi quella passione è diventata anche una professione per me”. Non solo tanto sport, ma anche un retroterra culturale saldo e consapevole. Valentina è laureata in Lettere con indirizzo in Archeologia: è una laurea specialistica che non si sceglie a caso, ma per una vera passione che nella sua terra riesce ad esprimere al meglio. La Sardegna, infatti, ha un patrimonio archeologico vastissimo e grazie a lei anche noi di Rumors abbiamo potuto scoprire le bellezze di Cagliari sotterranea con cripte, catacombe e addirittura un laghetto naturale. Una passione quella dell’antichità che da adolescente le ha fatto scaturire un altro grande suo interesse: “Per quanto riguarda la recitazione, nasce tutto dalla passione per l’antichità. Quando ero ragazzina a scuola, avevo una professoressa molto sensibile al teatro greco, oltre che romano; da lì ho iniziato ad appassionarmi, e ho pensato di fare teatro”. Per questa giovane donna, ricca di interessi, è iniziato tutto nella sua amata terra d’origine: la Sardegna. Dalle gloriose realtà locali come Videolina e Tele Costa Smeralda è volata verso Quelli che il calcio di Simona Ventura e l’universo di Sky Sport. Per il futuro ci sono tanti impegni lavorativi con Sky e con Radiolina più altre occasioni che si tacciono per scaramanzia, ma che siamo sicuri si realizzeranno. Una carriera la sua che affonda le radici nella Provincia, fucina di veri e propri talenti, che, secondo la Caruso “dà la volontà, per quanto mi riguarda, di impegnarsi in qualcosa, raggiungere un obiettivo e farlo veramente con professionalità e serietà. Io mi sono sempre mossa in questi settori, non mi sono mai avvalsa di una protezione da parte di qualcuno, di una raccomandazione. Non ho mai chiesto aiuto a nessuno, ho fatto tutto con i miei unici sforzi e sacrifici”. Il discorso è chiaro, anche se c’è qualcuno sui social che prova, disperatamente è proprio il caso di dirlo, di adombrare la sua professionalità con riferimenti sessisti, ma trova sempre una risposta netta e sicura attraverso le sue parole decise e soprattutto il suo operato.

·        Veronica Gentili.

Veronica Gentili, "ecco perché oggi lavoro nella tv di Berlusconi": dopo le critiche, un drastico cambio di scenario. Francesca D'Angelo su Libero Quotidiano il 30 agosto 2021. Il pubblico la segue. E lei, Veronica Gentili, tira dritto: non si cura delle critiche (o, almeno, non di quelle gratuite...) e lascia che a parlare siano i risultati del suo lavoro, come i buoni ascolti di Controcorrente. Quella che si è appena conclusa è infatti la sua estate: Gentili si è imposta sul campo come volto di punta di Mediaset guadagnandosi un altro programma autunnale, tutto suo, dal titolo Buoni o cattivi.

Veronica Gentili, diciamo la verità: è lei il format.

«Non sarei proprio così netta (ride, ndr) anche se il talk show è effettivamente un genere che dipende dalla sensibilità del conduttore, dal clima che si riesce a creare in studio e, non ultimo, dal lavoro di preparazione che si fa a monte con gli autori. I temi infatti sono imposti dalla attualità: a cambiare sono l'angolazione scelta, l'aspetto che si decide di evidenziare, la chiave di lettura offerta...».

A Controcorrente gli ospiti non si parlano quasi mai addosso: come ci è riuscita?

«Se la temperatura del dibattito sale fa piacere a tutti, è inutile negarlo: il discorso ha più presa anche sul pubblico a casa. Tuttavia è fondamentale non farsi prendere dall'idea che quello che sta accadendo funziona. Se ci si parla addosso il discorso non è più intellegibile e questo non va bene. La mia prima priorità è farmi capire dal pubblico a casa».

Per questo, dopo gli esperimenti linguistici della prima puntata, avete optato per una formula più basica?

«Sì. I temi d'attualità erano già molto complessi. Abbiamo preferito semplificare mettendo al centro il dibattito».

Si dice che lei sia una stacanovista. E una tipa bella tosta.

«Il sistema mediatico è un tritacarne che può schiacciarti da un momento all'altro: devi per forza essere strutturata per sopravvivere».

La Fagnani l'ha già contattata per partecipare a Belve?

«Non ancora ma sono a disposizione! (ride, ndr) La definizione di belva ci sta tutta».

Con Controcorrente è arrivata la notorietà, ma anche le critiche: Aldo Grasso, Dagospia... Perchè il suo successo dà così fastidio?

«Ogni volta che qualcuno emerge in modo relativamente veloce (Gentili conduce da tre anni a questa parte, ndr) l'attenzione mediatica è maggiore. Fa parte del gioco, come le critiche: ci sarà sempre qualcuno che parlerà male dite, o è provocatorio o insinuante. Io rispondo sempre in un modo solo: con il lavoro. Anche se, onestamente, non ho ancora capito quale sia la critica che mi viene mossa nel merito: finora le osservazioni avanzate non attengono mai al mio lavoro di giornalista».

Passiamole in rassegna. Prima critica: che ci fa un'ex detrattrice di Berlusconi su Mediaset?

«Ho sostenuto determinate idee in un preciso momento storico e alla luce di quel contesto specifico. Non le rinnego proprio perché appartengono a quel passato. Semplicemente, oggi il mondo è cambiato, lo scenario politico è radicalmente mutato, il mio stesso ruolo è differente, ergo se continuassi a pensarla come prima sarei surreale». 

"Non si potrebbe dire, ma...". Veronica Gentili? La voce maliziosa che filtra da Mediaset: ecco perché è sempre in tv

Di lei Aldo Grasso ha scritto: «Non si può dire, ma si dice, che una bella presenza è meglio di niente». Possibile che ci si debba sempre giustificare per il fatto di essere belle?

«Ormai noi donne abbiamo finito le parole! Tra l'altro di solito questo genere di critiche vengono mosse a inizio carriera, quando non si sa bene cosa dire su una persona: è paradossale che si continui a farlo anche adesso. Per emergere nel giornalismo serve studiare ed essere professionalmente inappuntabile. Punto. Detto questo, non credo che mortificare l'estetica sia una forma di espiazione necessaria per svolgere il mio mestiere. Sarebbe come negare se stesse: la fisicità fa parte di noi».

C'è chi la definisce la Diletta Leotta dei talk show. Si riconosce in questa definizione o sperava in qualcosa di meglio?

«Più che altro non capisco il senso di tale accostamento. Ma va bene così: è un perfetto lancio pubblicitario, visto che Leotta sarà tra gli ospiti del mio nuovo programma Buoni o cattivi, in onda a settembre su Italia1!».

Di cosa si tratta?

«Sperimenteremo un nuovo format: in ogni puntata avremo una mia lunga intervista alternata a una serie di documentari, realizzati dal regista Roberto Burchielli. La parte talk serve ad aprire ulteriori scenari sul tema già sviscerato nei documentari. Nel caso di Diletta Leotta parleremo di violenza di genere, in primis rivolta alle donne».

Un tema attualissimo, soprattutto alla luce dei fatti di Kabul. Anche lei si sente ottimista come Conte sul futuro dell'Afghanistan?

«Non interfacciarsi con i talebani vorrebbe dire abbandonare la popolazione al suo destino, ma allo stesso tempo è complicato dialogare con un regime che vorrebbe essere moderato ma poi abolisce la musica per legge e nega i diritti delle donne... Di certo è stato molto ingenuo credere che, ritirando le truppe, non sarebbe successo nulla».

Sempre più persone nutrono poca fiducia nell'informazione: a torto o, in fondo, a ragione?

«L'informazione deve tornare a essere al servizio della notizia e del cittadino. Vuol dire che bisogna tornare a raccogliere in maniera certosina le informazioni per poi metterle insieme, senza pregiudizi. Solo a quel punto, ossia a quadro ricostruito, si può tentare una interpretazione. Altrimenti il racconto è falsato».

Mica facile in un mondo dove tutti si schierano...

«Se accade non è solo per la crescente polarizzazione delle idee ma perché le persone hanno bisogno di sentirsi rassicurate. Aderire a uno schieramento vuol dire avere una certezza. Purtroppo però alcuni fenomeni contemplano il non avere certezze e questo un giornalista deve accettarlo».  

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 18 agosto 2021. Dicono sia la regina dei retequattristi, contrassegno conquistato con la determinazione, qualità precipua degli stakanovisti («Si tratta di non mollare», dice Lady Gaga). Dicono che a Mediaset piace perché annuisce, dice «ora devo chiudere», ha imparato bene i tempi delle interruzioni pubblicitarie, sa dirigere il traffico delle opinioni. Dicono che una coloritura rosa tendenza rosso allarghi il cast dei retequattristi (quelli che non perdonano alla tv di aver ingannato le loro attese). Dicono, ma non si deve dire, che una bella presenza è sempre meglio che niente. Ma di sé, Veronica Gentili, promossa in prima serata alla conduzione di Controcorrente (Rete4), cosa dice? Basta andare sul sito del Fatto Quotidiano per scoprire la corrusca potenza dell'immaginazione: «Sono Veronica, sono romana, sono un'attrice. Mi sono diplomata all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico nel 2006 e da allora mi avventuro nella selva oscura di teatro, cinema e televisione, senza mai dimenticare un taccuino invisibile su cui annotare tutto ciò che meriti la mia attenzione. Ho scritto, diretto e recitato spettacoli teatrali nella convinzione che poche cose inducano il cervello a rilasciare endorfine come la creazione collettiva. Ho fatto della letteratura e della psicoanalisi i miei antidoti ad ogni male, terreno e non. Vivo nel mio tempo, ne sono sedotta e ne ho paura. Non credo alle interpretazioni degli eventi a compartimenti stagni, così come non credo che si possa raccontare il mondo senza prima lasciarsene permeare. Amo i collegamenti, i rimandi, le contaminazioni tra discipline. Sono convinta che l'arte abbia un andamento circolare. Intrisa di Occidente ed allopatia. Inquieta e pagliaccia. Coesistono in me Francesco Totti e Virginia Woolf. Tutto il resto è silenzio». «Il resto è silenzio» è l'ultima frase pronunciata da Amleto ed è una perfetta massima per una conduttrice di talk show.

Dal “Fatto quotidiano” il 19 agosto 2021. Ci sono vari modi per attaccare una persona pubblica, basta trovare gli argomenti giusti. Aldo Grasso ha deciso invece di impallinare Veronica Gentili in base a niente. Veronica è infatti ormai generalmente apprezzata, fa buoni ascolti, ma conserva una pecca: collabora con il Fatto Quotidiano e il suo blog, come tutti, ospita la sua mini-autobiografia molto personale, che Grasso utilizza per sbeffeggiarla. Perché si dimostra che non sa fare il suo lavoro? Perché si evince che è la peggio di tutte negli ascolti? No, a scandalizzarlo è la frase finale: "Tutto il resto è silenzio". "Come l'ultima frase pronunciata da Amleto", scrive Grasso, che è "una perfetta massima per una conduttrice di talk show". A pensar male, potremmo dedurne che per il critico tv del "Corriere" la Gentili farebbe meglio a stare zitta. A pensare ancora più male, diremmo che sul giornale di Urbano Cairo, proprietario di La7, la conduttrice Mediaset che tra luglio e agosto ha battuto In Onda di De Gregorio & Parenzo 34 volte su 43, non deve passarla liscia. Ma siamo sicuri che Cairo non c'entri e che Grasso faccia tutto da solo. Qualcosa in quella rubrica deve pur scrivere. Se proprio non vuole tacere.

Veronica Gentili, Vittorio Feltri picchia durissimo: "Come una zanzara tigre sullo scroto". Libero Quotidiano il 10 agosto 2021. No, Vittorio Feltri non nutre grande stima per Veronica Gentili, conduttrice Mediaset sulla cresta dell'onda. Già in passato, il direttore editoriale di Libero, in più occasioni ha cannoneggiato contro la giornalista. E ora, Veronica Gentili, come detto, impazza sui canali del Biscione: non solo Stasera Italia ma anche Controcorrente, nuovo format in prima serata del lunedì sera, sempre su Rete 4. E così, a pochi minuti dalla messa in onda dell'ultima puntata, quella di ieri, lunedì 9 agosto, ecco che Vittorio Feltri ha nuovamente preso la mira e aperto il fuoco contro Veronica Gentili. Lo ha fatto su Twitter, con un breve e corrosivo cinguettio. Il quale recita: "Veronica Gentili è simpatica come una zanzara tigre sullo scroto". Insomma, il direttore picchia durissimo. Ma tant'è. La Gentili pare essere molto stimata da Mediaset, tanto che secondo quanto rilanciato da Oggi si starebbe pensando ad una prima serata tutta per lei il prossimo autunno, mantenendo in palinsesto proprio il nuovissimo Controcorrente, certo non il lunedì sera che resterebbe occupato da Quarta Repubblica, il collaudato e seguito format condotto da Nicola Porro, sempre e rigorosamente su Rete 4.

Veronica Gentili: «Criticavo Berlusconi in modo duro ma nella vita si evolve. Ora sto a Mediaset». Aldo Garcon lunedì 2 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Veronica Gentili è uno dei volti di punta Mediaset. Su Rete 4 dopo Stasera Italia, con cui va in onda tutte le sere, eccola al timone di Controcorrente, talk-show in prime-time. Non solo. Da settembre, nel palinsesto invernale del Biscione, condurrà anche un nuovo programma su Italia 1, dal titolo Buoni o Cattivi.  Veronica Gentili intervistata dal Giornale, spiega: «Sarà una trasmissione di interviste e reportage. Un esperimento. Mi piace molto l’idea di andare a scavare nella storia delle persone». Nell’intervista le ricordano il suo passato di attrice. Un passato che aiuta? «Sì, certo», sottolinea. «Ma non solo: è importante anche la capacità di ascolto. È come se avessi le antenne sempre dritte, sto attenta alle parole degli altri. Il teatro e il cinema ti insegnano la padronanza fisica, il controllo della voce e delle emozioni, ti aiutano a crearti una corazza, a camuffare momenti di incertezza, a essere presente sul palco, pronto a interagire». Potrebbe tornare a fare l’attrice? «Mai dire mai. Ora mi piace tantissimo quello che faccio in cui si compongono tutte le Veroniche che sono…». Un altro passaggio dell’intervista riguarda il suo passato di anti-berlusconiana. Tanto che c’è chi si stupisce che, dopo le aspre critiche a Silvio Berlusconi, sia stata promossa a conduttrice sulle sue televisioni. «Sono polemiche strumentali. A cui mi sono abituata da tempo», risponde Veronica Gentili. Che poi puntualizza: «Le prime volte ci rimani male, poi ci si fa il callo. Sai che succedono perché hai visibilità. Quelle critiche a cui si fa riferimento erano politiche, e non personali, ed erano contestuali a un momento storico preciso e al ruolo che avevo di giovane blogger per il Fatto quotidiano. Poi nella vita si evolve, si fanno percorsi lavorativi diversi ma non per questo non si rimane fedeli alle proprie idee. E, comunque, se i vertici Mediaset mi hanno scelta e non si sono posti questi problemi, non vedo perché se li debbano porre altri». E perché la scelta è ricaduta su di lei? «Forse – risponde – anche per la mia visione della vita, per arricchire le proposte al pubblico. È avvenuto tutto in modo naturale. Mediaset è un’azienda molto più pragmatica di quanti si immagini: va avanti chi funziona. Avevo partecipato come opinionista ad alcune trasmissioni de La7 e poi di Rete 4: qui mi ha notata Mauro Crippa, direttore generale informazione Mediaset, che ha voluto provarmi in conduzione a Stasera Italia Weekend. E da lì è stato un crescendo».

"Ho cominciato col teatro e ora faccio informazione. Come? Controcorrente". Laura Rio il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. Dallo spettacolo al talk show, dal "Fatto" a Rete4 Ecco. il volto nuovo delle news di casa Mediaset. Di certo ha la battuta pronta. Anni di teatro e cinema, uniti alla formazione giornalistica, si possono esplicitare anche in un unico momento, quasi simbolico. Quando il professor Galli con una critica acida («Se avessi saputo che la trasmissione era così non avrei accettato l'invito») poteva compromettere il debutto del suo nuovo programma «Controcorrente», Veronica Gentili ha risposto a tono e rimesso la barca sulla scia. Ci mancherebbe, è il minimo sindacale per un conduttore, ma quando ti affidano il tuo primo talk di prime time e sei una delle poche giornaliste in onda d'estate, l'emozione può giocare brutti scherzi.

Insomma, per Veronica Gentili, questa è proprio un'estate infuocata: è in video tutte le sere su Rete 4 con «Stasera Italia News» alle 20,30 oltre che in prima serata al lunedì con «Controcorrente».

Dunque, Veronica, non è stata un debutto semplice.

«Credo che il professor Galli si sia sentito offeso per il fatto di essere messo nel mucchio degli scienziati ma lungi da noi non riconoscere il suo valore. Al di là dell'episodio, in questi casi non ci si può lasciare demotivare: se ti cade il castello di carte mentre sei in diretta è finita; anche se resti turbata, devi reagire con prontezza senza mostrare le tue emozioni».

Il tuo passato da attrice ti aiuta?

«Sì, certo. Ma non solo: è importante anche la capacità di ascolto. È come se avessi le antenne sempre dritte, sto attenta alle parole degli altri. Il teatro e il cinema ti insegnano la padronanza fisica, il controllo della voce e delle emozioni, ti aiutano a crearti una corazza, a camuffare momenti di incertezza, a essere presente sul palco, pronto a interagire».

Comunque, la prima puntata del nuovo talk estivo era carica di animi agitati e anche di esperimenti come sfide, squadre, processi...

«Sì, appunto, è un esperimento, per cercare un modo diverso di fare un talk. Tra l'altro, organizzato con rapidità per non lasciare l'estate senza informazione in un momento così importante. Abbiamo fatto dei test come mostrare allo spettatore i meccanismi stessi della comunicazione, ad esempio lo scontro tra media e scienza. Nelle prossime settimane lo metteremo a punto e sceglieremo quali dei molti elementi introdotti lasciare e quali togliere».

Temerario ricorrere al titolo «Controcorrente» di montanelliana memoria

«Tutto il rispetto per il grande direttore: per me controcorrente significa non aderire al pensiero unico, non dare giudizi a priori, garantire la pluralità dei punti di vista, dare pari dignità alle idee».

Nel tuo dna convivono due mondi: l'arte, derivata da tua madre, Netta Vespignani (pittrice e gallerista) e la televisione, derivata da tuo padre (Giuseppe Gentili, dirigente Rai). Li hai abbracciati tutte e due per poi virare sulla seconda, perché non restare nel mondo dorato della recitazione?

«Da piccola, a 4 anni, ho deciso che avrei fatto l'attrice, mi sono diplomata all'Accademia d'arte drammatica, ho fatto film (con Muccino, Lucarelli, Paul Haggis) e serie. Ma mi sono portata sempre dietro la passione per la lettura, la politica, l'informazione: a un certo punto sentivo che mi mancava qualcosa e mi è venuto naturale approcciarmi ai giornali, alla radio e poi alla tv».

C'è chi si stupisce che una persona che ha criticato fortemente Berlusconi sia stata scelta come conduttrice nelle reti da lui fondate.

«Sono polemiche strumentali. A cui mi sono abituata da tempo. Le prime volte ci rimani male, poi ci si fa il callo. Sai che succedono perché hai visibilità. Quelle critiche a cui si fa riferimento erano politiche, e non personali, ed erano contestuali a un momento storico preciso e al ruolo che avevo di giovane blogger per il Fatto quotidiano. Poi nella vita si evolve, si fanno percorsi lavorativi diversi ma non per questo non si rimane fedeli alle proprie idee. E, comunque, se i vertici Mediaset mi hanno scelta e non si sono posti questi problemi, non vedo perché se li debbano porre altri».

E perché la scelta è ricaduta su di te?

«Forse anche per la mia visione della vita, per arricchire le proposte al pubblico. È avvenuto tutto in modo naturale. Mediaset è un'azienda molto più pragmatica di quanti si immagini: va avanti chi funziona. Avevo partecipato come opinionista ad alcune trasmissioni de La7 e poi di Rete 4: qui mi ha notata Mauro Crippa, direttore generale informazione Mediaset, che ha voluto provarmi in conduzione a Stasera Italia Weekend. E da lì è stato un crescendo».

E, ora, sei nel team delle presentatrici di punta Mediaset, anche se i talk di prima serata restano appannaggio dei colleghi maschi.

«Intanto mi sono alzata dalla scrivania (posizione tipica dei conduttori nei programmi di access prime time) e sto in piedi nello studio come nei talk serali. Ed è un passo avanti per le donne in generale. Le trasformazioni avvengono nei fatti. Ma non c'è da preoccuparsi, con i tacchi alti faccio fatica a stare dietro alla velocità dei miei colleghi».

Da settembre, per la stagione invernale, guiderai anche un nuovo programma su Italia 1, intitolato «Buoni o cattivi».

«Sarà una trasmissione di interviste e reportage. Un esperimento. Mi piace molto l'idea di andare a scavare nelle storie delle persone».

Il futuro è solo giornalismo o potresti tornare alla prima passione?

«Mai dire mai. Ora mi piace tantissimo quello che faccio in cui si compongono tutte le Veroniche che sono. Se mi dovessero offrire un film da protagonista o un tour teatrale importante potrei anche pensarci».

Ma tu sei veramente così forte come appari?

«Mio padre mi ha sempre detto La tua fragilità è la tua forza, io tengo il mio mondo interiore, con tutte le sue debolezze, dentro di me e lo apro solo alle persone più care. Non lo offro certo in pasto al tritacarne del gossip». Laura Rio

·        Vincenzo Mollica.

Maria Volpe per corriere.it il 15 aprile 2021. «Non vedo una min... di niente a qualsiasi distanza. Ma non ho ancora perso la speranza». Vincenzo Mollica è pieno di guai di salute ma non ha perso ironia e autoironia. Anche durante l’intervista radiofonica su RTL 102.5, in «Non Stop News», con Giusi Legrenzi ed Enrico Galletti, il giornalista (ma anche scrittore, disegnatore, autore, conduttore in tv) , più amato del mondo dello spettacolo non ha mancato di raccontare la sua vita da «apprendista pensionato» con leggerezza. Ha raccontato che si sveglia la mattina e si porta con sè «i tre amici che mi accompagnano: diabete, glaucoma e Parkinson. Cerco di andarci d’accordo, sono il buono, il brutto e il cattivo, a seconda delle giornate. Ma si va avanti, si cammina». Insomma non si abbatte Mollica che in oltre quarant’anni di carriera ha intervistato praticamente tutte le star dello showbiz. E ora, ancorchè pensionato e con le sue limitazioni fisiche, non smette di lavorare. «Continuo a fare quello che facevo da ragazzo: cinema, fumetti, musica, letteratura. E continuo a seguire le passioni che ho portato avanti al Tg1 in quarant’anni. Ma sono anche su Instagram, ho un sito tutto mio in cui dialogo con chi mi segue». Ricorda le interviste storiche con Federico Fellini, Roberto Benigni, Adriano Celentano, le sue chiacchierate con la poetessa Alda Merini, i suoi 39 Festival di Sanremo… «In realtà quaranta, se ci metti che quest’anno sono diventato un ologramma. Quindi trentanove in carne ed ossa, mettiamola così». Non manca di ricordare il suo amico Fiorello che ha addirittura creato il pupazzo di Mollica: i due insieme hanno dato vita a gag irresistibili. Infine quei saluti ai colleghi del Tg1, prima della pensione. Emozionanti, ma anche ironici come sempre. «Mi inventai quella frase, del tutto spontanea: “Omerico non fui e non sarò mai per poesia, ma per mancanza di diottria”. Scoppiarono tutti a ridere, ma in fondo è vero...».

Vincenzo Mollica: «Dividevo con Fellini i bombolotti di Giulietta. In Paradiso intervisterò Charlot». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 7 novembre 2021. Il giornalista: «Ora guardo con gli occhi della mia Rosemarie». La tentazione: «Mentana mi voleva al Tg5, ci pensai una notte e rifiutai: per me il Tg1 non era un luogo di lavoro, ma un sentimento». La rockstar: «Springsteen mi chiamava Fast-Man».

La prima intervista?

«Con il Dalai Lama. Ero appena stato assunto in Rai da Emilio Rossi e Nuccio Fava, a due giorni di distanza da Enrico Mentana, e ci spedirono entrambi agli Esteri per farci le ossa: eravamo i più giovani. Mi mandarono al Grand Hotel per questa conferenza stampa in cui il Dalai Lama fece i suoi discorsi pacifisti, ma io ottenni anche l’intervista. Quando tornai tutto contento da Ottavio Di Lorenzo lui mi spense: “Bene, fai un minutino per la notte”».

La prossima, se potesse?

«A Banksy, per chiedergli come fa a dipingere desiderando contemporaneamente sparire».

Vincenzo Mollica ha molti doni. L’umiltà, anzitutto, con cui racconta i suoi incontri straordinari senza ombra di autoreferenzialità, con rigore di cronista. Poi la generosità del tempo, un pomeriggio, nel quale riordina quarant’anni di ricordi nonostante il fastidio della mascherina. Alla profonda cultura, alla curiosità e alla passione con cui ci ha accompagnato per lustri tra i do, re, ciak e gulp italiani e stranieri, si aggiunge un altro dono: sua moglie Rosamaria, o Rosemarie, come la chiama lui dai tempi dell’università alla Cattolica di Milano, dove si fidanzarono un 14 febbraio dopo un concerto di Giorgio Gaber. Sembrano due innamorati di Peynet, seduti vicini sul divano, con le pareti tappezzate di quadri che sono attestati di affetto: un favoloso Andrea Pazienza con Zanardi accanto a Betty Boop, in cui sotto la firma dell’autore si legge un piccolo baffo, l’«autografo» (autorizzato) di Caterina, la figlia del giornalista ai tempi bambina; un sontuoso Mario Schifano che ritrae Mollica con una scatola bianca al posto della testa, la televisione; acquerelli di Fellini, un nudo di Dario Fo, gli alberi di Pablo Echaurren, un commovente autoritratto di Franco Battiato che medita su un tappeto sospeso da terra. In tanta bellezza, illuminata dagli occhi di Rosemarie che sono diventati gli occhi di Vincenzo, trovano posto anche quegli «amici non richiesti» con cui il padrone di casa ha dovuto fare amicizia: il Parkinson, il diabete e il glaucoma.

Vincenzo, tra Lady Gaga, Jessica Rabbit e Betty Boop, chi sceglierebbe di intervistare?

«Lady Gaga l’ho già intervistata, ma sinceramente vorrei Betty Boop: mi ha sempre divertito per la sua arguzia e ironia».

Lei è il fondatore del Boopismo. Cos’era?

«Un movimento avanguardista inesistente del ‘900, nato con la sua musa ispiratrice, Betty Boop, che si intrufolava nei quadri di de Chirico, Hopper, Magritte, Picasso e tanti altri, rivisitati da me. Gli unici contributi veri al Boopismo furono le “perizie” di Francesco de Gregori, Pablo Echaurren e Milo Manara, che commentarono i miei “scarabocchi” ospitati nelle sale del Vittoriano».

Con chi si è emozionato di più?

«Al primo incontro, con Marcello Mastroianni, Sophia Loren, Celentano... Ma c’è una persona che non ho intervistato e che però ho conosciuto ed è Mina: quello è stato un momento davvero emozionante, perché l’ammiro per la cultura, la generosità, la curiosità...».

Parliamo di Fellini.

«Con lui sembravamo compagni di scuola: ci univano i fumetti. Ho avuto la fortuna di essere testimone di Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet , disegnati da Milo Manara. Lavoravamo a casa sua, in via Margutta al 110. Mi faceva effetto stare lì con lui, in genere il sabato o la domenica pomeriggio, quando era libero. Arrivava Giulietta con due vassoi con carta bianca, penna e matita. Se squillava il telefono lui sollevava la cornetta e imitava la voce della segretaria o della governante. Poi all’ora di cena Giulietta mi chiedeva: “Ti fermi? Ti faccio i bombolotti col tonno”. A me nel piatto metteva doppia porzione e di nascosto Federico mangiava la mia».

La sua canzone preferita?

«Azzurro. Vale un romanzo».

Il film?

«La strada di Fellini, perché ti fa capire il valore della vita. Convinsi Giorgio Gavazzano a farne la parodia su Topolino. Giulietta Masina gli diede dei consigli sull’abito di Minnie. Quando uscì, Fellini era a Chianciano e comprò tutte le copie che poté trovare in edicola».

Cannes, Venezia, Oscar: cosa preferiva?

«L’emozione era diversa e pazzesca. Ricordo le vittorie di Tornatore, prima a Cannes e poi agli Oscar: ero andato a Los Angeles con Cristaldi, il produttore; un viaggio di memorie».

Il Festival di Sanremo più bello?

«Tutti, ogni edizione è come un libro nuovo che si apre. Forse, però, quello in cui Vasco cantò Vita spericolata: lo aspettavano per le prove e arrivò con abbondante ritardo... Andavo a Sanremo anche per il Club Tenco, dove feci l’incontro sfolgorante con Francesco Guccini. E lì organizzai una mostra in cui la musica incontrava i fumetti. La intitolai “Do Re Crack Gulp”, dove il crack non era la droga, ma il suono onomatopeico che Hugo Pratt assegnava al fucile che sparava. Da lì nacque il nome della mia rubrica al Tg1: DoReCiakGulp!»

Vasco l’ha definita «la rockstar del Tg1», Benigni «la mia canzone preferita di Sanremo». Come si spiega tutto questo amore?

«Mi commuove. Mara Venier ha organizzato una festa per il mio pensionamento, il 1° marzo del 2020. Pensavo di dover andare al suo programma e di cavarmela con una mezz’oretta e invece è passata un’ora e mezza, piena di omaggi: pure Celentano!».

Il giorno prima c’era stata la standing ovation all’Ariston, con Fiorello e Amadeus.

«Fiorello lo conobbi a metà degli anni 80, come cantante. A cementare la nostra amicizia fu Bibi Ballandi, per lui un fratello maggiore. Fiorello mi ha dedicato uno dei momenti più belli della mia carriera: sono entrato in Rai da essere umano e sono uscito da pupazzo».

Il suo peluche, in «Viva RaiPlay!».

«Mi mandava su WhatsApp le frasi che dovevo ripetere per doppiare il pupazzo: li trovavo già alle 6.30-7, quando mi svegliavo».

E allora citiamolo: quand’è l’ultima volta che le è partita la sciabbarabba?

«Ma io non lo so cosa vuol dire!».

Una settimana dopo il pensionamento eravamo tutti in lockdown. Come lo ha vissuto?

«Pieno di speranza».

Speranza?

«Sì, con la voglia di esserci, di capire, di vivere quello che stava succedendo. Per me è essenziale sperare, altrimenti non sarei riuscito ad affrontare le mie malattie. Rosemarie è bergamasca, questa estate finalmente siamo tornati in Val Seriana ed è stato bello veder rifiorire la valle. Torneranno i prati, per dirla con Olmi, di Treviglio come mia moglie: quando si incontravano parlavano in dialetto».

Ha sempre dato l’idea di voler bene alle persone che intervistava. Che effetto le fa sapere che Carrà, Battiato e Proietti non ci sono più?

«Sono momenti dolorosi. L’ultima volta che ho intervistato Battiato gli parlai della vista che mi abbandonava e lui mi sfiorò con un dito l’occhio che funzionicchiava e disse: Vincenzo, bisogna affrontare tutto con semplicità».

Le proposero di passare alla concorrenza?

«Me lo chiese Mentana, quando lasciò la Rai per fondare il Tg5: Mimun e Sposini avevano già accettato. Io mi confrontai con Rosemarie, poi con Fellini e Arbore. Tutti mi dissero la stessa cosa: devi fare quello che ti senti. Ci pensai una notte intera e decisi di restare, perché per me il Tg1 non è mai stato un luogo di lavoro, ma un sentimento».

Sua moglie per quarant’anni l’ha accompagnata ogni mattina al lavoro ed è venuta a riprenderla la sera.

«Quando Caterina era piccola, prima portavamo lei a scuola. Quella mezz’oretta in auto è stato il nostro modo per ritrovarci, per alimentare i valori veri. Lei è l’amore della mia vita».

Cosa le manca di più?

«Disegnare. Camilleri mi disse che prima di addormentarsi ripassava i quadri belli che aveva visto nella vita. A me mancano gli acquerelli e l’Indian Yellow, che in omaggio alla mia cittadinanza canadese usavo come base, è il colore della speranza. Ho un account Instagram dove pubblico frasette in rima o i disegni che faccio a memoria: mi seguono in 127 mila».

Non abbiamo detto nulla degli stranieri. Jack Nicholson?

«La prima volta lo intervistai in ascensore, all’Hotel de la Ville, dopo una conferenza stampa. Era andato via, ma io mi sono piazzato in ascensore e due domande gliele ho fatte!».

Paul McCartney?

«Aveva espresso il desiderio di far girare il video di un nuovo singolo a Fellini, ma all’ultimo minuto, con la cena pronta, saltò tutto. Quando poi Fellini morì, trovai tra i suoi scritti un appunto in pennarello azzurro per il famoso video: aveva immaginato l’ex Beatles cantare al Colosseo mentre la città si svegliava. Lo raccontai a McCartney che si commosse. Infine lui ha cantato davvero al Colosseo, e quel giorno mi sono commosso pure io».

Bruce Springsteen?

«Mi chiamava Fast-Man, perché ero veloce, non gli rompevo troppo le scatole: non andavo da fan. Il regalo più bello che mi ha fatto è stato improvvisare When the Saints Go Marching In con la chitarra messicana piena di ex voto».

Bob Dylan?

«Aveva già smesso di fare interviste, ma una volta gli ho potuto stringere la mano, a un concerto per il Papa, e mi è bastato».

Pensa mai alla morte?

«Ci penso, non con ribalderia, ma come a un evento che deve essere naturale e che mi sorprenderà».

In Paradiso chi vuole intervistare?

«Stanlio e Ollio, i due poeti della comicità. E Charlot, il patriarca del cinema: lui ne ha gettato le fondamenta, Fellini ha insegnato al mondo che nulla si sa, tutto si immagina».

·        Vittorio Feltri.

“Non sono né di destra né di sinistra, sono soltanto scoglionato”. Marco Gervasoni l'1 Dicembre 2021 su Cultura Identità. Vittorio Feltri non ha bisogno di presentazioni ma forse non tutti sanno che i giornali da lui diretti hanno guadagnato soldi e aumentato il numero di copie: L’Indipendente sotto la sua direzione passa da 19.500 a 120.000 copie, il Giornale da 130.000 a 250.000 mentre Libero, il giornale da lui fondato nel 2000, in pochi anni arriva a una tiratura di 220.000 copie. Anche chi non legge i giornali lo conosce benissimo per le celebri intemerate in qualità di ospite di programmi tv sia Mediaset che La7, per non parlare di alcune prime pagine di Libero che hanno fatto storia. Nei suoi editoriali non guarda in faccia a nessuno: Feltri o lo ami o lo odi, non c’è scampo. Sul nuovo numero di CulturaIdentità, il mensile fondato e diretto da Edoardo Sylos Labini in edicola da venerdì 3 dicembre, troverete l’imperdibile intervista concessa a Marco Gervasoni: gli aperitivi con Mario Draghi al Principe di Savoia a Milano e quella profezia di 7 anni fa che vedeva l’attuale premier al Quirinale, il tracollo del giornalismo italiano che pensa alla politica anziché a vendere copie (“Con Mussolini l’Avanti! passò da 10 mila a 80 mila copie vendute, meglio di lui ho fatto solo io“) e l’esperienza al Consiglio Comunale di Milano (“Non sono pentito ma ho scoperto che la politica è rottura di coglioni“). Anche Mussolini è stato consigliere comunale di Milano, però con la sinistra, mentre Feltri con la destra: “Ma io non sono né di destra né di sinistra: sono solo scoglionato“. Tante sorprese nell’intervista a un maestro del giornalismo italiano, che come al solito non le manda a dire. 

Dagospia il 13 ottobre 2021. Da “La Zanzara - Radio24”. Vittorio Feltri esordisce così come consigliere comunale a Milano.  A La Zanzara dice: “Non mi sono votato, mi hanno dato due lenzuolate e non ho un capito un cavolo di quello che c’era scritto. Penso di aver votato Sala. Il nome Feltri non l’ho scritto”. “In Consiglio comunale andrò qualche giorno, poi me ne vado. Negli ultimi quarant’anni non ho mai visto un consiglio comunale”. “Gay Pride? Dovrebbe chiamarsi Froci Pride, però facciano quello che vogliono, a me di quello che fanno i froci non interessa nulla”. “Gay è parola inglese, omosessuale è un termine medico, preferisco chiamarli froci o culattoni”. “Il fascismo? E’ morto nel ‘45, non è un pericolo, non ho mai conosciuto un fascista in vita mia”. “Il fascismo? L’unica cosa buona che ha fatto è farsi uccidere. E’ riuscito a fare una guerra assurda, per soggiacere agli ordini di Hitler. Ma fu una piccola cosa rispetto al comunismo, che ha fatto molti più morti e molti più danni. Mussolini era alla guida di una nazione di poveracci, mentre il comunismo uccise molte più persone”. “I novax? Sono degli imbecilli, dei cretini. Rischiano di ammalarsi e morire, non hanno capito un cazzo”.

Alberto Consoli per secoloditalia.it il 5 ottobre 2021. “Sala è uno di finta sinistra, ma Milano è una città un po’ fighetta, nostalgica del ’68, vota per la sinistra, soprattutto il centro storico: ma questo lo sapevamo anche prima, non c’è alcuna sorpresa”. È il commento di Vittorio Feltri, candidato nelle liste di Fratelli d’Italia. Il direttore di Libero analizza con l’Adnkronos il risultato elettorale che ha visto vincere come sindaco a Milano il candidato del centrosinistra Beppe Sala. “Quello che ho scritto un mese fa si è verificato puntualmente. E cioè che a Milano avrebbe vinto a mani basse Sala, era scritto nel destino”. Feltri ha poi commentato il dato di affluenza alle urne, mai così basso: “Non solo a Milano, anche nelle altre città è successo che la gente non va più a votare perché ha perso la passione nella politica”. “La politica è mal vista da quando sono morte le ideologie, non c’è più un sentimento a livello ‘cardiaco’ nella gente. Ora i partiti hanno perso grinta, hanno perso la capacità di sedurre gli elettori. A Milano pioveva, figurati se andavano a votare”. Soddisfatto del dato di Fratelli d’Italia. “Giorgia Meloni a Milano ha triplicato i suoi voti, quindi non può certamente lamentarsi. Certo che per vincere le elezioni a Milano bisognava avere una coalizione forte, che non c’è”. Ne ha da dire, invece, al leader della Lega che a Milano non è andata bene. A malincuore Feltri non può che osservare: “Mi aspettavo che Salvini perdesse notevoli quote di elettori, perché ha governato prima coi 5 Stelle, poi è uscito dal governo senza spiegare i motivi; poi è rientrato sempre coi 5 Stelle e con gli avversari storici: cioè il Pd, senza spiegare nulla e la gente non ci ha più capito niente. Questo è il motivo per cui la Lega è passata dal 34% a delle cifre molto più dimensionate, ma dov’è la sorpresa? Era ovvio”.

I dati a cui Feltri si riferisce sono quelli al momento che vedono il Pd, primo partito con il 33,60%, rispetto al 28,97% del 2016 e al 35, delle europee 2019.

Le proiezioni dei partiti a Milano

Rispetto a queste ultime elezioni si assiste ad un travaso di voti in favore di Fdi, che ha un balzo anche rispetto alle comunali del 2016. Nel centrodestra il partito di Salvini cinque anni fa era ancora Lega Nord è portò a casa l’11,77%; che viene confermato oggi (11,44%); ma se il confronto è con la tornata delle europee 2019 si nota uno scivolone dal 27,39% di allora. Percorso inverso per il partito di Giorgia Meloni: 2,42% alle ultime comunali, 5,16% alle europee e 9,92% oggi. Fi nel 2016 era il primo partito della coalizione con il 20, 21%, sceso al 10,18% delle europee e al 7,47% della odierna tornata.

Chiara Baldi per “La Stampa” il 6 ottobre 2021. Che potesse prendere 2.268 voti, risultando il primo eletto di Fratelli d'Italia, non lo credeva possibile neanche lui. Soprattutto perché il capolista Vittorio Feltri, classe 1943, direttore editoriale di «Libero», non ha speso un giorno a fare campagna elettorale. «Si figuri se alla mia età posso imparare a fare queste cose». 

Prima del voto diceva che non avrebbe mai fatto il consigliere comunale. Ora?

«Andrò in Consiglio per sentire cos' hanno da dire. L'unica volta che ci ho messo piede era da cronista de "La Notte", 40 anni fa». 

Si aspettava questa débacle?

«Che Bernardo avrebbe perso l'avevo scritto un mese e mezzo fa. È un bravissimo medico, ma chi suona bene il violino non è detto che suoni bene il pianoforte. Come politico non era all'altezza». 

Meglio Albertini?

«Sicuramente». 

Sala ha stravinto anche col voto dei moderati

«Milano è modaiola, il nostro sindaco è uno che segue le mode, poteva fare lo stilista, avrebbe avuto grande successo. E i milanesi sono fighetti di sinistra, conformisti. Lo votano tutti».

L'inchiesta di FanPage vi ha danneggiato?

«Non l'ho vista. Questa menata dell'antifascismo per battere la destra non è nuova: quando non sai cosa dire della destra, dici che è fascista. Ma come si fa a essere nostalgici del fascismo se non si è mai visto?». 

Salvini sarà ancora leader del centrodestra?

«Ha fatto tanti errori, uno su tutti il governo con il Pd. Credo però che dopo questa batosta possa risorgere. Ma si deve dare una regolata. Sembra uno che vince la lotteria di Capodanno e poi butta il biglietto». 

E Meloni?

«Mi piace, è capace, ha grinta, non è assolutamente fascista. Sono convinto che la destra sia la sua».

Valeria Arnaldi per leggo.it il 6 ottobre 2021.  «L'intero ordine sociale si schiera contro una donna che aspiri a raggiungere la reputazione di un uomo», diceva Madame de Staël, vissuta tra fine Settecento e primi Ottocento. A distanza di tempo, la strada per le donne, in politica, è ancora lunga. Le elezioni amministrative lo hanno appena dimostrato: erano 30 le candidate sindache, su 162, nelle 19 città capoluogo. E nessuna, come ieri scritto da Barbara Gubellini su Leggo, è stata eletta oppure è andata al ballottaggio.

«Ci si lamenta dell'astensionismo ma per quanto la politica italiana vorrà continuare a tenere lontane le elettrici? - dice la giornalista di Skytg24 e Radio24 Maria Latella - Le aziende, per esempio, fanno sempre più campagne rivolte a consumatrici. La politica, invece, è trincerata nella difesa delle posizioni di potere e molte elettrici non si riconoscono nelle figure maschili proposte».

Il tema è ampio. Il giudizio sulle elezioni netto. «È la riprova che il nostro Paese ne ha ancora di strada da fare - commenta Barbara Jerkov, giornalista del Messaggero - Mentre il Nord Europa esprime ormai Parlamenti in cui le donne sfiorano la maggioranza, in Italia un decennio di quote rosa non è ancora bastato a creare quel circuito virtuoso che dovrebbe condurre partiti ed elettori a scegliere semplicemente il o la migliore. Il potere è uomo, inevitabilmente. Le candidate donne nei ruoli di vertice, in politica fortunatamente meno nella società, restano un'eccezione».

«Non sono per le donne a tutti i costi, ovviamente devono valere, ma non mi pare di vedere grandi statisti tra i candidati - afferma la conduttrice di La7 Gaia Tortora - C'è un problema culturale, la società è molto maschilista e la situazione è peggiorata. Dicono che dobbiamo sempre sfondare il tetto di cristallo, ma sta diventando di cemento armato». «Le donne hanno ottenuto qualcosa quando non lo hanno chiesto ma lo hanno preso - chiude la scrittrice e giornalista Lucia Annunziata - Non mi aspettavo nulla di diverso da ciò che è accaduto».

Carmelo Caruso per ilfoglio.it il 5 ottobre 2021.

Ti divertirai ancora a prendere in giro la “tua” destra o ricomincerai a prendere in giro la sinistra, la sinistra “verde” di Beppe Sala?

“Scriverò e dirò che avevo previsto tutto. Scriverò che Salvini ha sbagliato e che ormai rovina ogni cosa che tocca. Sbaglia anche quando respira. Scriverò e continuerò dunque a divertirmi. Io vinco comunque. Io rimango Feltri. Vittorio Feltri”.

Avevi previsto sul serio che Sala vincesse al primo turno e che si prendesse ancora la tua Milano e che questa città fosse il “capolinea della destra”?

“Milano è di sinistra”.

Ma tu eri candidato con FdI, anzi, con Giorgia Meloni. Ti sei pentito? Che c’entri tu con i “baroni neri”?

“Non mi sono pentito. E’ stato tenerissimo. E quell’inchiesta di Fanpage, quell’inchiesta a pochi giorni dal voto, è montata ad arte. Robaccia. Sporcizia. Non riguarda la Meloni”. Perché hai scelto di correre? Non ti basta scrivere? “Perché non voglio stare fermo. Perché voglio ancora che si parli di Feltri e si sorrida di quello scalmanato di Feltri”.

Ci sei riuscito. Lo sai che Salvini ce l’ha con te?

 “E chi se ne frega. Salvini è un uomo confuso, rincretinito. Mi ha tolto il saluto. Ma ho ragione io. Io penso. Io rifletto”. E se ti facessi dire adesso che la destra era davvero “una coalizione del cazzo” come avevi detto sul Fatto Quotidiano? “Non me lo faresti dire. Perché si può dire meglio”.

E come lo vuoi dire?

“Fammelo dire con la grazia del Foglio ma con la faccia tosta di Feltri”.

Bernardo era un candidato un po’ “pistola”?

 “Bernardo era ed è un bravissimo pediatra. Ha costruito un reparto d’eccellenza. Sa fare questo”.

La sua campagna elettorale è stata però un disastro. Adesso lo puoi dire con una carezza?

“Certo. La sua capacità politica era nulla. Io su di lui non avrei scommesso cinque centesimi. Non tutti sanno fare i politici. Non c’è nulla di male”.

Perché la destra ci ha puntato? 

“Non è stata la destra. Ci ha puntato Salvini, uno che mi sembra ultimamente abbia perso la trebisonda”. 

A Roma, Enrico Michetti, il centurione tutto latinorum e codice civile, arriva al ballottaggio. Sei costretto a invidiare Roma?

“La invidio. Qui il ballottaggio è rimasto un sogno. Non c’è dubbio che Michetti sia stata una scelta migliore”.

Farai i complimenti a Sala?

“Glieli fa tutta la destra. Ha vinto con le mani in tasca. Ha vinto la politica di sinistra, la politica delle fesserie. Monopattini, piste ciclabili. E’ la dottrina Sala”.

Ti spaventa?

 “Me ne frego”. 

Ritieni ancora che Giorgia Meloni possa essere leader del centrodestra?

“E’ la più brava”.

Hai visto Salvini, al Tg1?

“Non l’ho visto”.

E se uscisse dal governo come molti temono?

“Completerebbe il casino. E’ ormai un esperto di casini. E’ uscito dal governo con il M5s per rientrarci e in compagnia del Pd. Non si capisce la sua linea”. 

Giorgetti ti piace?

“La sua linea almeno la capisco”.

Salvini ha capito che ha perso?

“Non l’ha capito. Gli auguro di trovare la serenità. Di farsi un esame di coscienza. Ha perso lui”.

E invece tu?

“Scriverò che avevo ragione. Cosa c’è di meglio che dire a tutti: avevo ragione io?”.

E però avevi davvero ragione tu.

“Avevi dubbi?”.

Da repubblica.it il 5 ottobre 2021. La terza sezione penale del Tribunale monocratico di Catania ha condannato a una multa di 11 mila euro per diffamazione il giornalista Vittorio Feltri per il suo articolo sulla prima pagina di Libero del 10 febbraio 2017 dal titolo "Patata bollente" sulla sindaca di Roma, Virginia Raggi. Il giudice ha stabilito un risarcimento danni da stabilire in sede civile, fissando una provvisionale di 5 mila euro, il pagamento delle spese legali e la pubblicazione della sentenza sui maggiori quotidiani nazionali. Con Feltri era a processo, per omesso controllo, anche il direttore responsabile del quotidiano Pietro Senaldi, condannato con una multa di 5 mila euro pena sospesa. La Procura aveva chiesto la condanna a tre anni e quattro mesi di reclusione per Feltri e a otto mesi per Senaldi. La competenza del caso è radicata Catania perché è la città in cui è stata stampata per prima la copia del quotidiano. Feltri era stato rinviato a giudizio, dopo la querela di Virginia Raggi che nel processo si è costituita parte civile, in qualità di "direttore editoriale e di autore del pezzo", per avere "offeso la reputazione di Virginia Raggi" con l'articolo in prima pagina, ricorda il giudice, dal "titolo 'Patata bollente' preceduto dal sopratitolo 'La vita agrodolce della Raggi' e seguito dal catenaccio 'La sindaca di Roma nell'occhio del ciclone per le sue vicende comunali e personali. La sua storia ricorda l'epopea di Berlusconi con le Olgettine, che finì malissimò". Il pezzo fu anche ripreso sul sito libero.it e sulla pagina Facebook e sul profilo Twitter del quotidiano.

Senaldi era stato rinviato a giudizio per "avere omesso di esercitare" sull'articolo, "il controllo necessario ad impedire che con esso venisse offeso la reputazione" di Virginia Raggi.

Vittorio Feltri? Toghe e giornalisti lo attaccano perché è un uomo libero: brutta bestia, l'invidia. Libero Quotidiano il 03 ottobre 2021. Mi prenderò del leccapiedi ma non me ne frega niente. E per aumentare il sicuro effetto mando proprio a Libero, non agli altri giornali per cui mi capita di scrivere, questa sviolinata in favore di Vittorio Feltri. Ma andiamo alla ciccia. Feltri dice che i suoi colleghi e i ridicoli organismi che governano la categoria l'han preso in antipatia perché lui ha avuto molto successo e ha fatto molto denaro col suo lavoro, mentre il grosso degli altri sopravvive a reddito mediocre in un triste anonimato. Di qui, l'invidia, il risentimento, l'astio verso questo signore che negli anni ha messo tanto fieno in cascina e- dove andava, andava - faceva meglio dei predecessori. Io non credo che si tratti di questo. Secondo me i soldi non c'entrano proprio nulla. La realtà è che Feltri è il più grande giornalista della sua generazione, di quella precedente e pure di quella successiva. È il suo mestiere, il suo naso, la sua perizia artigiana, la sua capacità di intelligenza della notizia, è tutto questo che manda in bestia il giudizioso giornalistello che biascica scemenze sull'informazione corretta e sul decoro. "Sul lavoro c'è incidente e incidente, la colpa non è sempre degli imprenditori": l'amara riflessione di Vittorio Feltri

Poi c'è quello che Vittorio Feltri, invece, non ha, e questa mancanza fa a sua volta perdere le staffe al rappresentante della categoria. Infine, ed è questo il più intollerabile dei suoi tratti, Vittorio Feltri ha sempre osservato una prassi libertaria nel proprio lavoro. Ora vedo che qualche magistrato chiede che Feltri sia mandato in galera per un titolo che si assume illecito. C'è da compiacersene: la specchiatezza, la nobiltà, la professionalità del giornalismo italiano saranno finalmente ripristinate.

La vicenda del giornalista. Perché Feltri rischia la cella per un titolo sulla Raggi. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 28 Settembre 2021. Sempre più spesso il dibattito pubblico assume toni a dir poco surreali. Sono giorni ormai che assistiamo alle fibrillazioni della politica per una legge (peraltro fatta dal Parlamento) che ha introdotto la sottoscrizione digitale delle iniziative popolari (referendum e proposte di legge promosse dai cittadini), mentre praticamente nessun dibattito si è acceso di fronte alla notizia della richiesta di reclusione di tre anni e quattro mesi, insieme a una pena pecuniaria, per il direttore Feltri, imputato (insieme al giornalista Senaldi) per diffamazione a mezzo stampa a causa del titolo di un articolo che certamente, ma questa è la mia modesta opinione (estetica più che giuridica), il suo giornale avrebbe potuto evitare. Ancora più surreale la situazione perché i due fatti sono legati da un’intima connessione. Lo scalpore per le firme digitali e il fantasma di valanghe referendarie, infatti, ha espunto dal dibattito un punto fondamentale. I referendum in Italia sono abrogativi, il che vuol dire che la legislazione rimane comunque primariamente nella disponibilità del Parlamento. È il Parlamento che fa le leggi, il popolo può solo abrogarle. E il Parlamento può farle anche ad iniziativa referendaria avviata. Il problema è che il Parlamento le leggi, soprattutto certe leggi, non le fa. Si sottrae, cincischia, insabbia, anche quando magari quelle leggi sono richieste, non dal popolo, ma dalla Corte costituzionale che negli anni si è “sgolata” per chiedere che, in certi settori in cui era stato richiesto il suo intervento, anche il Parlamento facesse la sua parte. Soprattutto in materie complesse in cui la mannaia della dichiarazione di incostituzionalità o la varietà di soluzioni possibili a seguito di una sentenza di annullamento non consentivano al giudice delle leggi di intervenire adeguatamente. Ma in genere non è successo nulla. Il Parlamento ha fatto orecchie da mercante e, talvolta, la Corte è dovuta intervenire nuovamente a metterci una pezza. E qui entra in gioco la vicenda Feltri. Perché in essa si ripropone il copione appena descritto su un tema delicatissimo per la democrazia: l’equilibrio tra la libertà di manifestazione del pensiero (e cronaca) e il diritto alla reputazione e all’onore di chi è interessato da articoli di stampa. È scontato che quando tale equilibrio si rompa anche i giornalisti, come tutti coloro che esprimo opinioni o raccontano fatti, debbano essere sanzionati, anche pesantemente. Il danno che la parola può fare, a volte è molto più grave di una lesione patrimoniale o fisica, perché può imprimere (del tutto infondatamente) un marchio di infamia per il quale non c’è riparazione che tenga. Ne abbiamo viste tante. Il tema di cui si discute (anzi, si dovrebbe discutere), invece, è se tra le tante possibili e pesanti sanzioni, ci debba essere anche quella del carcere (o degli arresti domiciliari) per i giornalisti. Non mi pare un dibattito così secondario, soprattutto nel contesto di un paese lacerato da spinte disgregatrici, dal dilagare di social che propalano continuamente fake news e istigano all’odio tra fazioni di ogni genere. Il tema è invece importantissimo. Dà la misura della civiltà giuridica di un paese. La qualità delle sanzioni (che pur devono esserci) è l’indicatore di come lo Stato risponde alle pulsioni della società. Di quanto sia in grado di collocarsi al di sopra di esse, contrapponendo un criterio di equilibrio e giustizia all’urlo della piazza tentata, talvolta, dall’evocazione del Crucifige o dalla ricerca di continui capri espiatori. Una tentazione che non raramente contagia anche pezzi dello Stato stesso in una cultura giustizialista che, con la giustizia, non ha nulla a che vedere. Ebbene, il caso Feltri (qualcuno dirà, suo malgrado, ma il merito in questo caso è irrilevante) ha un valore paradigmatico. È una concentrazione di tutte le questioni che ho citato poc’anzi. Abbiamo una giurisprudenza univoca (una volta tanto) della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che mette in guardia contro il rischio della detenzione per i giornalisti, tanto da ritenere che, qualora la legge la preveda (ma la Costituzione italiana non la impone, così dice la Corte), la si debba limitare a casi estremi ed eccezionali. E la ragione è semplice: “evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica” (da ultimo, Corte cost. n. 150/2021). Abbiamo i moniti della Corte che, oltre a dichiarare incostituzionale l’art. 13 della legge sulla stampa (proprio perché imponeva senza eccezioni l’applicazione della sanzione detentiva), ha lanciato a più riprese moniti al Parlamento perché intervenisse a disciplinare nuovamente la materia delle sanzioni, per ricondurla a quei canoni di civiltà giuridica che dovrebbero rappresentare le fondamenta dello Stato di diritto. Abbiamo anche la neghittosità del Parlamento, nel quale da anni si discute dell’abolizione del carcere per i giornalisti che commettano il reato di diffamazione. Abbiamo insomma tutti gli elementi della sceneggiatura di questo film già visto ormai fin troppe volte. E che succede? Nulla. Anzi no. Succede che ci si stracci le vesti perché i cittadini, adesso, possono proporre iniziative popolari trovando meno ostacoli su quel percorso da Camel Trophy che sono le procedure per la raccolta delle firme. Del resto, come si può consentire alle istituzioni rappresentative di continuare a sottrarsi ai propri doveri di cui sono investite dalla Costituzione stessa ed erodere, con la propria inerzia, la legittimazione democratica, se non demonizzando qualunque cosa possa minacciare lo status quo? E, dunque, dai al referendum, dai al giornalista (possibilmente avversario), dai al capro espiatorio di turno. E che Beccaria riposi in pace.

Giovanni Guzzetta

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 28 settembre 2021. Non c'è sentenza della Corte costituzionale che tenga: Virginia Raggi vuole Vittorio Feltri dietro le sbarre. È questo il senso del lungo post su Facebook nel quale, ieri, il sindaco di Roma ha replicato al direttore editoriale del nostro quotidiano, che nei giorni scorsi ha ricordato - al netto delle considerazioni sul carattere scherzoso e non diffamatorio dello scritto incriminato - come la richiesta della procura di Catania nei suoi confronti - ovvero la condanna a tre anni e quattro mesi di carcere per l'articolo, con titolo «Patata bollente», del 10 febbraio 2017 - sia illegittima, visto che i giudici del Palazzo della Consulta, con la sentenza numero 150 del 12 luglio 2021, hanno "cassato" l'articolo 13 della legge sulla stampa che obbliga il giudice, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa, a infliggere la condanna della «pena della reclusione da uno a sei anni». Ecco, Virginia è lì che vuole arrivare: alla galera. La sentenza è prevista per il 5 ottobre, ma la "sindaca" il verdetto l'ha già emesso. «Invece di chiedere scusa per quel titolo vergognoso che offendeva non solo la mia persona, ma tutte le donne, insiste. Dice di aver paura che un giudice lo condanni al carcere e prova a farsi scudo con la libertà di stampa. Ma quale libertà di stampa o di critica c'è dietro "Patata bollente"? Qui la libertà di stampa non c'entra nulla». Sottinteso: il giudice faccia il suo dovere e condanni Feltri alla pena chiesta dal pubblico ministero. «Un titolo vergognoso e vile, carico di odio per le donne e di sessismo», ha aggiunto Raggi, che accusa il fondatore di questo giornale - la cui controreplica potete leggere a fianco- di avere «un'ossessione» nei suoi riguardi. In realtà, a scorrere le dichiarazioni di ieri degli esponenti del Movimento 5 Stelle, quindi non solo di Raggi, l'ossessione sembra piuttosto quella dei grillini, che dopo la freddezza mostrata nei mesi scorsi, durante i quali Raggi è stata considerata una vera e propria "palla al piede" del Movimento, improvvisamente sono tornati a schierarsi con il sindaco di Roma uscente. Ieri i parlamentari del gruppo Pari Opportunità hanno diffuso sul "caso Feltri" nientemeno che una nota, auspicando che la magistratura faccia il suo «corso». E giù l'affondo su Raggi «presa di mira perché è una donna scomoda, che ha avuto il coraggio di andare contro le logiche di potere e sacche di illegalità». Per i pentastellati è «incredibile» che Feltri, «invece di chiedere scusa, insista nel difendere il linguaggio sessista e volgare rivolto alla sindaca di Roma». Identica iniziativa hanno assunto i parlamentari e gli eurodeputati romani pentastellati, per i quali Feltri «si lancia in una avventurosa campagna per la libertà di stampa. La verità è che Feltri dovrebbe chiedere scusa per quel titolo vergognoso. Davvero pensa che la volgarità e il sessismo siano assimilabili alla libertà di stampa?».

Vittorio Feltri e "la patata bollente". I pm lo vogliono in carcere per 3 anni per il titolo di Libero sulla Raggi. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 25 settembre 2021. Tre anni e quattro mesi di reclusione, più 5mila euro di multa, per Vittorio Feltri; otto mesi di carcere per Pietro Senaldi. Sono queste le pene chieste dalla procura nel processo per diffamazione che il prossimo 5 ottobre a Catania vedrà svolgersi l'ultima udienza, con successiva camera di consiglio per la sentenza - a carico del direttore editoriale e dell'attuale condirettore di Libero per il titolo - e l'articolo - «Patata bollente», pubblicato il 10 febbraio 2017. Ad agire nei confronti di Feltri e Senaldi, il sindaco di Roma uscente, Virginia Raggi. Su queste colonne, i direttori hanno più volte spiegato i motivi per i quali la causa intentata dal primo inquilino della Capitale merita di essere rigettata. Il fatto nuovo, alla vigilia delle repliche previste nell’udienza del 5 ottobre, è una recente pronuncia della Corte costituzionale - per la precisione la numero 150 del 12 luglio 2021 - che di fatto sconfessa l’operato della procura laddove dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge sulla stampa, la numero 47 del 1948. Si dà il caso che i pm vorrebbero arrestare Feltri appellandosi proprio a quell’articolo, che appunto prevede la «pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa» nel caso di una diffamazione commessa «col mezzo della stampa» (la cosiddetta diffamazione aggravata). Peccato che i giudici del palazzo della Consulta - con la sentenza chela difesa ha già citato nella sua discussione - dichiarando «costituzionalmente illegittima nella sua interezza» la disposizione che prevede tout court la pena detentiva, abbiano certificato che quella imboccata dalla procura sia una strada sbagliata. Attenzione: per la Corte costituzionale, in astratto, «non può in assoluto escludersi la sanzione detentiva» a carico dei giornalisti. Ma questa pena deve essere applicata «nei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità». E i giudici, nel paragrafo 6.2 della sentenza, facendo anche riferimento alla giurisprudenza europea, fanno anche qualche esempio: «Discorsi d’odio e istigazione alla violenza»; «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media (...) compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della oggettiva e dimostrabile falsità degli addebiti». Minimo comune denominatore, tale da configurare «un pericolo per la democrazia», la capacità di combattere «l’avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare (...) agli occhi della pubblica opinione». Al di fuori di questi casi - chela stessa Corte definisce «eccezionali» - «la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista (...) restando aperta soltanto la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione». I giudici della Consulta, cassando l’articolo 13 della legge sulla stampa, che appunto prevede l’obbligatorietà del carcere ad eccezione dei casi nei quali scatta l’applicazione delle “attenuanti generiche”, di fatto hanno riportato la gestione della diffamazione a mezzo stampa all’interno dell’articolo 595 del codice penale. Che al terzo comma - come scrivono i giudici nel paragrafo 4.3 - prevede la pena della reclusione (da sei mesi a tre anni) «o» della multa «non inferiore a euro 516». Il messaggio è chiaro: la sanzione del carcere deve essere inflitta solo in casi eccezionali. Ne tengano conto i giudici di Catania. 

Andrea Galli per il “corriere.it” il 25 settembre 2021.  

Direttore Vittorio Feltri, come va?

«Molto bene, mi sto facendo un aperitivo. Un bicchiere di vino bianco».

E la richiesta della Procura di Catania di 3 anni e 4 mesi di carcere su quel famoso e criticato titolo di Libero e la «patata bollente» contro la sindaca di Roma Virginia Raggi?

«Bah, evidentemente la pm non ha letto la sentenza della Corte costituzionale che prevede il carcere soltanto in presenza di una mirata e insistita campagna giornalistica contro qualcuno». 

E quella non lo era?

«Era un titolo (di un articolo pubblicato su Libero il 10 febbraio 2017, ndr) e basta». 

A chi venne l’idea?

«Non a me. E comunque noi, la cosa della patata bollente, l’avevamo già usata per Ruby. Se la ricorda? Quella di Berlusconi. Ebbene, là non successe proprio nulla. Nessuno fiatò, non si alzarono polemiche e nemmeno crociate. Forse perché la signorina Ruby era straniera.» 

Mentre stavolta…

«Stavolta non lo so. Io ho sempre creduto che la patata sia un tubero, non altro. Altrimenti ne avrei fatto incetta, non crede?». 

Un po’ debole come difesa… Non fu la vostra un’azione sessista e discriminatoria, banale e volgare?

«Non c’era nessuna allusione a temi sessuali. Nessuna. Anche perché, l’ho già detto e ripetuto, il sesso è di una noia estrema». 

Così divaghiamo. Tra poco si vota a Milano per il nuovo sindaco, lei è candidato con Giorgia Meloni, insomma siamo in campagna elettorale e…

«E senta, in considerazione della coincidenza temporale, questa mossa della Procura potrebbe apparire, diciamo, quantomeno casuale. Ma lasciamo perdere. Se i magistrati non si informano sulle sentenze, lo ripeto, della Corte costituzionale, non posso mica farci niente». 

A proposito, come va la campagna elettorale?

«E che ne so io, mica la faccio. Non ne ho voglia e non ci capisco niente. Ho l’età che ho. Sono un giornalista anche se il giornalismo di oggi… I giornalisti stanno tutto il giorno davanti al computer a rimbambirsi, nessuno va più sui fatti, così viene a mancare il pathos».

Che invece c’era, abbondante e minuzioso, quando lei, per esempio, era cronista anche di nera al Corriere. Una copertura maniacale della strada…

«Beh, io e gli altri venivamo dalla scuola di Dino Buzzati. Era un’altra epoca». 

Infatti torniamo a oggi. Ma se la scoccia così tanto, allora perché si è candidato?

«Avevo risposto a una richiesta di Giorgia in un mio momento di grave debolezza mentale. Oggi pomeriggio mi tocca perfino stare in Duomo alle cinque. Una gran rottura di palle».

Sempre oggi allo stadio Meazza c’è Inter-Atalanta.

«Appunto. Poi a una certa ora scappo. Secondo lei devo stare lì al comizio fino a sera?».

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 31 agosto 2021. Che fine ha fatto Dino Boffo, già direttore del quotidiano dei vescovi, Avvenire, e della televisione vaticana? Non lo so, di lui non trovo tracce, ma presumo sia in pensione avendo l'età per riscuotere l'assegno di quiescenza. A distanza di oltre dieci anni dalla disavventura che ci accomunò, mi piace ricordare come si svolsero e si svilupparono i fatti. La verità quando è calda nessuno la vuole fra i denti, oggi, a freddo, è addirittura digeribile. All'epoca dirigevo il Giornale (per la seconda volta) e un giorno il mio staff mi portò un documento, poi risultato fasullo, sul quale era scritto che Boffo aveva subìto una condanna lieve per molestie telefoniche. All'epoca il capo del quotidiano  cattolico era uso ad attaccare Berlusconi per la sua condotta con le donne, rimproveri che mi parvero fuori luogo poiché pronunciati da un signore che aveva avuto fastidi con la giustizia. La documentazione che mi venne sottoposta conteneva notizie fondate, tuttavia era tarocca nella forma. Del che non mi accorsi. Pertanto scrissi un pezzo per raccontare la vicenda, dicendo che Boffo non era abilitato a segnalare la pagliuzza negli occhi di Silvio quando anche lui, poveraccio, non era in regola dal punto di vista oftalmico. Il dì appresso scoppiò un casino infernale. Tutti mi attaccarono, perfino mia moglie, di solito generosa nei miei confronti. I colleghi della stampa in coro mi accusarono di essere il manovratore della macchina del fango perché avevo usato carte false per dare addosso al responsabile del foglio cristiano. Sulla circostanza che il verbale, sebbene non autentico, raccontasse un fatto vero, nessuno si pronunciò. Silenzio tombale. Le polemiche proseguirono settimane, intervennero pure varie televisioni, fui soggetto a un autentico massacro. Ricordo un Formigli scatenato nell'arte sovrana di denigrarmi, ma non mi scomposi, ero avvezzo a battagliare con i signorini della mia ex categoria moscia e appiattita sul conformismo più vieto. Mi resi conto che la realtà non vale nulla, prevale la correttezza burocratica. Allorché scoprii che il verbale non era originale per quanto riferisse fatti accaduti, mi affrettai a dirlo senza tanti giri di parole. Ciò che mi sorprese, lasciandomi basito, fu la constatazione che Boffo si dimise dalla direzione del suo foglio. E, caso ancora più strano, i vescovi accettarono tali dimissioni. Se io avessi raccontato balle che motivo c'era di fare uscire Boffo dal suo ufficio? Mi aspettavo che la Chiesa difendesse un suo uomo di cui dichiarava l'innocenza. Invece no. Accolse l'addio di Boffo senza fare una piega. Strano, no? Mi rassegnai a passare per uno spacciatore di melma. Ciò che viceversa non mi attendevo fu l'aggressione selvaggia del cosiddetto Ordine dei giornalisti il quale non ha mai digerito il mio successo economico: incassavo uno stipendio dieci volte superiore rispetto agli anonimi figuri che mi avrebbero giudicato senza avere titoli professionali decenti. Il processo si svolse in un clima surreale. Coloro che mi incolpavano con argomenti inconsistenti si atteggiarono a magistrati inflessibili, e la mia tesi difensiva venne ascoltata con sufficienza. Si impose il concetto che non importa il dettaglio da cui si evince che il giornalista ha scritto il giusto, prevale il particolare che il documento basilare non essendo ufficiale bensì una copia non andava preso sul serio. Capito l'antifona? Non è fondamentale che il cronista narri fedelmente la vicenda, deve piuttosto avvalersi di carteggi timbrati dalle autorità. Un non senso elevato a teoria. Risultato, mi fu rifilata una punizione enorme: sospensione di sei mesi dall'esercizio legale del mio lavoro. Praticamente condannato per un lungo periodo alla disoccupazione, il che contrastava con la Costituzione che fissa il diritto ad avere una occupazione. Naturalmente feci ricorso e in secondo grado, davanti a una nutrita assemblea di colleghi anonimi e storditi, i sei mesi di limbo furono ridotti a tre, che scontai senza avere alcuna macchia. Intanto il povero Boffo, persona perbene, aveva abbandonato il timone dell'Avvenire ed era in attesa di prendere in mano quello della emittente vaticana, che gli fu affidato di lì a poco. Paga sicura però ombra totale. Trascorrono un paio di anni, io continuo a scrivere sul Giornale che avevo rigenerato, insomma la vita va avanti senza che alcuno mi abbia torto un capello. A un certo punto viene divulgata la notizia che Dino è stato nuovamente sollevato dall'incarico. Motivo? Non si è mai saputo. Si dà il caso che lui sia sparito dalla circolazione. Mi dicono che viva in Veneto dove è nato. Di lui comunque si è persa traccia. I vescovi che durante la bagarre lo avevano difeso, negando il fatterello di cui egli si era macchiato, si sono nascosti dietro a un dito. Di Boffo, l'offeso immaginario, non si parla nemmeno all'oratorio. Io, il reo, sono ancora in pista e rompo le balle adesso come allora. Ci sarà un perché.

Antonio Padellaro per il "Fatto quotidiano" l'8 luglio 2021. Non è difficile prevedere che appena eletto a Milano con Giorgia Meloni, la prima dichiarazione di Vittorio Feltri sarà: mi sono già rotto le balle. Perché un consiglio comunale può essere tutto tranne che l'estremo rifugio dalla noia. Lì vi si trova infatti (per chi non maneggia la materia e il relativo materiale) il vellutato ricettacolo delle scartoffie, degli sbadigli, dell'aria viziata, dei passi perduti nel tedio. Fatti suoi si dirà se non fosse che la ritirata del giornalista più famoso (e meglio pagato) della destra è un segnale dell'insofferenza verso la svolta draghista imposta a Libero e al Giornale da proprietà interessate a non disturbare il manovratore. Nel primo caso, non è certo un mistero che la famiglia Angelucci chiamando Alessandro Sallusti a sostituire Feltri (e ad accantonarlo, dice lui citando varie scortesie sopportate anche perché quella testata è una sua creatura) abbia inteso garantirsi una linea meno diciamo così spericolata rispetto ai nuovi padroni del vapore e della Sanità pubblica sotto il cui ombrello essi da tempo immemore prosperano. Non un problema nuovo visto che nel 2016 l'allora direttore Maurizio Belpietro, non graditissimo al premier dell'epoca Matteo Renzi, e dunque ai cordoni della borsa, fu costretto a fare le valigie e a fondare La Verità con ottimi risultati (non tutto il Bullo vien per nuocere). Mentre al Giornale l'arrivo di Augusto Minzolini al posto di Sallusti non sembra aver turbato più di tanto il soporifero clima di unità nazionale (altra cosa il sobrio entusiasmo del Foglio che ieri titolava: "Viva il pragmatismo di Draghi", hip-hip-hurrà, lo aggiungiamo noi). Insomma, lo spirito del tempo, e di SuperMario, ha fatto lo shampoo a quel giornalismo un po' ribaldo e dai sapori forti che aveva le radici nelle scellerate fotocronache del Borghese di Gianna Preda. Cosicché Feltri, non potendo più dare cattivo esempio con i celebri titoli sulle "patate bollenti", che facevano incazzare la sinistra bigotta (con suo sommo gaudio), procurandogli grandinate di querele e denunce, adesso annuncia campagne contro monopattini e piste ciclabili. Dal codice penale al codice della strada.

Da leggo.it il 5 luglio 2021. Vittorio Feltri guiderà la lista di Fratelli d'Italia alle prossime elezioni amministrative di Milano. Lo ha annunciato la stessa numero uno del partito, Giorgia Meloni, nel corso della presentazione del suo libro a Palazzo Reale. «Sono estremamente fiera di annunciare, non solo che il direttore Vittorio Feltri ha deciso di iscriversi a Fratelli d'Italia, ma l'abbiamo anche convinto con facilità a guidare la nostra lista per le prossime amministrative a Milano» ha spiegato Meloni.

Alberto Mattioli per "la Stampa" il 7 luglio 2021. Va bene il Pediatra Ignoto, ma la vera notizia delle amministrative a Milano è Vittorio Feltri capolista di Fratelli d' Italia. Di seguito spiega perché (avvertenza fra parentesi: alcune sue espressioni non sono esattamente da educandato. Ma Feltri è così: prendere o non intervistare).

Feltri, da destra le avevano chiesto di correre come sindaco. Ha rifiutato. Perché sindaco no e consigliere comunale sì?

«Perché se fai il sindaco lavori venti ore al giorno tutti i giorni per uno stipendio ridicolo e con dei processi quasi inevitabili. Una rogna, insomma. Aggiungo che non ne sarei capace. Non so amministrare casa mia, figuriamoci Milano».

Invece, stando alle sue dichiarazioni, i consiglieri si grattano le p...

«Beh, forse ho esagerato, però in Consiglio si va una volta alla settimana. Quindi potrei continuare a fare il mio mestiere». 

Su quale giornale?

«Il mio: Libero». 

Ma se con il direttore Sallusti vi mandate a quel paese un tweet sì e l'altro pure.

«Diciamo che abbiamo avuto qualche discussione. Ma voglio vedere chi mi caccia». 

Torniamo alla politica, allora. I tre principali problemi da risolvere a Milano.

«Primo: le piste ciclabili. Bisogna regolarle meglio perché così paralizzano il traffico. Secondo: le zanzare a rotelle». 

Prego?

«Ma sì, quei cosi, come si chiamano: i monopattini. Pericolosissimi. Sono da disciplinare.

Chi ci va deve avere casco, assicurazione, patentino e quant' altro». 

Terzo?

«I clochard. Ce ne sono molti, anzi troppi, vivono per strada e specie d' inverno vederli fa male al cuore. Mettiamoli nelle case popolari dismesse, diamo loro un tetto, insomma facciamo qualcosa». 

Dunque lei un cuore l'ha, non è così cinico come si dice.

«Di str... su di me se ne dicono moltissime. Quello della gente che vive per la strada è uno spettacolo cui non riesco ad abituarmi». 

Che voto dà a Beppe Sala?

«Nemmeno la sufficienza. Il casino del traffico l'ha creato lui. Milano è una città sempre in movimento, sempre attiva: se blocchi il traffico, blocchi l'economia. Qui la gente viene per lavorare, mica per ammirare il Vesuvio». 

Non ricominci con i meridionali.

«Non ho niente contro il Sud. Constato però che il Nord se la cava meglio. Avere gli occhi non vuol dire essere razzista». 

È ufficiale: il suo candidato sindaco è Luca Bernardo. Lo conosce?

«Certo. Ha una rubrica su Libero da quindici anni e sono io che gliel'ho affidata. Come pediatra, è di una notevole bravura e il suo reparto al Fatebenefratelli è un modello. Fare il sindaco è un'altra cosa, ma di sicuro è una persona perbene e non un cogl...».

Crede davvero che con Sala se la possa giocare?

«Visto che secondo la classifica del Sole Sala è all' ottantunesimo posto nel gradimento dei sindaci, direi proprio di sì». 

Qual è stato il miglior sindaco di Milano?

«Avevo stima per Tognoli e ancora di più per Albertini. È lui che ha fatto di Milano una metropoli europea». 

Lei si è sempre professato liberale e adesso si iscrive a Fratelli d' Italia.

«Per la verità io una tessera l'ho già avuta, quella socialista. Ma erano gli Anni Sessanta e la presi solo per reazione, perché a Bergamo erano tutti dei democristiani baciapile.

Uscii nel '68 quando capii che il Psi non era più un partito ma un casino. Adesso sono in FdI, che c'è di strano?». 

La storia di Meloni e dei suoi Fratelli non è esattamente liberale.

«Ancora con il fascismo? No, dai. È tutta propaganda di sinistra. Il fascismo non c'è più, ma visto che per fare gli antifascisti ce n'è bisogno, lo si inventa. Io ho stima e ammirazione per Giorgia Meloni». 

Berlusconi e Salvini cosa hanno detto della sua conversione?

«Non lo so, non li ho sentiti. Stimo Berlusconi perché mi ha migliorato la vita. Salvini mi è simpatico ma adesso gli sto sui c... io, da quando sono andato in tivù a dire che non capivo perché prima ha fatto un governo con i grillini poi l'ha fatto cadere e adesso è di nuovo al governo con loro». 

Fra Conte e Grillo chi è peggio?

«Certamente Conte. Grillo ha fondato un movimento basato sul vaffanculo, che quindi non poteva che finirci. Ma almeno mi è simpatico. Anche quando difende suo figlio». 

Andando con Meloni, lei è all' opposizione di Draghi.

«Lo stimo moltissimo, anzi è un amico personale. La realtà è che mi sono iscritto a FdI perché non sopporto più il sinistrismo modaiolo e politicamente corretto». 

Il miglior politico italiano?

«Che domanda: Giorgia». 

Intendevo a parte lei.

«Matteo Renzi, che sta sulle p... a tutti ma a me piace. Ha fatto cadere Conte e adesso si sta dando da fare anche con lo Zan. Viene dalla scuola democristiana, una garanzia». 

Quanti voti vale Feltri?

«Non ne ho idea. Sono curioso di saperlo anch' io». 

Ultima domanda: cos' è questa storia che anche lei, come Muti, è stanco di vivere?

«Non l'ha detto né lui né io. Abbiamo detto che il mondo attuale non ci piace, non che non vogliamo restarci. Del resto io ho 78 anni, una buona salute e nessuna voglia di sparire. A parte tutto, suicidarmi sarebbe faticoso». 

"Non è un lavoro, è una collaborazione". Vittorio Feltri capolista di Fratelli d’Italia a Milano: “Via piste ciclabili e monopattini”. Redazione su Il Riformista il 5 Luglio 2021. “Conosco Giorgia Meloni da molto tempo, vado d’accordo con lei, non sono appassionato particolarmente di politica ma quando mi ha chiesto la disponibilità a candidarmi, ho detto di sì. Se me lo avesse chiesto qualsiasi altro, non avrei accettato”. Dopo l’annuncio di questo pomeriggio dato da Giorgia Meloni, Vittorio Feltri commenta con l’Adnkronos come è arrivato a prendere la decisione di iscriversi a Fratelli d’Italia e guidare la lista di Fdi alle prossime elezioni amministrative così come annunciato nel tardo pomeriggio dalla stessa Meloni (“Sono estremamente fiera di annunciare non solo che il direttore Vittorio Feltri ha deciso di iscriversi a Fratelli d’Italia, ma anche e soprattutto che abbiamo convinto con facilità il direttore a guidare la lista di Fratelli d’Italia alle prossime elezioni amministrative”. “Ho deciso nello spazio di un giorno -rivela- Anche perché, quando si era fatto il mio nome come sindaco, avevo subito detto di no. Ma come consigliere lo posso fare, non la trovo una cosa così devastante per la mia vita -scherza- Aggiungo un’occupazione ad un’occupazione che ho già. Continuerò a fare il direttore editoriale di Libero, perché il consigliere non è che sta lì tutto il giorno. Non è un lavoro, è una collaborazione”, spiega. Sugli obiettivi che si propone da consigliere, Feltri ha le idee chiare: “Io avrei soltanto un paio di obiettivi molto forti: quello di eliminare le piste ciclabili che hanno paralizzato la città, di combattere i monopattini e cercare di restituire a Milano un’immagine anche esteriore che sia migliore di quella che è stata disegnata nell’ultimo anno e mezzo con il Covid. Milano in fondo è rimasta la prima città italiana, cerchiamo di ribadirlo”. Perché per Feltri “Milano è una città che funziona, si tratta di farla funzionare meglio. Mi auguro di poter dare il mio contributo se non riuscirò pazienza”. Sembra ormai al capolinea la ricerca del candidato sindaco del centrodestra a Milano. Sulla città amministrata da Giuseppe Sala, in campo ormai da tempo a caccia del bis, si concentrerà in particolare il vertice della coalizione, in programma nel primo pomeriggio di martedì a Roma. Dopo una serie di porte girevoli con diversi nomi entrati e usciti di scena nelle ultime settimane, da Oscar di Montigny ad Andrea Farinet passando per Alberto Rasia dal Polo e Gabriele Albertini, su Luca Bernardo, pediatra di 54 anni, direttore del dipartimento Materno-infantile Fatebenefratelli, ospedale milanese fiore all’occhiello, c’è anche il via libera di Fratelli d’Italia. Se è assicurato quello della Lega e di Matteo Salvini, primo sponsor del medico, dai vertici di Forza Italia non c’è ancora un sì o no netto. Sta di fatto che Giorgia Meloni, a Milano per presentare il suo libro “Io sono Giorgia” a Palazzo Reale, ha approfittato dell’occasione per incontrare in forma privata proprio Bernardo. “Mi ha fatto un’ottima impressione. È sicuramente un profilo di grande serietà e umanità, da madre non posso che avere una passione per un pediatra. Chiaramente bisognerà parlarne con il resto della coalizione, ci vedremo nelle prossime ore. Confronterò le mie impressioni, che sono sicuramente ottime, con quelle degli alleati”.

Da tpi.it l'1 luglio 2021. Il filosofo e accademico Paolo Becchi conclude oggi la sua collaborazione con Libero Quotidiano. “Termina oggi la mia collaborazione con @Libero_official. Ringrazio @vfeltri per aver sempre pubblicato i miei articoli, anche quando non era d’accordo. „The rest is silence“”, scrive il professore su Twitter. Una notizia che non piace al fondatore di Libero. Vittorio Feltri twitta: “Il prof Becchi, uno dei pochi intellettuali che non fa escursioni sugli specchi, non è più un prezioso collaboratore di Libero. Non gli è stato rinnovato il contratto. Guai ai bravi”. Una dichiarazione, quella di Feltri, che sembra più una bacchettata al nuovo direttore Alessandro Sallusti.

Estratto dell’articolo di Antonello Caporale per il “Fatto quotidiano” il 3 luglio 2021.

Oggi intervistiamo il peso morto Vittorio Feltri, 78 anni ben portati.

Peso morto l' ho scritto io. […] 

Forse Sallusti ti caccia, mettiamolo in conto.

E che problema c' è? Fa il duce, c' è qualcosa che non quadra. 

Ti sei messo di traverso, poi a lui stai sul gozzo.

Sto sul gozzo l' ho scritto io. […] 

Capisci da te che ti caccerà.

Ma sai quanti anni ho? Brrr che paura. […] 

E perché diavolo adesso non riuscite più a fare gli amiconi?

Noto che da quando ha pubblicato con successo il libro che gli ha dettato Palamara, ha mutato atteggiamento. 

Un pizzico più algido?

Da qualche giorno non mi arriva la nota di giornata. Come sai, arrivo in redazione sempre verso le 10.30 ,leggo la nota e parto col lavoro. Io ho sempre fatto i giornali scegliendo tre notizie dalla nota. Sceglievo e indicavo. Qui naturalmente do consigli, se richiesti. Ma vedo che non sono richiesti. 

Senza nota sei come un gattino cieco.

Ho gli occhi aperti, guardo il giornale, vedo le cose che non vanno e lo dico. Che male c'è? Non mi sembra di aver esagerato. Senaldi non è un genio e si sa. E poi mica ho detto che Sallusti è cornuto? 

Se non avessi venduto Libero. La tua ossessione per i soldi ti ha tradito.

Guarda che io cercavo un socio, ma gli Angelucci volevano un giornale tutto per sé. Sono abituati a fare i padroni. […] 

Ti cacciano.

Possono farlo, se credono. […] 

Qualche giorno fa ho letto un tuo tweet sentimentale, una carezza scritta a tua moglie. Insolito per te.

Stiamo insieme da 53 anni e mi sono accorto che cosa significhi dire: lei è la mia metà. 

È bello sentirtelo dire.

Niente smancerie o sentimentalismi tra noi. Però poi, nel tragitto che ti porta lontano, resta il fatto che la tua vita completa la sua, e quella sua è linfa per la tua. E quando a ottobre lei è stata male, anch' io non sono stato bene. Mi sono finanche detto: se muore mi sparo.

Il nuovo corso del giornale nel mirino. Feltri contro Sallusti per i giornalisti licenziati da Libero: “Gli sto sul gozzo, cacciati i più bravi”. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Luglio 2021. Tira una bruttissima aria all’interno della redazione di Libero, il giornale che dallo scorso 14 maggio vede come direttore responsabile Alessandro Sallusti, affiancato dal condirettore Pietro Senaldi. A cannoneggiare contro la gestione di Sallusti è Vittorio Feltri, che di Libero è il fondatore. In una carrellata di cinque tweet, pubblicati a distanza di poche ore nel pomeriggio odierno, Feltri demolisce le recenti scelte editoriali prese dal suo "erede" Sallusti, in particolare la scelta di non rinnovare alcuni contratti a note firme del giornale edito dalla famiglia Angelucci. Feltri inizia con l’addio alla collaborazione del professore Paolo Becchi, considerato “ideologo” del Movimento 5 Stelle ma che negli anni è stato anche una firma del giornale di area opposta a quella pentastellata. Feltri lo definisce “uno dei pochi intellettuali che non fa escursioni sugli specchi, non è più un prezioso collaboratore di Libero. Non gli è stato rinnovato il contratto. Guai ai bravi”.

Il prof Becchi, uno dei pochi intellettuali che non fa escursioni sugli specchi, non è più un prezioso collaboratore di Libero. Non gli è stato rinnovato il contratto. Guai ai bravi. — Vittorio Feltri (@vfeltri) July 1, 2021

Ma Feltri alcune ore dopo si scatena e parte con una raffica di tweet al veleno in difesa di altri giornalisti che non troveranno più spazio nelle colonne del quotidiano diretto da Sallusti. Si parte da Costanza Cavalli, “brillante e colta cronista di Libero, è stata licenziata. Ovvio. I giornalisti bravi vanno cacciati, quelli scadenti hanno il posto fisso. Questa è la regola nuova”.

Anche Costanza Cavalli, brillante e colta cronista di Libero è stata licenziata. Ovvio. I giornalisti bravi vanno cacciati, quelli scadenti hanno il posto fisso. Questa è la regola nuova. — Vittorio Feltri (@vfeltri) July 1, 2021

Quindi il passaggio ad una firma molto nota ai lettori di Libero, Azzurra Barbuto: “Presto licenzieranno anche Azzurra Barbuto perché ricca di talento.  Questo è il nuovo corso inaugurato a Libero”. Ipotesi confermata dalla stessa Barbuto, che sempre su Twitter esce allo scoperto e rivela il suo addio al giornale, in predicato di passare ai ‘rivali’ de La Verità di Maurizio Belpietro: “Grazie a tutti per la solidarietà. Non so cosa accadrà in futuro, mi basta però sapere che finché ho una testa sulle spalle non devo temere nulla. Neppure la disoccupazione. Mi spaventa di più la perdita della dignità rispetto alla perdita dell’impiego”, scrive Barbuto.

Presto licenzieranno anche Azzurra Barbuto perché ricca di talento. Questo è il nuovo corso inaugurato a Libero. — Vittorio Feltri (@vfeltri) July 1, 2021

Feltri passa poi ad ‘esaminare’ il suo stesso caso, spiegando che anche lui a Libero è considerato “un peso morto”. Quanto a Sallusti, “che ho assunto tre volte”, ricorda Feltri, “sto sul gozzo”. “La gratitudine è il sentimento della vigilia. Mi aspetto il benservito con calma olimpica”, conclude quindi il fondatore di Libero.

Anche io a Libero sono considerato un peso morto, a Sallusti, che ho assunto tre volte sto sul gozzo. La gratitudine è il sentimento della vigilia. Mi aspetto il benservito con calma olimpica. — Vittorio Feltri (@vfeltri) July 1, 2021

Ultima stoccata è dedicata quindi al condirettore Pietro Senaldi, in passato direttore responsabile proprio sotto la sua gestione. Senaldi viene tirato in ballo per un refuso: “Libero di oggi, pagina 16, titolo su Cosby liberato: l’attore ha scontato due anni. La penna (non la pena) annullata. Complimenti a Senaldi”. 

Libero di oggi, pagina 16, titolo su Cosby liberato: l’attore ha scontato due anni. La penna (non la pena) annullata. Complimenti a Senaldi. — Vittorio Feltri (@vfeltri) July 1, 2021

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Concetto Vecchio per repubblica.it il 2 luglio 2021.  

Vittorio Feltri, è vero che la cacciano da Libero?

"Me lo aspetto". 

Ha scritto "che sta sul gozzo" al nuovo direttore, Alessandro Sallusti.

"È la verità. E non capisco perché. L'ho assunto quattro volte, lo stimo, ma adesso si comporta come se fosse un duce, considerandomi poco più che un soprammobile. Normale che ci sia rimasto male". 

Come lo spiega? Lei è pur sempre il fondatore di Libero.

"E che cavolo ne so. La prima volta l'ho assunto al Quotidiano nazionale, poi volle andare a dirigere L'Ordine di Como, e non andò bene, e quindi me lo sono ripreso a Libero, e poi l'ho voluto con me al Giornale, come condirettore. C'era piena armonia. Vai a capire". 

Però lei scrive ancora sul giornale.

"E vorrei vedere il contrario. Di certo non sarò io a togliere il disturbo". 

Sallusti come ha reagito ai suoi tweet?

"Zero reazioni. Sono ancora il direttore editoriale e vorrei continuare a fare il mio lavoro". (…) 

Lei passava per tombeur de femmes.

"Così dicono. Ma ormai sono vecchio e la penso come Luciano De Crescenzo: la fatica è tanta, il piacere dura poco e la posizione è ridicola". (Ride) 

Qual è la dote principale che deve avere un giornalista?

"La curiosità. Se non sei potentemente curioso dei destini degli altri è meglio nemmeno cominciare". 

Quali firme preferisce?

"Aldo Cazzullo e Giampiero Mughini". (…) 

Cosa pensa di Draghi?

"È amico mio. Ci vedevamo regolarmente al Hotel Principe di Savoia a Milano per chiacchierare, c'era simpatia reciproca. È bravissimo. Ma governa una maggioranza che fa schifo". (…) 

Libero non ha fatto titoli vergognosi nei confronti delle donne?

"Quale? Patata bollente su Virginia Raggi? Era già stato fatto per Ruby, ma nessuno aveva fiatato, per la Raggi è venuto giù il mondo. Patata bollente nel dizionario vuol dire grossa grana". 

Ma lei intendeva un'altra cosa, suvvia.

"Era un titolo spiritoso, dai". (…) 

Il duello Grillo-Conte la diverte?

"Neanche un po'". 

Come finirà?

"Grillo ha fondato un partito su una base ideologica un po' fragile, il vaffanculo, è chiaro che un partito alla fine vada a quel paese". (…) 

Perché non riesce finalmente a godersi il successo?

"Il successo è sopravvalutato, come il sesso del resto".

Dagospia il 2 luglio 2021. Dall’account Twitter di Vittorio Feltri. Melania Rizzoli è una donna intelligente che stimo molto. Peccato che soffra di una gelosia tribale, lei frequenta gli sbirri e si arrabbia se io frequento per lavoro alcune giornaliste. Mi ha bloccato sul cellulare in puro stile Barbuto.

Dal Corriere della Sera il 26 giugno 2021. «Sì, ho ricevuto qualche segnale in questo senso...». Vittorio Feltri lascia la frase appena un po' in sospeso. Poi la conclude: «Ma siccome per adesso non c' è nulla di concreto, mi limito a sorridere». La cosa nell' aria era che il candidato sindaco di Milano potesse proprio essere il direttore editoriale di Libero, magari con Gabriele Albertini come vicesindaco. Anche se poi Matteo Salvini ha tracciato l'identikit di un professore universitario e anche imprenditore del sociale con cui avrebbe parlato giovedì sera e di cui dice un gran bene. 

Direttore, però il suo no non sembra proprio un no.

«Beh, in effetti la cosa mi solletica. Anzi, più che solleticarmi, mi lusinga. Sarebbe un riconoscimento dopo tutti questi anni. Però, sa: io non sarei capace di amministrare un condominio, figuriamoci un po' Milano».

Feltri, perdoni: il suo profilo in qualche modo non torna. Ci era stato detto che il candidato doveva essere civico perché più adatto a catturare il consenso degli elettori meno ideologizzati. Lei è sì civico, ma indiscutibilmente di centrodestra.

«È vero. Anche se nella mia vita io sono stato anche di sinistra. Negli anni sessanta, a Bergamo, ero socialista. Allora là era tutto controllato dalla Democrazia cristiana, ma a me non è mai piaciuto stare nel gruppo. Devo dire che nel Psi in quegli anni mi ero anche trovato bene, poi però è arrivato il '68 e tutto è diventato un casino». 

Dica la verità. Non le piacerebbe fare il sindaco di Milano?

«Ripeto, che si sia pensato a me, mi ha lusingato. Però, mi rendo anche conto di non essere la persona più adatta. Io non ho mai fatto una campagna elettorale in vita mia, non so come si faccia. E poi, oltre a fare la campagna, bisogna anche vincere le elezioni. E quando le vinci, lo stipendio lascia a desiderare. Ma il fatto è che io non ho mai amministrato proprio niente». 

Beh, lì potrebbe aiutare parecchio l'esperienza di Gabriele Albertini, che il sindaco ha dimostrato di saperlo fare per quasi dieci anni.

«Giusto. Sa una cosa? Potrei chiedere a lui di fare tutto - scherza - io eserciterei il potere di indirizzo: vado lì, faccio un paio di discorsi e vado...».

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 17 giugno 2021. Qualche giorno addietro ho scritto per Libero un articolo sul conformismo politico, che ha radici profonde e antiche, quindi esso non costituisce una novità di questi ultimi tempi grami. Nel pezzo ricordavo che, allorché venni nominato diretto- re dell'Europeo, autorevole settimanale Rizzoli, la redazione istituì un comitato di accoglienza che contro di me, essendo io anticomunista, cioè non di sinistra, indisse uno sciopero di due mesi, record mondiale. Vorrei aggiungere un altro episodio di cui fui dolorosamente protagonista, il quale conferma che ieri quanto oggi avere convinzioni politiche diverse da quelle in voga, ovvero non progressiste, procura soltanto guai e sottopone a campagne di sputtanamento feroce da parte di sedicenti intellettuali. E vengo al punto. Verso la fine del 1993 Silvio Berlusconi, constatata la crisi dei partiti provocata da Mani Pulite, ebbe l'idea di fondare un partito che rimpiazzasse la moribonda Dc e il moribondo PSI. Io non conoscevo il Cavaliere e, quando ricevetti una sua telefonata, rimasi di stucco. Mi fece i complimenti per il quotidiano che dirigevo, l'Indipendente, in forte crescita, poi mi invitò a pranzo. Mi recai a Villa San Martino, Arcore, dove fui ricevuto dal maggiordomo, il quale mi fece accomodare in casa, informandomi che il signor padrone si era recato nel vicino eliporto per accompagnare un grande personaggio. Aggiunse: «Se vuole, percorra questo vialetto, così gli andrà incontro». Lo ascoltai e mi incamminai finché vidi Silvio che stringeva la mano a Gianni Agnelli in procinto di salire sul velivolo. Scena memorabile che osservai senza intromettermi. Poi Berlusconi mi raggiunse e rientrammo nella sua dimora. Mi parlò a lungo della intenzione di scendere nell'agone politico con una neonata formazione, tuttavia ignorava a chi affidarne la realizzazione. Mi fece il nome di Segni, poi quello di Martinazzoli. Mi pregò di fornirgli un parere e gli spiegai che il primo mi sembrava troppo tenero e il secondo troppo somigliante a un cipresso, benché molto intelligente. Precisai che l'unico in grado di guidare una esordiente forza politica era egli stesso. «Perché?», mi domandò. Risposta: «Ho fatto un sondaggio per sapere quale fosse l'Italiano più ammirato e lei è risultato al primo posto». Socchiuse gli occhi, e di lì a qualche giorno annunciò di essere il capo di Forza Italia. Da notare che Forza Italia era stata la denominazione di una trasmissione televisiva organizzata dal portiere dell'Inter, Walter Zenga, dal giornalista Nicola Forcignanò e dal sottoscritto. Controllare per credere. Quando Montanelli apprese che Silvio oltre a varie aziende si era regalato un partito, montò su tutte le furie e cominciò a meditare di lasciare l'impresa editoriale che si era costruito. E la abbandonò rendendo vacante la direzione. Si trattava di individuare un degno sostituto. Mica facile. Nella più totale disperazione della amministrazione la scelta cadde su dime. Tentennai. Temevo di far rimpiangere il vecchio Indro nel giro di due o tre giorni. Alla fine, attratto dal compenso, firmai un contratto di lusso. E come i media furono al corrente della cosa si scatenò il finimondo. Me ne dissero di ogni colore. L'espressione più gentile che la banda dei conformisti di sinistra mi dedicò fu la storpiatura del mio nome, che divenne Littorio Feltri. Fui bollato come fascista, venduto a Berlusconi, lacchè. Gli insulti che mi rivolsero furono travolgenti. Naturalmente abbozzai. Concita De Gregorio, inviata rossa de la Repubblica, vergò un pezzo su di me dipingendomi come un buzzurro che osava violare la poltrona del più grande giornalista italiano vivente, e mi prese in giro poiché da ragazzo avevo lavorato in un negozio come apprendista commesso. Lavorare nelle ore diurne e studiare in quelle notturne per Concita è un'onta alla signorilità. Ingoiai parecchi rospi e non appena presi in mano il timone della baracca di via Negri ricevetti una cinquantina di lettere di dimissioni: mezza redazione si accodò a Montanelli allo scopo di fondare la Voce con il dichiarato proposito di ammazzare il Giornale. Si scatenò una guerra tribale fra i due gruppi editoriali. Finché un dì Indro ebbe la cattiva idea di accogliere l'invito a presenziare alla festa dell'Unità, dove venne fotografato con alle spalle una gigantografia della Quercia, simbolo del partito postcomunista. Pubblicai l'immagine con molta evidenza in prima pagina. Di qui la svolta: la Voce perse un mare di copie davanti alla prova visiva che Montanelli aveva virato sui progressisti, e il mio foglio tremebondo si trasformò in un gigante di carta. Le nostre vendite superarono quota 200 mila. Il pubblico conservatore non tollerò che il fondatore del Giornale avesse cambiato bandiera. E tornò all'ovile. La sinistra intanto, dopo aver bistrattato per vent' anni il mitologico difensore della borghesia, ne divenne la principale sostenitrice in odio a Berlusconi. Un aneddoto di molto tempo fa. Fortebraccio, ottimo rubricista dell'Unità, vergò un corsivo velenoso contro quello che amava definire Cilindro. La frase più offensiva fu questa: «Montanelli scrive per le portinaie». All'improvviso, poiché questi si scagliava contro Silvio in ogni occasione, Indro fu portato in trionfo dai compagni. Il che non impedì alla sua creatura di crepare nella primavera del 1995. A decesso avvenuto, Panorama intervistò l'immenso prosatore di Fucecchio. Quesito: «Quando sfoglia il Giornale di Feltri che in edicola sbaraglia cosa pensa?». Risposta: «Mi sembra di avere un figlio drogato, che vellica i peggiori istinti del pubblico». Mia replica: «Esattamente come ha sempre fatto Indro»

Dagospia il 24 maggio 2021.1 - DALL'ACCOUNT TWITTER DI AZZURRA BARBUTO. Sì, sono sparita dalla prima pagina ma mi trovate all’interno. Per ora. Non mi lasciate.  

Francesco Battistini per il "Corriere della Sera" il 24 maggio 2021. E dopo il Giornale, Libero, ancora il Giornale, di nuovo Libero e poi il Giornale e un' altra volta Libero, il settantottenne Vittorio Feltri lascia il quotidiano che fondò ventun anni fa «L'ho letto anch' io sul Fatto. Strano articolo. Ma basta prendere Libero e guardare: c'è scritto che il direttore editoriale sono io. Poi per carità, magari stanotte muoio e non lo sono più».

Dicono che Sallusti abbia già tolto dalla prima pagina le firme feltriane.

«Ma chi se ne frega se vanno in prima o a pagina 6! Quando stavo al Corriere, se finivo a pagina 16 mica me la menavo».

Lei però è in scadenza.

«Non è vero. Sto andando in redazione a scrivere. I titoli non li faccio più io, certo, anche se forse li farei meglio. Ma l'altro giorno sono andato a pranzo all' osteria Cavallini con gli Angelucci, i miei editori, e c'era anche Sallusti. Non abbiamo parlato di contratti, visto che non ne ho mai avuto uno. Io sto nel cda, mi sono dimesso dall'Ordine dei giornalisti. Chi oggi mi chiama giornalista, lo querelo».

I suoi contratti sono principeschi.

«Ho accumulato un patrimonio che mi permette di trascorrere due vite senza lavorare. È una colpa? Se gli editori mi pagano bene, ci sarà un motivo».

Com'è la convivenza con Sallusti? Ci fu il caso Boffo, quella velina avvelenata sul direttore di Avvenire.

«Le nostre ruggini sono d'epoca antidiluviana. Il caso Boffo mi danneggiò, è vero, ma il risultato ora è che Boffo è sparito e io sono ancora qui a ispirare articoli fantasiosi su di me. L'editore, l'ho obbligato io a prendere Sallusti. Marina Berlusconi è incavolata nera per il deficit del Giornale , ma tutti noi siamo nei guai. Il mercato e i social hanno affondato la carta stampata e sopravviviamo perché ci comprano i vecchi. Purtroppo, il Covid ce ne ha ammazzati tanti».

Ma come mai, voi direttori di destra, siete sempre gli stessi?

«La stampa italiana è d'un conformismo mostruoso. Il Paese è diviso a metà, ma la maggioranza degli editori, per moda, se non sta a sinistra si sente male. Dall' altra parte siamo pochini. Anch' io da ragazzo ero di sinistra con idee di destra. Ora sono di destra con idee di sinistra. Per esempio sul fisco: sono per rendere note tutte le dichiarazioni fiscali e creare un controllo sociale».

Se la cacciassero scriverebbe, chessò, per Travaglio?

«Lo stimo. Sono anche amico di Padellaro. Ma i 5 Stelle mi stanno sulle palle. Comunque, noi della stampa ormai siamo di serie B. Da quando c'è la dittatura d' internet, stiamo tutto il giorno a farci ipnotizzare dal computer, autoreferenziali. E pochi ormai alzano il culo. Cito solo la cronaca nera, che è un romanzo. Una volta la faceva Buzzati, la seguivamo per settimane. Prenda invece il caso di Benno, il ragazzo di Bolzano che ha ucciso i genitori: già archiviato. Il vecchio Nutrizio, alla Notte, mi diceva: se non riesci a far funzionare il cervello, consuma almeno le scarpe».

Allora le resterebbe la tv.

«Non ho simpatia. Questa mania d'esporsi è una malattia. Io non ce l'ho: quando m'invitano, sbuffo. Vado solo da Giordano perché l'ho assunto io e m'è simpatico. O da Myrta Merlino, che conosco da una vita».

C'è qualcuno che intervisterebbe?

«Le interviste sono articoli rubati. Però farei un'eccezione per Dio, per chiedergli: ma chi te l'ha fatto fare?».

Una volta prese 46 voti alle elezioni per il Quirinale. Pronto a succedere a Mattarella?

«No. Si guadagna troppo poco».

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 28 aprile 2021. Dialogare con Vittorio Feltri ha uno strano effetto liberatorio, soprattutto in un periodo come quello attuale in cui le parole devono essere utilizzate con particolare cautela. Pena: la riprovazione, se non addirittura la cancellazione sociale (la famosa cancel culture). Il direttore editoriale di Libero, invece, le usa tutte – anche le apparentemente più scorrette – con una innata disinvoltura. D’altronde, spiega, “non si può fare la guerra al dizionario”. E lo dice riferendosi all’Ordine dei giornalisti che considera “più che un ente inutile un ente dannoso”. Come quando commenta la sentenza di assoluzione per il giornalista Massimo Fini, che definì Berlusconi in vari articoli “delinquente, terrorista, pregiudicato, malavitoso”, non si capacita del perché verso l’ex Cavaliere sia consentito utilizzare certi termini “e io non posso dire liberamente la parola frocio”. Sembra quasi che in questa battaglia di liberazione delle parole si ispiri allo stand-up comedian Lenny Bruce, che un giorno salì sul palco esordendo in questo modo: “C’è qualche negraccio qui stasera?”, per poi arrivare a spiegare che “è la repressione di una parola quello che le dà violenza, forza, malvagità. Se il presidente Kennedy (erano gli anni 60) apparisse in televisione e dicesse: Vorrei farvi conoscere tutti i negri del mio gabinetto, e se continuasse a dire negro, negro, negro a tutti i neri che vede, finché negro non significherà niente, mai più; allora non vedreste piangere un bambino di sei anni perché l’hanno chiamato negro”. Quell’utopia è rimasta tale, anzi, non è mai apparsa così lontana. Eppure, Feltri sembra fregarsene continuando a dire quello che pensa con le parole che trova stampate sul dizionario. E così, anche l’epiteto “terrone” precisa di non averlo utilizzato in modo discriminatorio, “al massimo un po’ scherzoso”, quando sosteneva di non credere al complesso di inferiorità del Sud perché effettivamente “in molti casi è inferiore” ribadendo che intendeva sottolineare “il tessuto economico molto debole a causa della criminalità”. Nell’intervista che ci ha concesso non ha poi mancato di esprimere perplessità sulla proposta della scrittrice Dacia Maraini di riaprire il caso Pasolini (ieri su La Stampa) perché “non mi sembra ci siano tante cose da aggiungere” e nello stesso modo si è detto contrario al disegno di legge Zan per inasprire le pene verso l’omofobia: “Una aggressione a un omosessuale è più grave di quella a un chierichetto?”. E infine, parlando di giornalismo – dopo aver tuonato contro l’Ordine “che invece di proteggere i giornalisti li punisce” e aver bacchettato i giovani colleghi “che non seguono più la cronaca sul campo” – ci ha confessato che “mi piacerebbe aprire un mio sito, ma purtroppo sono “tecnologicamente un analfabeta”.

Direttore, Dacia Maraini ha chiesto di riaprire il caso sulla morte di Pier Paolo Pasolini, utilizzando le nuove tecniche a disposizione oggi degli investigatori. Cosa ne pensa?

Che sia veramente fuori luogo riprendere dei fatti che risalgono a moltissimi anni fa. Sul caso Pasolini non mi sembra che ci siano tante cose da aggiungere. Sappiamo che era andato in quel luogo per fare quel che gli piaceva fare… sono affari suoi, non c’è niente di moralistico in quello che dico. Poi c’è stato quel famoso contrasto con il ragazzo e sappiamo come è andata a finire. Non capisco cosa si potrebbe trovare di nuovo in una vicenda del genere che non ha altra spiegazione se non quella che è già stata data.

Nel 2015 lei non fu tenero in un suo articolo su Il Giornale verso la figura del poeta: “Pasolini un simbolo che scrisse banalità”. Ne è ancora convinto?

Mi riferivo all’articolo sui poliziotti che scrisse sul Corriere della Sera, dicendo che sono figli del popolo. La scoperta dell’acqua calda! L’abbiamo sempre saputo tutti che uno non va a fare il poliziotto se ha una famiglia in grado di assicurargli un avvenire migliore. Fare l’ufficiale è un’altra storia, ma a lavorare nell’ordine pubblico sono quasi tutti figli del popolo. Cioè di gente modesta, non c’è niente di male. Per cui, in affetti quell’articolo fece scalpore a sinistra e non solo, ma dov’era la novità? Si sapeva da sempre che nelle forze dell’ordine vanno i poveracci. Non era una critica a lui come poeta, scrittore e regista perché su quello non si può denigrare visto che ha avuto la sua grandezza, non c’è dubbio. Ma quando scopre l’acqua calda, bisogna dirlo…

Sul quotidiano La Verità, lo scrittore Walter Siti ha invece rilasciato una lunga intervista, dove ha criticato gli scrittori mainstream Saviano, Murgia e Carofiglio. Li ha accusati di utilizzare la letteratura per dare valore alle loro convinzioni sociali e politiche. È d’accordo con Siti?

Credo che le cose siano sempre andate quasi sempre così. Anche in passato gli scrittori cercavano di seguire l’onda della moda per avere il riscontro delle vendite dei loro prodotti. Non mi sembra stupefacente. Possiamo criticare le forme eccessive al conformismo corrente, ma non è un fenomeno di oggi. È sempre stato così e penso che sempre sarà così. Gli scrittori vivono del loro lavoro e se questo non cavalca l’onda corrente non produce quel reddito che si aspettano. Si adeguano all’andazzo ed è qualcosa di consolidato. Mi fa sorridere, ma è così.

 Per caso ha letto sul Fatto l’articolo di Massimo Fini, che lei conosce bene, il quale ha risposto a Il Giornale e Libero che lo hanno attaccato nonostante la sentenza di assoluzione per aver scritto di Berlusconi in vari articoli “delinquente, terrorista, pregiudicato, malavitoso”. Ha detto che “per me vale una presunzione di colpevolezza anche se un tribunale mi ha dichiarato innocente”.

Quello che decide la magistratura, piaccia o non piaccia, va accettato. Per cui, di Berlusconi si può dire di tutto: che è un delinquente e un mascalzone. E il fatto che Fini sia stato assolto non mi dispiace, perché sono contro questo querelume, cioè la mania di querelare chiunque dica un concetto che non viene accettato da tutti. Fini lo conosco da anni, è uno bravo, con delle uscite un po’ stravaganti e a volte offensive, ma non importa. Però mi chiedo: come mai si assolve Fini per certi termini, mentre a me hanno rotto tantissimo le palle perché ho scritto che nel governo Conte prevalevano i terroni?

Non era offensivo?

Ma no, al massimo un po’ scherzoso… Non c’era niente di crudele. E invece mi hanno distrutto. Poi perché ho detto in Tv che non credo ai complessi di inferiorità del Sud, perché in molti casi è inferiore. Ma è evidente che il tessuto economico è molto debole anche a causa della criminalità. È ovvio che ci sia criminalità anche a Milano, ma non c’è un allevamento qui, ci arrivano da fuori. Oppure se un omosessuale lo chiamo “frocio” mi processano. Allora bisogna usare lo stesso metro di misura per tutto. Infatti, non capisco perché Berlusconi possa essere definito delinquente e io non possa dire “frocio”. Che senso ha?

Nel giugno 2014 lei prese la tessera di Arcigay, affermando dalle pagine de Il Giornale: "Noi siamo per la libertà, senza discriminazioni, convinti che sia necessario superare i pregiudizi che generano equivoci, banalità, insulti noiosi e stupidi". Oggi però non si è dichiarato a favore della legge Zan, come mai?

Mi sembra inutile, perché le aggressioni sono già punite dalla legge italiana, senza distinguere se l’aggressione viene fatta a me, a mio cugino o a un omosessuale. Le aggressioni sono aggressioni e vanno punite, punto a basta. Perché dobbiamo fare leggi speciali? L’aggressione all’omosessuale è più grave di quella a un chierichetto? È un discorso giuridico più che ideologico. Del resto, non me ne frega niente. Io sono contrario che si facciano aggressioni a chiunque, non solo agli omosessuali. E non mi pare che la categoria sia oggetto di chissà quali assalti.

Alcuni episodi si sono registrati e le associazioni Lgbt dicono che sono in aumento.

La gente viene aggredita per strada tutti i giorni e nessuno dice niente. Che differenza c’è tra l’assalto a un pensionato che esce dalla posta o a un omosessuale che passa per strada?

Ieri nel suo editoriale su Libero ha bacchettato i giornalisti, perché “non si occupano più della cronaca nera, se ne stanno davanti il computer a rimbambirsi”.

Purtroppo è così… non si va più sul posto. Non si indaga. Non ci si incuriosisce. Si riportano i fatti con un linguaggio burocratico, punto e basta. Cosicché il racconto di quello che avviene nella società lo perdiamo. Lo trovo sbagliato. Ho portato l’esempio di Dino Buzzati, ma ce n’erano tantissimi di giornalisti bravi che raccontavano cercando di approfondire. Invece oggi stanno davanti al computer e se una cosa non è su internet non è successa. Poi si copiano a vicenda e ci si lamenta perché la gente non compra il giornale. Certo, è già su internet…

Ha addirittura confessato: “Mi viene voglia di cedere alle lusinghe del riposo…”.

Si, perché c’è un costante peggioramento. Non voglio colpevolizzare le nuove leve del giornalismo, perché sono vittime di una società che sta andando verso l’indifferenza dei fatti della vita, mentre continuano a romperci i coglioni con il Covid. È un problema, non dico che non lo sia, così come la politichetta con le solite cose abbastanza interessanti, ma non si raccontano i fatti della vita. Il giornale in pratica non spiega più il mondo in cui viene pubblicato.

D’altronde, anche Vittorio Feltri non è più nell’Ordine dei giornalisti. Si è mai pentito di esserne uscito?

Ma figurati a me che me frega dell’Ordine! Non è un ente inutile, ma un ente dannoso…

Addirittura pensa sia dannoso?

Sì, perché invece di proteggere e guidare i giornalisti, l’Ordine li maltratta e li punisce. Ormai si è piegato politicamente al conformismo dilagante. Fa persino la lotta al dizionario, se usi determinati termini ti persegue perché quella parola non puoi usarla. Ma se c’è sul vocabolario perché non posso usarla?

Indro Montanelli a più di 80 anni si lanciò nella fondazione de La Voce, anche se poi durò poco. Dopo tanti anni nella carta stampata, a lei non piacerebbe cambiare e realizzare un nuovo progetto, magari addirittura solo digitale?

Io purtroppo sono tecnologicamente analfabeta. Faccio fatica a usare anche il telefonino. Mi piacerebbe fare un sito tutto mio, ma non sono in grado di metterlo in piedi per incapacità. E quindi sono costretto a continuare nella carta stampata, non facendo neanche più il direttore responsabile ma editoriale, perché non voglio svolgere il lavoro tipico del giornalista. Posso dare gli input, ma non mi metto più a fare i titoli. Scrivere però è un diritto di ogni cittadino italiano. Quindi anche il mio, presumo.

Quest’anno almeno sul versante calcistico sarà soddisfatto per la sua Atalanta. Anzi, forse meriterebbe di più la Dea di far parte della fantomatica Superlega rispetto alla Juventus…

Io sono contrario alla Superlega, perché il calcio non è un fenomeno elitario, ma popolare. Se fai una lega con dentro Juve, Inter e Milan e lasci fuori Roma e Napoli, così come Sampdoria o Fiorentina, vuol dire che non hai capito niente. Cioè, davvero non sai cosa sia il calcio. È stato un errore tragico. Ci sono già le coppe europee, così come altre manifestazioni internazionali, perché creare un club ristretto solo per avere più diritti Tv rispetto a chi fa dei risultati? L’Atalanta sta avendo dei risultati migliori della Juve, quindi perché i bianconeri sì e l’Atalanta no? Ha avuto solo l’effetto di mortificare il popolo che segue le sue squadre. A Verona seguono il Verona, non gliene frega un cazzo della Juve!

Vittorio Feltri, la confessione: "Il giornalismo? Raccomandato da un prete. A Dio farei una sola domanda". Alessia Ardesi su Libero Quotidiano il 05 aprile 2021. In questo anno terribile la morte ci ha sforati e ha rapito molti dei nostri cari, riproponendoci domande che avevamo accantonato: l'Aldilà, la fede, la spiritualità. Questa serie di interviste non poteva che concludersi con il fondatore di Libero. 

Direttore Feltri, qual è il suo primo ricordo?

«Ero nella culla, quindi così piccolo che non so come faccio a ricordarlo, mi sentivo triste e reclamavo mia mamma».

Della scuola cosa le è rimasto?

«Alle elementari avevo un maestro, Natale Dolci. Un uomo, in effetti, dolcissimo. A sei anni, dopo che avevo perso mio padre, passava sotto casa mia tutte le mattine, a Bergamo di mezzo, con la Lambretta sidecar. Mi faceva salire accanto a lui e andavamo a scuola insieme. Mi sentivo un re».

Ha più rivisto il suo insegnante?

«A distanza di cinquant'anni mi è venuta voglia di fare un articolo su di lui. Il figlio lo lesse e mi avvisò che aveva più di novant'anni ed era malato. Andai a trovarlo e fu molto emozionante per tutti e due. Mi disse: "Caro Vittorio eri molto bravo, ma un po' troppo sintetico"».

Che studente era Vittorio Feltri?

«Vinsi un concorso per il miglior tema e andai a leggerlo nella quinta femminile (allora classi miste non ce n'erano). Alla fine tutte le ragazze mi applaudirono, tranne una: era Marialuisa Trussardi. La guardai. Aveva occhi meravigliosi, mi sembrò quasi di essermi innamorato all'istante, anche se ero arrabbiato che non mi applaudisse come le altre».

Vi fidanzaste?

«No. Però tiravamo di scherma insieme. Usavo il fioretto per correggere la sua posizione, per farle raddrizzare le gambe. Lei mi accusava di picchiarla; ma non era vero (Feltri sorride, ndr) ».

Com'era la sua famiglia?

«Mia mamma, Adele, aveva un'attività commerciale, vendeva pasta "Combattenti", quella dei reduci di guerra. Fin da piccolo andavo al lavoro da lei. Mi sentivo adulto a sistemare i camion che arrivavano nel piazzale della fabbrica, e a indicare dove dovessero essere parcheggiati».

E suo papà?

«Si chiamava Angelo. Era un funzionario dell'amministrazione provinciale di Bergamo. Ha avuto la cattiva idea di morire a 43 anni».

Di cosa?

«Morbo di Addison. Oggi si guarisce con due pastiglie di cortisone. Poche ore prima di spirare, mi volle vedere per salutarmi. Gli occhi erano già spenti, non riuscì a sorridermi, ma mi prese la mano. Poi uscii dalla stanza, vidi mia mamma che sussultava per i singhiozzi e capii che era finita. Ricordo i funerali come se fosse ieri. Mi sentivo smarrito. Il maestro mi trattava come un orfano, ma io odiavo la retorica degli orfani. Lui mi regalò un libretto della banca di risparmio lombardo, con 500 lire».

Ha fratelli?

«Due: Ariel e Mariella. Con loro ho un rapporto distratto. In casa con noi c'era anche la sorella di mamma, zia Tina, che mi ha fatto da madre».

Come era la zia?

«Una donna deliziosa. L'ho "sfruttata" perché mi rifiutai di andare all'asilo. Misi in piedi un casino per riuscire a non frequentarlo. E così trascorrevo le mie giornate con lei».

Cosa facevate?

«Avevo già una vera passione per i giornali. Così prendevo una sedia, che usavo come tavolino, sopra cui appoggiavo i quotidiani. Io ci mi mettevo seduto davanti, su uno sgabello, e cominciavo a fare domande alla zia per capire cosa ci fosse scritto. Ogni tre minuti la torturavo chiedendole il significato delle parole. Dopo sei mesi sapevo leggere e scrivere».

Come si è sviluppato il suo interesse per il giornalismo?

«Fin da giovane, con i soldi che raccattavo in famiglia, compravo l'Eco di Bergamo e me lo portavo a scuola. Ero affascinato dalla cronaca nera. Mi domandavo: "Chissà se anche io da grande riuscirò a scrivere cose meravigliose..."».

Qual è stato il suo primo lavoro?

«Il fattorino. Avevo 14 anni. La mia famiglia non aveva grandi disponibilità economiche e dovevo aiutare. Poi ho frequentato un corso da vetrinista, dalle 7 alle 10 di sera. Alla fine il maestro mi prese a lavorare con sé. Mi dava una quota degli incassi: a lui il sessanta per cento, a me il quaranta. Guadagnavo bene. Quando arrivai a tre milioni - con due milioni a quei tempi si poteva comprare un appartamento - sospesi le mie attività professionali».

Perché?

«Avevo fatto la terza media, ma non mi bastava. Cominciai ad andare a studiare nella migliore biblioteca di Bergamo. Un giorno mi avvicinò Angelo Meli, il direttore e priore della basilica di Santa Maria Maggiore. Era, per intenderci, uno di quei monsignori con i calzini rossi. Mi chiese perché stessi lì tutto il giorno».

Come rispose?

«Che volevo il diploma. Lui era anche professore di eloquenza al seminario diocesano e mi offrì il suo aiuto. Iniziai a frequentare la canonica per tre ore al giorno. Mi massacrava, era di una cultura infinita e di un'intelligenza superiore. Aveva un liberalismo mentale che non ho più trovato nemmeno nei liberali. Facevamo lezione lui e io da soli, in bergamasco o latino - che parlava benissimo. Studiavamo come matti e ci divertivamo».

Le è servito?

«Ho imparato tantissimo e anche in fretta per merito suo. Quando leggevamo Dante diceva: "Sommo poeta, ma un po' troppo bigotto". Quando eravamo sul Manzoni: "Anche lui un padre della lingua italiana, ma un po' troppo prolisso". Ancora oggi quando scrivo sto attento ai suoi insegnamenti. Non ho avuto un padre, ma lui lo è stato per me».

E poi?

«Una volta superato l'esame di maturità lui telefonò subito al direttore dell'Eco di Bergamo, Monsignor Spada: "Ho un mio allievo, si chiama Feltri, dagli una mano"».

Quindi ha cominciato grazie a una raccomandazione dei preti?

«Sì. Lui non mi parlava mai di religione. Ma io lo interrogai: "Perché crede in Dio?". E lui: "Ma in chi cavolo credi che creda? In te?"».

Frequentava la chiesa?

«Ho fatto il battesimo, la comunione e la cresima. Sono andato a messa fino ai quattordici anni. Poi ho smesso. Mi fermavo spesso alla chiesa di Santa Rita, che si trovava lungo il tragitto verso scuola».

Si fermava a pregare?

«No, entravo perché volevo parlare con Dio; poi mi sono accorto che non rispondeva. La mia famiglia mi ha educato con valori cristiani, ho vissuto tutta la vita da cristiano, ma non credo nel Signore. Non sono però un anticlericale».

È andato all'oratorio?

«Certo. Al San Filippo Neri, che ai miei tempi era solo maschile, le femmine andavano in quello delle canossiane. Giocavo a calcio. Ci insegnavano anche la dottrina. E non mancavo ad alcun appuntamento religioso. Mi adattavo alle regole, non per conformismo ma perché volevo cercare di capire. Il direttore del mio oratorio era simpaticissimo, e riusciva a tenere tra noi ragazzi una disciplina ferrea».

Gianni Rivera ha detto che lei era molto bravo con il pallone...

«Mi piaceva. Una volta monsignor Mansueto, un prete con cui sono cresciuto, mi chiese di giocare con i seminaristi di Bergamo, fingendo di essere uno di loro perché per il torneo erano in dieci. Prima di entrare in campo mi raccomandò di non bestemmiare, sarei stato subito scoperto. Mi divertii molto, ogni volta che qualcuno sbagliava le uniche imprecazioni che mi uscirono furono "accidenti", "caspita"».

Prega?

«Non se ne parla neanche. Do sempre il mio otto per mille alla Chiesa Cattolica, perché so che usano il denaro per fare del bene alla gente. Degli altri non mi fido, lo dico senza retorica».

Cosa c'è al termine della vita?

«Il cimitero. Si può fantasticare, sperare in qualcosa che dà continuità alla vita, ma è del tutto improbabile. L'umanità ha bisogno di pensare di non morire. Anche l'immortalità dell'anima non è provata da nulla. Sono speranze che cerchiamo di immaginare per consolarci».

Ha mai parlato di questo con un sacerdote?

«Molto spesso. Quando abitavo in città alta, andavo sovente a cena in trattoria con monsignor Mansueto e capitava di trattare questi argomenti. Era lui a bloccarmi: "Ada Vittorio! Parlem mia de chi laur che: go emò i döbe, se asculte te no ga crede piö del töt"; guarda Vittorio, non mi parlare di queste cose perché già ho i miei dubbi, se ascolto te non ci credo più... Ovviamente lo diceva scherzando».

Quindi Dante si è inventato tutto?

«Certo. Descrive il Paradiso in un modo che ritengo grottesco. La sua è una visione onirica».

Dove sono finiti i grandi del giornalismo? Montanelli, Biagi, Bocca?

«Sono finiti sottoterra. Ci hanno lasciato qualcosa a livello di pensiero, ma non si sono più fatti vivi».

Pensa mai alla morte?

«Una volta al giorno, tutti i giorni. Non la temo; temo il morire. Ho paura del modo in cui arriverà. Vorrei evitare la sofferenza fisica. Il dolore fisico mi agita. Quando fui ricoverato per una prostatite acuta, che rischiava di diventare qualcosa di più grave, ero molto spaventato. Un giorno provò anche a entrare nella mia stanza dell'ospedale un frate. Lo fermai sulla porta: "Lasci perdere". Lui se ne andò ridendo».

E del Covid, ha paura?

«Il Covid è abbastanza terrorizzante, perché ti può condurre a una morte dolorosa. Soffocare è orrendo. Così cerco di prevenirlo. Non spero in Dio; preferisco fare attenzione. Credere è un fatto sentimentale. E io non credo».

È proprio così certo che Dio non ci sia?

«Beh, se esistesse almeno una telefonata me la avrebbe fatta. Non ho mai percepito la sua presenza. Se ci fosse perché dovrebbe nascondersi? Dovrebbe farsi vivo e spiegarci».

In che modo è diventato giornalista?

«Quando ero all'Eco di Bergamo ero già convinto che avrei fatto questo mestiere, ma ero solo un collaboratore. Decisi di provare a entrare a La Notte. Incontrai il direttore Nino Nutrizio nel suo ufficio a Milano. Cominciò a parlarmi per capire chi fossi, dandomi del voi. Quando venne fuori che collaboravo all'Eco commentò: "Siete stato in quel giornale per quasi quattro anni e non vi hanno ancora assunto. Questo mi fa venire il sospetto che siate un cretino"».

Finì così?

«No, mi congedò dicendomi che non fidandosi del giudizio degli altri mi avrebbe messo alla prova per novanta giorni».

Come andò quel periodo?

«Mi impegnai. Dopo un mese e mezzo, era l'antivigilia di Natale, a Bergamo venne uccisa a coltellate, nella sua casa, una prostituta. Andai subito sul luogo del delitto e vidi la figlia di quattro anni con una fetta di panettone in mano seduta vicino alla pozza di sangue della madre. Feci un pezzo cardiaco. L'indomani andai in edicola per vedere se il mio articolo era stato pubblicato. Sfogliai per prime le pagine della cronaca di Bergamo ma non lo trovai. Mi disperai, temevo mi avrebbero mandato via».

E così fu?

«No, perché girai il giornale e lo lessi dalla prima pagina. La mia cronaca era l'apertura, un titolo a nove colonne con la mia firma. Impazzii di gioia. Mi chiamò il direttore: "Caro Feltri, come avete capito il vostro pezzo è di nostro pieno gradimento. La prova finisce qui e lei è assunto in pianta stabile". Ero di una felicità indescrivibile».

Che rapporto ha con i suoi figli?

«Bello. Con la mia prima moglie, Marialuisa, ho avuto Laura Adele e Saba Laura. Lei partorì di notte e al mattino quando arrivai in ospedale un'infermiera mi venne incontro con due fagottini in braccio. Le chiesi quale fosse la mia. Mi rispose: "Tutte e due". Ebbi un mancamento. Mi fecero una iniezione e quando mi ripresi ero euforico. Avevo ventidue anni. Dopo poco tempo Marialuisa morì, per le complicazioni dovute al travaglio».

Ha cresciuto lei le gemelline?

«Ho fatto tutto quello che poteva fare un uomo da solo. Poi mi sono reso conto che era difficilissimo crescerle in autonomia, e le portai in un istituto dell'amministrazione provinciale dove si presero cura di loro».

Per quanto tempo sono rimaste lì?

«Non a lungo. Perché conobbi presto una ragazza, Enoe, che lavorava lì e che mi piacque da subito. La corteggiai e la sposai. Le sono molto grato per come si è presa cura di Laura e Saba».

Poi ha avuto Mattia, bravissimo direttore dell'Huffington Post, e Fiorenza, che gestisce una farmacia a Milano...

«Sono cresciuti tutti e quattro in simbiosi. Hanno dato vita a una sorta di clan che è diventato una comunità quando abbiamo preso in adozione Paolo».

Ha anche un figlio adottivo?

«Sì. Era rimasto senza padre da piccolo e la madre non poteva seguirlo. Senza tante storie lo abbiamo accolto nella cascina con gli animali dove abitavamo, ed è cresciuto sereno insieme agli altri. Oggi lavora a Sky. Viene molto spesso a cena da me».

Cosa pensa di papa Francesco?

«Che fa il suo mestiere e non mi permetto di intromettermi. Non ho un grande trasporto per lui. Conosco il cardinale Becciu, una persona seria, e mi è molto dispiaciuto per la vicenda nella quale è stato coinvolto. L'ho difeso finché ho potuto».

La considerano un maschilista, ma è tutta l'intervista che parliamo di donne, oltre che di preti...

«Ma quale maschilista? Sono stato allevato dalle donne. Ho scoperto che sono più brave, intelligenti, tenaci, capaci di gestire meglio la vita. Ad esempio ho solo dottoresse femmine. Sono più sensibili, tenaci e di loro mi fido di più».

È per le quota rosa allora?

«No. Sul lavoro si scelgono le persone sulla base delle loro capacità, non per il loro sesso. Istintivamente però preferisco le donne. E poi mi piacciono di più. Meglio stare con loro a cena. Gli uomini mi parlano solo di calcio e stipendi».

Non c'è nessuno che vorrebbe intervistare?

«Uno ci sarebbe: Dio».

Quali domande gli farebbe?

«Una sola: perché tutto 'sto casino? Chi te l'ha fatto fare?».

·        Vittorio Messori.

Stefano Lorenzetto per il "Corriere della Sera" il 3 marzo 2021. Lasciando la direzione del Foglio, Giuliano Ferrara spiegò che «a 63 anni bisogna imparare a morire». Vittorio Messori si è portato avanti con i compiti da quando ne aveva 41 ed è prossimo a compierne 80 in questo 2021. «Problemi al cuore. Ma va bene così. Sono crollato proprio qua», si lascia sfuggire elusivo, e non vuole aggiungere una sola parola. «Qua» è il suo pensatoio dentro l'abbazia benedettina di Maguzzano, affacciata dal IX secolo sul lago di Garda, in cui visse Merlin Cocai, alias Teofilo Folengo. Lo scrittore è certo che le due stanzette, intasate da 15.000 libri, gli furono concesse in comodato d'uso grazie all'intercessione celeste di don Giovanni Calabria, un prete ritenuto matto perché confidava solo nella divina provvidenza, e infatti fu sottoposto a quattro sedute di elettroshock. Invece era santo, come sancì Giovanni Paolo II nel 1999. Messori anticipò il precetto ferrariano con Scommessa sulla morte, uscito nel 1982 sull'onda del successo (1 milione di copie, 26 traduzioni) di Ipotesi su Gesù, scritto dopo la conversione al cattolicesimo. «Ora che si avvicina il momento di passare all' altra vita, ho deciso di donare questa biblioteca e quella di casa a un'associazione di teologia. Ho già dettato l'iscrizione per la lapide sulla tomba».

Il tema non mi sembra di attualità.

«Lo è sempre. Nome, cognome, data di nascita, data di morte. E "Scio cui credidi", so in chi ho creduto, come scrive Paolo nella Seconda lettera a Timoteo».

Mi confidò che vorrebbe essere sepolto in questo complesso monastico.

«Sì, unico laico fra i religiosi dell'Opera Don Calabria. Due semplici pietre in un angolino, una per me e l'altra per mia moglie con la frase "Cor ad cor loquitur", il cuore parla al cuore, motto cardinalizio di san John Henry Newman. Ma i parenti di Rosanna ci vorrebbero nella cappella di famiglia, nel cimitero di Treviglio».

Vabbé, passiamo ad altro.

«E perché? "Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti". Salmo 90. La vita eterna è l'unico tema. La Chiesa oggi è una succursale dell' Onu, non ne parla. Questa è riduzione al mondo. Ma Vangelo significa buona notizia, in greco. Gesù non si occupò di politica, nella sua predicazione non condannò neppure la schiavitù. Venne a schiuderci le porte del paradiso. Prima lo sheol per gli ebrei era il regno dei morti, del buio».

Quel giorno chi le verrà incontro per primo? Un angelo? San Pietro? Dio?

«Non posso prevederlo. So che bisogna dimenticare la Divina Commedia».

L'aldilà non è la parodia dell'aldiquà.

«Per la Chiesa è paradiso, purgatorio o inferno. Preghiamo perché ai nostri cari sia accorciata la permanenza nel secondo, ma nell'aldilà non esiste il tempo».

E se lei finisse all'inferno?

«I santi c'insegnano che ci va solo chi lo vuole, chi rinnega coscientemente Dio. Hans Urs von Balthasar disse, o gli fecero dire, che "l'inferno esiste, ma è vuoto". Sarà. Tuttavia non intendo diventare il primo inquilino che lo inaugura».

Boccaccio confessò: «Spero che la morte mi colga mentre sono intento a leggere o a scrivere o, se a Dio piacerà, mentre prego e piango». Lei cosa spera?

«Parlava così per farsi perdonare il Decameron. Io prego perché la morte mi trovi vivo. E perché mi sia risparmiato un decesso improvviso: vorrei congedarmi con il conforto dei sacramenti».

Ha un animale domestico?

«Un tempo ero gattolico praticante. Ho avuto Micetto e Micetta. Il maschio tornava a casa ferito, ma farlo castrare mi sembrava una crudeltà. Alla fine ho inventato Baratto e Malvagio, gatti immaginari. Aiutano a evitare i litigi fra coniugi. Diamo a loro la colpa di tutto».

Paolo VI consolò un bimbo che piangeva la morte del suo cane, dicendogli che l' avrebbe rivisto in paradiso. È così?

«Non è un dogma. Ma credo che tutto ciò che abbiamo amato sarà salvato».

Questa sì che è fede.

«Ero l' allievo prediletto di Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Luigi Firpo, la trimurti del laicismo. Non avevo alcuna intenzione di diventare cristiano, meno che mai cattolico. Ma cascai dentro una sorta di buco bianco».

Come e quando?

«Nell' estate del 1200, pardon, che lapsus linguae! Del 1964, la più calda del secolo scorso. I miei genitori, entrambi mangiapreti, erano in vacanza. Stavo controllando una citazione nel Vangelo, che non avevo mai aperto in vita mia. Non so che mi accadde. Cercai di resistere, ma non vi fu niente da fare. Quando scoprì la conversione, mia madre voleva farmi visitare da uno psichiatra. Galante Garrone mi diseredò moralmente sulla prima pagina della Stampa . Se ora lei mi puntasse una pistola alla tempia e m' ingiungesse di affermare che il Vangelo è una bufala, le direi: spari pure».

Dovette cambiare radicalmente vita.

«Da universitario mi mantenevo facendo il centralinista di notte alla Stipel, la compagnia telefonica di Torino, con altri giovanotti aitanti. Lo sport preferito delle signore sole era di chiamarci, invitandoci ad andarle a trovare di giorno. Divenuto credente, stracciai l'agendina con i loro numeri e gli indirizzi. Quella fu l'unica volta che scoppiai a piangere».

Nel 1971 le nozze, che durarono poco.

«Con la sorella del mio miglior amico, oggi diventata testimone di Geova. Mi circuì mentre ero ricoverato in ospedale, in stato di costrizione psicologica, come testimoniò davanti alla Sacra Rota».

Ne seguì una lunga causa di nullità.

«Conobbi Rosanna Brichetti alla Pro Civitate Christiana di Assisi. Ci sposammo quando lei aveva 57 anni e io 55. Per 30 abbiamo vissuto come fratello e sorella, in case separate. Il cardinale Joseph Ratzinger convinse papa Wojtyla a riaprire il fascicolo sull' unica persona che aveva scritto saggi con entrambi. Fui minacciato di morte dopo che pubblicai Rapporto sulla fede con l' allora prefetto dell' ex Sant' Uffizio: dovetti nascondermi in un convento dei barnabiti. Fino a quel momento la Congregazione per la dottrina della fede si era sempre espressa con due sole formule: "licet" o "non licet"».

Lei compirà 80 anni il 16 aprile, quando Benedetto XVI ne festeggerà 94.

«Sì, abbiamo in comune il dies natalis di santa Bernadette Soubirous, il giorno della sua nascita al cielo. Per anni ho trascorso le mie vacanze estive a Lourdes. Il rettore del santuario voleva che mi ci trasferissi come capo dell' ufficio stampa».

A Medjugorje c'è mai stato?

«Dopo le prime apparizioni. Lavoravo per Jesus . La polizia mi fece spogliare, dovetti togliermi persino le mutande».

E che conclusioni ne trasse?

«Il codice di diritto canonico stabilisce che solo i vescovi locali possano giudicare questi eventi. Il Vaticano non si è mai espresso né su Lourdes né su Medjugorje. Il presule di Mostar era scettico, ostile. Ma Gesù insegna che dai frutti si riconosce l'albero. Ebbene il paradosso è che l'albero di Medjugorje lascerà magari a desiderare, ma i frutti sono eccellenti: i pellegrini tornano da là tutti migliori».

Saprebbe dirmi per quale motivo la Madonna appare ovunque e Gesù mai?

«Gesù è anche Dio. Maria è solo donna, fa parte dell' umanità. È il trait d' union fra la terra e il cielo».

Incontra ancora il Papa emerito?

«Non oserei mai disturbarlo. Un giorno mi telefonò il suo segretario Georg Gänswein: "Sua Santità la rivedrebbe volentieri, ma lei dovrà dimenticarsi di essere un giornalista". Peccato, perché fece commenti sulla situazione della Chiesa che erano da prima pagina. Sulla scrivania teneva solo due giornali, il Corriere della Sera e la Süddeutsche Zeitung».

Che cosa pensa di quei cattolici convinti che il «vero» papa sia ancora lui?

«Non li seguo. Osservo solo che ha voluto restare vicino a Pietro».

Sente la mancanza dei figli?

«A me piacciono i bambini degli altri. Non avevo la vocazione alla paternità».

Sua moglie è laureata in sociologia con una tesi sul femminismo, ha lavorato al Censis, ha girato l' Italia a raccogliere pareri sulla legge Basaglia. Non sembrerebbe una messoriana.

«È laureata anche in giurisprudenza e in teologia. Di quella tesi ancora si vergogna. Fu una vittima del '68. L'ho guarita».

Ma perché passa per reazionario?

«Lo ignoro, ho sempre cercato di essere solo cattolico. Mi considero un uomo del Concilio Vaticano II. Non ho mai partecipato a una messa in latino. Anzi, sarei stato a disagio nella Chiesa di prima».

Che rapporti ha con l'Opus Dei?

«Di amicizia, come con Comunione e liberazione. Ma non ne faccio parte».

Il Vangelo non parla di peccati mortali e veniali. Lei crede a questa distinzione?

«Mah, insomma... Dopo la morte ci attende un tribunale. E i giudici irrogano le pene secondo la gravità delle colpe».

Se il sesso serve solo a procreare, quale peccato commette un marito il quale abbia già avuto figli e vi ricorra fuori dal matrimonio qualora la moglie si rifiuti di avere rapporti coniugali?

«Non ho una risposta. La lascio ai confessori. Guardi, quando iniziai a fare l'apologeta, decisi di astenermi da tre attività: dichiarare per quale squadra tifo, parlare di politica, trattare di morale. Sono argomenti che dividono. La Chiesa fa la moralista. Ma la morale cristiana senza essere cristiani appare disumana».

Non si è mai occupato di temi etici.

«È vero. E mi sono attirato diffidenze, se non rimproveri, per questa assenza. Che vuole mai, è la sindrome del convertito. Ciò che m' interessa è la fede, la possibilità stessa di credere, di scommettere sulla verità del Vangelo. Il resto è solo una conseguenza. Etica, società, lavoro, politica... Tutto necessario ma assurdo, se prima non si saggia l' esistenza e la resistenza del chiodo che deve reggere ogni cosa. E quel chiodo è Gesù».