Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2020

 

LA CULTURA

 

ED I MEDIA

 

OTTAVA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Benefattori dell’Umanità.

I Nobel italiani.

Scienza ed Arte.

Il lato oscuro della Scienza.

"Il sapere è indispensabile ma non onnipotente".

L’Estinzione dei Dinosauri.

Il Computer.

Il Metaverso: avatar digitale.

WWW: navighi tu! Internet e Web. Browser e Motore di Ricerca.

L’E-Mail.

La Memoria: in byte.

Il "Taglia, copia, incolla" dell'informatica.

Gli Hackers.

L’Algocrazia.

Viaggio sulla Luna.

Viaggio su Marte.

Gli Ufo.

Il Triangolo delle Bermuda.

Il Corpo elettrico.

L’Informatica Quantistica ed i cristalli temporali.

I Fari marittimi.

Non dare niente per scontato.

Le Scoperte esemplari.

Elio Trenta ed il cambio automatico.

I Droni.

Dentro la Scatola Nera.

La Colt.

L’Occhio del Grande Fratello.

Godfrey Hardy. Apologia di un matematico.

Margherita Hack.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Cervello.

L’’intelligenza artificiale.

Entrare nei meandri della Mente.

La Memoria.

Le Emozioni.

Il Rumore.

La Pazzia.

Il Cute e la Cuteness. 

Il Gaslighting.

Come capire la verità.

Sesto senso e telepatia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ignoranza.

La meritocrazia.

La Scuola Comunista.

Inferno Scuola.

La Scuola di Sostegno: Una scuola speciale.

I prof da tastiera.

Università fallita.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mancinismo.

Le Superstizioni.

Geni e imperfetti.

Riso Amaro.

La Rivoluzione Sessuale.

L'Apocalisse.

Le Feste: chi non lavora, non fa l’amore.

Il Carnevale.

Il Pesce d’Aprile.

L’Uovo di Pasqua.

Ferragosto. Ferie d'agosto: Italia mia...non ti conosco.

La Parolaccia.

Parliamo del Culo.

L’altezza: mezza bellezza.

Il Linguaggio.

Il Silenzio e la Parola.

I Segreti.

La Punteggiatura.

Tradizione ed Abitudine.

La Saudade. La Nostalgia delle Origini.

L’Invidia.

Il Gossip.

La Reputazione.

Il Saluto.

La società della performance, ossia la buona impressione della prestazione.

Fortuna e spregiudicatezza dei Cattivi.

I Vigliacchi.

I “Coglioni”.

Il perdono.

Il Pianto.

L’Ipocrisia. 

L’Autocritica.

L'Individualismo.

La chiamavano Terza Età.

Gioventù del cazzo.

I Social.

L’ossessione del complotto.

Gli Amici.

Gli Influencer.

Privacy: la Privatezza.

La Nuova Ideologia.

I Radical Chic.

Wikipedia: censoria e comunista.

La Beat Generation.

La cultura è a sinistra.

Gli Ipocriti Sinistri.

"Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

Antifascisti, siete anticomunisti?

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Nullismo e Il Nichilismo.

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

La Cancel Culture.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Perché esiste il negazionismo.

L’Inglesismo.

Shock o choc?

Caduti “in” guerra o “di” guerra?

Kitsch. Ossia: Pseudo.

Che differenza c’è tra “facsimile” e “template”?

Così il web ha “ucciso” i libri classici.

Ladri di Cultura.

Falsi e Falsari.

La Bugia.

Il Film.

La Poesia.

Il Podcast.

L’UNESCO.

I Monuments Men.

L’Archeologia in bancarotta.

La Storia da conoscere.

Alle origini di Moby Dick.

Gli Intellettuali.

Narcisisti ed Egocentrici.

"Genio e Sregolatezza".

Le Stroncature.

La P2 Culturale.

Il Mestiere del Poeta e dello scrittore: sapere da terzi, conoscere in proprio e rimembrare.

"Solo i cretini non cambiano idea".

Il collezionismo.

I Tatuaggi.

La Moda.

Le Scarpe.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Ada Negri.

Albert Camus.

Alberto Arbasino.

Alberto Moravia e Carmen Llera Moravia.

Alberto e Piero Angela.

Alessandro Barbero.

Andrea Camilleri.

Andy Warhol.

Antonio Canova.

Antonio De Curtis detto Totò.

Antonio Dikele Distefano.

Anthony Burgess.

Antonio Pennacchi.

Arnoldo Mosca Mondadori.

Attilio Bertolucci.

Aurelio Picca.

Banksy.

Barbara Alberti.

Bill Traylor.

Boris Pasternak.

Carmelo Bene.

Charles Baudelaire.

Dan Brown.

Dario Arfelli.

Dario Fo.

Dino Campana.

Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante Alighieri o Alighiero.

Edmondo De Amicis.

Edoardo Albinati.

Edoardo Nesi.

Elisabetta Sgarbi.

Vittorio Sgarbi.

Emanuele Trevi.

Emmanuel Carrère.

Enrico Caruso.

Erasmo da Rotterdam.

Ernest Hemingway.

Eugenio Montale.

Ezra Pound.

Fabrizio De Andrè.

Federico Palmaroli.

Federico Sanguineti.

Federico Zeri.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Fernanda Pivano.

Filippo Severati.

Fran Lebowitz.

Francesco Grisi.

Francesco Guicciardini.

Gabriele d'Annunzio.

Galileo Galilei.

George Orwell.

Giacomo Leopardi.

Giampiero Mughini.

Giancarlo Dotto.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini.

Giovannino Guareschi.

Gipi.

Giorgio Strehler.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Grazia Deledda.

J.K. Rowling.

James Hansen.

John Le Carré.

Jorge Amado.

I fratelli Marx.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lisetta Carmi.

Luciano Bianciardi.

Luigi Pirandello.

Louis-Ferdinand Céline.

Luis Sepúlveda.

Marcel Proust.

Marcello Veneziani.

Mario Rigoni Stern.

Mauro Corona.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarotti.

Milo Manara.

Niccolò Machiavelli.

Oscar Wilde.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam.

Pablo Picasso.

Paolo Di Paolo.

Paolo Ramundo.

Pellegrino Artusi.

Philip Roth.

Philip Kindred Dick.

Pier Paolo Pasolini.

Primo Levi.

Raffaello.

Renzo De Felice.

Richard Wagner.

Rino Barillari.

Roberto Andò.

Roberto Benigni.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Rosellina Archinto.

Sabina Guzzanti.

Salvador Dalì.

Salvatore Quasimodo.

Salvatore Taverna.

Sandro Veronesi.

Sergio Corazzini.

Sigmund Freud.

Stephen King.

Teresa Ciabatti.

Tonino Guerra.

Umberto Eco.

Victor Hugo.

Virgilio.

Vivienne Westwood.

Walter Siti.

Walter Veltroni.

William Shakespeare.

Wolfgang Amadeus Mozart.

Zelda e Francis Scott Fitzgerald.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Il DDL Zan: la storia di una Ipocrisia. Cioè: “una presa per il culo”.

La corruzione delle menti.

La TV tradizionale generalista è morta.

La Pubblicità.

La Corruzione dell’Informazione.

L’Etica e l’Informazione: la Transizione MiTe.

Le Redazioni Partigiane.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Diritto all’Oblio: ma non per tutti.

Le Fake News.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Satira.

Il Conformismo.

Professione: Odio.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Reporter di Guerra.

Giornalismo Investigativo.

Le Intimidazioni.

Stampa Criminale.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Corriere della Sera.

«L’Ora» della Sicilia.

Aldo Cazzullo.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Andrea Purgatori.

Andrea Scanzi.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Barbara Palombelli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Pizzul.

Bruno Vespa.

Carlo Bollino.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carlo Verdelli.

Cecilia Sala.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Emilio Fede.

Enrico Mentana.

Eugenio Scalfari.

Fabio Fazio.

Federica Angeli.

Federica Sciarelli.

Federico Rampini.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Franca Leosini.

Francesca Baraghini.

Francesco Repice.

Franco Bragagna.

Furio Colombo.

Gad Lerner.

Giampiero Galeazzi.

Gianfranco Gramola.

Gianni Brera.

Giovanna Botteri.

Giulio Anselmi.

Hoara Borselli.

Ilaria D'Amico.

Indro Montanelli.

Jas Gawronski.

Giovanni Minoli.

Lilli Gruber.

Marco Travaglio.

Marie Colvin.

Marino Bartoletti.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Maurizio Costanzo.

Melania De Nichilo Rizzoli.

Mia Ceran.

Michele Salomone.

Michele Santoro.

Milo Infante.

Myrta Merlino.

Monica Maggioni.

Natalia Aspesi.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Crepet.

Paolo Del Debbio.

Peter Gomez.

Piero Sansonetti.

Roberta Petrelluzzi.

Roberto Alessi.

Roberto D’Agostino.

Rosaria Capacchione.

Rula Jebreal.

Selvaggia Lucarelli.

Sergio Rizzo.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Rosati.

Toni Capuozzo.

Valentina Caruso.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.

Vittorio Messori.

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

OTTAVA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        I Reporter di Guerra.

Premio Cutuli, non spegnete le luci su Kabul. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2021. La ministra Cartabia, il commissario Onu Grandi, i giornalisti del Corriere: ricordando Maria Grazia a 20 anni dalla morte, «torniamo» in Afghanistan. Il premio che porta il suo nome a Patrick Zaki. Tre desideri, tenere stretto il furore di Maria Grazia, riflettere sul destino dell’Afghanistan e sul ritorno dei talebani. E infine difendere, ancora una volta, il diritto alla libera informazione. Con queste parole la vicedirettrice del Corriere della Sera Barbara Stefanelli ha aperto ieri in Sala Buzzati la giornata organizzata dalla Fondazione del Corriere della Sera nell’ambito di BookCity, iniziata al cinema Anteo con la proiezione di «Viaggio a Kandahar» del regista Mohsen Makhmalbaf. Incontri, riflessioni, interviste e reportage dedicata all’inviata del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli, scomparsa in Afghanistan 20 anni fa. A rendere omaggio, tra gli altri, la ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha ricordato la storia di Mareya Bashir, prima procuratrice di Herat cui è stata riconosciuta la cittadinanza italiana. «Ho incontrato Bashir ad un convegno nel 2013 sulla presenza femminile nelle Corti costituzionali. Ed è stato un incontro folgorante. Io all’epoca ero giudice della Corte costituzionale, unica donna. Dal lusso della mia posizione mi lamentavo della disparità di genere mentre lei subiva attentati e minacce. E’ per lei e per le donne afghane che dobbiamo tenere accese le braci sotto la cenere, per fare sì che non vadano persi i progressi fatti». La giornata è stata occasione per riflettere sulla necessità, come ha sottolineato l’inviato del Corriere Lorenzo Cremonesi, di aprire un canale di dialogo con i talebani. Con Mario Cutuli, fratello di Maria Grazia, il ritorno ideale nella provincia di Herat, dove la scuola blu costruita nel 2011 in memoria della giornalista ancora accoglie le studentesse e gli studenti della regione, nonostante il divieto dei talebani per le ragazze. «Un luogo — come ha spiegato — che abbiamo voluto costruire per quella parte di popolazione che, pur rappresentando la speranza e il futuro, non ha voce». Le donne afghane sono rimaste poi al centro del racconto di Eleonora Selmi, ostetrica di Medici Senza Frontiere a Khost, dove «ho visto le donne togliersi il burqa e sorridere, forti dei loro sogni e della volontà di diventare dottoresse». Da Simonetta Gola di Emergency è arrivato il ricordo del marito Gino Strada scomparso proprio durante i giorni della caduta di Kabul «che per lui rappresentavano solo l’ennesima tappa di una guerra ingiusta e insensata». E commozione non è mancata nel dialogo tra Barbara Stefanelli e Carlo Verdelli, sulla telefonata con la quale — all’epoca era vicedirettore del Corriere — Verdelli esaudì l’ultimo desiderio di Maria Grazia, ossia di restare in Afghanistan a lavorare. «Le ho detto di sì perché sapevo che per Maria Grazia i talebani erano i tartari raccontati da Buzzati. E perché sapevo che doveva scendere dal muro della fortezza e andare loro incontro». A chiudere la giornata la consegna del premio Cutuli a Patrick Zaki, ritirato dal compagno dell’Università di Bologna Rafael Garrido e accompagnato da un messaggio della sorella Marise. Un premio che «va a lui e tutti gli eroi della libertà di informazione».

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 21 novembre 2021. Da vent' anni esatti sparano cazzate su Maria Grazia Cutuli, uccisa in Afghanistan il 19 novembre 2001, e da vent' anni esatti io e pochi altri tacciamo per eleganza e lasciamo che il Corriere anneghi i sensi di colpa in retoriche di cui lei avrebbe riso per prima, anche se qualcuno deve pur farle. Però, ormai, siamo alla trasfigurazione mitologica. Titolazioni di scuole, premi, fiction non autorizzate, libri scritti a cazzo. Maria Grazia Cutuli non era neanche un'inviata, la nominò da morta Ferruccio De Bortoli - lui sempre dignitoso - e si lamentava di continuo per come il Corriere la trattava. Si inviava da sola, e così fece prima dell'11 settembre (non dopo) partendo da Ponza dov' era in vacanza con me e Silvia, e dove le strade, ricordo, si aprivano al passaggio di Bruno Vespa. Io e lei litigammo perché non usciva mai dall'Hotel, bianca come un cencio, chiusa a scrivere, lei che «ho guidato un carroarmato, figurati se non so guidare un barchino». Il litigio degenerò e lei partì in anticipo, andò subito a Fiumicino diretta in Israele. Poi, sul volo che ci portava ai funerali, dei corrieristi deficienti dissero che l'avevano uccisa per colpa sua: aveva fumato davanti ai talebani. Ricordo l'arcivescovo: «Siamo qui riuniti attorno a questa bara». Non era neanche cattolica. Mi manca, ci manca. Lei, non la sua figurina. Ci manca lei sempre divertita, spaesata con leggerezza. 

Le notizie dalla “prima linea”: l’importanza dei reporter di guerra. Federico Giuliani su Inside Over il 7 novembre 2021. Come si scrive un reportage? Come è cambiato il ruolo del reporter nel mondo di oggi? Quali sono le nuove sfide per l’intera professione? Queste sono soltanto alcune delle domande alle quali il corso di giornalismo di reportage di The Newsroom Academy proverà a dare risposta. Tra gli ospiti che prenderanno parte al corso coordinato da Daniele Bellocchio troviamo Fausto Biloslavo. Storico reporter italiano, firma de IlGiornale, grazie all’esperienza maturata durante la sua straordinaria carriera Biloslavo sarà in grado di fornire un quadro dettagliato e di farsi testimone di come si è sviluppato il reportage con il passare degli anni. Lo abbiamo intervistato per capire qualcosa in più

Cosa vuol dire essere reporter nell’era in cui internet ha fagocitato i media tradizionali?

Essere reporter significa andare sul terreno – in prima linea nel mio caso, per chi vuol fare il giornalista di guerra – e raccontare cosa avviene là dove i accadono i fatti. Perché non ci sarà mai nessun Facebook, Twitter o Internet che potrà eliminare un giornalista di esperienza che si trova in mezzo alla storia. Vale il vecchio motto: un buon cronista si vede dalla suola delle scarpe. Poi, sia chiaro: le storie, i racconti, i video, tutto questo può certamente passare dai social e non solo attraverso i media tradizionali. In ogni caso, un conto è raccontare gli eventi da qualche ufficio, un altro è farlo direttamente dal posto in cui essi avvengono.

Come si è trasformato il reportage? È cambiato modo di lavorare?

Si è trasformato tantissimo da quando ho iniziato. All’epoca i telefonini non esistevano e il fax era un miraggio. Trasmettevamo via telex. Adesso è diventato tutto molto più veloce, e talvolta non è un bene. In un certo senso, oggi siamo tornati ad esser multimediali. Ma quando ho mosso i primi passi, essere multimediali significava usare la cinepresa Super 8 con caricatori di pellicola da 3 minuti e mezzo e la macchina reflex con rullino, che per intenderci ti permetteva di vedere soltanto da casa quali foto avevi scattato. Insomma, c’è stata una rivoluzione tecnologica enorme. Prendiamo, ad esempio, i telefonini, che al giorno d’oggi riprendono perfettamente in hd e addirittura anche in 4k, oppure le macchine digitali, molto più dettagliate e precise di quelle di ieri. Oggi, come dicevo, bisogna essere multimediali. È necessario scrivere il pezzo, ma anche realizzare un videoservizio, fare foto, rilanciare il tutto con i social e, se possibile, trasmettere in presa diretta. Tutti dovranno adattarsi a questi cambiamenti perché questo è il futuro.

Lei come si è avvicinato alla professione di reporter e perché ha scelto di fare proprio il reporter di guerra?

Quando ero al liceo sfogliavo Corto Maltese, un bellissimo fumetto di Ugo Pratt. Dicevo che volevo essere come Corto Maltese. Volevo inseguire le avventure, raccontare le guerre, magari anche sbarcare il lunario. Sono riuscito a realizzare questi tre obiettivi, primo tra tutti quello di girare il mondo. 

Ha raccontato molte storie. Ce ne sono alcune alle quali è più legato?

Senza ombra di dubbio tutta la parentesi relativa all’Afghanistan. Mia moglie dice che è la mia seconda patria. Ho iniziato a visitarlo nel 1983, durante l’invasione sovietica, ci sono tornato molteplici volte, anche recentemente con l’avvento del secondo emirato talebano. Ricordo, poi, quando ho incontrato il leggendario comandante Massoud nella valle del Panjshir dopo 400 chilometri a cavallo, sempre durante l’invasione sovietica. Ricordo poi il “rosso sangue” dell’Africa, dove ho raccontato il terrificante genocidio in Ruanda. In quei casi bisogna farsi amico l’orrore e spero di non vedere mai più una cosa simile. Ricordo, poi, molte interviste, come l’ultima fatta a Gheddafi alla vigilia del bombardamento della Nato. Fuori dalla tenda in cui lo stavo intervistando si sparava e c’era già la rivolta.

A proposito delle situazioni che ha affrontato, ha mai rischiato la vita?

Sono stato catturato in Afghanistan e ho fatto 7 mesi di galera a Kabul al tempo dei sovietici. Poi hanno cercato, quando sono tornato, di uccidermi. Ci sono andati vicino: mi hanno investito con un camion militare. Avevo sette fratture, ho perso la metà del sangue ma sono stato salvato da un chirurgo americano della croce rossa internazionale. In generale, le volte che ho rischiato la vita sono state tante. Nel 1982 in Libano un soldato voleva fucilarmi, in Kosovo mi arrivavano addosso i traccianti dei proiettili mentre a Kabul ho evitato un colpo di mortaio. Ci sono tanti episodi in cui ho visto la morte in faccia. Per questo continuo a dire che la cosa più importante non è il pezzo ma portare a casa la pelle.

Perché oggi è importante riesumare la figura del reporter sul campo?

Qualcuno deve andare in mezzo a ciò che accade per poterlo raccontare. Uno non può farlo per sentito dire o stando dietro la scrivania. Soprattutto per quanto riguarda i conflitti, è importante che ci siano degli occhi, che sono poi gli occhi della guerra, cioè siamo noi che la viviamo e raccontiamo in prima persona andando sul posto dove i fatti accadono.

Perché partecipare all’Academy di Inside Over?

Perché c’è scarsissimo interesse nel formare i nuovi reporter, e questa Academy è unica nel suo genere. Esistono tanti corsi, ma spesso tenuti da professori universitari che non sono pratici del mestiere se non a livello teorico. Ma in Italia, in generale e a differenza degli altri Paesi, c’è poco interesse a coltivare i giovani. L’Academy, al contrario, dice loro: “Se avete la passione del giornalismo, noi possiamo darvi consigli pratici su come farlo”. Questa iniziativa che guarda ai giovani, e che cerca di metterli sulla strada giusta, ritengo sia fondamentale. Ogni media dovrebbe fare qualcosa di simile e curare le nuove generazioni di giornalisti. Purtroppo non è così. 

Formare i reporter di domani: “Perché il reportage è ancora un valore aggiunto”. Federico Giuliani su Inside Over il 7 novembre 2021. Il secondo corso proposto da The Newsroom Academy ruota attorno al reportage, inteso come particolare linguaggio giornalistico volto a coprire un avvenimento, un luogo o un certo argomento del mondo. La caratteristica principale del reportage è quella di non limitarsi a fornire una o più fredde notizie flash. Al contrario, il suo obiettivo consiste nel descrivere l’ambiente all’interno del quale si svilupperà una data storia, il contesto e, più in generale, i retroterra storico-culturali ad esso connessi. Il corso di giornalismo di reportage sarà coordinato da Daniele Bellocchio, a sua volta accompagnato da diversi ospiti. I partecipanti potranno così interfacciarsi con illustri professionisti e unire la parte teorica a quella pratico-ricreativa. Ed è proprio quest’ultima l’eccezionalità della Academy: offrire alla platea iscritta la possibilità di realizzare reportage nella maniera più professionale possibile, dall’ideazione del lavoro alla presentazione dello stesso agli editori. Alla fine del corso, infatti, il lavoro migliore, sviluppato durante le lezioni verrà pubblicato sul InsideOver e ilGiornale.it, consentendo al profilo selezionato di intraprendere una collaborazione sul campo. Per capire meglio come è strutturato il corso, e non solo quello, abbiamo chiamato in causa Daniele Bellocchio. Nato a Lodi nel 1989, è giornalista pubblicista e dal 2012 si occupa in modo costante di Africa. Ha raccontato le principali crisi e guerre del continente africano e ha realizzato reportage anche in Centro-America, Balcani, Caucaso ed Oriente. I lavori, pubblicati dalle più importanti testate italiane e straniere, sono stati vincitori di svariati premi giornalistici.

Cosa vuol dire essere reporter oggi?

Dal momento che viviamo in un’epoca in cui le notizie hanno vita brevissima e noi possiamo essere presenti in ogni dove, in ogni momento, essere dei reporter ha acquisito un valore aggiunto. In altre parole, significa essere testimoni della storia, degli storici della contemporaneità. E, in un’epoca così inflazionata da news e foto usa e getta, essere reporter significa anche andare in profondità per poi riaffiorare in superficie fornendo, in maniera approfondita, la nostra storia o un avvenimento storico. 

Come ha iniziato a fare il reporter?

Sono nato e cresciuto leggendo libri di Tiziano Terzani, Oriana Fallaci e altri autori simili. Il giornalismo mi ha attratto come la luce attrae le falene. Ho iniziato a proporre storie dal Sud America a 18 anni per alcuni giornali locali. Sono stato in Brasile, poi in Bolivia. In quel momento Morales stava cambiando la costituzione: c’era fermento e ricordo ancora gli scontri nelle strade. Lascio immaginare cosa volesse dire per me quel momento. In seguito sono rientrato a Lodi e ho iniziato a lavorare come cronista. Ho poi fatto esperienze in Cisgiordania e Israele. Ho quindi incontrato Marco Gualazzini e abbiamo iniziato a realizzare reportage in Africa. Il primo in Somalia nel 2012. Da quel momento in poi è iniziata la nostra collaborazione tandem. Nel 2014 ho iniziato a lavorare a Gli Occhi della Guerra. Insieme a Marco, siamo saliti a bordo del progetto proponendo di approfondire un Paese in cui a essere perseguitati erano i musulmani: la Repubblica Centroafricana. Con il passare del tempo ho cambiato linguaggio comunicativo, passando da articoli per stampa e web a video. La collaborazione continua ancora oggi con InsideOver.

Rispetto agli inizi, cosa è cambiato nella realizzazione di un reportage?

Il mondo si è interconnesso e si è velocizzato tantissimo. C’è stato un cambio nella ricezione delle notizie. C’è un pubblico che pretende un’informazione più rapida, o forse semplicemente non è più abituato a un tipo di informazione più approfondita che invece non dovrebbe sparire mai. Una realtà come InsideOver è unica perché preserva che l’informazione e fa in modo che questa non si svaluti in nome di un mercato che esige sempre più notizie flash, senza approfondimento. Ci sono formule, come quelle ideate da Gli Occhi della Guerra e InsideOver, che hanno dimostrato come si possa continuare ad andare avanti a raccontare storie approfondite. Dire che gli esteri non interessano è solo una foglia di fico, perché in realtà gli esteri interessano tantissimo. Bisogna solo raccontarli nel modo giusto.

Quali consigli daresti a chi si appresta a realizzare un primo reportage?

In termini generali, al di là del contesto, la prima cosa è andare là dove si vuole andare per interesse e passione. Non possiamo leggere una guida turistica e dopo pretendere di fare un reportage. Prima di realizzarlo bisogna studiare per mesi e mesi il posto che vogliamo raccontare, e questo lo ripeterò anche durante il corso. Andare in un luogo senza conoscenza dettagliata di quel luogo è una cosa che un reporter non può permettersi. Il reporter deve essere disposto a passare nottate a studiare e fare ricerca. In secondo luogo serve una curiosità senza pregiudizio; è importante studiare ma non bisogna mai pensare di possedere la verità infusa. Quando arriviamo in un posto bisogna essere disposti a mettere in discussione tutto ciò del quale eravamo convinti. Terzo consiglio: quando ci confronteremo con qualcuno che ci racconterà la sua storia, soprattutto in zone di guerra, quella persona ci sta facendo un dono enorme. Quindi bisogna cercare di raccontare nella maniera più empatica e coinvolta la sua storia così da trasmettere ai lettori le stesse emozioni.

Quali sono i tre reportage della sua carriera ai quali sei più legato?

Sicuramente il mio primo reportage, nel 2012, in Somalia. Quello è stato il mio “battesimo di fuoco” come reporter, il primo pubblicato su un magazine ad ampia foliazione. All’epoca ricordo che Mogadiscio era blindata, e che da anni la stampa internazionale faticava ad avervi accesso. Un altro lavoro che ricordo con piacere è quello realizzato in Ciad con Marco Gualazzini. È una storia pazzesca, attraverso la desertificazione del lago Ciad ci siamo collegati a jihadismo e abbiamo incontrato figure iconiche del presente: i terroristi islamici. L’ultimo è quello in Karabakh, durante la guerra. In quei giorni vivevo in una città assediata notte e giorno, ed è stato molto impattante.

Perché consiglieresti di iscriverti alla Academy?

Perché è unica. Lo vedo come un progetto avveniristico. Esistono altri corsi, ma in quale realtà c’è davvero un obiettivo così specifico come quello di formare i reporter, non solo dal punto di vista teorico? Vieni da noi perché metti in pratica le tue doti e il tuo talento per fare il giornalista. Non esistono esperienze simili, perché qui torniamo a fare il vero giornalismo, che è di fatto un lavoro da artigiani. Dieci anni fa nessuno offriva occasioni del genere. Chi vuol fare il reporter non sa che grande fortuna ha davanti a sé nell’avere una redazione che apre le porte e dice “se vali stacchiamo un biglietto per te e ti mandiamo sul campo per mostrare il tuo valore”.

·        Giornalismo Investigativo.

La “stella polare” del giornalismo: come individuare una storia da raccontare. Federico Giuliani su Inside Over il 26 novembre 2021. Individuare una storia da raccontare: è questo il passaggio fondamentale e imprescindibile da realizzare per la buona riuscita di un lavoro giornalistico, dall’inchiesta al reportage. Un passaggio, tra l’altro, che deve precedere ogni altro step, anche il classico lavoro sul campo. Ma come si individua una storia da raccontare? Come ci si prepara alla realizzazione di un reportage? Come si accede a una storia? E come si trovano dei contatti di fiducia capaci di accompagnarci dentro quella realtà? L’obiettivo della terza lezione del corso di giornalismo di reportage proposto da The Newsroom Academy sarà proprio quello di rispondere a domande del genere. Ospite d’eccezione Floriana Bulfon, pluripremiata giornalista dell’Espresso e autrice del libro Casamonica. La storia segreta, edito da Rizzoli, che interverrà raccontando la sua esperienza di cronista e reporter specializzata nel raccontare storie riguardanti la criminalità organizzata e le realtà di disagio e sofferenza in Italia.

In base alla sua esperienza giornalistica, come si individua una storia da raccontare? E come ci si prepara alla realizzazione di un reportage?

I vecchi manuali di giornalismo – ma lo stesso principio e lo stesso esempio era adottato nella scuola di formazione della Bbc e alla facoltà di giornalismo della New York University – sostenevano che per individuare una storia bisogna affidarsi alla “stella polare“. Cosa significa? Esistono una serie di fattori che determinano l’orientamento di un giornale. Ad esempio: un settimanale arriva in edicola diversi giorni dopo essere stato confezionato – l’Espresso per cui lavoro io ne impiega quattro – e non posso scegliere una storia che diventerà di dominio pubblico, ad esempio perché i responsabili saranno arrestati, perché ci sarà una conferenza stampa o una votazione parlamentare, o sarà superata quando il mio articolo viene messo in vendita.

Allo stesso tempo bisognerà capire se è una testata che punta sulla cronaca o di taglio più politico, se ha diffusione nazionale o solo regionale, qual è la linea politica – sì esiste una linea politica, anche se nei giornali sani non riguarda le notizie quanto le interviste e i commenti. Su questa stella polare poi possono influire fattori del momento. Ci sono tematiche o materie che sono più popolari o ricevono più attenzione. Nessuno si occupava dei Casamonica quando ho cominciato la mia esplorazione nelle periferie romane, poi dopo il celebre funerale del “padrino” con carrozza e cavalli all’improvviso tutti volevano scriverne. Se si tratta di lavorare a un’inchiesta, le squadre “pure e dure” di giornalismo americano – è quello che più o meno si vede nel film Spotlight – fanno una sorta di preventivo.

Quale è il risultato massimo a cui posso arrivare? Posso sperare di arrivare a dimostrare che il ministro X è corrotto o solo a dire che il ministro X è circondato di persone corrotte? Poi si chiede in quanto tempo posso arrivare a questo risultato – settimane? mesi? – e quindi con quale costo: sono necessari viaggi all’estero per sentire testimoni, consultare documenti, trovare riscontri? Sulla base di questo preventivo si decide se procedere o meno.

In Italia accade molto più raramente, ma accade. Cito ancora l’Espresso, con i grandi consorzi d’inchiesta come Icij o prima WikiLeaks: partecipare a un leaks richiede molto tempo – in genere mesi – e spese di viaggio significative. O il longform di inchiesta sulla missione russa a Bergamo per il Covid, che ha richiesto un impegno di circa tre mesi. Un reportage pone le stesse problematiche. Se pure vado a raccontare una realtà che non è nascosta, devo cercare di capire cosa potrò trovare prima di muovermi: pianificare appuntamenti per colloqui e interviste, individuare i luoghi e le storie simbolo da descrivere. E ipotizzare quanto tempo e con quale spesa potrò farlo. Per capire se ne vale la pena. 

Nella sua carriera lei ha scritto molteplici storie di successo inerenti alla realtà italiana. Una volta “selezionata” la storia da raccontare, come si accede a essa? Come si trovano dei contatti di fiducia capaci di accompagnarci dentro quella realtà?

Difficile dare una risposta. Il giornalismo è una professione che in realtà ha il carattere di un mestiere artigianale. Si impara dall’esperienza, si impara da un maestro o “rubando” da un artigiano migliore, studiando come si muove per apprenderne lo stile. L’esperienza ti permette di capire come muoverti. Quali sono le fonti tradizionali. Mi occupo di una storia avvenuta in un paesino? Parlo col parroco, col farmacista, il barista della piazza principale, il barbiere; le sorgenti di dati a cui ho accesso, se la storia ha un risvolto economico ci sono numerose banche dati, e più in generale quale è la tattica di approccio migliore. Pur sapendo che poi devi spesso improvvisare.

Una fonte, qualcuno che ti riveli qualcosa per cui corre dei rischi, la costruisci nel tempo ed è un rapporto che può durare una vita. Diverso è la capacità di creare empatia con un testimone o con le persone che possono avere informazioni “non riservate” e così convincerle a parlare. Oggi molti pensano che bastino Google e il telefono per fare un articolo. No, se vuoi avere la differenza devi andare nei posti e convincere le persone a parlarti, devi costruire fiducia. La vicenda del pestaggio dei Casamonica al Roxy Bar l’ho scoperta così. Ed è stato uno scoop che ha tenuto banco per settimane.

Come e perché ha scelto di intraprendere la carriera di giornalista? E come si è avvicinata alla professione?

La consapevolezza di voler fare la giornalista arriva nei primi anni Novanta. Sono gli anni delle stragi di mafia, una stagione di annientamento sanguinoso, e gli anni delle guerre jugoslave. Per chi come me viveva accanto a quel confine, abituata ad attraversare la frontiera quasi ogni settimana, è stato qualcosa di spaventoso. L’orrore è entrato nella nostra vita. Ho scelto di fare questo mestiere tenendo fermi due punti: analisi rigorosa e capacità di narrare il meccanismo.

Essenziale è stare nei posti, soprattutto in quelli dimenticati che non sono necessariamente lontani da noi. Essere testimoni dei fatti, viverli per capirli e svelarli senza sconti. Ho iniziato a scrivere allora ma poi ho intrapreso un’altra strada. Solo dopo anni ho capito che non potevo smettere di fare la giornalista e così ho iniziato a proporre servizi e naturalmente per un bel po’ ho preso delle porte in faccia. Nel tempo però ho fatto del mio ritardo la mia forza, mettendo a frutto le competenze che mi venivano da una formazione diversa.

Da quando ha iniziato a scrivere a oggi, quali sono le differenze più sostanziali che hanno caratterizzato maggiormente la professione del giornalista?

Sono molte anche se è trascorso poco più di un decennio. Il sistema mediatico è travolto dai ritmi della rete ma non ha più senso inseguire l’ultima notizia. Ci sono già programmi di intelligenza artificiale che sono in grado di trasformare un lancio di agenzia in un articolo o di aggregare più articoli e farne un altro: tra pochissimo saranno questi software a comporre le “ultim’ora” dei siti web. Per questo il giornalismo deve produrre approfondimento.

Occorre invece far capire ai tuoi lettori quali sono le cause di un fatto, analizzare le sue conseguenze e spiegarne il contesto. Farlo con tante informazioni, con un inquadramento non solo statistico ma anche sociale e culturale. E renderlo un racconto che colpisca – per parole o per immagine – grazie alle scelte dell’autore. Questo vale per tutte le piattaforme: carta, podcast, video.

Quali sono le storie o le inchieste alle quali è particolarmente legata?

Quelle che riescono a cambiare le storture e a dare voce a chi troppo spesso non ce l’ha. Penso ai lavori che ho portato avanti in questi anni sulle mafie, da quelle romane all’ultimo su una macro mafia capace di muoversi tra Italia, Paesi Bassi ed Emirati, ma anche ai reportage dal Kurdistan e alle inchieste sulle dimenticanze e le attività criminali legate alla pandemia: dal piano pandemico alle stragi nelle Rsa fino allo spionaggio.

Perché dal suo punto di vista The Newsroom Academy è una scuola unica nel suo genere e perché vale la pena partecipare ai corsi?

Vale la pena perché io tornando indietro parteciperei. Mi avrebbe aiutato molto ascoltare professionisti, sentire nel concreto come si procede, sperimentare senza aver paura di sbagliare. Un tempo si imparava nelle redazioni, ora il nostro è un mestiere sempre più di freelance e spesso non si ha la possibilità di confrontarsi con gli altri e di misurarsi sul campo.

Raccogliere notizie e stendere una storia: le nuove coordinate del giornalismo. Federico Giuliani su Inside Over il 28 novembre 2021. Nella quarta lezione del corso di giornalismo di reportage promosso da The Newsroom Academy ci sarà un ospite d’eccezione. Stiamo parlando di Giampaolo Musumeci, giornalista di esteri e oggi autore e conduttore dei programmi di Radio24 “Nessun luogo è lontano” e “Io sono il cattivo”, con il quale verranno approfonditi i vari aspetti inerenti alla raccolta delle notizie e alla stesura della storia. Musumeci, attraverso la sua esperienza di reporter, docente e redattore, sarà in grado di rispondere e dare informazioni esaustive e articolate su tutti gli aspetti della realizzazione di un reportage, dalla fase di ricerca sul campo a quella di editing in redazione. Lo abbiamo intervistato per inquadrare meglio i temi che svilupperà durante il suo corso.

Cosa vuol dire essere reporter oggi?

Secondo me i punti fondamentali da analizzare per definire la figura del reporter sono due. Da un lato l’uso di nuovi linguaggi (Instagram, Twitter e via dicendo) ci sta portando verso un giornalismo molto sintetico, molto d’effetto. Allo stesso tempo il giornalista diventa quasi un protagonista che ambisce a farsi vedere, a far vedere al pubblico che va nei posti. Benissimo. Ma se questo non viene accompagnato da esperienza, solidità, studio e tecnica giornalistica, tutto ciò rischia di fornire un’informazione vuota, con una fruibilità svilita dai contenuti. Va bene, insomma, assecondare queste tendenze per raggiungere un pubblico giovane, ma bisogna ricordare che il mestiere del giornalista ha delle regole. Il mezzo non può fagocitare il contenuto. Ecco, infine, l’altro aspetto sul quale intendo soffermarmi: i media tradizionali sono lentissimi e molto spesso gerontocratici. In più non si rendono conto che sta cambiando tutto e non hanno le competenze per stare al passo con i tempi.

Assieme alla figura del reporter è cambiato anche il modo di fare reportage? Che cambiamenti hai visto?

Ho girato i miei primi video con le cassette. Era il 2011 e mi trovavo in Libia. In quel periodo c’è stato un momento preciso che mi ha fatto capire che nel mondo del giornalismo era cambiato tutto. All’epoca ero nei pressi di Bengasi, stavo girando con le mie cassettine e la mia Sony. A un certo punto ci sono degli scontri. Mentre inizio il mio lavoro di reporter, sopraggiunge un van. Scende dal mezzo una troupe di Al Jaazera: tre telecamere e una parabola. Iniziano una diretta. Ho guardato i miei strumenti e mi sono chiesto: “Che cosa ci sto a fare io? Adesso butto via tutto?”. Secondo me il 2011 è stato un anno di svolta. Sono avvenute guerre in luoghi molto accessibili (Tunisia, Egitto, Libia). Tanti giornalisti sono partiti all’avventura, molti non erano preparati. Giornali e tv hanno iniziato ad acquisire materiale anche da colleghi non ipersolidi. Questo ha cambiato anche le regole del mercato. Ho sentito di colleghi e amici che, pur di apparire su media prestigiosi, hanno dato pezzi quasi gratis. Nel 2011 c’è stato, insomma, uno doppio svilimento, sia del mezzo che del mercato.

Perché sei stato attratto dalla professione giornalistica?

A 10 anni ero impegnato nella realizzazione del giornalino della mia classe: era già evidente ciò che volessi fare. Per spiegare la molla che mi ha spinto verso la professione giornalistica, racconto un episodio della mia carriera. Ho fatto un anno in Adnkronos, lontano dai riflettori e dalla prima linea. Facevo i lanci di agenzia, firmavo con l’iniziale del mio nome e del mio cognome. Eppure ero contentissimo perché mi trovavo dove succedevano le cose. Se oggi tu proponessi un’esperienza del genere a uno di questi giovani reporter d’assalto – che vogliono sempre apparire ed essere protagonisti della storia – riceveresti quasi sicuramente un netto rifiuto. A me, invece, interessa questo: stare dove succede un avvenimento e capirlo, per poi raccontarlo. Adesso faccio un programma, ma è successo 20 anni dopo che ho intrapreso un certo percorso. In sostanza, sono stato guidato da questa domanda: “Come posso essere utile per raccontare certi fatti?”. Ho cercato di seguire e studiare certe tematiche per cercare di fare quelle poche cose al meglio. Perché sapevo che lì potevo dare un valore aggiunto su certi temi. La vera molla, secondo me, deve essere questa.

Quali sono i reportage ai quali sei più legato?

Il mese passato in Libia nel 2011 è stato interessante e formativo. Avevo creato un collettivo. Eravamo in tre: un fotografo, penna pura, io facevo video e radio. Quel mese lì abbiamo confezionato tantissime storie vendendole a molti clienti diversi. Cito poi il Congo: è il paese a cui sono più legato per vari motivi. È di cuna complessità incredibile ma viene raccontato molto male. Infine il lavoro in cui ho avuto più budget e tempo (paradosso) è stato un documentario fatto a Hebron in Cisgiordania, dove il committente non era una testata giornalistica ma la Croce Rossa. I giornali hanno sempre meno tempo e soldi, e paradossalmente i soggetti del terzo settore sono quelli che hanno tempo, voglia, soldi ed energie per raccontare e far raccontare storie di lungo respiro. 

Perché partecipare all’Academy?

Lo dirò anche nel corso. Quello del giornalista è il lavoro più bello del mondo, però chi sceglie di intraprendere una strada del genere dovrà scontrarsi per tutta la vita contro tutto e tutti. Per i motivi che dicevo prima, per la difficoltà del lavoro, e perché non si stacca mai la spina. Uno degli studenti del corso, tra cinque-dieci anni, magari si chiederà: “Chi me l’ha fatto fare?”. È però importante sottolineare altri aspetti: siamo freelance, possiamo decidere le storie da raccontare e anche permetterci di essere ondivaghi. Nel mio caso, questo mi ha permesso di campare. Anche perché ho avuto un percorso strano: ho iniziato a scrivere sul Resto del Carlino, poi ho scritto di musica quindi ho fatto il pubblicitario e in seguito l’autore tv. Ho scoperto che sapevo “girare” e allora mi son buttato sugli esteri. Questo percorso, apparentemente caotico, mi ha dato numerose competenze diverse che adesso riesco a spendere.

FANPAGE NON MOSTRA IL VIDEO INTEGRALE. PIAZZA PULITA TAGLIA E MONTA LE INTERVISTE ALLA MELONI. E QUESTO SAREBBE GIORNALISMO? Il Corriere del Giorno il 7 Ottobre 2021. Giorgia Meloni : “Ho chiesto a loro, di Piazza Pulita, di aiutarmi a fare chiarezza fino in fondo e loro si sono rifiutati. Perché? E comunque il lavoro non è stato fatto da Piazza Pulita che ha mandato in onda il lavoro fatto da altri: ha controllato? E poi curiosamente anche le mie risposte sull’intervista della giornalista mandate in onda stasera sono state arbitrariamente tagliate e montate”. “Fidanza? E’ stato sospeso solo per il fatto di frequentare quella gente. Come ho detto anche questa sera a ‘Dritto e rovescio’ su Retequattro, non c’è nessuno spazio in Fratelli d’Italia per nostalgie del fascismo, razzismo, antisemitismo, folklore e imbecillità. E non c’è in queste dichiarazioni niente di nuovo rispetto al passato. Formigli non lo sa perché la verità non pare interessargli”. Lo dice Giorgia Meloni all’AdnKronos, replicando alle parole del giornalista Corrado Formigli, che nella puntata di questa sera di ‘PiazzaPulita’, su La7, ha accusato la presidente di Fratelli d’Italia di non aver detto “di essere schifata dai saluti fascisti e dalle proposte discutibili di finanziamenti ‘black’” mostrati nell’inchiesta di Fanpage sull’estrema destra a Milano, in cui è finito anche Carlo Fidanza ex capo-delegazione al Parlamento Europeo di Fratelli d’ Italia . “L’imbarazzo con il quale Formigli ha replicato a chi gli chiedeva perché non tirasse anche fuori il tema della condanna nel comunismo con gli esponenti della sinistra dimostra quanto sia sincero nella condanna delle ideologie totalitarie del XX secolo. Persone così ideologizzate lezioni di morale non hanno da farne“. La Meloni non ci sta ad essere definita arrogante per aver chiesto il girato integrale dell’inchiesta della testata online, quelle 100 ore che Fanpage dice (ma non prova) di aver registrato: “Io ho chiesto il girato con garbo, loro non me lo hanno dato. Questi sono fatti”, dice la leader di Fdi. “Io sono giornalista e non ho mai letto da nessuna parte che l’autonomia del giornalista comporti poter distruggere le persone senza mostrarne interamente le prove. – ricorda Giorgia Meloni – Per il resto ho chiesto a loro, di Piazza Pulita, di aiutarmi a fare chiarezza fino in fondo e loro si sono rifiutati. Perché? E comunque il lavoro non è stato fatto da Piazza Pulita che ha mandato in onda il lavoro fatto da altri: ha controllato? E poi curiosamente anche le mie risposte sull’intervista della giornalista mandate in onda stasera sono state arbitrariamente tagliate e montate”.

LA NUOVA FRONTIERA DEL GIORNALISMO D’INCHIESTA. Il Corriere del Giorno l’8 Ottobre 2021. Pubblichiamo il documento dell’Osservatorio sull’Informazione Giudiziaria, Media e processo penale. “Questo non è giornalismo di inchiesta così come lo si vuol definire. È piuttosto il frutto di una vera e propria attività investigativa, sottratta a qualunque forma di controllo dell’Autorità Giudiziaria ed alle regole che presidiano la genesi e lo sviluppo delle vicende processuali”.

Osservatorio sull’informazione giudiziaria: Venerdì scorso il programma “Piazza Pulita” ha dato voce e spazio alla rivista on line Fanpage.it mandando in onda un filmato girato con una telecamera nascosta da un giornalista che per tre anni si è finto un uomo d’affari a cui interessava finanziare un gruppo politico italiano al fine di ottenere vantaggi per il proprio business e ha iniziato a frequentare personaggi della destra milanese. Tale divulgazione pare abbia suggerito, ieri, l’apertura di un fascicolo di indagine con le ipotesi provvisorie di condotte di finanziamento illecito ai partiti, riciclaggio e apologia di fascismo. Non ci interessa entrare nel merito, né tornare a parlare dell’uso strumentale delle indagini giudiziarie per contrastare quello o quell’altro avversario politico e neppure, una volta tanto, di populismo giudiziario. Il tema, o meglio dire, il fenomeno che ci interessa è questa nuova forma di “giornalismo d’inchiesta”. Mentre il Parlamento è impegnato nella ‘traduzione’ legislativa della Direttiva Europea in materia di presunzione d’innocenza, ove centrale è il tema affrontato in relazione alle ricadute anche sul versante mediatico, lo “strepitus” connesso al risalto offerto dalla stampa ad una vicenda dai connotati ‘penalmente’ rilevanti trova infatti un’ulteriore modalità espressiva. In questo caso non si assiste più alla ‘ricerca’ di informazioni correlate alla vicenda sottostante un’indagine giudiziaria in corso o alle solite, impunite violazioni del segreto istruttorio. Questa volta siamo al cospetto di un reporter che, dissimulando il proprio status personale, stimola proposizioni e comportamenti penalmente rilevanti, sino a determinare il momento genetico della notitia criminis, all’esito della pubblicazione del reportage. Il percorso ‘informativo’ subisce così una drammatica inversione ad U nel suo ‘fisiologico’ sviluppo informando il cittadino con la notizia di un fatto innescato e non con l’approfondimento di un fatto già accaduto. Questo non è giornalismo di inchiesta così come lo si vuol definire. È piuttosto il frutto di una vera e propria attività investigativa, sottratta a qualunque forma di controllo dell’Autorità Giudiziaria ed alle regole che presidiano la genesi e lo sviluppo delle vicende processuali. Siamo giunti ad un crocevia estremamente pericoloso, nel quale le persone sono offerte in pasto all’opinione pubblica sulla base di informazioni raccolte nel corso di una vera e propria ‘indagine privata’, che addirittura precede e ‘genera’ la vicenda procedimentale propriamente intesa. Un’indagine che non conosce termini da osservare, autorizzazioni da chiedere, contraddittori da rispettare, che si avvale dei mezzi più invasivi della privacy, di intercettazioni ambientali, telecamere nascoste e agenti provocatori, i cui risultati vengono divulgati senza alcun controllo. Altro che direttive sulle conferenze stampa, garanzie e presunzione di innocenza. La domanda sorge spontanea: si tratta di un’attività lecita? Il primo precetto che appare violato è quello di cui all’art. 494 c.p. (sostituzione di persona), poi, dietro fila, entrano in gioco l’art 167 Codice Privacy (trattamento illecito dei dati tramite diffusione delle conversazioni, l’art. 615-bis c.p. (interferenze illecite nella vita privata), l’art. 617-septies c.p. (diffusione di riprese e registrazioni fraudolente). Dunque, la punibilità per la violazione di quest’ultima norma è espressamente esclusa (scriminata) allorquando la diffusione si commetta per l’esercizio del diritto di difesa o di cronaca. Nel parametrare la scriminante del diritto di cronaca al reato di sostituzione di persona, la Corte di Cassazione in un primo momento ha avuto modo di affermare che il giornalista non può realizzare un inganno tale da sostituirsi ad altra persona per carpire informazioni alla fonte, nè, in generale, deve ritenersi che egli possa commettere reati strumentali, prodromici e funzionali alla acquisizione della notizia, sia pur di interesse pubblico, contando sull’effetto “salvifico” della scriminante dell’esercizio del diritto ad informare. Per poi affermare di recente come “l’interpretazione convenzionalmente orientata della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto alla luce dell’art. 10 della convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali impone di ritenere configurabile la scriminante del diritto di cronaca non soltanto in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, ma anche con riguardo ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima, salva la valutazione della violazione o meno degli eventuali limiti estrinseci del diritto.” In altre parole, spetterebbe al giudice valutare nel merito il bilanciamento tra gli interessi in gioco e verificare se la pubblicazione della notizia abbia apportato un contributo ad un dibattito pubblico su un tema di interesse generale e se nelle circostanze del caso concreto l’interesse ad informare la collettività prevalga “sui doveri e sulle responsabilità” che gravano sui giornalisti. Siamo dunque al cospetto di una nuova pericolosa frontiera del processo mediatico, che non possiamo non segnalare, perché essa è posta oltre confine ed è in grado di oltrepassare qualsiasi limite, tra quelli finora ipotizzati dal legislatore, al fine di salvaguardare il principio della presunzione di innocenza. Se non si porranno sanzioni effettive alla violazione del segreto istruttorio e limiti alle interpretazioni estensive delle norme sovranazionali in contrasto con la nostra costituzione (come del resto è accaduto in tema di mafia e di prescrizione), il “giornalismo d’inchiesta” si sostituirà alla magistratura inquirente, con l’unico impellente target di raggiungere lo scoop, senza trovare alcun freno inibitore, neppure le sanzioni penali. Oggi è successo ad un partito politico, domani potrà accadere ad altri schieramenti, ed ancor peggio, a qualsiasi cittadino, al di là della personale visibilità o notorietà. Sarà sufficiente che il caso che si vorrà scoprire o creare sia idoneo a promuovere un dibattito pubblico che, come al solito, assumerà più importanza di un eventuale, successivo procedimento penale. L’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’ Unione delle Camere Penali Italiane.

"L'unico obiettivo è raggiungere lo scoop". I penalisti contro il caso Fidanza: “Non è giornalismo d’inchiesta ma indagine privata che si sostituisce ai pm”. Redazione su Il Riformista il  7 Ottobre 2021. “Questo non è giornalismo di inchiesta così come lo si vuol definire. E’ piuttosto il frutto di una vera e propria attività investigativa, sottratta a qualunque forma di controllo dell’Autorità Giudiziaria ed alle regole che presidiano la genesi e lo sviluppo delle vicende processuali”. A scriverlo è l’osservatorio sull’informazione giudiziaria delle Camere penali, in merito all’inchiesta di Fanpage sulla presunta “lobby nera” che ha coinvolto l’europarlamentare di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza e Roberto Jonghi Lavarini, noto come il “Barone nero”, che hanno sostenuto la candidata al consiglio comunale di Milano di Chiara Valcepina. “Siamo giunti ad un crocevia estremamente pericoloso – osservano i penalisti – nel quale le persone sono offerte in pasto all’opinione pubblica sulla base di informazioni raccolte nel corso di una vera e propria ‘indagine privata’, che addirittura precede e ‘genera’ la vicenda procedimentale propriamente intesa”. Secondo gli avvocati “e dunque al cospetto di una nuova pericolosa frontiera del processo mediatico, che non possiamo non segnalare, perché essa è posta oltre confine ed è in grado di oltrepassare qualsiasi limite, tra quelli finora ipotizzati dal legislatore, al fine di salvaguardare il principio della presunzione di innocenza: se non si porranno sanzioni effettive alla violazione del segreto istruttorio e limiti alle interpretazioni estensive delle norme sovranazionali in contrasto con la nostra Costituzione (come del resto è accaduto in tema di mafia e di prescrizione), – si legge ancora nel documento – il ‘giornalismo d’inchiesta’ si sostituirà alla magistratura inquirente, con l’unico impellente target di raggiungere lo scoop, senza trovare alcun freno inibitore, neppure le sanzioni penali“. Oggi, rileva ancora l’osservatorio delle Camere penali, “è successo ad un partito politico, domani potrà accadere ad altri schieramenti, ed ancor peggio, a qualsiasi cittadino, al di là della personale visibilità o notorietà. Sarà sufficiente che il caso che si vorrà scoprire o creare sia idoneo a promuovere un dibattito pubblico che, come al solito, assumerà più importanza di un eventuale, successivo procedimento penale”.

Da liberoquotidiano.it il 7 ottobre 2021. "Non è giornalismo d'inchiesta" ma una "indagine privata" al di fuori di regole e controlli. A "smontare" l'inchiesta "Lobby nera" di Fanpage su Fratelli d'Italia è l'Osservatorio dell'Unione delle camere penali. Organismo istituzionale non propriamente di parte, dunque. L'indagine giornalistica, andata in onda giovedì scorso a Piazzapulita su La7, realizzata nel corso di 3 anni con un giornalista sotto copertura e infiltrato come "finto imprenditore", ha portato a galla diversi "filoni". Da un lato, il possibile ricorso a forme di finanziamento elettorale in nero da parte di importanti esponenti di Fratelli d'Italia in Lombardia. Dall'altro, quello di atteggiamenti nostalgici verso il Fascismo e riferimenti a Hitler. Per questo motivo martedì la Procura di Milano ha aperto una indagine per riciclaggio e finanziamento illecito su Carlo Fidanza, europarlamentare di FdI (auto-sospesosi) e il "barone nero" Roberto Jonghi Lavarini, che nel partito di Giorgia Meloni da anni non ha più alcun ruolo ufficiale. E dalla Procure filtrano voci di possibili sviluppi per "apologia di fascismo". Secondo l'Ucpi, in un durissimo comunicato, "questo non è giornalismo di inchiesta così come lo si vuol definire", ma "piuttosto il frutto di una vera e propria attività investigativa, sottratta a qualunque forma di controllo dell'Autorità Giudiziaria ed alle regole che presidiano la genesi e lo sviluppo delle vicende processuali. Siamo giunti ad un crocevia estremamente pericoloso, nel quale le persone sono offerte in pasto all'opinione pubblica sulla base di informazioni raccolte nel corso di una vera e propria 'indagine privata', che addirittura precede e 'genera' la vicenda procedimentale propriamente intesa". L'Osservatorio carceri dell'Unione delle camere penali lancia l'allarme su una indagine "che non conosce termini da osservare, autorizzazioni da chiedere, contraddittori da rispettare, che si avvale dei mezzi più invasivi della privacy, di intercettazioni ambientali, telecamere nascoste e agenti provocatori, i cui risultati vengono divulgati senza alcun controllo". Siamo di fronte, insomma, a "una nuova pericolosa frontiera del processo mediatico". "Se non si porranno sanzioni effettive alla violazione del segreto istruttorio e limiti alle interpretazioni estensive delle norme sovranazionali in contrasto con la nostra Costituzione, il 'giornalismo d'inchiesta' si sostituirà alla magistratura inquirente - avvertono i penalisti - con l'unico impellente target di raggiungere lo scoop, senza trovare alcun freno inibitore, neppure le sanzioni penali. Oggi è successo ad un partito politico, domani potrà accadere ad altri schieramenti, ed ancor peggio, a qualsiasi cittadino, al di là della personale visibilità o notorietà".

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 18 febbraio 2021. Dieci anni fa c'era solo un impiegato in un ufficio di Leicester, in Inghilterra: molto annoiato, con molto tempo a disposizione e con un'ossessione per i video di guerra su YouTube. Oggi quel tizio è Eliot Higgins, il fondatore di Bellingcat, il sito web di investigazioni che ha smascherato i crimini di Assad in Siria e le operazioni segrete del Cremlino. Una storia raccolta in un libro appena uscito a Londra e in via di pubblicazione in tutto il mondo («Noi siamo Bellingcat: un'agenzia di intelligence per il popolo»): una vicenda che Higgins ha ripercorso ieri in un incontro con la stampa internazionale. «Volevo scrivere questo libro - racconta l'autore - perché mi è sembrato il momento giusto per mostrare cosa sono diventate le indagini basate su fonti open source (cioè su dati disponibili a chiunque su Internet). Ora ci sono molti sforzi per trasformare questo lavoro in qualcosa di utile anche a livello giudiziario: ma è cominciato dieci anni fa con me che litigavo con la gente sui social media attorno ai video del conflitto in Libia. Poi è venuto il blog per mettere giù le mie idee: ma all'inizio non era più di un hobby». Un hobby che lo ha portato lontano. Assieme ad altri dilettanti del web, usando tecniche come la geo-localizzazione satellitare, ha dimostrato l'uso di bombe a grappolo e di armi chimiche da parte della forze di Assad in Siria. «Sempre più gente ha chiesto di scrivere sul mio blog: e così ho lanciato il sito», spiega Higgins. Bellingcat prende il nome dalla storia dei topolini che mettono la campanella al collo del grosso gatto: «Io insegno alla gente come mettere la campanella al gatto», dice Higgins. «Quando succede qualcosa c'è un sempre un'eco su Internet: video, foto, testimonianze. Noi guardiamo all'impronta digitale di un evento reale», per ricostruire cosa è accaduto. Il grande catalizzatore è stato l'abbattimento dell'aereo della Malaysian Airlines nei cieli dell'Ucraina, nel 2014: Higgins e la sua armata amatoriale hanno dimostrato che erano stati i soldati russi. E allo stesso modo hanno poi smascherato gli agenti di Putin responsabili dell'avvelenamento degli Skripal a Salisbury e quelli dietro il tentativo di assassinare Aleksey Navalny. Il che ha messo Higgins al centro dell'attenzione del Cremlino: «Prima ho ricevuto attenzioni moleste dai media russi - rivela - poi attacchi hacker, quindi il loro ambasciatore ci ha accusati di essere al servizio dell'intelligence britannica. E ora il fatto che abbiamo rivelato almeno sette-otto omicidi compiuti dai servizi russi col nervino rappresenta un ulteriore elemento di pericolo». Ma la cosa stupefacente è che tutto questo lavoro è stato svolto da uno che non è un giornalista - «e non mi considero tale» - né uno 007. Ed è la dimostrazione che bisogna solo avere occhi per guardare dalla parte giusta.

·        Le Intimidazioni.

Dagospia il 25 novembre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Non possiamo tacere sul fango che sta circolando sul programma a cui collaboriamo da anni, alcune e alcuni di noi da decenni. Consideriamo ridicole e offensive le parole riportate in pubblico tratte da una lettera anonima che mettono in discussione la professionalità di colleghi e colleghe. Ci spiace constatare che queste calunnie abbiano trovato eco all'interno dell'Organo di Vigilanza sul Servizio pubblico radiotelevisivo, in una interrogazione che getta ombre sulla correttezza dell'intero nostro lavoro. Da quando è iniziata la sua storia, quasi 25 anni fa, Report ha sempre avuto una sola linea: trovare e approfondire le notizie, verificarle oltre ogni ragionevole dubbio e renderle pubbliche perché questo è il dovere di ogni giornalista. Ci dispiace ancora di più che le principali vittime di questa vicenda siano le colleghe che lavorano in redazione e realizzano le inchieste, con grande professionalità, passione per il lavoro giornalistico e serietà indiscussa. E ci colpisce che se ne parli solo ora, per stessa ammissione di alcuni membri della Commissione, diversi mesi dopo la circolazione del testo anonimo e non quando a suo tempo ricevuto, questo proprio a ridosso della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. A respingere al mittente le accuse di inchieste pretestuose basta la storia degli attacchi giudiziari ricevuti da Report, che ha sempre dimostrato l'inattaccabilità dei suoi servizi e delle sue croniste e cronisti. Ci sembra di assistere a un copione troppo spesso, in passato, già letto e subìto da colleghe e colleghi che davano fastidio. Quando il lavoro d'inchiesta è inattaccabile, si tenta di colpire sul personale. Evidentemente il lavoro dell'intera redazione dà  fastidio a troppi. 

Report, una lettera anonima accusa Ranucci di abusi in redazione. Lui: «Fango e falsità». Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2021. Una lettera anonima accuserebbe Sigfrido Ranucci di condurre la sua trasmissione, Report, in maniera non professionale: dal mobbing sugli altri giornalisti ai servizi montati ad arte, fino alle avances sessuali verso alcune colleghe. Una missiva nota da mesi, tornata al centro del dibattito dopo che mercoledì scorso, durante l'audizione in Vigilanza Rai, Davide Faraone (Italia Viva) e Andrea Ruggieri (Forza Italia) avrebbero chiesto spiegazioni all'ad Carlo Fuortes. A raccontare la vicenda, dall'inizio, è il conduttore di Report, in un lungo post su Facebook. «Altro fango su Report da Italia Viva e Forza Italia che riciclano lettere anonime. Dopo i falsi dossier su fonti pagate, le false mail tra me e Casalino, le false accuse di essere no vax, ora arrivano le lettere anonime con le accuse di “bullismo sessuale in redazione e di servizi preconfezionati”», scrive Ranucci. A «mettere il fango nel ventilatore» — prosegue il post — « sono stati ieri (mercoledì, ndr) in commissione di vigilanza parlamentare gli “onorevoli” Davide Faraone di Italia Viva e Andrea Ruggeri di Forza Italia. I due hanno chiesto chiarezza sulla lettera anonima. Vorrei rassicurarli. Prima di loro è stato il sottoscritto a chiederla». Si tratta di «un altro dossier basato su falsità. E ho già presentato una denuncia il 5 agosto», ha aggiunto poi il conduttore parlando all’AdnKronos, riferendosi ai comportamenti impropri di cui è accusato. In merito alla lettera anonima che riguarda Ranucci, «devo dire che è la prima volta che sento una cosa del genere. Evidentemente alla responsabile dell'Audit non è arrivato nulla perché lei sa che mi deve avvertire quando ci sono cose importanti. Cercheremo di capire di cosa si parla. Io agli atti non ho nessun tipo di denuncia formale o informale», ha replicato Fuortes.

Felice Manti per "il Giornale" il 25 novembre 2021. C'è una lettera anonima che sta togliendo il sonno a Sigfrido Ranucci, conduttore di Report. Un elenco di accuse pesanti: servizi confezionati ad arte, mobbing tra le scrivanie, relazioni sessuali con colleghe. Un caso di #metoo e di scarsa deontologia nel sedicente tempio del giornalismo d'inchiesta? Sarebbe un paradosso. A far scoppiare la bomba in commissione di Vigilanza Rai è stato Davide Faraone di Italia viva. Tra l'imbarazzato e lo stupito l'ad Carlo Fuortes: «È la prima volta che sento una cosa del genere. Evidentemente alla responsabile dell'Audit non è arrivato nulla perché lei sa che mi deve avvertire quando ci sono cose importanti. Cercheremo di capire di cosa si parla. Io agli atti non ho nessun tipo di denuncia formale o informale», ha detto. «Non si può dare credito a una lettera anonima, ma se ci sono delle denunce bisogna indagare comunque», ha fatto capire Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e membro della commissione di Palazzo San Macuto: «Cosa ha fatto o farà Rai per chiarire se il conduttore di Report è vittima di una calunnia, o se ci sono donne vittime di prevaricazione?». Già, perché nella missiva - che circolerebbe da mesi- si farebbe riferimento ad alcune colleghe che sarebbero state pesantemente dileggiate sul posto di lavoro. Il dossier sarebbe datato fine 2017 e poi sarebbe stato «allargato» ad altre vicende. Una prima versione sarebbe stata mandata via mail attraverso il servizio protonmail, che serve a proteggere l'identità del mittente. Le tre colleghe coinvolte, contattate dal Giornale, non commentano. Una serie di copie dattiloscritte a mano sarebbero state inviate per lettera sia ai vertici Rai sia al capo del personale. Circostanza confermata dalla denuncia ai carabinieri presentata da Sigfrido Ranucci il 5 agosto scorso, nella quale però si chiamerebbe in causa l'allora direttore di rete Franco Di Mare, che avrebbe convocato Ranucci per discuterne. Ma perché Fuortes non ne sapeva nulla? Perché è stata insabbiata? «A differenza di Report non amo né do credito a comunicazioni o interviste anonime, ma delle due l'una- dice Ruggeri al Giornale- Se Ranucci è vittima di calunnia è doveroso tutelare un protagonista del servizio pubblico; diversamente, la Rai non potrebbe tollerare atteggiamenti di bullismo professionale o sentimentale in seno a una redazione». Michele Anzaldi del Pd dice di averla ricevuta da tempo ma che il contenuto non lo ha mai convinto. Certo, le accuse sono gravissime, Ranucci si difende e fa sapere che denuncerà chiunque darà credito a questo falso dossier. Tra le illazioni pesantissime ci sarebbe anche quella di aver manipolato la verità. Un servizio assegnato a una giornalista sul ruolo di un grande gruppo sanitario lombardo durante la pandemia sarebbe sparito, senza mai andare in onda, perché «troppo equilibrato», lo stesso servizio sarebbe stato assegnato a un altro collega, con gli esiti sperati. Ne sarebbe nata persino una querelle con l'importante gruppo sanitario ma mai sfociata in uno scontro di carte bollate, come confermerebbe un carteggio intercorso al suo tempo tra il gruppo e Viale Mazzini. Adesso la palla passa all'Audit Rai. Peccato che Report non possa farci una puntata...

Negli altri Paesi non è permesso, non so in Italia...Woodcock mi vuole mandare in prigione, può fare il Pm in un processo contro l’editore del giornale che ha querelato? Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Scusate se ogni tanto parlo di cose nostre. In evidente conflitto di interessi. È solo che proprio in questi giorni mi sono occupato di un processo, anzi due, che il mio editore, Alfredo Romeo, sta affrontando a Napoli. Non da solo, insieme ad altre 50 persone. Diciamo pure una robusta associazione a delinquere. I processi sono due perché sono stati divisi dalla Procura. Uno è solo per Romeo e per l’architetto Russo, l’altro per Romeo, l’architetto e altri 50. Il primo è con giudizio immediato, il secondo con rito tradizionale. Il reato è esattamente lo stesso: tangenti. Le stesse identiche e ipotetiche tangenti. Gli imputati hanno proposto di unificare, perché a loro sembrava logico, ma il tribunale ha detto di no. Da quando ‘sta cosa è iniziata sono stati cambiati già 14 giudici. Gran giostra. Decine e decine di magistrati impegnati. Del resto – dicono- la partita è grossa. La parte principale del reato è il regalo di un myrtillocactus (non sapete cos’è? Ve lo dico io: una pianta, francamente bruttina, tutta attorcigliata, che vale dai 50 ai 100 euro); e poi c’è uno sconto consistente sul biglietto di ingresso a un centro benessere. e altre mandrakate simili. La somma di tutte le tangenti pagate da questa banda di 50 farabutti raggiungerebbe quasi i 1000 euro (800 per la precisione: circa 17 euro per imputato); i vantaggi ottenuti pare però che siano inesistenti. Gli imputati si difendono. Alcuni, compreso Romeo, dicono di non saperne niente. Altri sostengono che non credevano che regalando a una signora un myrtillocactus si commettessero – tutti insieme – i reati di truffa, associazione a delinquere, abuso d’ufficio, traffico di influenze, corruzione, peculato, violenza privata e così via. Riflettevo su tutto questo leggendo sui giornali che pare che siano state pagate tangenti significative anche per l’acquisto da parte del governo italiano di alcuni milioni di mascherine anti covid. Ci sono due tronconi di questa inchiesta. In uno dei due tronconi è coinvolto l’ex commissario anticovid Domenico Arcuri, nominato dall’allora premier Giuseppe Conte. Nell’altro Troncone è coinvolto invece l’ormai celebre Luca Di Donna, avvocato compagno di ufficio di Giuseppe Conte. Nel primo caso sarebbe stata pagata una commissione di circa 72 milioni di euro per queste mascherine. Che però erano mascherine fasulle. Non funzionavano e spargevano il contagio. Il governo le ha comprate lo stesso, e qualcuno ha messo a posto i conti di famiglia, credo, con questi 72 milioni (sai quanti mirtilli cactus si possono comprare con 72 milioni? Circa 900 mila. Il problema è che poi non sai dove metterli 900 mila mirtilli cactus…). Nel secondo caso sembra che agli imprenditori che fornivano le mascherine sia stata chiesta una commissione dell’8 per cento. E più o meno questa tangente avrebbe fruttato sempre una settantina di milioni. L’imprenditore rifiutò e l’affare saltò. Io sono sicuro che Romeo è innocente. Tendo a pensare che anche per i due casi Arcuri sia ingiusto condannare e mettere alla gogna prima che esca fuori qualcosa di concreto. Per ora c’è solo la certezza che le mascherine acquistate erano farlocche, e che un imprenditore umbro denuncia che a lui è stata chiesta una commissione dell’8 per cento. Tutto qui, eh. Non voglio trarre nessuna conclusione, per carità. Solo che mi veniva in mente questo paragone tra 800 euro e 72 milioni di euro. Siccome i giornali spesso hanno fatto molto chiasso sugli 800 euro. Prendete Il Fatto: oh, quanti articoli su Romeo! Su Arcuri- Di Donna-Conte un po’ meno. Vabbé, ognuno poi fa come gli pare. Oltretutto penso che sia molto difficile indagare su Conte se è vero quello che io vado dicendo da molto tempo, e cioè che Conte non esiste. C’è comunque l’assoluzione con la formula: l’imputato non sussiste. P.S. Magari avrò scritto anche perché ho il dente avvelenato. Il deus ex machina del processo per il myrtillocactus è il celebre Pm John Henry Woodcock. Il quale, ho saputo l’altro giorno, mi ha querelato e vuole mandarmi in prigione per diffamazione. Perché? Il solito: l’ho criticato. E Woodcock ha fatto causa al Riformista. Ai magistrati non piace mai essere criticati. Piuttosto, una domanda: ma visto che il Riformista appartiene a Romeo, può Woodcock fare il Pm in un processo nel quale l’imputato è il proprietario del giornale che lui querela? Negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Spagna, in Bulgaria e in diversi paesi asiatici e africani questo non è permesso. Non so in Italia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Follia anti Palamara: è un danno presentare il libro nelle spiagge. Lodovica Bulian il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. La teoria dell'avvocatura dello Stato nella richiesta di mixa-risarcimento da un milione. Con il libro intervista Il Sistema di Alessandro Sallusti, e con la sua presentazione in giro per l'Italia, l'ex pm Luca Palamara lederebbe ulteriormente l'immagine della magistratura e dunque del ministero della Giustizia: «Un libro a carattere denigratorio di tutto l'ordinamento giudiziario, che viene presentato in tutti i luoghi di villeggiatura e che continua a presentare una immagine distorta, viziata e di enorme discredito». Parlava così uno dei due legali dell'avvocatura dello Stato - come si legge oggi dalle trascrizioni - lo scorso 16 luglio, in una delle ultime udienze preliminari nel procedimento a carico di Palamara, prima del suo rinvio a giudizio con l'accusa di corruzione per l'esercizio della funzione. Il libro, che nulla ha a che fare con il processo e con quel capo d'imputazione, è stato invece citato dall'avvocatura - che rappresenta le parti civili della presidenza del consiglio dei ministri e del ministero della Giustizia - come un ulteriore danno all'immagine delle istituzioni: «Se l'evento offensivo è cessato non è cessato di sicuro il danno che viene richiamato, riprodotto costantemente da questi interventi mediatici che ne amplificano gli effetti in maniera esponenziale», continuano i legali. Che chiedono un risarcimento del danno da un milione di euro perché le condotte di Palamara sarebbero state «lesive degli stessi valori costituzionali di imparzialità e indipendenza della funzione giudiziaria», e soprattutto «della percezione che la collettività» ha dell'ordinamento giudiziario. Era stato l'allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede, all'indomani dello scandalo che nel maggio 2019 ha travolto il Csm, a volere che il ministero si costituisse parte civile nel processo, così come la presidenza del Consiglio di Giuseppe Conte. Che ha autorizzato il mandato all'Avvocatura dello Stato. Il trojan inoculato nel cellulare dell'ex consigliere del Csm che veniva intercettato per corruzione, aveva svelato anche le nomine pilotate negli uffici giudiziari. Uno scandalo che ha gettato «discredito sull'apparato» e provocato la «lesione dell'interesse alla imparziale e efficace organizzazione della giustizia», si legge nella costituzione di parte civile. Così come il danno provocato a Palazzo Chigi con la «lesione dei valori di imparzialità e indipendenza della funzione giudiziaria».

Il libro poi, che svela altri retroscena sulla storia della magistratura degli ultimi vent'anni, con la sua grancassa mediatica non avrebbe fatto altro che aggravare il danno. Ma se Palamara ha subito gridato alla censura da parte delle istituzioni, fonti del ministero della giustizia ricordano che la decisione di costituirsi parte civile risale a novembre 2020 ed e è precedente alla pubblicazione del libro. La scelta di tirarlo in ballo in Aula farebbe parte della strategia processuale degli avvocati a cui il ministero è «del tutto estraneo». E nulla cambia per i legali dello Stato neanche la riformulazione del capo d'accusa da parte dei pm perugini, che contestano non più la corruzione in atti giudiziari ma quella per l'esercizio della funzione: «L'imputazione di corruzione per l'esercizio della funzione non è di sicuro un'ipotesi inferiore, anzi - dicono in aula - attesa l'ampia lesività e il costante comportamento di mercificazione contestato all'imputato. E soprattutto non modifica la posizione delle due parti civili che hanno chiesto il risarcimento di un danno non patrimoniale come danno esistenziale e di un danno patrimoniale per quanto riguarda il ministero della Giustizia». Lodovica Bulian

Annullata la sentenza del Consiglio di Stato. “Il sistema non si tocca!” l’avvertimento del Csm a Viola. Sabrina Pignedoli su Il Riformista il 18 Luglio 2021. Quando ieri ho letto l’articolo del Riformista Il Csm straccia la sentenza “La giustizia è cosa nostra”, sono scoppiata a ridere: ma come può un Csm che è stato dimezzato dalle dimissioni a seguito degli scandali sulle nomine intervenire contro il Consiglio di Stato che metteva in rilievo quello che dovrebbe essere considerato l’ennesima irregolarità in una nomina? Lo dice sia il Tar, sia il Consiglio di Stato: la nomina uscita dal Csm di Michele Prestipino a procuratore di Roma non è corretta dal momento che vi era un altro pretendente, Marcello Viola, che aveva più titoli, più esperienza e più anzianità di servizio e pertanto era più meritevole di occupare quell’importante poltrona. Il “radicamento” territoriale – valutato dal Csm per Prestipino – non è un parametro tra quelli da prendere in considerazione per le nomine. Dopo il pronunciamento del Consiglio di Stato mi sarei aspettata che il Csm se ne stesse silente, con la coda tra le gambe e magari riflettesse seriamente sul perché è scaturita la nomina di Prestipino, da sempre molto vicino a Pignatone, al posto di quella di Viola, anche alla luce delle captazioni avvenute tramite il trojan del telefono di Luca Palamara. Parlando con Legnini, Palamara spiega perché Pignatone è interessato alla sua successione alla poltrona di procuratore capo di Roma. “Perché hanno paura che se va un altro mette le mani nelle carte, Giovà, e vede qualcosa che non va non c’è altra spiegazione come tipico di Pignatone questo è il discorso, è successo con me, è successo con Cisterna che devo dì che Pignatone mi ha chiesto tutte le cose parliamo di interferenze tutte le cose di Roma. Eh io l’ho fatto queste io le devo di ste cose o no. Dico io ho avuto sempre un ottimo rapporto, ogni cosa che mi chiedeva era funzionale all’ufficio”. Una frase che acquista senso anche alla luce della recente audizione di Luca Palamara alla Commissione parlamentare antimafia, quando ha spiegato che, per la sua successione a Reggio Calabria, Pignatone avrebbe voluto Prestipino perché vi erano vicende delicate che era meglio gestire con una certa "continuità", come quelle del magistrato Alberto Cisterna, del pentito Nino Lo Giudice, del ritrovamento del bazooka e del disciplinare a un altro magistrato del suo team, Beatrice Ronchi. Bene, alla luce anche di tutto questo, il Csm, anziché tentare di dimostrarsi minimamente credibile, lasciando che la questione se la risolvano i due magistrati che si contendono il posto, ha deciso di intervenire. E qui ho smesso di ridere. Perché se sono intervenuti con una delibera ‘adesiva’ al ricorso per Cassazione di Prestipino, significa che le “carte da gestire” sono molto, molto interessanti, che ci sono poteri in gioco ancora da difendere a spada tratta e che c’è tutto un sistema che non ha nessuna intenzione di cambiare, arroccato nella propria autodifesa e nell’avvertimento decisamente esplicito dato a chi non si piega alle decisioni del Sistema e presenta ricorso. Sabrina Pignedoli

Si faccia chiarezza con un’interrogazione. Vogliono zittire Palamara perché ha raccontato il marcio della magistratura: chiesto il sequestro del libro e 1 milione di euro. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 20 Luglio 2021. Giuro che quando ho letto la notizia sono caduto dalla sedia. Ho pensato ad uno scherzo. Tanto che ho cercato conferme perché non avevo trovato – con l’evidenza che meriterebbe – la notizia sui quotidiani. A che cosa mi riferisco? L’Avvocatura dello Stato ha chiesto il sequestro del saggio Il Sistema di Luca Palamara ed Alessandro Sallusti e il risarcimento di un milione di euro per il danno di immagine dello Stato. L’Avvocatura non agisce motu proprio; non ha l’obbligo di esercitare l’azione difensiva. Quindi da chi ha avuto l’incarico? Presumibilmente dal governo. Che ruolo hanno avuto Draghi e Cartabia? Qualche parlamentare di buona volontà dovrebbe presentare al più presto un’interrogazione, perché non è consentito che finisca sotto silenzio un fatto tanto grave, una vera e propria intimidazione. Magari per persuadere con le cattive Luca Palamara a non cimentarsi con una seconda puntata. Nel libro un ex magistrato racconta la sua esperienza ai vertici del sistema delle correnti, cita episodi (che dichiara di poter documentare se necessario) e denuncia la gestione – nell’ambito dell’autonomia del Csm – delle nomine mediante una accurata lottizzazione che è sotto gli occhi di tutti, tanto che, anche a causa di queste pratiche, è aperto il problema di come riformare l’organo di Palazzo dei Marescialli proprio per eliminare quei vizi che Luca Palamara ha rivelato. Un ex magistrato che ha fatto e disfatto carriere ai vertici dell’associazionismo giudiziario meriterà pure per le ammissioni e testimonianze un po’ di quel credito che viene riconosciuto, d’acchito, ai pentiti di mafia! Chiedere il sequestro di un libro – senza indicare questioni specifiche e senza dimostrare la falsità di certe ricostruzioni che vi sono contenute – ha un solo significato: è proibito scrivere sulla magistratura; guai a parlare male del nostro Garibaldi collettivo. Ma l’aspetto più farisaico e disonesto sta nelle motivazioni della richiesta del sequestro e del risarcimento del danno: la tutela dell’immagine dello Stato. In sostanza, non si deve far sapere in giro che nell’ordine giudiziario si combinano giochi di potere e si fa politica attraverso le sentenze. Ma – mi chiedo – non è il Parlamento la più importante istituzione democratica della Repubblica, che viene al primo posto nella stessa Costituzione? Insultare, dileggiare, additare al pubblico ludibrio i parlamentari è divenuto – da La casta in poi – persino un genere letterario nel quale si sono cimentate le grandi (e piccole) firme del giornalismo, sfornando best seller che suonavano offesa già nel titolo. E la gogna non aveva per oggetto malversazioni, corruttele o violazioni di legge. No. Si sono prese di mira le indennità, i vitalizi, i prezzi delle buvette e tutto quanto potesse incrementare l’invidia sociale e rappresentare gli eletti del popolo come una massa di scrocconi propensi a condurre “la bella vita” piuttosto che occuparsi monasticamente della cosa pubblica. Poi è stata la volta delle “spese pazze” dei consiglieri regionali, con veline trasmesse dalle procure ai loro pennivendoli dove si raccontava di scontrini della toilette, acquisto di mutande verdi, residenze truffaldine, uso di denaro pubblico per partecipare ad iniziative di partito, feste di carnevale e quant’altro. E quando si è raccontato al mondo che Roma, la città eterna, era inquinata dalla Mafia? Quale discredito ricade sull’immagine di una Stato da un’inchiesta denominata “Mafia Capitale”? Anche a costo di ingigantire i reati e i protagonisti di quelle vicende, elevando (“il mondo di mezzo”) una congrega di mazzettari e di rubagalline a grandi capi di Cosa nostra. Su “Mafia Capitale” quando ormai era stato chiarito, a livello giudiziario, che la mafia non c’entrava nulla, è stato prodotto persino uno sceneggiato televisivo che nessuno chiese di sequestrare. E non si è prodotto – dopo il processo a Giulio Andreotti – un danno all’immagine dello Stato grazie alla montatura della “trattativa” con la mafia? Ricordiamocelo: è stato chiamato come testimone dell’inchiesta persino un presidente della Repubblica, mentre un valoroso servitore dello Stato, come il generale Mario Mori, è ancora alle prese col suo calvario giudiziario. Non parliamo poi del tafazzismo italiota in economia, chiarendo bene un punto in premessa: chi scrive non sostiene – al pari dell’Avvocatura a proposito del libro Il Sistema – che vi sia una “ragion di Stato” che induca a chiudere gli occhi davanti alle malefatte e agli intrighi dei cosiddetti poteri forti, perché – come si diceva un tempo – è bene lavare i panni sporchi in famiglia. Un’inchiesta giudiziaria o giornalistica che scopre un affare losco e lo denuncia è il sale della democrazia. Ma quando si arriva a falsificare la realtà, a non tener conto delle prove, a costruire dei teoremi al solo scopo di creare un “caso”, si producono davvero e apposta dei danni all’immagine del Paese. Si pensi all’ex Ilva. Non esprime una bella immagine di sé un sistema Italia che dichiara guerra alla più grande acciaieria d’Europa (le accuse della magistratura tarantina sono state smentite da sentenze del Tribunale di Milano per quanto riguarda sia il reato di bancarotta dei fratelli Riva, sia l’attinenza dello stabilimento agli standard vigenti in materia ambientale). E che spettacolo fornisce un combinato mediatico-giudiziario che ha perseguitato una delle più importanti multinazionali dell’energia – l’Eni – accusando, in pratica senza prove né indizi, i suoi amministratori di corruzione a fini petroliferi delle autorità dei Paesi produttori? Abbiamo visto troppi film americani nei quali un pugno di volenterosi vincono la loro battaglia contro la multinazionale di turno, per non apprezzare una giustizia che non guarda in faccia a nessuno. Ma quando in un Paese, non protesta, come a Cuba, un popolo affamato e in balia del contagio, ma scendono in piazza i sindaci chiedendo alle procure di lasciarli lavorare, viene da chiedersi che cosa pensano di noi all’estero. Certo, sarebbe singolare se il saggio Il Sistema venisse condannato al rogo come accadde al film Ultimo tango a Parigi. Oggi viene proiettato persino nella sale parrocchiali. Giuliano Cazzola

Sallusti e Palamara, Bonafede e Conte hanno ordinato di fermare l'ex magistrato. Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. Il presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi e la Guardasigilli Marta Cartabia sono a conoscenza dell'iniziativa dell'Avvocatura dello Stato di chiedere un risarcimento da un milione di euro per «danno d'immagine» a Luca Palamara? Sarebbe interessante saperlo. La decisione di costituirsi come parte civile nel processo a Perugia nei confronti dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati venne presa quando a Palazzo Chigi c'era Giuseppe Conte e a via Arenula Alfonso Bonafede. Una decisione, va detto, obbligata quando l'imputato è un dipendente pubblico e, a maggior ragione, come nel caso di Palamara, un magistrato peraltro accusato di corruzione. Nessuno, tuttavia, obbligava il governo ad arrivare a chiedere un milione di euro. L'aspetto sorprendente di questa vicenda è che la numero uno dell'Avvocatura dello Stato di Perugia, l'avvocata Francesca Morici, coadiuvata dall'avvocata Maria Assunta Mercati, ha tirato fuori dal cilindro, per supportare la maxi richiesta, il libro "Il Sistema" scritto da Palamara con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. In pratica, in un processo per corruzione, il danno d'immagine non sarebbe stato causato dalle condotte penalmente rilevanti eventualmente poste in essere da Palamara, quindi aver incassato favori e prebende varie dal faccendiere Fabrizio Centofanti, ma dall'avere raccontato cosa è successo nei tribunali italiani negli ultimi anni: dalle nomine pilotate, ai processi aggiustati, ai fascicoli scomodi lasciati prescrivere. 

CAIAZZA: «ASSURDO» - «È una cosa talmente assurda che dubito sia vera: ho un po' di riserve, dovrei leggere l'atto, perché mi sembra una cosa fuori da ogni logica», ha commentato il presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza. «L'idea che l'Avvocatura, quindi che lo Stato chieda a Palamara un risarcimento non per ciò che ha fatto insieme a tutta la magistratura associata per dieci anni, ma per ciò che ha raccontato di aver fatto è una cosa incredibile», ha aggiunto Caiazza. Per il capo dei penalisti, «l'Avvocatura può lamentarsi solo se Palamara ha scritto delle falsità», ma il racconto «è quasi tutto fondato su whatsapp che sono stati acquisiti in un processo penale». «Il danno d'immagine- ha quindi concluso Caiazza - lo avrà portato la magistratura nell'aver agito in quel modo, non certo Palamara nel raccontarlo». A tal proposito va ricordato che la ministra Cartabia, alla quale la Costituzione assegna la facoltà di esercitare l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, non risulta abbia ancora esercitato i suoi poteri: nessuna toga citata nel libro da Palamara è stata nemmeno lontanamente destinataria di un avviso di apertura di un procedimento. E nessuna Procura, sempre da quanto risulta, sta indagando su quanto raccontato nel libro. 

UN MILIONE DI EURO - In compenso, però, l'Avvocatura dello Stato ha chiesto un milione di euro di danni a Palamara. Dietro questa richiesta è difficile non vedere una manovra per mettere pressione e costringere al silenzio l'ex presidente dell'Anm. L'Avvocatura dello Stato, in altre parole, verrebbe usata come "testa d'ariete" da parte di chi non vuole che Palamara continui a raccontare le nefandezze del sistema giudiziario italiano. Dopo averlo "affamato" sospendendolo dalle funzioni e dallo stipendio, arriva ora la mazzata finale. «Solo un regime cerca di fermare la presentazione di un libro: i magistrati puliti che sono la maggior parte in Italia non si facciano intimidire dal sistema correntizio e facciano sentire la propria voce libera», ha dichiarato l'attore Edoardo Sylos Labini, fondatore del movimento CulturaIdentità. Oggi, comunque, a Perugia è attesa la "deposizione spontanea" di Palamara prima del rinvio a giudizio. Non si escludono rivelazioni eclatanti. C'è solo da augurarsi che non venga interrotto dal procuratore Raffaele Cantone e dal giudice Piercarlo Frabotta.

L’Avvocatura dello Stato: «Censurate il libro di Luca Palamara». A Perugia durante l'udienza preliminare nei confronti di Luca Palamara. L'Avvocatura dello Stato ha chiesto la censura del libro "Il Sistema". Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 18 luglio 2021. Ancora colpi di scena a Perugia durante l’udienza preliminare nei confronti di Luca Palamara. L’Avvocatura dello Stato ha chiesto ieri la censura del libro ‘ Il Sistema’ scritto dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati insieme al direttore di Libero Alessandro Sallusti. «La richiesta dei pm di Perugia conferma che non ho mai commesso un atto contrario ai doveri di ufficio e che l’originaria accusa di aver preso 40.000 euro per la Procura di Gela è caduta. Sono certo di chiarire già alla prossima udienza del 19 luglio i residui fatti che mi vengono contestati, dimostrando di non aver ricevuto pagamenti e utilità. Sono turbato dalla richiesta di censura del libro da parte dei rappresentanti dell’avvocatura dello Stato: vogliono forse silenziarmi?», ha commentato a margine l’ex presidente dell’Anm. Il procuratore Raffaele Cantone ha chiesto la condanna ad otto mesi per l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, accusato di rivelazione del segreto, che aveva optato per l’abbreviato, ed il rinvio a giudizio per Palamara e per l’amica Adele Attisani. La decisione è attesa entro la fine del mese. Le accuse nei confronti di Palamara hanno subito nel tempo diverse modifiche. Cinque per la precisione. Quando l’indagine esplose, a maggio del 2019, a Palamara venne contestata la “corruzione propria per atto contrario”, articolo 319 codice penale, per avere ricevuto 40mila euro per la nomina del pm Giancarlo Longo a procuratore di Gela, e la ‘ corruzione in atti giudiziari’, articolo 319 ter codice penale, per avere ricevuto dal faccendiere Fabrizio Centofanti e dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore un anello del valore di 2mila euro, viaggi e vacanze. La Procura generale della Cassazione, il ministro della Giustizia ed Consiglio superiore della magistratura fecero proprie le accuse dei pm di Perugia, contestando a Palamara gli stessi fatti e sospendendolo dalle funzioni e dallo stipendio nel giro di un mese. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ad aprile 2020 e nella richiesta di rinvio a giudizio, si cambiò registro. Scomparve il 319 e pure il 319 ter e compare il 318 del codice penale, "corruzione per l’esercizio della funzione". Sparirono anche i 40mila euro per la nomina di Longo e l’anello. Nel senso letterale del termine, perché non risulta alcuna richiesta di archiviazione per questi fatti che avevano suscitato clamore mediatico nel cautelare disciplinare. A Palamara si contestarono viaggi e vacanze e lavori edili mai pagati eseguiti non a casa sua, ma a casa dell’amica Attisani. Queste utilità Palamara le avrebbe ricevute “per l’esercizio delle funzioni svolte”, da Centofanti. Sparirono, infatti, anche Amara e Calafiore i quali, a maggio 2019, erano il motore della corruzione, essendo Centofanti solo un intermediario. Alla prima udienza preliminare, a novembre 2020, si cambiò ancora. Rimase la corruzione per l’esercizio della funzione, ma si specificò che le utilità Palamara le avrebbe ricevute quale “membro” del Csm “per l’esercizio delle funzioni svolte all’interno di tale organo quali, fra le altre, nomine di dirigenti degli uffici e procedimenti disciplinari”. Lo scorso febbraio si cambiò per tornare al passato. Vennero contestati insieme, per non sbagliare ancora e per non farsi mancare nulla, gli articoli 318, 319 e 319 ter. Le utilità rimasero viaggi e vacanze e ristrutturazioni ( non si riesumano i 40mila euro della nomina di Longo e l’anello da 2mila euro), ricevute da Palamara “prima quale sostituto della Procura di Roma ed esponente di spicco dell’Anm fino al settembre 2014, successivamente quale componente del Csm” per una congerie di “attività” che vanno dall’acquisizione di “informazioni riservate”, non meglio indicate, sui “procedimenti in corso” a Roma e a Messina su Centofanti ma anche su Amara e Calafiore ( che però non sono imputati) e per la disponibilità ad influenzare le nomine del Csm ( ritorna il nome di Longo ma non i 40mila euro) e i procedimenti disciplinari ( ritorna quello del pm Marco Bisogni citato nel decreto di perquisizione del maggio 2019 anche se non nei capi di imputazione). Con atto fuori udienza della scorsa settimana, e si arriva all’ultima modifica, i pm umbri “viste le dichiarazioni di Centofanti” che evidentemente ritengono “prevalenti” su quelle fatte da Amara nel febbraio 2021 e che avevano determinato la quarta modifica, modificano dunque per la quinta volta le imputazioni, ritornando all’ipotesi meno lieve della corruzione per l’esercizio della funzione. In particolare, l’esercizio della funzione sarebbe stato posto in essere consentendo a Centofanti di “partecipare ad incontri pubblici e riservati cui presenziavano magistrati e consiglieri del Csm… nei quali si pianificavano nomine” .. manifestando Palamara disponibilità ad acquisire “informazioni anche riservate sui procedimenti in corso a Roma e Messina che coinvolgevano Centofanti, Amara e Calafiore” ed infine “per la disponibilità del Palamara di accogliere richieste del Centofanti finalizzate ad influenzare … nomine del Csm e decisioni della sezione disciplinare”. 

Alessandro Sallusti contro la magistratura: "Un milione di euro, tentativo di estorsione nei miei confronti". Libero Quotidiano il 18 luglio 2021. L'Avvocatura generale dello Stato ha chiesto un milione di risarcimento per i "danni d'immagine" che il libro Il Sistema avrebbe procurato alla magistratura e al paese. Non so se il presidente Mario Draghi - pur con una sua autonomia l'Avvocatura dipende da Palazzo Chigi- sia stato consultato e abbia dato il suo assenso a una simile iniziativa senza precedenti in Italia (nessuno fino ad ora aveva messo sotto accusa un libro). Me lo chiedo perché gli avvocati dello Stato stanno mettendo in discussione in un colpo solo la libertà di espressione, quella di informazione e quella di stampa. Il libro Il Sistema infatti è la ricostruzione meticolosa e documentata di che cosa è avvenuto dentro la magistratura dal 2008 ai giorni nostri e di come questa "cosa" si sia incrociata con il mondo della politica e dell'informazione interferendo sul libero corso della democrazia. Il libro in questione è in libreria da sette mesi, da sette mesi è in testa alle classifiche di vendita, i suoi contenuti sono stati sviscerati in numerose trasmissioni televisive, animano molti dibattiti dell'estate italiana e lo Stato, sotto la guida di un liberale come Mario Draghi sostenuto da partiti altrettanto liberali a partire da Forza Italia, che fa? Chiede i danni, non ai magistrati come avrebbe avuto senso fare alla luce del discredito che hanno causato all'Italia, ma agli autori del libro, cioè a chi attraverso un lavoro serio e certificato ha permesso agli italiani di conoscere i misteri (e le nefandezze) del sistema giudiziario italiano. Tutto ciò dimostra come il libro Il Sistema abbia colto nel segno e quanto il sistema sia ben più ampio e ancora oggi radicato di quanto svelato da Palamara. Questo è un tentativo di estorsione dello Stato nei miei confronti e di Palamara: colpirne due per educarne cento e scongiurare altre confessioni imbarazzanti. A me l'Avvocatura dello Stato non fa alcuna paura, neppure quando come in questo caso punta la pistola alla tempia di cittadini inermi in combutta con i magistrati colpiti e affondati da un ex, Palamara, sul quale pensavano di scaricare tutte le colpe e farla così franca. Cari avvocatucoli, per questa storia vale la famosa battuta rivolta da Humphrey Bogart - giornalista nel film L'ultima minaccia - al potente di turno che tentava di fermare una notizia scomoda: «Senta il rumore delle rotative che girano. È la stampa, bellezza, e voi non potete farci più nulla».

Tre ore di interrogatorio a Padova. Raffica di querele, Palamara indagato per il libro “Il Sistema”: denunciano Ielo ed Esposito. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Maggio 2021. Raffica di querele per Luca Palamara, lo “zar delle nomine”, l’uomo del terremoto nella magistratura, l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) rimosso dall’ordine per il caso sulle nomine pilotate ai vertici delle Procure. Questa volta, per tre ore di interrogatorio, è stato ascoltato dai pm di Padova che stanno indagando sulle querele arrivate nei suoi confronti da magistrati citati in Il Sistema, il libro intervista di Alessandro Sallusti, ex direttore de quotidiano Il Giornale e attuale direttore di Libero, a Palamara. Un vero e proprio caso editoriale. Alla settimana scorsa erano oltre 300mila le copie vendute. Diversi magistrati si sono però sentiti diffamati dalle rivelazioni di Palamara. Si tratta di Paolo Ielo, Procuratore Aggiunto di Roma; Piergiorgio Morosini, ex gip del processo Stato-mafia e giudice del Csm; Giuseppe Cascini, membro togato del Csm ed esponente di punta della corrente di sinistra; Antonio e Ferdinando Esposito, padre e figlio, il primo ex presidente di sezione della Cassazione in pensione e il secondo ex pm di Milano ed ex giudice di Torino, radiato lo scorso anno dalla magistratura. Il Procuratore di Padova – l’inchiesta è stata assegnata lì perché il libro, edito da Rizzoli, è stato stampato in una tipografia della provincia veneta – Antonio Cappelleri ha assegnato i fascicoli ai suoi Sostituti, Valeria Spinosa, Marco Peraro e Andrea Zito. Il Procuratore Aggiunto di Roma Ielo si è sentito diffamato dal racconto di una cena organizzata nel 2014 a casa sua, alla quale era presente anche l’allora Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone. Cena probabilmente per siglare, a quanto raccontato da Palamara, un patto e creare “un canale tra la procura di Roma e il Csm: in buona sostanza io mi farò carico di essere, dentro il Consiglio superiore, la sponda delle istanze di Pignatone…”. La querela di Antonio Esposito fa invece riferimento alla sentenza della Cassazione che nel 2013 condannò in via definitiva l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a quattro anni, di cui tre indultati, per frode fiscale. Il caso ruota intorno ad Amedeo Franco e alle sue “preoccupazioni per il modo anomalo in cui si era formato il collegio giudicante sia per le pressioni che si si stavano concentrando affinché l’esito fosse di un certo tipo, in altre parole di condanna”. L’azione di Ferdinando Esposito si riferisce invece a rivelazioni con frequentazioni con “un’indagata, Nicole Minetti” e “per un certo periodo, proprio quello antecedente la sentenza di suo padre, di Arcore, il quartier generale di Berlusconi, il quale con la procura di Milano qualche conto aperto lo aveva”. Aperte tre diverse inchieste, indagini penali. “Considerato che su queste vicende ci sono molti riflettori puntati, ho deciso di optare per la casualità dell’assegnazione dei fascicoli. A mano a mano che arrivano vengono così smistati sulla base del turno automatico, in modo da non concentrare tutto su un unico magistrato e preservare le indagini da strumentalizzazioni esterne”, ha spiegato al Corriere della Sera Cappelleri. Le querele degli Esposito fanno parte dello stesso fascicolo. Le altre sono fascicoli autonomi. È già polemica sulla vicenda: molti si chiedono a quali correnti appartengono i pm che stanno indagando.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

La decisione "cerchiobottista". Diffamazione a mezzo stampa e carcere per i giornalisti, la Consulta molla la grana ai magistrati. Guido Neppi Modona su Il Riformista il 30 Giugno 2021. La scorsa settimana la Corte costituzionale ha emesso un comunicato con cui anticipa importanti decisioni sui rapporti tra il diritto costituzionale di «manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di divulgazione» e il reato di diffamazione a mezzo stampa, posto a tutela della reputazione della persona destinataria di espressioni offensive della sua reputazione. Prima dell’intervento della Corte la disciplina penale era particolarmente severa: la diffamazione a mezzo stampa commessa mediante l’attribuzione di un fatto determinato era punita dall’art. 13 della legge sulla stampa n. 47 del 1948 con la reclusione da uno a sei anni e la multa non inferiore a lire 500.000. Per la diffamazione con il mezzo della stampa che potremmo chiamare “ordinaria” (cioè senza attribuire un fatto determinato) l’art. 595 comma 3 del codice penale stabilisce la reclusione da sei mesi a tre anni o la multa non inferiore a € 516. La decisione della Corte costituzionale viene da lontano, posto che un anno orsono con l’ordinanza n. 132/2000 la Corte aveva sollecitato il Parlamento a porre mano ad una riforma complessiva della materia; compito che evidentemente esula dalle competenze della Corte, limitate a valutare l’eventuale illegittimità costituzionale di una o più norme di legge. In particolare, la Corte aveva chiarito che sarebbe stato necessario introdurre un sistema che contempli non solo il ricorso a sanzioni penali, ma anche rimedi civilistici, misure risarcitorie e riparatorie in favore della vittima della diffamazione e se del caso sanzioni di carattere disciplinare. Da allora è trascorso un anno e la Corte, preso atto del mancato intervento del Parlamento, ha anticipato le sue decisioni ricorrendo allo strumento non abituale di un comunicato stampa, in attesa di depositare la sentenza con le relative motivazioni. Siamo così venuti a conoscenza che la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 13 della legge del 1948 che puniva la diffamazione a mezzo stampa commessa mediante l’attribuzione di un fatto determinato), mentre è stato “salvato” l’art. 595 comma 3 del codice penale, che – come abbiamo visto sopra – prevede per la diffamazione “semplice” la reclusione o, in alternativa, la pena pecuniaria. La Corte conclude il comunicato ribadendo che resta «attuale la necessità di un complessivo intervento del legislatore, in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento – che la Corte non ha gli strumenti per compiere – tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale». Ecco dunque un ulteriore forte monito rivolto al legislatore, che vi è da augurarsi venga raccolto dal Parlamento prima della fine della legislatura. È presumibile che la Corte abbia deciso di anticipare la dichiarazione di illegittimità della diffamazione a mezzo stampa punita con la reclusione da uno a sei anni per evitare che vengano nel frattempo pronunciate altre condanne ad una così severa pena detentiva per un reato che si sostanzia in forme sia pure improprie e illecite di manifestazione del pensiero. La Corte sembra cioè suggerire che per la diffamazione a mezzo stampa non dovrebbe mai essere prevista la pena detentiva, ma semmai congrue sanzioni pecuniarie, magari accompagnate da misure riparatorie e risarcitorie ed eventualmente integrate con la sospensione o l’interdizione dall’esercizio della professione. Se queste saranno le argomentazioni della Corte, stupisce che non sia stato dichiarato illegittimo anche l’art. 595 comma 3 del codice penale nella parte in cui prevede in alternativa alla pena pecuniaria la reclusione da sei mesi a tre anni. Il giudice rimane così investito – come chiarito nello stesso comunicato della Corte – della facoltà discrezionale «di sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità». Si ha l’impressione che la Corte abbia voluto dare “un colpo al cerchio e un colpo alla botte”, da un lato affermando che, grazie al principio costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero, sia pure esercitata impropriamente, la diffamazione non può essere sanzionata con la pena detentiva; dall’altro scaricando sulla magistratura la responsabilità di applicare la reclusione nei “casi di eccezionale gravità”. In una materia sorretta dal principio costituzionale della libera manifestazione del pensiero, una scelta così delicata non dovrebbe essere demandata al potere discrezionale della magistratura, ma affrontata in prima persona dalla stessa Corte mediante una dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena detentiva prevista dall’art. 595 del codice penale. In alternativa, la Corte potrebbe con particolare forza sollecitare il potere legislativo ad intervenire, riuscendo ad invertire la tradizionale inerzia del Parlamento a fronte dei numerosi moniti della Corte rimasti inascoltati. Potrebbe essere questo un bell’esempio di leale e doverosa collaborazione tra due istituzioni centrali del sistema di democrazia rappresentativa, nell’ambito delle rispettive competenze del Parlamento di produrre leggi conformi alla Costituzione e della Corte di svolgere il ruolo di giudice della legittimità costituzionale delle leggi. Guido Neppi Modona

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 23 giugno 2021. Niente che non fosse previsto, visto che la Corte Costituzionale aveva dato un anno di tempo al Parlamento (era appunto il 22 giugno del 2020) affinché legiferasse finalmente sulle norme che prevedevano il carcere per i giornalisti. La Corte peraltro era presieduta dall'attuale guardasigilli Marta Cartabia, che forse se ne ricordava. Un anno per metter mano a una legge evidentemente incostituzionale, come si recitava vanamente da una vita: la legge quella che pretende la galera per i giornalisti in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa. Ma dodici mesi non sono niente, per pretendere che un Parlamento faccia quello per cui esiste: l'aveva già dimostrato il caso Cappato sul «fine vita» (2019) e rischia di dimostrarlo ancora (2022) sull'ergastolo a vita per i mafiosi che non collaborano. In sintesi: la Consulta segnala una legge anticostituzionale, concede al Parlamento un ampio lasso di tempo per porvi rimedio, e il Parlamento ugualmente se ne fotte. Così la Consulta è costretta a tornarci sopra. La sentenza resa nota ieri fa cadere l'obbligo del carcere previsto dall'articolo 13 della legge sulla stampa, quello che in caso di diffamazione faceva scattare obbligatoriamente la reclusione da uno a sei anni con anche il pagamento di una multa. In teoria un giornalista, sempre per diffamazione, in galera potrebbe finirci lo stesso: perché resta valido e costituzionale l'articolo 595 (terzo comma del Codice penale) che prevede la reclusione da sei mesi a tre anni, o in alternativa il pagamento di una multa: ma i giudici, potendo scegliere, optano per il carcere solo in casi eccezionali che per clamore finiscono infatti su tutti i giornali (vedi caso Sallusti, ottobre 2012) e in genere ripiegano appunto sulla sanzione pecuniaria, insomma la multa. Ora l’intervento della Consulta non toglie che una legge adeguata sulla materia manchi: resta perciò «attuale la necessità di un complessivo intervento del legislatore in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento - che la Corte non ha gli strumenti per compiere tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli sempre maggiori connessi all'evoluzione dei mezzi di comunicazione». Tipo i social. E chi se ne frega, ha risposto il Parlamento in buona sostanza: anche se la legge a cui rimetter mano è del 1948 ed è vecchia bacucca, lo sapevano tutti, e tanti parlamentari lo ripetevano in cento talkshow mettendo sempre i verbi al futuro: ma era una recita, perché i primi a sapere che era un bluff erano gli stessi giornalisti: i quali, adesso, sono ovviamente contenti. «Sentenza storica, ma è fondamentale l'intervento del Parlamento» ripetono i vari segretari della Federazione della Stampa italiana e dei sindacati unitari della categoria. Carlo Verna, che è il presidente dell'Ordine Nazionale dei Giornalisti, ha ripetuto ciò che pure era noto: «La Corte Costituzionale ha fatto la sua parte portando l'Italia nel solco della giurisprudenza di Strasburgo». E la legge? «Quando ci sarà la politica, il Lancillotto di questa vicenda». Quasi una gaffe: Lancilllotto era un cavaliere.

Cade l’obbligo del carcere per i giornalisti. La consulta: “È illegittimo”. Valentina Mericio il 22/06/2021 su Notizie.it. La consulta ha dichiarato incostituzionale l'obbligo di carcere per i giornalisti per i reati a mezzo stampa. Fnsi l'ha definita una sentenza storica. L’articolo 13 sulla legge della legge sulla Stampa è stata dichiarata incostituzionale. A stabilirlo la consulta che con una nota ha fatto sapere che è caduto l’obbligo del carcere per giornalisti in caso di diffamazione a mezzo stampa. La legge numero 47 del 1948 prevedeva in questi casi una pena detentiva da uno a sei anni unita al pagamento di una sanzione. La sentenza ha tuttavia giudicato compatibile con la Costituzione l’articolo 595 del codice penale. In casi di “eccezionale gravità” può essere prevista una pena detentiva dai sei mesi ai tre anni o in alternativa il pagamento di una multa: “La sentenza della Corte Costituzionale ha una portata storica”, lo scrive in un comunicato stampa il segretario generale della Federazione nazionale della Stampa italiana e il segretario del Sindacato unitario giornalisti della Campania e riportato dalla testata Open. Durante l’udienza pubblica che si è svolta nel pomeriggio di martedì 22 giugno, l’Ordine dei giornalisti aveva chiesto che l’obbligo di carcere per i giornalisti venisse dichiarato incostituzionale. Secondo l’ordine infatti tale obbligo andava a costituire un pericolo per la libertà di stampa ovvero una vera e propria “tagliola” – riporta “Il fatto Quotidiano”. “Il lavoro della stampa non può essere pregiudicato dal pericolo di una sanzione che ne impedisca il libero esercizio”, riporta l’ordine dei giornalisti che ha motivato così la sua richiesta alla Corte. Nel frattempo in una nota diramata dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana viene messo in evidenza come l’intervento del Parlamento sia ora fondamentale: “A questo punto diventa però fondamentale l’intervento del Parlamento, chiamato a mettere a punto una normativa di riordino, compito al quale, fino ad oggi, si è sempre sottratto, obbligando la Consulta a intervenire”.

La nota poi prosegue parlando di come questa sia una vittoria dei giornalisti: “Il lavoro deve continuare per far sì che l’intera materia venga regolata dal Parlamento trovando il giusto bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della sfera individuale di ciascun cittadino”. L’avvocatura di Stato si è espressa in modo contrario circa l’incostituzionalità della diffamazione a mezzo stampa. A tal proposito l’avvocato di Stato Maurizio Greco – citato da “Il fatto Quotidiano” ha messo in evidenza come venga già applicata in questo senso “un’interpretazione costituzionalmente orientata”. L’avvocato ha spiegato inoltre come “demolire un sistema che salvaguarda una posizione costituzionalmente garantita” sarebbe un errore.

LIBERTA’ DI STAMPA ED ETICA DEL GIORNALISMO. Guido Camera, Avvocato cassazionista, Presidente di Italiastatodidiritto, su Il Corriere del Giorno il 22 Giugno 2021. La Corte Costituzionale si riunisce, è una settimana importante per lo Stato di diritto. L’esito dell’udienza di oggi appare quasi scontato, visto che il pensiero della Corte Costituzionale emerge in modo nitido dalla lettura dell’ordinanza n. 132/2020. È una settimana importante per lo Stato di diritto. Oggi, infatti, la Corte Costituzionale si riunisce per decidere se le norme del Codice penale e della legge sulla stampa (n. 47 del 1948) che prevedono la reclusione per il delitto di diffamazione a mezzo stampa (ma anche internet, radio e televisione), siano compatibili con le disposizioni della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che salvaguardano la libertà di espressione, attribuendole il rango di diritto fondamentale dell’individuo. È un appuntamento storico, soprattutto per il giornalismo italiano – non a caso la Corte ha giustamente ammesso l’Ordine Nazionale dei Giornalisti come parte nel giudizio costituzionale – che aspetta almeno da dieci anni una riforma dell’attuale disciplina, e che riveste nel contempo stringente attualità anche in considerazione delle polemiche che sono sorte intorno alla diffusione, da parte di alcuni media, del video del tragico disastro della funivia del Mottarone. Alla Consulta si sono rivolti, nel corso del 2019, i Tribunali di Salerno e Bari, lamentando che la previsione anche solo in astratto della pena detentiva sia eccessiva e sproporzionata rispetto al ruolo fondamentale che ha la libertà di manifestazione del pensiero, con particolare riferimento alla rilevanza della funzione sociale esercitata dall’attività giornalistica, a cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo attribuisce storicamente il ruolo di “cane da guardia” della democrazia (sentenza 27 marzo 1996, Godwin contro Regno Unito). La prima udienza del giudizio costituzionale si è tenuta il 9 giugno 2020. All’esito della camera di consiglio, con l’ordinanza n. 132/2020, i giudici delle leggi hanno deciso di rinviare di un anno la decisione del merito delle questioni sollevate, in modo da consentire al legislatore di approvare una nuova, e omogenea, disciplina in linea con alcuni paletti nel tempo consolidati dalla giurisprudenza costituzionale ed europea, che hanno stigmatizzato l’effetto censorio (c.d. “chilling effect”) che ha la pena detentiva rispetto alla libertà di espressione, in particolare dei giornalisti. Pena detentiva che, secondo la richiamata giurisprudenza – condivisa dalla Consulta – deve essere riservata solo a quelle circostanze eccezionali in cui si determina una grave lesione di altri diritti fondamentali, come ad esempio in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza. Purtroppo il rinvio è stato infruttuoso, dato che il legislatore è rimasto inerte, nonostante l’attuale presidente della Corte, Giancarlo Coraggio, nei mesi scorsi avesse auspicato che “il Parlamento manifestasse una maggiore sensibilità per una questione che tocca uno dei fondamentali della democrazia”. L’esito dell’udienza di oggi appare quasi scontato, visto che il pensiero della Corte Costituzionale emerge in modo nitido dalla lettura dell’ordinanza n. 132/2020. Secondo la Consulta – all’epoca presieduta dall’attuale ministra della Giustizia, Marta Cartabia – “il punto di equilibrio tra la libertà di ‘informare’ e di ‘formare’ la pubblica opinione svolto dalla stampa e dai media, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro, non può essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatesi negli ultimi decenni”. Di conseguenza, il bilanciamento sotteso all’attuale disciplina, oggetto del giudizio costituzionale, “è divenuto ormai inadeguato” e ciò esige una “rimodulazione” del medesimo in modo da “disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico”. Lo scenario auspicato dalla Corte è dunque articolato, visto che si estende anche a una rivisitazione delle norme di natura deontologica e disciplinare – preclusa alla Consulta, in quanto compito del legislatore – in modo da evitare il rischio che, per effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale, si creino lacune di tutela effettiva per i contro-interessi in gioco, ovvero quelli di chi può subire un danno dalla diffusione di una notizia, un’immagine o un video. Per meglio comprendere la rilevanza e l’attualità di quest’ultimo passaggio, intorno al quale è incentrata l’etica del giornalismo – che deve essere adeguatamente presidiata sotto il profilo disciplinare, come ben ha spiegato la Consulta – bisogna avere sempre in mente che il suo cardine fondamentale è quello dell’ “essenzialità dell’informazione”. Si tratta di un principio saldamente fissato dall’articolo 6 del Codice deontologico dei giornalisti, che stabilisce quanto segue: “la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonchè della qualificazione dei protagonisti”. Là dove la divulgazione della notizia, o dell’immagine, non sia indispensabile ai fini informativi, prevale dunque il diritto alla riservatezza di chi può subire un danno dalla diffusione. Mi sembra il caso dei parenti delle vittime della tragedia del Mottarone, il cui dolore appare inutilmente acuito dalla diffusione pubblica del video del drammatico incidente in cui hanno perso la vita i loro cari; diffusione peraltro avvenuta in violazione delle norme del codice di procedura penale che ne impedivano la divulgazione al di fuori delle parti del processo.

Sono convinto che l’opinione pubblica avrebbe potuto comprendere quanto accaduto senza necessità di vedere il video, grazie all’attività di mediazione intellettuale – tra fatto e opinione pubblica – in cui consiste l’attività del giornalista: un mestiere che è prezioso per la società democratica, ed è svolto davvero bene, quando riesce a narrare i fatti essenziali senza divulgare particolari non indispensabili e potenzialmente lesivi di diritti altrui, come mi sembrano le immagini – solamente sensazionalistiche e scioccanti – dell’ultima corsa mortale della funivia del Mottarone.

Rai: Ranucci, è a rischio la libertà di stampa. (ANSA il 19 giugno 2021) "E' a rischio la libertà di stampa": Sigfrido Ranucci, curatore e conduttore di Report, commenta così la sentenza del Tar del Lazio che ha autorizzato l'accesso agli atti del programma su richiesta dello studio legale Mascetti per un'inchiesta dello scorso ottobre. "La pronuncia del Tar - sottolinea il vicedirettore di Rai3 - viola la Costituzione e la tutela delle fonti, crea disparità tra giornalisti di serie A e B, del servizio pubblico e non. Il rischio è che a Report non scriva più nessuno: sono 78 mila le segnalazioni che riceviamo tra un ciclo e l'altro della trasmissione". In generale, chiosa con amarezza Ranucci, "notiamo negli ultimi anni un atteggiamento da parte delle autorità ispirato più a interventi politici che alla tutela della libertà di stampa. Siamo di fronte a un attacco agli ultimi presìdi del giornalismo d'inchiesta".

Report, dal Tar ok all'accesso agli atti. Da ansa.it il 19 giugno 2021. Il Tar del Lazio ha autorizzato l'accesso agli atti della trasmissione di Rai Tre Report dopo una querela arrivata per la trasmissione di una puntata intitolata Vassalli, valvassori e valvassini andata in onda ad ottobre 2020 incentrata sugli appalti pubblici in Lombardia. A presentare l'esposto lo studio dell'avvocato Andrea Mascetti. Lo rendono noto la Federazione della Stampa e Usigrai che in una nota definiscono la sentenza del tribunale amministrativo un atto che apre "un precedente pericolosissimo". Rispettare le sentenze, sottolineano dal sindacato, "non vuol dire non poterle criticare. E anzi sono l'occasione per chiedere nuovamente a governo e parlamento la necessità di un chiarimento urgente sulla natura giuridica della Rai. I giornalisti che fanno informazione in Rai non possono essere paragonati a funzionari della Pubblica Amministrazione. Pertanto le norme sull'accesso agli atti devono soccombere di fronte al diritto / dovere del giornalista di tutelare le proprie fonti. Altrimenti nei fatti si azzererebbe qualunque possibilità per i giornalisti Rai di fare il proprio lavoro, e ancor di più di fare giornalismo investigativo, così come nei doveri del Contratto di Servizio". E aggiungono: "La sentenza del Tar del Lazio condanna nei fatti il giornalista Rai a essere un giornalista di serie B. Siamo certi che la Rai farà appello con urgenza in Consiglio di Stato". La Rai annuncia di aver conferito mandato per impugnare innanzi al Consiglio di Stato la decisione con la quale l'attività giornalistica, ove svolta dal Servizio Pubblico, è stata inopinatamente assimilata ad un procedimento amministrativo. Rai si attiverà in ogni sede per garantire ai propri giornalisti il pieno esercizio della libertà d'informazione e la tutela delle fonti.

Rai, il Tar del Lazio chiede a Report di svelare le sue fonti. Sigfrido Ranucci: "Non lo faremo mai". Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. Bufera in casa Rai: il Tar del Lazio ha autorizzato l'accesso agli atti della trasmissione di Rai 3, Report, dopo una querela arrivata per la messa in onda di una puntata intitolata "Vassalli, valvassori e valvassini", trasmessa sul piccolo schermo ad ottobre 2020 e incentrata sugli appalti pubblici in Lombardia. A presentare l'esposto - come riporta l'Ansa - è stato lo studio dell'avvocato Andrea Mascetti. A renderlo noto sono state la Federazione della Stampa e l'Usigrai che - in una nota condivisa - hanno parlato della sentenza come di un atto che apre "un precedente pericolosissimo". "Deve venire l'esercito a prendere gli atti riguardanti le nostre fonti, noi non li daremo mai, tuteleremo le fonti fino alla morte", ha commentato il conduttore di Report Sigfrido Ranucci. Rispettare le sentenze, sottolineano dal sindacato, "non vuol dire non poterle criticare. E anzi sono l'occasione per chiedere nuovamente a governo e parlamento la necessità di un chiarimento urgente sulla natura giuridica della Rai. I giornalisti che fanno informazione in Rai non possono essere paragonati a funzionari della Pubblica Amministrazione. Pertanto le norme sull'accesso agli atti devono soccombere di fronte al diritto-dovere del giornalista di tutelare le proprie fonti. Altrimenti nei fatti si azzererebbe qualunque possibilità per i giornalisti Rai di fare il proprio lavoro, e ancor di più di fare giornalismo investigativo, così come nei doveri del Contratto di Servizio". Nella nota si legge anche: "La sentenza del Tar del Lazio condanna nei fatti il giornalista Rai a essere un giornalista di serie B. Siamo certi che la Rai farà appello con urgenza in Consiglio di Stato". La Rai, intanto, ha già annunciato l'impugnazione di questa decisione. E ha spiegato che si attiverà in ogni sede per garantire ai propri giornalisti il pieno esercizio della libertà d'informazione e la tutela delle fonti.

Michela Tamburrino per “La Stampa” il 25 giugno 2021. Sigfrido Ranucci non riesce neppure a godersi il successo del suo "Report" formato replica che porta ottimi ascolti. Perché arrivano, altri guai. «La sentenza del Tar ha aperto una voragine inarginabile. E costerà tempo, fatica e tanti soldi». Tutto ha avuto inizio qualche giorno fa quando una sentenza del Tribunale Amministrativo ha imposto alla Rai di rendere pubblici gli atti dell'inchiesta giornalistica "Vassalli, valvassori e valvassini", condotta da Report per indagare sugli appalti pubblici in Lombardia. Tutto partiva da una serie di consulenze riconducibili all'avvocato Andrea Mascetti che sentendosi offeso dal servizio si era rivolto al Tribunale amministrativo per accedere agli atti che lo coinvolgevano. La sentenza dava ragione all'avvocato solo per quanto concerneva gli atti relativi alla pubblica amministrazione, riconducendo di fatto la Rai in un ambito di ente pubblico e non più considerata azienda di contenuti giornalistici. Una sentenza inaspettata che ha generato uno tsunami. È di queste ultime ore la notizia che anche il viceministro degli Affari esteri della Repubblica d'Albania, Agron (Genti) Tare, ha chiesto alla Rai e alla redazione di Report l'informativa della Guardia di Finanza di Bari che lo riguarda. E nel farlo, il legale del viceministro Tare fa riferimento, in particolare, alla «recentissima sentenza del Tar, emessa proprio nell'ambito di un procedimento amministrativo in cui era parte la Rai in relazione al programma Report». 

Ranucci, oramai gli argini sembrano essersi rotti.

«Temo si sia perso il cuore del problema che questa sentenza ha generato. Ho letto l'articolo di Zagrebelsky uscito questa mattina sul vostro giornale. Lui è andato alla conseguenza della sentenza. Ma sono le motivazioni della sentenza stessa con cui si spingono a rendere ostensibili gli atti che sono inaccettabili». 

Perché gli atti, sono fonti, giusto?

«Certo. Se io ricevo una mail da un funzionario di un ente locale, questa mail ha un nome e un cognome. Chiedercene conto equivale a intimidazione». 

E adesso che farete?

«Dopo la richiesta del viceministro albanese faremo ricorso un'altra volta. Una follia. E questo significa spese legali enormi. Io credo sia giusto riportare al centro il fatto che né la Rai, né Report producono atti amministrativi. Noi produciamo giornalismo che dovrebbe essere protetto. Invece oggi ci sono i presupposti per equiparare un giornalista Rai a un funzionario pubblico». 

Che effetto le fa?

«L'effetto slavina. Che ha già provocato danni. Chiunque si potrà accodare e avanzare richieste. Causando perdita di tempo, denaro. Poi qualcuno in Vigilanza si alzerà per chiedere quanto costa in spese legali Report». 

Che cosa si potrebbe fare per arginare il problema all'origine?

«Giace in Parlamento la legge sulle liti temerarie. Ferma da due anni. Primo De Nicola, autore e primo firmatario della legge, parla di emergenza democratica. Questa storia è arrivata in Europa. Ricardo Gutierrez, il presidente del sindacato europeo dei giornalisti ci ha difeso. Poi arriva qualcuno di Italia Viva che ci attacca.» 

Si riferisce a Renzi?

«Lui ci aveva chiesto la fonte del filmato che lo ritraeva in autogrill con l'uomo dei servizi segreti Mancini. E ci disse anche che non finiva lì. Un'intimidazione andata a segno. Infatti non è finita lì». 

Come reagirete?

«Cercheremo di resistere alla morte su questa storia a tutela della nostra libertà. Non arretreremo di un centimetro. Altrimenti il giornalismo d'inchiesta Rai è finito. Chi darà più qualcosa di delicato a un giornalista equiparato a un impiegato del catasto? Nessuno. Poi, dico, se io con le mie inchieste produco atti amministrativi, anche i contratti milionari di tanti colleghi sono atti amministrativi. Tutto pubblico allora. Io sto a posto con me stesso. Come si dice, fai quello che devi e accada ciò che può».

Domenico Di Sanzo per "il Giornale" il 21 giugno 2021. Sigfrido Ranucci, conduttore di Report su Rai3, dice che gli atti dell'inchiesta giornalistica sugli appalti pubblici in Lombardia «devono venire a prenderli con l'esercito». Andrea Mascetti, avvocato al centro del servizio, che ha richiesto l'accesso alla documentazione, ridimensiona la polemica montata negli ultimi giorni. Tutto è partito dalla sentenza del Tar del Lazio del 18 giugno, in cui si ordina alla trasmissione di consegnare al legale tutto il materiale informativo utilizzato per il pezzo intitolato «Vassalli, valvassori e valvassini», andato in onda a ottobre 2020. «È bene precisare che la sentenza non incide in alcun modo sulla segretezza delle fonti», spiega Mascetti al Giornale. L'avvocato, considerato vicino alla Lega e al governatore lombardo Attilio Fontana, reagisce al polverone sollevato dalla Rai, pronta a fare ricorso al Consiglio di Stato. Per Viale Mazzini, il provvedimento dei giudici amministrativi ordinerebbe ai giornalisti di violare la segretezza delle loro fonti. Però la montagna dell'indignazione rischia di partorire un topolino. Continua Mascetti: «La documentazione ostensibile risulta circoscritta - per espressa indicazione del Tar - all' attività di interlocuzione intercorsa con enti pubblici, che evidentemente non vantano un diritto all' anonimato». Insomma, Report dovrebbe consegnare soltanto il materiale relativo alle comunicazioni tra la redazione e i vari comuni della Lombardia e del Piemonte a cui i giornalisti hanno chiesto informazioni sugli appalti al centro dell'inchiesta. Nessuna fonte confidenziale da tutelare, sostiene l'avvocato. Si tratterebbe, dunque, di un accesso agli atti limitato alle richieste scritte inviate dal programma ad enti pubblici per ottenere notizie riguardo a eventuali consulenze affidate a Mascetti. Comunque non sono mancate le reazioni politiche costernate da parte di Pd, M5s e Leu. Nella serata di sabato il leader dei democrat Enrico Letta ha twittato: «Le sentenze si rispettano sempre. Ma questa del Tar sulle fonti di Report lascia davvero perplessi. Non vedo come possa resistere agli ulteriori gradi di giudizio». Tra le critiche ricevute dal segretario spicca quella di Ada Lucia De Cesaris, avvocato esperto in diritto amministrativo, ex vicesindaco di Milano con Giuliano Pisapia, esponente di Italia Viva, di certo non vicina alla Lega. «Perplessi? È un accesso agli atti, un diritto sancito dalla legge», è il tweet di replica a Letta. «I provvedimenti vanno anche letti prima di fare affermazioni affrettate sulla libertà di stampa!» aggiunge De Cesaris. Ma, dopo le proteste dei sindacati dei giornalisti Fnsi e Usigrai, si muove anche l'Ordine dei Giornalisti. Il presidente Carlo Verna annuncia un altro ricorso contro la sentenza del Tar del Lazio, oltre all' impugnazione già decisa dalla Rai. «Le fonti non si possono rivelare senza se e senza ma - dice Verna - valutate con i nostri esperti la sentenza del Tar del Lazio e l'annunciata volontà della Rai di rivolgersi al Consiglio di Stato sulla questione che riguarda Report e sentito informalmente l' esecutivo, domattina conferirò mandato a un legale per un ricorso ad adiuvandum da parte del Consiglio Nazionale dell' Ordine dei Giornalisti».

Il giornalista prova a fare la vittima...Il tar chiede a Report i documenti (e non fonti), ma Ranucci prova a fare la vittima. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Sigfrido Ranucci resisterà “fino alla morte”. Lo dice proprio lui, e lo dice così: «Io sono figlio di un uomo delle forze dell’ordine. Per me la legge è sopra a tutto. E la legge mi permette di tutelare le fonti. E lo farò fino alla morte». Sperando in un epilogo incruento, riepiloghiamo la vicenda che lo vede al centro di una sentenza Tar contro la quale Report ha presentato ricorso al Consiglio di Stato. Il Tar del Lazio ha emesso una sentenza con cui ha ordinato alla redazione della trasmissione televisiva di concedere l’accesso alle fonti utilizzate per realizzare un’inchiesta giornalistica sull’avvocato Andrea Mascetti, considerato vicino alla Lega e al presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. A ottobre 2020 Report aveva mandato in onda un servizio intitolato “Vassalli, valvassori e valvassini” che indagava sugli appalti pubblici in Lombardia e tra le altre cose citava alcune consulenze date a Mascetti da enti locali amministrati da esponenti della Lega. Nella sentenza si riporta che Mascetti aveva chiesto di accedere a tutto il materiale informativo, in particolare «tutte le richieste rivolte dai giornalisti e dalla redazione di Report, tramite e-mail o con qualsiasi mezzo scritto o orale, a persone fisiche ed enti pubblici (Comuni, Province, ecc.) o privati (fondazioni, società, ecc.), per ottenere informazioni e/o documenti riguardanti la persona dell’avv. Andrea Mascetti e la sua attività professionale e culturale». Nonostante questo, nella sentenza si legge anche che Mascetti aveva chiesto di acquisire la «documentazione su cui si è fondata l’iniziativa editoriale» e non l’identità delle fonti. Per tutta risposta, da giorni ormai è tutto uno stracciarsi di vesti, fino alla promessa di eroica resistenza “fino alla morte”. Ranucci, che in decine di occasione ha invocato sentenze, decisioni e sanzioni, davanti a quella che lo riguarda muta l’esortazione in esorcismo: vade retro Tar, «è una sentenza gravissima». Chi segue le vicende Rai è spesso coinvolto in torrentizie chat in cui Ranucci avverte: «Ci vogliono far chiudere». È una costante che si ripete a ciclo continuo, come le catene su Facebook in cui si invitano gli spettatori a guardare Report perché solo gli ascolti possono garantire continuità a una trasmissione così irriverente. A suo dire eternamente in pericolo, minacciato, assediato, il conduttore che nel 2017 è succeduto a Milena Gabanelli ha ottenuto nel giugno 2020 il posto di Vice direttore di Rai Tre su indicazione di Franco Di Mare. E il patto M5S-Pd lo salda in quella posizione. A meno che Draghi non decida di scuotere il gigante che dorme. Ma intanto viale Mazzini è quella che è, messa su tutta intera dalle logiche del Conte 1, con qualche aggiustatina durante il Conte 2. Nella motivazione della sentenza è chiaro che si tratta di verificare gli atti e non di rivelare le fonti. Ma Enrico Letta sembra non capirlo: «Questa sentenza lascia davvero perplessi, non vedo come possa resistere agli ulteriori gradi di giudizio». Gli risponde Enrico Costa di Azione: «Perplesso di cosa? Uno si ritiene “sputtanato” da Report. Chiede copia degli atti del servizio. Atti, non fonti. Di fronte al No si rivolge al Tar che consente l’accesso solo agli atti provenienti da soggetti di natura pubblica. Se fai processi mediatici devi scoprire le carte!». Arriva anche una interrogazione parlamentare a firma di Guido Ruotolo a difesa di Report. Luciano Nobili, Iv, invece attacca la trasmissione che ha usato con Matteo Renzi lo stesso metodo. L’accoglimento parziale delle richieste dell’avvocato Mascetti rappresenta un precedente interessante anche per lui.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

L'assalto giudiziario. Giudici e Pm non possono essere criticati: la casta degli intoccabili che intimidisce il Riformista. Guido Neppi Modona su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Caro Direttore, ho letto nei giorni scorsi che negli ultimi dodici mesi sei stato raggiunto nella tua qualità di direttore de Il Riformista da oltre venti querele per diffamazione a mezzo stampa. La cosa in sé non mi ha impressionato, chi fa bene il mestiere di giornalista, verificando e poi raccontando la verità su fatti e persone, quali ne siano il loro ruolo e l’importanza, è inevitabilmente esposto al rischio di essere querelato, non fosse altro che a titolo intimidatorio. Ciò che mi ha stupito e inquietato è che le querele siano state presentate da altrettanti magistrati, cioè soggetti che svolgono il ruolo istituzionale di tutori della legge, in primo luogo dei diritti costituzionali di libertà, tra cui il diritto di informare e di essere informati. Come a dire che quel diritto non trova applicazione nei confronti di una casta privilegiata formata da giudici e pubblici ministeri che si ritengono intoccabili e per i quali non opera il diritto di cronaca e di critica. Sono certo che questa concezione di casta è estranea alla stragrande maggioranza dei magistrati, ma resta il fatto oggettivo di quelle venti e più querele che ti hanno raggiunto e che verranno giudicate da colleghi dei querelanti. Ho iniziato la collaborazione con Il Riformista da poche settimane, ne sono pienamente soddisfatto e vorrei continuare a lungo, sono certo che non ti farai intimidire da un gruppetto di magistrati presuntuosi. Guido Neppi Modona

Dopo il caso Sansonetti. Napoli, boom di querele e minacce contro giornalisti: a rischio la libertà di stampa. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Aprile 2021. Quando non è la minaccia, che da queste parti proviene quasi sempre da personaggi legati alla camorra, sono le querele temerarie, quelle dei politici o di altri centri di potere, a porre ostacoli al lavoro dei giornalisti, al diritto di cronaca e di critica. Negli ultimi sei anni il fenomeno è enormemente cresciuto. Basti pensare che la spesa affrontata dallo sportello antiquerele del Sindacato unitario giornalisti della Campania, nato a metà del 2015, è aumentata del 900%. «Nel 2016 la spesa sostenuta per dare sostegno ai colleghi querelati o minacciati ammontava a 2mila euro – spiega Claudio Silvestri, segretario del Sugc – Nel 2017 era già schizzata a circa 10mila euro e oggi rappresenta quasi il 10% del nostro bilancio, circa 20mila euro, una cifra altissima». Il 2020, l’anno del lockdown, è stato paradossalmente l’anno del boom delle minacce ai giornalisti: il dato è emerso nel corso del più recente incontro con il prefetto di Napoli Marco Valentini. Attualmente il sindacato sta dando sostegno a venti giornalisti vittime di querele temerarie e in dieci processi è parte civile al fianco di cronisti minacciati e costretti a vivere sono scorta o sotto tutela. Le venti querele che, in meno di un anno, alcuni magistrati hanno presentato contro il nostro direttore Piero Sansonetti per gli articoli di critica nei confronti di una parte della magistratura italiana pubblicati su Il Riformista, oltre quella che nei giorni scorsi il presidente della Regione Vincenzo De Luca ha presentato contro il quotidiano la Repubblica per gli articoli di inchiesta sull’affidamento del servizio tamponi durante la prima fase dell’emergenza Covid, sono soltanto gli ultimi episodi in ordine di tempo. Le statistiche evidenziano quanto, in questo periodo storico, l’indipendenza e l’autonomia dei giornalisti siano minacciate e ostacolate. «In Campania le querele arrivano soprattutto da politici – spiega il segretario del Sindacato unitario dei giornalisti – Nella quasi totalità dei casi si tratta di querele temerarie, che non si basano su nulla e servono solo a fermare i giornalisti per fare in modo che abbandonino il loro lavoro di inchiesta. La querela – aggiunge Silvestri – è uno strumento semplicissimo da utilizzare e un bavaglio a costo zero: chi denuncia non rischia niente e non spende niente, mentre chi viene denunciato è costretto ad affrontare una serie di spese per difendersi da accuse destinate a essere archiviate oppure a finire al centro di processi che durano anni e anni e sono come una spada di Damocle. Purtroppo questa delle querele temerarie non è l’eccezione, ma la prassi. E le vittime sono spesso i colleghi più fragili, quelli che lavorano sui territori, i corrispondenti dai piccoli Comuni. L’effetto è devastante perché rischia di ledere il diritto di cronaca del giornalista e il diritto del cittadino di essere informato». Sul piano normativo la situazione è arenata. «Tutti i progetti di legge per limitare le querele temerarie sono finiti in un cassetto e quelli che vengono discussi non arrivano in Parlamento, non vengono messi ai voti, perché c’è una volontà della politica di non occuparsi della questione», afferma Silvestri che con il sindaco ha più volte sollecitato una legge contro le querele temerarie. «Ma le iniziative vanno a cadere. – aggiunge il segretario del Sugc – Quando si tratta di apparire sui giornali, il politico di turno è sempre pronto a sostenerci, ma quando si tratta di votare e portare una legge al completamento dell’iter per essere votata in Parlamento, tutto diventa complicato». Dalla querela al carcere il passo per i giornalisti può non essere tanto lungo. Il Sindacato unitario della Campania è stato il primo a sollevare una questione di incostituzionalità della norma che prevede il carcere per il giornalista condannato e l’ha fatto in un processo per diffamazione a Salerno. Quell’iniziativa ha poi stimolato altri ricorsi, ma anche in questo caso una modifica alla legge sulla stampa non è arrivata. A giugno dello scorso anno la Corte Costituzionale, presieduta proprio dall’attuale ministro Marta Cartabia, aveva rilevato profili di illegittimità della norma rimandando al Parlamento un’iniziativa legislativa. Il termine scade tra due mesi. «Il paradosso – conclude Silvestri – è che le proposte alternative che stanno circolando in Parlamento sono altrettanto rischiose per i giornalisti perché prevedono maxi-risarcimenti con cifre che non stanno né in cielo né in terra».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Scarpinato: “La politica mette museruola ai Pm”. Ma intanto lui prova a metterla ai giornalisti…Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Agosto 2020. Commemorando Rocco Chinnici – valoroso magistrato palermitano ucciso dalla mafia 37 anni fa, alla fine di luglio – il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha polemizzato, come ogni tanto gli succede, contro la politica che cerca sempre, secondo lui, di mettere la museruola ai magistrati. Ricopio alcune delle frasi che ha pronunciato Scarpinato, riprese dalle agenzie di stampa: «Un mondo politico che da tempo ha interessi a mettere la museruola alla magistratura (…) a subordinare la magistratura al potere esecutivo». «Il vero cambiamento nella magistratura avverrà all’interno della magistratura o non avverrà (…) occorre una autoriforma». Mi ha colpito questo discorso di Scarpinato, per due ragioni. Innanzitutto perché trovo improprio paragonare questi tempi a quelli (anche se non sono sicurissimo dell’intenzione di Scarpinato, che è vecchio quanto me, di paragonare oggi e ieri). Comunque lo si fa spessissimo, nella corrente polemica politica italiana. Basta pensare a un magistrato al quale sono particolarmente legato, come Nicola Gratteri, che ama accostare la sua figura a quella di Falcone. È un errore, perché in questo modo si violenta la storia. E ai giovani si consegna una idea paludata e distorta di quella che fu la battaglia contro la mafia negli anni di Chinnici e Falcone. Combattere la mafia, o più semplicemente indagare sulla mafia, trenta o quarant’anni fa era un’impresa temeraria. Ci si lasciava la pelle. Oggi ti applaudono: i giornali, i politici, ti chiamano in Tv, ti onorano. In quegli anni di fuoco ti tiravano tutti addosso, ti lasciavano solo, ti mettevano il silenziatore, ti esponevano a tutte le vendette. I magistrati, e anche i politici impegnati, e anche i giornalisti, cadevano come mosche. Chinnici, Costa, Terranova, e poi Dalla Chiesa, che era un carabiniere, De Mauro, che era un giornalista, e tanti leader della Dc e del Pci, sindacalisti, preti. I giornalisti che si occupavano di mafia erano pochi ed emarginati. Quelli de l’Unità, di Paese Sera, de l’Ora di Palermo. Pochi altri. I grandi giornali dubitavano persino che la mafia esistesse. Oggi le cose sono cambiate abbastanza; un giornalista che vuole un po’ di spazio sul palcoscenico ha bisogno della patente antimafia, e per ottenerla deve convincere un magistrato a concedergliela, o una delle tante associazioni ufficiali, o i 5 Stelle, o la Bindi. Gli stessi Pm fanno a gara per ottenere il timbro di antimafia sulle loro inchieste, sennò le inchieste valgono poco ed è anche più difficile portarle a termine, perché non si può ricorrere a tutti quegli strumenti che rendono le indagini più facili (trojan, intercettazioni, carcere duro, pentiti eccetera).  Pensate a “mafia capitale”, un giro di tangenti spacciato per il regno di Luciano Liggio. Conviene fare così: poi in Cassazione te lo smontano, ma intanto è andata. È una cosa molto scorretta, dal punto di vista politico e storico, accostare l’antimafia da operetta di oggi a quella feroce ed eroica dei primi quattro decenni del dopoguerra. La seconda ragione per la quale mi ha colpito questo intervento di Scarpinato è la parola «museruola». Mi sono chiesto: cosa intende per museruola Scarpinato? Qualcuno può citarmi delle inchieste avviate dalla magistratura e bloccate dalla politica? Può anche darsi che ci siano, ma io non le conosco. I principali partiti di governo di questi ultimi 25 anni, eccetto i 5 Stelle, sono stati tartassati dalle inchieste giudiziarie. Decine di esponenti politici sono stati azzerati e poi magari risultati innocenti. Alcuni partiti sono stati dimezzati. Silvio Berlusconi è stato messo sotto inchiesta quasi cento volte. Dov’era la museruola? E con che mezzo veniva applicata? L’ultima inchiesta su mafia e intrecci con il potere politico ed economico che io ricordi, e che è stata archiviata, è quella su mafia e appalti, avviata da Falcone e Borsellino, condotta dal generale Mori e poi archiviata dalla Procura di Palermo. Siamo all’inizio degli anni Novanta. Falcone e Borsellino finirono uccisi, il generale Mori è vivo ma lo hanno messo quattro volte sotto processo, tre volte è stato assolto, la quarta è ancora in corso. Ha ragione Scarpinato, forse, in questo caso – ma è un caso di molti anni fa – può darsi che in quella occasione la politica premette per mettere la museruola. Io non posso saperlo.  Scarpinato invece può saperlo, perché fu lui a firmare la richiesta di archiviazione di quella inchiesta, appena pochissimi giorni prima della morte di Borsellino, che invece chiedeva che quella inchiesta gli fosse assegnata. Se in quel caso ci sono state pressioni, allora Scarpinato dovrebbe denunciarle. Dire: questi esponenti politici, questi partiti, questi imprenditori ci hanno chiesto di farla finita. Altrimenti non capisco a quale altra inchiesta possa riferirsi. Comunque la questione della museruola mi lascia molto perplesso anche per un’altra ragione. Insieme al mio amico Damiano Aliprandi, quando lavoravamo per il quotidiano Il Dubbio, scrivemmo alcuni articoli proprio sull’inchiesta mafia e appalti. Argomento interessantissimo. Specialmente in relazione alla morte di Borsellino. Perché nel processo in corso a Palermo, contro il generale Mori, si sostiene che Borsellino fu ucciso per dare spazio alla trattativa Stato-Mafia. L’impressione mia e di Damiano era invece che il motivo fosse l’altro: bloccare il dossier mafia e appalti.  Non so chi abbia ragione. So che in quegli articoli domandammo proprio a Scarpinato di spiegare il perché della decisione di chiedere l’archiviazione (concessa poi, molto rapidamente, alla vigilia di Ferragosto di quello stesso anno: stiamo parlando del 1992). Scarpinato però non ci rispose, anzi ci querelò. Cioè chiese ai suoi colleghi giudici di processarci e di condannarci. Siamo stati rinviati a giudizio. Il processo è in corso, la pena massima prevista con tutte le aggravanti (se critichi un magistrato la pena aumenta di un terzo) può arrivare a sette anni. Ed essendo io un anziano signore di quasi settant’anni, vi dirò che mi secca parecchio l’idea di dover restare in prigione fino alla vigilia degli ottant’anni per aver fatto una domanda al dottor Scarpinato. (Per Damiano è diverso: lui ha poco più di trent’anni e a quaranta sarà fuori e potrà rifarsi una vita. Magari diventerà cancelliere…). E allora qui mi torna nelle orecchie quella parolina: museruola, museruola. Sapete, io colleziono querele di magistrati. Qualche nome? Scarpinato, appunto, Lo Forte, Gratteri, Di Matteo, Davigo (due volte), un altro membro del Csm che si chiama Marra, e poi naturalmente l’ex giudice Antonio Esposito e qualcun altro che adesso non ricordo. Voi sapete che se ti querela un politico puoi stare tranquillo, perché al 90 per cento vinci. Se ti querela un imprenditore vinci uguale. Se ti querela un magistrato le possibilità di non perdere sono tra l’1 e il 2 per cento. Più probabile l’1. A prescindere da quello che hai detto o scritto. Perché i magistrati querelano chi li critica? Non è difficile da capire: per intimidire. Peraltro ci riescono facilmente. L’idea è che la magistratura, per svolgere serenamente il proprio lavoro, per non dover sottostare alle pastoie dell’eccessivo garantismo, deve essere protetta dalle critiche. Capisco persino qual è il senso di questa idea (e capisco che possa essere ispirata da un modo un po’ contorto di coltivare il proprio senso del dovere). Su una cosa però non ho dubbi: nulla lede la libertà di stampa più di questa continua, incessante, opprimente attività intimidatoria e vessatoria di alcuni magistrati. Contro la quale non ci sono difese. O accetti la museruola, guaisci un po’ e poi ti inchini, o loro non ti mollano più.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

"Venti querele dai pm, rischiamo di chiudere". Sabrina Cottone il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Il direttore Sansonetti: "E quando un giudice deve decidere su un collega...." Non si sa se è un record. «Siamo arrivati a venti querele tutte di magistrati» racconta Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista. In prima pagina ha titolato: «Vogliono farci chiudere?». Lo crede davvero? «No, ma rimani solo, perché l'Ordine e i sindacati dei giornalisti si muovono subito se ad attaccare sono i politici ma con i magistrati sono molto, molto più cauti (è un eufemismo, ndr). Sono anche stato censurato». Carlo Verna, presidente dell'Ordine, dice che «il complottismo di Sansonetti sfida il ridicolo». Il giornalista replica: «Mi insulta, farò un esposto contro di lui». La vicenda più attuale riguarda le ultime due querele, legate alle stragi di mafia del 1992, alla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma soprattutto al misterioso dossier mafia-appalti. Sono arrivate dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e da Guido Lo Forte e sono un doppione: è la seconda volta che i due magistrati querelano Sansonetti per la medesima questione. Oggi come allora, il giornalista aveva chiesto loro perché nel 1992 archiviarono il dossier mafia-appalti, sul quale Falcone lavorò e continuò a vigilare anche dopo il suo trasferimento a Roma al ministero della Giustizia. «Ho usato "insabbiato" al posto di "archiviato"» ammette Sansonetti, ma «è gergo giornalistico» e «chiunque sa che una querela di un magistrato ha tra le 95 e le 100 possibilità su cento di essere accolta, il valore di intimidazione è evidentissimo». Ma che cos'è esattamente il dossier mafia-appalti? «È il dossier avviato da Falcone che ricostruisce i rapporti tra alcune grandi aziende italiane e aziende economiche di mafiosi siciliani. I Ros guidati dall'allora colonnello Mario Mori, uomo di fiducia di Dalla Chiesa che lo portò in Sicilia dove lavorò con Falcone, avevano trovato molte relazioni tra aziende del Nord e la mafia. Quando Falcone andò a Roma, Mori continuò a lavorare e lo consegnò alla Procura di Palermo». Il susseguirsi degli eventi, per chi non lo ricorda, è incalzante: «Il 13 luglio del 1992 (la strage di Capaci è del 23 maggio, ndr) Scarpinato e Lo Forte redigono la richiesta di archiviazione del dossier. Il 14 il procuratore Giammanco convoca una riunione di sostituti e aggiunti, alla quale Scarpinato non partecipa, durante la quale Borsellino mostra grande interesse per il dossier e chiede di convocare una riunione per decidere come far proseguire le indagini. Il 19 mattina, secondo la testimonianza della moglie Agnese, Borsellino viene informato da Giammanco, allora procuratore capo a Palermo, che gli avrebbe affidato il dossier. Dopo pranzo è ucciso con la scorta in via D'Amelio. La richiesta di archiviazione viene poi depositata ufficialmente il 22 luglio». Perché? «Scarpinato sostiene che non sapeva alcune cose di questo dossier, le più importanti, perché i pentiti non avevano informato direttamente lui, ma il pm che indagava con lui». Oltre alla querela, resta la domanda: perché un dossier tanto caro a Falcone e Borsellino è stato archiviato ufficialmente due mesi dopo la morte di Falcone e tre giorni dopo la morte di Borsellino?

L'assalto giudiziario. Vogliono chiudere il Riformista, offensiva intimidatoria dei Pm contro il nostro giornale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Ieri mattina, verso le 9, ha suonato alla mia porta un vigile urbano gentilissimo. Mi ha consegnato una busta verde. Era una notifica, veniva dalla procura di Lodi. L’ho aperta. Era un avviso di chiusura indagini su di me, sollecitate da una querela del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. Mi sono un po’ innervosito. Cinque minuti dopo hanno suonato di nuovo. Di nuovo il vigile, di nuovo gentilissimo, di nuovo una busta verde. Era l’ avviso di chiusura indagini su di me, sollecitate da una querela dell’ex Pm palermitano Guido Lo Forte. Ho detto: vabbè. Dopo mezz’ora il postino mi ha portato due raccomandate. Venivano dall’Ordine dei giornalisti. Riguardavano dei provvedimenti disciplinari dell’Ordine contro di me. Il primo era – per mia fortuna – di archiviazione. Il secondo di censura. Il primo, da quello che ho capito, era stato sollecitato da un giornalista del Corriere della Sera (Bianconi, suppongo), il secondo dall’ex giudice di Cassazione Antonio Esposito. Bianconi si lamentava per un articolo del Riformista nel quale si riferiva di una sua telefonata nella quale il giornalista avvertiva Luca Palamara che erano state aperte delle indagini su di lui, quando queste indagini erano ancora segrete. Il Consiglio di disciplina dell’ordine ha accertato che il fatto è vero, ci sono i file audio sequestrati a Palamara, e dunque ha dovuto archiviare. Anche perché Bianconi è un semplice giornalista, non è un magistrato (spesso i giornalisti confondono le due funzioni, ma i privilegi sono riservati solo ai magistrati effettivi) e dunque non ha diritto a trattamenti di favore. Il secondo esposto invece è stato in larga parte accolto ed è stata decisa a mio carico una censura, che è una misura grave, specialmente per un direttore di giornale. L’episodio al quale ci si riferisce è abbastanza famoso: Il Riformista, l’estate scorsa, pubblicò il ricorso in sede europea (alla Cedu) degli avvocati di Berlusconi contro la sentenza che lo condannava a quattro anni di detenzione per evasione fiscale. Gli avvocati di Berlusconi in quel ricorso riferivano di un colloquio (registrato) con il giudice relatore in Cassazione (il giudice Franco), il quale spiegava che quella sentenza fu “una porcata” decisa da “un plotone di esecuzione”. E poi esponevano i risultati di un processo civile nel quale era coinvolto Berlusconi (processo Mediatrade) , la cui sentenza era inconciliabile con la sentenza della Cassazione, emessa dalla sezione feriale presieduta dal dottor Antonio Esposito (autore dell’esposto oggi in pensione ed editorialista del Fatto Quotidiano). Il Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti ha stabilito – anticipando la sentenza che sarà emessa dalla Corte Europea – che la sentenza civile alla quale si riferiscono gli avvocati di Berlusconi non ha niente a che vedere con il processo sull’evasione fiscale e che io avrei dovuto dirlo, cioè che avevo il dovere di contestare il ricorso di Berlusconi e non potevo limitarmi a riferire. Il giornalista, secondo questa interpretazione, prima di raccontare deve giudicare, prima di fare il cronista deve fare il giudice. L’idea del giornalista giudice non è nuovissima, inizia però a strutturarsi. Ora sospendo il ragionamento sulla censura ricevuta dall’Ordine dei giornalisti (lo riprendo alla fine di questo articolo) per spiegare le querele di Scarpinato e Lo Forte. La questione è molto semplice. In varie occasioni io, su questo giornale e precedentemente sul Dubbio, ho sollevato la questione dell’archiviazione del dossier mafia-appalti (che adesso vi spiego cos’è) avvenuta a Palermo subito dopo l’assassinio di Paolo Borsellino e lo sterminio della sua scorta nel 1992. Il dossier era il risultato di una indagine importantissima, avviata da Giovanni Falcone e realizzata dal Ros dei carabinieri guidato dal generale Mario Mori. Gettava luce sui rapporti tra mafia (non solo quella corleonese), imprese e grande finanza del Nord e rappresentava una vera bomba atomica nella storia delle indagini antimafia (in quegli anni l’antimafia era ancora una cosa seria, e anche molto costosa e dolorosa, perché chi la praticava spesso pagava molto caro il suo sforzo, talvolta anche con la vita). Quel dossier doveva finire nelle mani di Paolo Borsellino, che più volte aveva chiesto di potersene occupare e ne aveva parlato con diversi suoi colleghi, tra i quali Antonio Di Pietro. Forse quel dossier era stata una delle ragioni per le quali la mafia aveva condannato a morte Giovanni Falcone. Forse anche uno dei moventi della strage di via D’Amelio nella quale perse la vita Borsellino. Il dossier mafia-appalti invece fu archiviato. La richiesta di archiviazione viene redatta il 13 luglio del 1992 da Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte. Il giorno successivo il Procuratore di Palermo Giammanco convoca una riunione con tutti i sostituti e gli aggiunti, tra i quali Borsellino, e in quella sede, secondo le testimonianze rese al Csm da diversi magistrati che erano alla riunione, Borsellino mostrò interesse per il dossier, chiese che si convocasse una riunione apposita nei giorni successivi per discutere come far procedere le indagini, ma nessuno gli disse che il dossier era sul punto di essere archiviato. Il 19 luglio – questa non è una cosa certa ma ci sono varie testimonianze che lo sostengono – di prima mattina Giammanco informò Borsellino che gli sarebbe stato assegnato il dossier. Ma alle due del pomeriggio Borsellino viene ucciso. Il 23 luglio viene depositata la richiesta di archiviazione del dossier del Ros. Il 14 agosto, alla vigilia di Ferragosto, in grandissima fretta, il dossier è archiviato dal Gip. Ho chiesto varie volte il perché di questa archiviazione, che probabilmente ha compromesso il buon esito delle indagini antimafia e ha vanificato il lavoro, soprattutto, del generale Mori. La stessa richiesta che ho fatto io è stata in più occasioni ripetuta dalla signora Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo Borsellino. Non mi è stato risposto. Mai. Neanche alla signora Borsellino è stato risposto. La quale recentemente ha dichiarato: «Ci sono magistrati che continuano a negare l’interessamento di mio padre per il dossier mafia-appalti che invece era il pallino di mio padre. Persone come Scarpinato, che continua a dire che mio padre non era interessato». Invece, dice la signora Borsellino, suo padre era massimamente interessato e forse ha pagato anche per questo con la vita. Quale è stata la risposta di Scarpinato e Lo Forte alle mie domande? Mi hanno querelato. Mi hanno portato a processo davanti al tribunale di Avezzano. Il processo è in corso. E ora, mentre il processo è in corso, mi hanno querelato di nuovo e la Procura di Lodi mi informa che le indagini sono chiuse. Probabilmente dovrò rispondere in ben tre processi di avere chiesto a due magistrati perché hanno archiviato le indagini sulla mafia che Paolo Borsellino voleva condurre. Mi sarei accontentato di una risposta semplice. Potevano dirmi: “Perché quel dossier non valeva nulla e Falcone e Borsellino avevano preso un abbaglio”. Può anche darsi che sia così. Nessuno è infallibile. Ma allora perché non dirlo e chiedere invece che sia chiusa la bocca a un giornalista (anzi a due, perché insieme a me è a processo anche il bravissimo Damiano Aliprandi, giornalista del Dubbio). Ora, il problema che vi pongo è questo. Da quando dirigo il Riformista ho ricevuto più di venti tra querele e azioni civili contro di me e contro il giornale. Tutte da magistrati. Soprattutto da magistrati o ex magistrati importanti. Ne cito solo qualcuno: Scarpinato, Lo Forte, Gratteri, Caselli, Esposito, Davigo, Di Matteo (Di Matteo però per una cosa precedente) Sturzo e vari altri. Venti procedimenti giudiziari, dei quali almeno un terzo penali e dunque con la possibilità di essere ripetutamente condannato al carcere, sono tanti. Specialmente per la circostanza, nota, che è difficilissimo che un magistrato perda un processo. Se ti querela un politico, stai tranquillo: perderà e dovrà anche risarcire. Se ti querela un magistrato hai già perso. Mi chiedo: questo accerchiamento è un tentativo di chiudere il Riformista? Di metterlo in condizioni di dover tacere? Il Riformista, lo sa chiunque ormai, è quasi l’unico giornale che da un anno e mezzo combatte senza riguardi una lotta a viso aperto contro le sopraffazioni della magistratura, contro le illegalità, contro l’orgia del potere dei Pm. E denuncia l’esistenza del partito dei Pm, quello descritto piuttosto bene nel libro di Luca Palamara che, in passato, ne è stato uno dei capi. Devo pensare che il partito dei Pm, stressato dal caso Palamara (praticamente ignorato dalla grande stampa) si sente in pericolo solo per la voce flebile di questo piccolo quotidiano? Pensa di non potersi permettere che esista un giornale che continua a protestare, e intende adoperarsi per farlo chiudere? Quel che mi colpisce è che di fronte a questa ipotesi non succede quello che si potrebbe immaginare: che l’Ordine dei giornalisti, o il sindacato, intervenga a difesa della libertà di stampa. Succede il contrario: l’Ordine dei giornalisti dichiara in modo esplicito che sta dalla parte dei magistrati. Come nelle peggiori favole dei fratelli Grimm. Riusciranno a farci tacere? Non credo. Intanto andiamo a fare questi tre processi con Scarpinato e Lo Forte.

Piero Sansonetti

Verna si schiera con i magistrati, giornalismo sottomesso alle Procure. Atto intimidatorio e minaccia dell’Ordine dei giornalisti contro il Riformista: i Pm non si toccano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Dopo la nostra denuncia dell’aggressione che stiamo subendo dal partito dei Pm (più di 20 querele di magistrati in un anno) abbiamo ricevuto moltissime dichiarazioni di solidarietà. Ci è mancata la solidarietà dell’Ordine dei giornalisti che invece, con una dichiarazione del suo presidente, che si chiama Carlo Verna, si è schierato decisamente dalla parte dei magistrati. Ha detto che se uno fa cattivo giornalismo le querele se le merita. Ha detto che se un giornalista riferisce di un ricorso di Berlusconi contro un magistrato si merita di ricevere la censura dell’Ordine. Ha anche detto, di me, che sfido il ridicolo, usando un linguaggio che fin qui raramente avevo visto nelle esternazioni dei presidenti degli ordini professionali. Diciamo che Verna ha lanciato un avvertimento: state un po’ zitti, smettetela di criticare la magistratura, e vedrete che non succede niente. Se invece volete fare i pierini, sarete bastonati. Ricevuto. In parte lo immaginavo. Non è da oggi che denuncio la sottomissione del giornalismo italiano alle Procure. Non presenterò un esposto all’Ordine contro Verna per il modo maleducato con il quale si è espresso nei miei confronti. Mi piacerebbe invece sapere se negli organismi dirigenti dell’Ordine esiste unanimità intorno all’atteggiamento del Presidente. Per il resto prendo atto del nuovo atto intimidatorio e dell’evidente minaccia che viene mossa nei miei confronti. Vi dico subito: ho 70 anni, faccio il giornalista di opposizione da 45. Mica mi intimidiscono tanto facilmente.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Informazione e regime. Il Riformista è sotto attacco, “Noi lo difendiamo”. Ondata di solidarietà a Sansonetti. Francesca Sabella su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Il Riformista è sotto attacco. Non si tratta di gridare al complotto né tantomeno di lanciare un allarme ingiustificato: il direttore Piero Sansonetti ha ricevuto due querele, una dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, l’altra da un ex magistrato celebre come Guido Lo Forte. Il numero delle querele arriva così a 20. Eppure «la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure», recita l’articolo 21 della Costituzione. E forse proprio di questo articolo si è dimenticato l’Ordine dei giornalisti del Lazio che ha fatto pervenire a Sansonetti un provvedimento di censura. Come se non bastasse, a rincarare la dose è stato il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Carlo Verna, che giudicato la questione sollevata dal direttore del Riformista come «un ragionamento di complottismo che sfida il ridicolo». «Chi ha sbagliato deve pagare – ha aggiunto Verna – Io posso intervenire solo in un caso clamoroso, ma non per ogni querela normale dove uno si ritiene diffamato. Resto basito dal pezzo di Sansonetti». Basiti, però, sono rimasti anche alcuni colleghi giornalisti che, seppur con idee diverse da quelle del direttore di questo giornale, restano convinti della necessità di tutelare la libertà di stampa. 

Mario Giordano si è schierato apertamente: «Credo che quella delle querele intimidatorie sia una questione serissima in questo momento. Piero Sansonetti ha ragione, ormai è diffuso l’uso della querela a scopo intimidatorio, solidarietà totale a lui perché il suo è un giornale che ha delle idee, fa delle domande, solleva delle questioni importanti che aiutano tutti. Anche quelli che non la pensano come lui, come me, che non sono quasi mai d’accordo con lui».

Anche Nicola Porro, ha sottolineato la gravità del querelare giornalisti come se fosse normale: «Lo strumento delle querele è mostruoso perché anche se si ha la certezza di perdere la causa, si utilizzano a scopo intimidatorio. Se poi – sottolinea – uno dei presunti offesi è un magistrato o una persona molto importante il rischio di dover pagare è maggiore. E questo è un grandissimo freno ai nostri tasti». Infine, anche Sigfrido Ranucci ha voluto sottolineare la condizione del giornalismo italiano di oggi: «Finché c’è un sistema che consente di non pagare nulla a chi fa esposti o denunce ai giornalisti, io credo che la democrazia avrà un bavaglio per sempre. Si è cominciato da un po’ di tempo a colpire quei giornali non omologati, le voci che non sono nel coro». Perché si sa, una voce fuori dal coro infastidisce chi vorrebbe cantare indisturbato, distruggendo allegramente la democrazia e la libertà di stampa.

Lina Lucci (Ex segretario generale della Cisl Campania) – «Una richiesta al direttore: renda pubbliche nel dettaglio le imputazioni che gli vengono mosse per togliere l’alibi a chiunque di svilire quello che sta avvenendo. Serve chiarezza sull’operato della magistratura: un ruolo così determinante, in grado di modificare la vita di una persona, non può essere esercitato se non con la massima trasparenza. Vale Soprattutto se in discussione c’è la libertà di stampa. Per quel che attiene alla censura dell’Ordine, è grave se riferita al fatto che un giornalista debba giudicare anziché riportare i fatti fedelmente per quelli che sono. La libertà di stampa è parte integrante del processo democratico».

Raffaele Marino (Sostituto procuratore generale di Napoli) – «Dovrei conoscere il merito dei fatti con più precisione ma venti querele sono tante. Questa situazione mi ricorda quella di Tangentopoli quando i giornalisti che scrivevano del caso furono subissati di denunce e i magistrati che si occupavano di quei processi sottoposti a procedimenti disciplinari. È la vecchia storia del potere che si difende: tanto più il potere è autoreferenziale, tanto più forte sarà la reazione. L’indipendenza della magistratura, come concepita dal legislatore costituente, era un fiore all’occhiello dell’Italia ma scambiare l’indipendenza con un privilegio a tutela del proprio potere è veramente triste e pericoloso».

Antonio Tafuri (Presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli) – «Mi sembra grave che si sia censurata la voce di un direttore di giornale che si schiera con coraggio in favore del rispetto delle regole. Perché veramente Sansonetti rappresenta anche questo per noi avvocati, è una voce fuori dal coro e in quanto tale va tutelato e non censurato. È grave il tentativo di intimidazione dei magistrati che dietro le loro guarentigie censurano con le querele un giornalista, forse sarebbe stato il caso da parte dell’Ordine dei giornalisti di avere un po’ più di attenzione per il loro iscritto. I pm stanno mettendo in atto comportamenti prevaricatori nei confronti di avvocati e giornalisti. Sono due cose altrettanto gravi».

Paolo Macry (Storico, professore emerito Università Federico II) – «È una rete che strangola la politica, minaccia l’incolumità degli individui. E uccide la morale pubblica, lo stesso senso comune. Un giorno toccherà agli storici ricostruire i danni che la magistratura ha fatto a questo Paese. Perché la vicenda è lunga ormai di decenni. La persecuzione del Riformista costituisce soltanto l’ultimo tassello di una ghigliottina che ha tagliato a fette la fisiologia dello Stato di diritto e della lotta politica. Un caso unico, nell’Europa occidentale. Bisogna andare dalle parti di Visegrad o nella Turchia di Erdogan o nella democrazia fasulla di Putin per trovare un simile spregio delle garanzie».

Federica Brancaccio (Presidente dell’Acen – Associazione costruttori Napoli) – «Ho letto con il consueto interesse con cui, ogni mattina, leggo i quotidiani e, tra questi, anche Il Riformista diretto da Piero Sansonetti. Non avendo potuto consultare i documenti e i dossier a cui fa riferimento nell’editoriale il direttore, nutrendo stima per il suo operato professionale e riponendo – al tempo stesso – fiducia nell’operato dei magistrati e nell’oculatezza delle scelte dell’Ordine e del Sindacato dei giornalisti, non dubito nel buon esito dei giudizi in corso. In questo senso, mi torna alla mente una frase del compianto Aldo Moro: “Quando si dice la verità non bisogna dolersi. La verità è sempre illuminante”».

Fausto Bertinotti (Ex presidente della Camera) – «In una condizione ordinaria, sarebbe banale dover affermare la libertà di stampa, oggi dobbiamo gridarla perché minacciata, e questo vuol dire che è minacciata la democrazia. È curioso che vengano esaltati i meriti dei giornalisti che denunciano, ma quando poi toccano un potere, si pretende di zittirli. In questo caso c’è un ulteriore pericolo, perché chi interviene interdicendo l’esercizio libero della critica è la magistratura: istituzione che non ha contro poteri manifesti. E in quanto potere “eccezionale”, la magistratura dovrebbe almeno accettare la critica. Grave è anche la presa di posizione dell’Ordine dei giornalisti che avrebbe dovuto essere solidale con il collega».

Rita Bernardini (Già deputata dei Radicali – presidente Nessuno Tocchi Caino) – «A Piero Sansonetti e al suo giornale gliela vogliono far pagare perché l’involuzione del sistema informativo italiano è giunto a livelli ormai inauditi. Il Riformista paga perché non si piega ai desiderata di alcuni potenti pm che non ammettono né la critica né la cronaca. Che questo accada nell’anno del loro massimo sputtanamento (caso Palamara), lascia increduli. Non stupisce invece la pavidità dell’ordine dei giornalisti che continua a fare il mestierante di sempre, a danno del diritto all’informazione. Da parte mia massima solidarietà a Sansonetti e agli immondi tentativi di mettere il bavaglio a lui e al giornale che dirige».

Alessandro Barbano (Giornalista, scrittore, docente vicedirettore Corriere dello Sport) – «Auguro al direttore Sansonetti di continuare a essere paladino della libertà e della dialettica democratica con il suo bellissimo Riformista, di cui c’è tanto bisogno nella notte buia di questo Paese. La mancata difesa dell’Ordine dei giornalisti racconta lo smarrimento cosmico di questa professione, che è causa di regressione della nostra democrazia. Purtroppo la difesa dello stato di diritto e delle garanzie processuali, che il miglior giornalismo incarna, è una sfida impari in una stagione in cui il giustizialismo si è impossessato delle menti e attraversa la magistratura, la politica e la comunicazione come un veleno pericolosissimo».

Enza Bruno Bossio (Deputata del Pd – Direzione nazionale) – «L’editoriale a firma di Piero Sansonetti pone questioni assai rilevanti per lo svolgimento della vita democratica. Di fronte a fatti o sospetti inediti, uno Stato che si rispetti non si attarda in processi per ipotesi diffamatorie a carico dell’autore di tali denunce ma si pone il problema di come fare piena luce su quelle ombre inquietanti e accertare la verità dei fatti per come accaduti. Stupisce la censura dell’Ordine dei giornalisti. Certamente una rara eccezione, che lascia quantomeno molti dubbi. Piena solidarietà, dunque, a Piero e al giornale: è un dovere da parte di chi intende battersi a sostegno della difesa dei diritti di giustizia e libertà».

Roberto Giachetti (Deputato di Italia Viva e del Partito radicale) – «Sono contrario alle querele in generale: nel caso di querele a opera di pm credo che la questione sia ancora più grave: un conto è ricevere una querela da parte di un politico o di un cittadino, un altro è quando arriva da un magistrato. In questo caso c’è “un conflitto di interesse” e, nel migliore dei casi, il pm sarà particolarmente sensibile rispetto alla categoria. Credo quindi che questa azione da parte di magistrati sia una chiara forma intimidatoria nei confronti del Riformista. Per quanto riguarda la censura dell’Ordine dei giornalisti, conferma ciò che già pensavo: serve a poco e a volte fa scelte gravi. Prima lo si abolisce e meglio è».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La solidarietà alla testata e al direttore. Assalto giudiziario al Riformista e a Sansonetti, il web insorge: “Andate avanti, unica voce libera”. Vito Califano su Il Riformista il 16 Aprile 2021. C’è chi propone una raccolta fondi, chi chiede di continuare, chi per cominciare ha sottoscritto un abbonamento. Ha generato un’eco traversale e una solidarietà bipartisan l’editoriale del direttore de Il Riformista Piero Sansonetti. L’articolo ha reso noto un attacco senza precedenti contro la testata. Sansonetti ha fatto sapere di essere oggetto di una ventina di procedimenti civili e penali avviati negli ultimi dodici mesi. Altre due querele sono arrivate dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e dall’ex magistrato Guido Lo Forte per gli articoli sul dossier Mafia-appalti. L’Ordine dei Giornalisti ha invece censurato Sansonetti per un articolo sul ricorso degli avvocati del fondatore e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo per “la porcata” decisa da “un plotone di esecuzione”, come definita dal giudice relatore in Cassazione Franco, della condanna a quattro anni per evasione fiscale. Il Riformista e il suo direttore hanno ricevuto solidarietà bipartisan per l’attacco ricevuto. Sia da politici che da giornalisti. Tra questi Fausto Bertinotti, già segretario di Rifondazione Comunista e presidente della Camera dei Deputati; Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva e membro dei Radicali; il direttore editoriale di Libero, Vittorio Feltri. Personalità e personaggi lontanissimi tra loro eppure sulla stessa lunghezza d’onda nell’affaire Riformista. E poi Nicola Porro, Mario Giordano, Alessandro Barbano, Rita Bernardini e Paolo Macry tra gli altri. La solidarietà più libera e spontanea è arrivata però da parte dei lettori, molti dei quali si sono proposti per sostenere le spese legali. Migliaia gli attestati di stima ricevuti nelle ultime ore. Qualcuno propone addirittura una raccolta fondi, come Antonella che ci ha scritto: “Sansonetti lancia una raccolta fondi per le spese processuali … sei un grande e non devi mollare”. E ancora Fausto scrive: “Tieni duro caro Sansonetti, se molli tu siamo fregati … cerco di sostenerti il più possibile e come posso … (compro due copie del Riformista, una la lascio su un tavolo del bar)”; Diego aggiunge: “Non potendo più attaccare il tuo editore attaccano le sue imprese, giornale compreso”; Daniele: “Ha tutta la mia solidarietà per le sue battaglie. Non molli, noi italiani onesti siamo tutti con lei. Vada avanti e guai fermarsi”; “La mia solidarietà in seguito al violento attacco che sta subendo da parte della Magistratura deviata. Non demorda, vada avanti a denunciare”; “Io oltre a comprarlo spesso, dopo questo ho deciso di abbonarmi”; Maurizio: “Se vi fanno chiudere, fuori l’IBAN per riaprire tutto”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

L'assalto giudiziario. Feltri difende Sansonetti: “Fior di giornalista, chiudete l’Ordine non il Riformista”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Vittorio Feltri, fondatore e direttore editoriale del quotidiano Libero, si aggiunge alle voci in difesa de Il Riformista e del direttore Piero Sansonetti. Il direttore di questo giornale, con un editoriale, ieri ha fatto sapere di essere oggetto di una ventina di procedimenti civili o penali avviati negli ultimi dodici mesi per i suoi articoli. Altre due querele sono arrivate dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e dall’ex magistrato Guido Lo Forte, per gli articoli sul dossier mafia-appalti. Il consiglio di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti ha intanto censurato Sansonetti per un articolo sul ricorso degli avvocati del fondatore e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi alla Cedu per “la porcata” decisa da “un plotone di esecuzione”, come definita dal giudice relatore in Cassazione Franco, della condanna a quattro anni per evasione fiscale. Il direttore editoriale di Libero ha dedicato al caso un editoriale in prima pagina. Ha paragonato l’Ordine dei Giornalisti all’Unione degli Scrittori dell’Unione Sovietica. “Non è soltanto inutile ma dannoso”, ha aggiunto. Feltri si è dimesso dall’Ordine dei Giornalisti dopo 50 anni nella categoria lo scorso giugno 2020. Da allora è direttore editoriale di Libero, che ha fondato nel 2000. “Non possedendo la pazienza di aspettare analogo cataclisma, avendo l’età del dattero, me ne sono uscito dalla sopravvissuta sezione italiana, con mio parziale sollievo. E se dico parziale è perché non sono indifferente ad una questione che dovrebbe premere a tutti: tengo alla libertà di parola e di pensiero, che la Congrega cerca in ogni modo di comprimere, punendone uno per educarne maosticamente cento”. E il caso è quello de Il Riformista, e del suo direttore Piero Sansonetti, “un fior di giornalista nonché personaggio televisivo dalle argomentazioni chiare e distinte, una specie di pecora matta della sinistra di cui ripudia il giustizialismo”. La censura, dice Feltri, è “una forma di avvertimento, specie quando si combina, com’è nel suo caso, a una ventina di processi aperti da pm e giudici contro di lui, suscettibili di trasformarsi ognuno in azione disciplinare”. Una minaccia all’articolo 21 della Costituzione che recita che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Il Presidente dell’Ordine Carlo Verna ha osservato che “il complottismo di Sansonetti sfida il ridicolo”.

IL GIORNALE: “IL CASO RIFORMISTA” – Anche il quotidiano Il Giornale con un articolo ha dedicato spazio alla vicenda. Sabrina Cottone ha ricostruito il caso del dossier mafia-appalti, dal quale scaturiscono le querele di Scarpinato e Lo Forte, e si chiede se, queste venti querele, tutte da magistrati, siano un record o meno nella storia dei giornali e dei giornalisti. “Ho 70 anni, faccio il giornalista di opposizione da 45 – ha fatto sapere comunque Sansonetti – mica mi intimidiscono tanto facilmente“.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16 aprile 2021. Ho scritto circa mille anni or sono che l' Ordine dei giornalisti non è solo un ente inutile ma dannoso. È l' apparato italico che non ha paragoni nel mondo, salvo a suo tempo l' Unione degli Scrittori dell' Unione Sovietica che, a giornalisti e letterati conformi al regime, garantiva vacanze di lusso ai viventi e funerali di prima classe agli estinti; per i dissidenti vivi e morti a essere estinto era il diritto di vedersi stampati articoli e libri. Per chiudere questa fabbrica di privilegi e di leccaculo il popolo ha dovuto sopprimere l' Urss. Non possedendo la pazienza di aspettare analogo cataclisma, avendo l' età del dattero, me ne sono uscito dalla sopravvissuta sezione italiana, con mio parziale sollievo. E se dico parziale è perché non sono indifferente ad una questione che dovrebbe premere a tutti: tengo alla libertà di parola e di pensiero, che la Congrega cerca in ogni modo di comprimere, punendone uno per educarne maoisticamente cento. Ad esempio, il caso di Piero Sansonetti. Qui il sangue gocciola ancora fresco dalle orecchio mozzate di questo collega che conto di alcuni elementi incontestabili. Nelle classifiche internazionali riguardanti la libertà di stampa, che non è secondaria ai fini di valutare il livello di democraticità di una Nazione, l'Italia figura negli ultimi posti per motivi concreti. Intanto la stampa di casa nostra è quasi interamente di proprietà di imprenditori che, per quanto liberali, antepongono la propria tasca a quella dei lettori. Idem le radio e le televisioni, di sicuro non asettiche. La Rai non è privata e teoricamente non dovrebbe essere asservita a interessi personalistici, in realtà è un feudo della politica, dominio dei partiti di maggioranza. Quindi, quando si parla di autonomia dei giornalisti, si scherza ben sapendo di scherzare: la categoria a cui non appartengo da un po' è la più incline ad attaccare l'asino dove vuole il datore di lavoro. L'indipendenza, come si evince soffermandosi su ciò che ci circonda, è un mito, una illusione che tutti seduce e che nessuno è in grado di volgere in pratica. Se aggiungiamo che noialtri siamo i soli al mondo a disporre di un ordine dei giornalisti, di ispirazione fascista e deputato a sanzionare i soggetti più indomabili, il panorama si completa. Forse non siamo schiavi, ma camerieri sì. Pertanto il governo di Roma non è abilitato ad assegnare patenti di autocrate a nessuno se non a se stesso. Pure perché perfino le parole che usano i cronisti ormai sono soggette a censura. Se dai del frocio a un omosessuale vai all'inferno. Inoltre l'invidia sociale influenza la mentalità progressista: chi ha guadagnato quattro soldi è giudicato un evasore fiscale, come minimo. Il guaio non è Erdogan, bensì siamo proprio noi, perdio.

Informazione e regime. “Noi difendiamo il Riformista”, migliaia di messaggi di amicizia dopo l’attacco di Pm e Ordine dei giornalisti. Redazione su Il Riformista il 17 Aprile 2021. Abbiamo ricevuto in questi due giorni migliaia di messaggi di solidarietà. Di persone note, di intellettuali, di giornalisti, di avvocati, di magistrati, di cittadini. Non ci sentiamo soli. Abbiamo la netta sensazione di poter continuare tranquilli la nostra battaglia contro le degenerazioni e le sopraffazioni di una parte della magistratura italiana, e in particolare del partito dei Pm. Pensiamo di poter resistere anche al fuoco amico, un po’ vile, che viene dall’ordine dei giornalisti, e cioè da quella parte della nostra categoria più sottomessa alla forza e all’egemonia culturale delle Procure. Abbiamo subìto intimidazioni pesanti, sia attraverso le querele dei Pm sia con le censure e gli avvertimenti minacciosi dell’ordine dei giornalisti. Ma non sempre le intimidazioni vanno a segno. Abbiamo capito proprio in queste ore che il Riformista è più radicato di quanto potessimo pensare. Siamo contenti e continuiamo la nostra battaglia. Senza farci spaventare dalla gigantesca potenza di fuoco di chi vuole annientarci. La nostra potenza di fuoco è piccola piccola. Però noi abbiamo idee e ragione, loro, purtroppo, no. Qui di seguito pubblichiamo una parte minuscola dei messaggi che abbiamo ricevuto ieri sulla mail e su WhatsApp.

Col Riformista mi sento più libero. Renato Brunetta

Esprimo tutta la mia solidarietà, la mia stima e il mio affetto al direttore Piero Sansonetti per la raffica di querele e azioni civili che sta subendo. L’opera del Riformista a guida Sansonetti è stata determinante in questi anni per mettere al centro del dibattito pubblico la questione giustizia e per sfidare il pensiero unico sul tema. Io con il Riformista in edicola tutti i giorni e con gli editoriali di Sansonetti mi sento più libero.

Scarpinato? Spiegategli bene il golpe in Cile…Giancarlo Lehner

Caro Direttore, mi sono a lungo occupato dei nostri magistrati di lotta e di governo, pagandone, fra l’altro, le conseguenze, avendo trascorso decenni nei tribunali di tutta la Penisola. Riguardo alle preoccupazioni per la sopravvivenza del tuo quotidiano, l’unico foglio con merito in prima linea per la giustizia giusta e il ripristino della lettera della Costituzione, fossi in te mi guarderei soprattutto dal procuratore Roberto Scarpinato, che passerà alla Historia per la micidiale supponenza non sempre sorretta da sicure basi culturali. Ricordo, così, soltanto per spaventarti un po’, il suo leggendario saggio apparso su MicroMega, dove Scarpinato, ignorando le date della storia, scrisse: «Chi conosce la storia occulta dell’Italia e la potenza delle grandi strutture criminali, sa che non è azzardato, né frutto di un cupo pessimismo antropologico, ritenere che la situazione attuale ricorda… quella che venne a crearsi in Cile negli anni Ottanta [sic!] conclusasi tragicamente con la fine del presidente Allende». Ci si può fidare della scientificità di chi fissa la fine del povero Allende negli «anni Ottanta»? Magari si dirà che sono prevenuto, data la mia origine israelita, ma mi parve un tantino antisemita il saggio col titolo (Dio dei mafiosi) e un sottotitolo (Per una ‘teologia’ di Cosa Nostra. L’etica adattata alla logica di una sola grande ‘famiglia’, dove si può uccidere perché si obbedisce a ordini superiori. Una piramide che vede nel Dio del Vecchio Testamento l’ultimo – e il più terribile – dei padrini), nel quale, appunto, il dottor Scarpinato inviò un avviso di garanzia al Creatore non per concorso esterno e neppure per associazione mafiosa, ma per essere indubitabilmente il Capo dei Capi della mafia. Quindi, tanto per non fare sconti ai cattolici, rinviò a giudizio anche Sancta romana Ecclesia: «Riprendendo il tema della cultura mafiosa, non è forse azzardato ipotizzare che l’interiorizzazione del valore dell’autorità e dell’obbedienza proprie di certa cultura cattolica abbia potuto costituire una precondizione perché su questo humus si innestasse, senza traumi e senza fratture, mediante un’inconscia sinergia ibridante, la “sacramentalizzazione” dei valori dell’obbedienza cieca e della gerarchia da parte del popolo di Cosa Nostra…». Data codesta terrificante Weltanschauung, credo sarebbe giusto preoccuparsi se Scarpinato dovesse partire lancia in resta contro Il Riformista.

Dobbiamo scendere in piazza. Amedeo Laboccetta

L’attacco a colpi di querele nei confronti del Riformista, e del suo Direttore in particolare, il coraggioso e bravo Piero Sansonetti, deve assolutamente spingere gli uomini liberi in Italia a prendere posizione. Quando si crede veramente in una battaglia di libertà e di vera giustizia, la solidarietà si pratica e non si predica. Qualcuno, anzi che dico, più di qualcuno, vorrebbe mettere a tacere questa voce coraggiosa e libera. Che da sempre va controcorrente. Tutto questo è inaccettabile. Non lasciamo soli Sansonetti e tutti i giornalisti del Riformista. Bisogna prendere posizione e manifestare pubblicamente. Ci si veda in tanti a Roma per bloccare il progetto di tappar la bocca a Sansonetti. Per fortuna di uomini liberi e giornalisti coraggiosi l’Italia è piena. Basta saperli organizzare per promuovere la resistenza della libertà di stampa.

Ma quelli che dirigono l’Odg si vergognano almeno un po’? Fabrizio Cicchitto

Ha detto giustamente Luciano Violante che il primo sdoppiamento delle carriere dovrebbe avvenire fra quelle dei pm e quelle dei cronisti giudiziari. Nel caso del Riformista siamo di fronte a due scandali fra loro intrecciati: i pm che fanno querele in modo sistematico, seguendo il principio che da un lato cane non morde cane e anzi dall’altro lato si unisce al compagno di cordata per aggredire e stendere il disturbatore. Poi c’è lo scandalo costituito dall’ordine dei giornalisti, uno scandalo istituzionale perché la sua ispirazione originaria è quella di un corporativismo di ispirazione fascista (il direttore responsabile deve appartenere per forza all’ordine). Poi da molto tempo la gestione dell’ordine è in mano ai portavoce dei potentissimi cronisti giudiziari, a cui fanno da sponda (i cronisti giudiziari contano nell’ordine dei giornalisti come i pm nell’Anm e nel Csm). Poi esistono le colpe individuali: il Riformista ha un gravissimo difetto che si traduce in una colpa da perseguire possibilmente non con una pena transitoria ma con il recupero di una condanna che purtroppo non sta nell’ordinamento giuridico italiano: vale a dire la pena di morte da raggiungersi attraverso strangolamento finanziario. La colpa del Riformista è gravissima. Pubblica notizie che non si leggono sul Corriere della Sera, su la Repubblica, su la Stampa perché lì i cronisti giudiziari fanno buona guardia. Così l’altro ieri il Riformista ha pubblicato una assai imbarazzante numero di file in cui forse è contenuta l’intercettazione del trojan sulla cena Palamara-Pignatone. La notizia è uscita solo sul Riformista e lì è rimasta. Ma comunque è sempre fastidiosa. E il dottor Cantone deve comunque misurarsi con essa. È chiaro che una voce di questo tipo va silenziata a ogni costo anche perché essa svolge un ruolo essenziale per garantire la libertà di informazione, una missione davvero impossibile. Ma coloro che dirigono l’ordine dei giornalisti non si vergognano almeno un po’? Non a caso Vittorio Feltri si è dimesso da esso.

Solidarietà al Riformista, voce di coraggio. Federico Mollicone

Esprimiamo la nostra solidarietà alla testata il Riformista, voce di coraggio su molti temi delicati. Uno di questi è certamente la vicenda del sistema Palamara che sembra tuttora persistere all’interno della magistratura offuscando il valido e coraggioso lavoro di molti magistrati onesti ed equilibrati. A Piero Sansonetti e al giornale che dirige rivolgiamo la nostra vicinanza. Spiace invece l’atteggiamento del presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, che ha rivolto toni denigratori verso un direttore e una redazione che per istituto dovrebbe difendere da eventuali aggressioni esterne. Proprio Verna lo avevamo apprezzato nella difesa del giornalista Silvio Leoni – ingiustamente rinviato a giudizio e poi archiviato – con l’unica colpa di aver intervistato il presidente di un Tribunale: per questo Leoni subì perquisizioni e il sequestro del telefono personale e sulla vicenda abbiamo già annunciato un question time al ministro Cartabia per chiedere che invii gli ispettori alla procura di Ancona.

Giornale e direttore sotto attacco. Giù le mani dal Riformista e dalla libertà di stampa: la solidarietà di Bassolino, Nappi, d’Alessandro e Di Donato. Francesca Sabella su Il Riformista il 17 Aprile 2021. Le intimidazioni rivolte dalla magistratura al direttore Piero Sansonetti hanno compattato il fronte di chi crede che le toghe dovrebbero tutelare la libertà di stampa, pilastro della democrazia, e non lavorare per demolirla. Ne era convinto un giurista del calibro di Benedetto Conforti, ma la sua posizione è condivisa oggi da tanti intellettuali e politici napoletani che non hanno esitato a schierarsi a difesa del Riformista.

Antonio Bassolino – «Nel pieno rispetto del lavoro e del ruolo costituzionale della magistratura, non vanno dimenticati il ruolo e la libertà della stampa, anch’essi tutelati dalla Costituzione. Venti querele, quante sono quelle ricevute dal direttore Piero Sansonetti,  sono davvero tante, ma che l’Ordine dei giornalisti censuri preventivamente il lavoro di un giornalista, come avvenuto con lo stesso Sansonetti, è un atto inedito che può essere foriero di lesioni al lavoro di cronisti, opinionisti e della stampa in genere. Non esistono censura e autocensura di fronte alla ricerca della verità. La magistratura faccia il proprio lavoro e la stampa il suo, nel rispetto della legge. Conosco Sansonetti da sempre, da quando era un giovane giornalista dell’Unità e io un dirigente del Pci. Da sempre conosco il suo spirito critico e la sua autonomia. Quindi piena solidarietà a lui e un invito a una più approfondita riflessione all’Ordine dei giornalisti per la tutela di un diritto fondamentale della democrazia».

Giulio Di Donato – «Il Riformista è l’unico a trattare temi scottanti che gli altri giornali evitano completamente. Questa storia della giustizia, caratterizzata da una forte connotazione politica, viene sistematicamente esclusa dal dibattito. Se non ci fossero stati Il Riformista e il suo direttore Piero Sansonetti, capace di fare battaglie coraggiose e delicate, avremmo avuto un deficit democratico che ancora c’è. Le minacce dei magistrati che utilizzano le querele per intimidire sono inaccettabili in un Paese civile, perché il diritto di cronaca e la possibilità di fare giornalismo non devono essere inficiati da un’aggressività di carattere giudiziario. Dal canto suo, l’Ordine dei giornalisti ha dimostrato tutta la sua inutilità: avrebbe dovuto difendere con determinazione una voce così libera come quella di Sansonetti. Sono pronto ad aderire a qualsiasi iniziativa che Il Riformista vorrà lanciare a difesa di democrazia e libertà di stampa».

Severino Nappi – «Non sempre condivido le campagne lanciate dal Riformista, ma credo fermamente, per la mia cultura intrinsecamente liberale, nel principio della libertà di stampa, da difendere sempre anche quando attacca la nostra parte politica. Sul tema della giustizia, Il Riformista rappresenta con coraggio una voce fuori dal coro, tesa a ripristinare le possibili storture di un sistema giudiziario che da 30 anni necessita di un’adeguata riforma. La sensazione è che il giornale sia vittima di un cortocircuito tra magistratura, politica e mondo dell’informazione alimentato da una certa magistratura politicizzata a sinistra. Non dovrebbe esistere una caratterizzazione della magistratura, spesso invece soggetta a giochi di corrente, mentre probabilmente si gioverebbe di una separazione di carriera tra il ruolo di pm e di giudice. E le querele temerarie rappresentano soltanto una minaccia alla libera espressione».

Lucio D’Alessandro – «Sono impressionato e preoccupato. Quando è nato Il Riformista, e Il Riformista Napoli in particolare, lo abbiamo accompagnato con grande attenzione, con grande piacere e con l’idea che stesse nascendo qualcosa di nuovo, di importante e di libero. Tutti quelli che pensano alla democrazia pensano che la chiave della democrazia sia la possibilità di informare l’opinione pubblica. Jeremy Bentham diceva che il tribunale più importante di tutti è il tribunale dell’opinione pubblica e questo tribunale dev’essere informato. Non credo al complotto, non ci credo in generale e per principio, ma il ripetersi di alcune azioni può essere pericoloso. In particolare mi preoccupa il fatto in sé, che alla fine una voce libera si possa chiudere. Bisogna quindi stare vicino al Riformista e vicino ai giornalisti in generale perché la voce della stampa è una voce importante: è uno dei pilastri della democrazia».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Solidarietà al Riformista. Contro Sansonetti troppe querele di una magistratura tronfia. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Caro direttore, non conosco il merito delle querele che hai ricevuto, ma già il fatto che ammontino a tante, e che provengano perlopiù se non esclusivamente da magistrati, dice che in questione non è il tentativo di punizione di un comportamento vietato, ma la pretesa di vietare il comportamento. Non è un gioco di parole. Un giornale può sbagliare, può pubblicare cose false e offensive, e deve risponderne, ma qui la sensazione è che non si tratti di isolate lamentazioni per precise vicende diffamatorie, bensì di iniziative che magari non intenzionalmente, ma negli effetti senz’altro, vanno a fare concerto in una chiara volontà di censura. Bisogna diffidare del giornalista che fa retorica sull’attentato alla libertà d’opinione solo perché ha ingiustamente sputtanato qualcuno che giustamente gli fa causa: ma come lo strumento giudiziario diventa a volte un mezzo di competizione tra imprese che si fanno la guerra sui mercati, così la querela può smettere di funzionare come la richiesta di riparazione di un diritto leso per trasformarsi in una inibitoria indiscriminata. Non la bacchettata sulla mano di chi ha scritto qualcosa impropriamente, ma il colpo di mazza che gliela maciulla e la rende inservibile a scrivere qualsiasi cosa. Non si può pretendere che i magistrati restino inerti davanti allo scritto che racconta su di loro cose non vere e insultanti, ma l’impressione è che ciò di cui in profundo essi si lagnano sia la contestazione del ruolo che hanno usurpato, il loro presunto diritto di annunciare rivoluzioni ai margini dei rastrellamenti e di far dottrina in tv sull’appello da abolire perché è l’inaccettabile lasciapassare compilato dagli avvocati complici di corrotti e mafiosi. Il sospetto è che la querela sia il rimedio indispettito verso un atteggiamento più grave, per loro, della diffamazione, e cioè appunto l’atteggiamento dei pochi, tra cui in prima posizione questo giornale, che vorrebbero il magistrato timoroso nell’uso del proprio potere anziché tronfio nel farne sfoggio. Iuri Maria Prado

"Lunga vita al Riformista". Il Riformista non si piega ai Pm, l’attacco a Sansonetti testimonia fastidio magistratura. Biagio Marzo su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Lunga vita al Riformista. Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, altrimenti saremmo privi di un quotidiano ch’è una delle pochissime voci veramente libere dell’informazione scritta e parlata. Le battaglie che sta conducendo sono sacrosante a favore dello Stato di diritto, a difesa del detenuto che vive in penitenziari super affollati, contro le ingiustizie sociali. E, comunque, non sarà mai dalla parte della lex est araneae tela. Non sono da tutti queste battaglie, in questi anni di populismo giudiziario, in cui si è visto di tutto e di più. Da un lato, i giornalisti che stanno in ginocchio e fanno interviste, baciando la pantofola ai magistrati. Dall’altro, la corporazione togata, con un corpo malato, alle prese con nomine, spartizioni, accordi segreti fra le correnti il cui potere è tale che quelle partitiche sono quisquilie. C’è di più. Fatti e misfatti di cui solo a raccontarli si resta increduli. Il posto in cui c’è una sorta di “lavanderia”, dove tutto si lava e si asciuga, è il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura. Al riguardo, Stefano Zurlo in Il Libro Nero Della Magistratura è riuscito a mettere insieme “i peccati inconfessati” dei magistrati italiani. Sansonetti non si piega al potere come, invece, fanno tanti suoi colleghi, ragion per cui, ha accumulato un sacco e una sporta di querele da alcuni Pm, per essersi battuto contro la “macelleria giudiziaria all’ingrosso”. A questo punto, siamo noi che ci facciamo carico di esprimergli solidarietà e affetto e lo preghiamo di continuare la lotta per la libertà di cronaca e di critica. E, naturalmente, noi siamo al suo fianco per la giustizia giusta. Il caso Tortora è l’esempio lampante passato alla storia come “giustizia spettacolo” in cui operò, per la prima volta, il “Circo mediatico – giudiziario”, dal titolo del best seller di Daniel Soulez Lariviere. Il popolare presentatore di Portobello fu arrestato dai Carabinieri all’alba, mentre dormiva all’Hotel Plaza di Roma, alla presenza di cronisti, fotografi e cameramen, per l’accusa di spaccio di droga e associazione di stampo camorristico. Un innocente fu arrestato e condannato, costretto a una tragica via crucis giudiziaria che, alla fine, lo portò alla morte. La premiata ditta magistrati&giornalisti lo sottopose a un processo e a una gogna mediatica malevola, i cui benefici furono tutti a favore dei magistrati che fecero, d’allora in poi, ottima carriera, e dei pentiti, anzi dei falsi pentiti che si garantirono una comoda vecchiaia. Insomma, nessuno pagò per quel grossolano errore giudiziario. Grazie a Marco Pannella e ai suoi compagni di partito, che lo portarono come effigie della giustizia ingiusta, fu candidato nelle liste radicali ed eletto al Parlamento europeo. Per non incorrere in casi come quello di Tortora, i radicali di Pannella e i socialisti di Craxi indissero il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, l’8 novembre 1987. La vittoria referendaria radical-socialista non sortì alcun effetto, vuoi perché la Dc si mise di traverso vuoi anche per il fatto che le forze politiche non ebbero il coraggio di portare in porto una riforma che rafforzasse lo Stato di diritto ed evitasse che la giustizia fosse usata per scopi politici e per le carriere dei togati, senza che questi pagassero mai alcun pegno. Come dire, il referendum fu furia francese e ritirata spagnola. Al dunque, diciamo che tutto restò allo status quo ante. Da quella sconfitta prese l’abbrivio l’egemonia delle Procure sulla politica, con l’appoggio dei mezzi di informazione. Difatti, ai tempi del pool di Mani pulite, entrò in azione il combinato disposto del partito dei Pm e dei mezzi di informazione, con a capo la Procura di Milano e le corazzate Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, l’Unità e, in più, le reti televisive di Mediaset con le dirette di Brosio sotto il Palazzo di giustizia di Milano. La Rai, per non essere da meno, si adeguò. Si mossero in sincronia con la forza di uno schiacciasassi. La magistratura ha tutt’oggi un soverchiante potere, ha messo in crisi il sistema politico che è organizzato secondo il principio di separazione dei poteri, quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. È sopportabile una situazione del genere in cui, peraltro, la giustizia è la mano punitiva dello Stato e, per di più, vive come Sistema, ossia come potere per il potere, al servizio di qualsiasi fine? Altro che Palamara. Preoccupati per la tenuta della democrazia, per il restringimento delle libertà e per il sorgere di uno Stato etico, occorre una riforma della giustizia. Alla luce dell’esperienze passate, si andrà incontro come sempre alla tacitiana corruptissima republica plurimae leges e al passo del Digesto: error communis ius facit. Il tentativo di mettere la mordacchia a Sansonetti – e a tanti giornalisti con le sue medesime idee garantiste, per esempio, evidenziamo il caso Salvaggiulo de La Stampa – per poi far chiudere il Riformista, non è per nulla una idea campata in aria. Per questa ragione, attorno al direttore Sansonetti bisogna raccogliere le forze che si battono per lo Stato di diritto, per indire un referendum sulla giustizia. Resta la sola e unica via praticabile. Biagio Marzo

Informazione e regime. Il Riformista è voce di libertà, Sansonetti non si lasci prostrare. Eduardo Savarese su Il Riformista il  18 Aprile 2021. Ho avuto la fortuna di svolgere un dottorato di ricerca in Diritto internazionale alla Federico II di Napoli negli anni in cui il professor Benedetto Conforti era rientrato in città, avendo concluso il mandato di giudice presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, e ho avuto il privilegio di essere uno dei suoi ultimi allievi. Dopo la pensione, cominciò a dismettere la sua biblioteca giuridica, conservando soltanto i libri sui diritti dell’uomo. Poco prima che lasciasse Strasburgo, la Corte europea decise il ricorso promosso dal giornalista Giancarlo Perna per violazione dei diritti al giusto processo e alla libera espressione del pensiero, per averlo l’Italia, attraverso i suoi giudici, condannato per diffamazione del magistrato Giancarlo Caselli. La Grande Camera diede ragione all’Italia, non ravvisando le violazioni lamentate dal giornalista. Un’opinione dissidente si levò: quella di Conforti. Il professore metteva in evidenza come, nel processo per diffamazione intentato da Caselli contro Perna, il giudizio, nei tre gradi, si fosse chiuso in tempi record. Quella velocità suonava sospetta in un Paese che accumulava condanne per ritardi nelle decisioni giudiziarie. Non solo, quella velocità si era consumata attraverso una compressione frettolosa del diritto alla prova del giornalista. L’opinione afferma (traduco liberamente dal testo originale in inglese): «Nel processo a carico di un giornalista per diffamazione di un organo giudiziario inquirente, la condotta dei tribunali interni, intenzionale o meno, dà la chiara impressione di un’intimidazione che non può essere tollerata alla luce della giurisprudenza della Corte sulle restrizioni alla libertà di stampa». E ancora: «È sorprendente quante azioni siano intentate da magistrati contro giornalisti in Italia e quanto congrui siano gli importi liquidati dai tribunali italiani per danni». Infine: «Poiché la libertà di stampa è la mia sola preoccupazione, mi duole avere espresso la mia opinione in questo caso che riguarda un magistrato per il quale ogni cittadino italiano deve provare ammirazione per aver rischiato la propria vita nella lotta alla mafia». Nella sua brevità e chiarezza, Conforti dà a tutti noi, soprattutto ai giuristi e ai tantissimi magistrati che hanno studiato sul suo manuale di diritto internazionale, una lezione esemplare: un rischio effettivo e grave di compressione della libertà di stampa discende dalle azioni per diffamazione intentate da magistrati contro giornalisti. Mi si obietterà: e allora i magistrati non possono difendere più la loro immagine, se diffamati? Certamente, possono e devono. Ma è necessaria una misura rigorosissima nell’esercizio della facoltà di sporgere denunce per diffamazione, sia perché la magistratura deve sapere affrontare le domande che le si rivolgono sul proprio operato, sia perché essa – e questo è un altro insegnamento di Conforti – è, o dovrebbe essere, il vero baluardo per la difesa dei diritti dell’individuo in uno Stato di diritto. Ciò detto, qualche notazione personale. Non conosco Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, se non da quanto scrive e dice in televisione. Quello che so è che Il Riformista, e Il Riformista Napoli sul quale scrivo da gennaio 2020, è una voce di libertà. A volte reputo eccessiva – e controproducente – la sua foga contro la magistratura italiana. Mi piacerebbe che prendesse – che so – di mira anche i poteri immensi (e molto più nascosti) di tanti anfratti delle pubbliche amministrazioni e delle società collegate al settore pubblico (i cui funzionari spesso ricevono compensi assai più lauti del magistrato). Ma è una voce di libertà e sa articolarsi in una complessità di linee anche molto diverse: ho scritto un articolo sulla omogenitorialità che nessun’altra testata oggi avrebbe pubblicato. Mi sono dimesso dall’Associazione nazionale magistrati e ho potuto ricevere un’intervista seria e rigorosa, senza inutili strumentalizzazioni. E poi, quel che mi preme di più: continua a mettere il dito nella piaga. La piaga purulenta e vergognosa dello stato delle carceri italiane. La piaga – strutturale e che pesa come colpa collettiva sulla struttura giudiziaria nel suo complesso – della giustizia civile lenta, ma soprattutto della giustizia penale che arriva troppo tardi ad assolvere persone duramente colpite da indagini e misure cautelari (che in sé non possono non avere un fisiologico margine di errore, ma il punto non è questo). La piaga della crisi che il caso Palamara ha aperto nella magistratura: solo leggendo Il Riformista, e poco altro su carta stampata, da magistrato che vorrebbe capire di più, riesco ad appurare certe informazioni (spetta a me, lettore, elaborarle e criticarle) sull’uso del trojan nell’indagine a carico di Palamara. Il mio augurio è che Il Riformista abbia ancora lunga vita, che il direttore Sansonetti non si lasci prostrare e che la magistratura, tra i tanti bagni di verità che è chiamata improrogabilmente a praticare, riesca anche ad affrontare il tema querela di magistrati/libertà di stampa secondo le linee magistralmente delineate da Benedetto Conforti. Con lui ribadisco che «freedom of the press is my only concern».  Eduardo Savarese.

Si allunga l'elenco. Il Gip Sturzo ci ha fatto causa. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Si allunga l’elenco dei magistrati che hanno fatto causa al Riformista. Ci è giunta la notizia che anche il Gip Gaspare Sturzo ha avviato la richiesta di risarcimento danni nei nostri confronti perché si sente diffamato – se abbiamo capito bene – dalla pubblicazione sul Riformista di alcune intercettazioni dell’affare Palamara nelle quali lui sembrava chiedere un aiuto dell’ex capo dell’Anm per lo sviluppo della sua carriera. Gaspare Sturzo ha citato in giudizio l’editore Alfredo Romeo e il direttore Piero Sansonetti. Chi è Sturzo? È il Gip che nel 2017 ordinò l’arresto di Alfredo Romeo (poi cancellato dalla Cassazione) e successivamente, nella vicenda delle indagini su Consip, ha respinto la richiesta di archiviazione del procedimento, sempre contro Romeo (e altri), che era stata avanzata dalla Procura, e in particolare da Pignatone, Ielo e Palazzi.

Sansonetti: “Caselli mi ha querelato, i magistrati lo fanno per intimidazione”. Redazione su Il Riformista l'8 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti annuncia in un video editoriale di aver ricevuto una “Querela da parte di Giancarlo Caselli per un articolo dell’aprile scorso. Io scrissi un articolo in cui polemizzavo con Caselli. Ma purtroppo c’è questa idea che si può polemizzare sui giornali, in tv. Con chiunque. Ma non si può polemizzare con i magistrati“. Secondo Sansonetti “I magistrati sono intoccabili, al di sopra della legge, sono intoccabili. Non accettano critiche e sanno che in caso di querela vincono poiché i magistrati che giudicano li guardano di buon occhio“. Il direttore poi elenca “Ho querele solo di magistrati: di Gratteri, Di Matteo, Scarpianto, Leonforte, Esposito padre e figlio, Davigo e ora Caselli che è in pensione ma è uno dei capi del partito dei Pm. Spesso vincono ma non sempre“. Infine Sansonetti sottolinea che “Lo spirito di queste querele è l’intimidazione. Le querele creano una grande difficoltà nei giornalisti e arrivano solo nei confronti di chi critica i magistrati. In Italia siamo non più di 5 ed è facile l’attacco da parte del partito dei Pm. Non c’è alcuna difesa, il sindacato dei giornalisti e l’ordine si inchinano e non intervengono“. Sansonetti conclude: “La querela di Caselli non ci spaventa, c’è l’effetto intimidazione ma noi andiamo avanti e continueremo a criticare nella maniera più rigorosa tutti i magistrati. Tra l’altro – svela Sansonetti – con Caselli mi legava un legame di stima e amicizia. Se scrivo qualcosa di male su un politico, cose che ho fatto tante volte, non mi querelano, invece i magistrati lo fanno per tenerti per il collo, ma tranquilli andiamo avanti“.

Cantone vuole censurare il Riformista: “La libertà di stampa ha un limite”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. Foto LaPresse – Mourad Balti Touati 08/10/2018 Milano (Ita) – Corso di porta vittoria – Tribunale Cronaca Presso il Tribunale il Presidente dell’ Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone partecipa al convegno sulla responsabilità penale e contabile nelle professioni sanitarie Nella foto: Raffaele Cantone, Presidente Anac. Il Procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, ha chiesto al Csm di aprire una “pratica a tutela” dei magistrati della sua città. Perché e contro di chi? Contro il Riformista che nei giorni scorsi ha riferito, sul celebre Palamaragate, notizie che non piacciono a Cantone. E cioè ha raccontato come le chat estratte dal telefono di Luca Palamara ai primi di giugno del 2019 furono mandate al Csm con 11 mesi di ritardo. Solo dopo che il Csm, senza conoscere le chat e i nomi dei magistrati implicati, aveva deciso un bel giro di nuove nomine nelle Procure e nei tribunali. E poi il Riformista ha anche spiegato come e perché fu silenziato il trojan di Palamara in occasione della cena che lui ebbe con l’ex procuratore di Roma Pignatone e con altri alti magistrati, cena il cui piatto forte, molto probabilmente, fu la nomina del nuovo procuratore di Roma. (Il trojan è quel marchingegno che permette di trasformare un cellulare in un telefono spia che trasmette tutto ciò che avviene attorno a lui). E infine il Riformista ha chiesto conto anche degli Sms che stavano nel telefono di Palamara (e anche quelli furono estratti dal Gico della Guardia di Finanza) e che pare non siano stati inseriti nel fascicolo a carico di Palamara. Cantone sostiene invece che gli Sms furono tutti consegnati e inseriti, però non ci ha detto (ne lo ha detto a Palamara) dove siano. Siccome noi abbiamo scritto queste notizie, e siccome non risulta che su questi fatti sia stata aperta nessuna inchiesta giudiziaria, Cantone ha chiesto al Csm questa famosa pratica a tutela. Cosa sia una pratica a tutela non si sa bene. Potrebbe essere una semplice dichiarazione di “intoccabilità” che vada ad arricchire il curriculum dei magistrati ritenuti responsabili delle mancanze investigative che noi abbiamo segnalato, oppure forse di qualche iniziativa più forte che possa ottenere il risultato di silenziare i giornali indisciplinati, cioè il Riformista. Naturalmente si tratta di un attacco violento e diretto alla libertà di stampa, e dunque anche alla Costituzione, che non credo abbia molti precedenti. E io immagino che l’Ordine dei Giornalisti vorrà intervenire a difesa del principio costituzionale e a difesa del diritto ad informare nostro o di altri giornali ai quali venisse voglia di ficcare il naso sul Palamaragate (senza scottarsi). Se passasse l’idea che in Italia è persino formalmente proibito ai giornali di criticare la magistratura, e addirittura è vietato dare notizie relative al lavoro dei Pm, diventerebbe molto difficile parlare del nostro paese come di un grande paese a democrazia liberale. Capisco l’obiezione: in realtà è già così. Si contano sulla punta di una mano i giornali che si sono occupati del “palamaragate”, dal momento in cui si è capito che era uno scandalo che coinvolge centinaia, o forse anche migliaia di magistrati, e che getta un’ombra di fango molto larga sull’istituzione magistratura. Ma questa non è un’obiezione seria. Il fatto che in Italia quasi tutti i giornali abbiano accettato una sudditanza e giurato obbedienza alle Procure (non alla magistratura: alle Procure) non ci autorizza ad accettare che il divieto di critica alle Procure diventi un divieto formale sancito dalla giurisprudenza. In Italia, nell’ultimo secolo e mezzo, almeno, solo il fascismo ha imposto la censura ai giornali, cioè quella che viene chiesta oggi nei nostri confronti. Nei giorni scorsi vi ho elencato i nomi dei magistrati o ex magistrati, che mi hanno querelato, o hanno querelato il mio editore, perché innervositi dalle critiche ricevute. Tutti nomi altisonanti: l’ultimo è stato Gian Carlo Caselli (col quale, oltretutto, avevo avuto in passato un rapporto quasi di amicizia) prima di lui Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Gratteri, Davigo, Esposito (2: padre e figlio) e qualcun altro che ora non mi viene in mente (e mi scuso per l’eventuale omissione). Adesso si aggiunge Cantone. Dei nomi di grido mi mancano – a occhio – solo Ingroia, Greco, Prestipino e Melillo. Credo che l’iniziativa di Cantone vada interpretata nello stesso modo nel quale ho interpretato le querele: un sistema per intimidire il giornalista, metterlo in guardia, spingerlo a mollare la presa. Il problema per me è complicato: personalmente sono molto favorevole all’idea di lasciarmi intimidire e mollare la presa. Sempre. Io tendo a privilegiare il primum vivere a valori francamente molto vaghi ed effimeri, e inutili forse, come il coraggio. Il coraggio a me pare estetica. Il problema è che essendo il Riformista l’unico quotidiano cartaceo (radio radicale è una radio) che si occupa costantemente e criticamente delle vicende della magistratura, e che non concede mai nessuno sconto al partito dei Pm ( e alla loro rappresentanza parlamentare, che in questa fase è il dominus del governo) non possiamo permetterci il lusso di lasciarci intimidire. Se sparissimo anche noi, cosa resterebbe della libertà di stampa? Per finire vorrei fare due domande a Cantone e ai suoi colleghi. Noi abbiamo denunciato dei fatti gravi. Compreso il silenziamento intenzionale del trojan di Luca Palamara (un atto evidente di intralcio alle indagini). Quantomeno su questo fatto e sul ritardo nella consegna degli whatsapp di Palamara non abbiamo ricevuto nessuna smentita. Qualcuno, nelle Procure, ha aperto un’inchiesta, magari piccola piccola, magari ben strutturata allo scopo di farsi archiviare al più presto, ma almeno una inchiestuccia? A me non risulta. E invece risulta che nel corpo della magistratura ci sono molti malumori. Migliaia di magistrati, che lavorano sodo e correttamente, sono un po’ indignati per il modo nel quale il Palamaragate viene messo sotto il tappeto. Qualche giorno fa una cinquantina di magistrati hanno scritto a Palamara per chiedergli di renderli noti lui gli Sms, visto che la magistratura non li rende noti. E’ abbastanza grave, no? Gli stessi magistrati non si fidano più della magistratura e cercano le verità per vie private. Gli piace questa cosa a Raffaele Cantone? Seconda domanda, questa rivolta alla procura di Firenze, che è quella designata a indagare sulla procura di Perugia. Capisco che il vostro organico, al momento, è impegnato nella caccia a Renzi e che è una caccia difficilissima perché non si trova uno straccio di indizio per nessun reato. E oltretutto Renzi rema contro. Però almeno un sostituto – magari il più giovane – non potrebbe essere distaccato, anche solo per una settimana, per cercare di capire che è successo a Perugia nell’estate del 2019?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Alessandro Sallusti, il giudice Esposito e il rinvio a giudizio "a tempo di record" per Feltri e Porro: "Ho una risposta, brutta aria". Libero Quotidiano il 26 marzo 2021. La giustizia è mal ridotta, secondo Alessandro Sallusti e per capirlo basta vedere "tre recenti casi di cronaca che coinvolgono alcune delle star della magistratura. Il primo riguarda Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, già ministro della Giustizia in pectore del governo Renzi, famoso per le sue retate antimafia dagli incerti esiti processuali, che ha scritto la prefazione a un libro sul Covid di Pasquale Bacco e Angelo Giorgianni", scrive nel suo editoriale su Il Giornale. "I due autori il primo medico (?), il secondo magistrato presidente di commissione tributaria sostengono apertamente tesi complottiste e negazioniste". Insomma, per loro i vaccini sono "acqua di fogna e trasformeranno gli uomini in Ogm". Il secondo magistrato vip, continua Sallusti, "è Raffaele Cantone, procuratore di Perugia con giurisdizione sui reati commessi dai colleghi romani. Interrogato dal Csm sul caso Palamara, Cantone ha sostenuto che la famigerata microspia inserita nel telefonino di Palamara non era stata attivata negli incontri con il potente e intoccabile allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone perché «essendo presenti le mogli, era da escludere che i due parlassero di cose d'ufficio»". Una tesi quantomento "strampalata". Infine c'è il caso di "Antonio Esposito, il giudice della discussa sentenza che nel 2013 ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi per evasione fiscale. Sentenza «discussa» anche da Amedeo Franco, uno dei giudici che parteciparono alla camera di consiglio, che in un audio reso noto nel giugno 2020 ha parlato di «forti pressioni per condannare Berlusconi» e della corte come di «un plotone di esecuzione»". Bene, conclude Sallusti, "l'attuale procuratore di Roma, Michele Prestipino (di cui racconta Palamara nel libro Il Sistema e la cui nomina è ancora oggi contestata dal Tar), si è mosso in prima persona, cosa assai rara, e a tempo record (soli sei mesi, funzionasse sempre così la giustizia) ha chiesto il rinvio a giudizio per quindici tra giornalisti (me compreso, e poi Feltri e Porro), deputati e senatori (tra cui la capogruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini e il sottosegretario Giorgio Mulè) che hanno osato commentare le inquietanti rivelazioni di Franco sulla trasparenza di quella sentenza". Insomma c'è un filo che lega Gratteri, Cantone e Prestipino. "Il senso di giustizia? Io una risposta l'avrei, ma con l'aria che tira la tengo per me. Meglio Pasqua a piede libero", chiosa lapidario Sallusti.

La giustizia mette il turbo solo con i nemici. Indagini sul caso Esposito chiuse in meno di 8 mesi. La media è 404 giorni. Massimo Malpica - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale. La lentezza della giustizia è questione di punti di vista. Chiedere al pm romano Roberto Felici, che dopo aver ricevuto l'esposto del giudice Antonio Esposito quello della condanna al Cav del 2013 a proposito di una presunta campagna denigratoria ai suoi danni, ordina da giornali, politici e talk show, si è messo a indagare e non ha perso tempo. Il 7 marzo scorso, ecco arrivare i primi avvisi di conclusione delle indagini. E considerando che tutta la «campagna» sarebbe nata intorno alla registrazione audio di Amedeo Franco, giudice a latere nel processo che vide la condanna di Berlusconi, e che quell'audio è stato mandato in onda per la prima volta da Nicola Porro su Quarta Repubblica la sera del 29 giugno 2020, si capisce quanto veloci possono essere le indagini. Da quel giorno di fine giugno quelle parole in cui Franco si dissociava dalla sentenza definendola «guidata dall'alto» e «una grave ingiustizia», sono finite al centro di una serie di articoli su diversi giornali, dal Riformista al Giornale, fino a Libero, come d'altra parte accade di norma per le notizie. Esposito denuncia la «campagna diffamatoria». E otto mesi dopo, ecco l'avviso di conclusione indagini. Un caso di giustizia lampo. Soprattutto se confrontato con la durata media delle indagini preliminari, che per i dati del 2017 parlano di 404 giorni in media, 13 mesi e mezzo, contro i 240 giorni della denuncia del giudice Esposito. Inoltre, spesso il tempo necessario all'atto di conclusione delle indagini è ben più lungo: a Brescia, nel 2017, la durata media delle indagini era pari a 829 giorni, e a livello nazionale il 20 per cento dei fascicoli erano ancora nella fase delle indagini dopo due anni. Che non sempre le cose procedano spedite come per il «complotto» denunciato dal giudice Esposito lo dimostra la recente condanna dell'Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell'uomo: esaminando proprio la durata delle indagini preliminari per una denuncia per diffamazione (non di un giudice, ma dell'ex patron della Casertana, Vincenzo Petrella), la Corte ha condannato il nostro Paese per aver fatto prescrivere il reato nel corso di indagini andate avanti per cinque anni e due mesi. Violando così non solo la ragionevole durata, ma anche il diritto di accesso a un tribunale e il diritto a un ricorso effettivo.

Da ilfattoquotidiano.it l'11 marzo 2021. “Penso che sia uno scandalo non riuscire a varare una norma che contrasti le querele temerarie: noi abbiamo fortemente appoggiato la proposta Di Nicola“. Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, commenta così l’assenza nell’ordinamento italiano di una legge che contrasti l’abuso delle querele per diffamazione ai giornalisti. Un tema tornato di attualità dopo che Matteo Renzi ha annunciato proprio nuove querele nei confronti delle testate, La Stampa e The Post Internazionale, che hanno riportato la notizia della sua visita a Dubai. “Non conosco la vicenda specifica”, ha detto Verna, sottolineando però che “quando qualcuno contesta in una sede giudiziale quella che un giornalista ritiene sia una verità, se poi la notizia si rivela fondata non può finire con la semplice condanna alle spese, occorre un risarcimento per chi temerariamente è stato tratto in giudizio”. Una legge per il contrasto alle querele temerarie era già pronta a maggio 2019 e porta la firma del senatore Primo Di Nicola. Un solo articolo: è previsto che in caso di temerarietà della lite, riconosciuta dal giudice, questi può condannare il querelante a pagare una cifra pari ad almeno il 50% della pretesa. La norma però è rimasta in un cassetto, come ricorda il deputato M5s Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera: “Credo che abbia pienamente ragione il presidente dell’OdG Carlo Verna: il ritardo sul contrasto alle querele temerarie è inaccettabile. Il senatore Primo Di Nicola ha indicato una strada condivisibile con la sua proposta di legge ma ciò non ha avuto seguito, purtroppo. Intanto, questa prassi velatamente antidemocratica prosegue. Spero quindi che l’iter del provvedimento si sblocchi quanto prima”.

I magistrati sono al di sopra della legge. Sansonetti: “Caselli mi ha querelato, i magistrati lo fanno per intimidazione”. Redazione su Il Riformista l'8 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti annuncia in un video editoriale di aver ricevuto una “Querela da parte di Giancarlo Caselli per un articolo dell’aprile scorso. Io scrissi un articolo in cui polemizzavo con Caselli. Ma purtroppo c’è questa idea che si può polemizzare sui giornali, in tv. Con chiunque. Ma non si può polemizzare con i magistrati“. Secondo Sansonetti “I magistrati sono intoccabili, al di sopra della legge, sono intoccabili. Non accettano critiche e sanno che in caso di querela vincono poiché i magistrati che giudicano li guardano di buon occhio“. Il direttore poi elenca “Ho querele solo di magistrati: di Gratteri, Di Matteo, Scarpianto, Leonforte, Esposito padre e figlio, Davigo e ora Caselli che è in pensione ma è uno dei capi del partito dei Pm. Spesso vincono ma non sempre“. Infine Sansonetti sottolinea che “Lo spirito di queste querele è l’intimidazione. Le querele creano una grande difficoltà nei giornalisti e arrivano solo nei confronti di chi critica i magistrati. In Italia siamo non più di 5 ed è facile l’attacco da parte del partito dei Pm. Non c’è alcuna difesa, il sindacato dei giornalisti e l’ordine si inchinano e non intervengono“. Sansonetti conclude: “La querela di Caselli non ci spaventa, c’è l’effetto intimidazione ma noi andiamo avanti e continueremo a criticare nella maniera più rigorosa tutti i magistrati. Tra l’altro – svela Sansonetti – con Caselli mi legava un legame di stima e amicizia. Se scrivo qualcosa di male su un politico, cose che ho fatto tante volte, non mi querelano, invece i magistrati lo fanno per tenerti per il collo, ma tranquilli andiamo avanti“.

La vicenda. Cantone vuole il bavaglio per il Riformista: “La magistratura è intoccabile”. Redazione su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti ha pubblicato un video editoriale in cui racconta che “Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela dei magistrati della sua città. Questo si fa quando un magistrato è sotto tiro da parte di qualcuno e bisogna proteggerlo. In genere è una procedura di vantaggio per la carriera del magistrato poiché va a fare curriculum. Cantone l’ha aperta contro il Riformista, perché con gli articoli di Paolo Comi abbiamo riferito di alcune cose che non funzionano nel Palamaragate“. Secondo Sansonetti i motivi sono tre: “Primo: tutti i Whatsapp sono arrivato al Csm con un anno di ritardo, e nel frattempo erano state fatte molte nomine e questi nomi non sono arrivati al Csm. Secondo: a noi risulta che nel fascicolo a carico di Palamara non ci siano gli sms. Cantone contesta questo. Noi sappiamo che gli sms non sono stati scaricati nel fascicolo, e anche Palamara non ha notizia in merito a questo aspetto. Cantone ci dovrà dire dove li hanno messi visto che nel fascicolo non ci sono. Terzo: abbiamo scoperto che il trojan nel cellulare di Palamara che funzionava tutte le sere dalle 19 in poi, una sola sera non ha funzionato quando Palamara è stato a cena con Pignatone e altri magistrati importanti per discutere della nomina a nuovo procuratore di Roma. Da chi fu spento e come? Noi abbiamo detto da chi fu spento e come fu spento e provato che fu spento intenzionalmente intralciando le indagini“. “Invece di aprire una inchiesta sulla nostra denuncia – sottolinea Sansonetti – Cantone ha chiesto che intervenga il Csm per censurare il Riformista. Sono ormai gli stessi magistrati a ribellarsi. Recentemente oltre 50 magistrati hanno chiesto a Palamara di rendere noti i messaggi visto che la procura non lo fa. C’è una sfiducia addirittura degli stessi magistrati, figuriamoci dei cittadini nei confronti della magistratura che viene ritenuta non credibile, non attendibile“. “Cantone ha preso questa iniziativa di chiedere che si attacchi il Riformista, cioè che si affermi il principio che la libertà di stampa deve avere un limite: si possono criticare tutti ma non i magistrati. Si possono dare notizie di ogni genere ma non sulla magistratura. Questo è il principio che vorrebbe affermare Cantone, probabilmente anche con una riforma costituzionale. Mi aspetto che l’Ordine dei Giornalisti – conclude Sansonetti – intervenga visto questo attacco violentissimo alla libertà di stampa, credo con pochissimi precedenti forse negli anni ’80. Quale è lo scopo di questa iniziativa? L’unico mi sembra quello di intimidirci, così come viene fatto attraverso le querele. Voglio dire a Cantone che io per carattere tenderei a farmi intimidiere, non ho mai pensato che la grande dote sia il coraggio, non tendo più a don Abbondio. Ma in Italia c’è un solo quotidiano che critica la magistratura quindi non posso permettermi il lusso di farmi intimidire se no si crea una situazione di regime, una cosa simile a quanto successo durante il fascismo“.

La critica al Procuratore. Gratteri mi ha minacciato di querela, non è la prima volta che un Pm mi intimidisce. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Aprile 2020. Gratteri (Procuratore di Catanzaro) , mi pare, conferma tutto. I commissari prefettizi hanno ceduto a lui (al canone di 8 euro e mezzo al mese per dieci anni) un terreno di quattromila metri quadrati (però nella delibera c’è scritto ottomila: qualcuno non dice la verità) che appartiene a un ospedale costruito e mai inaugurato, e sul quale si era pensato un tempo di realizzare ricoveri per anziani, e che poi era stato richiesto dal Comune di Gerace. Del resto ci aveva confermato tutto già per telefono il giorno prima. Nel corso di un paio di chiamate un po’ burrascose: poi ne parliamo meglio. Solo qualche piccola differenza. Ieri ci aveva detto che lui non aveva firmato niente. Sembrava di capire che la richiesta di assegnargli il terreno non fosse venuta da lui ma da prefetto, questore e altri. Ora corregge, e spiega che prefetto, questore e altri lo hanno indotto a chiedere quel terreno. Quindi la richiesta l’ha fatta lui. Va bene, piccole imprecisioni. Un po’ di imbarazzo, si capisce. La ragione della richiesta? Difendersi da possibili attentati. Questo lo abbiamo già scritto. Anche perché noi siamo abituati, quando riceviamo una notizia che non fa fare un gran figura a una persona, ad ascoltare la persona (pratica abbastanza inusuale nel giornalismo che piace a Gratteri…). In quel terreno – dice Gratteri- poteva introdursi qualche mafioso e spararmi, perché da quel terreno si vedono le finestre di casa mia.  E quindi, se capisco bene, si è pensato che la cosa migliore per evitare che questo accada, non è mettere delle guardie, ma concedere il terreno a Gratteri in modo da rendere illegale, per eventuali attentatori, l’accesso. Un’idea – diciamo la verità – un po’ stile pantera rosa: ma comunque un’idea. Benissimo. Sicuramente tutto vero. Del resto già ieri abbiamo scritto che nella decisione della commissione prefettizia di sottrarre una proprietà a un ospedale, di non concederla al Comune o a un ente pubblico, ma di assegnarla un privato cittadino, non c’era niente di illegale. Citando Travaglio potrei dire: questione, magari, di opportunità…. I problemi sono tre. Primo: possiamo credere che lo Stato, di fronte a un pericolo per la vita di un magistrato, gli dice: difenditi da solo, noi ti diamo un terreno e poi pensaci tu? Speriamo che non sia vero. Anche perché francamente Gratteri che può fare con quel terreno per difendersi? Proprio niente. Se qualcuno ha pensato a una soluzione così scombiccherata c’è da preoccuparsi molto. E anche se un Procuratore l’ha ritenuta adeguata. Secondo problema. Cosa sarebbe successo se un terreno di un ospedale fosse stato assegnato a Oliverio, per esempio, l’ex presidente della Regione? Ditemi, sinceramente, cosa pensate che sarebbe successo ad Oliverio. Nessuno avrebbe immaginato che Oliverio aveva ottenuto quel terreno grazie al suo potere? Gratteri avrebbe lasciato correre o avrebbe indagato? Vabbé. Terza questione. L’altro giorno Gratteri ci ha minacciato di querelarci in due distinte telefonate, pur sapendo che stavamo scrivendo il vero e senza, peraltro, aver letto cosa avremmo scritto. Se un politico si fosse comportato così, cosa si sarebbe detto? Intimidazione. Giusto? Se lo fa un magistrato invece? A me non è la prima volta che capita di essere intimidito da un magistrato. Anche perché i magistrati – lo sapete tutti – sono abituati a non essere mai infastiditi dalla stampa. E quando succede a loro pare un sacrilegio. Pensano che se critichi un magistrato antimafia, o sei pazzo o sei mafioso. Bisogna dire che Gratteri, fin qui, è stato l’unico magistrato (tra quelli celebri) che non mi ha mai querelato e non ha mai querelato nessuno. Stavolta ha minacciato di abbandonare il suo stile e di procedere. Vedremo. Tanto, statene sicuri, del grandioso potere che hanno i magistrati sui giornalisti importa niente a nessuno.

"Diffamò l'ex pm Nino Di Matteo". Sansonetti condannato a risarcirlo. Il pm Nino Di Matteo, con i colleghi Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia, al processo Trattativa. La sentenza emessa dal tribunale civile di Caltanissetta: "Ha utilizzato espressioni immotivatamente denigratorie". La Repubblica il 21 ottobre 2020. Il giudice civile del Tribunale di Caltanissetta, Alex Costanza, ha condannato il giornalista Piero Sansonetti a risarcire con 50.000 euro il magistrato Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm, che aveva presentato denuncia per diffamazione per un articolo pubblicato il 28 settembre 2014 dal quotidiano "Cronache del garantista". L'ex pm del processo trattativa Stato-mafia aveva presentato querela per l'articolo dal titolo "La rozza aggressione del Pm contro De Mita" in cui si raccontava l'interrogatorio del 25 settembre 2014 dell'onorevole Ciriaco De Mita nel corso del processo "Stato-mafia". Sansonetti scriveva tra le altre cose: "Il procuratore Di Matteo a un certo momento ha iniziato a rimproverarlo, in modo minaccioso e intimidatorio"; e ancora: "Gridava come uno sbirro asburgico". Nell'articolo il giornalista definitiva Di Matteo "il giovanotto al quale è stata assegnata la procura di Palermo", e accusava il magistrato di  avere "una così grande rozzezza" e "strabordante arroganza". Concludeva: "Ma cosa ha insegnato al piccolo Di Matteo la sua mamma?" Nella sentenza il giudice afferma che "sia dalla trascrizione di udienza, che in misura maggiore e dirimente, dall'ascolto dell'audio dell'esame del teste, ci si avvede invece che i toni utilizzati dal procuratore Di Matteo rimangono pacati e non trascendono per tutto l'espletamento della prova". "Alcune espressioni adoperate dal giornalista - scrive ancora il giudice nella sentenza emessa nei giorni scorsi - sono immotivatamente denigratorie, sia se isolatamente considerate che in rapporto all'intero contesto argomentativo". In particolare, il riferimento e l'accostamento dei comportamenti del pm a quelli di "uno sbirro asburgico e di un questurino ai tempi del fascismo...sono del tutto esorbitanti dalla forma civile della critica" e l'allusione sulle capacità educative della madre di Di Matteo "è diretta a mettere in dubbio non solo le qualità personali del pm ma anche di uno dei suoi affetti più cari".

I giornalisti Sansonetti e Aliprandi a processo ad Avezzano per diffamazione, denunciati dal procuratore generale Scarpinato.  Articoli su inchiesta “Mafia e appalti”, indagine di cui fu titolare Borsellino. Redazione su abruzzolive.it l'8 Luglio, 2019. Avezzano. Piero Sansonetti che ha diretto il quotidiano il Dubbio fino a inizio aprile, e Damiano Aliprandi, che continua a esserne una colonna, sono sotto procedimento penale  davanti al tribunale di Avezzano per una querela presentata dal procuratore generale Roberto Scarpinato e dall’ex aggiunto della procura di Palermo Guido Lo Forte. I due magistrati ritengono diffamatori alcuni articoli sull’inchiesta “Mafia e appalti”, firmati appunto da Sansonetti e Alipandi sul giornale “il Dubbio”. Di quell’indagine, Paolo Borsellino non fu titolare fino alla fine dei suoi giorni. Sarà un gup di Avezzano a dover decidere, nell’udienza di martedì prossimo, se per quegli scritti i due giornalisti dovranno essere processati per diffamazione. Un procedimento difficile, per i nostri colleghi ma anche per la magistratura dell’ufficio abruzzese, competente perché è in un comune di quel circondario, Carsoli, che fino a pochi mesi fa veniva stampato il Dubbio (ora le tipografie si trovano in provincia di Roma e a Milano). Le difficoltà, secondo quanto riportato dallo stesso quotidiano il Dubbio, sono legate anche all’astensione a cui, a inizio marzo, si è vista costretta Maria Proia, gup inizialmente titolare del fascicolo. La magistrata ha rinunciato per le sue precedenti funzioni presso la Procura di Palermo nella sezione coordinata a suo tempo proprio da Lo Forte. Nell’atto con cui ha comunicato di doversi astenere, la giudice Proia ha voluto ricordare di aver «sempre intrattenuto ottimi rapporti» con il collega, del quale, ha aggiunto, «conserva profonda stima». Altro passaggio che ha finora segnato l’iter è l’istanza con cui il difensore di Scarpinato ha chiesto e ottenuto di anticipare la data dell’udienza preliminare, inizialmente fissata a settembre. Il legale ha sostenuto che le «medesime tesi» da cui i querelanti si ritengono diffamati «sono state ribadite sulla stampa nazionale», e che «la delicatezza dell’incarico ricoperto dal dottor Scarpinato, procuratore generale a Palermo, rende opportuno un pronto accertamento dei fatti». Il professionista cita anche un altro articolo del Dubbio, sempre «a firma di Sansonetti» successivo a quello oggetto di querela. Certo non capita tutti i giorni che un Tribunale efficiente ma dal piccolo circondario come quello abruzzese si trovi a giudicare una causa relativa a dirigenti di uffici giudiziario di tale peso. Ma al di là dei corollari, adesso si entrerà nel vivo delle questioni contestate, le sole che contino davvero.

Lucio Musolino (19 ottobre 2010).  Cara MicroMega - Lettere alla redazione. Io, giornalista anti'ndrangheta, licenziato da Sansonetti. Dal 2006 sono redattore di “Calabria Ora” e, dallo scorso gennaio, collaboro con il “Fatto quotidiano”. Da anni ormai mi occupo di nera e giudiziaria e ho scritto di inchieste delicate sulla ‘ndrangheta e, soprattutto sui rapporti tra le cosche e la politica. Per anni, con i miei colleghi, abbiamo sempre riportato i fatti. E sono quelli a fare paura in questa città e in questa regione dove non tutto è nero o bianco. Dove abbiamo una folta zona grigia che è oggetto di delicatissime inchieste delle Direzioni distrettuali antimafia di Reggio e di Milano. Negli ultimi mesi, non ho fatto altro che pubblicare gli atti contenuti nei fascicoli delle inchieste “Meta”, “Crimine” ed “Epilogo”.

L’intimidazione. La notte del primo agosto, rientro a casa alle 4 e, sul tavolo della veranda, trovo una bottiglia di benzina con un biglietto di minacce con cui qualcuno mi invita a “smetterla con la ‘ndrangheta” e a seguire il mio ex direttore Paolo Pollichieni che si era dimesso assieme ad altri 8 colleghi. La benzina sarebbe stata per me e non per la mia auto. Sono entrati, quindi, nel mio cortile di notte, mentre la mia famiglia era in casa, e hanno lanciato un messaggio mafioso a una settimana da una precedente lettera anonima recapitata in redazione con cui si invitava “chi ha tenuto la mano a Pollichieni in questi anni” ad andarsene. Io non so chi, materialmente, è responsabile dell’intimidazione. So invece cosa ho scritto nelle settimane precedenti al gesto. Ho pubblicato il contenuto di un’informativa del Ros dalla quale è emerso che Scopelliti, con la scorta pagata dai contribuenti, ha partecipato assieme a molti consiglieri comunali a una pranzo invitato dall’imprenditore arrestato Domenico Barbieri. Lo stesso pranzo a cui ha partecipato il boss Cosimo Alvaro, oggi latitante. Incontro al quale lo stesso Scopelliti ha confermato di aver preso parte ai microfoni del “Fatto Quotidiano”. Proprio con Alvaro aveva rapporti un consigliere comunale del Pdl, Michele Marcianò, I due sono stati intercettati mentre discutevano di tessere di Forza Italia e di posti di lavoro. E sempre di posti lavoro discutevano il consigliere comunale del Pdl Manlio Flesca con l’imprenditore Barbieri. Al centro dell’intercettazione un pacchetto di 200 voti in cambio di un dell’assunzione in una società mista della moglie dell’indagato per associazione mafiosa. Cosa che è realmente avvenuta stando a quanto accertato dal Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. Ho scritto anche dell’ex consigliere regionale Alberto Sarra che aveva rapporti con la famiglia Lampada (imprenditori legati ai Condello) a Milano, come è emerso da un’inchiesta della Procura lombarda dove è finita anche un’informativa in cui si descrivono incontri tra il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti e Paolo Martino, condannato per mafia e ritenuto il punto di riferimento della cosca De Stefano nel nord Italia. Proprio in questi giorni, infine, dall’inchiesta “Epilogo”, coordinata dal sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, è emerso che il consigliere comunale di maggioranza Tonino Serranò è stato filmato da una telecamera dei carabinieri mentre maneggia una pistola con un indagato ritenuto vicino alla cosca Serraino. La stessa cosca sospettata di aver organizzato l’attentato del 3 gennaio alla Procura generale. Un attacco allo Stato senza precedenti che ha dato il via a una strategia della tensioni in cui la ‘ndrangheta è solo uno degli attori della “tragedia”. Non è solo ‘ndrangheta. L’ex sostituto della Dna Enzo Macrì parla di “poteri occulti”. Io dico che la Procura di Reggio Calabria, guidata da Pignatone, sta andando in quella direzione e presto mi auguro che farà luce sulla “zona grigia” di questa città e di questa Regione. Questi sono i fatti. Non si tratta di attacchi politici ma di documenti, di stralci di informative scritte dagli inquirenti. Non spetta a noi stabilire se il comportamento di alcuni politici e del governatore della Calabria Scopelliti sia condannabile dal punto di vista penale. Lo stabilirà l’autorità giudiziaria. È sicuramente censurabile dal punto di vista morale e politico.

Il cambio di direttore. Dopo le dimissioni di Pollichieni, io sono rimasto a lavorare a “Calabria Ora”. Ho continuato a scrivere allo stesso modo. Ma il giornale è cambiato radicalmente da subito nonostante le garanzie degli editori i quali mi avevano garantito che la linea editoriale non sarebbe mutata con l’arrivo del nuovo direttore Piero Sansonetti. Non è stato così. Dopo l’intimidazione sono andato in ferie. Al mio rientro ho ripreso a scrivere riprendendo gli stessi argomenti di cui mi sono sempre occupato: la ‘ndrangheta e i rapporti tra quest’ultima e la politica. Sono iniziate le censure di pezzi in cui compariva il nome del governatore della Calabria. Pezzi che la redazione centrale mi aveva chiesto e che non ha pubblicato senza motivazione. E quando la giustificazione c’era era sempre la stessa: “E’ un attacco violento a Scopelliti. Il direttore mi ha detto che il pezzo non passa. Lo stabilisce lui quando attaccare il governatore” mi veniva risposto dai colleghi. A volte, inoltre, i pezzi venivano modificati senza preavviso e, soprattutto, senza che nessuno abbia avuto l’accortezza di ritirare la mia firma. Le richieste di spiegazioni formulate al direttore sono rimaste inevase. Solo al primo incontro con lui sono riuscito a chiedere il motivo delle censure che Sansonetti ha giustificato in nome di un garantismo più simile al “bavaglio” che a un modo di pensare. A fine agosto, gli editori e il direttore avevano contattato più di un collega di un altro quotidiano confessando espressamente a quest’ultimo l’intenzione di sostituirmi perché “legato al vecchio direttore”. Il tentativo fallì per il rifiuto del collega, così come fallì il tentativo mio di essere sentito dal Comitato di redazione. Dall’8 settembre ancora aspetto che il Cdr mi convochi. Nel frattempo sono stato licenziato.

Il trasferimento e il licenziamento. Ma andiamo con ordine: gli editori e Sansonetti non abbandonarono l’obiettivo di allontanarmi da Reggio. Sempre a settembre ricevetti una telefonata dal direttore che mi ha comunicato la sua proposta di andare a lavorare a Lamezia Terme. Una proposta che puntava “anche” a rafforzare la redazione di “Reggio” dove non ci sarebbe stato più nessuno che avrebbe ficcato il naso nei fascicoli delle inchieste della Dda. Naturalmente rifiutai sostenendo “che era la stessa proposta della ‘ndrangheta”. La risposta provocò la reazione di Sansonetti che mi chiuse il telefono in faccia senza darmi la possibilità di spiegare il motivo. Nessun contatto per una settimana a parte un’ammonizione formale in cui il direttore mi ha accusato di non essermi recato a lavoro un “famoso” martedì pomeriggio, poche ore dopo una retata dei carabinieri che avevano arrestato un imprenditore, accusato del rinvenimento di armi avvenuto il giorno della visita del presidente Napolitano. Dopo aver chiesto l’autorizzazione a uno dei coordinatori della redazione centrale, ero rimasto a casa per studiarmi l’ordinanza di custodia cautelare e scrivere una pagina e mezzo sull’inchiesta. Risposi, a tono, alla contestazione e dopo mezz’ora, Sansonetti replicò con la comunicazione che da lì a qualche giorno avrebbe disposto il mio trasferimento nonostante il parere negativo (e vincolante) mio e del Cdr. Pochi giorni ancora e sono riuscito a incontrare Sansonetti a Reggio. Un incontro breve durante il quale ho avuto modo di spiegare il mio rifiuto al trasferimento che consideravo punitivo e che, dopo il colloquio, ritornava ad essere solo un’ipotesi che, se si fosse concretizzata, avrei ostacolato con il sindacato e con gli avvocati impugnando il trasferimento davanti ai giudici del lavoro. Dopo qualche giorno, ho pubblicato lo scoop di un nuovo pentito nella ‘ndrangheta reggina. La notizia, in esclusiva, ha spinto uno degli editori a telefonarmi per i complimenti e a farmi capire che sarei rimasto a lavorare a Reggio. Lo stesso, tramite un collega, mi è stato riferito da Sansonetti e dalla “squadra centrale”. Ma quando non si è parlato più di trasferimento, dalle colonne di Calabria Ora il governatore Scopelliti mi ha tacciato come “giustizialista” sostenendo «ci sono molte persone che conoscono mafiosi e non per questo sono mafiosi». Secondo lui «anche qualche giornalista di Calabria Ora…». Effettivamente, molti mafiosi li conosco. Perché scrivo di loro e perché vengono fuori casa a minacciarmi. Non perché sono alla ricerca di voti o per fare affari. Lo stesso giorno della pubblicazione di quell’intervista sono stato invitato ad “Anno zero”, nel corso di un collegamento in diretta da Reggio. Ho parlato del mio lavoro, delle inchieste che ho seguito e dei rapporti tra la ‘ndrangheta e la politica. Tutti argomenti già trattati, assieme a pochi altri colleghi, in articoli vecchi di mesi scorsi. Questa volta, però, il presidente della Regione ed ex sindaco di Reggio Scopelliti reagisce comunicando all’Ansa di aver dato mandato ai suoi avvocati di querelarmi. Nel frattempo, all’indomani dall’annuncio maldestro del governatore di adire alle vie legali, un editoriale del mio nuovo direttore Piero Sansonetti mi ha affibbiato l’appellativo di “forcaiolo”. Una campagna “pro-garantismo” con cui il mio giornale si è schierato dalla parte di Scopelliti isolando me senza, naturalmente, alcuna telefonata. A ventiquatt’ore dalla puntata di “Anno zero” viene diffusa la nuova piattaforma della redazione con cui Sansonetti è ritornato ha disposto il mio trasferimento. Questa volta, però, alla redazione di Catanzaro. La notizia trapela a causa della solidarietà del segretario cittadino del Pdci Ivan Tripodi. Io la confermo all’Ansa e Sansonetti mi querela. Decido di andare in ferie e arriva il licenziamento immediato. Non prima che qualcuno, senza alcuna autorizzazione, dal server centrale di “Calabria Ora”, si introducesse ,sabato mattina, nella mia casella e-mail personale, cambiando la password ed impedendomi tutt’ora l’accesso. Il tecnico responsabile del sito mi ha candidamente riferito che l’editore avrebbe disposto di cancellare il contenuto della mia posta e di impedirmene l’accesso. Inutile sottolineare che si tratta di un fatto gravissimo e penalmente rilevante ed è per questo che su tale ultimo episodio indagano i carabinieri di Reggio ai quali, ancor prima di apprendere del mio maldestro “licenziamento” (via fax), ho presentato regolare querela e dai quali sono stato già lungamente sentito come parte offesa". Lucio Musolino (19 ottobre 2010)

·        Stampa Criminale.

(ANSA l'1 dicembre 2021) Il Tribunale di Verona ha condannato Franco Di Mare per aver diffamato il comandante della Polizia locale di Verona, Luigi Altamura. Il fatto risale ad aprile 2016, quando Di Mare (in seguito nominato direttore di Rai 3) era conduttore di "Uno Mattina", sulla rete ammiraglia della Rai. All'interno della rubrica "Sarò Franco", Di Mare commentò una serie di procedimenti disciplinari tra i quali uno aperto nei confronti di un agente di origini napoletane per presunto "uso dell'accento campano". Altamura si sentì diffamato e dileggiato e presentò querela per diffamazione aggravata a mezzo stampa. Oggi il giudice Enrico Zuccon ha riconosciuto colpevole Francesco Di Mare (che da giornalista si firma Franco), condannandolo a 15mila euro di multa e al pagamento delle spese processuali, concedendo all'imputato il beneficio della sospensione della pena, subordinandolo all'adempimento dell'obbligo del risarcimento del danno entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza. Il giudice ha infatti condannato Di Mare e la Rai in solido al risarcimento del danno nei confronti di Luigi Altamura quale parte civile per 30mila euro, oltre alle spese di difesa, ed al risarcimento del danno nei confronti del Comune di Verona per 7.500 euro. 

Anarchici: articoli e scritte possono sovvertire l’ordinamento democratico? La procura di Perugia ha arrestato Michele Fabiani per le pubblicazioni sulla rivista "Vetriolo" per istigazione al terrorismo. L'accusato aveva già subito un processo nel quale era caduto l'impianto accusatorio. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 13 novembre 2021. Il corpo del reato è un giornale anarchico dal nome “Vetriolo”, considerato “clandestino” dagli inquirenti, anche se era reperibile su internet e quindi acquistabile da tutti al costo di due euro. Una rivista che conterrebbe, secondo l’inchiesta coordinata dalla procura di Milano e di Perugia, scritti considerati di grave istigazione al terrorismo e all’eversione dell’ordine democratico.

Michele Fabiani avrebbe istigato al terrorismo i suoi articoli sulla rivista “Vetriolo” e le scritte apparse sui muri di Spoleto

Capi d’accusa gravi che hanno riguardato anche il 34enne spoletino Michele Fabiani. È stato tratto in arresto e sono stati disposti i domiciliari. Sì, perché è finito sotto la lente di ingrandimento dei carabinieri dei Ros il “Circolaccio Anarchico”. Parliamo di un piccolo locale dove si riuniscono i ragazzi anarchici, tra i quali appunto Fabiani. Una sede non “clandestina”, perché fortunatamente siamo in democrazia ed essere anarchici non è, o non dovrebbe, essere reato. Michele Fabiani avrebbe, quindi, istigato al terrorismo all’eversione dell’ordine democratico. Come? Per i suoi articoli sulla rivista “Vetriolo” e le scritte apparse sui muri di Spoleto.

I Ros hanno acquisito anche la sua tesi su Hegel

I Ros, su mandato della procura di Perugia, hanno perquisito anche la casa di Michele Fabiani. Tra i vari materiali acquisiti, come denuncia il padre al giornale La Nazione, anche la sua tesi su Hegel. Ha ripreso a studiare e sta per laurearsi in filosofia all’università di ’’ Roma 3’’. Materiale, probabilmente, considerato scottante per la procura. «Non stiamo parlando di semplici parole – ha voluto precisare il procuratore della Repubblica di Perugia, Raffaele Cantone -, nessuno vuole censurare il diritto di libertà di esprimersi di chiunque. Quando però questo diritto di libertà diventa uno strumento attraverso il quale soprattutto i più giovani vengono in qualche modo coinvolti in attività illecite, ovviamente siamo fuori dal diritto di libertà di parola».

Ma nel contempo, durante la conferenza stampa, ha anche aggiunto: «Agli indagati vengono contestate istigazione molto gravi, all’esito delle quali ci sono stati episodi violenti. Non abbiamo la prova che siano ascrivibili a loro, ma sappiamo che all’interno del mondo anarchico vengono raccolte».

Arrestato per aver professato idee “sovversive” e dato un contributo alla stampa anarchica

Quindi, per stessa ammissione del procuratore Cantone, non hanno prove che le idee anarchiche pubblicamente professate tramite una rivista, non sono poi state tradotte, dagli autori stessi, in atti violenti. Non è poco. Per ora, di fatto, hanno tratto agli arresti domiciliari un ragazzo per il solo fatto di aver professato idee “sovversive” e dato un contributo alla stampa anarchica.

Nel 2007 i ragazzi di Spoleto furono processati per ver costituito un’associazione terroristica

Non è la prima volta che Fabiani e altri ragazzi anarchici spoletini finiscono in un vortice giudiziario, poi finito nel nulla. A condurre l’operazione è la stessa procuratrice di ora. La pm Manuela Comodi, nel 2007, aveva accusato Michele Fabiani e Andrea Di Nucci di aver spedito una lettera di minacce, contenente due proiettili, all’ex presidente della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti. Agli altri invece a vario titolo, venivano contestati anche alcuni danneggiamenti in alcuni cantieri. A tutti veniva contestato l’articolo 270 bis, ovvero, i ragazzi erano accusati di aver costituito un’associazione terroristica di matrice anarco insurrezionalista la cui sigla sarebbe stata Coop – Fai ( Contro ogni ordine politico- Federazione anarchica informale). Al processo d’appello, il teorema giudiziario è stato quasi del tutto smantellato.

Dall’accusa di terrorismo al danneggiamento di una ruspa

Per tutti e cinque i ragazzi era decaduta l’accusa di terrorismo. L’inchiesta giudiziaria, dal nome epico “Operazione Brushwood”, era stata condotta dal generale Giampaolo Ganzer dei Ros, sotto la guida della pm Comodi. Tutto finito nel nulla. Non c’erano armi, né un piano eversivo. Del Coop- Fai neanche traccia. I cinque ragazzi non erano più considerati terroristi ma due di loro, tra i quali Fabiani, erano comunque stati giudicati colpevoli di danneggiamenti a una ruspa e imbrattamento dei muri di un cantiere. Tutto qui. Lo Stato ha speso risorse e mezzi per una scritta sui muri. Da ricordare che quelle azioni anarchiche erano finalizzate per evitare la costruzione di un ecomostro ( l’edificio è stato descritto così da due diverse commissioni parlamentari) all’interno delle antiche mura di Spoleto.

La storia, forse, si sta ripetendo. C’è il rischio, si spera infondato, di creare la percezione che professare idee anarchiche, quindi tesi per il superamento dello Stato, sia reato. Di fatto, l’anarchico è dichiaratamente anti- sistema, non lascia e non accetta spazi per alcun tipo di delega. Non apprezzerà mai, pensiamo a Michele Fabiani stesso, questo articolo di giornale perché è parte della “stampa borghese”. L’anarchico è impermeabile a qualsiasi dialogo o apertura con le istituzioni. È portatore di un’idea di superamento dello Stato che è da considerarsi eversiva di per sé; dunque perseguibile a prescindere.

Per questo motivo se a imbrattare le mura o danneggiare una ruspa lo fa un anarchico, quell’azione ha in sé la caratterizzazione eversiva. Quando l’anarchico agisce in gruppo, questo gruppo non potrà che essere un’associazione con finalità eversiva dell’ordine democratico. Se lo fa qualsiasi altro gruppo, difficilmente gli viene addebitato un capo d’accusa così grave.

La Cassazione nel 2017 chiarì che ci potrebbe essere il rischio di «reprimere idee, piuttosto che fatti»

Detto questo, ritorniamo alla rivista incriminata “Vetriolo”. Si apprende direttamente dalla promozione fatta su internet dagli autori stessi, che in quel giornale sono pubblicate analisi e provocazioni, suggestioni e approfondimenti. Sicuramente ci sono testi durissimi contro le forze dell’ordine che si devono stigmatizzare. Ma i linguaggi violenti posso essere tradotti come istigazione al terrorismo e, addirittura, all’eversione dell’ordine democratico? Per tentare una plausibile risposta, ci viene in aiuto la sentenza della Cassazione numero 25452 del 2017: «L’anticipazione della repressione penale finirebbe per sanzionare la semplice adesione a un’astratta ideologia che, pur aberrante per l’esaltazione della indiscriminata violenza e per la diffusione del terrore, non è accompagnata dalla possibilità di attuazione del programma; si finirebbe così per reprimere idee, piuttosto che fatti».

(ANSA il 5 novembre 2021) - Nel corso di una trasmissione televisiva definì il leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, "bastarda". Per questo lo scrittore Roberto Saviano è stato rinviato a giudizio dal gup di Roma per l'accusa di diffamazione. L'appellativo fu espresso nel corso di un programma in cui si affrontava il tema dei migranti e la politica sulla gestione dei porti italiani. Il processo è stato fissato per il 15 novembre del prossimo anno. L'indagine era stata avviata dopo una querela presentata dalla stessa Meloni. Il procedimento era stato affidato al pm Pietro Pollidori che nel luglio scorso ha proceduto alla chiusura delle indagini contestando allo scrittore, presente oggi in aula, il reato di diffamazione. Il passaggio della trasmissione "incriminato" è quello in cui l'autore di Gomorra, parlando della morte di un bambino della Guinea durante una traversata nel Mediterraneo, affermò: "Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: "taxi del mare", "crociere"... ma viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto? Come è stato possibile, tutto questo dolore descriverlo così? È legittimo avere un'opinione politica ma non sull'emergenza".

Saviano pazzo d’ira per il rinvio a giudizio: Meloni una razzista, i suoi elettori cani che abbaiano…Redazione venerdì 5 Novembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Roberto Saviano non digerisce il rinvio a giudizio e fa la vittima in un video sui social. “Sono rinviato a giudizio – esordisce lo scrittore – per avere esercitato il diritto di critica nei confronti di Giorgia Meloni”. Ricordiamo che Saviano ha esercitato tale diritto insultando, cioè chiamando “bastarda” la leader di Fratelli d’Italia. E non si mostra affatto pentito: “Il mio giudizio su Giorgia Meloni lo rivendico e continuerò a portarlo avanti”. Saviano torna ad accusare Giorgia Meloni di avere detto che bisognava affondare la nave Sea Watch che aveva soccorso in mare gli immigrati. Una fake news che in più occasioni Meloni ha smentito. Come del resto dimostra il video in cui la leader di FdI affronta il tema nell’estate del 2019. Ma per Saviano Meloni è una “persona che ha continuato a mentire, manipolando dati, diffondendo paure, parlando di invasione”. Per concludere che trova “ignobile e vergognoso” dover discutere dei salvataggi in mare mentre, bontà sua, si può aprire un dibattito sulla gestione dell’immigrazione. “Non vi mollo”, dice Saviano rivolto al “mondo intorno alla Meloni”. La querela è “un trucco per intimidirmi”. “Continuerò a fare luce sulla propaganda razzista” che serve per fare “abbaiare la canea degli elettori delusi” (e così anche gli elettori di FdI sono insultati come “cani”). “Non molliamo”, promette Saviano all’acme del suo delirio di esaltazione, paragonandosi ai fratelli Rosselli perseguitati dal fascismo. “Da loro prendo l’espressione non mollare. Noi ci siamo – conclude rivolto ai sovranisti – vi osserviamo, vi raccontiamo, non vi permetteremo ancora a lungo la menzogna”. Saviano non può mancare nel “pantheon” di Formigli che da “Piazza pulita” deve gettare fango e falsità su Giorgia Meloni, FdI e i suoi elettori. Ancora questa è l’ossessione che apre la puntata di giovedì 28 ottobre su La7. “Che ne pensi, Roberto, dell’inchiesta di Fanpage sulle “scorie neofasciste all’interno di FdI e Lega?”. Come in un teatrino, è la battuta che dà il là alla scena madre del pontificatore tv con licenza di insultare, Roberto Saviano. Anzi, Formigli aggiunge ironicamente: “Stai attento a come parli. Si sa, la Meloni querela, non lo ha già fatto?”, chiede subdolamente il conduttore allo scrittore. Ebbene, Formigli non ricorda, o peggio minimizza, quel che uscì dalla bocca di Saviano quando insultò i leader dei due partiti, definendoli “bastardi”. Fu dopo l’ennesimo naufragio in mare, nel dicembre scorso. Con l’intento di addebitare a loro le morti dei migranti in quel frangente drammatico e doloroso. “Non sono disposta a tollerare oltre”, disse a ragione, Giorgia Meloni. Formigli ci ironizza sopra, ed è molto grave da parte di questi “democratici” che concedono la delega all’insulto un tanto al chilo. Ebbene, Saviano va a nozze se gli chiedi cosa pensa dell’inchiesta di Fanpage e sulla cosiddetta Lobby nera. Attacca subito la leader: “Quella è la destra in cui è cresciuta Giorgia Meloni in cui si sono formati i suoi uomini. La Meloni sta cercando di pulire il suo linguaggio e di rendersi simpatica alla destra liberale, di promuoversi come non è”. Affievolitasi la vena di scrittore, Saviano inventa un altro tipo di romanzo, veicolando una narrazione avvelenata che non ha riscontri nella realtà. E che ignora tutte le parole spese dalla Meloni di questi tempi – ma anche in passato- nei numerosi interventi pubblici e in molte interviste. Formigli insiste. “Roberto, non ti ha sconvolto quello che hai visto nell’inchiesta?”. Risposta: no. L’autore di Gomorra ha affermato: “L’inchiesta di Fanpage non mi ha sconvolto, mi ha colpito la loro superficialità nel farsi beccare così facilmente”. Formigli interviene: “Io penso che la Meloni faccia fatica a liberarsene di quella destra”. Ma Saviano non è d’accordo e fa un’accusa grave: “No, è il suo miocardio. Non ne sono convinto, non ha scelto nuove persone, ha cambiato comunicazione ma non è riuscita a ripulire”, attacca ancora. Il termine “ripulire” è odioso, offensivo. Ripulire da che? Con quale autorità sentenzia? Fuori di metafora, lo scrittore ha veicolato la narrazione di una Meloni tenuta in vita – il miocardio è il muscolo cardiaco- da quella tipologia di personaggi con cui la leader di FdI non ha mai voluto avere a che fare. Vergogna, ancora una volta. L’aria di supponente gravità con cui parla snocciolando le sue verità è insopportabile. Rincuora leggere i commenti sulla pagina Fb del programma, che pure dovrebbe essere seguita da “amatori” : oramai per Formigli e la sua trasmissione prevale la presa in giro. C’è l’ironico: “Ma dai, un’altra puntata contro la Meloni…Che strano”. C’è chi sa che ormai si tratta di una trasmissione a tesi preconfezionate: “Programma penoso a trazione bandiera rossa a tutto spiano, tutte le puntate sono uguali”. C’è chi si indigna, nonostante politicamente non la pensi come FdI.  “Se non si è d’accordo va bene non esserlo.  Ma nello stesso tempo è la donna più insultata, ingiuriata e minacciata. Eppure in questo caso per chi pontifica uguaglianza, libertà, rispetto è giusto così: e la donna Meloni viene demonizzata, offesa:, leggo frasi contro la figlia o il compagno vomitevoli che se era donna di SX sarebbero già in galera. Questo la dice lunga su un certo pensiero ipocrita. Il Maestro Pier Paolo Pasolini anni fa aveva scritto un libro a riguardo: “II Fascismo degli antifascisti”.

Saviano va a processo per insulti alla Meloni. Il vizio dei radical chic. Francesco Maria Del Vigo il 6 Novembre 2021  su Il Giornale. Lo scrittore in tv ha offeso la leader Fdi. Le campagne d'odio contro Berlusconi e Salvini. Partiamo con un'avvertenza: in un Paese normale questa non sarebbe una notizia. Ma nel nostro lo è. Anche di un certo rilievo e non solo per i nomi delle persone coinvolte. Più che altro per le loro idee politiche. Ieri il gup di Roma ha rinviato a giudizio Roberto Saviano con l'accusa di diffamazione nei confronti di Giorgia Meloni: andrà alla sbarra nel novembre del 2022. E la notizia è questa: offendere qualcuno di centrodestra è perseguibile penalmente, anche se a farlo è un «papa» dell'intellighentia radical. Una novità, in questo Paese al rovescio dove chi si nasconde dietro all'etichetta del buonismo può fare quotidianamente - a reti, giornali e siti unificati -, professione d'odio. L'autore di Gomorra, con la delicatezza che lo contraddistingue, lo scorso 7 dicembre aveva apostrofato come «bastarda» la leader di Fdi (e pure il segretario della Lega). Non in una discussione da bar al terzo giro di lambrusco, ma nello studio di Piazzapulita su La7, quindi di fronte a qualche milione di italiani, durante un dibattito sull'immigrazione. C'è tutto il canovaccio tipico dell'assalto buonista: lo scrittore engagé che con la scusa di difendere i più deboli diffama gli avversari politici; il conduttore e gli ospiti compiacenti - di solito accorate vestali del galateo politicamente corretto - che non battono ciglio. Insulti, per altro, nei confronti di una donna. A parti invertite, con uno scrittore di destra che diffama una politica di sinistra, probabilmente avrebbero fatto irruzione i caschi blu dell'Onu direttamente in studio. Insulti che lo scrittore ha rivendicato in tribunale, come ha raccontato l'onorevole Andrea Delmastro delle Vedove, legale della leader di Fdi: «Mi puntava il dito in faccia dicendo non vi mollo, non vi mollo. In tanti anni da avvocato non mi è mai capitato di vedere un comportamento del genere». Ma d'altronde il caso Saviano appartiene a una lunga letteratura dell'odio radical chic, esiste una vera e propria scuola dell'insulto che ha le sue fondamenta in due principi: la presunta superiorità morale, culturale e financo antropologica di una certa sinistra e la vigliacca, ma motivata, convinzione che la si possa sempre fare franca. Perché la sinistra forcaiola diventa subitaneamente garantista con i compagni che sbagliano, lo faceva con quelli che sparavano pallottole, figuriamoci con quelli che sparano boiate. Uno dei primi bersagli è stato Silvio Berlusconi. Impossibile riepilogare tutti gli insulti recapitati nei suoi confronti, ci ha provato Luca D'Alessandro nel 2005 e ha tirato fuori un libro di 230 pagine. Sono passati più di 15 anni e solo con quelli collezionati da Marco Travaglio e dai suoi sodali si potrebbero mandare in stampa almeno un paio di tomi. Ma la mannaia dell'offesa si è abbattuta con violenza anche contro esponenti di Forza Italia come Renato Brunetta, Mara Carfagna e Renato Schifani. Tuttavia Giorgia Meloni, negli ultimi anni, è finita al centro di un crescendo di attacchi violenti e sguaiati. Quasi sempre senza contraddittorio. Ricordiamo i più noti: pochi mesi fa Giovanni Gozzini, ordinario di Storia contemporanea dell'università di Siena, la ha definita «pesciaiola, vacca, scrofa». Dopo una lunghissima polemica è stato punito con tre mesi di sospensione senza stipendio. Oliviero Toscani nel 2018 la «ritrae» come «brutta, volgare, ritardata». Ma il fotografo ormai ama impressionare più con l'offesa che con le sue opere: non più tardi di due giorni fa ha definito Salvini come «un uomo dalla morfologia preistorica», rimpinguando la folta lista di quelle offese che mirano a disumanizzare il nemico. Tornando alla Meloni: nel 2017 Asia Argento la incontra al ristorante, le scatta una foto e la pubblica su Instagram: «La schiena lardosa della ricca e svergognata fascista ritratta al pascolo». Interessante notare come non esista il tanto di moda «body shaming» nei confronti di una donna di destra e come sia sempre irreperibile la solidarietà femminile delle varie Murgia. Gianrico Carofiglio, scrittore ed ex magistrato, da par suo ha inaugurato un nuovo filone nell'ambito dell'insulto, una avanguardia: la critica del sospiro di destra. Durante una mitologica puntata di Dimartedì analizza la mimica del leader della Lega e con sprezzo di Salvini, ma soprattutto del ridicolo, inizia a pontificare sul «modo in cui propone i suoi non argomenti, anche il suo sospirare fa parte di un manuale di tecnica di comunicazione della destra americana». Dal nemico ti ascolta siamo passati al nemico ti ausculta. D'altronde Carofiglio è un creativo, è quello che definì, con malcelato schifo, una manifestazione di centrodestra come «un manipolo di gente sudata e accalcata». Corre l'obbligo di ricordare che era il pomeriggio di un torrido giugno a Roma e non una mattinata di febbraio sulle Dolomiti, ma evidentemente tra i meriti della sinistra c'è anche quello di aver sconfitto l'antipatico problema della sudorazione sotto la canicola. Questi sono soltanto alcuni degli insulti ufficiali, di chi ci ha messo la faccia, la voce e pure la firma. Poi c'è l'oceano rumoroso di tutti gli odiatori seriali che, con la convinzione di essere dalla parte giusta, postano insulti sbagliati e beceri all'avversario politico. La caccia al «linguaggio dell'odio», una certa sinistra, dovrebbe iniziarla da casa propria. Perché grattando via lo smalto dei talebani del buonismo, troppo spesso, salta fuori un cattivismo discriminatorio e pure un po' razzista.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Roberto Saviano, raptus in tribunale dopo il rinvio a giudizio: "Mai visto una cosa del genere". Libero Quotidiano il 05 novembre 2021. Ha sbroccato in aula Roberto Saviano dopo che il giudice gli ha comunicato il rinvio a giudizio per diffamazione per aver dato della "bast***a" a Giorgia Meloni. Lo scrittore andrà dunque a processo. Il gup infatti ha definito "esorbitante, rispetto al diritto di critica politica, l'epiteto 'bast***a'" mentre Saviano in aula ha rivendicato le sue parole. Lo scrittore, racconta l'onorevole Andrea Delmastro delle Vedove, legale della leader di Fratelli d'Italia, "mi puntava il dito in faccia dicendo 'non vi mollo, non vi mollo'. Non credo sia un comportamento consono a un'aula di tribunale e in tanti anni da avvocato non mi è mai capitato". L'autore di Gomorra aveva insultato la Meloni durante una puntata di Piazzapulita su La7 a dicembre dell'anno scorso. In studio da Corrado Formigli si parlava degli sbarchi degli stranieri nei nostri porti e più in generale delle politiche di immigrazione. Ad un certo punto Saviano ha sbottato e (rivolto a Meloni e Salvini) mentre sullo schermo scorrevano le immagini del piccolo Youssuf, il bimbo di 6 mesi morto nel Mediterraneo, ha tuonato: "Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: taxi del mare, crociere. Mi viene solo da dire 'bast***i, come avete potuto? Come è stato possibile?". Secondo Saviano "è legittimo avere un'opinione politica ma non sull'emergenza. L'unica strategia è accedere una immigrazione controllata, con i corridoi umanitari. Togliere le Ong è servito solo a non avere testimoni". La prima udienza del processo è stata fissata per il 15 novembre 2022.  

Roberto Saviano rinviato a giudizio, la stoccata di Nicola Porro: "Guardatevi questo video". Libero Quotidiano il 05 novembre 2021. Sul sito di Nicola Porro è stata riportata la notizia di Roberto Saviano finito a processo dopo la querela di Giorgia Meloni, che era stata definita “bastarda” insieme a Matteo Salvini nel corso di una puntata di Piazzapulita - la trasmissione condotta da Corrado Formigli su La7 - andata in onda verso la fine del 2020. “Ogni opinione è sacra - si legge sul sito di Porro - ma l’insulto insomma, almeno quello andrebbe limitato. Soprattutto quando viene usato da chi, poi, si erige a sostenitore di leggi contro l’odio in stile ddl Zan”. Poi è stato pubblicato il video di quella puntata, con invito a “godervi lo ‘spettacolo’, l’insulto e i silenzi del conduttore”: insomma Porro e i suoi collaboratori hanno proposto una lezione di coerenza per Saviano, che dovrà rispondere dell’accusa di diffamazione ai danni della leader di Fratelli d’Italia. All’epoca il dibattito sull’immigrazione era infiammato, con le posizioni di Saviano e Meloni ovviamente diametralmente opposte: il primo voleva porti aperti per tutti, la seconda il blocco navale. È finita con Saviano che ha dato della “bastarda” alla Meloni (e anche a Salvini) e con la leader di Fdi che ha deciso di querelare lo scrittore. Querela che su richiesta del pm Pietro Polidori è diventata un processo: la prima udienza è fissata per novembre 2022, ovvero tra un anno. 

Piazzapulita, Roberto Saviano contro Giorgia Meloni: "Cerca di ripulirsi ma quella è la destra in cui è cresciuta". Libero Quotidiano il 28 ottobre 2021. Si parla ancora dell'inchiesta di Fanpage su Fratelli d'Italia e la cosiddetta Lobby nera da Corrado Formigli a Piazzapulita su La7 e Roberto Saviano attacca la leader: "Quella è la destra in cui è cresciuta Giorgia Meloni e in cui si sono formati i suoi uomini. La Meloni sta cercando di pulire il suo linguaggio e di rendersi simpatica alla destra liberale, di promuoversi come non è". Quindi, prosegue l'autore di Gomorra, "l'inchiesta di Fanpage non mi ha sconvolto, mi ha colpito la loro superficialità nel farsi beccare così facilmente". Formigli interviene: "Io penso che faccia fatica a liberarsene di quella destra". Ma Saviano non è d'accordo: "No, è il suo miocardio. Non ne sono convinto, non ha scelto nuove persone, ha cambiato comunicazione ma non è riuscita. a ripulire", attacca ancora. 

Enrico Mentana "sospeso dall'Ordine dei giornalisti". La bordata dal Fatto quotidiano. Libero Quotidiano il 23 ottobre 2021. C'è anche Enrico Mentana tra i 612 giornalisti sospesi dall'Ordine del Lazio. Ad annunciarlo il Fatto quotidiano. L'elenco vip è nutritissimo: oltre al direttore del TgLa7, spiccano Pierluigi Pardo, Vincenzo Mollica, Andrea Purgatori e Francesco Merlo, e altri nomi noti come quelli di Agostino Saccà, Marcello Sorgi, Salvo Sottile, Luca Telese. Tutti personaggi ammirati e rispettati. Ma che hanno un piccolo problema: non hanno ancora attivato l'indirizzo di Posta elettronica certificata, la famigerata Pec, o perlomeno non l'hanno comunicato all'Ordine dei giornalisti del Lazio. Nessuna grave violazione della deontologia professionale, dunque, ma semplici problemi di burocrazia. "C'è da dire - ricorda il Fatto - che ormai da diversi anni (ormai dal 2014) dagli uffici di Piazza della Torretta si sgolano in tutte le maniere chiedendo agli iscritti di creare questo benedetto indirizzo Pec - servizio che l'Ordine offre a 1,50 euro l'anno -, strumento sempre più utile in tempi di Covid anche per quello che attiene la vita fuori dalle redazioni". "In linea assolutamente teorica - si legge ancora sul quotidiano diretto da Marco Travaglio -, i giornalisti sospesi dovrebbero interrompere immediatamente le loro collaborazioni e i loro rapporti professionali e rischiano anche dei danni a livello contributivo, con l'Inpgi (l'ente previdenziale di categoria) che sarebbe obbligato a restituire ai rispettivi editori i suoi contributi previdenziali di pertinenza". Nelle prossime ore si cercherà di arrivare a una mediazione, assicura sempre il Fatto, anche perché siamo alla vigilia della elezione del nuovo presidente dell'Ordine laziale.

Dagospia l'8 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, L’Inpgi pretendeva da me e dalla collega Manuela D’Alessandro con cui curo il blog giustiziami.it un risarcimento danni di 75 mila euro perché in un articolo avevamo criticato la mancata costituzione parte civile dell’istituto nel processo a carico dell’ex presidente Camporese. Il Tribunale civile di Roma ha sentenziato che il blog aveva esercitato il diritto di cronaca e di critica in modo pertinente. L’Inpgi è stata condannata a pagare 8.000 euro. Lo farà con i soldi degli iscritti già utilizzati per pagare gli avvocati che avevano intentato la causa. I signori al vertice dell’Inpgi sono giornalisti che procedono in modo intimidatorio contro colleghi che fanno il loro lavoro e basta. Il sindacato dei giornalisti brilla per il suo silenzio. Frank Cimini

Dagospia il 29 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Carissimo Dago, nessun giornale oggi pubblica la notizia se non minuscola e ben nascosta che Inpgi finirà nell’INPS a partire dal 22 luglio prossimo. E te credo! Perché bisognerebbe pure scrivere che Inpgi stava fallendo e stava fallendo perché depauperato da un quarto di secolo di stati di crisi con i quali gli editori dei giornali hanno risanato i loro conti. L’Inpgi non si è mai lamentato perché è sempre stato nelle mani e diretto da colleghi collusi con il potere e con i giochetti della politica. Uguale discorso vale per FNSI, il sindacato dei giornalisti responsabile anche di altre tragiche scelte quando ha consentito di fare questo mestiere con contratti diversi. Del resto e per non farla troppo lunga in un paese in cui fa cacare il sindacato dei metalmeccanici producendo un soggetto come Landini che cosa ci si può aspettare dal sindacato dei giornalisti? Frank Cimini

Così l’Inpgi è finita sull’orlo del crac. Frank Cimini su Il Riformista il 2 Novembre 2021. Sarà anche un bel mestiere fare il gazzettiere, ma da adesso in poi bisognerà farlo senza l’Inpgi, l’istituto di previdenza privato dei giornalisti. L’Inpgi era sull’orlo del fallimento e finirà nell’Inps, la previdenza pubblica a partire dal primo luglio dell’anno prossimo. Ma in realtà ci è già finito perché si trova da subito sotto il controllo dell’Inps. Il consiglio di amministrazione dell’Inpgi non può prendere nessuna decisione autonomamente. A pagarne le conseguenze saranno i colleghi che hanno ancora un bel po’ di anni di lavoro da fare prima della pensione perché i meccanismi della quiescenza con l’Inps sono molto meno remunerativi rispetto all’Inpgi. Da questa storia non esce bene nessuno. E in prima fila c’è l’Inpgi che da un quarto di secolo si è fatto depauperare, subendo in silenzio, da una quantità infinita di stati di crisi richiesti dagli editori e concessi dai vari governi dopo che la stessa politica aveva stabilito la possibilità di accedere all’aiuto pubblico anche solo in previsione di un mero calo della pubblicità. Gli stati di crisi consentivano e consentono tuttora di prepensionare giornalisti con ottimi stipendi le cui posizioni vanno a pesare sulle casse dell’Inpgi, sgravando quelle delle aziende che in pratica si ristrutturano a spese dell’istituto previdenziale dei dipendenti. L’Inpgi ci rimette moltissimo perché i pochi nuovi assunti incassano stipendi molto più bassi dei loro predecessori versando di conseguenza contributi di valore largamente inferiore. Correva l’anno 1994 ed erano ancora tempi di vacche grasse, ma si avvertivano i primi scricchiolii di tempi brutti quando Il Mattino di Napoli e il Secolo XIX di Genova chiesero lo stato di crisi. Da allora è stata una valanga che continua tuttora. E va ricordato che in editoria come in altri settori si fa anche un largo uso della cassa integrazione che pesa sulle casse pubbliche. L’ultimo caso, strettissima attualità, è quello dell’Eco di Bergamo quotidiano di proprietà della curia arcivescovile (unico caso in Italia) dove azienda e comitato di redazione hanno raggiunto un accordo per la CIG al 14 per cento. Va detto che il giornale ha il bilancio in attivo, forte anche dell’enorme massa di soldi incassati con i necrologi in relazione al ruolo di capitale nazionale della pandemia. La cassa integrazione durerà un anno, 7 mesi subito e altri 5 mesi nel 2023. L’interruzione serve per allungare i tempi fino a chiedere e ottenere l’ennesimo stato di crisi con cui si prevede di pensionare un’altra decina di giornalisti, un quinto dell’intero organico. L’editore da un lato guadagna risparmiando a spese di tutti, ma dall’altro spende soldi dando in appalto all’Ansa la confezione delle pagine di interni e esteri finora fatti dalla redazione. Tutto va bene madama la marchesa. Il sindacato tace come del resto sugli stati di crisi in tutta Italia. Nonostante il presidente dell’Associazione Lombarda dei giornalisti sia un dipendente dell’Eco, Paolo Perucchini. Frank Cimini

"Legittimo esercizio del diritto di critica politica".  Inpgi in caduta libera, chiede 75mila euro di risarcimento a piccolo blog e perde: “Pagherà con i soldi degli iscritti”. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. “Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato” è il motto del blog, Giustiziami.it. E invece questa volta il blog ha fatto bene ad avere fiducia nel Tribunale Civile di Roma che ha sancito la nostra vittoria nei confronti dell’Inpgi, l’ente pensionistico dei giornalisti, per l’articolo in cui censuravano l’operato del suo allora presidente coinvolto in una vicenda giudiziaria da cui poi è uscito assolto. In un articolo pubblicato sul blog, viene ripercorsa la vicenda giudiziaria: “Ma torniamo alla sera del giugno 2018 quando ci vediamo recapitare via posta una richiesta di risarcimento per danni quantificati in 50mila euro più una sanzione pecuniaria da 25mila euro per diffamazione dell’ente in persona. Settantacinquemila euro per avere posto dei dubbi, in nome di quello che oggi il giudice Luciana Sangiovanni definisce “legittimo esercizio del diritto di critica politica in ordine a un evento correttamente riportato”, sulla mancata costituzione di parte civile dell’ente in un procedimento in cui, in teoria, erano stati lesi i diritti dei giornalisti suoi iscritti. Potete immaginare lo sgomento di fronte a quella somma. Coi tempi della giustizia civile arriva una sentenza che dà ragione su tutta la linea alle tesi dei nostri legali e condanna l’ente al pagamento di 4.850 euro di spese legali che, per la cronaca, saranno sempre gli iscritti a pagare. Il giudice ha riconosciuto: “l’interesse pubblico dell’informazione su una vicenda che ebbe un forte impatto mediatico tanto da coinvolgere la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Economia e delle Finanze”; “il legittimo esercizio del diritto di critica politica in relazione a un evento di cronaca giudiziaria correttamente riportato, con l’uso sapiente del condizionale e della forma dubitativa sintomatica dell’assenza di ogni intenzione manipolativa o lesiva”; il fatto che “ai fini della verità a nulla rileva la costituzione di parte civile dell’Inpgi un anno dopo la pubblicazione dell’articolo e l’assoluzione di Camporese per il reato ascrittogli”. C’è stato un momento in cui avremmo potuto chiudere la faccenda con qualche centinaio di euro. I legali dell’Inpgi, ora presieduto da Marina Macelloni, in sede di mediazione ci hanno chiesto una somma simbolica come via d’uscita. Abbiamo detto no dichiarando al mediatore che andavamo avanti perché la vicenda non riguardava solo noi ma il diritto di cronaca. E ora i ringraziamenti: ai nostri avvocati Valerio Vallefuoco e Dafne Alastra che si sono spesi ‘pro bono’; al presidente dell’Ordine dei Giornalisti lombardo Alessando Galimberti che sin da subito si è esposto al nostro fianco; a una parte molto minoritaria del sindacato; ai tanti colleghi che ci hanno espresso solidarietà. A Massimo Bordin, che scrisse un articolo in nostra difesa molto sentito. A lui, maestro di garantismo, la nostra dedica”.

Michetti querela Lilli Gruber: «È stata imperdonabile. Le sue parole false e scorrette». Ginevra Sorrentino giovedì 7 Ottobre 2021 su Il Secolo d’Italia. Nelle scorse settimane Giorgia Meloni era tornata a denunciarlo in più occasioni: «Sto vedendo una comunicazione aggressivissima nei confronti di Michetti. Vuol dire che si ha paura»… Lui, invece, il candidato del centrodestra a sindaco di Roma. Vincente al primo turno e ora alle prese con il ballottaggio imminente, di paura non ne ha per niente. E dopo l’ultimo, maldestro attacco sferrato in favore di telecamera dalla Gruber, il diretto interessato annuncia querela. E fa sapere: «Ho dato mandato ai miei legali di sporgere querela nei confronti della signora Lilli Gruber e La7. Non intendo essere diffamato oltre». Solo ieri, dunque, l’ultima dimostrazione dell’inospitalità della Gruber: un comportamento riservato agli avversari politici che scontano la colpa di non pensarla come lei. E che ha portato la giornalista militante de La7 a presentare l’ospite in studio, nel corso della puntata di ieri di Otto Mezzo, dicendo: «Michetti viene da un mondo della destra destra destra, forse anche un po’ neofascista»… Niente di più fasullo… Del resto, che Lilli Gruber si riveli ad ogni occasione utile una padrona di casa notoriamente poco ospitale quando si tratta di accogliere nel suo salotto radical chic interlocutori che non la pensano come lei, è cosa nota. Così come non è proprio un’eventualità rara che invitato e spettatori possano ritrovarsi alle prese con slogan stantii e definizioni rabberciate. Frasi buttate lì al servizio di messaggi veicolati in modo ambiguo e scorretto nei confronti di un avversario politico. Il quale, però, stavolta non ci sta. E annuncia battaglia. Stavolta, infatti, il malcapitato di turno è Enrico Michetti: candidato del centrodestra in corsa per l’elezione del sindaco di Roma. Vincitore della prima tornata elettorale, a breve alle prese con il ballottaggio. E che, con grande risolutezza, in merito a quanto accaduto ieri in studio a La7, in una nota e sui propri profili social, spiega: «Il dovere dei giornalisti dovrebbe essere quello di fare un’informazione corretta e parlare dopo essersi documentati». «Ma questo non è accaduto ieri sera – aggiunge Michetti – durante la puntata di Otto e mezzo su La 7». E ancora: «Non conosco la signora Gruber – prosegue poi il candidato del centrodestra al Campidoglio –. Ma lei evidentemente non conosce me. Perché ha detto cose infondate. Tutti conoscono la mie superficiali, sono imperdonabili». Pertanto, oltre all’annuncio del mandato dato agli avvocati di «sporgere querela nei confronti della signora Gruber e La7», Michetti conclude asserendo: «Non intendo essere diffamato oltre».

Michela Tamburrino per "la Stampa" il 7 ottobre 2021. Enrico Varriale, ex vicedirettore di Raisport, non andrà in video a commentare le finali di Nation League del 10 ottobre. Non una sospensione, ma «una decisione presa di comune accordo con l'azienda» per ragioni di opportunità dopo la denuncia presentata in estate contro il giornalista per stalking nei confronti della sua ex compagna per stalking che lo vede indagato dalla procura di Roma. Il gip Monica Ciancio ha disposto nei suoi confronti del conduttore la misura cautelare del divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa, con l'ordine di «non comunicare con lei neppure per interposta persona». Nel provvedimento emesso dal gip si fa riferimento a «condotte reiterate» di molestie e minacce che avrebbero provocato nella vittima «un grave stato d'ansia e paura». La donna ha denunciato di essere stata picchiata, insultata, sbattuta contro il muro. E ha aggiunto di essere stata perseguitata, con telefonate di notte e appostamenti sotto casa. Accuse che il giornalista, interrogato lo scorso 30 settembre, bolla come «false e destinate ad essere smentite nei fatti». «Solo una lite per gelosia», avrebbe detto agli inquirenti. Varriale, lei dice che non è un provvedimento disciplinare, ma di fatto non commenterà le finali della Nation League.

«Non c'è stata nessuna sospensione e chi ne ha parlato e ha sbattuto il mostro in prima pagine ne risponderà nelle sedi opportune. Tutto è andato diversamente. In accordo con la direzione della mia testata e con i vertici dell'Azienda, abbiamo deciso che sarebbe stato più opportuno per me non seguire la partita del 10. Questo per non dar luogo a chiacchiere, equivoci, strumentalizzazioni e risvolti spiacevoli. A tutela della Rai e mia. Ripeto: una decisione presa di comune accordo. Nessuna sospensione e alcun provvedimento disciplinare».

Le accuse però sono molto gravi e circostanziate.

«La vicenda per come è stata trattata mi preoccupa. Sono stato additato come un mostro, ma allo stato dei fatti c'è solo una denuncia, la versione della signora e la mia versione. Mi preoccupa che si facciano processi sui giornali, un gioco al massacro che io non ho mai fatto. È una dolorosa vicenda personale che avrei preferito rimanesse tale. Purtroppo però mi sono state rivolte, e rese pubbliche, accuse del tutto false. Non ho mai stalkerizzato alcuno e chi afferma il contrario ne risponderà». 

In Vigilanza Rai erano allarmati per le ricadute negative che questa vicenda poteva portare all'Azienda pubblica.  Secondo lei come è venuta fuori la storia della sua sospensione?

«È stata inventata di sana pianta, una cosa che non esiste e che infatti la Rai è stata costretta a smentire e a precisare lo stato dei fatti. Una non notizia che ha creato un polverone». 

E adesso cosa farà? Dopo il 10 tornerà in video?

«Sono sicuro che riuscirò a dimostrare l'infondatezza delle accuse in tempi brevi. Sono tranquillo in attesa di chiarire».

Enrico Varriale sospeso dal video fino a quando la vicenda di stalking non sarà chiarita. Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2021. Lo rivela l’agenzia di stampa Adnkronos. Il giornalista accusato di «atti persecutori e lesioni personali». Enrico Varriale, indagato per stalking e lesioni personali aggravate, dopo la querela dell’ex compagna per percosse e stalking è stato sospeso dal video per decisione dei vertici Rai fino a quando non sarà tutto chiarito. Lo rivela l’agenzia di stampa Adnkronos. Al momento nei confronti del giornalista è stata disposta la misura cautelare del «divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa». Una settimana fa, al termine dell’interrogatorio davanti al gip di Roma, Enrico Varriale aveva diramato una nota: «Sono sicuro che le false accuse che mi sono state mosse troveranno smentita nei fatti che ho potuto illustrare e ho fiducia nella giustizia che farà il suo corso spero nei tempi più brevi possibili». L’ex compagna di Varriale, con la quale aveva programmato di convivere, aveva accusato l’ex vicedirettore di Rai Sport di «atti persecutori e lesioni personali. Mi ha picchiata, presa a schiaffi, sbattuta contro il muro, insultata». E ancora: «Mi perseguita con telefonate di notte, si apposta sotto casa, citofona alle 6 di mattina...». La relazione tra il giornalista 61enne (nei recenti Europei di calcio impegnato nei commenti post-partita) e la sua ex compagna, giovane imprenditrice, era iniziata un anno fa e pareva procedere bene. Lei aveva cambiato città, trasferendosi a Roma dalle Marche, in un appartamento da single, senza escludere una futura convivenza. Ma all’improvviso, un paio di settimane dopo la vittoria dell’Italia contro l’Inghilterra, il rapporto è saltato. Stando alla ricostruzione dei magistrati, hanno pesato il nervosismo e «i repentini scatti d’ira» dell’indagato.

Varriale nei guai. "Picchiata e insultata" Giornalista della Rai indagato: stalking. Affari Italiani il 30 settembre 2021. Enrico Varriale è indagato per stalking. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo a carico del celebre giornalista sportivo della Rai, in seguito alle accuse della sua ex. "Mi ha picchiata, presa a schiaffi, sbattuta contro il muro, insultata". E ancora: "Mi perseguita con telefonate di notte, si apposta sotto casa, citofona alle 6 di mattina". Dopo un’indagine per stalking - si legge sul Corriere della Sera - e altri reati durata poco più di un mese, il gip ha disposto nei confronti del conduttore (ed ex vicedirettore) Rai la misura cautelare del "divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa», oltre alla duplice prescrizione di «non comunicare con lei» neppure «per interposta persona» e di "allontanarsi immediatamente in caso di incontro fortuito, riponendosi a 300 metri di distanza". La relazione tra il giornalista 61enne e la sua ex compagna, giovane imprenditrice, - prosegue il Corriere - era iniziata un anno fa e pareva procedere bene. Lei aveva cambiato città, trasferendosi a Roma dalle Marche, in un appartamento da single, senza escludere una futura convivenza. Ma all’improvviso, un paio di settimane dopo la vittoria dell’Italia contro l’Inghilterra, il rapporto è saltato. Secondo l’accusa, le tensioni nella coppia la mattina del 6 agosto sfociano in violenza. Varriale «durante un alterco per motivi di gelosia, la sbatteva violentemente al muro, scuotendole e percuotendole le braccia, sferrandole dei calci e, mentre la parte offesa cercava di rientrare in possesso del cellulare che le aveva sottratto, le afferrava il collo con una mano, cagionandole lesioni». La replica di Varriale: "Non ho mai stalkerizzato nessuno e chi afferma questo ne risponderà in tutte le sedi. È una dolorosa vicenda personale che avrei preferito rimanesse tale. Purtroppo però mi sono state rivolte, e rese pubbliche, accuse del tutto false. Sono sicuro che riuscirò a dimostrare la loro infondatezza facilmente e in tempi brevi".

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” l’1 ottobre 2021.  Enrico Varriale, giornalista, ex vicedirettore di Rai Sport, respinge le accuse di stalking e lesioni nei confronti della sua ex compagna, risponde alle domande della gip Monica Ciancio e intanto si rallegra per le dimostrazioni di affettuosa vicinanza ricevute da amici e colleghi. La lite con la sua ex ha avuto un innesco, spiega, nell’incontrollata gelosia di lei. «Mi rinfacciò di avere altre donne, accusandomi a più riprese» racconta il sessantunenne opinionista. E allora un passo indietro al 5 agosto scorso: Varriale e la sua compagna, imprenditrice, sono tornati da una breve vacanza assieme. Si trovano nell’appartamento di lei, sul punto di andare a dormire, ma la luce tra loro non è ancora spenta. Lei, sposata, in via di separazione, lo rimprovera di averla tradita, lo stuzzica costantemente. Lui sbotta e lascia l’appartamento per poi pentirsene durante la notte. Allora la chiama ma lei sta dormendo e dunque aspetta il mattino per tornare alla carica, magari chiederle scusa. Il tempo del rammarico però scompare appena lei torna a rimproverarlo. Lui, rinfoderando le scuse per la caduta di stile, reagisce e anzi rilancia. La situazione peggiora. Scoppia una lite anche più aspra di quella della sera prima. «Arrivò a lanciarmi il computer portatile...» lamenta Varriale con i magistrati ammettendo comunque i fatti. È l’apice della discussione. La donna la racconta così: «Mi prese a schiaffi e poi mi strinse il collo mentre io cercavo di difendermi». Più tardi i medici del pronto soccorso le rilasceranno il certificato con una prognosi di cinque giorni. Ieri, accompagnato dal suo difensore, l’avvocato Fabio Lattanzi, Varriale si è rammaricato dell’escalation litigiosa con la gip, la sua intenzione ha detto era di «chiudere il rapporto civilmente». Sul momento, tuttavia, aveva reagito con aggressività come ha raccontato lei agli investigatori. Dopo le botte il giornalista arriva a strapparle lo smartphone. Lei va nel panico: nella denuncia ci sono tutte le sue conversazioni, soprattutto lo sfogo della sera prima con un amico. C’è il resoconto delle offese. Lo sfogo con l’amico, spiega agli investigatori, è l’unico momento di libertà che si è concessa: vedersi confiscare il cellulare la esaspera. Varriale non demorde, i due vanno avanti a male parole. Si lasciano recriminando e lui le invierà due messaggi whatsapp tipicamente e inequivocabilmente offensivi: «Sei una t...». Lei denuncerà tutto in Procura. L’esito è noto: la gip Monica Ciancio ha disposto un divieto di avvicinamento del giornalista «a meno di trecento metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa». Varriale, secondo la gip, avrebbe «una personalità aggressiva e prevaricatoria evidentemente incapace di autocontrollo». La posizione di Varriale appare delicata. A meno che la sua ex non ritiri la querela, il giornalista rischia l’incriminazione per il reato di stalking. Contro di lui ci sarebbero anche alcune testimonianze. Una, forse la più insidiosa, è quella del portiere dell’appartamento di lei. L’uomo avrebbe assistito ad alcuni minuti della lite tra i due e sarebbe in grado di testimoniare. Ma c’è altro perché la vittima ha raccontato ogni dettaglio a un suo amico e una sua amica che, dunque, potrebbero deporre a loro volta su come siano davvero andate le cose. Varriale, intanto, si dice fiducioso. È convinto di aver chiarito il contesto e di aver sciolto i dubbi con i magistrati, dunque si definisce «tranquillo», certo di poter difendere la propria reputazione. Uscito da piazzale Clodio nel pomeriggio il giornalista si dice «commosso dalla vicinanza e dalla solidarietà ricevuta da molti: non era scontato alla luce del modo in cui è stata presentata mediaticamente una vicenda triste e personale».

Enrico Varriale indagato per stalking. L’accusa: botte alla ex compagna, poi gli insulti e la persecuzione. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2021. Atti persecutori e lesioni personali. Lui, uno dei giornalisti sportivi più famosi d’Italia, al centro di un’inchiesta della Procura di Roma. Lei, l’ex compagna con la quale aveva programmato di convivere, nel ruolo di accusatrice. «Mi ha picchiata, presa a schiaffi, sbattuta contro il muro, insultata». E ancora: «Mi perseguita con telefonate di notte, si apposta sotto casa, citofona alle 6 di mattina...». Enrico Varriale, l’opinionista napoletano noto per essere poco amato dai tifosi juventini e per memorabili litigate in diretta tv, da alcuni giorni è alle prese con guai seri. Dopo un’durata poco più di un mese, il gip Monica Ciancio ha disposto nei confronti del conduttore (ed ex vicedirettore) Rai la misura cautelare del «divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa», oltre alla duplice prescrizione di «non comunicare con lei» neppure «per interposta persona» e di «allontanarsi immediatamente in caso di incontro fortuito, riponendosi a 300 metri di distanza». Nessun contatto, insomma, nell’auspicio che funzioni da «deterrente» e si possano evitare misure più restrittive. Il tutto alla luce di una valutazione: «Le condotte poste in essere dal Varriale danno conto di una personalità aggressiva e prevaricatoria, evidentemente incapace di autocontrollo». La relazione tra il giornalista 61enne (nei recenti Europei di calcio impegnato nei commenti post-partita) e la sua ex compagna, giovane imprenditrice, era iniziata un anno fa e pareva procedere bene. Lei aveva cambiato città, trasferendosi a Roma dalle Marche, in un appartamento da single, senza escludere una futura convivenza. Ma all’improvviso, un paio di settimane dopo la e , il rapporto è saltato. Stando alla ricostruzione dei magistrati, hanno pesato il nervosismo e «i repentini scatti d’ira» dell’indagato, sotto stress per almeno tre fattori: la rinuncia obbligata di Varriale alla «vetrina» delle telecronache delle partite degli azzurri, in quanto entrato in contatto con un positivo al Covid; il procedimento disciplinare a suo carico per non aver rispettato la quarantena; e, infine, la mancata conferma come vicedirettore di Rai-Sport. Secondo l’accusa, le tensioni nella coppia la mattina del 6 agosto sfociano in violenza. Varriale «durante un alterco per motivi di gelosia, la sbatteva violentemente al muro, scuotendole e percuotendole le braccia, sferrandole dei calci e, mentre la parte offesa cercava di rientrare in possesso del cellulare che le aveva sottratto, le afferrava il collo con una mano, cagionandole lesioni». Una scenata in due tempi, nell’appartamento e poi sul pianerottolo, conclusa con il lancio di un telefonino. Le conseguenze immediate sono state la decisione di lei «di troncare la relazione e ogni forma di comunicazione» e di recarsi al pronto soccorso del Policlinico Gemelli. Agli atti, oltre alle testimonianze di due amici con cui s’era confidata («era talmente spaventata da spegnere le luci per evitare che lui si avvedesse che era in casa»), è allegato il referto dei medici: «Ferita lacero contusa al braccio sinistro, ecchimosi alla mano sinistra, tumefazione del gomito destro con dolenzia alla mobilizzazione attiva, abrasioni alla base del collo e sul ginocchio sinistro, guaribili in cinque giorni». Ma non era tutto. È stata la successiva insistenza del conduttore tv a indurre l’ex compagna a presentarsi negli uffici di polizia: una sequenza di telefonate notturne, citofonate, appostamenti e messaggi insultanti andata avanti per settimane, sino alla seconda denuncia presentata il 14 settembre. Così un amore finito è finito in tribunale. «Non ho mai stalkerizzato nessuno e chi afferma questo ne risponderà in tutte le sedi. È una dolorosa vicenda personale che avrei preferito rimanesse tale — replica Varriale —. Purtroppo però mi sono state rivolte, e rese pubbliche, accuse del tutto false. Sono sicuro che riuscirò a dimostrare la loro infondatezza facilmente e in tempi brevi». Nell’ordinanza della giudice Ciancio notificata il 27 settembre al commissariato Ponte Milvio, l’accusa di atti persecutori (reclusione da uno a sei anni e mezzo) viene motivata con le «condotte reiterate» di molestia e minacce, che hanno provocato alla donna «un grave stato di ansia e paura», con «attacchi di panico, fatica nella respirazione e tachicardia, tali da immobilizzarla», nonché «un fondato timore per la propria incolumità, costringendola ad alterare le abitudini di vita».

Il volto tv denunciato dall'ex compagna. Enrico Varriale nei guai, il giornalista Rai indagato per stalking: “Accuse false”.  Fabio Calcagni su Il Riformista il 30 Settembre 2021. Volto noto del giornalismo sportivo televisivo, impossibile dimenticare memorabili litigate con allenatori e soprattutto con i tifosi della Juventus, ora Enrico Varriale deve affrontare la sfida più importante. Il giornalista napoletano ed ex vicedirettore della Rai è accusato dalla Procura di Roma di atti persecutori e lesioni personali nei confronti dell’ex fidanzata. “Mi ha picchiata, presa a schiaffi, sbattuta contro il muro, insultata. Mi perseguita con telefonate di notte, si apposta sotto casa, citofona alle 6 di mattina”, sono le accuse gravissime che arrivano dall’ex compagnia, con la quale aveva programmato di convivere. Come scrive oggi il Corriere della Sera, il gip Monica Ciancio ha disposto nei confronti di Varriale la misura cautelare del divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa, oltre alla duplice prescrizione di “non comunicare con lei” neppure “per interposta persona” e di “allontanarsi immediatamente in caso di incontro fortuito, riponendosi a 300 metri di distanza”. Insomma, nessun contatto tra le parti in virtù, è la valutazione del gip, di una personalità “aggressiva e prevaricatoria, evidentemente incapace di autocontrollo”. Accuse gravissime che Varriale nega con forza. “Non ho mai stalkerizzato nessuno e chi afferma questo ne risponderà in tutte le sedi. È una dolorosa vicenda personale che avrei preferito rimanesse tale — replica il giornalista 61enne, che ai recenti Europei di calcio era il volto dei post-partita —. Purtroppo però mi sono state rivolte, e rese pubbliche, accuse del tutto false. Sono sicuro che riuscirò a dimostrare la loro infondatezza facilmente e in tempi brevi”. La relazione tra Varriale e l’ex compagna, una giovane imprenditrice, era iniziata circa un anno fa. L’ex fidanzata si era anche trasferita a Roma dalle Marche, senza escludere una futura convivenza. Poi la situazione che precipita a causa del nervosismo di Varriale, almeno secondo quanto ricostruito dalla Procura: peserebbe anche la mancata riconferma del giornalista alla vicedirezione di Rai Sport. Una tensione che sarebbe sfociata in violenza il 6 agosto scorso, quando secondo l’accusa Varriale “durante un alterco per motivi di gelosia, la sbatteva violentemente al muro, scuotendole e percuotendole le braccia, sferrandole dei calci e, mentre la parte offesa cercava di rientrare in possesso del cellulare che le aveva sottratto, le afferrava il collo con una mano, cagionandole lesioni”. Subito dopo quindi la decisione dell’ormai ex compagna di troncare i rapporti e di recarsi al pronto soccorso del Policlinico Gemelli. Non a caso agli atti è allegato il referto dei medici. Quindi la presunta insistenza dell’ex vicedirettore Rai avrebbe spinto la donna a presentarsi negli uffici di polizia e presentare formale denuncia il 14 settembre scorso.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Valentina Lupia e Andrea Ossino per repubblica.it il 22 novembre 2021. Ha molestato, minacciato e picchiato la sua compagna. Enrico Varriale va a processo senza neanche passare dall’udienza preliminare. Secondo i magistrati romani infatti le prove a carico dell’ex direttore di Rai Sport sono schiaccianti. Varriale dunque sarà costretto ad accomodarsi nel banco riservato agli imputati, in un’aula del tribunale penale di piazzale Clodio, dove si difenderà dalle accuse di “stalking” e “lesioni” nate in seguito alla denuncia dell’ex compagna. 

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 23 novembre 2021. Enrico Varriale andrà a processo con il rito immediato. L'ex vicedirettore di Raisport è accusato dalla procura di Roma di lesioni e stalking dalla sua ex compagna, che lo ha denunciato nei mesi scorsi. La donna afferma di essere stata «picchiata, presa a schiaffi, sbattuta contro il muro, insultata» il 6 di agosto ed essere poi stata «perseguitata con telefonate di notte, appostamenti sotto il suo appartamento alle 6 della mattina». Il pm Maria Gabriella Fazi ritiene che ci siano elementi sufficienti per il rinvio a giudizio, per questo adesso il giornalista dovrà affrontare il processo.

LA DIFESA

Varriale, dal canto suo, ha sempre respinto le accuse. «Il rapporto tra di noi era teso - ha spiegato al Messaggero - L'avevo lasciata a metà luglio. Tra noi non c'è mai stata una convivenza ma solo incontri quando lei poteva raggiungermi da Pesaro. Mi rammarico profondamente per quello che è accaduto quel sei di agosto, non ho mai fatto una cosa del genere. In passato - aggiunge il giornalista - c'era stata una reazione violenta da parte sua. Fui aggredito il 29 di agosto mi lanciò addosso un computer perché avevo cambiato la password. Dopo siamo andati anche in vacanza. La relazione tra noi, comunque, era ormai ai minimi termini». «Per me - aggiunge - è un momento terribile. Sto incassando la vicinanza della mia attuale compagna, della mia ex moglie e delle mie figlie. Purtroppo si sono verificate, nella parte finale della relazione, da ambo le parti comportamenti non corretti». E ancora, aggiunge Varriale, «non l'ho mai stalkerizzata, volevo un chiarimento. Nei 40 giorni in cui sarei accusato di atti persecutori nei suoi confronti, per 25 giorni ero fuori Roma. Sono stato frainteso, per me essere dipinto come uno stalker o come uno che picchia le donne è un dramma». Infine, aggiunge il giornalista, il «processo immediato mi darà la possibilità di chiarire tutto, ho fiducia nella magistratura, non vedo l'ora che finisca questo supplizio» 

LE ACCUSE

Le carte della procura raccontano di un rapporto degenerato il 6 agosto, dopo un periodo di tensione: «Durante un alterco per motivi di gelosia», il giornalista «la sbatteva violentemente al muro scuotendole e percuotendole le braccia, sferrandole violentemente dei calci». Dopo l'aggressione si tronca definitivamente la relazione ma, per i magistrati, Varriale avrebbe cercato di entrare in contatto «ossessivamente» con lei. Già nei mesi scorsi il gip, Monica Ciancio, aveva disposto la misura cautelare del «divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa» oltre a due prescrizioni «non comunicare con lei» neppure «per interposta persona» e «allontanarsi immediatamente in caso di incontro fortuito, riponendosi a 300 metri di distanza». «Siamo fiduciosi- spiega l'avvocato Fabio Lattanzi - di vedere riconosciuta l'innocenza del Varriale e di chiudere definitivamente questa brutta storia».

Valentina Lupia e Andrea Ossino per "la Repubblica - Roma" il 24 novembre 2021. "Solo adesso ho ricominciato a dormire. Tra la denuncia e il divieto di avvicinamento sono trascorsi due mesi. Intanto io avevo paura anche quando ero chiusa dentro casa, ho capito cosa significa avere attacchi di panico, sono dimagrita cinque chili. Ho seguito i consigli della polizia, ho memorizzato chiamate e messaggi senza bloccarlo, ma ogni volta che provava a contattarmi mi tornava in mente la sua mano sul mio collo, il suo pollice sul lato della mia gola, la sensazione di essere strozzata". La forza di Giulia vacilla solo quando ripensa al 6 agosto scorso, all'aggressione che denuncia di aver subito da Enrico Varriale. Il suo nome è di fantasia e si racconta con la voce rotta e una bella boccata di coraggio per lanciare un messaggio: "Voglio evidenziare le falle di un sistema che funziona solo se si ha la fortuna di incontrare persone competenti, ma che non mi ha tutelato abbastanza", dice. La velocità con cui si è attivato il codice rosso, la procedura nata per proteggere le vittime di violenza, non basta. Giulia ha atteso quasi due mesi prima di essere protetta da un provvedimento che impedisce all'ex vicedirettore di Rai Sport di avvicinarsi a lei. Il processo accerterà eventuali responsabilità, ma la lei ha deciso: "Voglio raccontarvi cosa accade alle vittime di violenza".

Giulia, perché ha deciso di parlarci?

"È difficile affrontare la situazione in cui mi trovo, ma tutto ciò ha un senso se io posso essere uno strumento per veicolare alcuni messaggi, per far capire ciò che non va in un sistema che mi ha aiutata solo perché ho avuto la fortuna di incontrare persone competenti. Le donne non devono  trascurare i segnali ma rivolgersi subito ai centri anti violenza e denunciare. Nel frattempo una rete di affetti è l'unica cosa che può proteggere mentre la giustizia fa il suo corso. I tempi non sono così brevi come sembrano".

Tre mesi per chiudere le indagini. In Italia è un record.

"Sì, ma sono trascorsi due mesi tra la denuncia e il divieto di avvicinamento. Lui continuava a cercarmi, ricevevo messaggi, mi citofonava, ha affittato un film con la mia carta di credito. Ogni giorno era una tortura. Non mangiavo, ho perso 5 chili, sbirciavo dalle tende come fanno gli anziani e mi sentivo spiata. Non mi contattava tutti i giorni, ma ho ricevuto centinaia di messaggi e telefonate. Ogni volta che suonava il citofono tornavo al momento dell'aggressione, sentivo le mani stringersi intorno al mio collo, il pollice sulla mia gola. Mi era stata assicurata protezione, ma ero sola, con il rischio di cedere alle richieste di incontro. Ho ricominciato a dormire solo due giorni dopo il provvedimento". 

Due mesi possono essere lunghi.

"Se non sei emotivamente strutturata puoi anche cedere alle richieste di incontri, puoi ricascarci. Lui veniva sotto casa, chiedeva di vederci". 

Lei non ha denunciato subito.

"Mi sento un'idiota adesso, ma in quel momento non ero lucida, avevo paura. La querela è un atto che aiuta a rendere la vicenda oggettiva. Io mi sentivo in colpa, c'è anche un lato sentimentale. Il 6 agosto, quando mi ha aggredita, urlavo ma Roma era deserta, c'era solo il portiere che è arrivato incontrando Enrico mentre scendeva le scale".

A quel punto ha chiamato la polizia?

"No, io non volevo. Dopo i segni sulle braccia sono diventati evidenti, io in quei giorni andavo in giro con le maniche lunghe. Un amico e l'avvocato mi hanno convinta a farmi vedere da un medico e sono andata all'Ospedale Gemelli. I dottori hanno poi avvisato la polizia, da protocollo. Mi ha chiamato un ispettore del commissariato di Ponte Milvio dicendo che doveva vedermi con urgenza. È una persona molto preparata, mi ha spiegato quali erano le opzioni che avevo. Io non volevo neanche chiamare un centro anti violenza, non volevo metterlo nei guai". 

Poi cosa è cambiato?

"La sera stessa in cui ho parlato con l'ispettore lui mi ha citofonato. Ho avuto un attacco di panico, ero immobilizzata. Poi ancora all'alba del giorno dopo, era domenica. Ho atteso il lunedì e il 9 agosto ho querelato. Ho perso troppo tempo. Ma mi sono chiesta: se succedesse a una mia amica cosa le consiglierei?. Quando alla fine mi sono rivolta al centro anti violenza tutto è stato chiaro. Ho iniziato a rileggere gli eventi, a metterli in fila. Tutti gli scatti di ira, le pretese che aveva nei miei confronti. Erano solo l'inizio della spirale di violenza. La violenza fisica è l'ultimo atto, prima ci sono i soprusi psicologici". 

E dopo la querela?

"La polizia mi ha sentito entro tre giorni, come prevede il codice rosso, mi hanno detto cosa fare". 

Quindi in qualche modo lei era tutelata?

"Insomma, una volta quando mi ha citofonato ho avuto il panico, ho chiamato una mia amica, poi la polizia ma è arrivata 45 minuti dopo, quando lui era già andato via: erano le 21.10 del 30 agosto, era rimasto lì per più 40 minuti, telefonando continuamente e chiedendo di incontrarmi. Per questo occorrono tempi più rapidi. Io ho iniziato a rivivere solo dopo il divieto di avvicinamento, da quel momento non mi ha più cercata". 

Dopo è stata meglio?

"Sì, ma è una situazione difficile da affrontare. La notizia è apparsa sui giornali, poi le indagini, la testimonianza in procura. La ferita si riapre ogni volta, sono ancora fragile, tremo ogni volta che suona il citofono". 

Il percorso è ancora lungo, ci sarà un processo per accertare se ciò che dice è vero. Riesce a perdonare?

"Il perdono è un atto soggettivo, la giustizia invece è un atto sociale che non può essere comprato. Tutte le donne vittime di violenza subiscono conflitti interiori, ma occorre denunciare, la querela aiuta tutti e interrompe la spirale di violenza. Poi occorre costruirsi una rete di affetti che sostenga in quei momenti in cui si è vulnerabili".

Cosa suggerisce alle donne che affrontano situazioni simili?

"Capite, informatevi, non si deve dimenticare, non si può andare avanti nella speranza che la situazione migliori, le cose vanno affrontate, non si deve tornare indietro, non si può scendere a compromessi, ho rifiutato un'offerta di denaro per ritirare la querela. La dignità non è negoziabile. Però è necessario estirpare le falle del Codice Rosso: le sensazioni che ho provato io con lui sotto casa attaccato al citofono, c'è chi le vive col marito sul divano. Queste donne non possono aspettare due mesi".

Giampiero Mughini per Dagospia l'1 dicembre 2021. Caro Dago, Enrico Varriale è un giornalista televisivo molto noto al grande pubblico e dunque è del tutto ovvio che i mass-media ci inzuppino il pane su questa sua allarmante vicenda di una donna (con cui lui aveva un tormentato rapporto sentimentale) che lo accusa di averla scaraventata contro il muro, di averla stretta alla gola, di averla colpita anche con dei calci. Bruttissima vicenda personale ancor prima che penale, ovvio. Ho detto vicenda personale a marcare quanto sia difficile per la legge e per i suoi codici entrare in questo reame, di quel che accade ogni volta tra gli esseri umani, in particolare tra gli uomini e le donne. Lo dico dopo aver letto l’intervista che Varriale ha rilasciato a Marco Mensurati sulla “Repubblica” di oggi. Un’intervista dove ogni parola, e stavo per dire ogni virgola, eccome se aveva il suo peso. Varriale ammette le sue colpe diciamo così fisiche, d’esser andato di forza contro una donna, ma nega di essere “un mostro”. In linea di principio lui è della linea che “le donne non si battono neppure con un fiore”, la linea che per quanto mi riguarda sta all’articolo uno della mia Costituzione personale. E con tutto ciò racconta la dinamica - personale, personalissima - del suo rapporto con questa donna che lo accusa pesantemente. Una donna cui lui (un single perfettamente libero sentimentalmente) teneva molto, non voleva che fosse un rapporto fugace ed estemporaneo. Si incontravano e si scontravano. Lei c’era, e poi in certi momenti non c’era più. Lui era cortese e cavaliere, in altri momenti lo era di meno. C’erano tra loro parole azzeccate e parole che li mettevano in conflitto. Tensione dopo tensione arrivano a un momento deprecabile dove lui effettivamente le mette le mani addosso e se ne approfitta del fatto che nella media un uomo è più forte di una donna. Starà ai giudici capire la sequenza dei loro atti vicendevoli, soppesarne la natura, decidere. Non credo sia facile. Ciò che è delle persone è intriso di sfumature, ammette raramente il bianco e nero. Al tempo della mia giovinezza ci fu un caso clamoroso a Milano. Un professore di liceo rinomatissimo a sinistra venne accusato da una sua fidanzata/amica di averla stuprata a casa sua. Lui andò in cella. Il giornale per cui lavoravo mi chiese di occuparmi della faccenda. Chiamai la notissima avvocata che tutelava la ragazza. Le chiesi com’è che, per essere stata la violenza di un uomo su una donna, i collant della ragazza risultavano intatti. Mi disse che la ragazza aveva avuto paura che se avesse tentato di difendersi le cose per lei sarebbero andate ancor peggio. Il professore di liceo è stato poi assolto. L’ho incontrato molti anni, nella casa milanese del mio amico Alfio Caruso. Perdonatemi, ma non ho avuto dubbi che di violenza in quel tormentato rapporto tra un ragazzo e una ragazza di trent’anni prima di violenza non ce ne fosse stata. C’era stato molto altro, di tanto più complesso, su cui la legge ha difficoltà a intervenire, a sentenziare. E’ difficile metter becco nei rapporti fra uomini e donne. Trenta e passa anni fa venne a casa mia una donna che conoscevo da tempo. Eravamo amici. Lei era single, io ero assolutamente single. Cenammo l’uno di fronte all’altro e poi andammo in un’altra stanza di casa mia, lei seduta su una poltrona, io seduto sulla poltrona di fronte. Ci conoscevamo da tempo, eravamo amici, eravamo single entrambi, le parole tra noi erano calde. A un certo punto io mi avvicinai di dieci o quindici centimetri verso la sua bocca con l’intenzione di baciarla. Lei alzò un dito a opporsi, non più di un dito. Immediatamente io mi ritrassi. Parlammo ancora a lungo. Dopo di che l’accompagnai alla sua macchina posteggiata lì vicino, la mano sulla sua spalla, e la baciai in fronte nel salutarla. Qualche anno dopo, mentre stavo parlando con una che lavorava nello stesso giornale in cui avevo lavorato io e la mia amica di cui ho detto (la chiamerò “Tizia”), lei mi disse che “Tizia” le aveva confidato che io con lei ci avevo “provato”. Usò questo termine ignobile, “provato”. Una tale ingiuria, una tale bestemmia, una tale porcheria che lei dopo una serata che era stata interamente nostra e soltanto nostra, nella quale non era avvenuto nulla di efferato nei confronti della sua femminilità, lei si “vendesse” al primo venuto che io l’avevo importunata. Ricordo che a quel racconto ne diventai verde di rabbia, di una tale menzogna, di una tale ingiuria, di una tale volgarità. E ancor oggi ne fremo di rabbia. “Tizia” non l’ho mai più reincontrata. Per sua fortuna?

Andrea Ossino per “la Repubblica - ed. Roma” il 2 dicembre 2021. «Con un messaggio WhatsApp la minacciava di farle perdere la collaborazione con il giornale Milano Finanza, sfruttando la sua rete di influenze». Prima l'aggressione, poi i numerosi tentativi di entrare in contatto con la donna che aveva deciso di interrompere la relazione. E infine gli insulti e quelli che al giudice non sembrano esattamente tentativi di chiarimento. Nel processo che inizierà il prossimo mese, Enrico Varriale, ex vicedirettore di Rai Sport, avrà la possibilità di difendersi in aula anche dalle accuse riportate nel decreto di giudizio immediato e nell'ordinanza con cui il gip Monica Ciancio ha imposto all'indagato di non avvicinarsi alla vittima: " aveva mandato dei messaggi con cui le prospettava di essere intenzionato a sfruttare il suo ascendente per incidere negativamente sui rapporti di collaborazione con il giornale", si legge negli atti. Enrico Varriale, secondo le accuse, il 21 agosto, quindi circa due settimane dopo aver picchiato la vittima, le ha scritto che le avrebbe fatto perdere il lavoro. Al messaggio in questione la donna non avrebbe risposto, così come non avrebbe mai replicato agli insulti sessisti ricevuti: " Sei una delle donne peggiori che io abbia mai conosciuto. Una vera tro.. ma tr... proprio nell'anima", recita la parte finale di un sms WhatsApp in cui Varriale, tra il 6 e il 7 agosto, dopo aver citofonato "insistentemente" alla vittima, le ha detto di aver visto "la sua macchina sotto casa e di aver provato a bussare". Forse sarà per questo che la donna afferma di avere avuto l'impressione di sentirsi seguita. Del resto in un'altra occasione, il 30 agosto, " dopo aver continuato a indirizzarle numerosissime telefonate e messaggi, intorno alle 21 - scrive il giudice riferendosi all'indagato citofonava alla sua abitazione e, non ottenendo risposta, vi stazionava con l'autovettura per circa mezz' ora, telefonandole per 11 volte e scrivendole numerosi messaggi quali " ho visto la luce accesa e volevo salutarti, ingenerando nella persona offesa un attacco di panico per poi salire in auto, transitare in paio di volte sotto l'abitazione e quindi allontanarsi ". I messaggi, le telefonate, il citofono che suona " nella tarda serata". Sono tutti comportamenti che, secondo i magistrati, si inseriscono in un quadro di molestie, di stalking, secondo il pm Gabriella Fazi. Proprio come la minaccia che il potente giornalista rivolge alla collaboratrice di un giornale. Una situazione, come denuncia la vittima, che la avrebbe costretta " a guardarsi sempre intorno quando usciva nel timore di incontrarlo". Il codice rosso ha riservato una corsia preferenziale al procedimento, ma se due mesi scarsi per arrivare a un'ordinanza cautelare possono essere un tempo rapido per la giustizia, non lo sono per le vittime. In questo caso la donna, in una seconda denuncia, " spiegava che l'indagato continuava a mandarle messaggi e a telefonarle e si appostava nei pressi della sua abitazione". Il risultato? "uno stato d'ansia continuo, con stati di agitazione e preoccupazione che la inducevano a vivere barricata in casa, timorosa di incontrarlo ogni volta che usciva o rientrava alla sua abitazione, con attacchi di panico, fatica nella respirazione e tachicardia che la immobilizzavano". 

Estratto dell’articolo di Marco Mensurati per la Repubblica l'1 dicembre 2021. «Lo so benissimo, ho fatto qualcosa che non può e non deve essere fatto. Mai». Per questo Enrico Varriale ha accettato di spiegare a Repubblica come sia stato possibile che un giornalista affermato, un personaggio pubblico abbia potuto - per citare il gip Monica Ciancio - durante una lite per gelosia, sbattere la propria compagna al muro e prenderla a calci.

«Ma so anche che non sono il mostro di Milwaukee e penso che sia giusto dire come sono andati davvero i fatti». 

(...) 

Il problema però non è quello che le è successo il 27 settembre, ma quello che è successo alla sua compagna il 6 agosto.

«Prima mi permetta di spiegare come siamo arrivati a quel giorno. Lei viveva a Pesaro col marito. Io ero un uomo libero, a Roma. Ho due figlie grandi ma mi sono separato da mia moglie tanto tempo fa. Con la Signora avevamo cominciato a frequentarci a novembre. Lei veniva a Roma, da me, una settimana sì e una no. Era "prigioniera" - diceva così - di un matrimonio inesistente. Piangeva al telefono, si sentiva in gabbia. Ritenevo la cosa umiliante per lei e per me, così le ho chiesto di scegliere, un rapporto saltuario non mi interessava. A maggio, come tappa intermedia aveva affittato una casa vicino alla mia. Però le ho detto: il 15 luglio dopo gli Europei o prendi una decisione o la finiamo. Non ebbi risposta. Il 29 luglio ci vediamo a Roma per decidere se fare qualche giorno di vacanza insieme in Costiera amalfitana. Quella sera lei si accorse che avevo cambiato password al computer - prima usavo il suo nome - ha dato di matto e mi ha tirato il computer in faccia. Poi però abbiamo fatto pace e siamo partiti».

Il 6 agosto che cosa è successo?

«Il 5 agosto a sera da Pesaro mi ha raggiunto di nuovo. Eravamo a casa, lei stava rifacendo il letto e mi ha provocato. Ha cominciato ad accennare alle mie avventure ». 

L'aveva tradita?

 «Dal 15 luglio ero un uomo libero. Prima l'ho rispettata, in ogni senso».

Che è successo, quindi?

«La sera del 5 non sono caduto nelle provocazioni e me ne sono andato».

E il giorno dopo?

«Di quel giorno voglio dire due cose. La prima: non le ho mai messo le mani al collo». La sua compagna ha denunciato questo. «Al Gemelli le hanno fatto una prognosi, di cinque giorni... Un'abrasione alla base del collo...solo un'abrasione. La seconda cosa è che ci siamo colpiti tutti e due. Non l'ho picchiata. Non ho provato a strangolarla. È stato un litigio. Alla fine avevo l'occhio pesto, quello messo peggio ero io...»  

(...) 

Ma cosa le è venuto in mente? Si è chiesto come sia stato possibile?

«Stavamo litigando. Io parlavo lei chattava», mima il gesto. «Le chiedo di smettere. E una volta, e due e tre. Le tiro via il telefonino. Lei mi salta addosso. Non le ho mai messo le mani alla gola. Sono cose che non devono capitare. Non mi sono controllato. Ma non sono un violento, non sono uno stalker, non ho provato a strangolarla». 

Ecco, lo stalking, il giudice l'accusa anche di aver "ossessivamente cercato" di contattare la sua ex.

«Non sono uno stalker».

I messaggi al telefonino

«Dal sei agosto al 27 settembre, 43 messaggi. Eravamo abituati a scambiarcene trenta-quaranta al giorno. Se mi avesse detto "mi disturbi" sarei sparito, ma lei non rispondeva né mi ha bloccato. Per altro in quei 40 giorni, 25 sono stato fuori Roma». 

(ANSA il 9 dicembre 2021) - Enrico Varriale si dichiara "vittima di una folle gelosia" e promette un'azione legale dopo essere stato denunciato da una donna per presunti maltrattamenti, accusa che gli ha rivolto anche la sua ex compagna. "Ieri alle 22.30 la donna con cui ho una relazione ha dapprima citofonato insistentemente. Successivamente ha cominciato a bussare alla porta di casa e alla fine ho ceduto e le ho aperto. E' entrata e come una furia, in preda ad un raptus di gelosia ha iniziato a distruggeremi casa -scrive Varriale nella sua ricostruzione- Piatti. Bicchieri, soprammobili, qualunque cosa le capitava sotto mano mi veniva tirata addosso e distrutta. Ho provato a bloccarla ed ha cominciato ad urlare "non mi toccare, ti denuncio"". "Ha preso il telefono e chiamato la Polizia e l'autoambulanza. - prosegue Varriale- Io spettatore allibito l'ho implorata di fermarsi, alla fine ho capito che solo l'intervento della polizia poteva fermarla. Però prima dell'arrivo degli agenti è uscita di casa e non ho saputo più nulla". "Posso documentare tutto. Ho fotografato la mia abitazione o meglio quello che resta della mia abitazione. Ed in relazione a ciò ho dato mandato ai miei avvocati d'intraprendere le necessarie azioni legali", conclude Varriale.

"Dopo lo schiaffo sono svenuta, al risveglio puzzavo di aceto e la porta era serrata". La Repubblica il 12 dicembre 2021. Gli occhi lucidi, un referto medico in tasca e un racconto da brividi. Sara ha ancora la guancia gonfia mentre consegna agli inquirenti una versione profondamente diversa da quella che Enrico Varriale ha fornito quando è emersa la notizia che, ancora una volta, una donna lo ha denunciato, accusandolo di averle messo le mani addosso. Le sue confessioni, approdate tra i corridoi della procura di Roma, hanno convinto gli inquirenti ad aprire un altro fascicolo sul giornalista.

Valentina Lupia e Andrea Ossino per “la Repubblica” il 12 dicembre 2021. Gli occhi lucidi, un referto medico in tasca e un racconto da brividi. Sara ha ancora la guancia gonfia mentre consegna agli inquirenti una versione profondamente diversa da quella che Enrico Varriale ha fornito quando è emersa la notizia che, ancora una volta, una donna lo ha denunciato, accusandolo di averle messo le mani addosso. Le sue confessioni, approdate tra i corridoi della procura di Roma, hanno convinto gli inquirenti ad aprire un altro fascicolo sul giornalista. Il racconto di Sara, il nome è di fantasia, delinea un quadro grave di ciò che sarebbe accaduto mercoledì sera nell'appartamento di Varriale, in zona Ponte Milvio. Lui dice di essere stato «vittima di una folle gelosia» e ha detto che Sara gli ha distrutto casa. Lei invece spiega di essere stata aggredita tra quelle mura, mentre la porta dell'appartamento era chiusa a chiave. E racconta di essere stata minacciata: «Se mi denunci ti ammazzo», avrebbe detto il giornalista. La situazione sarebbe esplosa quando Sara ha sorpreso Varriale con un'altra donna. Ne sarebbe nata una discussione, con piatti e bicchieri lanciati all'indirizzo della vittima. Poi l'aggressione, con Varriale che avrebbe afferrato la donna sbattendola contro la porta. Una piantana finita su un tavolino di vetro, andato in frantumi, avrebbe mandato il giornalista su tutte le furie. Avrebbe quindi sferrato un ceffone al volto della donna, che cadendo avrebbe sbattuto la testa (come conferma il trauma cranico refertato all'ospedale Gemelli). Da qui il vuoto: Sara racconta di aver perso i sensi e di essersi poi risvegliata con gli occhi arrossati e una strana puzza d'aceto. Si è alzata, è andata in bagno e ha poi cercato di uscire di casa. Ma la porta era chiusa a chiave. È a questo punto che avrebbe chiamato il 112, lanciando l'allarme tra le urla e le minacce del giornalista. Dopo aver chiamato il numero unico per le emergenze, Sara sarebbe riuscita a uscire dall'appartamento accusando il giornalista di sequestro. È scesa in strada, dove è stata soccorsa dall'ambulanza. Anche Varriale si sarebbe allontanato dall'appartamento, tant' è che la polizia, giunta sul posto, non ha trovato nessuno. L'ospedale ha comunque avvisato le autorità. E la faccenda è finita nelle mani degli specialisti del commissariato di Ponte Milvio, che nell'agosto scorso avevano già raccolto la denuncia della precedente compagna di Varriale, la stessa donna da cui è nato il procedimento che il mese prossimo vedrà l'ex vicedirettore di Rai Sport accomodarsi nel banco degli imputati. Ora le due storie potrebbero intrecciarsi. Perché Sara potrebbe confermare se, come Varriale ha raccontato a Repubblica , aveva un occhio nero a causa di una colluttazione con la prima donna che lo ha accusato. O, viceversa, smentirlo fornendo nuove prove. Circostanze che, come altri elementi, adesso verranno verificate dai magistrati.

Enrico Varriale schiaffeggia la fidanzata: indagine in Procura. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2021. Roma, la compagna l’avrebbe trovato in casa con un’amica e ne sarebbe nata una lite. Ha denunciato il giornalista per maltrattamenti ed è stata refertata al policlinico Gemelli. Varriale nega lo schiaffo: «Sono vittima di una folle gelosia». Serata turbolenta quella vissuta mercoledì 8 dicembre da Enrico Varriale, che rischia nuovi guai giudiziari: il giornalista avrebbe dato uno schiaffo alla sua compagna. Varriale, già accusato di stalking e violenza da una ex con cui ha avuto una relazione cominciata in primavera, avrebbe dato il ceffone all’attuale partner durante una lite esplosa in seguito a una sua visita inattesa. Dopo lo schiaffo la vittima lo ha denunciato per maltrattamenti e si è fatta refertare al Gemelli. Varriale, 61 anni, nega di averla picchiata e promette a sua volta un’azione legale. La vicenda è all’esame della Procura. Questa la ricostruzione di Varriale che, difeso dall’avvocato Fabio Lattanzi, si dichiara «vittima di una folle gelosia». «Ieri (mercoledì 8, ndr) alle 22.30 la donna con cui ho una relazione ha dapprima citofonato insistentemente. Successivamente ha cominciato a bussare alla porta di casa e alla fine ho ceduto e le ho aperto. È entrata e come una furia e in preda a un raptus di gelosia ha iniziato a distruggermi casa. Piatti, bicchieri, soprammobili, qualunque cosa le capitava sotto mano mi veniva tirata addosso e distrutta. Ho provato a bloccarla e ha cominciato a urlare: “Non mi toccare, ti denuncio”». Quindi «ha preso il telefono e chiamato la polizia e l’autoambulanza. Io spettatore allibito l’ho implorata di fermarsi, alla fine ho capito che solo l’intervento della polizia poteva fermarla. Però prima dell’arrivo degli agenti è uscita di casa e non ho saputo più nulla». Infine il giornalista assicura: «Posso documentare tutto. Ho fotografato la mia abitazione o meglio quello che resta della mia abitazione. Ed in relazione a ciò ho dato mandato ai miei avvocati d’intraprendere le necessarie azioni legali». Quello che manca nella ricostruzione di Varriale, e che invece risulterebbe dalla denuncia, è che la partner lo avrebbe trovato in casa a cena con un’amica. La fidanzata avrebbe cominciato appunto ad afferrare piatti, bicchieri e soprammobile li gettandoli a terra e il giornalista avrebbe perso il controllo e le avrebbe dato uno schiaffo. A quel punto la compagna sarebbe caduta in terra, sarebbe rimasta intontita qualche attimo e poi, una volta ritornata cosciente , avrebbe avvertito la polizia e si sarebbe recata al policlinico Gemelli.

Sulla vicenda sta indagando la Procura di Roma, che però non ha ritenuto di dover adottare alcun tipo di provvedimento nei confronti del giornalista.

Varriale ci ricasca. Un'altra donna lo accusa: "Mi ha picchiato". Valentina Lupia e Andrea Ossino per repubblica.it il 9 dicembre 2021. La telefonata arrivata nel cuore della notte al 112 potrebbe dare più di un pensiero a Enrico Varriale. Perché ad effettuare quella chiamata al numero unico d’emergenza è stata una donna che ha detto di essere stata picchiata dall’ex vicedirettore di Rai Sport, già accusato di aver aggredito e molestato la sua ex compagna e per questo in procinto di affrontare un processo tra le aule del tribunale di Roma. I nuovi fatti risalgono a ieri sera, ma ricordano molto le accuse che hanno già portato Varriale davanti alla giustizia. In realtà, in questo caso anche il giornalista si sarebbe rivolto alle forze dell’ordine. Ancora una volta alla base del litigio ci sarebbe una questione di gelosia che avrebbe fatto infuriare una donna. Non riuscendo a entrare in contatto con Enrico Varriale, la signora avrebbe bussato alla porta della sua abitazione, dalle parti di ponte Milvio. Ed è qui che sarebbe andata in escandescenza. Sarebbe nata un’accesa discussione proseguita nel peggiore dei modi, con Enrico Varriale che, ancora una volta, colpisce con uno schiaffo una donna. Poi le telefonate alle forze dell’ordine. Ma quando la polizia è arrivata sul posto non c’era nessuno. In assenza di flagranza di reato la procura non ha disposto alcuna misura cautelare. Varriale infatti non era in casa. E la donna era già uscita per andare in ospedale, al Gemelli. Ed è li che ha raccontato cosa è accaduto, spiegando anche di aver perso momentaneamente conoscenza dopo aver sbattuto in seguito allo schiaffo ricevuto. La faccenda è quindi arrivata nelle mani degli esperti del commissariato di Ponte Milvio. E presto un resoconto dei fatti finirà in procura, presumibilmente all’attenzione dello stesso pubblico ministero che recentemente ha già chiesto e ottenuto il processo per Enrico Varriale. Spetterà dunque al sostituto procuratore Gabriella Fazi appurare ciò che è successo e capire se quello che la donna ha raccontato è vero e supportato da prove. Se dovesse essere confermata la narrazione, per Enrico Varriale la situazione potrebbe aggravarsi.

Il giornalista: "Lei era una furia, mi ha distrutto casa. Posso documentare tutto". Enrico Varriale, è gogna continua: donna lo aggredisce fin dentro casa e poi lo accusa. Redazione su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Enrico Varriale, il giornalista volto di Rai Sport, ieri sera è stato accusato di aver picchiato una donna nel suo appartamento a Ponte Milvio, a Roma nord. La segnalazione è arrivata ieri sera, quando una donna, con la quale Varriale aveva una relazione, ha raccontato di essere stata schiaffeggiata dal giornalista dopo un litigio, nato per una questione di gelosia che avrebbe fatto infuriare la vittima.

Al culmine della violenta lite, in cui la donna avrebbe messo a soqquadro l’appartamento del giornalista, l’ex vicedirettore di Rai Sport la avrebbe colpita con un forte schiaffo, facendole perdere i sensi. La donna, una volta rinvenuta, ha chiamato gli agenti del commissariato di Ponte Milvio e si è poi recata al pronto soccorso del Gemelli per farsi refertare.

Anche il giornalista ha chiesto l’intervento delle forze dell’ordine. Ma quando i poliziotti sono arrivati e hanno citofonato, non hanno trovato nessuno. In assenza di flagranza di reato la procura non ha disposto alcuna misura cautelare. Questa la sua versione: “Ieri alle 22.30 la donna con cui ho una relazione ha dapprima citofonato insistentemente. Successivamente ha cominciato a bussare alla porta di casa e alla fine ho ceduto e le ho aperto. È entrata e come una furia, in preda ad un raptus di gelosia ha iniziato a distruggermi casa. Piatti. Bicchieri, soprammobili, qualunque cosa le capitava sotto mano mi veniva tirata addosso e distrutta. Ho provato a bloccarla ed ha cominciato ad urlare: Non mi toccare, ti denuncio”.

L’ex vicedirettore di Rai Sport ha detto che a quel punto la donna ha preso il telefono e ha chiamato la Polizia e ambulanza. “Io, spettatore allibito, l’ho implorata di fermarsi, alla fine ho capito che solo l’intervento della polizia poteva fermarla. Però prima dell’arrivo degli agenti è uscita di casa e non ho saputo più nulla”, ha aggiunto. “Posso documentare tutto. Ho fotografato la mia abitazione, o meglio, quello che resta della mia abitazione. Ho dato mandato ai miei avvocati d’intraprendere le necessarie azioni legali”, conclude Varriale.

Le accuse di stalking

Il telecronista napoletano è già stato denunciato per aver aggredito e molestato la sua ex compagna ed per questo è in procinto di affrontare un processo tra le aule del tribunale di Roma. Il giornalista ed ex vicedirettore di Rai Sport è accusato dalla Procura di Roma di atti persecutori e lesioni personali nei confronti dell’ex fidanzata. “Mi ha picchiata, presa a schiaffi, sbattuta contro il muro, insultata. Mi perseguita con telefonate di notte, si apposta sotto casa, citofona alle 6 di mattina”, sono le accuse gravissime che arrivano dall’ex compagna, con la quale aveva programmato di convivere.

Come ha scritto il Corriere della Sera, il gip Monica Ciancio ha disposto nei confronti di Varriale la misura cautelare del divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa, oltre alla duplice prescrizione di “non comunicare con lei” neppure “per interposta persona” e di “allontanarsi immediatamente in caso di incontro fortuito, riponendosi a 300 metri di distanza”.

Insomma, nessun contatto tra le parti in virtù, è la valutazione del gip, di una personalità “aggressiva e prevaricatoria, evidentemente incapace di autocontrollo”.

Accuse gravissime che Varriale nega con forza. “Non ho mai stalkerizzato nessuno e chi afferma questo ne risponderà in tutte le sedi. È una dolorosa vicenda personale che avrei preferito rimanesse tale — replica il giornalista 61enne, che ai recenti Europei di calcio era il volto dei post-partita —. Purtroppo però mi sono state rivolte, e rese pubbliche, accuse del tutto false. Sono sicuro che riuscirò a dimostrare la loro infondatezza facilmente e in tempi brevi”.

La relazione tra Varriale e l’ex compagna, una giovane imprenditrice, era iniziata circa un anno fa. L’ex fidanzata si era anche trasferita a Roma dalle Marche, senza escludere una futura convivenza. Poi la situazione che precipita a causa del nervosismo di Varriale, almeno secondo quanto ricostruito dalla Procura: peserebbe anche la mancata riconferma del giornalista alla vicedirezione di Rai Sport.

Il rapporto tra i due è proseguito tra alti e bassi fino a una degenerazione lo scorso 6 agosto, quando, durante un alterco per motivi di gelosia, Varriale avrebbe colpito violentemente la donna, sbattendola ripetutamente contro il muro e sferrandole dei calci.

Subito dopo quindi la decisione dell’ormai ex compagna di troncare i rapporti e di recarsi al pronto soccorso del Policlinico Gemelli. Non a caso agli atti è allegato il referto dei medici. Quindi la presunta insistenza dell’ex vicedirettore Rai avrebbe spinto la donna a presentarsi negli uffici di polizia e presentare formale denuncia il 14 settembre scorso.

Enrico Varriale: le denunce delle compagne, la lite con Zenga, il Processo di Biscardi, la Nazionale: vita e carriera del giornalista Rai. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2021.  Il giornalista Rai accusato di stalking da una ex sarà processato a gennaio. Ora una donna con cui ha avuto una relazione lo accusa di averla colpita con uno schiaffo, ma lui nega e controdenuncia

L’ultima denuncia

Enrico Varriale, giornalista Rai, rischia nuovi guai giudiziari. Mercoledì 8 dicembre avrebbe dato uno schiaffo alla sua compagna. Varriale, già accusato di stalking e violenza da una ex con cui ha avuto una relazione cominciata in primavera, avrebbe dato il ceffone all’attuale partner durante una lite esplosa in seguito a una visita inattesa di quest’ultima. Dopo lo schiaffo la vittima lo ha denunciato per maltrattamenti e si è fatta refertare al Gemelli. Varriale, 61 anni, nega di averla picchiata e promette a sua volta un’azione legale. La vicenda è all’esame della Procura. Lui, difeso dall’avvocato Fabio Lattanzi, si dichiara «vittima di una folle gelosia» e spiega: «È entrata e come una furia e in preda a un raptus di gelosia ha iniziato a distruggermi casa. Posso documentare tutto. Ho fotografato la mia abitazione o meglio quello che resta della mia abitazione. Ed in relazione a ciò ho dato mandato ai miei avvocati d’intraprendere le necessarie azioni legali».

La carriera in Rai

Varriale diventa giornalista professionista nel 1985, alternando lo studio universitario al lavoro di giornalista presso la tv privata napoletana Canale 21 e redattore presso il quotidiano «Il Mattino». Nel 1986 approda alla sede Rai di Napoli, collaborando con il Tg regionale. Nel 1989 passa alla redazione Rai di Roma e lavora nella redazione sportiva del TG3, diretta da Aldo Biscardi, che lo promuoverà come inviato di punta a «Il processo del lunedì». A Rai Sport, all’epoca «Tgs», arriva nel 1994 e partecipa a programmi come «90º minuto» e «La Domenica Sportiva» in onda su Rai 2. Dal 2000 al 2015 conduce «Stadio Sprint», sempre su Rai 2. Nella sua carriera ha seguito i più importanti tornei di calcio per la Rai. Viene nominato vicedirettore di Rai Sport nel gennaio 2019 e dal settembre 2020 Varriale assume la conduzione di «90º minuto». Nel 2021, in occasione dell’Europeo vinto dall’Italia, ha commentato i pre e post partita della Nazionale di Roberto Mancini. Al momento la Rai lo ha sospeso dal video con una decisione di comune accordo.

L’amore per Napoli

Varriale è nato a Napoli il 22 gennaio 1960. Ha un legame molto forte con la sua città natale ed è un grande tifoso del Napoli. Inoltre, il giornalista Rai ha scritto due libri: «A bordo campo: il calcio oltre la linea bianca» e «Napoli 8 1/2».

La lite con Walter Zenga

Il 16 novembre 2008 andò in scena, al termine della gara tra il Catania e il Torino, una furibonda lite in diretta televisiva alla Rai tra Enrico Varriale e Walter Zenga, all’epoca tecnico dei siciliani. «Avrei preferito che lei non avesse parlato di me alle spalle e non avesse fatto apprezzamenti sul mio conto, sulla mia vita privata e sul mio passato di allenatore», disse Zenga facendo riferimento ai commenti piccati del giornalista dopo il suo mancato intervento a «Stadio Sprint» della domenica precedente. La replica: «Lei, Zenga, è stato un grande portiere, che in carriera ha sbagliato poche uscite, questa è un’uscita sbagliata, simile a quella che ci costò il Mondiale del ‘90 nella semifinale contro l’Argentina. Se vuole parlare di calcio, bene». Zenga rincarò la dose, invitando Varriale a «pensare alle cose della sua famiglia». Il giornalista rispose: «Lei mi sta minacciando, stia attento a quello che dice». In studio Bruno Gentile provò a riportare la calma, ma lo scontro andò avanti. Così Varriale: «Deve stare attento a quello che dice», con Zenga a rispondere con un «Oh, che paura mi fa, sono qua che tremo».

Il processo per stalking

Varriale andrà a processo con rito immediato per stalking nei confronti della sua ex compagna: l’udienza è fissata a gennaio 2022. Lo scorso 30 settembre Varriale era stato sentito nell’interrogatorio davanti al gip, che aveva disposto il «divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa» e di «non comunicare con lei neppure per interposta persona». E ancora: «Le condotte poste in essere da Varriale danno conto di una personalità aggressiva e prevaricatoria, evidentemente incapace di autocontrollo», scriveva il giudice. La presunta vittima, un’imprenditrice di origini marchigiane, ha presentato una prima denuncia a inizio d’agosto. La donna avrebbe sostenuto di essere stata sbattuta contro il muro, percossa e colpita con dei calci durante una lite scoppiata per motivi di gelosia.

La difesa: «Vicenda dolorosa»

«Nessuna prova schiacciante. La Procura ha ottenuto il giudizio immediato come in tutti i processi che hanno a oggetto lo stalking. Siamo confidenti di vedere riconosciuta l’innocenza di Varriale e di chiudere definitivamente questa brutta storia», le parole dell’avvocato difensore, Fabio Lattanzi. Il cronista ha sempre respinto le accuse: «Non ho stalkerizzato nessuno. È una dolorosa vicenda personale. Le accuse nei miei confronti sono false e lo dimostrerò».

Da repubblica.it il 5 ottobre 2021. La terza sezione penale del Tribunale monocratico di Catania ha condannato a una multa di 11 mila euro per diffamazione il giornalista Vittorio Feltri per il suo articolo sulla prima pagina di Libero del 10 febbraio 2017 dal titolo "Patata bollente" sulla sindaca di Roma, Virginia Raggi. Il giudice ha stabilito un risarcimento danni da stabilire in sede civile, fissando una provvisionale di 5 mila euro, il pagamento delle spese legali e la pubblicazione della sentenza sui maggiori quotidiani nazionali. Con Feltri era a processo, per omesso controllo, anche il direttore responsabile del quotidiano Pietro Senaldi, condannato con una multa di 5 mila euro pena sospesa. La Procura aveva chiesto la condanna a tre anni e quattro mesi di reclusione per Feltri e a otto mesi per Senaldi. La competenza del caso è radicata Catania perché è la città in cui è stata stampata per prima la copia del quotidiano. Feltri era stato rinviato a giudizio, dopo la querela di Virginia Raggi che nel processo si è costituita parte civile, in qualità di "direttore editoriale e di autore del pezzo", per avere "offeso la reputazione di Virginia Raggi" con l'articolo in prima pagina, ricorda il giudice, dal "titolo 'Patata bollente' preceduto dal sopratitolo 'La vita agrodolce della Raggi' e seguito dal catenaccio 'La sindaca di Roma nell'occhio del ciclone per le sue vicende comunali e personali. La sua storia ricorda l'epopea di Berlusconi con le Olgettine, che finì malissimò". Il pezzo fu anche ripreso sul sito libero.it e sulla pagina Facebook e sul profilo Twitter del quotidiano.

Senaldi era stato rinviato a giudizio per "avere omesso di esercitare" sull'articolo, "il controllo necessario ad impedire che con esso venisse offeso la reputazione" di Virginia Raggi.

Il caso dell'articolo su Virginia Raggi. Solidarietà a Feltri nel silenzio assordante degli altri giornali. Valter Vecellio su Il Riformista il 30 Settembre 2021.

Cari Feltri e Senaldi, una parola di solidarietà che spero non resti isolata: e siano soprattutto colleghe e colleghi, ad esprimerla. La richiesta di tre anni e quattro mesi di reclusione, più 5mila euro di multa, per Vittorio Feltri; e di otto mesi di carcere per Pietro Senaldi colpevoli di aver scritto e pubblicato il 10 febbraio 2017 (cinque anni fa!) l’articolo “Patata bollente”, mi sembra una balordaggine rara: qualcosa che avrebbe affascinato Gustave Flaubert, “ossessionato” com’era dall’epopea della stupidità culturale e non. Premesso che mai mi sarei espresso nei confronti del sindaco Virginia Raggi (che considero una iattura per Roma) nei termini in cui vi siete espressi; aggiunto che trovo quel titolo di rara volgarità, letteralmente indecente e stupidamente offensivo; non riesco a capire come il magistrato che ha formulato una simile proposta di condanna non si sia reso conto dell’enormità del suo dire e del suo chiedere. Poi, mi ricredo: mi viene in mente una vicenda che mi ha riguardato personalmente, anni fa. Sono stato per qualche tempo direttore responsabile di un settimanale satirico di qualche merito, “Il Male”. In questa veste vengo querelato per una vignetta da altri realizzata. In primo grado, il tribunale di Perugia mi condanna a due anni e sei mesi di carcere senza condizionale. Il tribunale d’appello, a Orvieto conferma. Non mi garba andare in galera per un disegnino, e non mi vergogno di aver messo in mezzo la politica: nella forma di interrogazione al ministro della Giustizia, e firmata da mezzo Parlamento: dalla A di Abbatangelo (deputato del Msi), alla V di Violante (deputato del Pci). Quanto ai colleghi, pochissimi ma buoni, si schierano: Oreste del Buono, Giorgio Forattini, Indro Montanelli, Giampiero Mughini, Marco Pannella, Roberto Roversi, Leonardo Sciascia, Salvatore Sechi. L’allora presidente della Federazione della Stampa, Miriam Mafai, quando le chiedo conto del silenzio, dice che della vicenda non sa nulla; e dopo che lo sa? Nulla lo stesso… Finisce che la Corte di Cassazione trova il modo di cavare le castagne dal fuoco: individua non so quale vizio di forma, spedisce tutto al tribunale dell’Aquila. I magistrati di quella città, giustamente impegnati in cose più serie, infilano lo scartafaccio del processo in qualche armadio; da allora non se ne è fatto più nulla. Particolare non irrilevante: protagonista della vignetta incriminata un magistrato romano. Fossi in Virginia Raggi farei il bel gesto di ritirare subito la querela; non è in questo modo che si “lava” un presunto oltraggio subito. Ma forse è troppo sperare in un gesto generoso e intelligente. Quanto a Feltri e Senaldi, auguro un “in bocca al lupo”. Trovo ottimo il consiglio di Benedetto Croce contenuto in una lettera a Giovanni Amendola a proposito di una disavventura giudiziaria capitata a Giuseppe Prezzolini; il consiglio è “di stare quanto più possibile lontano dai tribunali”. La data della lettera: 1 giugno 1911! Come da allora sia mutato poco, e quel poco non in meglio, ognuno lo sa e lo vede. Valter Vecellio

La vicenda del giornalista. Perché Feltri rischia la cella per un titolo sulla Raggi. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 28 Settembre 2021. Sempre più spesso il dibattito pubblico assume toni a dir poco surreali. Sono giorni ormai che assistiamo alle fibrillazioni della politica per una legge (peraltro fatta dal Parlamento) che ha introdotto la sottoscrizione digitale delle iniziative popolari (referendum e proposte di legge promosse dai cittadini), mentre praticamente nessun dibattito si è acceso di fronte alla notizia della richiesta di reclusione di tre anni e quattro mesi, insieme a una pena pecuniaria, per il direttore Feltri, imputato (insieme al giornalista Senaldi) per diffamazione a mezzo stampa a causa del titolo di un articolo che certamente, ma questa è la mia modesta opinione (estetica più che giuridica), il suo giornale avrebbe potuto evitare. Ancora più surreale la situazione perché i due fatti sono legati da un’intima connessione. Lo scalpore per le firme digitali e il fantasma di valanghe referendarie, infatti, ha espunto dal dibattito un punto fondamentale. I referendum in Italia sono abrogativi, il che vuol dire che la legislazione rimane comunque primariamente nella disponibilità del Parlamento. È il Parlamento che fa le leggi, il popolo può solo abrogarle. E il Parlamento può farle anche ad iniziativa referendaria avviata. Il problema è che il Parlamento le leggi, soprattutto certe leggi, non le fa. Si sottrae, cincischia, insabbia, anche quando magari quelle leggi sono richieste, non dal popolo, ma dalla Corte costituzionale che negli anni si è “sgolata” per chiedere che, in certi settori in cui era stato richiesto il suo intervento, anche il Parlamento facesse la sua parte. Soprattutto in materie complesse in cui la mannaia della dichiarazione di incostituzionalità o la varietà di soluzioni possibili a seguito di una sentenza di annullamento non consentivano al giudice delle leggi di intervenire adeguatamente. Ma in genere non è successo nulla. Il Parlamento ha fatto orecchie da mercante e, talvolta, la Corte è dovuta intervenire nuovamente a metterci una pezza. E qui entra in gioco la vicenda Feltri. Perché in essa si ripropone il copione appena descritto su un tema delicatissimo per la democrazia: l’equilibrio tra la libertà di manifestazione del pensiero (e cronaca) e il diritto alla reputazione e all’onore di chi è interessato da articoli di stampa. È scontato che quando tale equilibrio si rompa anche i giornalisti, come tutti coloro che esprimo opinioni o raccontano fatti, debbano essere sanzionati, anche pesantemente. Il danno che la parola può fare, a volte è molto più grave di una lesione patrimoniale o fisica, perché può imprimere (del tutto infondatamente) un marchio di infamia per il quale non c’è riparazione che tenga. Ne abbiamo viste tante. Il tema di cui si discute (anzi, si dovrebbe discutere), invece, è se tra le tante possibili e pesanti sanzioni, ci debba essere anche quella del carcere (o degli arresti domiciliari) per i giornalisti. Non mi pare un dibattito così secondario, soprattutto nel contesto di un paese lacerato da spinte disgregatrici, dal dilagare di social che propalano continuamente fake news e istigano all’odio tra fazioni di ogni genere. Il tema è invece importantissimo. Dà la misura della civiltà giuridica di un paese. La qualità delle sanzioni (che pur devono esserci) è l’indicatore di come lo Stato risponde alle pulsioni della società. Di quanto sia in grado di collocarsi al di sopra di esse, contrapponendo un criterio di equilibrio e giustizia all’urlo della piazza tentata, talvolta, dall’evocazione del Crucifige o dalla ricerca di continui capri espiatori. Una tentazione che non raramente contagia anche pezzi dello Stato stesso in una cultura giustizialista che, con la giustizia, non ha nulla a che vedere. Ebbene, il caso Feltri (qualcuno dirà, suo malgrado, ma il merito in questo caso è irrilevante) ha un valore paradigmatico. È una concentrazione di tutte le questioni che ho citato poc’anzi. Abbiamo una giurisprudenza univoca (una volta tanto) della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che mette in guardia contro il rischio della detenzione per i giornalisti, tanto da ritenere che, qualora la legge la preveda (ma la Costituzione italiana non la impone, così dice la Corte), la si debba limitare a casi estremi ed eccezionali. E la ragione è semplice: “evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica” (da ultimo, Corte cost. n. 150/2021). Abbiamo i moniti della Corte che, oltre a dichiarare incostituzionale l’art. 13 della legge sulla stampa (proprio perché imponeva senza eccezioni l’applicazione della sanzione detentiva), ha lanciato a più riprese moniti al Parlamento perché intervenisse a disciplinare nuovamente la materia delle sanzioni, per ricondurla a quei canoni di civiltà giuridica che dovrebbero rappresentare le fondamenta dello Stato di diritto. Abbiamo anche la neghittosità del Parlamento, nel quale da anni si discute dell’abolizione del carcere per i giornalisti che commettano il reato di diffamazione. Abbiamo insomma tutti gli elementi della sceneggiatura di questo film già visto ormai fin troppe volte. E che succede? Nulla. Anzi no. Succede che ci si stracci le vesti perché i cittadini, adesso, possono proporre iniziative popolari trovando meno ostacoli su quel percorso da Camel Trophy che sono le procedure per la raccolta delle firme. Del resto, come si può consentire alle istituzioni rappresentative di continuare a sottrarsi ai propri doveri di cui sono investite dalla Costituzione stessa ed erodere, con la propria inerzia, la legittimazione democratica, se non demonizzando qualunque cosa possa minacciare lo status quo? E, dunque, dai al referendum, dai al giornalista (possibilmente avversario), dai al capro espiatorio di turno. E che Beccaria riposi in pace.

Giovanni Guzzetta

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 28 settembre 2021. Non c'è sentenza della Corte costituzionale che tenga: Virginia Raggi vuole Vittorio Feltri dietro le sbarre. È questo il senso del lungo post su Facebook nel quale, ieri, il sindaco di Roma ha replicato al direttore editoriale del nostro quotidiano, che nei giorni scorsi ha ricordato - al netto delle considerazioni sul carattere scherzoso e non diffamatorio dello scritto incriminato - come la richiesta della procura di Catania nei suoi confronti - ovvero la condanna a tre anni e quattro mesi di carcere per l'articolo, con titolo «Patata bollente», del 10 febbraio 2017 - sia illegittima, visto che i giudici del Palazzo della Consulta, con la sentenza numero 150 del 12 luglio 2021, hanno "cassato" l'articolo 13 della legge sulla stampa che obbliga il giudice, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa, a infliggere la condanna della «pena della reclusione da uno a sei anni». Ecco, Virginia è lì che vuole arrivare: alla galera. La sentenza è prevista per il 5 ottobre, ma la "sindaca" il verdetto l'ha già emesso. «Invece di chiedere scusa per quel titolo vergognoso che offendeva non solo la mia persona, ma tutte le donne, insiste. Dice di aver paura che un giudice lo condanni al carcere e prova a farsi scudo con la libertà di stampa. Ma quale libertà di stampa o di critica c'è dietro "Patata bollente"? Qui la libertà di stampa non c'entra nulla». Sottinteso: il giudice faccia il suo dovere e condanni Feltri alla pena chiesta dal pubblico ministero. «Un titolo vergognoso e vile, carico di odio per le donne e di sessismo», ha aggiunto Raggi, che accusa il fondatore di questo giornale - la cui controreplica potete leggere a fianco- di avere «un'ossessione» nei suoi riguardi. In realtà, a scorrere le dichiarazioni di ieri degli esponenti del Movimento 5 Stelle, quindi non solo di Raggi, l'ossessione sembra piuttosto quella dei grillini, che dopo la freddezza mostrata nei mesi scorsi, durante i quali Raggi è stata considerata una vera e propria "palla al piede" del Movimento, improvvisamente sono tornati a schierarsi con il sindaco di Roma uscente. Ieri i parlamentari del gruppo Pari Opportunità hanno diffuso sul "caso Feltri" nientemeno che una nota, auspicando che la magistratura faccia il suo «corso». E giù l'affondo su Raggi «presa di mira perché è una donna scomoda, che ha avuto il coraggio di andare contro le logiche di potere e sacche di illegalità». Per i pentastellati è «incredibile» che Feltri, «invece di chiedere scusa, insista nel difendere il linguaggio sessista e volgare rivolto alla sindaca di Roma». Identica iniziativa hanno assunto i parlamentari e gli eurodeputati romani pentastellati, per i quali Feltri «si lancia in una avventurosa campagna per la libertà di stampa. La verità è che Feltri dovrebbe chiedere scusa per quel titolo vergognoso. Davvero pensa che la volgarità e il sessismo siano assimilabili alla libertà di stampa?».

 I pm lo vogliono in carcere per 3 anni per il titolo di Libero sulla Raggi. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 25 settembre 2021. Tre anni e quattro mesi di reclusione, più 5mila euro di multa, per Vittorio Feltri; otto mesi di carcere per Pietro Senaldi. Sono queste le pene chieste dalla procura nel processo per diffamazione che il prossimo 5 ottobre a Catania vedrà svolgersi l'ultima udienza, con successiva camera di consiglio per la sentenza - a carico del direttore editoriale e dell'attuale condirettore di Libero per il titolo - e l'articolo - «Patata bollente», pubblicato il 10 febbraio 2017. Ad agire nei confronti di Feltri e Senaldi, il sindaco di Roma uscente, Virginia Raggi. Su queste colonne, i direttori hanno più volte spiegato i motivi per i quali la causa intentata dal primo inquilino della Capitale merita di essere rigettata. Il fatto nuovo, alla vigilia delle repliche previste nell’udienza del 5 ottobre, è una recente pronuncia della Corte costituzionale - per la precisione la numero 150 del 12 luglio 2021 - che di fatto sconfessa l’operato della procura laddove dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge sulla stampa, la numero 47 del 1948. Si dà il caso che i pm vorrebbero arrestare Feltri appellandosi proprio a quell’articolo, che appunto prevede la «pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa» nel caso di una diffamazione commessa «col mezzo della stampa» (la cosiddetta diffamazione aggravata). Peccato che i giudici del palazzo della Consulta - con la sentenza chela difesa ha già citato nella sua discussione - dichiarando «costituzionalmente illegittima nella sua interezza» la disposizione che prevede tout court la pena detentiva, abbiano certificato che quella imboccata dalla procura sia una strada sbagliata. Attenzione: per la Corte costituzionale, in astratto, «non può in assoluto escludersi la sanzione detentiva» a carico dei giornalisti. Ma questa pena deve essere applicata «nei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità». E i giudici, nel paragrafo 6.2 della sentenza, facendo anche riferimento alla giurisprudenza europea, fanno anche qualche esempio: «Discorsi d’odio e istigazione alla violenza»; «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media (...) compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della oggettiva e dimostrabile falsità degli addebiti». Minimo comune denominatore, tale da configurare «un pericolo per la democrazia», la capacità di combattere «l’avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare (...) agli occhi della pubblica opinione». Al di fuori di questi casi - chela stessa Corte definisce «eccezionali» - «la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista (...) restando aperta soltanto la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione». I giudici della Consulta, cassando l’articolo 13 della legge sulla stampa, che appunto prevede l’obbligatorietà del carcere ad eccezione dei casi nei quali scatta l’applicazione delle “attenuanti generiche”, di fatto hanno riportato la gestione della diffamazione a mezzo stampa all’interno dell’articolo 595 del codice penale. Che al terzo comma - come scrivono i giudici nel paragrafo 4.3 - prevede la pena della reclusione (da sei mesi a tre anni) «o» della multa «non inferiore a euro 516». Il messaggio è chiaro: la sanzione del carcere deve essere inflitta solo in casi eccezionali. Ne tengano conto i giudici di Catania. 

(ANSA il 7 ottobre 2021) Sono state assolte Alba Parietti e Selvaggia Lucarelli al termine del processo a Milano in cui erano imputate per diffamazione l’una nei confronti dell’altra dopo essersi querelate a vicenda per via di una querelle che era nata nell’edizione del 2017 del programma “Ballando con le stelle”. A deciderlo è stata stamane la sesta sezione del tribunale al termine del dibattimento che ha messo fine a una vicenda giudiziaria che va avanti dal 2018. All’epoca la giornalista e blogger, difesa nel processo dal legale Lorenzo Puglisi, era giudice del programma di primaserata del sabato sera, mentre il noto volto tv era ballerina-concorrente. Le infuocate polemiche tra le due nello studio tv avevano poi generato uno scontro via social e per questo, a causa di denunce reciproche, sono finite in un’aula di giustizia. Il giudice nell’assolvere Alba Parietti ha riconosciuto che le sue parole sarebbero state una reazione alle espressioni della blogger. “E’ stato riconosciuto – ha spiegato l’avvocato Filippo Schiaffino, il difensore di Alba Parietti – la correttezza del comportamento della mia assistita che durante quel periodo si è risentita per i continui attacchi. Oggi per lei si chiude, dal punto di vista penale, una vicenda che l’ha molto preoccupata”.

"Gatto morto", "Calunniatrice": lo scontro Lucarelli-Parietti arriva in tribunale. Francesca Galici il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. Dopo Ballando con le stelle e i social, Alba Parietti e Selvaggia Lucarelli si sono incontrate in tribunale per la reciproca querela per diffamazione. Finisce in tribunale lo scontro tra Alba Parietti e Selvaggia Lucarelli cominciato 4 anni fa a Ballando con le stelle. Una concorrente e l'altra giurata, le due si sono continuamente punzecchiate durante quell'esperienza televisiva, in un'escalation di attacchi e di scontri che ha avuto strascichi importanti extra-televisivi. Infatti, prima di arrivare nelle aule giudiziarie, le due donne si sono scontrate sui social e qui le discussioni si sono fatte ancora più accese, tanto da arrivare alla querela reciproca per diffamazione. Le due si sono incontrate poche ore fa in tribunale. Alba Parietti ha depositato la sua testimonianza, sottolineando che in quel periodo sia stata apostrofata dalla giornalista con termini quali "scialba Parietti" e "gatto morto in autostrada". La showgirl, quindi, ha dichiarato: "La signora Lucarelli, dopo 40 anni di carriera, ha avuto il coraggio di dire che non ho mai lavorato e mi ha definito una donna sul viale del tramonto e, paragonandomi ad una collega che non è una collega, ha detto che sono pericolosa proprio perché sono in cerca di lavoro". Ma non è finita qui, perché la Parietti ha proseguito nella sua deposizione: "Ben sapendo delle patologie di cui soffriva mia mamma, ha detto che dovevo farmi curare, che dovevo prendere delle goccine". La showgirl è stata un fiume in piena in tribunale e ha raccontato al giudice anche di quando sarebbe stata derisa dalla Lucarelli per i suoi look e il suo modo di fare il giorno dopo l'eliminazione attraverso un post su Facebook. Le accuse della Parietti, però, sono state rivolte anche a Lorenzo Biagiarelli, compagno del giudice del programma di Milly Carlucci, che avrebbe contribuito a fare da cassa di risonanza ai post contro di lei. "Sono conscia che nell'ultima puntata del programma ho perso la testa", ha ammesso Alba Parietti, che però ha rivendicato il suo diritto di non essere ridicolizzata. "Sono una signora di 60 anni lavoro da 40 anni. Fare televisione è il mio lavoro, lo affronto molto seriamente e merito rispetto, soprattutto in una situazione in cui stavo dando tutto", ha poi aggiunto l'ex ballerina di Ballando con le stelle. Implacabile, quindi, la replica di Selvaggia Lucarelli. La giornalista ha dichiarato davanti al giudice di essere stata "accusata di ogni nefandezza". La Lucarelli, ha aggiunto: "Sono stata definita una calunniatrice, una mitomane, di essere pericolosa, di essere parte di un'associazione a delinquere con il mio fidanzato". A tal proposito, la giornalista ha voluto precisare che la showgirl avrebbe paragonato lei e il suo fidanzato "alla coppia dell'acido". La decisione di querelare Alba Parietti, come ha dichiarato Selvaggia Lucarelli, è arrivata "perché, anche fuori dal programma, venivo sommersa da messaggi sui social e interviste in cui mi riempiva di insulti". La situazione avrebbe provocato grande sofferenza nella giornalista, che proprio a causa degli screzi con la Parietti non avrebbe partecipato alla finale del programma. "Ancora oggi, se si fanno ricerche sul web, si trovano ancora articoli dai titoli "Selvaggia Lucarelli zecca, culona, infame". Questo va pesantemente ad impattare sulla mia reputazione", ha aggiunto la giornalista. "L'unico mio errore è stato scrivere un post indirizzato alla Parietti dicendo "se continui così sembri Psyco"", ha concluso Selvaggia Lucarelli. L'udienza è aggiornata al prossimo 7 ottobre, quando ci sarà la discussione delle parti e la lettura della sentenza.

Giorgio Gandola per “La Verità” il 24 giugno 2021. L'ultimo a scomparire è stato un cactus. Non era un'opera d'arte ma ne aveva tutta l'aria. Gigantesco (alto più di due metri), scostante, appuntito, ha fatto un figurone dell'ufficio di Carlo Verdelli dal 2015 a fine 2017, periodo che l'ex «direttore partigiano» di Repubblica ha trascorso invano in viale Mazzini nel tentativo di raddrizzare le banane di un'azienda irriformabile. Verdelli e il cactus erano arrivati praticamente insieme, all'insaputa l'uno dell'altro. «Mai capìto chi lo avesse ordinato», racconta nel libro di memorie televisive "Roma non perdona". Però era lì, e non c'era colloquio nel quale non si finisse per parlare dell'ingombrante pianta africana «capace di rovinare con le sue spine qualche giacca». Defenestrato il manager, è misteriosamente sparito anche il cactus. Con la stessa perizia da mago Silvan, abili mani hanno smaterializzato dagli uffici della Rai tappeti, mobili, sculture e soprattutto quadri di valore, lasciando una cornice di sporco sui muri. Nessuno se n'è accorto, nei 30 anni del lungo e metodico saccheggio sul quale sta indagando la Procura di Roma. Martedì il direttore Canone e beni artistici, Nicola Sinisi, ha spiegato in una surreale audizione in commissione di Vigilanza che «è triste dirlo ma c'è ignoranza da parte di molti dipendenti Rai riguardo al valore del patrimonio artistico dell'azienda». Ignoranza fino a un certo punto perché i quadri d'autore sono svaniti e le croste sono rimaste. Al centro dei sospetti ci sono alcuni dei 13.000 dipendenti (1.729 giornalisti) e Sinisi ipotizza «la presenza di un basista interno che potrebbe aver agevolato i furti, visto che si tratta di oggetti voluminosi, lo spostamento dei quali necessita di una certa organizzazione. C'è stato un vero e proprio sacco, le ruberie più importanti sono accadute fra l'inizio degli anni Settanta e Ottanta, e l'inizio del Duemila». Il metodo raccontato è da epigoni di Arsenio Lupin: un dirigente entra nella sua stanza e non trova più un capolavoro di Renato Guttuso. Prosegue Sinisi davanti a una commissione basita: «Due giorni dopo Marcello Ciannamea, direttore Distribuzione, entra in ufficio e nota l'assenza di uno Stradone (Giovanni Stradone, pittore neoespressionista scomparso nel 1981, ndr). Cinque giorni dopo Roberto Nepote, direttore Marketing, torna nella sua stanza e non trova due incisioni di valore». Sono coltellate nel fianco del manager, dell'esperto e anche del contribuente. L'inchiesta del pm Francesco Marinaro è partita da un'iniziativa del presidente Marcello Foa, promotore dell'audit che ha scoperchiato lo scandalo e fautore del massimo rigore in tutte le fasi. Oltre che ai carabinieri (se ne sta occupando il gruppo Tutela patrimonio culturale) la denuncia è arrivata sul tavolo della Corte dei conti. Non proprio un scherzo, visto che alcuni pezzi unici tornano periodicamente sul mercato, come la scrivania di Gio Ponti sparita dalla sede di corso Sempione a Milano e battuta a Londra, a un'asta di Christie's, per 70.000 euro. Con la più beffarda delle etichette: «Collezione privata Rai». All'appello mancano dei Carlo Carrà, degli Ottone Rosai. Capolavori finiti in qualche soggiorno Vip o venduti a ricettatori e rimessi in circolo. Le opere scomparse sarebbero 125, trafugate nelle numerose sedi (24) della Rai in tutta Italia. Considerando che il patrimonio censito è di 1.500 pezzi, s'è volatilizzato quasi il 10% per un danno che gli investigatori definiscono «milionario». Fra i quadri più pregiati, mancano all'appello La vita nei campi di Giorgio De Chirico e La domenica della buona gente di Renato Guttuso. A stare all'inchiesta, la buona gente della Rai faceva festa anche di martedì. Senza ritegno, come se si trattasse di un museo self service. Introvabili anche quattro miniature del Cavallo morente di Francesco Messina, storico simbolo dell'azienda; alcune sono in bronzo, altre in argento. Le opere d'arte di proprietà della Rai sono di valore inestimabile. A Venezia, a palazzo Labia, c'è il più importante affresco di Giambattista Tiepolo; la sede dell'auditorium di Torino è stata realizzata dall'architetto Carlo Mollino (un suo tavolo di due metri è stato venduto per sei milioni di dollari da Sotheby's); le polizze dei beni artistici hanno un valore di 72 milioni di euro. Sono capolavori frutto di regalìe, acquisizioni, investimenti in 77 anni di storia che dipendenti infedeli coordinati da una o più talpe hanno provato a dilapidare. I carabinieri stanno ramificando l'inchiesta in tutte le sedi, in tutte le redazioni. La ricerca copre l'arco di circa 30 anni e, poiché si concentra sul passato, diventa sempre più impervia. Difficile risalire alla fonte dei furti, le variabili sono infinite. Per esempio, fino a una decina d'anni fa i giornalisti non avevano l'obbligo di passare il badge nei tornelli d'ingresso e d'uscita; l'assenza di controllo era un punto d'onore del sindacato, problema poi superato con la necessità dei Vigili del fuoco di sapere chi fosse presente in sede in caso di incendio o di crollo. Prima poteva entrare e uscire chiunque: bastava un tesserino «con il pollicione sulla fotografia» e il gioco era fatto. Nel luna park della Rai non poteva mancare la banda Bassotti. Aveva ragione Ugo Zatterin buonanima: «Mai andare in ferie, mai alzarsi per andare in bagno. Potresti tornare e non trovarla più». Non si riferiva alla scrivania di Gio Ponti, ma alla sua.

Estratto dell'articolo di Andrea Ossino per repubblica.it il 23 giugno 2021. "Sì signori, c'è stato un vero e proprio sacco. È vero. È partito da illo tempore. Il sacco riguardava persino tappeti, riguardava scrivanie". Le parole lapidarie di Nicola Sinisi, direttore canone e beni artistici della Rai, piombano sulla commissione parlamentare che lo ha convocato. Gli argomenti sono diversi, il più atteso è quello relativo alle opere e ai pezzi unici scomparsi dalle sedi della Rai negli ultimi cinquanta anni. La notizia è una: "Ho il forte sospetto che alcuni di questi furti siano stati commessi in base alle indicazioni di un basista". Una talpa interna alla tv di Stato potrebbe aver orchestrato la sparizione di centinaia di opere, 125 per l'esattezza, "perché rispetto all'elenco fatto e denunciato di 170 opere (...) 45 sono state ritrovate e qualcos'altro verrà ritrovato". Il sospetto che ci possa essere stato un infiltrato si insinua nella testa del direttore Sinisi per una deduzione logica: "Non è possibile che - ripete il relatore facendo i nomi dei responsabili degli uffici da cui sono scomparsi le opere - entra nella sua stanza e non trova più un Guttuso. Due giorni dopo il dottor Marcello Ciannamea (direttore distribuzione ndr) entra nella sua stanza e non trova più uno Stradone (un pezzo di Giovanni Stradone, pittore italiano scomparso nel 1981 ndr). Cinque giorni dopo Roberto Nepote (direttore marketing ndr) entra nella sua stanza e non trova due incisioni importanti". L'affermazione è secca: "Si signori, c'è stato un vero e proprio sacco. Questo, è triste dirlo, anche a causa di un'ignoranza interna troppo spesso ripetuta". Sinisi ha specificato, senza voler "tranquillizzare nessuno", che i "furti più importanti sono accaduti a cavallo tra l'inizio degli anni '70 e '80 e l'inizio dell'anno 2000".

Michela Allegri Giuseppe Scarpa per "Il Messaggero" il 22 giugno 2021. Il danno è milionario. E probabilmente non ci sarà alcun risarcimento per i 120 dipinti spariti da diverse sedi della Rai, perché nessuna assicurazione sullo smarrimento delle opere d'arte è stata stipulata per 2.199 beni artistici, che hanno un valore complessivo che sfiora i 100 milioni di euro. Ad ammetterlo è la stessa azienda, come emerge da una dettagliata denuncia presentata alla Corte dei Conti dal legale della televisione pubblica: «Si segnala che nel contratto assicurativo in essere al 31 dicembre 2020 non era previsto il diritto all'indennizzo per ammanchi e smarrimenti rilevati in occasione di operazioni inventariali». È l'ennesima beffa sull'inchiesta ribattezzata il sacco della Rai. Anche perché, come si legge sempre nella querela, i dipinti, anche quelli che non si trovano più, «sono tuttora iscritti nel bilancio Rai». Tele originali sostituite con false riproduzioni e poi vendute. Semplicemente rubate. O nella migliore delle ipotesi, perse. Sono, appunto, 120 i pezzi pregiati di cui non si ha più traccia. Il sospetto che molte di loro siano state trafugate da dipendenti infedeli è molto più di un'ipotesi. Anche perché in una circostanza i carabinieri tutela patrimonio culturale hanno già appurato che un ex impiegato di Viale Mazzini si era portato a casa un dipinto di Ottone Rosai per poi venderselo. A tutto ciò si aggiunge anche un nuovo caso, poiché nella televisione pubblica si dissolvono anche gli arredi degli archistar. A Milano il faro è puntato soprattutto sul secondo piano di Corso Sempione, la storica sede meneghina della tv di Stato. L'intera struttura è stata costruita dal celebre architetto e designer italiano, fra i più importanti del dopoguerra, ed anche lo stesso mobilio è griffato Gio Ponti. O forse sarebbe meglio dire, lo era. Infatti mancherebbero diversi pezzi all'appello. Il sacco della Rai è una vicenda che ha ormai superato i confini dell'inchiesta giudiziaria per divenire una questione politica. Stasera i vertici di viale Mazzini sono stati convocati dalla commissione parlamentare di vigilanza della Rai. A presentarsi di fronte a deputati e senatori dovrà essere Nicola Sinisi, il direttore di canone e beni artistici, ingegnere, ex assessore alla cultura a Bologna che ha ricoperto ruoli di spicco anche all'Unesco. Al manager deve essere dato atto, assieme ai vertici dell'azienda, di aver voluto denunciare ai carabinieri le misteriose sparizioni delle opere. Ovviamente dalla Vigilanza vogliono capire in modo dettagliato come sia stato possibile che nessuno, fino a pochi mesi fa, non si sia accorto degli ammanchi. Furti, in certi casi, compiuti negli anni Settanta e scoperti solo lo scorso maggio. Inoltre, un altro capitolo rilevante, riguarda il fatto che i mobili pregiati realizzati da archistar come Gio Ponti non siano mai stati catalogati. Un dettaglio non da poco, poiché in mancanza di un registro diventa complicato scoprire cosa ancora ci sia in Rai del celebre designer - una sua sedia può valere fino a 15mila euro - e cosa manchi all'appello. «Si avrà il coraggio di indagare? In primis tra i dirigenti sull'assenza di oggetti di grande valore economico e culturale. Non ci credo e non ci crederò mai che - sottolinea Michele Anzaldi, il deputato di Iv e segretario della commissione parlamentare di vigilanza - non vi era un dettagliato inventario sugli arredi di pregio. Sicuramente sarà stato più facile farlo sparire o distruggerlo che rubare una scrivania di Gio Ponti».

Giuseppe Scarpa per "Il Gazzettino" il 21 giugno 2021. Non c'è solo il saccheggio dei quadri d'autore, i famosi 120 dipinti (e qualche scultura) spariti dalle più prestigiose sedi della Rai. Nella televisione pubblica si dissolvono anche gli arredi degli archistar. A Milano il faro è adesso puntato soprattutto sul secondo piano di Corso Sempione, la storica sede meneghina della tv di Stato. L'intera struttura è stata costruita dal celebre architetto e designer italiano, fra i più importanti del dopoguerra, ed anche lo stesso mobilio è griffato Gio Ponti. O forse sarebbe meglio dire, lo era. Infatti mancherebbero diversi pezzi all'appello. Per inciso, una scrivania di Gio Ponti, vale intorno ai 70mila euro. Per adesso ne è stata trovata una, della Rai, che una casa d'aste ha battuto proprio intorno a quella cifra. Come sia finita all'incanto non è affatto chiaro. Ad ogni modo non mancherebbe solo un semplice scrittoio. Sarebbe sparito molto di più. Tuttavia vi è una difficoltà per chi deve indagare, che è notevole. E una volta di più, questo ostacolo, indica il modo superficiale in cui, fino a pochi anni fa, è stato gestito il patrimonio culturale all'interno della televisione pubblica. Questi preziosi arredi non sono stati inventariati. Ecco allora che gli investigatori dovranno fare ricorso a vecchi disegni-progetti di Gio Ponti per capire la quantità, che in questo caso è sinonimo di qualità, visto anche il valore del mobilio, che il designer ha realizzato tra gli anni Quaranta e Cinquanta per la televisione di Stato. Ancora non si sa bene nel dettaglio cosa si sia dissolto. Ma si sa che non mancherebbe solo un arredo. Nel frattempo procede l'inchiesta sul sacco della Rai. Sulle opere d'arte sparite. Quadri originali sostituiti con false riproduzioni e poi venduti. Semplicemente rubati. O nella migliore delle ipotesi, persi. Sono quasi 120 i pezzi di cui non si ha più traccia tra dipinti e sculture di inestimabile valore. Il fatto è che all'inizio, come emerge dalla denuncia sporta il 26 aprile scorso in Corte dei Conti, dall'avvocato della Rai Francesco Spadafora, ne mancavano 170. Tuttavia una cinquantina sono spuntati all'improvviso, tra questi una parte ricomparsa quasi per magia. Ad ogni modo il sospetto che molte di loro siano state trafugate da dipendenti infedeli è più di un'ipotesi. Centoventi opere su un patrimonio che ne conta 1.500 tra tele, arazzi e sculture. È quasi un decimo insomma. Un saccheggio che riguarda tutte le sedi della televisione pubblica e su cui adesso stanno lavorando i carabinieri tutela patrimonio culturale, coordinati dal generale Roberto Riccardi. Un'indagine partita dopo una denuncia dei vertici della Rai che hanno deciso di fare luce sui mancati ritrovamenti di un centinaio di pezzi. Nella Capitale il pm Francesco Marinaro ha già avviato la maxi inchiesta-  così come la collega della Corte dei Conti Oriella Martorana - e ha individuato anche il ladro del quadro Architettura del pittore Ottone Rosai. Un'opera sottratta proprio da un impiegato (adesso in pensione) di Viale Mazzini. Intanto anche le procure del nord Italia si apprestano a seguire il percorso iniziato da Roma. Per fare solo alcuni esempi, non si ritrovano più quattro miniature, alcune in bronzo e altre in argento, del Cavallo dello scultore Francesco Messina. Per essere chiari si tratta della versione, in scala ridotta, del celebre cavallo di Viale Mazzini sempre dello stesso autore. O ancora la tela di Giovani Stradone Il Colosseo, di cui non c'è più traccia dalla sede in Prati a Roma a partire dal 2008. L'ultima volta che sono stati ammirati in Viale Mazzini Vita nei Campi di Giorgio De Chirico e La Domenica della Buona Gente di Renato Guttuso correva l'anno 2004. Stessa sorte per il Porto di Genova di Francesco Menzio assente dalla sede torinese di via Verdi dal 2010. Anche Composizione di Carol Rama, Kovancina di Felice Casorati, Dieci anni di televisione in Italia di Vincenzo Ciardo, Castello d'Issogne di Gigi Chessa, Giuditta di Carlo Levi, Parete Rossa di Sante Monachesi, Piazza di Luigi Spazzapan, Tristano e Isotta di Massimo Campigli, Tela Bianca di Angelo Savelli, Apologia del Circo di Giuseppe Santomaso, Orfeo di Gianni Vagnetti, mancano all'appello. C'è poi il capitolo relativo alle stampe di Modigliani, Sisley, Corot, Monet e Piranesi (in questo caso è una riproduzione). Di questi artisti sono scomparse nell'ordine Petit Fils, Hampton Court, La Route de Sevre, Paysage de Verneuil e Fontana Acqua Paola. Sono tutti lavori di pittori e scultori contemporanei che hanno un valore di mercato rilevante. In costante ascesa. Così come quella degli arredi firmati Gio Ponti.

Giuseppe Scarpa per “Il Messaggero” l'11 giugno 2021. È il sacco della Rai. Quadri originali sostituiti con false riproduzioni e poi venduti. Semplicemente rubati. O nella migliore delle ipotesi, persi. Sono quasi 120 le opere d'arte di cui non si ha più traccia tra dipinti e sculture di inestimabile valore. Il danno è milionario. Il sospetto che molte di loro siano state trafugate da dipendenti infedeli è molto più di un'ipotesi. Centoventi opere su un patrimonio che ne conta 1.500 tra tele, arazzi e sculture. È quasi un decimo insomma. Un saccheggio che riguarda tutte le sedi della televisione pubblica, da Nord a Sud, e su cui adesso stanno lavorando senza sosta i carabinieri tutela patrimonio culturale. Un'indagine partita dopo una denuncia dei vertici della Rai che hanno deciso di fare luce sui mancati ritrovamenti di un centinaio di pezzi. Nella Capitale il pubblico ministero Francesco Marinaro ha già avviato la maxi inchiesta e ha individuato anche il ladro del quadro Architettura del pittore Ottone Rosai. Un'opera sottratta proprio da un impiegato (adesso in pensione) di Viale Mazzini. Intanto anche le procure del nord Italia si apprestano a seguire il percorso iniziato da Roma. 

IL CASO. Per fare solo alcuni esempi, non si ritrovano più quattro miniature, alcune in bronzo e altre in argento, del Cavallo dello scultore Francesco Messina. Per essere chiari si tratta della versione, in scala ridotta, del celebre cavallo di Viale Mazzini sempre dello stesso autore. O ancora la tela di Giovani Stradone Il Colosseo, di cui non c'è più traccia dalla sede in Prati a Roma a partire dal 2008. L'ultima volta che sono stati ammirati in Viale Mazzini Vita nei Campi di Giorgio De Chirico e La Domenica della Buona Gente di Renato Guttuso correva l'anno 2004. Stessa sorte per il Porto di Genova di Francesco Menzio assente dalla sede torinese di via Verdi dal 2010. Anche Composizione di Carol Rama, Kovancina di Felice Casorati, Dieci anni di televisione in Italia di Vincenzo Ciardo, Castello d'Issogne di Gigi Chessa, Giuditta di Carlo Levi, Parete Rossa di Sante Monachesi, Piazza di Luigi Spazzapan, Tristano e Isotta di Massimo Campigli, Tela Bianca di Angelo Savelli, Apologia del Circo di Giuseppe Santomaso, Orfeo di Gianni Vagnetti, Serata d'Epifania di Achille Funi e Numeri di Ugo Nespolo, mancano all'appello. C'è poi il capitolo relativo alle stampe di Modigliani, Sisley, Corot, Monet e Piranesi (in questo caso è una riproduzione). Di questi artisti sono scomparse nell'ordine Petit Fils, Hampton Court, La Route de Sevre, Paysage de Verneuil e Fontana Acqua Paola. Sono tutti lavori di pittori e scultori contemporanei che hanno un valore di mercato rilevante. In costante ascesa. Buona parte dei dipinti scomparsi nel nulla, secondo la ricostruzione investigativa, è assente dalle sedi Rai almeno a partire dal 1996. Questo fu l'anno in cui la televisione pubblica organizzò una mostra a Lecce: Opere del Novecento Italiano nella collezione della Radiotelevisione italiana. Ebbene gran parte di quelle tele oggi introvabili all'epoca erano esposte.

L’INDAGINE. L'inchiesta di procura e carabinieri è nata dopo una denuncia dei vertici dell’azienda. L'intera vicenda, di cui Il Messaggero ha dato notizia lo scorso 4 maggio, sarebbe nata per caso. La scoperta di un quadro che si pensava essere originale e invece originale non era. Il rinvenimento della patacca nei corridoi della sede di viale Mazzini sarebbe avvenuto qualche mese fa, accidentalmente dopo che l'opera cadendo avrebbe rivelato la sua vera natura: nient'altro che una copia. Un pezzo di notevole valore economico del pittore Ottone Rosai che qualcuno aveva rubato e sostituito con una replica e poi venduto a 25 milioni di lire negli anni Settanta. Quel qualcuno che nella televisione pubblica, si è scoperto dopo una delicata indagine, aveva lavorato per decenni. Un Lupin che candidamente aveva ammesso, di fronte agli inquirenti, di essere stato il protagonista della ruberia. Un ladro che l'ha fatta franca, poiché i reati contestati, furto e ricettazione, sono tutti prescritti, visto che il colpo sarebbe stato messo a segno 40 anni fa. Ora l'interrogativo è se l'uomo sia stato emulato da altri colleghi. Di sicuro in Rai manca un controllo su questi beni. Il pericolo che altri furti possano essere messi a segno in futuro non è uno scenario remoto.

Giuseppe Scarpa per “Il Messaggero” il 12 giugno 2021. Dai quadri di De Chirico e Guttuso, alle stampe originali di Modigliani e Monet: centoventi opere preziose sono state rubate dalle sedi della Rai e sostituite con riproduzioni false. Un danno milionario sul quale non sta indagando solo la Procura di Roma: ora sul caso del sacco della Rai è scesa in campo anche la Corte di conti del Lazio.  Nel mirino dei magistrati ci sono l'omessa vigilanza e la mancanza di dispositivi di sicurezza idonei a proteggere dipinti di valore, spariti nel corso degli anni dalle pareti delle sedi dell'azienda senza che nessuno se ne accorgesse, o protestasse. Nei giorni scorsi negli uffici dei dirigenti è arrivata una richiesta di chiarimenti: la Corte dei conti ha dato tempo fino alla fine di giugno per inviare una relazione sulla «regolarità dei beni artistici gestiti dalla Rai» e, nello specifico, sulla mancanza all'appello di circa 120 opere. A indagare è il viceprocuratore regionale Oriella Martorana. Il sospetto è che il danno erariale per le casse pubbliche sia milionario e potrebbe doverne rispondere chi, all'interno dell'azienda di Stato, non ha preso tutte le precauzioni necessarie a mettere in sicurezza statue e dipinti. Ma non è escluso che l'inchiesta si allarghi ancora: le opere sparite, probabilmente trafugate da un gruppo di dipendenti infedeli che le hanno sostituite con quadri falsi, potrebbero essere molte di più. Il patrimonio Rai comprende infatti 1.500 tra tele, arazzi e sculture di pregio. E adesso, dopo la scoperta fatta dai carabinieri del comando Tutela patrimonio culturale, le verifiche sono in corso in tutta l'Italia. 

LA DENUNCIA L'inchiesta è partita dalla denuncia dei vertici della Rai che, mesi fa, si sono accorti della scomparsa di un centinaio di pezzi. A occuparsi dell'indagine penale è il pm Francesco Marinaro. Il primo quadro a mancare all'appello era Architettura del pittore fiorentino novecentesco Ottone Rosai, sostituito con una replica perfetta. In questo caso è stato individuato anche il ladro: un impiegato di viale Mazzini, ora in pensione. Ma il furto è avvenuto addirittura negli anni Settanta: i reati sono prescritti. La tela era stata venduta per 25 milioni di lire ed è stata recuperata dai carabinieri nell'ambito di un'altra indagine. La scoperta era stata accidentale: il quadro, appeso nei corridoi della sede Rai nel quartiere Prati, era caduto in terra e chi l'aveva raccolto si era accorto che si trattava di un falso. Da qui, l'inchiesta si è allargata: i pezzi spariti in tutta l'Italia sono più di cento. I furti sono avvenuti soprattutto a Roma e a Torino. 

LE OPERE Non si trovano, per esempio, quattro miniature, alcune in bronzo e altre in argento, del Cavallo dello scultore Francesco Messina. Dalla sede di viale Mazzini sono scomparsi Il Colosseo di Giovani Stradone, Vita nei Campi di Giorgio De Chirico, La Domenica della Buona Gente di Renato Guttuso. Mentre da quella di Torino, in via Verdi, è sparito Porto di Genova di Francesco Menzio. Nessuna traccia nemmeno di Composizione di Carol Rama, Kovancina di Felice Casorati, Dieci anni di televisione in Italia di Vincenzo Ciardo, Castello d'Issogne di Gigi Chessa, Giuditta di Carlo Levi, Parete Rossa di Sante Monachesi, Piazza di Luigi Spazzapan, Tristano e Isotta di Massimo Campigli, Tela Bianca di Angelo Savelli, Apologia del Circo di Giuseppe Santomaso, Orfeo di Gianni Vagnetti, Serata d'Epifania di Achille Funi e Numeri di Ugo Nespolo. Mancano all'appello pure stampe di Modigliani, Sisley, Corot, Monet e Piranesi. E adesso i magistrati stanno iniziando a fare la conta dei danni, visto che i pezzi erano stati acquistati con denaro pubblico. Sul caso è intervenuto il deputato di Iv Michele Anzaldi, segretario della commissione parlamentare di vigilanza: «Da quello che si legge, la vicenda ha delle proporzioni e dei rilievi tali che è opportuno che la magistratura approfondisca in modo dettagliato. Proporrò in ufficio di presidenza la convocazione su questo tema dell'ad della Rai Salini affinché spieghi cosa è accaduto».

Se il giornalista vendicatore finisce indagato per mafia. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 3 maggio 2021. “Pasquale vince sicuro” avrebbe detto Carmelo Bagalà, ruolo di boss conclamato, parlando di un’operazione elettorale nel piccolo municipio di Nocera Terinese, borgo che dovrebbe promuoversi come territorio e invece tiene banco per lotta politica con il coltello tra i denti, dissesti finanziari da 23 milioni di euro, e utilizzo di macchine del fango da media amici e compiacenti. Pasquale è Pasquale Motta, ritenuto dalla prosa giudiziaria “regista occulto” di un’alleanza contaminata cui avrebbe fatto da spin doctor. Motta è indagato per Concorso esterno in associazione mafiosa. Reato cui diffido molto da anni. Difficile da provare, contestato in punto di Diritto da fior di giuristi, e che spesso non regge ai tre gradi di giudizio. È un reato che si colloca nell’Italia dell’emergenza utile a setacciare la zona grigia della collusione che produce condannati ma anche assolti. Che un indagato sia solo un indagato dovrebbe valere a sua garanzia. Ma la norma l’abbiamo trasformata in altro. Una gogna virtuale. L’ha adoperata anche Motta. Direttore di LaCnews, network con linea muscolare nel sostegno alle inchieste di Gratteri senza se e senza ma. E qui riscontriamo un dato inoppugnabile. Gratteri non guarda in faccia nessuno. Non fa sconti. A nessuno. Nemmeno al direttore di un gruppo molto benevolo nei suoi confronti. C’è un dato antropologico e storico dietro questa vicenda. Pasquale Motta si è formato alle Frattocchie, la scuola del vecchio Pci. Avrà manifestato per la morte di Losardo e Valarioti uccisi dalla ndrangheta. Un tempo sarebbe diventato per gradi dirigente del partito. Ma i partiti sono cambiati. Anche il Pci. Pasquale Motta è diventato uomo di squadra di big come Nicola Adamo e Enza Bruno Bossio. Ne ha appreso metodi, usanze, movenze politiche. È stato eletto sindaco del suo piccolo comune. Ha unito Max Weber con Primo Greganti. Poi lo hanno abbandonato. E Pasquale si è messo le bretelle emulando i giornalisti televisivi americani di grande denuncia. Mai un dubbio e indice puntato. Con virulenza retorica ha indicato il male e il bene della Calabria. Forse con una punta di revanche nei confronti dei suoi vecchi leader. Diceva Pietro Nenni: “A fare a gare con i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”. Ma Motta non voleva epurare nessuno. È soltanto rimasto imbrigliato in questioni scivolose dove il bianco e il nero si confondono. Gli auguriamo di chiarire la sua posizione. Non avverrà presto. Nel frattempo potrà riflettere su cosa significa vedere il proprio nome su un sito associato a vicende non molto onorevoli. Non solo da un punto di vista solo penale.

Urla e cazzotti a Rai Sport: ecco cosa è successo. Francesca Galici l'1 Maggio 2021 su Il Giornale.  Momenti di tensione nella redazione sportiva Rai: due giornalisti sono arrivati alle mani per una lite per l'aria condizionata. Per uno di loro 7 giorni di prognosi. Ieri sera gli studi Rai di Saxa Rubra si sono trasformati in un ring pugilistico a tutti gli effetti. Al termine di una discussione forse nata sull'aria condizionata due giornalisti sono arrivati alle mani e uno di loro è finito all'ospedale con il volto sanguinante. Necessaria per lui la corsa al pronto soccorso in ambulanza, sul posto anche le forze dell'ordine che ora sono impegnate a ricostruire l'accaduto. Il giornalista colpito per fortuna non ha avuto gravi conseguenze e già nella serata di ieri è stato dimesso dall'ospedale.

La rissa. I fatti si sono svolti nella redazione di Rai Sport del centro produzioni radiotelevisive Biagio Agnes di Roma Nord. Stando a quanto ricostruito dal Corriere della sera tutto sarebbe accaduto nel tardo pomeriggio in uno degli uffici utilizzati dai giornalisti sportivi. A essere coinvolti in questa assurda vicenda sono uno storico giornalista Rai di 58 anni che segue la boxe e il suo collega di 52 che, invece, si occupa di calcio. Dalle prime indiscrezioni e testimonianze raccolte dalla Polizia, pare che i due giornalisti abbiano iniziato la discussione, poi sfociata in lite, per l'aria condizionata.

Inizialmente, come spesso accade tra colleghi in ambito lavorativo, tra loro c'è stato uno scambio di opinioni che, man mano, si è acceso sempre di più finché il 58enne si alzato e ha sferrato un cazzotto in pieno volto al cronista di calcio. A quel punto è iniziata una vera e propria rissa, che è stata sedata dagli agenti di polizia che sono accorsi immediatamente richiamati dagli schiamazzi. All'interno della palazzina in cui sono stati realizzati gli studi di Rai Sport, infatti, è stato predisposto anche un punto di polizia, molto vicino agli uffici della redazione sportiva.

La corsa in ospedale. All'arrivo degli agenti, il 52enne era ricoperto di sangue a causa della ferita causata dal pugno ricevuto e si è reso necessario l'intervento del 118 che, valutata la sua situazione, l'ha accompagnato all'ospedale San Pietro di Roma con una prima diagnosi di sospetta rottura del setto nasale. Giunto in ospedale, l'uomo è stato visitato e medicato prima di essere dimesso con una prognosi di 7 giorni. Il Corriere della sera rivela che il 52enne starebbe ora valutando l'ipotesi di procedere con una denuncia per lesioni personali nei confronti del collega che l'ha colpito. Il clima nella redazione di Rai Sport è ora rovente e non è escluso che l'azienda apra un'indagine interna.

RaiSport, "ecco chi sono i due giornalisti che si sono picchiati". Dago, dettagli esplosivi sul "pugile". Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. Sono Davide Novelli e Nuccio De Simone i due giornalisti di Rai Sport protagonisti della scazzottata che ha portato il secondo in ospedale con una prognosi di sette giorni. Tutto è avvenuto ieri venerdì 30 aprile. La lite è scoppiata per l’aria condizionata. De Simone si è alzato, è andato con la testa abbassata sotto Novelli. A quel punto quest'ultimo, voce Rai del pugilato, ha reagito con un pugno. Secondo alcune De Simone avrebbe l'intenzione di denunciare il suo collega per lesioni personali. Fra i primi a intervenire proprio gli agenti di polizia che hanno il loro ufficio nel palazzo di Saxa Rubra. I poliziotti hanno soccorso De Simone che aveva perso molto sangue e che è stato poi trasportato in ospedale con un’ambulanza del 118. Il giornalista, che da tempo si occupa di calcio, è rimasto ferito al volto ed è stato medicato in ospedale nel pomeriggio di venerdì 30 aprile con il sospetto, poi escluso, del naso fratturato per i colpi ricevuti dal collega. Secondo le prime ricostruzioni Novelli avrebbe sferrato a De Simone un diretto in pieno volto al culmine di una discussione nata in una stanza della redazione al centro Rai di Saxa Rubra, alla presenza di almeno altri due colleghi che sono stati ascoltati dalla polizia in qualità di testimoni. De Simone è stato dimesso nella serata di venerdì senza gravi conseguenze. Adesso deciderà se denunciare il collega, anche se alcune altre fonti dicono che la denuncia sia già pronta.

Da "Libero quotidiano" il 13 aprile 2021. Ieri il Tribunale di Roma ha depositato la sentenza, resa il 9 aprile 2021, con la quale condanna Alessandro Sallusti per diffamazione a mezzo stampa nei confronti del Presidente emerito Giorgio Napolitano. È quanto si legge in un comunicato della segreteria di Napolitano.

Da "Libero quotidiano" il 13 aprile 2021. Ieri il Tribunale di Roma ha depositato la sentenza, resa il 9 aprile 2021, con la quale condanna Alessandro Sallusti per diffamazione a mezzo stampa nei confronti del Presidente emerito Giorgio Napolitano. È quanto si legge in un comunicato della segreteria di Napolitano.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 13 aprile 2021. Ci risiamo con una condanna penale inflitta a un giornalista il quale avrebbe diffamato l' ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Roba vecchia in ogni senso. Il collega punito dal tribunale di Roma è Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, sul quale uscirono a suo tempo degli articoli critici contro il Capo dello Stato. La sentenza parla di illecito civile e penale. E qui risiede la assurdità di tutta la vicenda. Perché solamente in questo Paese di politici dalla mentalità antiquata, direi fascista in senso spregiativo, chi diffama qualcuno rischia la galera. In altre nazioni democratiche ed evolute, chi offende al massimo riceve una pena pecuniaria. Come accade per gli incidenti stradali. Tu se mi rompi la macchina mi risarcisci i danni, ma non vai in prigione. Solo dalle nostre parti, dove le istituzioni fanno ribrezzo, un giornalista è trattato come un criminale da incarcerare. Tutto questo è incivile. Tanto è vero che non c' è un partito che proponga la modifica delle legge.

Dagospia il 13 aprile 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, avete pubblicato l'articolo odierno di Vittorio Feltri su Libero, che parla della sentenza del Tribunale di Roma di condanna di Sallusti per diffamazione del Presidente emerito Giorgio Napolitano. Devo precisare che Sallusti è stato condannato al pagamento di 30.000 euro, oltre alle spese di lite, somma che verrà devoluta in beneficenza, e non alla galera, come si potrebbe capire da quanto scrive Feltri. Anzi, ricordo che fu proprio il Presidente Napolitano nel 2012 a concedere la grazia a Sallusti, commutando il carcere in pena pecuniaria. Cordiali saluti Il Portavoce Giovanni Matteoli

Da "il Giornale" il 31 marzo 2021. Condanna confermata dalla Cassazione per Emilio Fede nell'ambito del processo sul «fotoricatto» ai danni del dirigente Mediaset Mauro Crippa. La seconda sezione penale della Suprema Corte, con una sentenza depositata ieri (l'udienza si è svolta il 2 febbraio scorso), ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla difesa di Fede. La sentenza impugnata, rilevano i giudici di piazza Cavour, «ha adeguatamente giustificato la ricostruzione del ruolo di mandante di Fede» rispetto all'elaborazione di foto compromettenti da utilizzare contro Crippa, individuato come il principale responsabile del suo licenziamento da Mediaset. Fede è stato individuato quale ideatore del reato di estorsione, «nel disperato tentativo di evitare il licenziamento che Crippa, responsabile dell'informazione, aveva deciso di attuare».

QUANDO LA STAMPA UCCIDE. Giovanni Terzi per "Libero quotidiano" il 10 marzo 2021. Ho il ricordo netto di mio padre, Antonio Terzi direttore di Gente negli anni Settanta, che raccontava sgomento, in famiglia, quello che stava accadendo al nostro Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Leone venne vilipeso e fatto oggetto di attacchi personali da Camilla Cederna insieme al gruppo dell' Espresso; mio padre non li amava particolarmente. Già qualche anno prima, sempre Camilla Cederna, aveva attaccato Luigi Calabresi, il commissario della polizia ucciso a Milano in via Cherubini davanti a casa, e subito dopo toccò al Presidente "galantuomo", così era solito chiamarlo mio padre. «Vi ho rovinato, dovete perdonarmi». Con queste parole inizia a raccontarmi Giancarlo Leone, figlio dell' ex Presidente, per rappresentare lo stato d' animo del padre in quegli anni. Giancarlo Leone, giornalista professionista dal 1977 già direttore di Rai 1 oltre che, dal 2006 al 2011 vice direttore generale del servizio pubblico radiotelevisivo italiano, ricorda con emozione quegli anni in cui il linciaggio del padre avveniva quotidianamente sulla stampa italiana. «Avevo in quegli anni il doppio ruolo di figlio e di giornalista. Ero il corrispondente a Roma del giornale Il Piccolo di Trieste e vivevo nella sala stampa San Silvestro dove, naturalmente, arrivavano tutte le veline dal Parlamento».

E come fu questo doppio ruolo?

«Doloroso. Mio padre soffriva profondamente, si sentiva responsabile nei nostri confronti ed iniziò ad avere una grande depressione che ha sempre cercato di mascherare. Però quella campagna stampa ebbe degli effetti sia psichici che fisici devastanti su di lui».

E lei insieme alla sua famiglia cosa cercavate di fare?

«Tutti noi avevamo un compito prioritario, far sentire a mio padre il nostro amore e la nostra presenza; vede quello che accadde fu devastante per tanti motivi ...».

Mi dica ...

«Prima di tutto era falso. In secondo luogo non apparteneva al modo di essere di mio padre che non era un uomo cinico capace, come fecero in seguito Pertini e Cossiga, di usare la comunicazione in modo diverso, meno istituzionale. Mio padre, come si direbbe oggi, era un tecnico ...».

Pensare che il Presidente Giovanni Leone fosse stato un tecnico e non un politico fa riflettere. Perché dice questo?

«Non ha mai fatto parte organica dell' establishment politico. È stato Presidente della Camera e poi Presidente del Consiglio, prima di essere eletto a capo dello Stato; mio padre ha sempre servito le istituzioni e non i partiti».

Effettivamente il professor Giovanni Leone è sempre stato un giurista esterno alla partitocrazia ed estraneo ai "giochi conciliari" di quel periodo del compromesso storico. Non gli venne, proprio per questo, mai perdonato di essere stato votato, come Presidente della Repubblica, da una maggioranza che conteneva anche l' allora MSI. Così partì la macchina del fango. Un po' come adesso?

«In realtà è profondamente diverso. Nel caso di mio padre la "macchina del fango" partì con una tenaglia giornalistico-politico. Mio padre non ebbe mai a che fare con la magistratura come spesso accade, invece, ai giorni nostri. Il tutto nacque negli anni Settanta e riguardava la fornitura degli aerei Lockheed in Italia all' aeronautica militare. Lo scandalo della corruzione politico-militare della Lockheed si trasformò in un processo al sistema di governo che dal dopoguerra aveva come principale riferimento la DC».

In cui naturalmente suo padre nulla c' entrava ...

«Nella maniera più assoluta. C' era un furore ideologico che divenne sempre più massiccio fino a che mio padre non si dimise, unico Presidente della Repubblica ad averlo fatto. Rimane a me impresso nella memoria il discorso che mio padre fece il giorno delle dimissioni "Sono certo che la verità finirà pei illuminare presente e passato e sconfessare un metodo che, se mettesse radici, diventerebbe strumento fin troppo comodo per determinare la sorte degli uomini e le vicende della politica. A voi ed al nostro Paese auguro progresso e giustizia nel vivere civile"».

Ma oltre a questo passo del discorso che è stato premonitore su un metodo politico per distruggere un avversario, la delazione, c' è ne è un altro che personalmente mi ha molto colpito ed è quando suo padre disse: "Credo tuttavia che oggi abbia io il dovere di dirvi - e voi, come cittadini italiani, abbiate il diritto di essere da me rassicurati - che per sei anni e mezzo avete avuto come presidente della Repubblica un uomo onesto, che ritiene d' aver servito il Paese con correttezza costituzionale e dignità morale". Suo padre era davvero preoccupato di non essere degno di rappresentare lo Stato italiano?

«Mio padre nel 1947 fu un giovane costituente; ossia diede il suo contributo al nascere della Carta costituzionale firmata da Enrico De Nicola ed è a quella carta che si ispirò quotidianamente in ogni suo comportamento».

Voi faceste causa al gruppo Espresso?

«Noi figli sì. La cosiddetta "inchiesta dell' Espresso", non fu altro che una campagna diffamatoria conclusasi con il riconoscimento dell' estrema correttezza istituzionale di mio padre. Camilla Cederna dovette ammettere che le sue fonti non erano provate e soprattutto erano deviate».

La Cederna chiese scusa ?

«Mai».

Perché secondo lei?

«Non lo so. L' unica cosa che riuscì a dire che si era ispirata alle agenzie di stampa OP di Mino Pecorelli che, all' epoca, riusciva a fare uscire notizie assolutamente inventate come quella che mio fratello andava a caccia in elicottero».

Suo padre però fu completamente riabilitato?

«Questo sì. Però mi creda che dalle dimissioni mio padre non fu più lo stesso. Anche dopo i festeggiamenti dei suoi novant' anni a Palazzo Giustiniani in sala Zuccari nel 2008, davanti al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e alle più alte cariche istituzionali, alla fine tornò profondo il suo dolore».

In quella occasione però a restituire "l' onore" al Presidente Leone furono anche Marco Pannella ed Emma Bonino che, come loro stessi hanno riconosciuto, avevano approvato, sbagliando, le critiche e le polemiche nei confronti di suo padre. Non bastò?

«Purtroppo no. Anche Francesco De Martino con un messaggio sottolineò la correttezza di ogni attività istituzionale di mio padre e come fossero infondate le accuse mosse nei suoi confronti. Purtroppo il danno era già stato fatto: irreparabile».

Lei ha sofferto per tutto questo?

«La sofferenza era legata al martirio vissuto da mio papà».

Lei nella sua carriera si è occupato sia di informazione, da giornalista, che di comunicazione, anche come dirigente Rai. Come è cambiato il servizio pubblico negli ultimi anni?

«È cambiata la comunicazione completamente. Il web ed i social hanno disintermediato il processo delle notizie dando grande democraticità da una parte ma volgarizzando e semplificando il linguaggio dall’altra. La vera scommessa sarà proprio nel fatto di riuscire a ricostruire qualità nella informazione anche sul web».

Come secondo lei?

«Un riferimento deve essere il New York Times che è riuscito a trasformarsi sul web. L’informazione deve tornare ad essere una impresa con dei costi perché di qualità».

E la Rai?

«Io credo che se si riuscirà a costruire una fondazione, purtroppo mancata dal governo Renzi, con personalità di altissimo livello capaci di individuare il perimetro dell’offerta ebbene questo consentirebbe alla Rai di mantenere una posizione centrale nel panorama televisivo multimediale».

In tutto questo racconto della sua vita che importanza ha avuto sua madre?

«Mia madre, che oggi ha novantatré anni, è stata il baricentro di tutto. La sua moralità ha generato in me un rapporto altissimo con le donne. Posso dire che prima di trovare una persona che potesse essere all’altezza per fare con me una famiglia ho impiegato cinquant’anni. Ma il tempo mi sta dando ragione visto che siamo ancora felici insieme».

Matteo Renzi e il viaggio a Dubai, il contrattacco di Tpi: "Così l'ex premier prova a intimidirci". Libero Quotidiano l'8 marzo 2021. Dopo Massimo Giannini, anche la redazione di Tpi ha deciso di replicare alla querela di Matteo Renzi, che non ha preso bene la pubblicazione della notizia di un suo viaggio a Dubai del quale non si conoscono le motivazioni ufficiali. Il senatore di Rignano è sbarcato negli Emirati nella giornata di sabato 6 marzo e ha alloggiato nel lussuoso Burj Al Arab Jumeirah, hotel a forma di vela gigante che è situato su un’isola privata e comprende solo suites da almeno 1500 euro a notte. Già ieri, domenica 7 marzo, il direttore della Stampa non aveva nascosto lo stupore per la citazione in giudizio di Renzi: “Stamattina alle cinque e diciassette esatte del mattino mi ha mandato un sms sul telefonino. Diceva testuale ‘bastava un tuo messaggio e ti saresti risparmiato di scrivere tutte queste cazz***. Ci vedremo in tribunale’”. Inoltre Giannini ha svelato che, prima di pubblicare la notizia del “misterioso” viaggio a Dubai, ha parlato con il portavoce di Renzi che però era all’oscuro di tutto. Il senatore di Rignano non ha voluto chiarire il motivo del suo viaggio, anzi ha querelato anche Tpi. La cui redazione ora ha deciso di uscire allo scoperto, definendo “inaccettabile” questa prassi: “Andremo avanti e resisteremo. E continueremo a pubblicare notizie e fatti rilevanti sul suo conto perseguendo il fine della libera informazione. Non ci piegheremo a una simile condotta intimidatoria volta a impedire la pubblicazione di notizie di rilievo sul suo conto”. 

Da liberoquotidiano.it il 7 marzo 2021. A Matteo Renzi l’articolo pubblicato da La Stampa a firma di Niccolò Carratelli dal titolo, “Mistero sulla missione a Dubai” non è andato proprio giù. Tant’è che a metà mattinata annuncia con una nota di aver dato mandato ai propri legali di adire in giudizio in sede civile sia il direttore, Massimo Giannini che l’autore dell’articolo. A metà pomeriggio, però, è arrivata anche la replica di Massimo Giannini via twitter: «A proposito dei viaggi arabi di Renzi, stamattina ho parlato al telefono con il leader di Italia Viva che mi ha preannunciato querela. Ma mi ha anche confermato che in effetti è a Dubai. Per questo sono curioso di capire i motivi della sua querela».

Da liberoquotidiano.it il 7 marzo 2021. Matteo Renzi ha deciso di querelare il giornalista Niccolò Carratelli e il direttore Massimo Giannini per l’articolo pubblicato nell’edizione odierna de La Stampa dal titolo “Mistero sulla missione a Dubai”. La notizia arriva dall’ufficio stampa del senatore di Rignano, che però non ha voluto precisare le motivazioni dell’iniziativa legale: probabilmente sono legate alle allusioni pesanti sui suoi rapporti con gli Emirati, dato sono stati citati anche presunti rapporti finanziari degli anni passati fra soggetti economici con base negli Emirati e la Fondazione Open, in passato animata da amici e sostenitori dell’ex presidente del Consiglio. “Ritorno dagli sceicchi”, ha scritto La Stampa per rendere noto che Renzi è atterrato a Dubai con un volo privato nella giornata di sabato 6 marzo. “Alloggia nel lussuoso Burj Al Arab Jumeirah, hotel a forma di vela gigante, situato su un’isola privata: solo suites, letteralmente dentro al mare, da 1500 euro a notte”, si legge su La Stampa, che però ha precisato che “Il viaggio non è stato annunciato né pubblicizzato, il motivo della trasferta non è noto”. Ovviamente la notizia è stata ripresa da diversi “nemici” di Renzi, a partire da Gad Lerner: “Che ci fa, di grazia, il senatore al Burj Al Arab Hotel di Dubai? Lussuoso weekend di relax con gli amici del Golfo o ennesimo viaggio di lavoro?”. A difendere Renzi è sceso in campo Guido Crosetto: “Non mi interessa la simpatia o l’antipatia di Renzi e nemmeno la sua parte politica o la sua coerenza o le sue amicizie: quello lo giudicheremo con il voto. Ma saranno fatti suoi decidere dove andare in vacanza due giorni? Oppure deve essere autorizzato da Lerner?”.

Palermo, Giletti rinviato a giudizio: "Diffamò l'ex sindaco di Mezzojuso". La Repubblica il 4 marzo 2021. La vicenda dei lavori affidati alla ditta di La Barbera. Citazione diretta a giudizio per diffamazione aggravata. Imputato è Massimo Giletti giornalista e conduttore della trasmissione "Non è l'arena". Vittima l'ex sindaco di Mezzojuso Salvatore Giardina. Il procuratore di Termini Imerese Ambrogio Cartosio ha firmato il provvedimento che riguarda la vicenda delle sorelle Napoli, vittime di atti intimidatori da parte della mafia, di cui in più puntate si è occupata la trasmissione di La7. Nel capo d'imputazione il procuratore Cartosio contesta a Giletti di aver offeso la reputazione di Giardina in quanto nell'informare il pubblico che lo stesso sindaco, nel novembre 2018, aveva affidato dei lavori alla ditta di Leonardo La Barbera affermava che questi è imparentato con Simone  La Barbera  ( indagato dalla Dda di Palermo per reati commessi in correità con esponenti mafiosi) e affermava infondatamente che lo stesso La Barbera è imparentato con il Giardina". Una ricostruzione che secondo l'accusa ha "rappresentato una situazione idonea a ingenerare nei telespettatori la convinzione che il sindaco avesse affidato i predetti lavori per favorire la mafia". Il processo inizierà il 7 luglio nel tribunale di Termini Imerese, nel frattempo il consiglio comunale di Mezzojuso è stato sciolto per infiltrazioni mafiose.  

Michele Criscitiello, raptus dopo la partita: "Calci e pugni alla porta dell'arbitro", clamorosa stangata giudice sportivo. Libero Quotidiano il 04 marzo 2021. Dura sentenza del Giudice sportivo che inibisce per 14 mesi Michele Criscitiello. Il giornalista e conduttore televisivo è infatti anche presidente di un club di Serie D, la Folgore Caratese. A quanto si apprende dal Corriere della Sera, Criscitiello non avrebbe digerito la sconfitta casalinga per 4-1 contro la piemontese Bra, rimediata il 28 febbraio 2021. In seguito al triplice fischio dell'arbitro, Criscitiello avrebbe iniziato ad agitarsi nei confronti della terna arbitrale. Nella nota ufficiale si legge che il conduttore di SportItalia sia stato inibito: "Per avere rivolto ripetute espressioni offensive, ingiuriose e intimidatorie all'indirizzo del direttore di gara". Al centro delle polemiche, due calci di rigore fischiati a favore del Bra, uno dei quali ha portato all'espulsione del caratese Kaziewicz per un fallo di mano in area di rigore. Una volta terminato l'incontro, secondo quanto ricostruito dal giudice sportivo Aniello Merone, Criscitiello "colpiva ripetutamente con calci e pugni la porta dello spogliatoio riservato alla terna, reiterando le proteste anche durante il briefing con l'osservatore che di fatto non poteva avere luogo".  Con estrema difficoltà, la terna è riuscita a fuggire dallo stadio di Carate Brianza, ritrovandosi tuttavia Criscitiello fuori ad attendere: "Mentre la terna cercava di abbandonare l'impianto scortata dalle forze dell'ordine, il medesimo insisteva nelle proteste seguendo la terna mentre la filmava con il proprio smartphone". Criscitiello non è nuovo a comportamenti di questo tipo dentro e fuori il campo di gioco. Nel 2018 venne squalificato per due mesi. Nel supplemento del rapporto di gara dell'arbitro si legge: "Criscitiello, allontanato nel corso del secondo tempo per essersi avvicinato alla panchina della società ospitata con fare minaccioso, al termine della gara, nello spazio antistante gli spogliatoi raggiungeva un dirigente avversario e lo colpiva con uno schiaffo al viso e un calcio all'altezza del fianco. Veniva bloccato e condotto all'interno dello spogliatoio solo grazie all'intervento dei dirigenti della società ospitante". Come gli arbitri rispettano (nella maggior parte dei casi) calciatori e dirigenti, così dovrebbe essere anche il contrario. Nessun Criscitiello escluso. 

Alessandro Da Rold per “la Verità” il 2 marzo 2021. L'emergenza sanitaria non ferma il processo che vede Roberto Napoletano imputato per le presunte copie gonfiate del Sole 24 Ore. L'ex direttore del quotidiano di Confindustria, ora al Quotidiano del Sud, sta affrontando in questi mesi la vicenda che lo vede imputato per false comunicazioni al mercato. È accusato di essere stato amministratore di fatto della società e di aver diffuso dati falsi sulle copie vendute dal giornale. L'ex amministratore delegato, Donatella Treu, e l'ex presidente, Benito Benedini, hanno già patteggiato nell'autunno scorso un anno e otto mesi la prima (con 300.000 euro di sanzione) e un anno e sei mesi il secondo (con 100.000 euro di multa). È rimasto quindi solo Napoletano. Il 16 gennaio scorso la Consob, che è parte civile nel processo in quanto penalizzata dalla presunta manipolazione del mercato, aveva depositato i report sulle spese anomale del giornalista durante gli anni in viale Monterosa. Il capitolo è molto lungo, tocca un arco temporale tra il 2011 e il 2017. In totale si parla quasi di 1,9 milioni di euro tra case, autisti, alberghi, ristoranti e altro ancora. Ieri invece sono stati ascoltati Alberto Biella, ex direttore vendite, e Massimo Arioli, ex direttore finanziario. I due erano i soci della Di Source, la società che dal 2013 al 2016 aveva venduto all'estero migliaia di abbonamenti digitali del giornale. Il cuore del processo ruota intorno alla figura di Napoletano e a quale fosse il suo reale potere all'interno del gruppo in quegli anni. L'ex direttore ha sempre sostenuto che non gli «competeva alcun ruolo di gestione aziendale». Quindi non si sarebbe mai occupato di strategie di diffusione o pratiche commerciali. Eppure Biella, che era il responsabile della diffusione, doveva aver capito che qualcosa non andava in quegli anni. Tanto che aveva iniziato a registrare tutte le conversazioni con Napoletano. Fu proprio Biella a spiegare nel dicembre del 2017 al pm Gaetano Ruta di come fosse il direttore a chiedere «che il quotidiano fosse il primo per diffusione» e che voleva «numeri rilevanti». Sono gli anni in cui l'attuale direttore del Quotidiano del Sud puntava a superare Corriere della Sera e Repubblica. Proprio ieri quindi Ruta ha portato in aula come prova una chiavetta digitale dove è contenuta la conversazione tra lo stesso Biella e Napoletano, datata maggio 2015. A leggerla in aula è stato lo stesso Biella. Quel giorno Napoletano gli comunicava di aver ricevuto i messaggi dell'imprenditore amico Alfredo Romeo (attuale editore del Riformista) che gli confermava di aver firmato un accordo per l'acquisto di copie del Sole 24 Ore. Biella aveva chiesto spiegazioni su che tipo accordo fosse, perché solo se non fosse stata Confindustria sarebbe stato possibile certificarlo. Ads (Accertamenti diffusione stampa), infatti, non permette che le copie siano vendute a controllori o società del gruppo. Alla fine, dopo aver proposto altri contratti con Bpm e A2a, Napoletano era anche sbottato in un «che cazzo ce ne fotte!» e in un «io devo superare il Corriere!». Del resto l'ex numero uno della diffusione del Sole 24 Ore aveva continuato a opporre resistenza. Ma le prove depositate ieri non finiscono qui. La Consob infatti ha chiesto di depositare tre email di Ginevra Cozzi, responsabile ufficio stampa del Sole e lo stesso Biella, dove sempre Napoletano avrebbe chiesto di aumentare il numero delle copie con tanto di giustificativi. Ieri doveva essere ascoltato anche Nicola Borzi, ex giornalista del Sole 24 Ore, il whistleblower che ha scoperchiato i presunti reati commessi dalla dirigenza del quotidiano di Confindustria. Non c'è stato abbastanza tempo. Sarà sentito l'11 marzo, per un'udienza che si preannuncia infuocata.

Alessandro Da Rold per “La Verità” il 12 marzo 2021. Era arrivato nell'estate del 2016 per rimettere in ordine i conti del Sole 24 Ore, dopo la gestione di Donatella Treu, Benito Benedini e soprattutto dell'ex direttore Roberto Napoletano. E ieri l'ex amministratore delegato Gabriele Del Torchio ha ripercorso in un'aula del tribunale di Milano proprio quegli anni, quando fu scelto dall'ex presidente Giorgio Squinzi per capire cosa stava succedendo nel giornale di viale Monterosa. Dopo le testimonianze di Alberto Biella, ex direttore vendite, e Massimo Arioli, ex direttore finanziario, ieri è quindi toccato a Del Torchio rispondere alle domande dei giudici sull'effettivo ruolo di Napoletano, in un processo che vede l'attuale direttore editoriale del Quotidiano del Sud imputato per false comunicazioni sociali. Del Torchio è stato molto duro contro l'ex direttore (già all'epoca ci furono diverse spaccature tra i due) e non avrebbe fatto altro che ribadire quando già messo a verbale di fronte ai magistrati nel 2017. L'ex amministratore delegato aveva trovato in viale Monterosa una situazione fuori controllo, sia sui conti sia sulle vendite. Agli atti sono state acquisite anche 3 email che testimonierebbero come Napoletano avesse più volte cercato di influire sul nuovo piano industriale del quotidiano di Confindustria. Non solo. Nelle missive apparirebbe in modo chiaro come l'ex direttore volesse occuparsi della gestione delle copie digitali ma anche della stessa governance del giornale economico. Rilievi, quelli dell'attuale numero uno di Design Holding, che confermerebbero il ruolo di amministratore di fatto di Napoletano, ruolo che l'ex direttore ha sempre smentito in questi anni. Lo stesso ex amministratore delegato aveva firmato una relazione semestrale nel 2016 dove si parlava di errori e di modifiche alla modalità di rilevazione dei ricavi: a bilancio erano stati inseriti anche quelli futuri per 7,5 milioni di euro. Oltre a Del Torchio è stato ascoltato anche l'ex consigliere indipendente Nicolò Dubini che ha confermato l'opacità e la mancanza di trasparenza da parte di Treu e Benedini nella gestione del giornale. Del resto in quegli anni, oltre a emergere una voragine nei conti da 50 milioni di euro come le spese fuori controllo della direzione, fu evidente che qualcosa non funzionava anche nel calcolo delle copie digitali vendute tramite la società inglese Di Source: Treu e Benedini sono già usciti dal processo con un patteggiamento. La conferma che tra il 2012 e il 2017 ci fosse una gestione non certo ottimale dei conti del Sole 24 ore arriva dalla Consob. L'autorità di vigilanza ha pubblicato nei giorni scorsi la delibera con cui ha multato Alberto Villa e Simone Pozzi, due analisti finanziari di Intermonte Sim. La principale investment bank indipendente sul mercato italiano assisteva in quegli anni il Sole 24 ore con la pubblicazione di report in occasione dei risultati di esercizio dei dati semestrali. Nel 2016 Pozzi aveva firmato un'analisi dove il target price delle azioni del Sole era pari a 65 centesimi, quando in realtà era di 36 centesimi. «La ricerca del 27 maggio 2016 era dunque connotata da elementi di falsità» scrive la Consob «indicando un target price di euro 0,65 e un giudizio operativo di Outperform invece, rispettivamente, di euro 0,36 e Sell corrispondenti alle valutazioni di Simone Pozzi». Per questo, «tali elementi di falsità erano suscettibili di fornire indicazioni false e fuorvianti in merito agli strumenti finanziari emessi da Il Sole 24 Ore». La sanzione pecuniaria è stata di 130.000 euro in totale tra i 2 analisti e la società. Il prossimo 25 marzo è attesa intanto la testimonianza del giornalista Nicola Borzi, il primo a denunciare la cattiva gestione del Sole 24 ore in quegli anni.

Quando il diritto di cronaca diventa un vero “agguato”. Depositate le motivazioni della sentenza del Tribunale di Milano dopo quasi due mesi dalla condanna dell’inviato delle Iene Luigi Pelazza per violenza privata nei confronti della giornalista e scrittrice Guia Soncini.  Valentina Stella su Il Dubbio il 5 aprile 2021. Circa due mesi dopo la condanna dell’inviato delle Iene Luigi Pelazza per violenza privata nei confronti della giornalista e scrittrice Guia Soncini, sono state pubblicate le motivazioni della sentenza della settima sezione penale del Tribunale di Milano. Pelazza era stato condannato a 2 mesi di carcere, convertiti su richiesta della difesa in 15mila euro di multa. La condanna si riferisce a fatti avvenuti nel 2015, quando Pelazza si introdusse, insieme ad un cameraman invece assolto, nel cortile del palazzo della Soncini per intervistarla sul processo in cui era imputata insieme al altri (poi tutti assolti) per accesso abusivo a sistema informatico. Pur avendo la Soncini dichiarato di non voler essere intervistata, Pelazza «col piede si frapponeva tra il montante e il portone d’ingresso, non consentendone la chiusura, continuando a fare domande» alla donna «e riuscendo in tal modo ad inseguirla all’interno della propria palazzina, contro la sua volontà, fino all’ascensore», «frustrando in tal modo la sua libera determinazione di bloccare l’accesso al giornalista e al cameraman, non gradendo di essere né intervistata né ripresa dalle telecamere». Allo stesso modo, «frapponendosi con il proprio corpo tra la soglia e la porta dell’ascensore, ha impedito insistentemente» alla donna, «anche con la mano, di chiudere le porte dell’ascensore»: la scrittrice, per evitare che i due arrivassero all’appartamento, si sedette sui gradini e chiamò le forze dell’ordine. Questo comportamento di Pelazza, ad avviso del Tribunale, ha costituito un «mezzo anomalo diretto a esercitare pressione sulla volontà altrui», e così ha «ancora una volta coartato la libertà di movimento e la capacità di autodeterminazione» della persona oggetto del tentativo di intervista, «avendole impedito di raggiungere casa» e «costringendola a tollerare di essere ripresa per tutto il tempo dell’intervista contro la propria volontà». La difesa di Pelazza aveva invocato il diritto di cronaca ma per il giudice non si poteva accogliere, poiché il diritto di cronaca può esimere da «eventuali reati commessi con la diffusione della notizia», ma non da «quelli compiuti al fine di procacciarsi la notizia». Come ha evidenziato Giuseppe Battarino, giudice del tribunale di Varese, su Questione Giustizia questo tipo di reato può essere rappresentato proprio come «un agguato a una persona a cui si impongono domande indesiderate, che si trasforma in “oggetto” della comunicazione anche nel caso in cui non accetti di rispondere, perché il montaggio successivo delle immagini e la redazione di un testo critico o allusivo costruiscono, attraverso una comunicazione ostile, una figura deteriore della persona aggredita, sul postulato di un suo (inesistente) “obbligo di rendere conto”, di cui si assume essere creditore il detentore dei mezzi di produzione delle immagini».

Da "il Giornale" il 15 marzo 2021. Guia Soncini non voleva essere intervistata e meno che mai ripresa. Ma l'inviato de «Le Iene», Luigi Pelazza, non la mollava e per questo a febbraio è stato condannato per «violenza privata» a due mesi di reclusione, convertiti in 15.000 euro di pena pecuniaria. Ora arrivano le motivazioni che spiegano perché l'inviato ha commesso reato il 19 settembre 2015, inseguendo con microfono e cameraman la giornalista fino al portone della palazzina, poi all'interno del condominio per intervistarla sul processo nel quale compariva come imputata per le presunte «foto rubate» a Elisabetta Canalis e George Clooney nel 2010. Il giudice della VII sezione penale Maria Angela Vita ha ritenuto che Pelazza «frapponendo il piede tra il montante e il portone d'ingresso» del condominio della Soncini, mentre «continuava a porle domande e a farla riprendere dal cameraman, abbia impedito di fatto» alla persona inseguita «di chiudere la porta d'ingresso, frustrando in tal modo la sua libera determinazione di bloccare l'accesso al giornalista e al cameraman, non gradendo di essere né intervistata né ripresa dalle telecamere» e «frapponendosi con il proprio corpo tra la soglia e la porta dell'ascensore, ha impedito insistentemente» alla donna di chiudere le porte dell'ascensore. Questo comportamento ha costituito un «mezzo anomalo diretto a esercitare pressione sulla volontà altrui». Inutilmente gli avvocati Stefano Toniolo e Salvatore Pino hanno invocato per l'inviato delle Iene il diritto di cronaca.

La condanna di Luigi Pelazza e perché volevamo parlare delle foto sottratte a Elisabetta Canalis. Le Iene News il 23 febbraio 2021. Dopo la condanna del nostro Luigi Pelazza per l’intervista a Guia Soncini, ci teniamo a raccontarvi perché volevamo parlare della sottrazione delle fotografie di Elisabetta Canalis e George Clooney per cui erano imputati Gianluca Neri, Selvaggia Lucarelli e Guia Soncini. I tre sono stati poi assolti: vogliamo spiegarvi che cosa è successo. “Pochi giorni fa il Tribunale di Milano mi ha condannato per aver tentato di intervistare la giornalista Guia Soncini nel cortile del palazzo dove vive impedendole secondo l’accusa di rientrare in casa sua. Secondo il giudice avrei usato violenza di fronte a una persona in evidente stato di timore”. Luigi Pelazza ci parla della sentenza che prevede per lui due mesi di carcere convertiti alla pena pecuniaria di 15.000 euro per violenza privata. Noi la rispettiamo, ma faremo Appello. Intanto ci piacerebbe chiarire perché eravamo lì per parlare con quella giornalista. Ve lo raccontiamo in onda riproponendovi anche parte di quanto accaduto nel 2015. Nel servizio, Luigi Pelazza raccontava del processo per l’ipotesi di accesso abusivo a sistema informatico, intercettazione illecita di comunicazioni e violazione di corrispondenza contestati a Gianluca Neri, Selvaggia Lucarelli e Guia Soncini, per la sottrazione di diverse fotografie di Elisabetta Canalis e l’ex fidanzato George Clooney in occasione del compleanno della showgirl del 2010 nella villa di lui sul lago di Como. I tre sono stati poi assolti perché, si legge nella sentenza, manca la “pistola fumante”, la prova che Gianluca Neri si sia collegato all’account dove si trovavano le foto e che due email che offrivano quelle stesse foto alla rivista “Chi” siano state inviate da lui. Nonostante Neri avesse le credenziali per effettuare entrambe le operazioni. Inoltre per tre reati su cinque il giudice, pur scrivendo che li avrebbe assolti comunque, ha riqualificato il fatto in altri reati per cui si poteva procedere solo in presenza di querela (che sarebbe stata persa durante le indagini).

Quando la tv si sostituisce ai tribunali e insegue le persone. Il Corriere della Sera il 4/2/2021. Prendendo spunto dalla condanna in primo grado inflitta dal giudice alla «iena» Luigi Pelazza per violenza privata nei confronti della giornalista Guia Soncini (tentata intervista con il solito «metodo iene»), vorrei fare un appello. Mi rivolgo al dg della Rai Fabrizio Salini e a tutti direttori delle reti e testate giornalistiche del servizio pubblico; mi rivolgo al vicepresidente e ad di Mediaset Piersilvio Berlusconi e a tutti direttori delle reti e testate giornalistiche del Biscione; mi rivolgo ad Andrea Salerno ed Enrico Mentana de La7; mi rivolgo a Giuseppe De Bellis, direttore di Sky Tg24; mi rivolgo a tutti i direttori responsabili di tutte le reti nazionali e locali: per favore, vi prego, proibite l’intervista strappata con frode, quella che la cultura giornalistica anglosassone chiama ambushing, imboscata. Le interviste si concordano, le interviste devono avere il consenso dell’intervistato, le interviste sono informazione, non sono una rapina. So che molti tg non le mandano in onda, ma mi rivolgo a tutti perché questo gesto di civiltà diventi un bene condiviso. Capisco la necessità di incrociare un politico al termine di una riunione e tentare di strappargli una dichiarazione (e questo va bene), ma quando la tv si sostituisce ai tribunali e insegue le persone per chiedere loro conto di qualcosa, questa è pura barbarie. È il giudizio moralistico di una persona che si sostituisce allo stato di diritto, è insipienza demagogica. Le interviste rubate, le interviste al citofono, le interviste alle vittime di una qualche disgrazia per chiedere loro «cosa prova in questo momento?» non sono giornalismo, sono spazzatura. Il più delle volte gogna mediatica. Non mi illudo che questo appello venga accolto, spesso i criteri degli ascolti sono l’unica morale che la tv conosce. Ma per avere la coscienza pulita, cari direttori, non basta non usarla mai.

AGI l'1 febbraio 2021. Il Tribunale di Milano ha condannato l’inviato del programma televisivo ‘Le Iene’ Luigi Pelazza a 2 mesi di carcere, convertiti su richiesta dell’imputato alla pena pecuniaria di 15mila euro e sospesa, per il reato di violenza privata ai danni della giornalista Guia Soncini, costituita parte civile e difesa dall’avvocato Davide Steccanella. Assolto invece ‘per non aver commesso il fatto’, come chiesto anche dall'accusa, l’altro imputato, il cameraman Osvaldo Camillo Verdi, perché dal processo non è emersa la certezza che fosse presente quel giorno. Il pm Francesco Cajani aveva chiesto 9 mesi di carcere per Pelazza. “E’ una sentenza importante – afferma Steccanella –perché ha stabilito che non sempre il ‘metodo Iene’ è scusato dal pure legittimo diritto di cronaca. In questo caso si era trattato di un vero e proprio agguato nel cortile interno di un palazzo privato, impedendo alla mia cliente di fare rientro in casa propria fino all’arrivo delle forze dell’ordine per confezionare un servizio a effetto”. Stando a quanto riportato nel capo d’imputazione letto dall’AGI, Pelazza e Verri il 19 settembre 2015 “dopo essersi introdotti indebitamente”, fingendosi dei corrieri, nello stabile della donna, “con violenza esercitata in modo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione della parte offesa, le impedivano di accedere alla palazzina e con analoga violenza  le impedivano di fare rientro nella propria abitazione, costringendola a tollerare la loro presenza con una serie insistente di domande alle quali la parte offesa dichiarava da subito di non  voler rispondere”. Sempre in base alla ricostruzione della Procura accolta dal giudice Maria Angela Vita, Pelazza avrebbe cercato di intervistare Soncini in relazione a un’inchiesta in cui era coinvolta, da cui poi era risultata assolta, nonostante lei fosse “in evidente stato di timore” e, dopo avere detto più volte di non voler rispondere, aveva poi chiamato le forze dell’ordine. Sentito nel corso del processo, Pelazza aveva detto: “Lei mi ha dato due tre colpi; non dico che mi abbia picchiato, però…In 800 servizi, è la forma mentis delle Iene, non usiamo mai violenza perché non si deve usare violenza. Figuriamoci se questo lo facciamo nei confronti di una donna”.  Pelazza è stato condannato a risarcire anche una provvisionale di 2mila euro alla parte civile alla quale dovrà poi liquidare una somma di denaro che sarà stabilita dal giudice civile per i danni materiali e non.  

Luigi Pelazza, inviato de «Le Iene» condannato a 2 mesi: entrò nel palazzo di Guia Soncini. Il Corriere della Sera il 2/2/2021. Il Tribunale di Milano ha condannato l’inviato del programma televisivo «Le Iene» Luigi Pelazza a 2 mesi di carcere, convertiti su richiesta dell’imputato alla pena pecuniaria di 15mila euro e sospesa, per il reato di violenza privata ai danni della giornalista Guia Soncini, costituita parte civile e difesa dall’avvocato Davide Steccanella. Assolto invece «per non aver commesso il fatto» l’altro imputato, il cameraman Osvaldo Camillo Verdi, perché dal processo non è emersa la certezza che fosse presente quel giorno. Il pm Francesco Cajani aveva chiesto 9 mesi di carcere. «È una sentenza importante - afferma Steccanella -perché ha stabilito che non sempre il “metodo Iene” è scusato dal pure legittimo diritto di cronaca. In questo caso si era trattato di un vero e proprio agguato nel cortile interno di un palazzo privato, impedendo alla mia cliente di fare rientro in casa propria fino all’arrivo delle forze dell’ordine per confezionare un servizio a effetto». Pelazza è stato condannato a risarcire anche una provvisionale di 2mila euro alla parte civile, alla quale dovrà poi liquidare una somma di denaro che sarà stabilita dal giudice civile per i danni materiali e non. Stando a quanto riportato nel capo d’imputazione, Pelazza e Verri il 19 settembre 2015 «dopo essersi introdotti indebitamente», fingendosi dei corrieri, nello stabile della donna, «con violenza esercitata in modo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione della parte offesa, le impedivano di accedere alla palazzina e con analoga violenza le impedivano di fare rientro nella propria abitazione, costringendola a tollerare la loro presenza con una serie insistente di domande alle quali la parte offesa dichiarava da subito di non voler rispondere». Sempre stando alla ricostruzione della Procura accolta dal giudice Maria Angela Vita, Pelazza avrebbe cercato di intervistare Soncini in relazione a un’inchiesta in cui era coinvolta, da cui poi era risultata assolta, nonostante lei fosse «in evidente stato di timore» e, dopo avere detto più volte di non voler rispondere, aveva poi chiamato le forze dell’ordine. Sentito nel corso del processo, Pelazza aveva detto: «Lei mi ha dato due tre colpi; non dico che mi abbia picchiato, pero’In 800 servizi, è la forma mentis delle Iene, non usiamo mai violenza perché non si deve usare violenza. Figuriamoci se questo lo facciamo nei confronti di una donna». «Accettiamo questa sentenza ma è ovvio che riteniamo di non aver sbagliato, quindi ricorreremo in Appello e in Cassazione. Questo è sicuro, perché non è nostra abitudine usare violenza nei confronti delle persone, e soprattutto delle donne. Ma ti pare che noi andiamo a usare violenza, ingiuriare, molestare? Assolutamente no», commenta Pelazza. L’episodio risale al 2015. Pelazza e il cameraman «dopo essersi introdotti indebitamente», fingendosi dei corrieri, nello stabile della donna, avevano fermato Soncini per farle alcune domande. Nell’atto di imputazione si legge che «con violenza esercitata in modo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione della parte offesa, le impedivano di accedere alla palazzina e con analoga violenza le impedivano di fare rientro nella propria abitazione, costringendola a tollerare la loro presenza con una serie insistente di domande alle quali la parte offesa dichiarava da subito di non voler rispondere». «Noi l’abbiamo aspettata all’ingresso del suo cortile - racconta Pelazza -. Lei ci ha riconosciuti, ha tentato di entrare nell’androne, e in effetti riguardando il filmato io, cercando di avvicinare il microfono, mi sono messo in mezzo fra lei e lo stipite della porta. Quindi è possibile che io le abbia impedito per un secondo di chiudere. Un secondo uno». «Poi lei è entrata in ascensore, ma si è seduta lì a parlare con noi e abbiamo parlato - aggiunge Pelazza -. E siamo andati via. Il giudice ha ritenuto che questo tipo di atteggiamento non è consono, perché poteva essere non violento, ma infastidente». «Sottolineo che lei ha chiamato la polizia davanti a noi, dicendo “ci sono delle persone che mi stanno importunando ma non so chi siano”. Ma come non sai chi siano!», aggiunge l’inviato. E alla domanda se questa condanna lo scoraggi, Pelazza risponde immediato: «Scoraggiarmi? Assolutamente no. Noi non vogliamo dar fastidio. Cerchiamo di arrivare a scoprire qualcosa di più, poi capitano anche questi episodi. Se lei si fosse fermata, avesse risposto alla domanda, la cosa sarebbe finita lì. Andrò avanti, certo però che è una lezione. Ovvio che la prossima volta manterremo di più la distanza sociale».

Luigi Pelazza condannato per violenza privata. Ecco il "corpo del reato" che invitiamo a diffondere. Le Iene News il 02 febbraio 2021. Luigi Pelazza è stato condannato per violenza privata a due mesi di carcere, convertiti alla pena pecuniaria di 15.000 euro, e ha già annunciato che ricorrerà in Appello. Riproponiamo il "corpo del reato" affinché tutti possano valutare come sono andate le cose riguardanti il servizio sul furto delle fotografie di Elisabetta Canalis e George Clooney per cui erano imputati, poi assolti, Gianluca Neri, Selvaggia Lucarelli e Guia Soncini. Luigi Pelazza è stato condannato per violenza privata a due mesi di carcere, convertiti alla pena pecuniaria di 15.000 euro, e ha già annunciato che ricorrerà in Appello. Le Iene ripropongono il "corpo del reato" affinché tutti possano valutare come sono andate le cose. Il servizio "Ficcanaso nelle email delle celebrità" era infatti spubblicato per via del procedimento giudiziario, ma nella massima trasparenza la trasmissione tv ha deciso di pubblicarlo interamente sul sito Iene.it, su Facebook e su Instagram. Nel servizio, Pelazza racconta delle indagini per l’accesso abusivo a sistema informatico, l’intercettazione illecita di comunicazioni e la violazione di corrispondenza, e cioè i tre capi di imputazione che erano contestati a Gianluca Neri, Selvaggia Lucarelli e Guia Soncini, per il furto di diverse fotografie di Elisabetta Canalis e George Clooney. I tre sono stati assolti, per tre capi di imputazione su cinque per mancanza di querela, perché il giudice ha riqualificato il fatto in un altro reato, e cioè la “rivelazione del contenuto di corrispondenza”. Le Iene invitano la stampa italiana a diffondere questo documento affinché ciascuno possa farsi un'idea del nostro operato, ma anche dell'operato di tutti i protagonisti di questa storia.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 3 febbraio 2021. Uno degli aspetti migliori di San Pa, la docuserie sulla comunità di Vincenzo Muccioli, è che gli intervistati stanno seduti e gli intervistatori di fronte, secondo le regole di Netflix, le regole del giornalismo americano da cui nonostante tutto c' è ancora da imparare. Il sostantivo "intervista" prevede infatti due verbi: chiedere e concedere. Le interviste si chiedono e si concedono, non si pretendono e non si subiscono: si subisce un interrogatorio di polizia, al massimo. In SanPa non ci sono giornalisti podisti all' inseguimento dell'interlocutore a cui far ingoiare il microfono affinché risponda a domande come lei è un pedofilo o lei è colluso con la mafia. Mi spiace che l'inviato delle Iene sia stato condannato da un giudice per aver riservato il trattamento a Guia Soncini, braccata sin sul pianerottolo di casa a telecamera spianata, ma non so come potesse scamparla. Qui non si tratta di diffamazione (è roba da Cambogia anni Settanta che i giornalisti paghino con pene detentive anziché pecuniarie per i loro pensieri e i loro scritti) bensì di violazione di domicilio e violenza privata. Mi spiace, poi, che un paio di generazioni di giornalisti siano venute su nell'ambizione di esibire la schiena dritta (che espressione orrenda) nel tallonamento armato della preda riluttante, e la riluttanza sarebbe la prova della colpevolezza, per cui più importuni più sei ganzo: non hanno ancora capito che a consumare le suole son buoni tutti, il difficile è consumare il cervello. Ma in particolare mi spiace che certe ovvietà non vengano definite nelle redazioni, e tocchi sentirle in un'aula di tribunale.

Guia Soncini per linkiesta.it il 3 febbraio 2021. Quindi un tizio con una telecamera, in nome dell’immunità alle leggi del mondo datagli dal lavorare per la televisione, non può introdursi a forza in casa tua. L’ha detto il tribunale di Milano sabato mattina, ed è una notizia che ho accolto con un certo sollievo, dato che la casa in cui erano avvenuti i fatti a processo era la mia, e che per sei anni un po’ tutti – il poliziotto al quale ho fatto la denuncia nel 2015, i giornali, l’internet, l’avvocato del tizio entrato con la forza in casa mia – hanno sostenuto in tutta serietà che non fosse poi grave. In misure diverse, in modi che ogni volta mi hanno fatto dubitare dell’ovvio: forse era colpa mia che guardavo troppi sceneggiati americani, dove il trespassing è una cosa gravissima, dove se metti un piede nella porta – come aveva fatto il tizio per impedirmi di richiudergliela in faccia – ti portano via in ceppi (a meno che la padrona di casa non ti spari prima, com’è nel suo pieno diritto; cosa che, pur senza legislazione statunitense, avrei volentieri fatto anch’io, se non fossi stata sprovvista di armi: il che è un bene, ero pure senza occhiali, come minimo mi sarei sparata in un piede io invece di mutilare lui). (Questo è il punto in cui i miei amici garantisti inorridiscono, come sarebbe che vuoi sparare all’intruso, sarai mica salviniana. Amici garantisti, portate pazienza, arriviamo anche a Salvini, sarà un lungo riassunto, mettetevi comodi). Settembre 2015, cerco di chiudere il cancello del mio palazzo in faccia a un inviato di varietà con balletti trasmesso da Mediaset (sì, la stessa azienda televisiva in cui Barbara D’Urso difende le donne dalla violenza: si vede che sono un uomo). L’inviato si è già introdotto nel cortile, quindi si trova già in una proprietà privata non invitato. Dunque io tento di non farlo entrare almeno nella mia palazzina, egli mette un piede in mezzo e dice: è inutile che ti agiti, tanto noi siamo abituati. In effetti è inutile: neanche una cretina, quale io certamente sono, può pensare di difendersi da un uomo alto il doppio di lei che ha deciso di entrare con la forza a casa sua. Autunno 2020, udienza processuale. Il pubblico ministero chiede: lei si rendeva conto di essere in una proprietà privata? L’imputato, senza traccia d’ironia, risponde: il portone era aperto. Sempre settembre 2015, il filmato della deliziosa scenetta svoltasi a casa mia viene trasmesso. L’internet pullula di aspiranti premi Strega, aspiranti deputati, aspiranti filosofi del diritto che sghignazzano. È un bellissimo spettacolo, che spiega bene il mercato degli snuff movie, quella branca del porno in cui la protagonista viene ammazzata davvero davanti alla macchina da presa. Solo che gli snuff movie sono illegali; i varietà di Italia 1, misteriosamente, no. Sempre settembre 2015, vero titolo di giornale davvero pubblicato a seguito della trasmissione del filmato in cui uno mi entra in casa a forza e io cerco di non farlo avvicinare a una distanza che la prossemica definisce «intima» (ho imparato in sei anni di avvocati che «prossemica» è una parola troppo difficile, e una vittima che voglia essere credibile come vittima non deve usarla; ho capito in questi sei anni che il modello Maria Goretti non è monopolista perché era vergine, non è monopolista perché è morta: è monopolista perché Maria Goretti era analfabeta, e se la sai più lunga del carnefice nessuno prenderà mai sul serio il reato) – mi sono persa in un inciso, lo so, vi devo un titolo di giornale sul filmato in questione: «Guia Soncini aggredisce inviato delle Iene». Maria Goretti aggredisce corteggiatore. (Oddio, la Soncini si sta paragonando a Maria Goretti, ti rendi conto?!). Gennaio 2020, Matteo Salvini citofona a una famiglia bolognese chiedendo se siano spacciatori. Non si è portato dietro una produzione televisiva, ma ne esistono immagini perché se sei Salvini la gente ti filma. Non è entrato a forza in casa loro, si è limitato a citofonare. Da parte degli stessi aspiranti premi Strega, deputati (nel frattempo non più aspiranti), aspiranti filosofi del diritto che sghignazzavano cinque anni prima, da parte degli stessi in questo caso arrivano richieste, per Salvini, d’ogni genere d’incriminazione. Per l’assai più grave reato d’aver citofonato, per carità, mica perché valutiamo buoni e cattivi in base alla curva di stadio in cui sono posizionati (la nostra o quella opposta) e non in base alle azioni. Sempre settembre 2015, commissariato. Beh, ma non era casa sua, erano le scale del palazzo. Le scale di cui io pago la pulizia e loro no, le scale per arrivare alle quali ci sono due portoni con serrature di cui io ho le chiavi e loro no: direi che è decisamente casa mia. (Segue telefonata al mio allora avvocato che spiega al commissario che la Cassazione ha stabilito che; segue commissario che chiede «ma le sezioni unite?»; seguo io che chiedo «ma se trovo un eroinomane che dorme nell’androne mi dite che ci può stare?»; seguono poliziotti confusi: ma che c’entra, mica starò paragonando l’eroina e lo share). All’epoca ero a processo perché un tizio che conosco aveva armato dei nebulosi traffici di compravendita di foto sottratte a un attore americano. Nel documento dell’accusa, sventolato dall’inviato del varietà coi balletti, c’era scritto che io neanche sapevo che queste foto esistessero. Tuttavia egli, autonominatosi giustiziere, decide d’introdursi a forza in casa mia per dirmi quant’io faccia schifo (è caratteristica del programma non fare domande, ma dire accuse in tono «ma non ti vergogni» – ti danno pure del tu, giacché la terza persona rappresenterebbe un’insormontabile difficoltà sintattica per l’analfabetismo medio del loro pubblico). Quando, cinque anni dopo, egli testimonia in qualità d’imputato, la giudice domanda eventuali precedenti penali. Egli ne elenca una sfilza. Quindi: un pluripregiudicato si è introdotto con la forza a casa d’un’incensurata per svergognarne l’essere a processo. Processo nel quale l’incensurata verrà ovviamente assolta, ma cosa conta questo di fronte alla jannacciana forza della televisione. (Ma un programma così attento alla trasparenza non dovrebbe, mandando in giro un pregiudicato, apporre almeno dei sottopancia che avvisino l’impressionabile pubblico che la fedina penale del giustiziere del momento non è esattamente linda?). (Alla fine di questo articolo tutti gli amici garantisti m’avranno tolto il saluto, santo cielo. Ho pure scritto «ovviamente assolta», sto forse insinuando che gli innocenti non vengano mai condannati? Travaglia che non sono altro). L’avvocato che ha difeso il tizio è un personaggio meraviglioso, una specie di Mia Farrow che a ogni intervento frignava che la giudice facesse parlare più gli altri, che fosse una vessazione impedirgli d’illustrare quant’io fossi una malvivente, che le udienze venissero fissate al sabato apposta per infelicitargli i fine settimana. La difesa ha sostenuto di non essere in possesso del filmato integrale. Eh, ma sapete quanto spazio occupano i filmati, hanno sospirato serissimi, come se gli hard disk d’una produzione televisiva fossero i nostri telefoni che ogni tanto vanno svuotati dalle foto. Un autore del programma, sul banco dei testimoni, ha detto, sempre senza alcuna ironia, che lui ha cancellato anche l’integrale dell’intervista esclusiva che aveva fatto ad Arafat. Nessuno gli ha fatto notare scusi, ma quando Arafat o Soncini muoiono, a voi non fa comodo avere del materiale inedito? Giacché, ho scoperto assistendo per la prima volta a un processo, nei tribunali italiani puoi dire qualunque stronzata, e nessuno mai ti contraddice. Ah, quindi nelle produzioni televisive non si conservano i filmati integrali, neanche se oggetto di cause legali e quindi magari utili a discolparsi? Grazie di avercelo spiegato, si accomodi pure. Anche senza i vari «tanto noi siamo abituati» dell’integrale, nel servizio mandato in onda c’era una parte in cui il malvivente mi appoggiava i suoi appunti sulle cosce. Non è che serva Umberto Eco per dire che non è una prossemica abituale tra due sconosciuti. Quando l’ho fatto notare, il tenero avvocato ha sostenuto che l’immagine che era lì sullo schermo non fosse lì sullo schermo, che l’imputato non mi si fosse mai avvicinato oltre una distanza socialmente consona. Non è mica colpa sua, povero, che si trova a difendere la frittata fatta. Prima, nelle cucine, qualcuno l’avrà visionato, quel filmato: un mio avvocato li aveva diffidati dal mandarlo in onda, nei nove giorni da quando sono entrati con la forza a casa mia a quando l’hanno trasmesso qualche genio all’ufficio legale di Mediaset l’avrà di certo visto, l’avrà visto e avrà detto ma ovvio che è un comportamento consono, orsù, trasmettiamolo. Soldi ben spesi, Piersilvio (una volta in famiglia eravate bravini a scegliere gli avvocati: sarà il declino delle élite). Insomma, esiste ancora l’inviolabilità del domicilio. Uno sconosciuto non invitato a entrare non può imporre la propria presenza in casa tua, neanche se dotato del superpotere televisivo e convinto quindi di godere d’immunità diplomatica. Ne ero abbastanza certa anche prima di sabato, ma è un sollievo sapere che è ufficiale.

·        Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

La presunzione di innocenza appena nata e già violata. I finanzieri di Palermo primi trasgressori della legge sulla presunzione di innocenza. La norma è durata giusto il tempo di un amen. Ora chi li punirà? Davide Varì su Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Una settimana o poco più, tanto ha resistito la norma sulla presunzione di innocenza approvata dal nostro parlamento con tanta fatica e grazie a una generosa spintarella dell’Europa. E in effetti noi del Dubbio stavamo facendo il conto alla rovescia: “Quanto tempo smetteranno a violarla? ci chiedevamo. E chi sarà il primo a sgarrare? Sui tempi dei trasgressori abbiamo detto, per quel che riguarda la paternità, il premio va alla Guardia di finanza del comando provinciale di Palermo che ieri, con tanto di comunicato stampa ufficiale, ha fatto sapere di aver portato in porto l’operazione denominata “Relax”. Intendiamoci, l’inchiesta è assai seria e riguarda presunti (permetteteci il dubitativo almeno fino al giudizio finale) “maltrattamenti e torture ai danni di pazienti psichiatrici ricoverati presso l’Asp di Palermo”. Ma tanto è più seria l’inchiesta quanto più è insopportabile la violazione della norma sulla presunzione di innocenza da parte delle autorità. Eppure la legge è chiarissima. All’articolo 4 è specificato che “sia il solo Procuratore della Repubblica ad intrattenere rapporti con la stampa, preferibilmente tramite comunicati ufficiali”. E ancora più chiaro il divieto di dare nome alle inchieste. Insomma ricordate “Angeli e demoni”. “Mafia Capitale”, “Fust” e tutte le altre operazioni battezzate dagli inquirenti per avere un impatto mediatico e orientare fin da subito la pubblica opinione e , perché no,  per provare a condizionare i giudici? Ecco, quella roba lì non dovrebbe più esistere. E invece, come temevamo, la norma è durata giusto il tempo di un amen. Ma ora la domanda è che: chi punirà i trasgressori?

La presunzione d’innocenza? È già messa a dura prova. Tre operazioni sembrano non rispettare del tutto i criteri imposti dalla legge “chiesta” dall’Europa che garantisce gli indagati. Valentina Stella su Il Dubbio il 18 dicembre 2021. Sono passati quattro giorni dall’entrata in vigore della nuova norma che ha recepito la direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Ancora presto per dire se ci sia un vero e proprio cambiamento della comunicazione, anche perché il monitoraggio nazionale delle attività delle polizie giudiziarie e delle varie procure è complesso da effettuare. Per questo l’onorevole Enrico Costa di Azione aveva fatto un appello a tutti gli avvocati sul territorio per ricevere segnalazioni di eventuali violazioni e il Presidente dell’Unione delle Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, aveva promesso il sostegno dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria. Però qualcosa possiamo dirla già da oggi. Quello che emerge è che la norma fornisce principi a cui ispirarsi ma lascia ampio spazio di interpretazione per la sua applicazione e non consente, tra l’altro, un controllo diretto sul rispetto degli articoli in essa contenuta. Come ci spiega il professor Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma, «ci muoviamo in una zona grigia. Capire in che termini si superi la previsione normativa è complicato da dire. E poi nelle prime fasi dall’entrata in vigore è difficile ricondurre immediatamente comportamenti stratificati nel tempo in ambiti comunicativi più restrittivi»; quindi dovremmo attendere per fare una valutazione più a lungo raggio. Ma vediamo perché è complesso al momento districarsi nell’applicazione concreta della norma. Ci siamo iscritti al portale della Sala Stampa della Guardia di Finanza, molto funzionale a dire la verità. Dal 14 dicembre, data dell’entrata in vigore della norma, fino a ieri pomeriggio sono stati pubblicati e diffusi 28 comunicati stampa. Ricordiamo che la norma prescrive che 1: «La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico». 2: «Il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. L’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano». Il sequestro di luminarie natalizie non a norma o quello di 400 calzature riproducenti la foggia di famosi marchi, quali “Converse” modello “All Star” e “Superga” a quale dei due canoni risponde: prosecuzione di indagine o interesse pubblico? Tanto è vero che il professor Spangher ci dice: «immagino l’interesse pubblico come qualcosa di più alto, più pregnante». Inoltre per tutti i 28 comunicati non c’è scritto se sono stati autorizzati dal procuratore, bisogna darlo per scontato. Anzi, parlando con un tenente colonnello della Gdf ci è stato spiegato che un comunicato di due giorni fa era della Procura e loro hanno chiesto di caricarlo sul loro portale: ma di tutta questa trafila non c’è traccia. In più non c’è l’atto motivato che li giustifichi – la norma non prevede che venga inserito da qualche parte – e quindi non possiamo desumere le ragioni dell’interesse pubblico. La norma prevede anche che «nei comunicati e nelle conferenze stampa è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». Ieri tre sono le operazioni a cui è stato dato un nome: «All black», «Cavallo di Troia» e «Relax»: la prima si riferisce all’individuazione di 22 lavoratori in nero in un centro termale, la seconda ad arresti e sequestri alla ‘ndrangheta, la terza a presunti maltrattramenti e torture nei confronti di pazienti psichiatrici. Sono queste denominazioni lesive della presunzione di innocenza? Apparentemente no, in quanto non sembrerebbero essere in diretta correlazione con degli indagati, di cui non sono presenti i nomi. A meno che la gente del posto non riesca a risalire alle persone coinvolte. Rispetto al linguaggio sottoponiamo alla vostra attenzione questa espressione, tratta dal comunicato sull’operazione «Cavallo di Troia»: «sulla base del quadro accusatorio delineatosi nel corso delle investigazioni, allo stato in fase di indagini preliminari e fatte salve le successive valutazioni di merito, gli indagati risulterebbero aver gestito…». Questo passaggio sembra chiaramente rispettare la previsione normativa per cui «Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata». Tuttavia nello stesso comunicato leggiamo che 8 persone sono «tutte ritenute responsabili, a vario titolo, di reati fiscali, fallimentari – aggravati dall’agevolazione mafiosa – e, per 2 di loro, anche di concorso nell’associazione mafiosa denominata “ndrangheta”». In questo caso, evidenzia Spangher, «siamo in presenza di una pre-imputazione che potrebbe configurarsi oltre il limite della comunicazione consentita». Inoltre nel comunicato sull’operazione «Relax», prosegue Spangher, – «la Guardia di Finanza ha comunicato l’esecuzione di un’ordinanza applicativa di misure cautelari emessa dal gip. Perché lo ha fatto? In questo caso l’attività è esclusivamente in mano al pm e al giudice». Infatti, ad esempio, come previsto dalla circolare emanata dal Procuratore Cantone, secondo la sua interpretazione della legge, gli atti di indagine su cui la polizia giudiziaria può fornire direttamente notizie sono quelli posti in essere prima dell’iscrizione della notizia di reato. E i video celebrativi delle operazioni della Gdf? Su 28 operazioni ne abbiamo trovati 15. La maggior parte di essi mostra le volanti che escono dalla caserma e vi rientrano, tralasciando quella che fino a poco tempo fa era la parte ‘migliore’ ossia l’atto dell’operazione vera e propria. In alcuni casi però si vedono gli indagati, ripresi col volto coperto, mentre starebbero commentando il presunto reato o mentre vengono condotti in caserma. In conclusione, in questi comunicati qualche precisa ed identificabile persona viene messsa alla gogna? Quasi sicuramente no. C’è una eccessiva comunicazione, oltre l’interesse pubblico? Molto probabilmente sì. Ci dice Spangher, «nessuna norma è in grado di coprire tutte le variabili concrete. E quindi dovremmo fare i conti con questo». Intanto l’onorevole Costa ci ha partecipato: «sto raccogliendo i comunicati stampa e facendo un archivio delle conferenze stampa per una approfondita analisi. Chiederò al Ministero di verificare gli atti dei Procuratori su cui si fondano, in modo da comprendere le argomentazioni sulle specifiche ragioni di interesse pubblico».

PRESUNZIONE D’INNOCENZA: PUBBLICATE LE NUOVE NORME SULLA GAZZETTA UFFICIALE. E’ FINITO IL GIUSTIZIALISMO DEI PM E DEI GIORNALISTI “MANETTARI”. Il Corriere del Giorno il 2 dicembre 2021. La Procura potrà informare il pubblico “esclusivamente” attraverso comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, attraverso conferenze stampa. La diffusione di notizie riguardanti i procedimenti penali potrà avvenire solo in due casi: se risulta “strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini”, se “ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Il decreto legislativo n. 188/2021 sulla presunzione di innocenza è stato pubblicato in Gazzetta ed entrerà in vigore dal prossimo 14 dicembre. Queste le principali novità: Divieto per le autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili.

La Procura potrà informare il pubblico “esclusivamente” attraverso comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, attraverso conferenze stampa. La diffusione di notizie riguardanti i procedimenti penali potrà avvenire solo in due casi: se risulta “strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini”, se “ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico“.

Ecco il testo integrale del decreto

DECRETO LEGISLATIVO 8 novembre 2021, n. 188(G.U. 29 novembre 2021 n.284)

DiMartedì, Alessandro Sallusti inchioda Davigo: "Ecco chi ci passava le carte dei processi". Libero Quotidiano il 17 novembre 2021. Botta e risposta "piccante" a DiMartedì tra Alessandro Sallusti e Piercammilo Davigo. "Sallusti? L'ho incontrato di persona qualche volta, credo - spiega l'ex magistrato di Mani pulite -. In tribunale il mio avvocato certamente, visto che è stato condannato più volte per diffamazione nei miei confronti poi il presidente della Repubblica ha commutato la pena da detentiva in pecuniaria". Risposta per le rime del direttore di Libero: "Ricordo altri momenti, altrettanto belli, quando Davigo era giovane magistrato alla Procura di Milano. Noi giornalisti aspettavamo non lui, perché sennò parte un'altra querela, ma gli altri magistrati perché ci passassero carte da pubblicare il giorno precedente. Io c'ero e so benissimo che è andata così". "Ha mai preso una carta dal dottor Davigo?", chiede Giovanni Floris. E Sallusti precisa: "No, no, no. Gliela faccio breve: io ero nel pool che pubblicò sul Corriere della Sera quel famoso avviso di garanzia contro Silvio Berlusconi, era un avviso di garanzia nella disponibilità della Procura di Milano e non ce lo diede né il salumaio né l'avvocato di Berlusconi". "Gliela deste voi la notizia che fece crollare la reputazione dell'allora premier, indagato?", incalza Floris. "Che ragione avremmo avuto, visto che il giorno dopo gli sarebbe stato notificato?". Poi, rivolto a Sallusti: "In quei tempi, io ricordo che insieme a Goffredo Buccini andò a Santo Domingo a intervistare Manzi, presidente della Sea latitante. Quella intervista fece un tale scalpore che obbligò il governo di Santo Domingo a farlo arrestare. Come mai Sallusti, che una volta andava a cercare i latitanti, adesso ha questa sfrenata passione per corrotti e corruttori? Solo questione di soldi o c'è qualcosa nella sua indole che gli fa preferire i cattivi ai buoni?". "No guardi, io non ho alcuna passione per corrotti, corruttori e indagati. A Manzi dicemmo: 'Se lei ritiene, aspetteremmo i giorni che lei ritiene prima di pubblicare, per permetterle di andare via o fare quello che crede'. Lui disse: 'No, no, pubblicate pure domani perché così mi liberate da un peso'". 

La presunzione d’innocenza è legge: ora fate in modo che i pm la rispettino. Da oggi cambia il rapporto tra Procure e informazione. L’esultanza del deputato di Azione Enrico Costa: «Questo è un provvedimento di portata storica». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 dicembre 2021. Da oggi cambia il rapporto tra Procure e informazione: entra finalmente in vigore la norma di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Per celebrare l’evento il deputato di Azione Enrico Costa ha convocato ieri una conferenza stampa alla Camera: si tratta di «un provvedimento di portata storica», ha detto il parlamentare, tra i maggiori sostenitori della nuova norma che ora «non vorremmo venisse svilita sul campo». Per questo occorrerà vigilare, in quanto «il pericolo più grande è l’elusione del provvedimento». Sarà fondamentale l’apporto che tutti gli avvocati potranno dare per verificare il rispetto della legge. E su questo il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza, tra gli intervenuti alla conferenza, ha assicurato che l’Osservatorio Informazione Giudiziaria farà la sua parte. Costa ha presentato ai giornalisti un modulo, scaricabile dal sito presuntoinnocente.com, con cui qualsiasi cittadino potrà segnalare al ministero della Giustizia eventuali violazioni della norma. Insomma, massima volontà affinché la nuova legge non venga aggirata, come già successo in passato per altre disposizioni che pure limitavamo la comunicazione delle Procure. Certo, le perplessità non mancano.

David Ermini due giorni fa, ad un evento organizzato da Unicost, ha infatti detto: «Parlando a titolo personale e di avvocato, non da vicepresidente del Csm, sono un po’ scettico. Se esce la notizia che un personaggio noto è indagato, il danno è già fatto». Abbiamo chiesto un commento al presidente Caiazza alla fine della conferenza: «Che un evento dannoso possa comunque causarsi è fuori discussione; però aver fissato un divieto di rappresentare una indagine in termini pregiudizievoli per l’indagato è un dato assolutamente importante perché si è rafforzato un principio di civiltà contro una deriva tipica del nostro Paese». Presente alla conferenza anche il professor Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma, che ha rilanciato chiedendo la modifica di due articoli della Costituzione, il 27 e il 13: «Per mantenere viva la fiammella di questo cambiamento culturale che investe tutti, i politici devono assumere una iniziativa di modifica costituzionale perché due punti sono assolutamente inadeguati: trasformare la presunzione di non colpevolezza in “considerazione di innocenza” e sostituire la carcerazione preventiva in “misure cautelari”. La semantica è importante. Dico questo perché la ministra della Giustizia Cartabia è una costituzionalista e non credo che si troveranno ostacoli in Parlamento».

Invece, per il deputato di Forza Italia Andrea Ruggieri, «questo è solo un primo passo, il secondo saranno i referendum, verso il traguardo di un ritorno alla civiltà e della fine della cultura del sospetto, del torbido, agitata da una piccola parte di magistrati che hanno danneggiato la sacralità della funzione giudiziaria». L’onorevole Roberto Giachetti di Italia Viva ha proseguito: «Questa norma è un aiuto al Paese per recuperare le radici di una civiltà giuridica e una sponda anche all’interno della magistratura per chi si sentiva isolato e che ora ha uno spunto legislativo cui agganciarsi». Ma un cambiamento deve interessare anche la stampa, che non è direttamente coinvolta dalla nuova norma, come ha sottolineato il giornalista Alessandro Barbano: «Questo è un provvedimento storico, il cui valore è una semina a futura memoria. È evidente però che l’altro corno del problema è la deontologia del giornalismo. La più grande riforma garantista deve essere quella che punti alla qualità del giornalismo pubblico televisivo, perché è il mezzo con cui si forma l’opinione pubblica. Volendo concepire una nuova responsabilità per i giornalisti. Credo che sia indifferibile nella prospettiva di revisione costituzionale qualificare la mediazione giornalistica e attribuirle valore costituzionale, che significa ovviamente anche un impegno a regolare la formazione, il livello di controllo deontologico, senza violare ovviamente la libertà di pensiero».

Post scriptum

L’on. Costa ha redatto un modulo per segnalare eventuali violazioni della nuova norma, che saranno raccolte e sottoposte al ministero della Giustizia. 

Valentina Errante per "Il Messaggero" il 14 dicembre 2021. Stop scoop e indiscrezioni giornalistiche su inchieste e indagati. Da oggi solo i procuratori potranno intrattenere rapporti con la stampa, esclusivamente tramite comunicati ufficiali. Le conferenze stampa dovranno essere limitate ai casi di rilevanza pubblica dei fatti e convocate con un atto motivato. Ossia, solo se la notizia sia strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o in presenza di altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. Le stesse regole varranno anche per la polizia giudiziaria, che potrà parlare con i giornalisti, solo se delegata dai capi delle procure. La legge sulla presunzione di innocenza entra in vigore oggi, il decreto approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso novembre dà questa forma alla direttiva europea del 2016 che, se non recepita, avrebbe messo in gioco una parte dei fondi del Pnrr. Il provvedimento, fortemente voluto dal parlamentare Enrico Costa di Azione, ha avuto parere favorevole dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato e del Csm, ma in tanti sono perplessi: dal presidente dell'Anm a molti magistrati. 

I DIVIETI

La legge vieta ai magistrati di «indicare pubblicamente l'indagato come colpevole» in una qualsiasi dichiarazione che non sia una sentenza. In caso ciò avvenga e non arrivi una rettifica entro 48 ore, il procuratore in questione rischia delle conseguenze disciplinari e può essere condannato ad un risarcimento danni. Mentre nelle ordinanze di misura cautelare l'autorità giudiziaria dovrà limitare «i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l'adozione del provvedimento». Infine, non sarà più possibile «assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». 

GLI ATTI PUBBLICABILI

Le norme stridono tuttavia con l'articolo 114 del Codice di procedura penale: «È sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto». Un principio che consentirà di pubblicare ancora frammenti di ordinanze e intercettazioni, così come decreti di perquisizione dove sono riportati i nomi degli indagati. Per i giornalisti sarà soltanto più difficile procurarseli. Agli avvocati non sarà vietato parlare con la stampa e fornire gli atti. Ma non sarà più possibile verificare le notizie girate dai legali con chi abbia svolto le indagini. 

LE REAZIONI

Enrico Costa, che rivendica il recepimento della direttiva europea come un successo di Azione, ha già preparato un modello di segnalazione che i cittadini potranno inoltrare, in caso di presunte violazioni, al ministero della Giustizia. E ieri, in una conferenza stampa, a fianco del presidente dell'Unione camere penali, Giandomenico Caiazza, ha mostrato la sua soddisfazione: «È un provvedimento di portata storica, perché queste norme cercano di stabilire regole di buon senso alle quali si devono adattare le autorità pubbliche nel confrontarsi con il tema della presunzione di innocenza. Vorremmo - ha aggiunto Costa - che la riforma non fosse svilita sul campo. Abbiamo visto procuratori che hanno considerato le norme come se fossero acqua fresca, altri invece come Cantone le hanno affrontate sul serio».

E Caiazza ha commentato: «Non so se sia una pagina storica, certamente è una pagina di grande importanza e di grande rilievo».

Già a settembre il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia aveva espresso i suoi dubbi sullo schema della norma durante l'audizione in commissione Giustizia alla Camera. Così come hanno fatto molte toghe.

All'indomani dell'approvazione del decreto legislativo, Santalucia era tornato sulla questione nella relazione che, a novembre, ha aperto il comitato direttivo centrale dell'Associazione: «Si è irragionevolmente irrigidita la comunicazione con la stampa dei procuratori della Repubblica, che potranno servirsi esclusivamente di comunicati ufficiali e, nei casi di particolare rilevanza pubblica, di conferenze stampa - ha osservato Santalucia - Regole che non renderanno un buon servizio, questo è il timore, all'esigenza di una corretta informazione su quanto accade nel processo durante la fase delicatissima delle indagini». 

Presunzione di innocenza, parla Cantone: "La legge non va usata contro la libertà di stampa”. Liana Milella su La Repubblica il 15 dicembre 2021. Intervista al procuratore di Perugia: "La nuova norma non è un bavaglio, ma può burocratizzare troppo il rapporto tra media e pm. Il caso Maresca a Napoli? Lui ha fatto una scelta legittima che un legislatore serio  avrebbe dovuto impedire".  La legge sulla presunzione d’innocenza? «Non è un bavaglio, ma burocratizza i rapporti tra giornalisti e procure». Spariranno i fatti dai giornali? «Se uno stupratore viene arrestato, la notizia deve uscire». Caso Maresca? «Scelta legittima ma che un legislatore serio avrebbe dovuto impedire». La riforma del Consiglio superiore della magistratura? «No ai consiglieri dell’Anm che vanno al Csm».

Presunzione d’innocenza, Bartoli: «Norma spropositata, cancella le notizie». Il presidente dell'Ordine dei giornalisti: «La presunzione d'innocenza va salvaguardata, ma la norma è rischiosa per la democrazia e per i cittadini». Il Dubbio il 16 dicembre 2021. Il neo presidente dell’ordine dei giornalisti, Carlo Bartoli, eletto al posto di Carlo Verna, storico cronista Rai, non approva la normativa sulla presunzione d’innocenza. In un’intervista al “Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio, il rappresentante nazionale dei giornalisti italiani fa una distinzione tra la necessità di salvaguardare il principio d’innocenza delle persone che finiscono sotto indagine o che sono imputate e il dovere e il diritto della stampa di pubblicare notizie di interesse pubblico riguardanti inchieste giudiziarie, senza omettere nulla. «L’esigenza alla quale prova a rispondere questa nuova legge – afferma Bartoli – è assolutamente giusta e la condividiamo tutti. Va certamente salvaguardata la presunzione d’innocenza»

«Il punto è: come la si salvaguarda? È questo il vero strumento, o per salvare la presunzione di innocenza si è disposti a ridurre la possibilità di dare conto di quella che è l’attività della giustizia? Perché, al di là di ogni altra considerazione, una delle preoccupazioni di uno Stato è sicuramente quella di dimostrare ai cittadini che esercita l’azione della giustizia in maniera imparziale, senza guardare in faccia a nessuno. Il solo fatto di non poterlo raccontare, secondo me, rappresenta un grave problema» dichiara Carlo Bartoli.

Secondo Bartoli, la norma sulla presunzione d’innocenza «è spropositata», perché «le notizie rischiano di scomparire dietro questo paravento. Ma io voglio dire una cosa e la voglio dire molto chiaramente: i giornali sicuramente talvolta hanno commesso degli errori, anche gravi. Poi ciascuno paga. Ma non ci si è accorti che sono altri gli ambiti che vedono la presunzione di innocenza massacrata, a cominciare da trasmissioni televisive che non hanno alcun carattere giornalistico. Forse dovrebbero cominciare da lì, non dal limitare la fruizione di informazioni su inchieste, indagini e processi».

«Questa norma va ben oltre, è molto rischiosa per la democrazia e per il senso che i cittadini devono avere della giustizia. Ormai la norma è in vigore. Cosa si può fare per limitare i danni adesso? L’ideale sarebbe la possibilità di ridiscutere, di rivalutare questa norma, ma nel frattempo bisogna chiedere ai magistrati di applicarla con molto buon senso. Vediamo che conseguenze pratiche avrà e poi prenderemo una decisione. Forse l’Ordine dei giornalisti avrebbe dovuto fare qualcosa prima.

A settembre scorso, convocati in Commissione Giustizia dove si stava discutendo lo schema di decreto legislativo, l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della Stampa non si sono presentati. In questo c’è del vero. Io sono stato eletto presidente da pochi giorni, ma mi prendo la responsabilità anche per quello che non è stato fatto in precedenza. Se è stato fatto poco me ne assumo la responsabilità».

Salvi: «Sì alla presunzione d’innocenza, ma informare è un dovere». Il procuratore generale Giovanni Salvi prende posizione sulla presunzione d'innocenza ricordando che la norma prevede il rispetto delle parti processuali. Il Dubbio il 21 dicembre 2021. «Informare l’opinione pubblica non è manifestazione della libertà di espressione del magistrato ma è un preciso dovere d’ufficio come più volte affermato anche dalle fonti europee». Lo sottolinea la procura generale della Corte di Cassazione, guidata da Giovanni Salvi, in un comunicato diffuso oggi che dà conto di una nota inviata lo scorso 6 dicembre a tutti gli uffici di procura per «accoglierne esperienze e valutazioni, al fine di raggiungere orientamenti condivisi che diano piena attuazione alla presunzione di innocenza e al rispetto delle vittime e dei testimoni». «La nuova disciplina richiede agli uffici del pubblico ministero un approccio uniforme consapevole al diritto di informazione», ricorda la procura generale, evidenziando che «l’informazione deve essere rispettosa della dignità della persona e dunque degli imputati, delle vittime e di tutti coloro che prendono parte al processo; essa deve essere corretta e non basarsi su canali privilegiati tra magistrati e giornalisti».

Al tempo stesso, «l’informazione deve essere tempestiva completa e tale da fornire all’opinione pubblica in maniera aperta e trasparente tutto ciò che è proporzionato alla rilevanza della notizia. Non si può neppure abdicare al dovere di fornire con continuità le informazioni necessarie nelle varie fasi di un procedimento basato sul contraddittorio tra le parti, al fine di evitare – conclude la nota – che questo si trasformi in processo a mezzo stampa o peggio nei salotti televisivi senza che sia possibile una completa conoscenza dei fatti».

Quel processo al Dubbio è un processo al giornalismo libero. Il nostro Damiano Aliprandi è alla sbarra per la sua inchiesta antimafia e qualche giudice protesta perché diamo voce all'avvocatura e al diritto di difesa umiliato. Davide Varì su Il Dubbio il 21 dicembre 2021. C’è un pezzo di magistratura – un pezzo minoritario per la verità – che ha ancora qualche problemino con la libertà di stampa, che urla al bavaglio se viene approvata una legge a tutela della presunzione di innocenza degli indagati, ma non si fa scrupoli a portare alla sbarra giornalisti che fanno il proprio dovere: ovvero il pelo e contropelo al potere, a tutto il potere, anche a quello giudiziario. Noi del Dubbio in queste ore siamo finiti al centro delle attenzioni di chi non tollera critiche o un presunto “eccesso di libertà”. Niente di drammatico per la verità: di certo non consideriamo intimidatorio un comunicato di una sezione dell’Anm che si è mobilitata perché la nostra Valentina Stella ha osato dar voce ad avvocati che denunciano “censure” da parte di alcuni giudici; né ci spaventa il processo che sta subendo il nostro Damiano Aliprandi, il quale, in questi anni, ha provato a far luce su uno degli eventi più drammatici della storia del nostro paese: parliamo delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E qui occorre la massima chiarezza, perché se è vero che non siamo intimiditi, è altrettanto vero che la questione è terribilmente seria.

Il processo ad Aliprandi, infatti, non riguarda soltanto lui e il nostro giornale: sul banco degli imputati c’è infatti il giornalismo italiano e in gioco c’è la credibilità del nostro sistema giudiziario. Chi legge il Dubbio conoscerà di certo la storia: Aliprandi – forse il più preparato e scrupoloso giornalista antimafia – è stato querelato da due magistrati che si sono sentiti denigrati da una inchiesta a puntate sulla vicenda del dossier “Mafia e appalti”. Cos’è “Mafia e appalti”? Probabilmente è il buco nero dell’antimafia italiana, una vicenda che potrebbe aver giocato un ruolo determinante nelle morti di Falcone e Borsellino. Riassumiamo in due parole: Giovanni Falcone e il colonnello Mario Mori – sì, proprio lui, il servitore dello Stato trattato come un criminale – indagavano da anni sui legami tra Cosa nostra e un pezzo di economia italiana. Il 23 maggio del ‘92 Falcone viene trucidato a Capaci e, poche settimane dopo cominciavano a redigere la richiesta di archiviazione, tanto che l’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco – e parliamo di colui che venne accusato da un magistrato limpido come Caponnetto di aver emarginato, umiliato e isolato Falcone -, ecco quel Giammanco avrebbe avuto uno scontro in procura con lo stesso Borsellino sulla “gestione” di “Mafia e appalti”. E qui abbiamo la testimonianza di Domenico Gozzo, uno dei magistrati presenti a quella riunione, che parla esplicitamente di “contrasto più che latente”. Qualche giorno dopo lo stesso Borsellino strappa la promessa di poter proseguire l’indagine, ma di lì a poco viene trucidato con la sua scorta a via d’Amelio. Quante coincidenze. Solo molti anni dopo la storia viene ripresa da Damiano Aliprandi, il quale, grazie a un lavoro certosino e allo studio incrociato di migliaia e migliaia di atti giudiziari, ne coglie la straordinaria e sinistra importanza. Insomma, capite bene che questa inchiesta non solo fa emergere un filone dimenticato che potrebbe far luce sulle reali ragioni per le quali Falcone e Borsellino vennero uccisi, ma conferma ancora una volta l’inconsistenza del teorema Trattativa Stato-mafia, una indagine che del resto è già stata demolita dalla recente sentenza con cui sono stati assolti Mori, De Donno e Subranni.

Noi del Dubbio siamo certi che il nostro Damiano Aliprandi verrà assolto – troppo evidente la forza della sua inchiesta – eppure non possiamo non constatare il fragoroso silenzio della stampa italiana. Un silenzio assenso che rischia di assecondare un’azione giudiziaria capace – stavolta sì – di “imbavagliare” un’operazione giornalistica che ha l’ambizione di districare quel groviglio opaco di poteri e interessi che si sono mossi dietro la morte di Falcone e Borsellino. Ma quali sono i motivi di tanta inquietudine nei confronti di un lavoro giornalistico così rigoroso e trasparente? Il problema è dato dal fatto che l’inchiesta di Aliprandi riscrive il racconto ufficiale di quella vicenda e chi si discosta e contesta la Bibbia dell’antimafia diventa nemico, addirittura complice. Ed evidentemente non basta che quel “testo sacro” stia crollando anche nelle aule dei tribunali; né bastano gli appelli alla “continenza” da parte di magistrati più illuminati.

Una prova? I nuovi apostoli dell’antimafia di Stato se ne fottono anche di personalità cristalline come il procuratore De Raho che appena qualche giorno fa ha ricordato come sia dannoso per la credibilità della giustizia continuare ad alimentare “il protagonismo di alcuni magistrati attraverso la partecipazione ad alcuni circoli mediatici che tendono alla costruzione di verità alternative mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazioni”. Più chiaro di così. Ma è evidente che qui la lotta alla mafia c’entra poco: chi difende quel racconto – e non parliamo solo di magistrati – in realtà difende se stesso, la propria immagine pubblica, la propria posizione di potere. Insomma, siamo di fronte a una vicenda incandescente e non vorremmo che fossimo gli unici a dover ricordare, soprattutto all’ordine dei giornalisti, che in ballo non c’è solo il Dubbio ma l’articolo 21 della nostra Costituzione: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Avete presente?

Il silenzio della stampa. Molestie di Creazzo, i giornali censurano la notizia per ordine del partito delle Procure. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Dicembre 2021. Il Csm – come voi sapete e pochi altri sanno, tra poco vedremo perché – ha riconosciuto il Procuratore di Firenze colpevole di violenza sessuale verso una sua collega. Il Csm ha inflitto al Procuratore di Firenze, per questa (diciamo così) malefatta, una pena che consiste in due mesi di perdita di anzianità. Il relatore nella sezione disciplinare che doveva giudicare e punire era Giuseppe Cascini, Torquemada contro i reati della pubblica amministrazione (tipo l’imperdonabile traffico di influenze). Il Presidente era David Ermini, cioè il capo del Csm. Il Csm ha dichiarato anche che l’aggressione del Procuratore di Firenze nei confronti di una sua collega è da considerare un “fatto privato”. Bene, non so se avete mai frequentato una scuola di giornalismo. Anche se non l’avete frequentata, capite bene che questa è una notizia clamorosa, se vera. Naturalmente aspettiamo la Cassazione prima di dare per certa la colpevolezza del Procuratore di Firenze. Però sappiamo per certo che il Csm ha giudicato “un fatto privato” l’incontro violento tra il Procuratore e la magistrata che avrebbe subito violenza sessuale. E di conseguenza il Csm ha stabilito che non era necessario nessun intervento sulla carriera del Procuratore, né tantomeno la sua rimozione, ma solo – così, proprio per non fare figuracce – la pena minima ipotizzabile. Questa dei due mesi tagliati via da una pensione che sarà ridotta circa del 0,4 per cento. Tutti i grandi giornali hanno considerato questa notizia una notizia da pagina 32, piccola piccola, infondo alla pagina (parlo del Corriere della Sera). Più o meno come si dà la notizia di un modesto furto in un supermercato, o di un ingorgo, o qualcosa del genere. L’esempio del Corriere è stato seguito dagli altri grandi giornali, Repubblica, il Messaggero, La Stampa.

Io però conosco i miei colleghi. Sanno fare il loro lavoro, almeno i più anziani lo sanno fare, lo hanno fatto per tanti anni e bene. A nessuno di loro può venire neppure in mente che quella notizia non fosse una clamorosa notizia da prima pagina. Sia per l’enormità del fatto che coinvolge un Procuratore della repubblica, cioè una delle massime autorità del paese (che, tra l’altro, sta indagando su Renzi e Berlusconi ) sia per l’ignominia di un Csm che definisce “fatto personale” una molestia o una violenza sessuale, cosa che non avrebbe fatto neppure un pretore di campagna degli inizi del secolo scorso. Del resto il silenzio non ha riguardato solo la stampa: la politica ha fatto altrettanto. E allora, tutto questo come si spiega? In un solo modo: con la consapevolezza che oggi il sistema delle Procure, che purtroppo comprende anche il Csm, dispone di un controllo ferreo e inaggirabile sulla politica e sull’informazione. I grandi giornali sono tenuti ad obbedire, e obbediscono, come sotto giuramento. Mai un piccolo gesto di ribellione. Se Procuratore, o Csm comanda, giornalista obbedisce. Naturalmente non c’è nessuna possibilità, in queste condizioni, di parlare di libertà di informazione. La libertà d’informazione, in Italia, esiste su molti piani. Ma esclude la possibilità di critica al potere più grande. Cioè al potere giudiziario. Chi ha voglia di contrastare questa tendenza totalitaria – come noi, per esempio – deve convincersi che dovrà farlo più o meno dalla clandestinità, come facevano i nostri nonni che si opponevano al Minculpop.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il Partito dei Pm e dei giornalisti indignato. Il presidente dei giornalisti Carlo Bartoli si schiera contro la Costituzione: guerra alla presunzione d’innocenza. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Dicembre 2021. Il nuovo presidente dell’Ordine dei Giornalisti si chiama Carlo Bartoli. Viene dalla Toscana, dove ha lavorato nelle redazioni della Nazione e del Tirreno, ha insegnato giornalismo all’Università ed è stato per molti anni presidente regionale dell’Ordine. Personalmente non lo conosco. Avevo riposto molte speranze nel cambio al vertice perché comunque la sua elezione poneva fine al precedente mandato, che non avevo molto apprezzato. Mi ricordo di una presa di posizione del Presidente dell’epoca, circa un anno fa, con una dichiarazione un po’ scombiccherata, a favore dei magistrati che querelano i giornalisti (in quel caso il giornalista ero io). Però la prima uscita pubblica di Carlo Bartoli, francamente, mi ha gettato nello sconforto. Ha rilasciato un’intervista al Fatto quotidiano sulla presunzione di innocenza. Al Fatto? Sì. Il Fatto Quotidiano, per capirci, oltre a essere notoriamente l’organo ufficioso dell’Anm (cioè del partito dei Pm) è il giornale dove scrive – e sul quale esercita molto ampiamente la sua influenza – Piercamillo Davigo. A me, dopo tanti anni, Davigo – ora che è in pensione – è anche diventato simpatico. Tuttavia la sua teoria giuridica è nota: quando una persona finisce a processo, specie se è un politico o un imprenditore, è colpevole. Poi può succedere – e spesso succede – che sia assolto, ma questo vuol dire solo che l’ha fatta franca, non certo che sia innocente. Ho un po’ rozzamente sintetizzato il pensiero di Davigo, ma la sostanza mi pare che sia quella. E il Fatto quotidiano, di solito, accoglie senza sfumare – ma anzi enfatizzando – il pensiero di Davigo. Siamo sicuri che se uno vuole esprimere la sua posizione sulla presunzione di innocenza, come atto di inaugurazione del suo mandato a capo dei giornalisti italiani (è entrato in carica la settimana scorsa) debba rivolgersi proprio al Fatto? Carlo Bartoli, nell’intervista, si scaglia contro la legge sulla presunzione di innocenza appena entrata in vigore, approvata dal Parlamento e chiestaci dall’Europa. Perché l’Europa ci aveva chiesto questa legge? Per permettere all’Italia di allinearsi in qualche modo agli altri paesi europei dove vige lo Stato di diritto e dove la presunzione di innocenza è un dogma. Credo che l’Italia fosse l’unico paese nel quale un Pm poteva sventolare la colpevolezza di un suo indiziato (nemmeno imputato: indiziato), con una conferenza stampa o con una trasmissione in Tv o con un’intervista sui giornali, senza dare neppure all’indiziato la possibilità di difendersi, Era palese a tutti la condizione di inciviltà e di contrasto con le norme europee e con la stessa Costituzione italiana. I precedenti governi, a guida 5 Stelle, non avevano ovviamente avuto la possibilità di intervenire, perché fortemente subordinati al partito dei Pm, il quale non ha mai sopportato la presunzione di innocenza e l’ha sempre considerata un ostacolo (da eliminare) al corretto sviluppo delle indagini e alla punizione preventiva dei presunti colpevoli. Però poi si è insediato il governo Draghi ed è stato impossibile evitare l’approvazione della nuova norma che riporta l’Italia nel rispetto della Costituzione italiana ed evita una pesante sanzione da parte dell’Europa. La norma ha prodotto molti dissensi tra i magistrati e i giornalisti giudiziari (categorie che spesso hanno un confine assai evanescente). Ma anche alcuni consensi molto autorevoli. Perché è bene che si sappia: la magistratura, è vero, è nelle mani di un pugno di Pm giustizialisti che ne condizionano gli assetti, le decisioni e la sistemazione del potere; ma dentro la magistratura esistono moltissime persone assennate e non assetate di manette. Così persino il capo della Procura nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, ha espresso il suo parere favorevole alla legge, ha stigmatizzato gli atteggiamenti sceriffeschi e poco seri dei Pm che amano gli show, e ha chiesto che con un processo in corso nessun magistrato agisca sui media in modo da condizionare in qualche modo la giuria a sfavore degli imputati. Dicono che la cosa sia stata accolta con molto fastidio in diversi palazzi di giustizia. Ma soprattutto nelle redazioni dei giornali. Cioè, non esattamente nelle redazioni: nelle stanze dei cronisti giudiziari, i quali però, ormai, purtroppo, sono i padroni incontrastati di molti quotidiani e di moltissimi servizi giornalistici delle Tv. Forse proprio questo fastidio ha spinto Carlo Bartoli a schierarsi, in modo netto, contro la legge approvata dal Parlamento, contro la Costituzione (articolo 27) e contro l’Europa. Bartoli sostiene che con questa legge, proibendo ai Pm di fare spettacolo o anche semplicemente di avere rapporti confidenziali (ricambiati con articoli amichevoli) coi cronisti giudiziari, si lede il diritto di cronaca. Bartoli dice anche che la pubblicità del processo e dell’azione penale è un cardine dello stato di diritto. E questo è, in parte, vero. Cioè, è vero che la pubblicità del processo è un cardine della stessa Costituzione. Ma la nuova legge non mette in discussione la pubblicità del processo. La pubblicità di tutta l’azione penale invece non è stabilita da nessun principio, e anzi, una parte dell’azione penale è – per un periodo o per sempre – coperta da segreto. Questo segreto, immagino che Bartoli lo sappia bene – spesso è violato dai giornalisti in combutta coi Pm. Spesso è violato addirittura con intenti che non hanno niente a che fare col processo: serve solo a gettare fango. Un esempio recente? Beh, tutte le intercettazioni marginali (e illegali) che servono a ritrarre Matteo Renzi come un poco di buono molto spregiudicato – anche se non si delinea nessun reato – offerte graziosamente ai giornalisti che, graziosamente, le hanno pubblicate. La pubblicità del processo invece – dicevamo – non è in discussione. Purtroppo questa pubblicità non è certo garantita dalla stampa. Volete qualche cifra, ad esempio, sui giornalisti che hanno partecipato alle conferenze stampa che presentavano il processo “Mafia Capitale” fornendo esclusivamente la versione dell’accusa? Due o trecento. Volete le cifre dei giornalisti che hanno poi seguito il processo vero e proprio, dove si confrontavano accusa e difesa? Tre. Sì, avete letto bene: tre, di cui solo una costantemente. Pubblicità del processo? Ma non diciamo bubbole. Dico così, eh, senza accusare nessuno, solo per spiegare qual è lo scrupolo professionale di noi cronisti. Detto questo, voglio capire: noi giornalisti dobbiamo quindi sentirci parte di una squadra, guidata dai vertici dell’Ordine dei giornalisti, che si schiera contro la legge, contro la Costituzione, e vuole il mercato libero della gogna e del pettegolezzo?

Se qualcuno di noi – magari una ventina…- volesse dissociarsi che cosa potrebbe fare?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'analisi sulla nuova normativa. La presunzione d’innocenza non è un bavaglio alla stampa ma un diritto. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. Il 14 dicembre scorso è entrato in vigore il Decreto Legislativo per il compiuto adeguamento della normativa italiana alle disposizioni della direttiva dell’Unione europea numero 343 del 2016, sul rafforzamento della presunzione d’innocenza. Il termine fissato dal testo europeo era il 1° aprile 2018. Il nostro Paese giunge, pertanto, a recepire la direttiva dell’Ue con un ritardo di oltre tre anni. Invero, nella nostra Costituzione – e quindi dal 1948 – vi è già il principio di “non colpevolezza”, indicato dal secondo comma dell’articolo 27: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Si rafforza, dunque, un elemento cardine di civiltà giuridica e sociale, che dovrebbe essere di pacifica evidenza. Ma così non è! Non a caso, infatti, in questi giorni si è riacceso il dibattito sulla libertà di stampa, sul diritto di cronaca, sulla necessità d’informare l’opinione pubblica in relazione al secondo comma dell’articolo 21 della Costituzione, che prevede che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Invero, il primo comma del medesimo articolo disciplina la “libertà di pensiero” e recita testualmente: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Il secondo comma non può che essere messo in relazione con il primo, nel senso che ai media non può essere impedito di esprimere opinioni e devono essere liberi da qualsiasi bavaglio che ne condizioni la libertà. È questo un fondamento imprescindibile di civiltà, che non può certamente essere soppresso. Siamo, però, nel campo della libertà di opinioni e non certo in quello della cronaca giudiziaria, che consiste nell’informare l’opinione pubblica di fatti veri e di pubblico interesse. Il nodo da sciogliere è, quindi, se il diritto di cronaca può essere ritenuto forma di manifestazione del pensiero. Lascio al lettore il giudizio, non è sulle pagine di un giornale che la questione può essere approfondita. Vale la pena, invece, verificare quali siano le indicazioni di “rafforzamento” del principio di non colpevolezza, ovvero di presunzione d’innocenza, che la norma appena entrata in vigore stabilisce. Innanzitutto il decreto non coinvolge gli organi d’informazione, ma esclusivamente le autorità pubbliche. Queste hanno il divieto d’indicare come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con provvedimento di condanna definitivo. Vengono poi rivisti i rapporti tra le Procure della Repubblica e gli organi d’informazione, nel senso che il procuratore capo, ovvero un suo delegato, potrà informare esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare e motivata rilevanza pubblica dei fatti, con conferenze stampa. La diffusione delle informazioni sui procedimenti penali è consentita, inoltre, solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o se ricorrono altre specifiche ragioni d’interesse pubblico. In ogni caso le persone coinvolte non possono essere indicate come colpevoli. Ove ciò non avvenga, l’interessato ha diritto di richiedere all’autorità pubblica la rettifica della dichiarazione resa ed eventualmente il risarcimento del danno causato dalla notizia. L’autorità dovrà provvedere, non oltre le 48 ore dalla richiesta, alla rettifica che deve essere resa pubblica con le stesse modalità della dichiarazione. Letta la norma, dunque, non può certo affermarsi, come qualcuno ha fatto, che si è voluto limitare il diritto di cronaca, ovvero mettere il bavaglio alla stampa. I media restano liberi di pubblicare le notizie che ricevono. Il giusto limite è stato messo alla fonte, che ha il dovere di tutelare la persona indagata che, non solo non dovrà far apparire come colpevole, ma dovrebbe ritenere, anche nel corso dell’indagine espletata o da espletare, innocente e da tutelare sempre e in ogni caso, perché spetterà poi ai giudici valutare gli atti del procedimento e giungere a sentenza. Una rivoluzione culturale che sarà difficile da ottenere. Solo pochi giorni fa, su un quotidiano, vi era notizia dell’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di una persona indicata con nome e cognome e subito dopo veniva precisato «…il provvedimento è in corso di notifica». Tra il dire e il fare, nel nostro Paese ci sarà sempre il mare… Riccardo Polidoro

Se le toghe diventano fan della libertà d'informazione. Luca Fazzo il 16 Dicembre 2021 su Il Giornale. E adesso, improvvisamente, i magistrati si scoprono fan della libertà di informazione. E adesso, improvvisamente, i magistrati si scoprono fan della libertà di informazione. Si tratta degli stessi magistrati che - con poche, lodevoli eccezioni - fino a ieri amavano così tanto i diritti della stampa da querelare ad ogni piè sospinto chi osasse anche timidamente criticarli. E che oggi invece in convegni e interviste si preoccupano delle esigenze dell'informazione messe a rischio dal decreto legislativo che l'8 novembre scorso ha cercato di riportare un po' di civiltà nei rapporti tra giustizia e informazione. Un decreto cui l'Italia era obbligata da una direttiva europea, ma che secondo le toghe è andato ben oltre il mandato di Bruxelles. In realtà il decreto dice poche e in fondo banali cose: che le notizie degli arresti e di quant'altro le può dare solo il capo della Procura, e che non può darle in corridoio o chiacchierando con questo o quel cronista, ma con una conferenza stampa o con un comunicato; che può farlo solo se la notizia ha rilievo pubblico; e che dando la notizia si dovrà rispettare il criterio costituzionale della presunzione di innocenza, quella buffa cosa per cui un malcapitato ha diritto di non essere considerato colpevole finché non lo si dimostra: in un processo, e non in un mandato di cattura o in un talk show. Sono misure così ovvie da rendere fondato il timore che cambierà poco: chi ama spifferare lo scoop al reporter contiguo continuerà a farlo, perché in 75 anni di repubblica non un solo magistrato è stato condannato per fuga di notizie; e il tributo alla presunzione di innocenza diventerà un vezzo formale, un preambolo di prammatica alle conferenze stampa; esaurito questo fastidio, per la serie «Bruto è un uomo d'onore», si tornerà a presentare come prove quelle che nessun giudice ha ancora ritenuto tali, e a offrire in pasto all'opinione pubblica semplici indagati. Il decreto appartiene insomma a quella cerchia di norme nobili e inutili su cui in genere nessuno storce il naso. Eppure l'indignazione serpeggia tra i magistrati; specie (e non a caso) tra i pubblici ministeri, che temono l'affievolirsi dei riflettori sul teatro delle manette. In un convegno, uno di loro ha detto che la conferenza stampa in «certi territori» serve a «rappresentare la presenza dello Stato». Un altro ha detto che «ci si dimentica che il pm fa indagini anche a favore dell'indagato». La cosa dolorosa è che nessuno è scoppiato a ridere...

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

«Non è un bavaglio, e i magistrati non sono i tutori della morale». Maddalena (Anm): «Il sistema giudiziario deve parlare all'esterno, ma deve anche saper resistere ai richiami del protagonismo mediatico». Simona Musco su Il Dubbio il 14 dicembre 2021. «Nessun magistrato dovrebbe mai ricoprire il ruolo di moralizzatore, non gli compete assolutamente. Ha un ruolo diverso: ricerca le prove, la verità, accerta i fatti e rende giustizia nell’interesse dei cittadini. Non è compito del magistrato esprimere giudizi morali». A dirlo al Dubbio è Alessandra Maddalena, vicepresidente dell’Anm ed esponente della corrente Unicost, secondo cui «il sistema giudiziario deve parlare all’esterno, ma deve anche saper resistere ai richiami del protagonismo mediatico: la giustizia è credibile anche in relazione all’immagine che di sé dà all’esterno».

Oggi entra in vigore il decreto legislativo che disciplina la diffusione di informazioni sulle indagini giudiziarie. Come interpreta questa novità?

Lo spirito di fondo è assolutamente condivisibile. L’informazione giudiziaria è necessaria, in quanto è uno strumento di controllo democratico del modo in cui viene esercitata la giustizia. E sicuramente è importante anche informare sui successi investigativi, perché serve a rafforzare la fiducia dei cittadini e la loro voglia di collaborare. In questo modo, in certi territori, si combatte l’omertà e non lasciamo soli i magistrati di trincea, che rischiano la vita. Ma l’altro aspetto del discorso è la tutela della dignità dell’indagato e dell’imputato fino a sentenza definitiva.

Il sistema giudiziario deve parlare all’esterno, ma deve anche saper resistere ai richiami del protagonismo mediatico, al sensazionalismo. Che produce l’effetto contrario: abbassare la fiducia nella giurisdizione, perché può creare l’impressione che si vada in cerca di popolarità attraverso l’indagine e che la stessa sia uno strumento per costruire carriere. La giustizia è credibile anche in relazione all’immagine che di sé dà all’esterno.

Cosa bisogna fare per scongiurare abusi e strumentalizzazioni?

È necessario che l’informazione sia resa sempre in maniera chiara, continente, sobria, evitando anche giudizi morali, che talvolta leggiamo anche in atti giudiziari e che poi vengono portati all’esterno. Bisognerebbe anche intervenire sulla formazione, a partire dalla Scuola superiore della magistratura. Il primo dovere del magistrato è rendere un’informazione corretta, perché un’informazione impropria può essere resa ancora più scorretta da un’eventuale alterazione ed enfatizzazione, producendo una visione totalmente distorta della giustizia e creando nel pubblico la certezza di colpevolezza di chi è indagato, con la lesione della presunzione d’innocenza.

Quando nella fase delle indagini si utilizza questo tipo di comunicazione potrebbero rimanerne vittima anche i giudici e si potrebbe dare l’immagine di una giurisdizione arbitraria, perché di fronte ad una aspettativa di condanna, un’assoluzione fa nascere un sentimento di diffidenza. E il problema è talmente serio che anche il Csm, nel 2018, aveva dettato delle linee guida proprio sulla corretta comunicazione istituzionale, segnalando la necessità di una comunicazione essenziale e oggettiva.

Alcuni magistrati hanno interpretato questa direttiva come un bavaglio, sia per le toghe sia per la stampa. Cosa risponde ai suoi colleghi?

Non mi sento di parlare di bavaglio e non immagino che l’intento del legislatore fosse quello di imbavagliare qualcuno, ma di attuare una direttiva che voleva un rafforzamento della tutela della dignità dell’indagato e dell’imputato. Se poi mi chiede se questo strumento possa realizzare questo obiettivo o non possa produrre addirittura effetti pregiudizievoli allora le dico che qualche dubbio lo nutro.

Perché?

La modalità di comunicazione è stata ristretta al comunicato ufficiale, limitando la conferenza stampa a casi particolari. La cosa di per sé è comprensibile e anche giustificata, perché assicura la comunicazione mettendo gli organi di stampa in parità di condizioni ed evitando la precostituzione di canali riservati con organi di informazione. Ma non lo è in questa forma così assoluta. Neanche la direttiva europea prevedeva questo tipo di restrizione e potrebbero porsi dei problemi quando ci sono situazioni di tale urgenza e rilevanza pubblica per cui da una parte potrebbero non esserci i tempi minimi per organizzare una conferenza stampa e dall’altro potrebbe risultare non efficace un comunicato scritto. Sarebbe stato opportuno quantomeno prevedere un’eccezione nel caso di particolari urgenze. Il dubbio è anche che mettendo paletti troppo stretti in qualche modo le notizie continuino a circolare in maniera poco trasparente, aggirando il problema. Quello della comunicazione è un problema innanzitutto culturale, deontologico.

I rimedi che sono stati introdotti da un lato potrebbero non essere effettivamente risolutivi, perché una volta che una comunicazione errata è stata resa non sarà la rettifica a risolvere il problema e dall’altra parte la stessa rettifica, con la possibilità di ricorrere al giudice con la procedura d’urgenza, probabilmente si traduce in un appesantimento complessivo della macchina giudiziaria, che potrebbe non essere risolutivo davvero. Inoltre la previsione generica di un obbligo di risarcimento del danno potrebbe in qualche modo indurre il magistrato ad ammorbidire sempre la propria posizione per evitare azioni risarcitorie in caso di dichiarazioni extrafunzionali, ma anche nei provvedimenti cautelari: si potrebbe essere indotti ad evitare delle espressioni più decise, anche se funzionali alla motivazioni sulla gravità indiziaria, per non incorrere nella violazione di quella regola non chiarissima introdotta nel decreto e quindi evitare richieste strumentali di correzione di passaggi semplicemente sgraditi all’indagato.

Il procuratore de Raho, in un’intervista, sostiene che i magistrati devono stare fuori dai circoli mediatici. Eppure ci sono magistrati molto esposti mediaticamente.

Condivido le dichiarazioni del procuratore e il giudizio negativo sulla spettacolarizzazione e l’eccessiva presenza dei magistrati nei talk show televisivi, che non credo assolutamente serva a rafforzare la credibilità della giustizia o a recuperare il prestigio dell’ordine giudiziario. Sensazionalismo e protagonismo sono da respingere. E penso alle parole di Livatino, che parlava del magistrato che lavora nelle sue stanze senza preoccuparsi di apparire. Il magistrato deve dare l’immagine di chi è alla ricerca della giustizia, in un senso o nell’altro, né colpevolista né innocentista, ma in maniera oggettiva, nella sostanza e nella comunicazione.

Lo schiaffo della Rai alla presunzione di innocenza. Sigfrido Ranucci sfida Cafiero de Raho: per Report la legge non conta, l’imputato è colpevole. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Dicembre 2021. Bel colpo della Rai, nel giorno in cui entra in vigore la legge sulla presunzione di innocenza, nelle stesse ore in cui il procuratore nazionale antimafia denuncia come “patologia del giustizialismo” e “sollecitazione a una giustizia sommaria” certa stampa. Proprio nello stesso giorno il servizio pubblico emette una sentenza di condanna nei confronti dell’avvocato Giancarlo Pittelli, oltre a tutto per fatti per cui non è neppure indagato. Bel colpo, da parte di chi ci estorce ogni mese il canone in bolletta, cioè il servizio di cui ogni cittadino è finanziatore. Dobbiamo per forza sostenere economicamente Report e la sua puntata di lunedi sera, così come quella di Presa Diretta del marzo scorso? E la Commissione di vigilanza ha qualcosa da dire?

Giancarlo Pittelli è un cittadino innocente. Non colpevole secondo la Costituzione, per la precisione. Imputato solo del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa. Arrestato tre volte con una pervicacia torturatrice di stile egiziano. Vittima costante di gogna mediatica, nonostante la Costituzione, nonostante le leggi. Viviamo in un Paese in cui, per costringere la magistratura ad applicare i principi della Carta fondamentale, dobbiamo aspettare le ripetute condanne da parte della Corte Europea e poi anche far approvare dal Parlamento leggi specifiche. In poche parole, per convincere il procuratore di Catanzaro, che ha già dichiarato di infischiarsi della Cedu e delle leggi sulla presunzione di innocenza (e almeno lui non è un ipocrita) a non denunciare in conferenze stampa gli indagati come già colpevoli, dobbiamo metterlo nero su bianco. Se no, né lui né i suoi colleghi lo capiscono. Quindi tutto continuerà come prima, nelle aule di giustizia così come in quelle dei cronisti giudiziari? A giudicare da quel che è successo il primo giorno dell’entrata in vigore della nuova legge, pare proprio di si.

Giancarlo Pittelli entra nella puntata di Report mentre una musica assordante, di quelle dei più trucidi film di Netflix, accompagna la parola “Potere”. Si parla di Monte dei Paschi, di Banca D’Italia, di traffico di diamanti e c’ è sempre il Buono contro i Cattivi, quando improvvisamente si annuncia l’ingresso di “Lui”, il Potere. E ha la faccia dell’avvocato Pittelli. Il viso compare e resta sullo schermo per un bel po’. Non è tanto rilevante la storia che viene narrata, che non pare aver nulla di illegale, e che parla di un progetto di costruzione di un centro turistico su terreni di sua proprietà a Copanello, sulla costa jonica della Calabria, quanto la presentazione del personaggio. Una sorta di scheda biografica che pare un mattinale di questura. Il conduttore Sigfrido Ranucci, che pare sempre accaldato nella fatica della sua lotta di Puro contro gli Impuri, è accompagnato da un altro giornalista di quelli che amano e si indentificano con la toga del pm, Pietro Comito dell’emittente calabrese Lactv.

Ecco come il combinato-disposto giornalistico presenta il cittadino innocente Giancarlo Pittelli: anello di congiunzione tra poteri forti, massoneria, ‘ndrangheta e finanza. Naturalmente pare obbligatorio citare esponenti delle famiglie Piromalli e Mancuso come persone assistite professionalmente dall’avvocato “fin dal 1980”. Il che deve essere un grave reato, secondo la solita vulgata sbirresca dell’ottocento, per cui se l’imputato deve essere identificato con il reato per cui lo si accusa, a maggior ragione tale commistione deve valere per il legale. Mafioso l’assistito, mafioso l’avvocato. Peggio ancora se questi è anche “anello di congiunzione” tra ambienti sospetti quanto la ‘ndrangheta, cioè la massoneria e la finanza. Tutti delinquenti. E chi lo dice che l’avvocato calabrese svolge questo ruolo così importante? Lo dice il procuratore Gratteri, naturalmente. Ah, ma parliamo della stessa persona che nei giorni scorsi ha già detto di considerarsi “legibus solutus” e di conseguenza di non tenere in nessun conto le decisioni del Parlamento? Lo stesso che nella trasmissione di Riccardo Iacona del marzo scorso ha parlato in lungo e in largo, intervistato ben sei volte nel corso della puntata, dell’inchiesta “Rinascita Scott” di cui lui stesso è titolare?

Le premesse ci sono tutte perché la svolta garantistica sulla presunzione d’innocenza fortemente voluta dalla ministra Cartabia sia una strada tutta in salita. Troppo antica, almeno trentennale, è la complicità tra la casta dei pubblici ministeri e quella dei giornalisti fondata sul mercato nero delle notizie coperte da segreto e delle intercettazioni. Tanti cronisti ci campano e ci fanno carriera, anche perché ormai nessun editore o direttore chiede più loro di saper scrivere e parlare in buon italiano per essere assunti e poi emergere nella professione. Si chiede lo scoop, e quello te lo può dare solo il rappresentate del vero potere, il magistrato. La moneta di scambio per il pm che ti rifila le notizie sottobanco, che ti passa le intercettazioni, che ti fa virgolettare le ordinanze (così si sommano i due analfabetismi) è la sua visibilità.

La popolarità che un domani lo può portare anche alla carriera politica. Sarà possibile spezzare questo vincolo “mafioso” con una legge che vieta le conferenze stampa ma, come ogni forma di proibizionismo (anche quello più ricco di buone intenzioni) non può rompere il contrabbando e il mercato nero? Difficile, a vedere quel che è successo il primo giorno. Difficile, ma non impossibile, se è sceso in campo addirittura il procuratore nazionale antimafia. Ora aspettiamo i vertici dell’Ordine e dell’Associazione dei giornalisti. Coraggio, colleghi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La polvere sotto il tappeto. Certi pm sono come i sicofanti: quanto fango in nome della giustizia. Otello Lupacchini su Il Riformista il 15 Dicembre 2021. Non posso nascondere di nutrire delle remore a condividere le riflessioni alle quali mi ha indotto la rilettura, a quasi quindici anni dalla sua pubblicazione, dell’interessante saggio di Clarine Doganis, Aux origine de la corruption (edito da Presses Universitaires de France, Paris. 2007). I numeri impietosi delle statistiche, anche le più recenti, certificano il disastro culturale dell’Italia e, oltre tutto, gli italiani hanno un’idea assai distorta della realtà: nessuno si scandalizza più per le troppe esilaranti affermazioni «storico-scientifiche-sanitarie» dei detentori del potere; al contrario, la denuncia dell’ignoranza e dell’incompetenza di chi ci governa è considerata orgoglio da establishment, reazione aristocratica di una classe dirigente moralmente corrotta, che complotta contro «il governo del cambiamento».

Chiunque abbia il consenso della maggioranza degli elettori, o riesca comunque a manipolare l’opinione pubblica è libero, insomma, di dire e di fare qualsiasi cosa gli venga in mente: la verità non è più adaequatio rei et intellectus, ma adaequatio rei et consensus. Il che è la base epistemologica del totalitarismo. In breve, viviamo in tempi in cui il più banale, il più fiacco e risaputo dei disegni è cambiare gli uomini a ceffoni, riformare il mondo a bastonate; in cui del normale endemico pregiudizio si fa una dottrina, sublimando il carbone del mugugno e dell’intolleranza stracciona; in cui il «popolaccio» si eccita ad ascoltare discorsi da osteria elevati ad altezze sataniche, ballando in essi il demone della volgarità, della mezza cultura, del rancore nei confronti di tutti quei fantasmi che, nelle bettole di tutto il mondo, hanno sempre incarnato la diversità e lo spavento culturale, tanto più minacciosi quanto più indecifrabili: «Potessi sbatterei tutti al muro!» biascica il filosofo da birreria, picchiando il pugno sul tavolo, con la bocca impastata e l’occhio a palla; e «Popolo» è la parola magica, l’«Apriti Sesamo» del demagogo, la chiave di volta dei discorsi da osteria.

Da medio intellettuale educato in ottime scuole, abituato, dunque, a piatti metafisici ben più ricchi e raffinati, mi rifiuto di accettare la brutalità eretta a sistema di giudizio, l’odore rancido della banalità fatto supremo criterio del gusto, la mediocrità elevata a «Spirito Assoluto».

Rompo, pertanto, ogni indugio, ponendo un’imprescindibile premessa: il tema affrontato nel libro della Doganis, la corruzione, sollecita senz’altro, la curiosità del lettore, facendo subito pensare a coeve «affaires» sia in Francia sia in altre democrazie occidentali, non ultima l’Italia; inoltrandosi nella lettura, però, ci si accorge che l’oggetto del saggio non ha nulla a che vedere con un «mondo degli affari» inesistente nell’Atene classica, ma è la conseguenza, piuttosto, di una peculiare caratteristica del sistema giudiziario ateniese: il posto accordato in esso alla pratica dell’accusa pubblica volontaria, la «sicofantia». Il che induce a convenire con Leonardo Sciascia, per il quale «Il problema della giustizia è sempre esistito; e chi c’è andato dietro ne ha scoperto le assurdità, le corruzioni, insomma tutto quello che noi sappiamo (…)». L’età dell’oro dell’impegno civile, della partecipazione alla vita pubblica, dei dibattiti costruttivi che consentono a ognuno di prendere la parola, come s’immagina accadesse nell’Atene dell’epoca classica, avverte Carine Doganis, è riferimento familiare a politologi, filosofi, storici o giuristi, all’interno di una tradizione preoccupata di accertare le origini delle moderne democrazie, che guardano quel «modello» da un punto di stazione quasi esclusivamente positivo, spesso trascurando schiavitù, esclusione delle donne e degli stranieri, imperialismo a spese degli altri greci. Non v’è dubbio, tuttavia, che anche a causa delle sue derive, delle sue défaillances e delle sue crisi, la democrazia antica, tanto generosamente idealizzata, possa servire comunque da modello per comprendere meglio l’odierna politica.

A partire dalla metà del V secolo a.C., il ruolo centrale dei tribunali popolari e dell’accusa volontaria nel sistema politico ateniese provocò un vivace dibattito sugli abusi legali, i cui riflessi si colgono con chiarezza sulla scena comica: in primo piano è, per l’appunto, la maschera del Sicofante, campione dell’inganno perpetrato ai danni del demos, avido delatore che coglie ogni occasione, grazie alla sua abilità retorica, per accrescere le proprie ricchezze a scapito della polis. Ed è questo l’indicatore d’analisi adottato dal libro della Doganis: a seconda del modo in cui si ricorreva all’accusa pubblica volontaria, l’istituzione poteva funzionare come un pubblico ministero «cittadino» o, al contrario, trasformarsi in delazione. Poiché essa, di volta in volta, era tanto il risultato del ricorso da parte del cittadino a un’istituzione concepita all’origine come eminentemente democratica, quanto il sintomo della corruzione di questa stessa istituzione, la sicofantia pone la questione dell’affidabilità istituzionale. La delazione, peraltro, mette in evidenza la corruzione dell’ideale di una società affidabile, che era quella della città di Atene all’epoca classica, che si ritroverà nell’ideale di trasparenza tipico delle democrazie contemporanee.

Fonte privilegiata alla quale attingere sono le commedie di Aristofane, che mettono assai bene in evidenza le criticità della democrazia ateniese: l’ignoranza dei governanti, la mancanza di scrupoli morali in alcuni di essi, l’interesse dei giudici per il denaro o la libertà di parola concessa ai meteci e agli schiavi. Se Gli Acarnesi e I Cavalieri aggrediscono rispettivamente la politica estera e la politica interna della democrazia ateniese, ma anche l’assemblea e l’esecutivo, è Le Vespe, invece, a mettere sotto accusa l’altro cardine del sistema, il potere giudiziario. Tutto il teatro di Aristofane è, del resto, attraversato dall’attacco a tale sistema, che non si focalizza tanto sulla sua negatività etico-politica, data per scontata, ma si scarica sulla proliferazione dei processi implicante un’esclusività all’interno delle attività pubbliche degli Ateniesi, qualcosa, insomma, di equivalente nella dimensione collettiva alla mania del singolo, che occupa l’interezza del suo spazio emotivo. Così, se ne Gli Acarnesi (v. 375), Diceopoli mette sotto accusa i vecchi Ateniesi che «Non badano a niente altro che a mordere con il voto»; nel quadro panellenico di Pace, il rimprovero di Ermes agli Ateniesi è «non fate altro che processi» (v. 505); ne Le Nuvole, l’illetterato Strepsiade non riconosce Atene sulla carta geografica, perché, spiega, «non vedo i giudici in seduta» (v. 208); Evelpide, ne Gli Uccelli, motiva con l’ossessione giudiziaria il disgusto ormai irreversibilmente maturato nei confronti di Atene: «le cicale cantano sui rami un mese o due; gli Ateniesi cantano nei tribunali per tutta la vita» (vv. 39-41).

Il testo de Le Vespe indaga con sottigliezza e in profondità la relazione tra politici e giudici, leggendola non nei termini anodini dell’alleanza, ma in quelli di strumentalizzazione: «Vogliono che tu sia povero, e ti dirò il motivo: così ti abitui a riconoscere il padrone, e quando fischia per aizzarti contro un suo nemico, tu gli salti addosso furiosamente» (vv. 703-705). Evidente come ci si trovi nel bel mezzo della polemica politica, il cui presupposto è che la giustizia viene gestita, cioè mistificata, non secondo principi etici, ma secondo l’interesse della parte politica dominante. Nella folgorante intuizione che il fine delle malversazioni private risulta essere non solo il personale profitto, ma l’impoverimento delle masse, si saldano il motivo economico e quello politico: l’indigenza dei giudici è l’esito di uno scaltro calcolo dei demagoghi inteso a convertire la loro frustrazione in rabbia da indirizzare nei processi contro i propri avversari politici. Già ne I Cavalieri, del resto, Demo ringiovanito veniva invitato a prendere posizione contro le malversazioni giudiziarie (vv. 1358-1360).

La persistente polemica di Aristofane verso il sistema giudiziario, come accennato, si saldava e insieme si determinava nella demonizzazione ancora più frequente del Sicofante, che, sebbene teoricamente utile alla causa dello Stato, con il suo eccesso di zelo, se non anche con i suoi abusi legali, incarnava un tipo di comportamento decisamente inviso, se non addirittura nocivo, alla società ateniese: «odiare il sicofante», che nell’immaginario della polis costituiva l’ipostasi delle più diffuse e palesi espressioni distorsive dell’amministrazione della giustizia, era, come ricordava Aristotele, un sentimento condiviso da «tutti» (cfr. Retorica, 1382a.6-7). È forse temerario intravvedere in tutto ciò una certa analogia con il presente?

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Giudici contro pm-star, la nuova battaglia in magistratura. C’è qualcosa di più profondo che agita le toghe, e le cui tracce si possono scovare nello scontro latente tra pm e giudici. I quali hanno da tempo capito che l'indagato non è l'unica vittima del protagonismo mediatico di alcune procure. Davide Varì su Il Dubbio il 14 dicembre 2021. Tira una strana aria in magistratura, un clima da resa dei conti. E non parliamo di guerre di potere, di nuove galassie correntizie in conflitto tra di loro per riempire il vuoto lasciato dal sistema Palamara. Questa è una lettura effimera, frivola, buona per qualche bel titolo a effetto. C’è qualcosa di più profondo e delicato che agita le toghe, e le cui tracce si possono scovare nello scontro latente – sempre meno latente e sempre più esplicito per la verità – tra pm e giudici, tra requirenti e giudicanti, e i cui effetti sono visibili anche in Anm. I giudici hanno infatti capito da tempo che l’indagato – presentato come colpevole ben prima di un semplice rinvio a giudizio – non è l’unica vittima del protagonismo mediatico di alcune procure; l’altro bersaglio è il giudice stesso che, dopo lo show del collega, si ritrova a fare i conti con quella massa di accuse in un’aula di tribunale, a testare la tenuta del materiale probatorio e a decidere se accoglierla o respingerla: se condannare gli imputati o se invece assolvere. Insomma, la smania di visibilità mediatica di alcuni pm non è solo una sbavatura istituzionale e una scorrettezza nei confronti dell’indagato; questo protagonismo mette infatti in moto anche una pressione mediatica che cade tutta sulla testa di chi dovrà giudicare. Lo ha detto in modo ancora più cristallino il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho nel corso del recentissimo convegno organizzato da Unicost, e ripetuto alla Stampa di ieri nella bella intervista di Francesco Grignetti: «L’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa – ha spiegato De Raho – rischia di diffondere nell’opinione pubblica la patologia del giustizialismo, la sollecitazione a una giustizia sommaria». E poi, ancora più esplicito: «Ed è vero che si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative, mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazione. Non è consentito al pubblico ministero, in prossimità della sentenza, sostenere una tesi che orienti il dispositivo, o che anche indirettamente lo condizioni, preparando la folla a una decisione che, se diversa da quella ipotizzata, venga interpretata come prodotto di timori del giudice o addirittura di condizionamenti».

Insomma, è difficile spiegare un’assoluzione quando per mesi, spesso anni, i pm hanno occupato con la propria inchiesta giornali, talk show e social. Ma qualcosa si muove e l’impressione è che il vuoto lasciato dal “Sistema” Palamara, tutto puntato sui pm e su una visione colpevolista della giustizia, abbia favorito la scalata di una nuova generazione di giudici abituati a “parlare solo con le sentenze”. Che poi è quello che dovrebbe accadere in un paese normale.

Parla il procuratore nazionale antimafia. Frecciata di Cafiero de Raho a Gratteri: “Il pm non deve sostenere tesi che orientino la sentenza”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. “Non è consentito al pubblico ministero, in prossimità della sentenza, sostenere una tesi che orienti il dispositivo, o anche indirettamente lo condizioni, preparando la folla a una decisione che, se diversa da quella ipotizzata, venga interpretata come prodotto di timori del giudice o addirittura di condizionamenti”. Mittente: Federico Cafiero De Raho, su La Stampa del 13 dicembre 2021. Destinatario colui che sul Corriere del 23 gennaio 2021 dichiarò: “Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. ..Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”. Ci sono giudici indagati? “Su questo ovviamente non posso rispondere”. Disse il Procuratore.

È un po’ anche per questo -per il ricordo di quell’intervista di quasi un anno fa- che, quando si pensa per esempio a chi ha mandato nel carcere speciale (alta sicurezza 3, quella dei narcotrafficanti) di Melfi, in Basilicata, l’avvocato Giancarlo Pittelli, più che alla dirigenza del Dap o al tribunale di Vibo Valentia, il pensiero corre a “lui”. A colui da cui tutto partì e che –ma sono voci di palazzo di giustizia- nei confronti dell’imputato più illustre della sua inchiesta “Rinascita Scott” nutre un po’ di malanimo, di scarsa simpatia insomma. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. A lui corre il pensiero, anche perché siamo nei giorni in cui è entrata in vigore quella norma che, dando attuazione a un dispositivo imposto dall’ Europa, mette in riga forze dell’ordine e magistratura, procuratori in particolare, sulla comunicazione. Basta conferenze stampa. E guai a presentare l’indagato come colpevole. E se al dottor Gratteri, nonostante almeno due recenti denunce al Csm da parte delle Camere Penali, nessuno ha ancora osato tirare le orecchie, ecco che oggi si prende la briga di farlo, con tono tutt’altro che allusivo, se pur senza fare nomi, il vertice massimo dell’Antimafia, il procuratore Federico Cafiero De Raho, che andrà in pensione proprio nei giorni in cui i grandi elettori sceglieranno il nuovo Presidente della Repubblica.

Un’intervista tagliente, neppure travestita da un pizzico di bonomia, quella rilasciata a La Stampa. Mentre si sta per gettare la toga, si può fare. E non è necessario fare nomi e cognomi. Anzi, obbligatorio precisare che si sta parlando “in generale”. Tanto, non si corre il rischio di esser trattato come Otello Lupacchini, l’alto magistrato che alla quiescenza fu accompagnato da un Csm cui Gratteri evidentemente è più simpatico, mettiamola così. Ma in quel caso non c’era malizia, c’era un giudizio severo su un certo modo di condurre le inchieste, sull’applicazione delle norme del codice di procedura penale, il “codice dei galantuomini”. La malizia di oggi porta a ricordare che il dottor Gratteri nutre come propria massima ambizione quella di andare a occupare, nel mese di febbraio, il ruolo occupato oggi da Federico Cafiero de Raho, capo assoluto dell’antimafia. È il luogo adatto a un procuratore che mostra di sentire quasi come un’offesa personale qualunque sconfessione alla propria ipotesi accusatoria? Forse si, a guardare il comportamento tenuto fino a ora nei suoi confronti, fin dai tempi di Palamara quando ci fu lo scontro con Lupacchini, dal Csm. Inutile girarci intorno. I suoi metodi al Consiglio piacciono, se ne faccia una ragione, dottor Cafiero. E anche le sue dichiarazioni che gettano ombre di sospetto sui tutti i giudici che hanno modificato le decisioni del combinato-disposto pm-gip. Quando, su oltre 224 misure cautelari dell’inchiesta “Rinascita Scott”, circa 200 erano state modificate dal tribunale della libertà e dalla cassazione. Erano tutte “condizionate” da qualcuno di quei giudici? E che iniziative ha assunto a loro tutela il Csm, cui si rivolsero le Camere Penali? Oltre a tutto l’intervista al Corriere della sera era grave non solo per le insinuazioni nei confronti del colleghi del settore giudicante.

L’attenzione in quel momento era infatti concentrata soprattutto sull’informazione di garanzia al segretario dell’Udc Lorenzo Cesa nel momento in cui il premier Giuseppe Conte stava cercando affannosamente voti di parlamentari “responsabili” per tentare il suo terzo mandato, e la piccola truppa dei senatori Udc faceva gola. Le dimissioni di Cesa dalla segreteria del partito aveva bloccato l’operazione politica e poi aperto le porte al governo Draghi. L’attenzione era quindi tutta concentrata sulla domanda: processi a orologeria politica? Non una domanda secondaria. Non si sa se la battuta infida del procuratore Gratteri sui giudici sia stata un’abile mossa per distogliere l’attenzione dall’aspetto politico della vicenda. Di certo il magistrato era riuscito una volta di più a tenere alta l’attenzione mediatica su di sé e sulle proprie iniziative giudiziarie. Fatto sta che il mondo politico era troppo impegnato e fare e disfare maggioranze e lasciò agli avvocati il compito di indignarsi e di gestire lo scandalo. Era già la seconda volta in cui la Camere penali, la loro giunta e lo stesso presidente Gian Domenico Caiazza, intervenivano a causa delle dichiarazioni straripanti e veramente scandalose del procuratore di Catanzaro.

Il 24 dicembre del 2019, pochi giorni dopo il blitz “Rinascita Scott” con 334 arresti e 416 indagati, quell’inchiesta che avrebbe dovuto rendere il dottor Gratteri più famoso di Giovanni Falcone, e il suo Maxiprocesso più importante di quello di Palermo, il procuratore non è contento. Non è soddisfatto perché, nonostante lui sia riuscito a infilare tra gli arrestati un pugno di politici (il più famoso è proprio Pittelli) e di imprenditori, quella che chiama la “zona grigia”, la cinghia di trasmissione tra la mafia e le istituzioni, le notizie non hanno la rilevanza desiderata. Così lui si mette disperatamente a twittare e a lamentarsi. Non le manda a dire. “La mia maxi-operazione scompare dalle prime pagine dei grandi giornali…è stata boicottata, un grave errore, bisognerebbe chieder conto ai direttori delle testate più importanti di questo buco”. Ce l’aveva con Repubblica e La Stampa e più tiepidamente con il Corriere. Non aveva mancato però di elogiare i complimenti che gli avevano elargito gli amici del Fatto quotidiano.

Reazioni politiche? Interrogazioni al ministro? Intervento del Csm? Macché, aumentano solo le interviste. È l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria delle Camere penali a intervenire: “Siamo al parossismo del processo mediatico. Non solo si divulgano notizie sulle indagini come se le ipotesi investigative fossero sentenze passate in giudicato, ma si pretende che i giornali ne parlino in prima pagina”, scrivevano gli avvocati. Non dimenticando di elencare i tanti flop che il procuratore aveva già portato a casa. E oggi, ma due anni dopo quell’esibizione sgangherata e la protesta isolata degli avvocati, il procuratore capo dell’antimafia Cafiero de Raho gli risponde che “…si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative…”. Già, quelle “verità” deformanti che mettono a rischio lo stesso Stato di diritto. Perché “L’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa, rischia di diffondere nell’opinione pubblica la patologia del giustizialismo, la sollecitazione a una giustizia sommaria”, sentenzia Cafiero de Raho. Perfetto, con due anni di ritardo da quel blitz del 19 dicembre 2019 e tutto quello che ne è seguito, compresi i tre arresti dell’avvocato Giancarlo Pittelli.

 Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Cafiero de Raho contro i pm “moralizzatori”: «Applichino la legge». Cafiero de Raho non approva l'imminente riforma del Csm: «L'ideale sarebbe il sorteggio, che esclude la possibilità di interferenze da parte di chiunque». Il Dubbio il 13 dicembre 2021. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, prossimo alla pensione, dice sì al sorteggio per l’elezione dei nuovi membri del Consiglio Superiore della Magistratura e approva la normativa sulla presunzione d’innocenza. «Sono perfettamente d’accordo con i principi enunciati dalla direttiva europea. Bisogna escludere dalle nostre comunicazioni qualunque indicazione che possa far apparire come colpevoli i soggetti coinvolti in un’indagine. Personalmente, l’ho sempre fatto ad ogni conferenza stampa che ho tenuto. Ho sempre sottolineato che le responsabilità sarebbero state accertate in modo definitivo solo con le sentenze».

Presunzione d’innocenza, magistrati e Csm: parla Cafiero de Raho

«Abbiamo assistito addirittura a suicidi di persone indagate, che si ritenevano del tutto innocenti. D’altra parte, sapere è un diritto del cittadino. È necessario dare diffusione della notizia di ordinanze cautelari. Ed è necessario che tutto questo avvenga in modo da conseguire la finalità prima delle informazioni, cioè dare al cittadino un senso di sicurezza e di protezione, di efficienza del sistema giudiziario. Aggiungo che in terre di mafia, serve anche mandare il messaggio che delinquere non conviene», ha affermato Cafiero de Raho alla “Stampa” di Torino, ritenendo che il magistrato non è depositario della morale collettiva. Un concetto che il procuratore nazionale antimafia ha spiegato così. «Al magistrato spetta solamente di applicare la legge; è questo il suo dovere, non fare il moralista. L’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa, rischia di diffondere nell’opinione pubblica la patologia del giustizialismo, la sollecitazione a una giustizia sommaria. Probabilmente anche la stampa dovrebbe trovare un maggiore temperamento. Ed è vero che si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative, mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazione».

Infine, il sorteggio del Csm: «Credo che una riforma sia necessaria e su questo sono tutti d’accordo. Penso però che la modalità più lineare e più obiettiva per comporre il Consiglio sarebbe quella del sorteggio, c he esclude la possibilità di interferenze da parte di chiunque. Mi è chiaro che il quadro porta in altra direzione: si vuole modificare la situazione, ma non nella direzione del sorteggio. Continuo a pensare, però, che il sorteggio corrisponda esattamente alla capacità del magistrato medio. Non mi scandalizzerei, anzi credo che sarebbe la modalità attraverso cui escludere qualunque eccessiva interferenza o condizionamento».

Alfonso Sabella: «Io, pm finito alla gogna, dico: basta Alfonso Sabella: «Io, pm finito alla gogna, dico: basta massacri mediatici». Simona Musco su Il Dubbio il 13 novembre 2021. Intervista ad Alfonso Sabella, il magistrato accusato ingiustamente per il G8: «Ora una riforma per ripulire gli atti d’indagine da quanto serve solo a infangare». «Ho capito sulla mia pelle quanto sia importante la presunzione d’innocenza. Dobbiamo valutare che dall’altra parte ci sono esseri umani che si vedono “sputtanare” gratis, senza alcun riferimento al procedimento penale». A parlare della pubblicazione degli atti del caso Open è Alfonso Sabella, ex magistrato del pool antimafia di Palermo che catturò Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Pietro Aglieri, oggi giudice a Napoli. Che chiarisce: il Fatto quotidiano non ha commesso nessun illecito nel rendere note le strategie di Matteo Renzi per contrastare i propri avversari. Ma «c’è anche il diritto dell’indagato alla sua privacy e se necessario vanno introdotti dei limiti».

Gli atti pubblicati dal Fatto Quotidiano su Renzi sono, da un lato, un documento di enorme interesse per l’opinione pubblica, ma dall’altro rimangono comunque privi di rilievo penale. C’è un cortocircuito tra diritto all’informazione e privacy?

Quando gli atti sono noti all’indagato viene meno qualunque tipo di divieto di pubblicazione, ma è chiaro che ci muoviamo in un terreno minatissimo, in cui, da un lato, c’è l’interesse all’accertamento della verità da parte della procura e, dall’altro, l’interesse all’informazione in ordine a notizie che possono avere un interesse pubblico. Ma c’è anche il diritto dell’indagato alla sua privacy e credo che, in certi casi, vada rispettata. Le faccio un esempio: quando arrestai Pietro Aglieri, numero due di Cosa Nostra, ci riuscii seguendo un prete che andava a dire messa nel suo covo. Feci settimane di intercettazioni delle telefonate di quel convento e quelle telefonate, che non erano rilevanti, le ho mandate al macero. E nessuno le ha mai conosciute, ancorché ci potessero essere delle cose pruriginose che potevano interessare a varie persone. Occorrerebbe verificare se non ci siano spazi per introdurre, in qualche caso, dei divieti di pubblicazione. Penso, ad esempio, alle notizie che riguardano i conti correnti bancari.

Anche questo è avvenuto nel caso che riguarda Renzi. Si sarebbe potuto evitare?

Se non è utile ai fini dell’indagine, per quale ragione renderli noti? Dovrebbero esserlo solo i dati che vengono utilizzati nel provvedimento cautelare, ai fini del rinvio a giudizio o ai fini della prova nel procedimento penale. Ammettiamo che in un conto corrente ci sia un addebito per una notte in albergo con l’amante: perché dovrebbe venire a saperlo la moglie? Mi sono confrontato spesso con dati di questo tipo e ho cercato sempre, per quanto consentitomi dalla legge, di mantenerli riservati. Ma è chiaro che non posso fare una valutazione del genere da solo. Come pm posso cercare di omettere cose di questo tipo, ma quello stesso dato potrebbe essere utile alla difesa. E questa, però, a volte diventa la foglia di fico per utilizzare o pubblicare dati riservati.

Come si potrebbe fare?

Per le intercettazioni telefoniche è prevista, ad esempio, un’udienza stralcio in cui, sostanzialmente, la difesa evidenzia quali sono i file che possono servire e quali, invece, possono essere mandati al macero. Probabilmente, per altri dati sensibili che vengono acquisiti nel corso delle indagini, bisognerebbe pensare a qualcosa di questo tipo.

Secondo lei è fattibile?

Il problema è che tutto questo va fatto avendo un occhio al funzionamento del processo penale, perché introdurre ancora paletti e limiti significa andare a gravare su un’unica figura processuale: il gip. O si capisce che i gip devono essere tanti quanto i pm oppure faremo un buco nell’acqua, perché il sistema non potrà mai reggere. Se vogliamo delle riforme che tutelino realmente il diritto all’informazione, il diritto alla privacy e l’esercizio dell’azione penale, allora dobbiamo cercare di avere una struttura che sia in grado di gestire tutto questo. Perché tutto va fatto, ovviamente, nel contraddittorio delle parti: tornando all’esempio di prima, magari quella ricevuta che attesta un tradimento viola la privacy, ma può essere l’alibi per una persona accusata di omicidio. E per carità, mi rendo conto che non è bello, ma forse bisognerebbe anche introdurre qualche divieto di pubblicazione.

C’è il rischio anche di entrare a gamba tesa nelle strategie politiche di un partito, deprecabili o meno che siano?

Faccio un esempio brutale: quando ero assessore alla legalità, l’allora sindaco di Roma Ignazio Marino decise di pubblicare le sue spese, i famosi scontrini, senza consultarmi. Ed è una cosa che non gli perdonerò mai, perché se mi avesse consultato glielo avrei impedito.

Per quale ragione?

Per la violazione della privacy del commensale. Per quale ragione Marino doveva far sapere all’ambasciatore del Vietnam che aveva pagato la cena a quello della Cambogia e non a lui? Per quale ragione doveva far sapere ai suoi compagni di partito che aveva offerto un pranzo ad un parlamentare dell’opposizione? Erano elementi di grande riserbo e anche di esercizio libero dell’attività politica.

Nel caso di Renzi è la stessa cosa?

È chiaro che, allo stato attuale delle norme, il Fatto quotidiano ha fatto il suo dovere. Se io fossi stato un giornalista avrei pubblicato quelle notizie. Probabilmente vanno inseriti dei limiti nel sistema, limiti commisurati alla capacità stessa del sistema di reggere. Oppure diventerebbero una farsa, perché il giudice non avrebbe il tempo materiale di valutare quali sono le informazioni che possono essere eliminate. Dobbiamo pensare un sistema penale con un doppio binario serio, con tutte le garanzie del mondo agli illeciti importanti e un grado di giudizio più la Cassazione per gli illeciti bagatellari o tutto ciò che non comporta pene detentive, facendo una depenalizzazione serissima. Anche il rispetto delle garanzie e della privacy passa per una riforma radicale del sistema giustizia, ma non ne siamo in grado. Se oggi introducessero un altro limite o un’altra verifica il risultato sarebbe la paralisi. Ma dobbiamo anche valutare che dall’altra parte ci sono esseri umani che si vedono “sputtanare” gratis, senza riferimenti al procedimento penale.

Cosa ne pensa del recepimento della direttiva sulla presunzione d’innocenza? Molti suoi colleghi l’hanno definita un bavaglio.

Se io non avessi vissuto la mia storia personale, sarei con i miei colleghi a pensare che tutte queste norme, probabilmente, limitano l’esercizio corretto dell’azione penale. Ma avendo capito quanto sia importante la presunzione d’innocenza sulla mia pelle, sono perfettamente d’accordo sull’introduzione di queste norme e che se ne facciano altre. Senza la mia esperienza avrei ipotizzato il mondo ideale di una giustizia che non sbaglia mai e che dà a tutti la possibilità di difendersi. Ma a me, in 20 anni, non è mai stata data. Su di me si è creata una presunzione di colpevolezza fondata sul nulla. E la maggior parte delle persone che mi ha rovinato la vita ha la toga.

Presunzione d’innocenza, c’è una aristocrazia delle toghe al di sopra della Costituzione. Otello Lupacchini su Il Riformista il 9 Novembre 2021. Il Consiglio dei Ministri, il 4 novembre scorso, ha dato il via libera definitivo al decreto legislativo di recepimento della Direttiva 2016/343/UE sulla presunzione di innocenza, volto, tra l’altro, programmaticamente, a cambiare i rapporti tra indagini preliminari, dove il protagonismo di alcuni pubblici ministeri e/o dirigenti di polizia giudiziaria spesso porta all’intollerabile affievolimento dei diritti dell’indagato, presunto innocente fino a sentenza definitiva, e giudizio. Ed è soprattutto su questo che si sono registrate le maggiori polemiche. Non ritengo valga la pena di schierarsi né con coloro che nel provvedimento legislativo vedono la panacea di tutti i mali che affliggono la giustizia, ma neppure con coloro che paventano che esso non consenta, ma al contrario allontani, il raggiungimento dell’equilibrio fra i due fondamentali principi della dignità delle persone, e, dunque, anche di chi è sottoposto a un’indagine processuale, in cui si rinviene la ratio della stessa presunzione di non colpevolezza, e del diritto all’informazione in entrambe le facce in cui si sostanzia, quello di informare e quello di essere informati. Meglio lasciare, invece, libero sfogo al cupo ottimismo di chi, per parafrasare Francesco Carrara, «un tempo ingenuo» credette che «la politica dei liberi reggimenti non fosse la politica dei despoti», ma a cui «le novelle esperienze (…) hanno pur troppo mostrato che sempre e dovunque quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra per tornarsene al cielo».

Sono, infatti, pienamente consapevole e fermamente convinto che esista un’aristocrazia togata, fatta di personaggi che, per dirla con Augusto Murri, «godono di tutti i privilegi, anche l’immunità dalla logica! (…) Per costoro quel che piace lice. E tanto più meravigliose e sciocche e false sono le cose affermate, tanto più la folla si volge stupita a questi privilegiati! Ed essi allora si sentono ammirati. Come l’oca, uscita appena dai sogni ambiziosi della notte, sbatte sconciamente le ali impotenti e crede di mandare fino al cielo i suoi clamori ridicoli, tali allora son costoro, spettacolo miserevole di vacuità stupida, presuntuosa, tracotante e maligna!». Mi chiedo, dunque, se rispetto a questi signori le norme introdotte in ottemperanza alla direttiva europea potranno mai trovare effettiva applicazione. A sentir loro, no. Una voce, per tutte, si leva infatti dal coro dei dissenzienti, per avvertire: la direttiva «a me non lega niente e non chiude la bocca. Sono una persona che non ha timore di niente e di nessuno, dico sempre quello che penso e se non posso dire la verità è perché non posso dimostrarla. Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica, che ne ha diritto». Si tratta magari di un modo di argomentare piuttosto grossier, che i filosofi Antoine Arnauld e Pierre Nicole avrebbero potuto addurre, nella loro Logique de Port Royal (1662) quale preclaro esempio di come non si dovrebbe ragionare, ma i precedenti non sono rassicuranti e danno purtroppo ragione ai normofobi. «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? | Nullo, però che ‘l pastor che procede, | rugumar può, ma non ha l’unghie fesse», verrebbe da chiedersi con Marco Lombardo (Purg. XVI, 97-99), di fronte al meccanismo di attenzione-disattenzione selettiva, tipico d’ogni «polizia del pensiero», che parrebbe ispirare l’opus dei titolari dell’azione disciplinare, quando condotte in violazioni di legge o di norme deontologiche appartengano a esponenti di quell’aristocrazia togata, la quale si sente, ed è considerata da chi dovrebbe istituzionalmente contenerne la bulimia e gli eccessi, al di sopra della Costituzione e delle leggi. Non è un caso, infatti, che essa sia rimasta sin qui indifferente ai moniti che il Capo dello Stato lancia ciclicamente, per ricordare ai magistrati l’importanza di esercitare le proprie funzioni nel rispetto della Costituzione. E abbia dato continuamente mostra d’ignorare le Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale, adottate dal Consiglio Superiore della Magistratura, nelle quali si stabilisce che «la comunicazione (…) deve essere obiettiva, sia che provenga da tribunali o corti sia che provenga da uffici di procura»; che «la presentazione del contenuto di un’accusa deve essere imparziale, equilibrata e misurata, non meno della presentazione di una decisione giurisdizionale»; che, dunque, «vanno evitate la discriminazione tra giornalisti o testate, la costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione, la personalizzazione delle informazioni, l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi». Linee-guida, nelle quali, spicca il richiamo, per un verso, al dovere di assicurare il rispetto della presunzione di innocenza, dovendo evitarsi «tanto più quando i fatti sono di particolare complessità o la loro ricostruzione è affidata ad un ragionamento indiziario, ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate»; e, per altro verso, al rispetto di altri princìpi fondamentali, quali «La chiarezza nella distinzione di ruoli», tra magistratura requirente e giudicante; «la centralità del giudicato rispetto agli altri snodi processuali», indagini preliminari, misure cautelari, rinvio a giudizio, requisitorie e arringhe; e, ancora, «il diritto dell’imputato di non apprendere dalla stampa quanto dovrebbe essergli comunicato preventivamente in via formale»; nonché «il dovere del pubblico ministero di rispettare le decisioni giudiziarie, contrastandole non nella comunicazione pubblica bensì nelle sedi processuali proprie e, specificamente, con le impugnazioni». Quel che occorrerebbe veramente per l’effettiva tutela della presunzione d’innocenza è un radicale cambiamento di mentalità, implicante l’abbandono dell’idea che la magistratura, quando è massimo l’allarme, talvolta addirittura enfatizzato ad hoc, nei confronti di una determinata manifestazione criminale, debba svolgere un improprio compito di supplenza, quale il muovere guerra contro il nemico del momento. Solo così si bandirebbero definitivamente subturpicula del tipo: «il nostro compito», inteso come compito delle procure della Repubblica, «è quello di derattizzare, non con il colpo di spillo ma con la scimitarra, che è un’arma diversa dal fioretto, perché solo la scimitarra si capisce; il colpo di spillo non si sente perché ci si è assuefatti, a furia di reiterare i comportamenti di faccendieri, di ingordi che non si saziano di nulla»; situazione che «noi (…) stiamo cambiando e la cambieremo, alla grande, abbiamo la cartucciera piena» avendo «la possibilità e l’onore di dirigere pezzi della migliore polizia giudiziaria italiana»; ovvero del tipo «I centri di potere si sono accorti in ritardo, ma ormai il gioco è fatto: i centri di potere non mi hanno preso sul serio (…) e li ho fregati. Oggi è tardi, oggi la macchina non si ferma più, nessun centro di potere (…) la può fermare. Siamo una macchina da guerra». In mancanza di tale rivoluzione culturale ci si dovrà rassegnare a continuare ad assistere, come se nulla fosse, alle pletoriche conferenze stampa del procuratore capo di turno, circondato da una folta schiera di militari e di funzionari, che tanto ricordano le «società corali» descritte da Piero Calamandrei, i cui membri, in occasione delle autocelebrazioni, si assiepavano ad arculas intorno al gerarca come «lugubri bandisti da funerale», a voler ostentare l’orgia del proprio potere. Con questo articolo Otello Lupacchini, magistrato in pensione da pochi mesi ed ex procuratore generale di Catanzaro, inizia la sua collaborazione con il Riformista.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Il mostro togato. In Italia l’esercizio del potere è sottoposto alla sorveglianza della magistratura deviata. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'8 Novembre 2021. Tutti sanno che negli ultimi decenni il percorso di accreditamento di tanti leader politici è stato intralciato dalle trame di chi preparava dossier su di loro, sul loro staff e sui loro familiari. Ma, con l’eccezione delle lamentazioni personali di chi, come un certo senatore toscano, viene colpito, nessuno dice niente. Forse bisognerebbe smetterla di far finta che non sia così. Sappiamo tutti perfettamente che da qualche parte c’è un pubblico ministero – e forse più d’uno – con un dossier pronto al bisogno su Mario Draghi. Sappiamo tutti perfettamente che altrettanto è in cottura per ciascuno dei nomi che da qui alle prossime settimane e mesi potrebbero essere ritenuti in posizione per giungere a presiedere la Repubblica, o il prossimo governo. Sappiamo tutti perfettamente che l’accesso al potere e l’esercizio del potere in Italia sono sottoposti alla sorveglianza spionistica e ricattatoria della magistratura deviata, una associazione nemmeno tanto segreta che si è costituita in una centrale di contro-potere che intimidisce la vita istituzionale e ne orienta il corso giocando sporco, contaminando con la propria corruzione, con la propria malversazione, con la propria irresponsabilità, ogni angolo libero della vita pubblica. Tutti sappiamo perfettamente che il percorso di accreditamento di leader importanti degli ultimi decenni è stato intralciato dalle trame del mostro togato, e che, con sistema perfettamente mafioso, nessuno vi era risparmiato: i collaboratori, lo staff, i parenti, il coniuge. La magistratura equestre, burattinaia del manipolo milanese, che ingiungeva a chi avesse “scheletri negli armadi” di starsene buono, fu l’esempio nobilitato di un malcostume che di lì in poi sarebbe divenuto l’abito costituzionale del travestimento eversivo di stampo giudiziario, con il magistrato eponimo incaricato di “resistere, resistere, resistere” all’assalto di questo nemico temibilissimo, il sistema della democrazia rappresentativa. Ma che tutto questo sia perfettamente noto a tutti non basta ancora a far cambiare l’andazzo, e al più c’è spazio per le lamentazioni personali di un senatore toscano indispettito per certe manovre inquirenti giusto perché spulciano in casa sua, giusto come l’assedio delle toghe rosse costituiva un pericolo per il Paese nella misura in cui circondava un parco brianzolo. È esattamente come nelle società sottoposte allo strapotere della criminalità: dove tutti sanno tutto; dove nessuno dice niente. Ma in questo caso sono uomini dello Stato a imporre quel giogo.

Verbali Open source. Con la riforma della presunzione di innocenza non è cambiato nulla. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta l'8 Novembre 2021. I garantisti della maggioranza sono ingenui e non capiscono che ogni volta che si introduce una misura di civiltà in campo giudiziario ecco che i fan della gogna (e i loro house organ) cercano una contromisura, sfruttando i punti deboli delle norme, come l’articolo 114 del codice di procedura penale. Il caso Renzi ne è la conferma. Neanche il tempo di esprimere la doverosa soddisfazione per lo strombazzato varo del decreto legislativo sulla presunzione di innocenza che la vicenda che coinvolge Matteo Renzi e la fondazione Open ci richiamano alla dura realtà dello sputtanamento perenne dell’imputato a mezzo verbali giudiziari sapientemente distribuiti. Il recente provvedimento del governo Draghi, attuativo di una specifica direttiva europea ormai vecchia di anni, prevede che «è fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili». Ogni comunicazione verso la pubblica opinione è riservata al procuratore capo «solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico» che peraltro egli dovrà indicare e motivare per iscritto. Spiace deludere l’ottimo deputato Enrico Costa, fautore strenuo della legge che pure si spera porrà rimedio alle indecenze delle conferenze stampa messianiche dei vari procuratori che denunciano la “liberazione” di pezzi del Paese dai fenomeni criminali, ma lo stillicidio dei verbali dell’indagine fiorentina sulla fondazione Open dimostra che le contromisure della solita compagnia giustizialista e forcaiola sono ancora in vigore e la renderanno inutile. Sui vari house organ delle procure sono stati ampiamente pubblicati i contenuti dei verbali delle indagini condotte dalla Guardia di Finanza sotto la direzione della procura di Firenze sui conti della Fondazione Open, ivi compresi conti correnti personali e mail dei vari indagati, tra cui Renzi, sospettati di elusione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Tali atti, va subito precisato, non sono coperti dal segreto perché depositati per i difensori e dunque, secondo una corrente e prevalente interpretazione dell’articolo 114 del codice di procedura penale, come tali pubblicabili. Qualche mese fa, questo giornale è stato facile profeta nell’indicare che senza la modifica di uno degli articoli più ambigui e peggio scritti del codice, proprio il 114, anche l’applicazione della nuova direttiva sarebbe servita a poco. È quello che sta succedendo: forse in futuro avremo commenti agli arresti più sobri e qualche nickname meno evocativo per le inchieste più importanti che secondo il decreto del governo non potranno essere battezzate con «denominazioni lesive della presunzione di innocenza», qualsiasi cosa ciò voglia dire, ma basterà anticipare agli organi fidati il contenuto di indagini non ancora conosciute dagli indagati né sottoposte al vaglio di un giudice per ottenere lo stesso effetto di indebito indirizzo di un processo. Un’autorevole corrente di pensiero sostiene che, poiché lo stesso articolo 114 prescrive che «se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento , se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli del fascicolo del pubblico ministero, se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello», il segreto venga meno solo per le parti e sia da mantenere per il pubblico, almeno sino a che le prove non siano mostrate al giudice. È la teoria mutuata dal diritto anglosassone della virgin mind del giudice che dovrebbe arrivare al dibattimento avvolto da un “velo di ignoranza” sul contenuto degli atti. In Inghilterra e negli Stati Uniti è una cosa seria e le violazioni sono punite severamente fino all’invalidazione degli atti di indagine. Invece, in Italia il giudice arriva al processo già reso edotto di cosa vi troverà e quando alla verifica del dibattimento troverà ridimensionato il materiale di accusa che gli è stato presentato come granitico, dovrà affrontare l’opinione pubblica che non capirà decisioni finali che smentiscono le verità diffuse sui media con conseguente pioggia di critiche cui non sempre si ha la forza di sottostare. Basta pensare a cosa diffondono le redazioni televisive di programmi dedicati al gossip giudiziario in chiave colpevolista, ma il fenomeno della pubblicazione di atti, intercettazioni, pedinamenti e foto delle indagini, sapientemente distillati, costituisce la più clamorosa e radicale smentita al principio della presunzione di non colpevolezza sicché la legge appena approvata rischia di essere solo un palliativo di una patologia grave. Resta da chiedersi come mai i garantisti presenti in Parlamento e nella compagine di governo continuino a commettere le solite ingenuità, a disattendere ciò che studiosi e avvocati denunciano da tempo. La risposta è altrettanto nota. Nel Ministero di Giustizia, negli uffici legislativi del governo e delle commissioni sono presenti in misura schiacciante magistrati che rappresentano la loro esclusiva visione culturale, con le ricadute che si vedono nella maggior tutela concessa al ruolo degli inquirenti rispetto a quello della difesa. Lo stesso fenomeno si osserva anche nelle commissioni che il ministro Marta Cartabia ha nominato per realizzare la sua riforma penale: sono cinque, dirette da tre eminenti magistrati ex presidenti della suprema Corte di Cassazione e della Consulta che hanno creato, governato e regolato la giurisprudenza penale degli ultimi venti anni, più due illustri docenti universitari tutti lontani da tempo dalle aule di giustizia, per via degli alti incarichi, della pensione e della condizione di puri studiosi di due dei tre docenti.

Con loro ci sono una cinquantina di giuristi, di cui soltanto sei avvocati: un evidente squilibrio che suscita un qualche legittimo interrogativo sull’adeguata valutazione delle esigenze di garanzia dei cittadini sottoposti a processo. Fino a che questa discriminazione culturale e intellettuale non verrà colmata, sarà difficile pensare a un reale cambiamento. Ovviamente c’è da augurarsi che non sia così, ma c’è un problema di fondo nella cultura giuridica di questo Paese che va corretto prima di tutto dalla politica, altrimenti è inutile lamentarsi, perché ne avremo altri di casi come quello di Renzi o di Luca Morisi.

Archiviati e offesi. La crociata contro la presunzione d’innocenza e l’anima nera del populismo giudiziario. Francesco Cundari su l'Inkiesta il 5 novembre 2021. I video montati ad arte dagli inquirenti a scopo comunicativo e i surreali titoli del Fatto sugli «ex indagati», breve antologia degli orrori che rendono necessario recepire la direttiva europea, rispettare la Costituzione e superare lo stato incivile della giustizia italiana. In Italia, da tempo, si discute accanitamente di un decreto legislativo che recepisce le disposizioni di una direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, principio peraltro previsto dalla nostra Costituzione. Il testo voluto dalla guardasigilli Marta Cartabia, approvato dal governo in agosto, impone agli inquirenti di parlare dei procedimenti in corso nelle sedi deputate e senza violare il suddetto principio, vale a dire senza presentare un semplice indagato come colpevole. In pratica, il decreto cerca di limitare la possibilità di pm e forze dell’ordine di fare quello che fino a cinque minuti fa hanno sempre fatto, ma proprio sempre-sempre-sempre, da che sono bambino. E cioè, per l’appunto, presentare il semplice indagato come colpevole. Allestire solenni conferenze stampa in cui diffondersi per ore sulla sua spietata volontà criminale e sulla bassezza delle sue motivazioni. Scandire in ogni modo davanti a microfoni e telecamere che razza di disgraziato, cinico, implacabile, rivoltante, schifoso essere sia questo Mario Rossi. Quello stesso Mario Rossi per il quale, secondo la nostra Costituzione, vige la presunzione d’innocenza. L’iniziativa, come ogni tentativo di mettere un freno agli abusi di pubblici ministeri e giornalisti da qualche decennio a questa parte, è stata prontamente etichettata come «bavaglio». Immancabile, in proposito, l’intervento del Consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha parlato – non scherzo – di «svolta illiberale» e di «bavaglio alla possibilità che all’informazione contribuisca anche l’autorità pubblica». In proposito, Maurizio Crippa sul Foglio di ieri ha ricordato l’incredibile vicenda del video che mostrava il camion di Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, girare attorno alla palestra della ragazza. Video mandato in onda da tutti i tg, di cui si è scoperto che era stato montato ad arte dai carabinieri. Luigi Ferrarella, che ha ricostruito la vicenda sul Corriere della sera, ha notato tra l’altro che di recente il tribunale di Milano ha assolto alcuni giornalisti dall’accusa di aver diffamato il capo del Ris parlando di «patacca» e video «taroccato». In particolare, il gip ha osservato che la «diffusione mediatica» di quel video, «il cui scopo era dichiaratamente non probatorio» (non faceva parte degli atti) «ma comunicativo», di fatto lese «il fondamentale principio della presunzione d’innocenza dell’imputato che, anche in base alla direttiva Ue n. 343 del 2016, deve proteggere gli indagati da mediatiche sovraesposizioni deliberatamente volte a presentarli all’opinione pubblica come colpevoli prima dell’accertamento processuale definitivo». Esattamente la direttiva che il decreto vorrebbe attuare. Decreto contro il quale è scattata, puntualmente, la campagna del Fatto quotidiano.

Va detto che quella contro la presunzione di innocenza, più che una battaglia, è la ragione sociale del Fatto. Una crociata combattuta con una passione paragonabile solo a quella con cui da un po’ in qua – cioè da quando a Palazzo Chigi non c’è più Giuseppe Conte – continua a sparare sfilze di titoli allarmisti sui vaccini (l’apertura di ieri, per dire, era un incredibile «63 morti e fuga dalla terza dose», a metà tra fantascienza e poliziottesco anni Settanta).

Ma tutto questo è ancora niente in confronto al modo in cui mercoledì il Fatto ha dato la notizia della nuova giunta capitolina di Roberto Gualtieri. Titolo: «Un indagato e 3 ex inquisiti: Gualtieri sceglie il passato». Nel caso vi fosse sfuggito il neologismo, ve lo ripeto: «Ex inquisiti». Occhiello: «Inchiesta a Roma per abuso d’ufficio sul nuovo city manager. Nella giunta gli archiviati del Mondo di Mezzo». Ripetiamo anche questa, tutti in coro: «Gli archiviati».

Ricapitolando, da un lato, a quanto scrive lo stesso articolo del Fatto, abbiamo un indagato, un manager proveniente dal Poligrafico dello Stato, che deve ancora essere sentito dai pm («qualora venisse accertata la buona fede dei manager del Poligrafico, la Procura potrebbe archiviare»), dall’altro «tre persone sfiorate dall’inchiesta sul Mondo di Mezzo, tutti archiviati su richiesta della Procura nel 2016». Avete letto bene.

Altro che presunzione, qui siamo semmai alla rimozione d’innocenza. Nemmeno il fatto che sia la stessa Procura a stabilire che non ci sono ragioni per procedere basta a risparmiare ai nuovi assessori la messa all’indice, bollati con la surreale definizione di «ex inquisiti». Il fatto di essere stati semplicemente indagati, anni prima, come macchia perpetua e incancellabile, indipendentemente dalle conclusioni degli stessi inquirenti. Dalla presunzione d’innocenza alla colpevolezza a prescindere. Semel «sfiorato», semper «sfiorato». 

Neolingua. La malizia giustizialista di chiamare «ex inquisiti» gli archiviati. Guido Stampanoni Bassi su l'Inkiesta il 5 novembre 2021. Nella logica ribaltata del processo mediatico non basta la gogna nei confronti di imputati e indagati. Ora il bersaglio è diventato persino chi viene solo sfiorato dalle indagini. Sarebbe come definire «ex vivo» un morto o un «ex sano» un malato. In un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano si valorizzano le peculiari qualità di alcuni della nuova giunta comunale di Roma scelta dal neo sindaco Roberto Gualtieri. Si inizia in prima pagina con «Giunta Gualtieri: un indagato e tre ex del caso Buzzi» e si prosegue a pagina 6, dove, al grido di «Romanzo Campidoglio» – a proposito di nomi a effetto – si parla di «prima grana giudiziaria per la squadra del neosindaco della Capitale» e si ricorda come, oltre a un indagato (vade retro Satana!), nella squadra del neosindaco vi sarebbero, udite udite, addirittura ben tre «ex inquisiti». Colpevoli anch’essi (come l’indagato, s’intende) di avere avuto «grane con la giustizia», sono stati «sfiorati dall’inchiesta sul Mondo di mezzo», sebbene – si precisa – siano poi stati «tutti archiviati su richiesta della Procura nel 2016». Colpisce il lessico (preciso e per nulla casuale).  «Grana giudiziaria»: quale? «Sfiorati dall’inchiesta»: e quindi? E poi la ciliegina sulla torta, il colpo di genio che vale da solo l’acquisto del quotidiano: «ex inquisiti» (in grande e in bella mostra). È vero che la fantasia non ha limiti, ma come può venire in mente di definire «ex inquisito» chi, dopo essere stato indagato, sia stato oggetto di un provvedimento di archiviazione? Certo, è tecnicamente definibile come un «ex inquisito», così come è tecnicamente definibile «ex imputato» chi sia stato assolto con sentenza definitiva; così come era un «ex vivo» un morto o un «ex sano» un malato. La prospettiva da cui si guarda alla vicenda tradisce una logica ribaltata degna del celebre libro di Joseph Heller: se sei stato indagato, significa che sotto sotto non sei proprio così innocente e, a quel punto, neanche una archiviazione potrà evitarti il marchio di ex inquisito. Ancora una volta, contano solo le indagini – altrimenti che senso avrebbe riportare negli articoli di stampa il contenuto di intercettazioni telefoniche di procedimenti che, nel frattempo, hanno visto intervenire anche la Cassazione? – e le assoluzioni (ma, a questo punto, anche le archiviazioni) sono buone al massimo per i casellari.  Viene il dubbio che si sia iniziata a prendere sul serio la direttiva sulla presunzione di innocenza – di cui tanto si discute in questi giorni – nella parte in cui vieta di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la sua colpevolezza non sia stata accertata in via definitiva. Forse stiamo iniziando a prenderla finalmente sul serio, appunto. Stiamo iniziando a prendercela anche con gli archiviati. Scusate, con gli ex inquisiti.

Le toghe restano in trincea e adesso gridano al bavaglio. Lodovica Bulian il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Anm contro le nuove norme sulla presunzione di innocenza: irrigidita la comunicazione dei pm. «Distorsioni». «Scelte discutibili». E rischi per la «corretta informazione nella fase delicatissima delle indagini». L'Associazione nazionale magistrati reagisce al decreto legislativo approvato dal governo sulla presunzione di innocenza. Le nuove norme, che recepiscono una direttiva europea del 2016, limitano il rapporto tra magistrati e stampa sui procedimenti penali, d'ora in poi regolato «esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa». Possibili solo con un «atto motivato» del procuratore che le giustifichi. Nessuna informazione, dunque, al di fuori di questo contesto. «Si è irragionevolmente irrigidita la comunicazione con la stampa dei procuratori - ha detto ieri il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia in apertura del direttivo - Sono regole che non renderanno un buon servizio, questo è il timore, all'esigenza di una corretta informazione su quanto accade nel processo durante la fase delicatissima delle indagini». Per questo l'Anm «dovrà essere pronta a rilevare le distorsioni applicative che oggi da più parti si prefigurano e non lasciare che siano soltanto i procuratori a tenere alta l'attenzione su questi temi assai sensibili per l'effettività dell'assetto democratico della giustizia penale, di cui un tassello importante è proprio il rapporto con la stampa». Del resto voci fortemente critiche arrivano dalle Procure e anche dall'interno dello stesso Csm, che alla fine ha dato parere favorevole pur sollevando perplessità, con il consigliere ed ex pm antimafia Nino Di Matteo che ha parlato di «svolta illiberale» e «bavaglio» per gli inquirenti. Il rafforzamento del principio della presunzione d'innocenza viene tradotto anche nel divieto per magistrati e polizia giudiziaria «di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l'imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili». L'indagato ha il diritto di chiedere una rettifica antro 48 ore. Le parole vanno pesate però, dice il decreto, anche nelle ordinanze di applicazione di misure cautelari: l'autorità giudiziaria dovrà limitare «i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l'adozione del provvedimento». È qui che si rischiano ancora «distorsioni applicative» secondo l'Anm. Una posizione che innesca lo scontro politico: «È sconcertante e sostanzialmente eversivo l'atteggiamento dell'Anm. Tentare di stroncare il protagonismo di alcune toghe non è apprezzato dall'associazione - attacca Maurizio Gasparri, Forza Italia - Che l'associazione assuma una posizione di aperta sfida è davvero preoccupante. Si rispettino la democrazia e la volontà del Parlamento». Ma l'Anm, che ieri ha deciso all'unanimità di costituirsi parte civile nel processo a carico dell'ex pm Luca Palamara, critica anche la riforma del processo penale, che per superare l'abolizione della prescrizione ha introdotto il principio dell'improcedibilità: le norme, attacca Santalucia, «potrebbero rallentare l'iter dei processi e mettere a dura prova gli uffici giudiziari in maggiore difficoltà organizzativa». Lodovica Bulian 

L'associazione magistrati ricomincia a lamentarsi: "Vogliamo parlare delle indagini". Il Tempo il 06 novembre 2021. Ritornano le lamentele dei magistrati italiani. A parlare è in prima persona il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, che si è rivolto al Comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe: “Tra pochi giorni sarà in vigore il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza. Anche qui, entro una cornice di apprezzabile rafforzamento di alcuni presidi di garanzia, sono state compiute scelte discutibili. Santalucia si è poi espresso sui rapporti con i media: “Si è irragionevolmente irrigidita la comunicazione con la Stampa dei Procuratori della Repubblica, che potranno servirsi esclusivamente di 'comunicati ufficiali' e, nei casi di particolare rilevanza pubblica, di 'conferenze stampa'. Regole che non renderanno un buon servizio, questo è il timore, all’esigenza di una corretta informazione su quanto accade nel processo durante la fase delicatissima delle indagini". Per Santalucia, quindi, “l’Associazione dovrà essere pronta a rilevare le distorsioni applicative che oggi da più parti si prefigurano e non lasciare che siano soltanto i Procuratori della Repubblica a tenere alta l’attenzione su questi temi assai sensibili per l’effettività dell’assetto democratico della giustizia penale, di cui un tassello importante è proprio il rapporto con la Stampa”. “La riforma del processo penale è già legge, l’orologio dell’improcedibilità è già in azione, ed è tarato nell’applicazione di una parte della disciplina transitoria, per i processi i cui atti siano già pervenuti, al momento di entrata in vigore della legge, presso il giudice dell’impugnazione, sui tempi più brevi, di un anno per il giudizio di cassazione e di due anni per il giudizio di appello a far data dal 19 ottobre scorso, che metteranno a dura prova gli uffici giudiziari in maggiore difficoltà organizzativa” ha proseguito presidente dell'Anm Santalucia in apertura della riunione odierna del comitato direttivo centrale. "Non abbiamo notizie della costituzione del Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, previsto dalla legge di riforma, e credo si possa tutti convenire nell’auspicarne la rapida costituzione, perché gli uffici giudiziari non possono essere lasciati soli nell’affrontare una riforma, per dire eufemisticamente, complicata", ha concluso.

Il decreto sulla presunzione di innocenza. Poveri Pm, resteranno senza più riflettori. Alberto Cisterna su Il Riformista il 6 Novembre 2021. La presunzione d’innocenza non sarà certo scudata dal decreto legislativo approvato dal Governo, ma è un primo passo. Un passo timido per qualcuno, una sterzata pericolosa per altri. In mezzo non ci può che stare la constatazione atavica che il processo provoca danni che nulla hanno a che vedere con l’accertamento dei fatti e, invece, troppo hanno a che vedere con la reputazione delle persone coinvolte. E non sono gli imputati, si badi bene, i più esposti. In troppe occasioni sono le vittime a finire nel tritacarne, a essere passate al setaccio, a dover rendere conto dei propri comportamenti agli occhi di un’opinione pubblica che morbosamente è alla caccia di particolari, di pruderie, di risvolti. La costruzione mediatica del mostro non è mai unidirezionale e, a volte, è impossibile stabilire a priori lungo quale piano incrinato scivolerà la biglia della benevolenza o quella delle stimmate contro il carnefice o contro la sua preda. Come e perché processo e media si siano incontrati e quando abbiano intrecciato questo insalubre connubio non è questione che possa essere risolta in poche battute. Sul perché sia così difficile spezzare questo legame, però, possono essere dette alcune cose. Le nuove norme non stanno tutte nel codice di procedura penale. Strano, penserà qualcuno. Ma come la presunzione d’innocenza è uno dei principi cardine del diritto e il suo “rafforzamento” non cade nel perimetro del processo? È proprio così. Le norme che hanno alimentato più polemiche non stanno nel codice del rito, ma in un oscuro ai più decreto del 2006 che riguarda l’organizzazione del pubblico ministero. E queste nuove regole disegnano una nuova disciplina dei rapporti del procuratore della Repubblica con la stampa e sono inserite in un grappolo di disposizioni tutte volte, come dire, a contenere gli slanci mediatici degli investigatori. Riassumiamo in poche battute il percorso a ostacoli che il Governo ha immaginato per tutelare la presunzione d’innocenza. Fin dall’inizio niente frasi roboanti per intitolare le indagini; una moda presa in prestito dalle operazioni militari e dalla polizia americana, ma lì il pubblico ministero conta poco o nulla e un giudice è lontano chilometri. La soggezione del pubblico ministero a queste titolazioni guerresche non è casuale e rispecchia una pericolosa tendenza all’assoggettamento dei magistrati dell’accusa ai modelli operativi e lessicali delle forze di polizia. Per carità, nulla di sacrilego, ma se si vuol parlare anche di giurisdizione inquirente è bene recuperare un certo stile e non trattare gli indagati come “nemici”. Quindi, secondo pilastro, negli atti di polizia e in quelli dei giudici niente frasi taglienti e giudizi irrevocabili sul tema della responsabilità. L’indagato parlerà dopo, nel processo, ed è bene non servirlo alla pubblica opinione e ai tribunali come fosse bello e cotto, destinato all’immancabile condanna. Troppi condizionamenti, dentro e fuori le mura dei palazzi di giustizia, trovano origine dal peso mediatico che il pubblico ministero ha impresso all’indagine, per cui diventa – come dire – difficile sganciarsi da questo cliché e arrivare con serenità a una scarcerazione o a una assoluzione. Senza contare il dramma delle vittime e dei loro parenti che, tante volte, ingiustamente suggestionati dalla propaganda mediatica che accompagna le loro vicende processuali, credono che il colpevole stia lì davanti a loro e che qualcuno lo aiuti a scampare la giusta pena. Quindi la comunicazione del risultato delle indagini diventa cruciale e su questo versante il decreto del Governo è prodigo di raccomandazioni e inviti alla cautela, più che di veri e propri strumenti di tutela. Naturalmente ci sarà chi se ne fregherà altamente e, in quel caso, stando alle norme, rischierebbe di brutto sul versante disciplinare, penale e risarcitorio. Difficile che qualcuno si mette contro un peso massimo del genere, ma comunque la via c’è e qualche potente di turno metterà mano alla pistola per far espiare al reprobo le sue colpe e rendergli il conto di averlo maltrattato innanzi alla pubblica opinione. I poveracci mi pare difficile trovino anche solo qualcuno che sia disposto a far causa a polizia giudiziaria, pubblico ministero e giudici, ma tra gli avvocati non mancano i coraggiosi. sia detto per inciso, è il vero vulnus al regime della responsabilità civile dei magistrati cui aspira il referendum leghista; non rifletta sul fatto che si tratta di uno strumento per ricchi dalle spalle forti. A occhio e croce, si potrebbe dire che non si capisce perché si parli di bavaglio all’informazione, di blackout sul lavoro delle procure, del pericolo di ammutolire gli investigatori. A occhio e croce. Perché a leggere con più attenzione il decreto governativo c’è uno snodo che preoccupa oltremodo alcuni settori della pubblica accusa ed è proprio il fatto che le disposizioni più severe non siano state collocate nel codice di rito, ma nella legge che governa le carriere. Si fosse trattato di norme del processo ai più disinvolti sarebbe importato poco o nulla. Con quel che si sente da qualche tempo in tema di violazione delle più elementari norme sorge il dubbio che il processo sia inteso da qualcuno come un circuito in cui – troppe volte – qualunque sbrego sia tollerato, giustificato e, quindi, metabolizzato, salvo incontrare un giudice. Ma se si mette mano all’ordinamento delle carriere la questione cambia, eccome. Nella lotta all’ultimo sangue per un posto direttivo, così ben narrata nella Batracomiomachia del dottor Palamara, è chiaro che incorrere in una violazione delle disposizioni sulle conferenze stampa può costare caro se un avversario la può lanciare sulla bilancia. Il nocciolo della questione sta nel nuovo articolo 5 del decreto del 2006 che sino a oggi prevedeva che il procuratore della Repubblica mantenesse personalmente, o tramite un delegato, i rapporti con gli organi di informazione. Questo giustificava il bivacco dei giornalisti nei corridoi di alcune procure della Repubblica alla ricerca di un contatto, di una chiacchierata, di un caffè propiziatorio. La mano del Governo Draghi ha aggiunto che questi rapporti con l’informazione debbono essere mantenuti «esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa». Già la pandemia aveva assottigliato le fughe di notizie con quei palazzi di giustizia trasformati in bunker sanitari, oggi si è tracciata una linea di demarcazioni quasi invalicabile. Si dice che ogni rapporto con i media potrà essere mantenuto solo attraverso comunicati e, in rari casi, con conferenze stampa. Quindi, per dire, addio interviste, addio chiacchierate e ammiccamenti. Si potrà, per carità, parlare di leggi, di criminalità, di sport, di cucina, ma non delle indagini di cui si è titolari per magnificarle o pubblicizzarle. In queste poche righe si annida un grave problema e c’è chi lo ha capito molto bene. Una grande occasione per i tanti, tanti pubblici ministeri che in silenzio e con serietà conducono le loro indagini senza riflettori e senza svolazzi. Alberto Cisterna

Spataro: «Processi in Tv, troppi magistrati trai i “nuovi mostri”». La lezione dell’ex procuratore Armando Spataro alla Scuola superiore della magistratura, che ha anticipato il recepimento della direttiva sulla presunzione d’innocenza. Simona Musco su Il Dubbio il 6 novembre 2021. «Il magistrato sia protagonista virtuoso di corretta comunicazione e di ogni utile interlocuzione nel dibattito sui temi della giustizia! Ma sia capace di esserlo con misura». A dirlo non è la ministra della Giustizia Marta Cartabia, né il deputato di Azione Enrico Costa, che pure, di certo, non si troverebbero in disaccordo con tale affermazione. L’esortazione è invece contenuta nella lezione tenuta a gennaio scorso dall’ex procuratore di Torino Armando Spataro alla Scuola superiore della magistratura, anticipando così di diversi mesi il recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza. Un vero e proprio vademecum, rappresentato, in primis, dalle circolari della stessa procura di Torino, che sotto Spataro, dal 2014 al 2018, ha fatto della comunicazione sobria ed essenziale, rispettosa dei diritti di tutti, una regola aurea. Nessuna generalizzazione, né scivoloni nel populismo, solo una certezza: le toghe non possono e non devono aspirare al ruolo di moralizzatori della società. E la stampa, se vuole fare un buon lavoro, deve evitare il processo mediatico, i titoloni ad effetto, verificando i fatti e accedendo alle notizie senza tentare di creare, magari violando i doveri deontologici, dei canali privilegiati: solo così renderà un vero servizio alla giustizia. L’invito di Spataro ai colleghi è quello di «evitare i tentativi di “espansione” a mezzo stampa del proprio ruolo fino ad includervi quelli degli storici e dei moralizzatori della società». Un rischio concreto, per quanto i magistrati showman, secondo l’ex procuratore, siano comunque una minoranza. Ma tanto basta a creare quel meccanismo perverso che distorce l’immagine della giustizia.

La febbre da talk show

Il dovere di informare è naturalmente irrinunciabile, evidenzia, «purché esercitato nei limiti della legge, del rispetto della privacy e delle regole deontologiche, ma è anche necessario che i magistrati si guardino bene dal contribuire a rafforzare un’ormai evidente degenerazione informativa, che spesso determina febbre “giustizialista”, alimentata da mostruosi “talk-show” ed attacchi alla politica ingiustificatamente generalizzati». Una vera e propria deriva, denuncia Spataro, di cui i magistrati non sono, ovviamente, gli unici responsabili: anche la polizia giudiziaria, i giornalisti, i politici e gli avvocati possono contribuire alle «strumentalizzazioni», con il risultato di produrre «informazioni sulla giustizia prive di approfondimento e di verifiche, e che sono caratterizzate dalla ricerca di titoli e di forzature delle notizie al solo scopo di impressionare il lettore». Il rapporto tra giustizia ed informazione è infatti tutt’altro che secondario nell’amministrazione della giustizia ed è anzi, secondo Spataro, uno dei pilastri della sua credibilità. E in caso contrario, l’effetto è quello di generare tra i cittadini «errate aspettative e distorte visioni della giustizia, in sostanza disinformazione, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura e conseguente perdita della sua credibilità». Ecco perché, dunque, la direttiva sulla presunzione d’innocenza non appare peregrina, nonostante i timori di chi vede in essa un tentativo di imbavagliare pm e stampa. La mediatizzazione dei magistrati, infatti, può rappresentare la spia di una propensione «ad accrescere, per quelle vie, la popolarità della propria immagine, anche a costo di non rispettare il dovere di riservatezza proprio dell’attività giudiziaria». E se l’informazione sulla giustizia è «certamente necessaria», occorre precisarne «contenuti e confini, anche nel rispetto dei principi che disciplinano la tutela della privacy».

Giusto processo e processo mediatico: le conferenze stampa

Il giusto processo, afferma l’ex magistrato, non dipende solo da quanto avviene in aula, ma anche da ciò che accade fuori, ovvero «grazie a notizie giuste e vere, conoscibili entro i limiti previsti per le varie fasi processuali e contenenti esclusivamente riferimenti ai fatti che sono oggetto del processo». Ma lo stesso può essere inficiato dalla «tendenza al protagonismo individuale», un problema reale, ammette, «connesso alla convinzione di alcuni pm di potersi proporre al Paese, attraverso la diffusione mediatica di notizie sulle proprie indagini, spesso enfatizzate, come eroi solitari, unici interessati alle verità che i poteri forti intendono occultare». Un atteggiamento da cassare, mentre «sono preferibili quei magistrati che non cercano consenso (specie nelle piazze gremite) e che lavorano con riservatezza e determinazione». Su tutti prevalgono i doveri di «verità e sobrietà informativa, specie quando i fatti sono oggetto di indagine e non ancora di una sentenza, sia pure di primo grado». Ed è obbligo dei procuratori «intervenire per correggere le fake news», che rischiano di compromettere anche la funzione giudiziaria.

Altro capitolo quello delle conferenze stampa, che Spataro, in tutta la sua carriera, ha convocato solo tre volte: «La prima per denunciare pubblicamente, insieme agli avvocati, il grave deficit di personale amministrativo dell’Ufficio; la seconda per illustrare i risultati ostensibili delle indagini sui gravi fatti verificatisi in Torino, in Piazza San Carlo, il 3 giugno 2017 (che avevano scosso l’intera città) e l’ultima per presentare pubblicamente le direttive emesse il 9 luglio 2018 in tema di priorità da accordare alla trattazione dei reati connotati da odio razziale ed al fine di velocizzare le procedure relative ai ricorsi avverso il rigetto delle richieste di protezione internazionale (argomenti, cioè, che richiamavano attualità e diritti fondamentali delle persone)». Da qui la critica alle conferenze-show con tanto di forze di polizia schierate in divisa dietro ai magistrati.

Informazione e giustizia, il principio dell’essenzialità

La critica di Spataro è dura, anche e soprattutto contro l’inaccettabile prassi lanciare proclami, «del tipo “si tratta della più importante indagine antimafia del secolo” o “finalmente abbiamo scoperto la mafia al Nord”, così proponendosi come icone – categoria purtroppo in espansione – per le piazze plaudenti». Ma anche i comunicati stampa, spesso, cedono al sensazionalismo, offrendo alla stampa anche stralci di intercettazioni o spunti critici verso giudici o avvocati, «oppure affermazioni apodittiche quasi che le tesi dei pm esposte nei comunicati rappresentino la verità inconfutabile, definitivamente accertata, insomma un anticipo di sentenza. Niente di più lontano, insomma, dal senso del limite e dall’etica del dubbio cui devono conformarsi le parole di un pubblico ministero prima della decisione del giudice». Limitarsi all’essenziale e ricordare «la provvisorietà delle valutazioni del giudice (non del pm) sulle responsabilità delle persone sottoposte a misura cautelare, evitando citazione di nomi e diffusione di fotografie o comunicazione di dati sensibili almeno ove tali nomi ed immagini non siano noti per altri fatti oggettivi» è invece il metodo giusto.

Ma Spataro invita i colleghi anche a rifuggire da quella tendenza che spinge i magistrati a ritenersi «depositari della morale collettiva». Il loro compito è infatti un altro: «Mettere a nudo la verità con prove inconfutabili». E questo comporta un limite: «Se quelle prove non si raggiungono, il magistrato, pur se convinto del fondamento della ipotesi accusatoria da cui si è mosso, ha esaurito il suo ruolo, deve considerare i limiti della giustizia umana e se è un pubblico ministero deve saper ragionare come un giudice e comunque rimettersi alla decisione finale dei Tribunali e delle Corti rispettandola fino in fondo». Ciononostante, per una minoranza dei magistrati il rilievo mediatico del proprio lavoro è quasi più importante del suo esito: «La pubblicazione della notizia di una indagine sui giornali, specie se con modalità tali da captare l’attenzione del lettore, rischia in tal modo di diventare per molti più importante della futura sentenza». E prova ne è anche l’invasione delle sale da talk-show da parte di magistrati o ex magistrati, definiti da Spataro «i nuovi mostri», un’ulteriore ragione «di perdita di credibilità dell’ordine giudiziario». 

Quella condanna a mezzo stampa tra stereotipi di genere e ipocrisia. La bagarre mediatica dopo la sentenza del Tribunale di Livorno che ha assolto un Carabiniere dall’accusa di violenza sessuale. Il commento di Aurora Matteucci, presidente della Camera penale di Livorno. Aurora Matteucci su Il Dubbio il 6 novembre 2021. Se ne parla da un mese: ha fatto notizia la sentenza del Tribunale di Livorno che ha assolto un Carabiniere dall’accusa di violenza sessuale e corruzione, perché – si legge sul giornale – il sesso orale non può essere violenza. Titoli che rimbalzano sui social, fiumi di inchiostro per dare forma all’indignazione. Il mainstream mediatico ha già deciso: il carabiniere deve essere condannato. Ne nasce una saga a puntate, pubblicata dal quotidiano livornese il Tirreno che domenica scorsa interviene di nuovo sul tema: ad essere oggetto di attenzione, stavolta, i contenuti dell’atto di appello dei difensori della parte civile. Eravamo convinti/e, ma ci dobbiamo essere distratte/i, che la richiesta di pena fosse appannaggio dello Stato, nelle mani della pubblica accusa. E che i difensori delle parti civili potessero al più dolersi del mancato risarcimento dei danni. Ma tant’è: il vittimocentrismo pretende oggi la sua più alta soddisfazione. Privatizzare la giustizia penale e farne un terreno di scontro tra “per bene” e “per male” (T. Pitch). È vero. L’affermazione che il sesso orale non possa essere violento, in sé, merita critica ed è figlia di stereotipi inaccettabili. Ma da qui a dire che per questo il carabiniere è stato assolto, come invece sembra ricavarsi dalla lettura di questa ennesima epopea mediatica, spazio ne corre. Il quotidiano si diffonde in un accorato j’accuse dando in pasto ai lettori la convinzione che questo sia il motivo principale dell’assoluzione e, cosa ancor più deprecabile, che sia una donna ad aver esteso quella motivazione. Di qui, uno scivoloso avvitamento inverso: l’imputata, sui media, diviene proprio la giudice, in quanto donna e, come tale, colpevole di aver deciso di assolvere un uomo accusato di violenza sessuale e concussione. Se ormai è vox populi che non esistono innocenti, ma solo colpevoli che la fanno franca, c’è poco spazio per i nostalgici della presunzione di innocenza. Hai voglia a pubblicare i numeri delle ingiuste detenzioni (uno ogni otto ore finisce in carcere ingiustamente, M. Feltri), i costi delle condanne che lo Stato, quindi noi, dobbiamo pagare per aver sbattuto dentro innocenti (ogni anno 988 errori che alla collettività sono costati, dal 1991 a oggi, 869.754.850 euro). L’assoluzione avrà sempre il sapore di una sconfitta. Ho letto quella sentenza, non ho seguito il processo. Non conosco gli atti di quel dibattimento che darebbero migliore contezza della complessità di quella vicenda umana ricostruita dai Giudici livornesi. Mi guardo bene dal dire se questa è o meno una sentenza giusta. Ma un tentativo di riflessione su binari diversi può essere fatto, dopo quella lettura: e cioè che il ragionamento con il quale i giudici, a torto o a ragione, ritengono di assolvere l’uomo, il cui nome e cognome è ormai dominio pubblico, è certamente più complesso della semplificazione indebita riportata dalla stampa. L’inattendibilità della persona offesa viene ancorata a diversi profili sui quali solo incidentalmente si innesta l’affermazione, non condivisibile, secondo cui il sesso orale non può essere violento: non vi sarebbe prova per il Tribunale che il carabiniere abbia esercitato pressioni sulla donna per ottenere prestazioni sessuali in cambio di un insabbiamento dell’indagine per sfruttamento della prostituzione; vi sarebbero al contrario elementi per ritenere che la donna fosse spinta da sentimento vendicativo nei confronti dell’imputato che, a torto, era stato ritenuto responsabile del sequestro del centro benessere di cui era titolare. Descrizione non convincente dei rapporti sessuali che si assumono violenti, alibi dell’imputato che si trovava altrove in occasione di uno dei racconti di violenza. E molti altri passaggi che di per sé soli, costituiscono l’ossatura portante della motivazione. Sentenza giusta? Sbagliata? Lo stabilirà una Corte d’appello. Di certo il compito di ribaltarla non spetta alla testata di un quotidiano locale che si spreca in ricostruzioni sibilline, con tanto di stralci dell’incidente probatorio sbattuti in calce all’effige evocativa del corpo nudo e stilizzato – un fumetto – di una donna toccata da molte mani (disegnate anche queste). Un inno alla semplificazione estrema, facile, troppo facile della complessità, ridotta alla solita guerra tra vittima e imputato – già reo – destinati a giocare sempre lo stesso ruolo, guai a cambiarne il destino, guai ad assolvere, guai a non sacralizzare l’ovvio: e cioè che una donna che denuncia è sempre e solo vittima e per questo deve essere creduta, a prescindere. Dobbiamo, invece, intavolare discussioni ben più profonde e sensate sugli stereotipi di genere, emblematici di una società tristemente, anacronisticamente, patriarcale. Parliamo di questo nelle sedi della politica, affrontiamo con coraggio, una buona volta, il problema del sessismo nella lingua italiana e nei costumi di questo ipocrita paese. Trattiamo la violenza di genere come un problema strutturale e non con strumenti emergenziali buoni per raccattare consensi. Usciamo dal circuito asfittico della bulimia repressiva, dal vortice del diritto penale simbolico, dalla tendenza inesausta a semplificare la complessità. E restituiamo il processo alle aule dei Tribunali. I dibattimenti, salve rare eccezioni, sono pubblici. Ma le sedie, destinate al pubblico, sono sempre vuote: non ci sono quasi più giornalisti, non ci sono quasi mai lettori. Le sentenze, non a caso, sono pronunciate in nome del popolo italiano. Per carità: le decisioni possono essere criticate, ci mancherebbe altro. Si può persino ritenere che siano scritte “non in nostro nome”. Vanno lette, studiate, analizzate e poi, solo poi, criticate, anche ferocemente, persino additandone le scelte linguistiche. Può farlo una pubblica opinione, purché adeguatamente informata, deve farlo un difensore che ritenga ingiusta una pronuncia e in tal caso ha il dovere (non è un placet) di ricorrere agli strumenti che l’ordinamento assegna: l’atto di appello o il ricorso per Cassazione. Circuito tecnico e ristretto che non ha niente a che vedere con il processo mediatico. Occorre augurarsi che a giudicare questo processo, in grado d’appello, allora siano persone capaci di restare impermeabili alla bagarre mediatica. Aurora Matteucci è presidente della Camera penale di Livorno

Presunzione di innocenza, dagli atti giudiziari alle interviste: più garanzie per chi è sotto inchiesta. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 4 novembre 2021. Stop alla giustizia show e maggiore tutela per chi è sottoposto a indagine: così, recependo la direttiva europea del 2016, il Consiglio dei ministri presieduto da Mario Draghi ha approvato ieri sera, in esame definitivo, dopo il previsto passaggio parlamentare, il decreto legislativo sul rafforzamento della presunzione di innocenza. Una soluzione di compromesso tra tutte le forze politiche, che continuerà però a suscitare polemiche. Il testo approvato prevede, ad esempio, che il procuratore capo mantenga «i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa». Dunque, almeno in teoria, non potranno più essere fornite informazioni al di fuori di questi contesti. Poi c’è il passaggio che le voci più critiche, a partire dal togato indipendente del Csm, , hanno definito «il bavaglio lessicale» messo a pm e forze dell’ordine. L’articolo 4 del testo modifica il codice di procedura penale inserendo un nuovo articolo 115-bis («Garanzia della presunzione d’innocenza») che impone, infatti, ai magistrati di pesare le parole. Perché, recita il testo, non possono «indicare pubblicamente l’indagato come colpevole», in un atto che non sia una sentenza, ma anche solo in un’intervista, a pena di richieste da parte dell’interessato di «rettifica della dichiarazione resa» entro 48 ore. Ma non solo: sono previste anche conseguenze disciplinari e risarcimento danni in questi casi a carico di chi indaga. Il rischio, allora, già paventato da rappresentanti dell’Anm, è che potranno aprirsi così nuovi fascicoli che di certo non aiuteranno a velocizzare la macchina della giustizia. Super cautela, d’ora in poi, anche nelle ordinanze di applicazione di misure cautelari: «L’autorità giudiziaria» dovrà limitare «i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento». Lo schema di decreto mercoledì aveva ricevuto il parere positivo del Csm (con l’opposizione dei soli consiglieri Di Matteo e Ardita). Nei confronti del documento il Consiglio superiore della magistratura due giorni fa aveva espresso «apprezzamento» evidenziando però «alcune criticità tecniche». «Ci avviamo a una situazione nella quale fino alla sentenza definitiva i processi in tv li possono fare soltanto gli imputati e i parenti degli imputati — aveva detto il consigliere Di Matteo — mentre nessuna notizia potrà essere data dai procuratori e dalle forze dell’ordine». Il decreto appena approvato prevede «che la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita soltanto quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico». Inoltre «è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». Come Mafia Capitale o Pizza Connection, per capirci. Sul rispetto del dettato legislativo, infine, sarà chiamato a vigilare il procuratore generale presso la Corte d’Appello, inviando una relazione «almeno annuale» alla Corte di Cassazione, che potrà costituire base per procedimenti disciplinari.

Archiviati e offesi. La crociata contro la presunzione d’innocenza e l’anima nera del populismo giudiziario. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 5 novembre 2021. I video montati ad arte dagli inquirenti a scopo comunicativo e i surreali titoli del Fatto sugli «ex indagati», breve antologia degli orrori che rendono necessario recepire la direttiva europea, rispettare la Costituzione e superare lo stato incivile della giustizia italiana. In Italia, da tempo, si discute accanitamente di un decreto legislativo che recepisce le disposizioni di una direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, principio peraltro previsto dalla nostra Costituzione. Il testo voluto dalla guardasigilli Marta Cartabia, approvato dal governo in agosto, impone agli inquirenti di parlare dei procedimenti in corso nelle sedi deputate e senza violare il suddetto principio, vale a dire senza presentare un semplice indagato come colpevole. In pratica, il decreto cerca di limitare la possibilità di pm e forze dell’ordine di fare quello che fino a cinque minuti fa hanno sempre fatto, ma proprio sempre-sempre-sempre, da che sono bambino. E cioè, per l’appunto, presentare il semplice indagato come colpevole. Allestire solenni conferenze stampa in cui diffondersi per ore sulla sua spietata volontà criminale e sulla bassezza delle sue motivazioni. Scandire in ogni modo davanti a microfoni e telecamere che razza di disgraziato, cinico, implacabile, rivoltante, schifoso essere sia questo Mario Rossi. Quello stesso Mario Rossi per il quale, secondo la nostra Costituzione, vige la presunzione d’innocenza. L’iniziativa, come ogni tentativo di mettere un freno agli abusi di pubblici ministeri e giornalisti da qualche decennio a questa parte, è stata prontamente etichettata come «bavaglio». Immancabile, in proposito, l’intervento del Consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha parlato – non scherzo – di «svolta illiberale» e di «bavaglio alla possibilità che all’informazione contribuisca anche l’autorità pubblica». In proposito, Maurizio Crippa sul Foglio di ieri ha ricordato l’incredibile vicenda del video che mostrava il camion di Massimo Bossetti, condannato all’egastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, girare attorno alla palestra della ragazza. Video mandato in onda da tutti i tg, di cui si è scoperto che era stato montato ad arte dai carabinieri. Luigi Ferrarella, che ha ricostruito la vicenda sul Corriere della sera, ha notato tra l’altro che di recente il tribunale di Milano ha assolto alcuni giornalisti dall’accusa di aver diffamato il capo del Ris parlando di «patacca» e video «taroccato». In particolare, il gip ha osservato che la «diffusione mediatica» di quel video, «il cui scopo era dichiaratamente non probatorio» (non faceva parte degli atti) «ma comunicativo», di fatto lese «il fondamentale principio della presunzione d’innocenza dell’imputato che, anche in base alla direttiva Ue n. 343 del 2016, deve proteggere gli indagati da mediatiche sovraesposizioni deliberatamente volte a presentarli all’opinione pubblica come colpevoli prima dell’accertamento processuale definitivo». Esattamente la direttiva che il decreto vorrebbe attuare. Decreto contro il quale è scattata, puntualmente, la campagna del Fatto quotidiano. Va detto che quella contro la presunzione di innocenza, più che una battaglia, è la ragione sociale del Fatto. Una crociata combattuta con una passione paragonabile solo a quella con cui da un po’ in qua – cioè da quando a Palazzo Chigi non c’è più Giuseppe Conte – continua a sparare sfilze di titoli allarmisti sui vaccini (l’apertura di ieri, per dire, era un incredibile «63 morti e fuga dalla terza dose», a metà tra fantascienza e poliziottesco anni Settanta). Ma tutto questo è ancora niente in confronto al modo in cui mercoledì il Fatto ha dato la notizia della nuova giunta capitolina di Roberto Gualtieri. Titolo: «Un indagato e 3 ex inquisiti: Gualtieri sceglie il passato». Nel caso vi fosse sfuggito il neologismo, ve lo ripeto: «Ex inquisiti». Occhiello: «Inchiesta a Roma per abuso d’ufficio sul nuovo city manager. Nella giunta gli archiviati del Mondo di Mezzo». Ripetiamo anche questa, tutti in coro: «Gli archiviati». Ricapitolando, da un lato, a quanto scrive lo stesso articolo del Fatto, abbiamo un indagato, un manager proveniente dal Poligrafico dello Stato, che deve ancora essere sentito dai pm («qualora venisse accertata la buona fede dei manager del Poligrafico, la Procura potrebbe archiviare»), dall’altro «tre persone sfiorate dall’inchiesta sul Mondo di Mezzo, tutti archiviati su richiesta della Procura nel 2016». Avete letto bene. Altro che presunzione, qui siamo semmai alla rimozione d’innocenza. Nemmeno il fatto che sia la stessa Procura a stabilire che non ci sono ragioni per procedere basta a risparmiare ai nuovi assessori la messa all’indice, bollati con la surreale definizione di «ex inquisiti». Il fatto di essere stati semplicemente indagati, anni prima, come macchia perpetua e incancellabile, indipendentemente dalle conclusioni degli stessi inquirenti. Dalla presunzione d’innocenza alla colpevolezza a prescindere. Semel «sfiorato», semper «sfiorato».

Ora la presunzione d’innocenza è un obbligo per i pm. Con le nuove norme, vietato alle Procure presentare indagati e imputati già come colpevoli. Conferenze stampa consentite solo in casi particolari. Errico Novi su Il Dubbio il 4 novembre 2021. È una piccola rivoluzione. E forse neanche tanto piccola. Il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza prova a correggere il vizio fatale della giustizia italiana: la sostituzione del processo mediatico all’accertamento penale. Il Consiglio dei ministri ne ha deliberato ieri l’approvazione definitiva: testo integrato (e trasmesso al Capo dello Stato per la firma) con le correzioni chieste dal Parlamento, ma non in base a quelle suggerite giusto due giorni fa dal Csm. Rispettata dunque la scadenza prevista dalla delega, fissata all’8 novembre. Dopo l’ok del Colle, sarà legge il «divieto di indicare pubblicamente come colpevole l’indagato o l’imputato» fino a che non arrivi una sentenza definitiva. Vale per tutte le «autorità pubbliche», ma visto che i parlamentari godono dell’insindacabilità sulle opinioni, riguarda essenzialmente i magistrati. Ci sono molti meriti da distribuire. Certamente alla ministra della Giustizia Marta Cartabia che ieri ha sostenuto l’importanza del provvedimento, e scongiurato qualche “ritocco al ribasso”. E poi al sottosegretario Francesco Paolo Sisto, che ha favorito una non facile mediazione sul parere delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, e al deputato di Azione Enrico Costa, che già un anno fa aveva sollecitato il recepimento della direttiva europea, la 343 del 2016, a cui il testo approvato ieri assicura il “compiuto adeguamento”. L’Italia ha impiegato la bellezza di cinque anni per conformarsi alle misure, dettate sia dal Parlamento di Strasburgo che dal Consiglio Ue. Inerzia che di qui a poco avrebbe potuto innescare una procedura d’infrazione, come la guardasigilli ha più volte ricordato. Va detto che la presunzione d’innocenza è tutelata, oltre che in modo solenne dall’articolo 27 della Costituzione, anche da una sottovalutatissima norma già scolpita nel Codice disciplinare dei magistrati. I quali possono rispondere per «pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui». Un’incredibilmente disattesa anticipazione (inserita, tanto per essere precisi, nel decreto legislativo 109 del 2006) del nuovo testo. Non è un caso che la vecchia norma fosse stata richiamata nel parere delle Camere, come motivo che avrebbe reso necessaria, innanzitutto secondo il relatore Costa, una stretta anche più severa. Ed è vero pure che si potrebbe temere una nuova disapplicazione, se non fosse che nei rapporti fra magistratura e altri poteri gli equilibri sono cambiati parecchio, nel frattempo. E poi comunque il decreto appena approvato a Palazzo Chigi definisce meglio il rispetto della presunzione d’innocenza, anche grazie a un diritto di rettifica introdotto, in favore dell’indagato, nei casi in cui il magistrato violi i nuovi limiti; servirà un ricorso ex articolo 700. Quando gli abusi sono in atti formali di un giudice, è possibile chiederne una «correzione», su cui decide lo stesso ufficio in sole 48 ore, con possibilità di opporsi prevista per le parti in causa, dunque anche per il magistrato ritenuto responsabile. Procedura accessibile anche per gli atti di un pm, pur soggetti a limiti meno stringenti. Ma lo stesso magistrato dell’accusa è tenuto comunque a riferirsi in modo “limitato” alla colpevolezza, giusto quanto basta per «soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento». Il cuore delle nuove norme però riguarda i rapporti con l’informazione. Che continuano a poter essere gestiti, nelle Procure, dai capi o da pm delegati, ma d’ora in poi solo attraverso comunicati ufficiali. Si possono convocare conferenze stampa solo «nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti» e, come chiesto dal Parlamento nel parere, con atto motivato da ragioni «specifiche». Aggettivo che costringe i procuratori a spiegare in modo non troppo generico l’esigenza di convocare i giornalisti. Le Camere hanno chiesto, e ottenuto, di vedere introdotto il termine «specifiche» anche rispetto alle «ragioni» stesse per le quali si sceglie di informare la stampa, a cui i magistrati potranno rivolgersi appunto solo quando ricorrono ben definite motivazioni «di interesse pubblico» o quando tale “pubblicità” è «strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini». Limiti fotocopia anche per i casi in cui il procuratore affida alla polizia giudiziaria la comunicazione con i media, sempre con la necessità di un atto motivato per le conferenze stampa. In ogni caso, toghe e agenti devono sempre preoccuparsi di chiarire «lo stato del procedimento» e di non equivocare sulla colpevolezza, e sulla necessità di accertarla nel processo. Fino al dettaglio normativo che impone la cesura forse più netta rispetto al passato: il divieto di assegnare alle indagini «denominazioni lesive della presunzione di innocenza». I suggestivi nomignoli con cui, senza bisogno d’altro, già si presentava l’indagato come inesorabilmente reprobo. È una griglia fitta. Destinata a cambiare l’approccio anche culturale dei magistrati, al di là delle sanzioni che potranno essere davvero applicate. Fino all’ultimo ieri si è discusso sull’opportunità di mantenere nel testo il passaggio, sollecitato sempre dal parere parlamentare, che elimina il nesso fra il ricorso alla facoltà di non rispondere e il mancato riconoscimento del ristoro per ingiusta detenzione. Di sicuro, solo fino a pochi mesi fa, un argine così puntuale alla mediaticità dei pm sarebbe stato impensabile. Il fatto stesso che diventi legge apre un orizzonte diverso per la giustizia italiana.

Diritti civili. La presunzione di innocenza e l’odiosa pratica del processo mediatico. Guido Stampanoni Bassi su L'Inkiesta.it il 29 Ottobre 2021. Una direttiva europea impone alle nostre procure di rispettare un principio sacrosanto: le autorità pubbliche non devono riferirsi all’indagato (o all’imputato) come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata definitivamente provata. Non è un bavaglio alla cronaca giudiziaria ma uno dei pochi modi per evitare la gogna dei pm in cerca di visibilità. Una direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2016 – avente a oggetto il rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione d’innocenza nonché il diritto a presenziare al processo – ha invitato gli Stati membri ad adottare una serie di misure volte a riconoscere, in capo a chi sia accusato di un reato, la «presunzione d’innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza». Tra queste misure, un’attenzione particolare è riconosciuta ai «riferimenti in pubblico alla colpevolezza», stabilendo che gli Stati membri garantiscano che, nelle dichiarazioni pubbliche rese dalle autorità pubbliche, non ci si riferisca all’indagato (o all’imputato) come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata definitivamente provata. Sembra una considerazione banale, quasi ovvia, ma così non è. Per adeguare il nostro ordinamento alla direttiva, il Governo, nell’agosto di quest’anno, ha presentato uno schema di decreto legislativo che è appena passato al vaglio delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, non senza polemiche e discussioni. Diverse le novità che deriverebbero dall’entrata in vigore del provvedimento, a partire dal divieto, per le autorità pubbliche, di presentare all’opinione pubblica come colpevole una persona sottoposta a indagini o a processo sino a quando – come richiesto dalla direttiva – la sua colpevolezza non sia stata accertata in maniera definitiva. Si prevede, poi, d’intervenire sul piano dei rapporti tra Procura e organi d’informazione stabilendo che la diffusione d’informazioni sui procedimenti penali sia consentita solo se strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o in presenza di ragioni d’interesse pubblico e che il Procuratore (o un suo delegato) possa interagire con la stampa solo attraverso comunicati ufficiali o conferenze stampa. Soprattutto sotto quest’ultimo versante – ossia, quello relativo ai rapporti tra autorità inquirente e organi d’informazione – si sono registrate le maggiori polemiche. Da un lato, la Associazione Nazionale Magistrati che ha parlato di «ingessatura eccessiva» potenzialmente lesiva del diritto a una corretta informazione; dall’altro, gli avvocati penalisti che, in sede di audizione, pur considerandolo il provvedimento un «passo avanti» hanno evidenziato perplessità sulla reale efficacia delle misure. Da un lato, alcuni giornali che hanno parlato d’inaccettabile bavaglio («vogliono delinquere e vietarci di scriverlo», «addio notizie», ecc…); dall’altro quelli che vedono nel recepimento della direttiva uno strumento in grado di contrastare processi show e gogna mediatica («giustizia show, varata la norma anti-Gratteri»). Il 20 ottobre le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno dato il via libera allo schema di decreto legislativo, esprimendo parere favorevole (sebbene non sia vincolante) subordinato ad alcune condizioni. Vediamo quali.

Anzitutto, si prevede che la decisione d’indire una conferenza stampa – ipotesi già subordinata al fatto che si tratti di fatti di «particolare rilevanza pubblica» – dovrà essere assunta dal Procuratore della Repubblica «con atto motivato in ordine alle specifiche esigenze di ragioni di pubblico interesse che lo giustificano». In secondo luogo – ed è questo un argomento più tecnico – si prevede che la condotta di chi, in sede d’interrogatorio, abbia scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere «non possa costituire, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, elemento causale della custodia cautelare subita».

Prevedibili alcune delle obiezioni.

Chi stabilisce quali siano i casi di «particolare rilevanza pubblica»? Chi stabilisce quali siano le «ragioni di pubblico interesse» tali da giustificare l’organizzazione di una conferenza stampa? 

La Procura, ossia la stessa autorità che sta portando avanti le indagini, con una innegabile commistione tra controllore e controllato.

In ogni caso, in attesa di vedere come procederà il Governo, il compromesso raggiunto in Commissione Giustizia – perché di questo si tratta – rappresenta senz’altro un passo avanti verso l’adeguamento del nostro ordinamento a un pieno riconoscimento della presunzione d’innocenza.

Imponendo delle restrizioni – peraltro non difficilmente superabili dalla Procura, alla quale si richiederà solo di motivare il perché si è reputata necessaria una conferenza stampa ad hoc – non si va a ledere alcun diritto (e certamente non quello di chi si trova sotto procedimento, il quale semmai ne uscirà maggiormente tutelato). Così come non potrà essere considerata lesiva di un qualche diritto la necessità di adottare maggior cautela (tanto da parte delle autorità pubbliche quanto dagli organi di stampa) nel non presentare pubblicamente come colpevole un soggetto solo perché indagato o imputato.

Non si tratta, dunque, di voler impedire ai giornalisti di raccontare fatti di cronaca giudiziaria, bensì di evitare o quantomeno contenere gli effetti (forse indesiderati, ma comunque ampiamente prevedibili) del processo mediatico.

Processo mediatico che annovera tra le proprie vittime non solo gli indagati o gli imputati (che vedono lesa la loro presunzione d’innocenza nel momento in cui vengono presentati come colpevoli all’opinione pubblica), ma anche gli stessi giudici, i quali – come ha efficacemente ricordato Vittorio Manes – al momento della loro decisione «dovranno decidere da che parte stanno: se dalla parte della pubblica opinione oppure dalla parte di un imputato che ormai si presume colpevole».

Si tratta, peraltro, di un intervento in linea con il pensiero della ministra della Giustizia Marta Cartabia, la quale ha sottolineato la necessità che «l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale».

È la soluzione di tutti i problemi? Certamente no.

Rimangono (e rimarranno) ancora aperte una serie di ulteriori rilevanti questioni su cui il provvedimento non interviene, ma che meritano tuttavia attenzione.

Penso, ad esempio, al tema delle cosiddette fughe di notizie dalle procure – argomento su cui pende la proposta di legge presentata dall’Onorevole Catello Vitiello (nella quale si affrontano anche tanti altri temi) – che, a oggi, nonostante la presa di posizione e gli impegni concreti di autorevoli magistrati, rimane irrisolto.

Stop al tritacarne mediatico. Basta giustizia show, troppe carriere sono state distrutte da indagini e titoloni. Catello Vitiello su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Un servizio al telegiornale, un titolo in prima pagina, una conferenza stampa e la vita cambia. Forse per sempre, forse finisce. Sarebbe semplice, quasi banale, snocciolare nomi e cognomi di tutti coloro che hanno subito una gogna mediatica per poi risultare innocenti. Ricordo bene, per ragioni territoriali, il caso di Stefano Graziano, accusato di voto di scambio e di essere fiancheggiatore dei Casalesi e poi prosciolto. Ne abbiamo letto in qualche trafiletto. Voglio, invece, affermare un principio che si spinge un po’ più oltre. Basta gogna mediatica anche per coloro che poi risulteranno essere colpevoli del reato imputatogli. Il recepimento della direttiva 343/2016, infatti, ci riporta a principi già tutti contenuti nella nostra Costituzione che, però, col passare del tempo e l’evolversi dei nuovi mezzi di informazione, sono stati svuotati di significato. Direi elusi, diventati lettera morta. Ed ecco allora il processo mediatico, la notizia sparata in prima pagina, le veline che dalle scrivanie dei pm passano alle scrivanie dei giornalisti, le conferenze stampa delle Procure che narrano di un imputato già colpevole. La vita che cambia. Forse per sempre, forse finisce. Perché, come bene ha detto Luciano Violante nei giorni scorsi, il problema della presunzione d’innocenza è legato a doppio filo a quello di un’informazione spesso lesiva della dignità umana e della privacy. Consapevole del fatto che non abbiamo bisogno di generalizzazioni, sento di rivolgere un interrogativo (molto probabilmente retorico) a chi ci legge: quante carriere sono state costruite sull’onda della rilevanza mediatica? Quante narrazioni di vicende che involgevano amministratori pubblici hanno caratterizzato il dibattito politico degli ultimi anni? Quanto è stata stimolata l’emotività rispetto a fatti che andavano letti solo con la chiave della logica e del diritto? Quante intercettazioni abbiamo letto o ascoltato indebitamente, quanto materiale probatorio sottoposto a segreto investigativo abbiamo visionato? Ve lo dico io: tante volte. Ricorderete i video dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere o, ancora più di recente, le intercettazioni nell’ambito delle indagini sul “sistema De Luca”, in onda a Non è l’Arena di Massimo Giletti. I verbali dell’interrogatorio reso dall’imprenditore Fiorenzo Zoccola, da ieri ai domiciliari, sono di dominio pubblico e girano in tutte le redazioni, coinvolgendo anche persone non indagate. Il giudizio politico può anche restare sospeso, ma perché la giustizia deve diventare uno show? E la cronaca giudiziaria si è trasformata da cane da guardia della democrazia a cane da compagnia (o “da salotto”, come direbbe un cronista di lungo corso). E allora, finalmente, proviamo a ritornare allo Stato di diritto. L’imputato avrà diritto a essere rappresentato come innocente fino a quando non interverrà una sentenza definitiva di condanna; niente utilizzo in pubblico di strumenti di coercizione se non strettamente necessari; nessuna conferenza stampa se non per specifiche (non più solo rilevanti, come pure qualcuno aveva proposto) ragioni di pubblico interesse. Ritorniamo alla civiltà giuridica e alla civiltà di cronaca. Perché una vita non può e non deve finire per una notizia in prima pagina. Può essere, questo, sufficiente? Può, da sola, la direttiva europea rendere questo Paese più civile? Credo proprio di no: non si può risolvere l’intero problema affrontandone solo una parte. Bisognerebbe avere il coraggio di mettere mano a una nuova disciplina, ampia, strutturata, che riequilibri il rapporto tra vicende giudiziarie e media. Giace, incardinata in Commissione Giustizia, una proposta di legge a mia prima firma sul tema, condivisa da esponenti di tutti i partiti rappresentati in Parlamento: senza pretese, può rappresentare un punto di partenza per una discussione che involge aspetti non contemplati dal decreto attuativo della direttiva 343. Solo quando avremo stabilito un punto di equilibrio, infatti, potremmo dire di vivere in un Paese che tutela tutte le libertà in gioco. Catello Vitiello

Da Mafia Capitale a Geenna, così lavorano i titolisti delle procure. I nomi delle indagini non solo evocano i reati ipotizzati ma, a volte, hanno più successo e più effetti dell'intera inchiesta. Ora potrebbero sparire per sempre. Simona Musco su Il Dubbio il 25 ottobre 2021. Super evocativi. In alcuni casi «sentenze anticipate», dice chi, come Marco Scarpati, è uscito pulito da un’inchiesta che ancora lo perseguita, con tanto di minacce di morte online e sguardi storti dei passanti. Sono i nomi delle indagini, spesso frutto di fantasia, giochi di parole che evocano i reati ipotizzati ma che, a volte, hanno più successo e più effetti più dell’intera inchiesta. E ora, con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, potrebbero sparire per sempre. Per Enrico Costa, deputato di Azione e viceministro della Giustizia durante il governo Renzi, l’ansia di trovare un nome in grado di rimanere impresso nella memoria, capace di riassumere in sé le accuse e anche i giudizi su chi capita nelle maglie della giustizia, si tratterebbe di una vera e propria forma di “marketing giudiziario”. «Il nome dell’inchiesta, sapientemente impastato con la conferenza stampa, con i trailer, con le intercettazioni, con i titoli di giornali, con il frullatore della rete, non lascia scampo. E sopravvive agli eventi processuali – ha scritto recentemente in un intervento sul Foglio -. Le sentenze? Buone per il casellario, non certo per ribaltare fiumi di inchiostro. Un marketing non solo tollerato, non solo a opera di pochi, ma sistematico».

Mani Pulite

Di esempi ce ne sono a centinaia. Il più famoso di tutti è, senz’altro, “Mani Pulite”, inchiesta che cambiò le sorti politiche dell’Italia e che contribuì a creare quell’immagine della toga moralizzatrice e giustiziera alla quale molti giovani laureati in giurisprudenza si ispirarono pensando ad un futuro in magistratura. Quell’inchiesta deve il suo nome ad una risposta data dal deputato del Pci, Giorgio Amendola, in un’intervista rilasciata al Mondo nel 1975: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non le abbiamo mai messe in pasta». E come se non bastasse il nome scritto sul fascicolo in mano al famoso pool milanese, anche la stampa ci mise del suo, coniando un nuovo termine con il quale identificare l’inchiesta: Tangentopoli. Ma il ruolo dei media non si limitò a questioni di etichetta: quell’indagine si trasformò in un vero e proprio evento mediatico e la stampa contribuì ad affossare i partiti della Prima Repubblica. Le notizie sulle indagini riguardanti politici e manager arrivavano nelle redazioni a ritmo incessante. In quel periodo verificare le notizie, oltre a non essere mai stato definito esplicitamente come un obbligo dei giornalisti, era particolarmente difficile proprio per i ritmi serrati. Fu un’epoca di grandi eccessi, ammessi dalla stessa categoria giornalistica, e di grandi dibattiti nelle redazioni sull’opportunità di pubblicare o meno, in un regime di concorrenza spietata, notizie non accuratamente verificate. Il caso esplose quando il deputato socialista Sergio Moroni e il manager dell’Eni Gabriele Cagliari si suicidarono. In una lettera indirizzata al presidente della Repubblica e scritta poco prima del suicidio, Moroni etichettò come un’ingiustizia il fatto che «una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive, a cui è consentito di distruggere immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste un diritto d’informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie».

Mafia Capitale

A Roma l’inchiesta col nome più evocativo è forse quella relativa al “Mondo di Mezzo”, al quale veniva contestata una mafiosità alla fine smentita dai tribunali. La sentenza di Cassazione, nel 2019, ha infatti certificato l’esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura, cioè quell’associazione di stampo mafioso che, con violenza, si è occupata di usura, riciclaggio, corruzione mettendo le mani su attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici. Una «mafia costruita» secondo Alessandro Diddi, legale di Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati assieme all’ex Nar Massimo Carminati, cui si deve il nome dell’inchiesta: «È la teoria del mondo di mezzo, compà – si sente dire durante un’intercettazione -. Ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo». Ma per i giudici, la teoria investigativa che ha di fatto cambiato le sorti della politica capitolina, spianando la strada all’ascesa del M5S al grido “onestà”, non ha trovato riscontri.«I risultati probatori hanno portato a negare l’esistenza di una associazione per delinquere di stampo mafioso: non sono stati infatti evidenziati né l’utilizzo del metodo mafioso, né l’esistenza del conseguente assoggettamento omertoso ed è stato escluso che l’associazione possedesse una propria e autonoma “fama” criminale mafiosa», si legge nelle motivazioni della sentenza.

Geenna

A svelare l’esistenza della ‘ndrangheta in Val d’Aosta è l’inchiesta “Geenna”. Un nome di una potenza incredibile, se si pensa che tale termine significa letteralmente inferno. Si tratta della valletta scavata dal torrente Hinnom sul lato meridionale del monte Sion, maledetta dal re Giosia per essere divenuta sede del culto di Moloch, che imponeva la pratica di sacrificare i bambini dopo averli sgozzati. La valle divenne quindi una discarica e “cimitero” per le carogne delle bestie e i cadaveri insepolti dei delinquenti, che venivano bruciati. Insomma: in quella valle, laddove la ‘ndrangheta aveva preso piede, tutto era da considerare maledetto, stando al nome dell’inchiesta. Ma lì in mezzo, tra gli arrestati e i processati, c’è anche gente come Marco Sorbara, ex consigliere regionale, assolto a luglio scorso dall’accusa di essere un concorrente esterno alle cosche. Per lui «il fatto non sussiste», ma prima che ciò venisse provato ha dovuto trascorrere 909 giorni in custodia cautelare. Insomma, un inferno il suo, quello per davvero. Una sofferenza tale da pensare anche al suicidio: «Dopo due settimane ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo – ha raccontato al Dubbio -. Perché non aveva più senso la mia vita». Per un innocente, ha sottolineato, «anche un’ora in più in carcere è devastante. Ho sentito fisicamente quella violenza e ancora oggi sento il bisogno di farmi la doccia per togliermi quella sensazione di dosso».

Angeli e demoni

L’indagine sugli affidi in Emilia Romagna ha rappresentato un altro buco nero per la politica e l’informazione italiane. Una vicenda iniziata nel 2018 – a giorni il gup si pronuncerà sulla richiesta di rinvio a giudizio – che ha fatto irruzione sulla campagna elettorale per le regionali in Emilia provocando un vero e proprio dispiegamento di forze contro il Pd, reo, in quell’occasione, di avere tra i propri tesserati un sindaco indagato, anche se per fatti non legati agli affidi dei minori. Era il sindaco di Bibbiano, paese che all’improvviso si ritrovò sconvolto e sulla bocca di tutti, complice anche la stampa, che ribattezzò l’indagine dandole il nome del piccolo centro emiliano. M5S e Lega, ai tempi insieme al governo, piombarono lì, scatenando una vera e propria tempesta mediatica contro il Partito democratico e dando il là ad una campagna discriminatoria contro gli assistenti sociali, da quel momento in poi minacciati, inseguiti e screditati. Tra gli indagati anche Scarpati, tra i più famosi al mondo nel campo del diritto minorile, docente universitario, consulente per diversi governi e autore di libri sul tema, finito nell’inchiesta con l’accusa di abuso d’ufficio, per l’assegnazione dell’incarico di consulente legale dell’Unione della Val d’Enza e per singoli incarichi per la difesa di minori. Fu la stessa procura a chiedere e ottenere la sua uscita di scena dall’inchiesta più mediatizzata degli ultimi anni, ma nonostante ciò gli effetti della macchina dell’odio continuano. «Qualche giorno fa, davanti al tribunale, un uomo, passandomi vicino, ha sputato per terra insultandomi – raccontò al Dubbio a gennaio dello scorso anno -. E tutto questo è spaventoso». Fu lui a chiarire quanto il nome di quell’inchiesta incidesse sulla percezione della vicenda nell’opinione pubblica: «Quel nome è una follia – spiegò ancora -. Chi chiama un’inchiesta con quel nome sta già emettendo una sentenza. Io sono figlio di un poliziotto, orgoglioso di esserlo. E mio padre mia ha sempre detto una cosa: ricordati che quando arresti una persona gli hai tolto la libertà, il bene supremo. E non devi togliergli altro, come la dignità, perché quell’uomo è un tuo prigioniero. Mio padre è stato prigioniero per anni durante la guerra e ricordava perfettamente cosa volesse dire. Ora non ti tengono più prigioniero, cercano di toglierti la libertà. Io faccio l’avvocato e l’idea che qualcuno pensi a togliere la dignità ad una persona sottoposta ad indagini è inaccettabile».

Spes contra spem

Il nome “Spes contra spem”, dato ad un’indagine condotta dalla Dda di Reggio Calabria, non è soltanto evocativo. La locuzione latina di San Paolo, che significa “la speranza contro la speranza”, è «la storia di Caino sul quale il Signore pose un segno perché nessuno lo toccasse che, nella stessa vita, divenne finanche costruttore di città», spiegò in una nota l’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Che accusò l’antimafia dello Stretto di aver usurpato le parole di San Paolo, violentandole. L’inchiesta racconta di come il boss Pasquale Zagari di Taurianova, tornato in libertà dopo trent’anni di reclusione, avrebbe tentato di riprendere il controllo del territorio. Ma per l’associazione, l’utilizzo di quel termine rappresenta quasi uno smacco all’attività di chi si impegna a garantire il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Nell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, veniva evidenziato come Zagari, dopo esser ritornato in libertà, «aveva avviato un apparente percorso di riabilitazione sociale, partecipando a dibattiti, convegni e incontri, come testimone di redenzione, pentendosi del suo passato criminale, e contro l’ergastolo ostativo, in ultimo a Taurianova, nel settembre 2020». Ovvero quando Nessuno tocchi Caino si trovava in Calabria per la presentazione del libro “Il viaggio della speranza”: il racconto del Congresso di Opera che ha celebrato la sentenza Viola contro Italia della Corte Edu. «“Spes contra spem” è l’archetipo antropologico della nostra civiltà – scriveva l’associazione in una nota -. Ridurlo a un’operazione repressiva è un sacrilegio nel senso etimologico: si porta via qualcosa di sacro, per credenti e non, di inviolabile. Si chiudono porte e finestre, nel nome della diffidenza e della paura. Non è ironia, che per Calvino è sempre “annuncio di un’armonia possibile”. È maltolto che, presto o tardi, va sempre restituito». 

Creiamo un terzo organo. Contro la gogna mediatica ci vuole il garante di indagati e processati. Giorgio Varano su Il Riformista il 3 Ottobre 2021. Sul rispetto effettivo del principio della presunzione di innocenza i vari dibattiti, sui rimedi legislativi per dare concreta attuazione alla direttiva europea, sembrano partire tutti da alcuni presupposti errati. La tutela del diritto alla presunzione di innocenza delle persone sottoposte a indagini o processo non può essere attuata solo attraverso il controllo del giudice sulla grammatica degli atti, o attraverso sanzioni per la pubblicazione di atti o del loro contenuto. Questa tutela, perché sia piena, deve accompagnarsi anche al diritto a non subire un processo mediatico, cioè la traslitterazione populista del processo penale nell’alfabeto giustizialista. Occorre, perché ci sia una tutela effettiva, la creazione di un luogo e di un momento di riflessione esterni alla magistratura, all’avvocatura, alla politica e ai media, e che tutto questo sia gestito da un soggetto terzo e indipendente. Prevedere, inoltre, la legittimazione esclusiva della parte debole – indagato o persona processata – nel richiedere tutela, non risolverà in alcun modo il problema all’interno delle indagini e del processo. Appare evidente, infatti, che la posizione di debolezza psicologica di queste persone non stimolerà l’attivazione dei blandi rimedi previsti. Sembra che si parta da due errati presupposti: che il processo penale sia solo “un affare” tecnico e delle sole parti, e non anche un rito che rappresenta una riflessione della società su sé stessa, e che la presunzione di innocenza sia un principio da tutelare solo all’interno del limitato spazio delle indagini e del processo. La giustizia, per essere tale, deve mantenersi alla giusta distanza dai conflitti e dalle passioni. A maggior ragione, dunque, tali distanze devono essere richieste a chi deve controllare il rispetto delle norme che non attengono solo al processo penale propriamente inteso ma al vivere civile, in materie che richiedono inoltre competenze specifiche non solo di diritto ma anche, tra le altre, di giornalismo, sociologia, scienze cognitive e comunicazione. Non a caso la direttiva europea lascia ampia libertà ai singoli stati membri nell’individuare i soggetti controllori del rispetto dei principi stabiliti in tema di presunzione di innocenza. Le persone sottoposte ad indagini e processo rappresentano una minoranza debole, perché non solo sono “attenzionate” dallo Stato con tutta la forza invincibile che lo contraddistingue ma anche da vasti settori dei media, della politica e della società, e sono vittime spesso di processi di piazza e anche di un linguaggio dell’odio proveniente non solo da una parte dell’opinione pubblica, ma persino da una parte della politica e da alcune istituzioni del nostro Paese (ministri, presidenti di commissioni, etc.). La magistratura e l’avvocatura non dovrebbero occuparsi della tutela di tali diritti al di fuori del processo. Perché hanno interessi confliggenti, non ne hanno le competenze e sono già parti all’interno dello spazio previsto per il loro agire: le indagini e i processi. Tale “tutela esterna” andrebbe inoltre evitata anche per non incidere negativamente sul processo. Questa competenza andrebbe affidata ad una autorità garante esterna, indipendente, collegiale, composta da esperti in tante materie. Una autorità nominata dal Presidente della Repubblica e non dal Ministro della Giustizia, perché sia quanto più possibile indipendente e non collegata, e non collegabile un domani, alla stessa. L’istituzione di un Garante, per i diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo, potrebbe rappresentare la creazione di un organo “terzo” capace di tutelare i diritti di chi viene sottoposto ad un processo mediatico. Al Garante dovrebbe essere riconosciuta anche la possibilità di adire in via diretta – come alla parte interessata – l’Autorità garante per le comunicazioni, le cui competenze andrebbero ampliate. Il processo mediatico è un virus che non colpisce solo il diretto interessato ma tutta la società, nella quale si diffonde – attraverso tutti i vari tipi di media – a ritmi incontrollabili e con effetti a lungo termine non rilevabili nell’immediato. La competenza ad intervenire, dunque, non può essere relegata al solo spazio di indagine o processuale. L’attività di denuncia, di tutela ma anche di studio e di raccolta dei dati del Garante rappresenterebbe un momento di riflessione importante, e potrebbe essere concretamente utile ad arginare gli effetti del processo mediatico e quindi ad attuare una più vasta ed effettiva tutela del principio della presunzione di innocenza. Giorgio Varano

Ai cronisti il file di Word della sentenza: processo mediatico 4.0. Giallo a La Spezia sul "documento di lavoro" (che doveva restare nei pc della Corte d'Assise) della condanna di Marzia Corini per la morte del fratello.  Errico Novi su Il Dubbio il 30 settembre 2021. Vabbe’, una certa concomitanza fra uffici giudiziari e redazioni giornalistiche è ormai acclarata. Ma nonostante la cronaca ne offra continui esempi, ci sono sempre nuove assonanze da scoprire. C’è un caso recente, relativo a un processo di grande clamore: quello che ha visto condannata l’anestesista Marzia Corini per l’omicidio, così qualificato dalla sentenza, del fratello Marco Valerio, morto esattamente 6 anni fa, il 25 settembre del 2015. Storia che aveva tutti i numeri per attrarre l’attenzione dei giornali. Una persona, il compianto avvocato Corini, notissimo, oltre che facoltoso: era stato difensore fra gli altri di Gianluigi Buffon e grande amico di Zucchero. Un destino tragico, quello del professionista, spentosi a soli 50 anni per un tumore. Un’eredità consistente. Una sorella anestesista, Marzia appunto, che gli ha praticato una sedazione profonda quando il povero avvocato Corini era già alle cure palliative, consumato dal cancro. La morte che per l’accusa, e la Corte d’assise di La Spezia, sarebbe conseguenza non della gravissima malattia ma dei farmaci somministrati dalla sorella. Una tragedia, ma non priva dunque di aspetti in grado di catturare l’attenzione, anche un po’ morbosa, dei media e del grande pubblico. Fin qui nulla di diverso da tanta letteratura mediatico-giudiziaria. C’è però un dettaglio: la sentenza, appena depositata, è finita quasi in tempo reale, lo scorso 10 agosto, in file di Microsoft Word alle redazioni dei giornali, senza che alla cancelleria risultassero richieste di copia depositate da altri se non dai difensori degli imputati. Curioso. Una novità, appunto, considerato che non risulta alcun soggetto esterno all’Ufficio giudiziario che fosse in possesso della sentenza nel suo formato digitale consueto, il Pdf, e che potesse quanto meno consentire ai media di convertirlo nella più fruibile versione Word. A poche ore dal deposito delle motivazioni, avvenuto il 9 agosto, il file nell’insolito — per una sentenza — formato “di lavoro”, era a disposizione della Nazione e del Secolo XIX, dalle cui redazioni è stata inoltrata ad altri quotidiani. Eppure atti del genere non sono certo disponibili in quella modalità. E costano: 250 euro. Vanno richiesti in cancelleria: in quella del Tribunale di La Spezia, ad agosto, non si sono presentati altri se non gli avvocati di Marzia Corini e dell’altra donna condannata, Giuliana Feliciani. Insomma, non si sa come sia stato possibile che in così poche ore, il tempo di acquisirlo e riversarlo negli articoli dei giornali locali liguri, toscani e lombardi, il documento digitale sia arrivato in quell’insolito formato ai certamente abili cronisti.

Esposto dei legali al Csm: «Quel file era editabile»

Non si sa, e vorrebbe saperlo però la difesa della dottoressa Corini. La 57enne anestesista è stata a lungo in servizio all’ospedale Cisanello di Pisa, da molti anni è volontaria per Medici senza frontiere e Croce rossa internazionale, si è sempre professata innocente e già prepara ricorso in appello contro la pesante condanna: 15 anni di carcere. Così l’avvocata Anna Francini, professionista dello studio del professor Tullio Padaovani, difensori di Marzia Corini, ha rivolto al Csm quella stessa domanda: com’è possibile che la stampa sia entrata in possesso di un “file di lavoro” che avrebbe dovuto essere nella sola disponibilità del collegio giudicante? Soprattutto, non è anomalo che un documento così delicato circoli in un formato per definizione modificabile? Sono interrogativi che la professionista del Foro di Pisa rivolge all’organo di autogoverno dei magistrati in un esposto. Inviato, lo scorso 21 settembre, anche ai due titolari dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe: la guardasigilli Marta Cartabia e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi.L’avvocata Francini segnala come l’11 agosto scorso — cioè il giorno dopo quello in cui i legali avevano chiesto alla cancelleria del Tribunale spezzino copia della sentenza, ritirata in cartaceo il giorno stesso dalla difesa Feliciani e solo il 31 agosto dalla difesa Corini — sia la Nazione che il Secolo XIX «hanno dato la notizia del deposito della sentenza riportando ampi stralci della stessa, con citazioni fedeli e puntuali, con tanto di virgolettato, e hanno riportato alcuni passaggi della motivazione».

«Violate le norme sui rapporti coi media»

Leggi alla mano si tratta di un’anomalia. Perché, come ricorda la legale di Corini, i rapporti fra Uffici giudiziari e stampa sono regolati da norme ben precise, e «nei fatti come sopra esposti non sembra di poter rilevare il rispetto» di quelle regole. Si tratta di un «fatto estremamente grave», si legge nell’esposto, considerato che i cronisti sono venuti in possesso «dell’indice della sentenza e della sua parte motiva in forma word, quindi liberamente editabili».

È alquanto singolare, per Francini, che «i due files, in quella forma, siano pervenuti nella disponibilità di una pluralità di soggetti diversi dai componenti del Collegio della Corte d’Assise, tant’è che una copia degli stessi (senza intestazione né timbro di deposito né sottoscrizione) è stata inoltrata a un collega di una testata del Nord Italia», come l’avvocata documenta con una mail, riportata nell’esposto. Uno dei passaggi più delicati, nella segnalazione inviata a piazza Indipendenza, riguarda il fatto che il file (sarebbe meglio dire il doppio file) in formato Word sia giunto «quanto meno» ai giornali. Un atto delicatissimo come una pronuncia di primo grado nella sua “forma digitale grezza” su un caso di omicidio, insomma, avrebbe ballato in modo imprecisato e perciò preoccupante, segnala la penalista. In Word, quel documento, poteva essere solo nei pc della Corte d’assise. È finito in giro come se niente fosse, nella forma in cui non sarebbe mai dovuto arrivare all’esterno dell’Ufficio. Una liberalizzazione degli atti giudiziari. Che a qualcuno potrà suonare come segno di progresso. Ma che in realtà è l’ennesima, disarmante anomalia della giustizia penale italiana.

ABRACARTABIA.  Marco Travaglio Fatto Quotidiano il  29 Settembre 2021. In attesa del prossimo film di Woody Allen, chi vuol farsi qualche sana risata può vedersi le audizioni alla Camera sul dlgs Cartabia per “rafforzare la presunzione di innocenza”. Cioè per abolire la cronaca giudiziaria. Ormai, fra depenalizzazioni, prescrizioni, improcedibilità, cambi di giurisprudenza à la carte, minacce ai giudici e altre porcherie, il rischio che un potente sia condannato è inferiore a quello che Italia Viva superi il 3%. Infatti ciò che spaventa lorsignori non è più di finire in galera, ma sui giornali: cioè che si sappia quel che fanno. Quindi i pm e le forze dell’ordine potranno parlare delle loro inchieste “solo quando è strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico”. Cioè: meglio per loro se si stanno zitti, così i media non scrivono più nulla e la gente non sa più una mazza. Ogni tanto – abracadabra! – sparirà qualcuno da casa, parenti e amici penseranno al peggio e chiameranno Chi l’ha visto?, i giornali segnaleranno il curioso fenomeno dei desaparecidos come nell’Argentina anni 70: anni dopo si scoprirà che era stato arrestato, ma non era strettamente necessario dirlo. Nel caso in cui un pm o un agente temerario si ostinino a informare di un’indagine, dovranno astenersi "dall’indicare pubblicamente come colpevole” l’indagato o l’imputato. Uno spasso: per legge il pm che chiede al GIP di arrestare tizio deve indicare i “gravi indizi di colpevolezza” a suo carico: ora dovrà aggiungere che sembra colpevole, ma è sicuramente innocente. Anche se l’ha colto in flagrante o filmato o intercettato mentre accoltellava la moglie, o spacciava droga, o frugava negli slip di un bambino. E persino se ha confessato. Formula consigliata: “È innocente, arrestiamolo”. Severamente vietato poi “assegnare ai procedimenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Retata di narcotrafficanti, mafiosi, terroristi, scafisti, papponi, pedofili, tangentisti? Operazione “Giglio di Campo” o “Tutta Brava Gente”. Anche fra i reati da contestare, evitare quelli che fanno pensar male: non più “associazione per delinquere”, ma “sodalizio conviviale”. La stampa dovrà cospargere le pagine di vaselina, evitando termini colpevolisti quali “criminalità organizzata” (tutt’al più disorganizzata, ecco). Ma questo già avviene su larga scala, infatti ieri l’Ordine dei giornalisti e la Fnsi han dato buca alla Camera. Se già i media chiamano statisti i pregiudicati, esuli i latitanti e perseguitati i colpevoli prescritti, il dlgs Cartabia è pleonastico. Anche grazie ai giudici che si portano avanti col lavoro e cancellano brutture come la trattativa Stato-mafia, condannando solo i mafiosi. Che trattavano sì, ma da soli. Infatti ora si chiama “trattativa mafia-mafia”.

Travaglio. L'altra bestia. Marco Travaglio Fatto Quotidiano il  30 settembre 2021Morta prematuramente la Bestia salviniana in un festino con coca e romeni nella cascina di Morisi, consoliamoci con l’altra formidabile macchina spara merda, attiva da cinque anni a edicole e reti unificate contro una sola persona: Virginia Raggi. Il celebre titolo di Libero “Patata bollente”, stigmatizzato con raccapriccio dall’intero tartufismo nazionale, è solo l’apice di un’ignobile campagna iniziata il giorno dell’elezione di una sindaca “rea” di essere donna, grillina e per giunta onesta. Le ridicole accuse penali, tutte cadute in tribunale e in appello, non bastavano: bisognava dimostrare che era pure corrotta (Corriere, Repubblica e Messaggero, per una storiella di nomine e polizze, evocarono Tangentopoli e il Giornale annunciò il suo arresto) e mignotta (Repe l’assessore Berdini su La Stampale inventarono una liaison col dirigente Romeo). Qualunque cosa accadesse a Roma (ma anche fuori) era colpa sua. Lei però restò in piedi, allora si cominciò a dire che aveva i giorni contati, prossima al ritiro per un posto da sottosegretario, scaricata da Grillo, Conte&C. Infatti. Così si disse che non la rivotava nessuno: poi arrivarono i sondaggi e si capì che se la poteva giocare. Panico. Così si ricominciò a inventare. Il disastro dell’Atac (ereditata in fallimento e risanata), gl’impianti per i rifiuti (competenza regionale), i cinghiali (idem), la “discarica fuorilegge” ad Albano (legittima per il Tar), lo stadio della Roma (da quando c’è lei, farlo è il male assoluto, ma anche non farlo), la grande occasione persa delle Olimpiadi (cioè del default della capitale indebitata per 15 miliardi da quelli bravi di prima), i “no a tutto”(ha candidato Roma a Expo2030 e Draghi ha appena firmato), la strage di pesci nel Tevere (li ammazza lei uno per uno), la città inondata dalle bombe d’acqua (a Roma sono colpa sua, a Milano della pioggia), le piste ciclabili “elettorali”(bandi di due anni fa), il museo della Shoah “elettorale”(progetto del ‘97, lavori iniziati con Veltroni nel 2005), i fuochi d’artificio pagati dal Municipio di Ostia per la sua cena elettorale (si fanno ogni anno e dal ristorante manco si vedono), la cena “fuorilegge perché senza Green Pass”(in una terrazza all’aperto dove la legge lo esclude), il mancato vaccino perché “No Vax ” o “Ni Vax”(è guarita dal Covid e ha gli anticorpi ancora alti). Ignazio Marino ricorda che la Raggi si è scusata mentre il Pd ricandida i suoi pugnalatori? Rep risponde per Gualtieri che lei candida il cameriere che testimoniò sulle cene a sbafo: come se andare in tribunale per fare il proprio dovere fosse uguale ad andare dal notaio per cacciare Marino. E ora tutti in coro: viva i buoni, abbasso la Bestia! Anzi, morta una Bestia ne resta un’altra. Marco Travaglio FQ 30 settembre 2021

“Il processo mediatico è un diritto intangibile!”, Travaglio si gioca il tutto per tutto. Clamoroso editoriale firmato dal direttore del Fatto. Il quale dichiara che i politici “non temono più di finire in galera ma sui giornali”, e che dunque la sputtanopoli quotidiana può anche prescindere dall’accertamento processuale. È un proclama estremo, una rivendicazione di chi si sente prossimo alla sconfitta. Ma che non per questo va sottovalutato. Errico Novi su Il Dubbio il 29 settembre 2021. Marco Travaglio firma sul Fatto quotidiano un editoriale che sembra una rivendicazione. Proclama il diritto, a suo giudizio intangibile, al processo mediatico. Attacca le norme sulla presunzione d’innocenza. Con contorno di dileggio per la ministra Cartabia. Come ha scritto Daniele Zaccaria sul Dubbio di oggi, un quotidiano-manifesto dell’intransigenza come il Fatto si trova in questi giorni a reagire contro la botta della sentenza di Palermo. Tutto bene, nel senso che, a parti invertite, un giornale garantista farebbe lo stesso. Ma nell’altolà di Travaglio al decreto sulla giustizia mediatica c’è qualcosa che va oltre la polemica: c’è il segno di una sconfitta che incombe. Di un vento che è cambiato forse irreparabilmente. Dichiarare “ciò che spaventa lorsignori non è più di finire in galera, ma sui giornali: cioè che si sappia quel che fanno” ha del clamoroso, e può spiegarsi solo con la logica del tutto per tutto. È la difesa di un mondo e di un modo di intendere l’informazione giudiziaria forse al tramonto. Una certificazione di sconfitta.Non possiamo essere certi che andrà così. Ma come nelle partite decisive, meglio mettere al sicuro il risultato che cantare vittoria in anticipo.

Ma sì, adottiamo il lodo Travaglio: addio processi, basta la gogna. Per il direttore del Fatto Quotidiano il diritto al processo mediatico è sacro, altro che presunzione d'innocenza. Scrive l'avvocato Giuseppe Belcastro.  Giuseppe Belcastro, avvocato, co-responsabile Osservatorio Informazione giudiziaria Ucpi, su Il Dubbio il 29 settembre 2021. Tra frizzi e lazzi, nello spassoso editoriale di ieri, il Direttore Travaglio declina molti esilaranti esempi di ciò che accadrebbe se il decreto Cartabia – che recepisce la direttiva europea sulla presunzione di innocenza – fosse approvato così com’è (degli “inasprimenti” richiesti dall’Unione Camere penali italiane non parliamone neppure). Non avendo una penna così acuminata, né una verve satirica bastevole a contrastare tanto simpatico umorismo, direi che la partita è persa a tavolino. Per abbandono. Una riflessione però, forse mi riesce. Tutto questo divertentissimo arringare si regge sull’idea che rafforzare la presunzione di innocenza equivalga ad abolire la cronaca giudiziaria. Certo, se la cronaca giudiziaria è l’acritico amplificatore della narrazione di una parte (l’accusa), in un momento in cui nessuno ha ancora accertato un bel niente (le indagini) e senza il minimo rispetto di chi, alla fine, può anche essere assolto (l’indagato) e proprio per questo resta fino a sentenza presunto innocente, beh, allora ha perfettamente ragione Travaglio. E anzi, visto che le cose stanno così, anche il problema dei tempi della giustizia è finalmente risolto: a che serve il processo? A nient’altro che a dileggiare quei Giudici che, con sfrontata tracotanza, osassero affermare infine che le narrazioni di cui si diceva sono storielle; il che, per inciso, accade anche troppo spesso. Non resta allora che ringraziare per la brillante idea capace, in un sol colpo, di raggiunge gli obbiettivi primari che affaticano da anni studiosi e politici, i quali saranno pure preparati, ma mancano di spirito. Era semplice in fondo, solo che sbagliavamo la formula. Altro che Abracadabra. Sim Sala Bim e il processo è sparito! (Qualcuno, intanto, dica a Michael Giffoni di non aversene a male: da queste parti le cose vanno così).

“Non capisci nulla”, “Devi saper perdere”. Furiosa lite Travaglio-Sallusti.  Redazione di Libero Quotidiano il 25 Settembre 2021. Ieri ci eravamo chiesti: chissà se basterà ripetere per tre volte la parola “assoluzione” per riportare a più miti consigli gli irriducibili manettari di questo Paese. La risposta, non che ne attendessimo una differente, ce l’ha fornita ovviamente il Re della categoria: Marco Travaglio. Il direttore del Fatto Quotidiano, sconvolto dall’assoluzione di Dell’Utri&co., non si capacita di come i giudici della corte d’Assise di Palermo possano aver cancellato 25 anni di teoremi sulle stragi di mafia del 1992-93. E così s’ostina a ripetere una cantilena: quella del “la trattativa c’è stata, ma per le toghe trattare coi delinquenti non è reato”. Tradotto: comunque vada, ho ragione io. Ieri sera Travaglio ha ripetuto la scenetta anche di fronte alle telecamere di La7. I giudici hanno assolto gli ex ufficiali dei Carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni perché “il fatto non costituisce reato”? Poco importa. Le toghe hanno smontato le accuse contro l’ex senatore Marcello Dell’Utri perché “non ha commesso il fatto”? Chi se ne importa. In fondo la “stampa delle procure” sulla Trattativa ha costruito un filone mediatico, così come il partito delle manette, il Movimento Cinque Stelle, ha cavalcato festante le condanne in primo grado nel 2018. Dunque ammettere la sconfitta per loro deve essere davvero doloroso. Se non impossibile. Ospite nel salotto di Lilli Gruber, Travaglio ha fatto trapelare tutto il nervosismo accumulato con la batosta. E ne è nato un duro scontro col direttore di Libero, Alessandro Sallusti. “Vedi che non riesci a capire – ha attaccato Travaglio mostrando i fogli del dispositivo – sono due pagine, ci vuole tanto sforzo? Te le mando se non ce le hai”. Immediata la replica di Sallusti: “Io capisco che noi giornalisti siamo dei tuttologi, ma non possiamo insegnare ai migliori investigativi del Paese” come fare il loro mestiere. A quel punto il direttore del Fatto non ci ha visto più. Ed è partito con le offese: “Tu sei un nientologo, non capisci nulla di quello che c’è scritto. Il fatto non costituisce reato vuol dire che il fatto c’è, ma non è illecito. Vuol dire che hanno trattato a nome tuo e a nome mio con la mafia senza dircelo. Mentre lo Stato faceva finta di combattere la mafia. E la mafia si è convinta che trattando con lo Stato le conveniva fare altre stragi. E ha fatto fuori Falcone, Borsellino, gli uomini della scorta e le stragi del ’93”. Perfetti i due affondi di Sallusti. Primo: il “fatto non costituisce reato” vuol dire che “non costituisce reato, punto”. Quindi il processo non andava nemmeno celebrato, con tanti saluti ai vari pm che sulla Trattativa hanno costruito carriere. E secondo: caro Travaglio, a un certo punto, “bisogna pure saper perdere”.

Stato mafia, Renato Farina: Travaglio e i manettari rosicano, la trattativa non c'era e loro minimizzano. Libero Quotidiano il 25 settembre 2021. Si è illuminata la scena di un delitto. Ma il delitto non è quello che la Procura pretendeva di aver delineato. Il delitto è stato il processo. Per i danni che ha causato a persone innocenti, per la diffamazione insistita di persone e istituzioni, e soprattutto perché, sotto la maschera di procedure formalmente legali, si è consumato un tentativo di rovesciare l'ordine costituito. Diciamolo: un putsch togato. La Corte d'Assise d'Appello di Palermo ha infine placcato, con mossa decisa e chiara come il sole, questo pasticciaccio infame a pochi metri dalla meta. Deo gratias. Davanti a questa sentenza si sono manifestati diversi livelli di scontento. Individuarli è molto istruttivo. Prima però, anche se note a tutti, è il caso di ricordare, con una certa personale soddisfazione, le decisioni della Corte sicula. L'accusa, esponendo immediatamente le sue tesi con intonazioni definitive, ha conficcato un cuneo d'acciaio nel cuore dello Stato, identificandolo come complice di Cosa nostra. Con l'aria di fare un processo locale, con procedure buone per un furto di banane, ha impegnato polizia giudiziaria e forze investigative enormi. Un normale processo? Mezzi abnormi. Intercettazioni arrivate fin nelle stanze del Quirinale, con morti di crepacuore. In realtà abbiamo assistito per la durata di dieci anni, da quando cioè i locali pm formalizzarono le loro tesi, a una sorta di scommessa sulla pelle della democrazia. Ingroia, quindi Di Mat- g teo e poi tanti altri hanno so. stenuto che i carabinieri al servizio di vertici istituzionali hanno venduto l'Italia alla mafia, aiutandola a far stragi. Non uso il condizionale perché questo modo verbale non è mai stato usato, neppure nella formulazione delle ipotesi peggiori. Torquemada era un moderato e un cultore del dubbio, rispetto a costoro.

UNA STORIA SEMPLICE - I giudici hanno ribaltato l'assunto colpevolista, un kappaò senza resurrezione. Hanno stabilito che la trattativa c'è stata, ma non è stata affatto un reato. Forse, aspettiamo le motivazioni, doverosa. Ci piace qui citare un giurista con i fiocchi e i controfiocchi, Giovanni Fiandaca, che lo scrisse ben otto anni fa su Il Foglio, e cercò invano di strappare i predestinati alla dannazione, e perciò subito vilipesi, dalle mani ungulate di pm e loro appendici mediatiche. Fiandaca fu sommerso dal silenzio dei grandi (?) giornali e dalle contumelie dei mozzaorecchi e delle loro tricoteuses. Scrisse il giurista: «Gli intermediari non mafiosi della trattativa Stato-mafia agivano sorretti dalla prevalente intenzione di contribuire a bloccare futuri omicidi e stragi: un obiettivo, dunque, in sé lecito, addirittura istituzionalmente doveroso». Do-ve-ro-so. Si erano posti l'«obiettivo salvifico di porre argine alle violenze mafiose - e non già di supportare Cosa nostra nei suoi attacchi contro lo Stato». È così semplice, una storia semplice, intitolò Leonardo Sciascia un suo racconto. Ma certo. Gli ufficiali del Ros Mori, Subranni e De Donno dinanzi a chi spargeva morte si erano mossi per salvare gli ostaggi, cioè gli italiani. Invece i mafiosi Bagarella, Cinà, Brusca hanno trattato, loro sì, per attentare allo Stato. C'è una differenza o no tra i terroristi che tengono la pistola alla tempia di innocenti e chi cerca di mettere al sicuro la gente, prende tempo, appronta una scappatoia? Basta la buona fede, non c'è bisogno del quoziente intellettuale di Cartesio. Il processo era in sé stesso dunque, assai prima della sentenza, una trappola dettata dal pregiudizio politico e culturale contro chi lottava contro la mafia senza essere della parrocchia togata. In questo modo si è aperta la strada giudiziaria alla delegittimazione dello Stato, alla sua parificazione morale a Cosa Nostra. Non c'è bisogno di avere le lampadine in testa come Archimede Pitagorico o Eta Beta per arrivarci. A questo punto per i sostenitori sperticati o coperti di questo colpo al cuore dello Stato si è posto il problema di salvare i soldatini Ingroia, Di Matteo ed epigoni. Sono state due le tecniche praticate per dribblare l'ostacolo di una sentenza che ghigliottina il Robespierre che la stava manovrando.

DUE TECNICHE - 1) C'è quella volgarotta di quanti la buttano sul ridere al loro funerale. Rovesciano la vacca e si sganasciano perché ha le tette. È il caso del Fatto Quotidiano, che nei giorni scorsi aveva lanciato con tono limaccioso un altolà alla Corte perché si guardasse bene dal dare torto alla procura. Davanti alla mala parata, Travaglio cambia tono e sceglie quello della barzelletta sfigata da seminarista in gita per provare a scansarsi. E sostiene a tutta pagina e maiuscolotto: «IMPAR CONDICIO. Trattare con la mafia si può, con lo Stato no». Capita la battuta? Grande satira, non è vero? Per Marco Travaglio lo Stato e la mafia sono la stessa cosa. Chi cercava di negoziare per liberare dei bambini in mano ai banditi è uguale ai killer. E se promette un salvacondotto, è complice. Ma va' là, l'insuccesso ti ha dato alla testolina. Non spiace qui notare che i natali del processo sulle trattative coincidono, ma guarda un po', con quelli del Fatto: dieci anni buttati via, affinità elettive. 2). C'è un altro modo per edulcorare il colpo, ovattarne l'enormità, impedire che abbia strascichi fuori di Palermo e della piccola vicenda di uomini assolti. Minimizzare. Il campione di questa dottrina dell'incipriare il bernoccolo, zuccherare il fiele è con ampio distacco Carlo Bonini su Repubblica. Inizia con il dire che qui non si è attraversato nessun Rubicone. Nessuna partita decisiva. Nessun contraccolpo a Roma. In fondo la sentenza non chiarisce un tubo, dice. I titoli sembrano il risultato di un corso accelerato di depistaggio, odi opacità omertosa, come usa scrivere lui quando è in forma: «La verità impossibile nella stagione delle ombre». Ancora: «La sentenza e la zona grigia». Nel testo abbondano aggettivi come «labirintico», crescendo irresistibili di avverbi come «psicologicamente e compiutamente», manca lapalissianamente. Insomma: siamo al porto delle nebbie. Il Corriere della Sera? Giovanni Bianconi una cosina la dice. E cioè che il processo, al di là della sentenza, è stato «un errore». Forse citava il capo della polizia di Napoleone, Joseph Fouché che a proposito dell'esecuzione senza prove del duca di Enghien disse: «È peggio di un crimine, è un errore». Sia quel che sia, non si può cercare di impiccare impunemente la brava gente e lo Stato con lei.

Presunzione d’innocenza: finalmente uno scudo per l’accusato dato per colpevole prima della sentenza. Il decreto che attua la direttiva Ue rafforza il principio dell’articolo 27 anche rispetto all’esuberanza dei pm. Che dovranno rettificare le frasi troppo sbrigative sugli indagati. Alessandro Parrotta (direttore ISPEG) su Il Dubbio il 20 settembre 2021. “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, è quanto sancisce l’articolo 27 comma 2 della Costituzione, un principio purtroppo molte volte disatteso dal caos creato dalla costante mediatizzazione dei procedimenti penali. Le conseguenze, come ovvio, sono disastrose per chi è sottoposto alla gogna mediatica: dall’erosione della sfera personale, al danno reputazionale, fino a ledere la dignità personale. Condannato dall’opinione pubblica ancor prima che intervenga la sentenza passata in giudicato: è questo l’esito che travolge indagati/ imputati. E non sono pochi. Già su queste pagine lo scrivente evidenziava come persone ritenute poi innocenti si ritrovino con una magra consolazione, per lo più un trafiletto sull’assoluzione che, come noto, non fa scalpore. Spesso, infatti, nemmeno la sentenza di assoluzione piena ha il potere di ripulire la reputazione frantumata, atto lo scemare dell’interesse per il grande pubblico di casi che vengono consumati, discussi ed interpretati integralmente in una fase processuale embrionale e priva di contraddittorio: quella delle indagini. Il problema è noto tanto agli operatori del settore, quanto agli osservatori operanti nelle sedi Ue, i quali hanno emesso la direttiva 363 del 9 marzo 2016, che intende rafforzare il principio sulla presunzione d’innocenza ex articolo 27 Cost. A distanza di 5 anni le Commissioni parlamentari si sono finalmente viste assegnare il testo del Decreto legislativo in esame, volto per l’appunto ad adeguare la normativa nazionale alle disposizioni della succitata direttiva Ue e relativo al “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione d’innocenza”, segnando un notevole cambio di passo rispetto al passato esecutivo, noto, in ambito Giustizia, soprattutto per iniziative assai discusse come il blocco della prescrizione. Ad ogni modo, sarà necessario apprezzare tutte le suesposte intenzioni all’atto pratico, valutando come il Legislatore abbia intenzione di tradurle sul piano positivo. Di primaria rilevanza è l’articolo 2 del testo in esame il quale dispone il divieto per l’Autorità pubblica di additare come “colpevole” la persona sottoposta ad indagini o imputata fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza di condanna o decreto penale di condanna irrevocabili. Il testo è una valida traduzione dell’articolo 27. L’intenzione del Legislatore è qui palese: tradurre sul piano del diritto positivo una norma costituzionale di principio, che, come noto, non gode dello stesso ascolto. Paradossale, sicuramente, ma così è. Ad ogni modo, come noto, ogni disposizione necessita di essere accompagnata da norme sanzionatorie, affinché il diritto sostanziale possa trovare reale e concreta applicazione. A tal fine il comma 2 del medesimo articolo introduce una sanzione dalla funzione che chi scrive definisce ibrida: preventiva, punitiva e riparatoria. Mantenuto fermo, infatti, l’obbligo del risarcimento del danno, nonché le sanzioni disciplinari ed eventualmente penali – le quali richiederanno il classico iter di accertamento in ordine alle responsabilità del magistrato nella divulgazione di informazioni lesive per l’indagato, ovvero imputato – il Legislatore ha inteso creare un procedimento ad hoc che conferisce all’interessato la possibilità di chiedere al magistrato inquirente una rettifica delle dichiarazioni rese. In pratica: il pubblico ministero, obbligato a rispondere entro e 48 ore dalla ricezione della richiesta, può accogliere così come rigettare l’istanza, dandone avviso all’interessato. In caso di rigetto, infine, è data facoltà all’interessato di impugnare il provvedimento adendo il Tribunale ai sensi dell’articolo 700 c.p.c., articolo disciplinante la tutela cautelare d’urgenza. Come esposto il Legislatore non va ad introdurre vere e proprie sanzioni, le quali potranno essere comminate secondo i classici metodi già offerti dall’ordinamento nostrano, ma si spinge oltre, creando un rimedio ad hoc, rapido e immediato in considerazione della natura del bene leso e l’urgenza della riparazione. Il focus, insomma, si sposta dal piano della forza preventiva della sanzione, al piano della riparazione, concedendo al magistrato di rimediare tempestivamente ad errori talvolta fatali per la reputazione di un soggetto, con tutto ciò che ne consegue. Lo stigma del procedimento penale, come noto infatti, è la prima pena che i coinvolti nella macchina giudiziaria sono chiamati a scontare in via anticipata, indipendentemente che questi siano innocenti o colpevoli, stigma che risulta esponenzialmente amplificato nel caso di dichiarazioni pubbliche dal tenore colpevolizzante. Si sa: un procedimento penale pesa, non solo economicamente, ma in termini di anni di vita per chi -a qualsivoglia titolo- si trova ad affrontarlo. L’esigenza di celerità in casi simili non può attendere i tempi della Giustizia e del tutto vana risulta una successiva sentenza di assoluzione, anche se piena, emessa a distanza di anni. Non a caso, come si anticipava, l’articolo in esame tratta il bene giuridico della presunzione di innocenza come un bene da tutelare in via d’urgenza, consentendo di impugnare il rigetto della pubblica accusa alle rettifiche, ai sensi dell’articolo 700 c.p.c…Come rilevato da uno dei principali fautori del decreto, il collega e onorevole Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario alla Giustizia, in un’illuminante intervista offerta sempre su queste pagine, la norma, a carattere prevalentemente riparatorio, gode tuttavia anche di forza preventiva derivante dalla circostanza che un Tribunale, se adito ex art. 700 c.p.c., possa obbligare il Procuratore a rettificare a proprie dichiarazioni, contrariamente alle intenzioni dello stesso. Secondo Sisto – e sul punto chi scrive è concorde – la “posizione d’imbarazzo” a cui verrebbe sottoposto il magistrato rappresenterebbe elemento tale da conferire alla norma il giusto carattere punitivo e conseguentemente preventivo. A ciò si aggiunga che le eventuali rettifiche andranno rese con gli stessi mezzi utilizzati all’atto della violazione della presunzione d’innocenza. Relativamente all’impugnazione del rigetto ai sensi dell’articolo 700 c.p.c. è apprezzabile l’intento del Legislatore di ricondurre la violazione della presunzione d’innocenza alla tutela d’urgenza. Sul punto va tuttavia detto che la tutela potrà ritenersi realmente efficacie sulla base del Foro presso cui si fa richiesta ex art. 700 c.p.c., in considerazione delle differenti velocità con la quale viaggiano le Corti sparse sul suolo peninsulare. Pertanto, se i tempi dettati dal Tribunale interessato dovessero risultare eccessivi, si andrebbe a vanificare la reale innovazione del Decreto legislativo in esame, la riparazione tempestiva del danno tramite rettifica. Beninteso, lo schema di D.L. rappresenta in ogni caso un notevole passo avanti rispetto all’attuale situazione normativa, e avrà indubbiamente il pregio di diffondere il sostrato culturale giuridico da cui proviene, quello garantista e coerente col dettato costituzionale, il quale potrà vedersi eventualmente migliorato in futuro qualora la sua reiterata applicazione dovesse portate alla luce dei difetti procedurali. Volendo essere pragmatici, oggettivi e il più lucidi possibili nell’analisi, non si possono non evidenziare quelle che sono le potenziali criticità di un Decreto legislativo necessario che, si auspica, entri in vigore il più celermente possibile, così da adeguare l’Italia a quanto Ue e Carta costituzionale impongono.

Presunzione d’innocenza, le regole le decidono i magistrati. E l’avvocatura? Le istituzioni forensi sono lasciate fuori dal dibattito a Montecitorio sul testo che recepisce la direttiva europea. Tra i convocati c'è anche il procuratore Nicola Gratteri. Valentina Stella su Il Dubbio il 22 settembre 2021. Archiviate senza troppi intoppi le riforme del processo civile e penale, sarà poi la volta dell’infuocata discussione per la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Ma prima ancora, le commissioni Giustizia dei due rami del Parlamento dovranno fornire al Governo i loro pareri non vincolanti per l’elaborazione dei decreti attuativi dell’atto che recepisce la direttiva europea per il “Rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. A tal proposito, mentre a Palazzo Madama ancora nulla si muove, alla Camera esiste già l’elenco dei prossimi auditi. Indovinate chi non mancherà? Il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, Nicola Gratteri, indicato dall’onorevole e avvocato Andrea Colletti, transitato dal Movimento Cinque Stelle al gruppo più ortodosso de L’Alternativa c’è. Era stato già audito per la riforma del processo penale: a causa dei suoi allarmi sui processi di mafia, il Governo ha apportato delle modifiche all’istituto dell’improcedibilità che per diversi giuristi pongono profili di incostituzionalità. Quello che ci pare singolare è che venga ascoltata propria una figura tra le più in vista mediaticamente della magistratura requirente. Gratteri è quello che ha esordito così alla conferenza stampa dell’operazione Rinascita Scott: «Silenziate tutti i telefonini – disse ai giornalisti – Sarete voi i testimoni e i divulgatori di una giornata storica non solo per la Calabria. Non è una frase fatta, ma è il mio modesto pensiero di un uomo di 61 anni che ha dedicato più di 30 anni del suo lavoro a questa terra. Questa indagine è nata il 16 maggio del 2016, il giorno in cui mi sono insediato perché per me era importante avere una idea, una strategia, un progetto, un disegno, un sogno, una rivoluzione: smontare la Calabria come un trenino Lego e poi rimontarla. Abbiamo arrestato 334 persone, guardate come siamo bravi». E da lì poi la descrizione delle azioni delittuose: tutti colpevoli già, ovviamente. Gratteri è sempre quello che al Corsera fece allusioni circa pericolose complicità tra malavita e giudici, quando quest’ultimi non avallano le sue richieste. «È un magistrato individualista che non fa bene al sistema giustizia», ci dicono spesso i suoi colleghi off the record. Chissà se Luigi Ferrajoli al Congresso di Magistratura Democratica si riferiva a lui quando ha detto: «C’è poi un aspetto ancor più grave che di solito ha accompagnato le cadute di garanzie: il protagonismo di molti magistrati, soprattutto pubblici ministeri e il conseguente populismo giudiziario, cioè la ricerca della notorietà per effetto dell’azione o del giudizio penale, che per di più ha alimentato l’anti-politica che da anni sta avvelenando la nostra vita politica. Con un’aggravante rispetto al populismo politico. Quanto meno il populismo politico punta al rafforzamento, sia pure demagogico, del consenso, cioè della fonte di legittimazione che è propria dei poteri politici. Ben più grave è il populismo giudiziario, che contraddice radicalmente le fonti di legittimazione della giurisdizione». E allora perché dovrebbe essere audito, se la direttiva sulla presunzione di innocenza serve proprio a limitare esternazioni pubbliche come le sue e quelle di altri suoi colleghi? Ci farà piacere ascoltarlo, se accetterà l’invito in Commissione. Anche perché talvolta dice cose giuste: come quella sui magistrati fuori ruolo che dovrebbero essere richiamati ai loro posti per smaltire gli arretrati. Ma il vero problema di queste audizioni è che manca una rappresentanza istituzionale dell’avvocatura. Abbiamo riscontrato questo problema anche nelle Commissioni istituite presso il ministero di via Arenula per la riforma delle diverse direttrici della giustizia: alcuni avvocati c’erano, ma in qualità di professori universitari, tuttavia è mancata una rappresentanza dell’avvocatura tout court. Adesso, il presidente della Commissione Giustizia della Camera, il grillino Mario Perantoni, ha invitato l’Anm e l’Ordine nazionale dei giornalisti per discutere di presunzione di innocenza. Perché lo stesso invito non è stato rivolto al Cnf e/o all’Unione Camere Penali italiane? Gli unici avvocati presenti saranno il professor avvocato Oliviero Mazza, richiesto dall’onorevole di Azione Enrico Costa, il professor avvocato Vittorio Manes, indicato da FI, il civilista Mario Tocci, per la Lega. Poi sempre dalla magistratura: Nello Rossi, voluto dal pentastellato Ferraresi, e Alfredo Mantovano, su input di FdI. Il Pd ha fatto richiesta di sentire un rappresentante della Federazione nazionale della stampa, invece Italia Viva il costituzionalista Alfonso Celotto. «Sarà stata una omissione freudiana quella del presidente Perantoni che sceglie di audire i due principali attori del processo mediatico e dimentica l’avvocatura, che effettivamente in quella fase non tocca palla. Noi ascolteremo le osservazioni di tutti, ma sono convinto che non possiamo perdere questa occasione per rendere davvero coerente il nostro ordinamento con la presunzione di innocenza», ci dice l’onorevole Costa. Non sarà una partita facile, e il risultato non è scontato se questi sono i presupposti metodologici: Repubblica due giorni fa lo descriveva come “dibattito che ancora una volta divide le toghe dalla politica”. Noi abbiamo un’altra impressione: come sempre toghe e politica a braccetto contro i principi professati dall’avvocatura.

Operazioni show, Costa: ora stop alla informazione a senso unico. Sul sito delle forze dell'ordine ci sono 2240 comunicati su indagini, denunce, arresti, perquisizioni, sequestri in tutta Italia. Nulla sull’esito di quei processi. Valentina Stella su Il Dubbio il 21 settembre 2021. «Il sito dell’ufficio stampa di una forza dell’ordine esibisce, al fine di “informare il cittadino-contribuente”, 2240 comunicati su indagini, denunce, arresti, perquisizioni, sequestri in tutta Italia. Non sarebbe male informare il cittadino anche sull’esito di quei processi». Arriva da twitter l’affondo dell’onorevole Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, nei confronti della Guardia di Finanza. Lui non ne fa cenno esplicitamente ma non ci è voluto molto a scoprire a chi si riferisse. Si tratta di una criticità che abbiamo sollevato spesso, anche su segnalazione delle Camere penali territoriali, per le quali “la giustizia non è una serie tv” in riferimento ai video degli arresti: primo piano sulla caserma, poi sirene spiegate in strada, arrivo sul posto con dispiegamento di forze e infine riprese degli arrestati. Lo show è servito: ma la presunzione di innocenza? «Qui si pongono due problemi – ci dice l’onorevole Costa -: il primo è che non sappiamo come vanno a finire queste operazioni, che costituiscono una parte dell’indagine. Le persone arrestate sono state poi condannate, ad esempio? Se assolte o prosciolte, è stato aggiornato il comunicato o cancellata la vecchia notizia, in rispetto del diritto all’oblio?». Sono tutte questioni inerenti il dibattito sul recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. «Il secondo problema: i trailer e i nomi evocativi delle operazioni investigative che siamo abituati a vedere in televisione e leggere sui giornali – prosegue Costa – devono essere ripensati nell’ottica della direttiva. Comunicazioni di questo genere sono molto sbilanciate dal punto di vista dell’accusa. Posto che il lavoro delle forze di polizia è indiscutibile, ragioniamo però insieme se debba continuare ad esserci una forma di comunicazione così impattante». Abbiamo chiesto un commento all’ufficio stampa della Guardia di Finanza, ma non ha fornito una risposta perché non c’è un esplicito riferimento a loro nel post social. Per quanto riguarda l’esito delle operazioni, le Fiamme Gialle non sanno come vanno a finire perché non vengono avvisate dai Tribunali e dalle Procure. Una proposta da fare potrebbe essere allora quella di creare una prassi di aggiornamento.

Cartabia frena i magistrati showmen. La Giustizia non è una fiction: verso l’addio alle inchieste dai nomi spettacolari. Antonio Lamorte su Il Riformista l'8 Settembre 2021. È da oggi all’esame delle Camere un nuovo regolamento depositato in Parlamento dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. La Guardasigilli vuole dettare regole più stringenti ai magistrati sulle inchieste: niente più nomi a effetto, da fiction, spettacolo invece che Giustizia. È anche l’Europa a chiedere ai 27 Paesi membri di rafforzare il principio della presunzione d’innocenza verso i propri cittadini. Potrebbe quindi essere la fine di un’epoca, per magistrati e giornalisti, d’oro. Un’era durata almeno tre decenni e che potrebbe essere scandita dai nomi a effetto delle inchieste. Che cosa prevede il Regolamento? Poche ma semplici regole. Per esempio le conferenze stampa dei procuratori, da limitarsi a casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, durante le quali il magistrato non dovrà presentare l’indagato come colpevole; si dovrà spiegare il punto al quale è arrivata la verità giudiziaria; l’indagato potrà chiedere di modificare un atto tramite il suo avvocato se si sentirà leso perché presentato come colpevole. E questo solo per cominciare. All’articolo 3 del Regolamento si legge infatti: “È fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. La Stampa, che riporta la notizia, ricostruisce una breve cronologia a partire dalla celeberrima Pizza Connection degli Anni Ottanta – con l’Fbi, il procuratore Luis Freeh e il procuratore federale Rudolph Giuliani dagli Stati Uniti e la polizia giudiziaria di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in Italia a colpire la Mafia tra i due continenti. La paternità di quel titolo fu tutta americana. Per Falcone e Borsellino il fascicolo era ancora “Abbate Giovanni+ 706”, al massimo “Maxiprocesso”. Quel nome suonò come il rumore di una bottiglia appena stappata. Da dettagli, particolari, virgolettati di protagonisti o estrapolati dalle intercettazioni, o dalla semplice fantasia delle forze di polizia. Sono arrivati negli anni “Mani Pulite”, “Why not”, “Aemilia”, “Geenna”, “Poseidone”, “Vallettopoli”, “Vipgate”, “Crimine-Infinito”, “Savoiagate”, “Mafia Capitale”. Quest’ultimo caso anche spendibile nel marketing, a prescindere dalla stessa inchiesta: la Cassazione, per esempio, dopo anni di fiction sui giornali e sugli schermi, ha sancito che il “Mondo di Mezzo” al centro di quelle indagini non era un’associazione di stampo mafioso. E Amen. “Questa spettacolarizzazione della giustizia – l’osservazione citata del deputato Enrico Costa, Azione, relatore alla Camera – produce danni immensi a chi finisce nell’ingranaggio. Quando infatti a un’inchiesta viene dato un titolo accattivante, e spesso la conferenza stampa è accompagnata da spezzoni di video con pedinamenti e intercettazioni che sembrano un trailer perfetto, la pubblicità è garantita. I media e i social moltiplicheranno quel titolo e quel trailer all’infinito. Come il lancio di un film. Tutto è ben studiato. Pare che da qualche parte ci sia perfino un ufficio che esamina la proposta di marchio e verifica che non ci siano sovrapposizioni con altre inchieste precedenti. Peccato però che di questo film si diano solo i titoli di testa, e mai quelli di coda che arriveranno con le sentenze. E intanto, se si finisce indagati, associati a un marchio di tale successo, anche se poi uno è assolto, il danno è irrimediabile”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Francesco Grignetti per “La Stampa” l'8 settembre 2021. Un'epoca sta per finire. Quella delle inchieste penali con i nomi ad effetto. Basta spettacolarizzazione: la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha depositato qualche settimana fa in Parlamento un nuovo Regolamento, da oggi all'esame delle Camere, che vuole dettare regole più stringenti ai magistrati. È un qualcosa che l'Europa impone a tutti i Ventisette Paesi membri, di rafforzare in ogni aspetto la presunzione d'innocenza dei propri cittadini. Ma se nell'ordinamento italiano la presunzione di innocenza è ben presente, non può dirsi lo stesso per gli aspetti mediatici. E qui interviene il Regolamento. Con alcune nuove semplici regole: nelle conferenze stampa dei procuratori, da limitarsi ai casi di «particolare rilevanza pubblica dei fatti», il magistrato non dovrà mai presentare la figura di un indagato o arrestato come di un «colpevole», e anzi dovrà chiarire in che fase del procedimento ci si trova. Se si è soltanto alle prime battute, si dovrà spiegare chiaramente che una verità giudiziaria ancora non c'è e che si dovrà aspettare l'esito finale. Se poi un indagato o imputato si sentisse leso da qualche atto giudiziario (salvo gli atti del pubblico ministero) che precede una sentenza, perché presentato come colpevole, potrà chiedere di modificarlo tramite il suo avvocato. Ma la rivoluzione culturale targata Cartabia viene all'articolo 3 del Regolamento: «È fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». Fine di una moda che ha fatto la gioia dei titolisti di giornali. Capostipite dei nomi ad effetto fu senza dubbio l'inchiesta «Pizza Connection», negli Anni Ottanta. Di là c'erano l'Fbi, il procuratore Luis Freeh e il procuratore federale Rudolph Giuliani. Di qua, il drappello della polizia giudiziaria di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Assieme, i quattro magistrati smantellarono buona parte della mafia dell'epoca. E furono gli americani a inventarsi quel titolo così evocativo. Per Falcone e Borsellino, invece, era ancora il fascicolo «Abbate Giovanni+706».  Al massimo, i giornalisti lo chiamavano «Maxi-processo». La lezione americana però piacque molto e negli anni seguenti, sempre più spesso si diede un marchio ai procedimenti. In genere sono le forze di polizia che trovano il titolo, partendo da un dettaglio o una intercettazione. E c'è da dire che chi ha inventato alcuni di questi nomignoli è un genio del marketing. L'esempio più celebre è forse «Mafia Capitale», sintesi folgorante tra il basso e l'alto, tra la peggiore forma di criminalità e la più illustre delle istituzioni. Ma onore al merito per chi inventò il titolo «Aemilia» sull'infiltrazione della 'ndrangheta calabrese in Emilia-Romagna, reminiscenze di cultura classica sulla colonizzazione romana in val padana. Oppure per chi ha battezzato «Geenna» un'indagine sulla mafia in Valle d'Aosta, dimostrando una profonda cultura biblica per associare una valle maledetta vicino Gerusalemme con la Valle incontaminata degli stambecchi. «Questa spettacolarizzazione della giustizia - dice il deputato Enrico Costa, Azione, relatore alla Camera - produce danni immensi a chi finisce nell'ingranaggio. Quando infatti a un'inchiesta viene dato un titolo accattivante, e spesso la conferenza stampa è accompagnata da spezzoni di video con pedinamenti e intercettazioni che sembrano un trailer perfetto, la pubblicità è garantita. I media e i social moltiplicheranno quel titolo e quel trailer all'infinito. Come il lancio di un film. Tutto è ben studiato. Pare che da qualche parte ci sia perfino un ufficio che esamina la proposta di marchio e verifica che non ci siano sovrapposizioni con altre inchieste precedenti. Peccato però che di questo film si diano solo i titoli di testa, e mai quelli di coda che arriveranno con le sentenze. E intanto, se si finisce indagati, associati a un marchio di tale successo, anche se poi uno è assolto, il danno è irrimediabile». 

La norma sulla presunzione di innocenza. Repubblica rimpiange la gogna, che grana la norma sulla presunzione d’innocenza. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Settembre 2021. «Perché, se prima faceva figo arrestare mafiosi e tangentisti, adesso fa figo dire che tutti, anche costoro, sono sempre presunti innocenti?». Bel quesito, quello posto dalla giornalista di Repubblica Liana Milella (che, nonostante il linguaggio, non è una dodicenne) a Nello Rossi, storico leader di Magistratura democratica e direttore della rivista online Questione giustizia. Pare che, dunque, finalmente “faccia figo” applicare l’articolo 27 della Costituzione sulla presunzione di non colpevolezza, più che sbattere il mostro in prima pagina. Come mai? Forse perché è arrivata una ministra che si chiama Marta Cartabia e che, il 5 agosto scorso, ha fatto approvare dal governo uno schema di decreto legislativo che attua, con cinque anni di ritardo, una direttiva dell’Unione Europea vincolante per tutti gli Stati membri, “sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”. Ora il testo è nelle mani dei deputati e senatori delle commissioni giustizia, che dovranno dare al governo pareri non vincolanti in tempi piuttosto stretti, visto che la versione definitiva del decreto dovrà essere approvata entro l’8 novembre. E che l’Europa sta aspettando che l’Italia dia una vera svolta anche sull’esibizionismo di alcuni procuratori e sul vincolo finora più stretto di un matrimonio tra di loro e certi cronisti giudiziari. Possibile però che un po’ di agitazione ci sia anche in Parlamento, magari negli ambienti dell’ex ministro or ora convolato a nozze con grande sfarzo (150 invitati e 70 uomini di scorta) e a cui facciamo i nostri auguri. Ma intanto Milella ha già buttato il sasso nello stagno, battendo sui tempi persino l’occhiuto Travaglio, che se c’è da dare la mazzata finale al nemico che sta a terra è sempre pronto. Figuriamoci se poi il suo bersaglio è una che ha finora mostrato di avere in mano la scala reale come Cartabia. «Sta per esplodere la grana sulla presunzione di innocenza», comunica la cronista di Repubblica all’imbarazzato Nello Rossi, cercando di fargli dire che questo provvedimento è scandaloso perché non si potranno neanche mettere più i cittadini innocenti alla gogna e neanche continuare a passare le veline a cronisti giudiziari come Milella che sulle fotocopie (e poi sulle chiavette) hanno costruito la loro carriera. Uno è persino diventato direttore di un quotidiano! Intanto va detto che alla giornalista di Repubblica non viene neanche in mente di temere un “bavaglio” alla stampa quando vengono arrestate persone accusate di omicidio, rapina, stupro o addirittura strage. Chi se ne frega di assassini e stupratori. Al cronista giudiziario passacarte del pm –lo posso dire per ventennale frequentazione di palazzi di giustizia- interessano solo “mafiosi e tangentisti”, laddove per mafiosi non si intendono tanto i capi di Cosa Nostra quanto piuttosto il consigliere comunale indagato per concorso esterno. Su questa distorsione mentale e politica, prima che professionale, sono campati fino a tempi recenti un certo giornalismo italiano e alcune trasmissioni televisive sempre pronte a celebrare il processo mediatico e a emettere la propria sentenza di condanna. Potremmo citarne una recentissima della Rai contro l’avvocato Giancarlo Pittelli e in onore di sua maestà reale il procuratore Gratteri. Va detto che il magistrato Nello Rossi, artigliato con una certa virulenza dalla cronista, si difende come può, ricordando che, sebbene non sia stata (almeno questa volta) avviata dall’Unione Europea una vera procedura di infrazione della direttiva nei confronti dell’Italia, nella relazione con cui la Commissione europea un anno fa dava conto della situazione dei diversi Paesi, rispetto a noi ha fatto scattare “un campanello d’allarme”. Che evidentemente non ha turbato i sonni dell’allora guardasigilli Bonafede, e neanche dell’ex presidente del consiglio Conte. I quali forse preferivano continuare ad assistere a un andazzo che considerava più “figo” che giornali e tv campassero di gogne di innocenti e che i pm costruissero carriere politiche passando le carte segrete al cronista amico . La parola “innocente” scandalizza la povera Milella, disperata perché Rossi non le dà corda. Lui arriva a parlare, preoccupato, di come viene presentato l’indagato sottoposto a custodia cautelare. «Il governo si è chiesto –ipotizza- se la presunzione di innocenza non sia vulnerata e contraddetta, prima di una sentenza definitiva, da dichiarazioni colpevoliste delle autorità pubbliche o dalle stesse motivazioni dei provvedimenti giudiziari adottati nel corso dei procedimenti, ad esempio per l’adozione delle misure cautelari». Crolla un mondo, se anche un magistrato usa queste parole. Addio a orgasmi nelle conferenze stampa di Gratteri. Addio con rimpianto alle storiche incursioni di cronisti nell’ufficio dove Tonino Di Pietro in ciabatte sgranocchiava moncherie, addio veline sulla (molto presunta) vita sessuale di Massimo Bossetti. Tralasciando un intero mondo di veline, da Craxi a Berlusconi. Ma che già mostravano un sistema al tramonto nei tentativi scandalistici contro Matteo Salvini e la Lega. Non molta fortuna hanno avuto finora infatti la vicenda dei 49 milioni o le intercettazioni in terra russa, piuttosto che le forniture di camici in Regione Lombardia. Con il decreto dovrebbe cambiare tutto. Si dovrebbe ristabilire il rapporto gerarchico tra il procuratore capo e i sostituti (ma anche le forze di polizia). Le uniche “veline” consentite dovranno essere i comunicati ufficiali, e le conferenze stampa dovranno essere limitate a casi “di particolare rilevanza pubblica”. Bye bye Gratteri! Come farai a raccontare di aver fatto un blitz di presunti mafiosi? E come potrai dire che c’erano presunti legami con il politico di zona? L’intervista della cronista al magistrato “amico” sembra quasi una causa di separazione di carriere, se non di divorzio. «Lo ammetta –incalza ancora la giornalista di Repubblica, sempre più disperata, che non vuol mollare la sua preda- sta per scattare un potente bavaglio per la cronaca giudiziaria». Ovvio, il giornalista può presentare all’opinione pubblica l’indagato o l’arrestato o l’imputato solo come colpevole. Un po’ come fa il Fatto quotidiano quando sostiene che sia “impresentabile” chiunque (a meno che non sia Virginia Raggi o qualche altro amichetto loro) abbia subìto un’inchiesta giudiziaria, anche se ne fosse uscito prosciolto. È un po’ un’ossessione, questa del bavaglio alla stampa. Nel corso dei decenni di vita parlamentare nessuno è mai riuscito a emanare, e soprattutto a fare osservare, qualche norma sulla responsabilità di magistrati, forze dell’ordine e giornalisti, sul rispetto della dignità delle persone e sulla fuga di notizie, neanche se bufale. I cronisti dicono sempre “se ho una notizia, ho il dovere di darla”, e i pubblici ministeri, che dovrebbero essere i custodi della riservatezza della notizia coperta da segreto, non vengono mai indagati dai loro colleghi quando lo scoop prende la strada dell’edicola. Quindi, se Nello Rossi pensa di essersela cavata, con questa intervista, non ha fatto i conti con la domanda delle cento pistole, che in realtà non è una domanda, ma uno sberleffo della storia. Ma lei non era una toga rossa, chiede Milella, cioè uno dei quelli che stanno dalla parte degli onesti e non dei delinquenti? Un colpo basso. Ma ancora più inquietante e significativa è la risposta, che cancella in un sol colpo tutta la saggezza delle risposte precedenti: «Le cosiddette toghe rosse sono oggi le più interessate e le più impegnate al pieno rispetto delle garanzie processuali, ma a molti fa comodo non prenderne atto». Due domande gliele poniamo noi, allora, dottor Rossi. Che cosa vuol dire il fatto che la sinistra giudiziaria è attenta ai principi costituzionali solo “oggi”? E chi sarebbero coloro cui fa comodo non prenderne atto? Dobbiamo rileggere la storia tramite i racconti del dottor Palamara?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

"Io assolto, ma distrutto dal Sistema". Lodovica Bulian il 17 Febbraio 2021 su Il Giornale. Laudati accusato di favorire il Cav: "Contro di me scatenato l'inferno". «Nessuna sorpresa, solo il riacutizzarsi di un dolore mai sopito». Le rivelazioni di Luca Palamara ne «Il Sistema» di Alessandro Sallusti sono una ferita che si riapre per Antonio Laudati, oggi sostituto procuratore alla direzione nazionale Antimafia, ma dieci anni fa un'altra «vittima» del sistema raccontato dall'ex magistrato. Nel 2009 Laudati era stato appena nominato procuratore a Bari quando scoppiò il caso D'Addario con l'inchiesta sulle escort a carico dell'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini. «Ero il più giovane d'Italia e un magistrato nel pieno della carriera», ricorda. Ignaro allora che dopo quella nomina avrebbe dovuto affrontare un calvario di processi in tribunale e procedimenti disciplinari al Csm lungo dieci anni, sempre assolto da ogni accusa. Quando si insedia a Bari, Laudati trova «clamore mediatico e una fortissima tensione politica perché l'inchiesta riguardava indirettamente l'allora premier Berlusconi (non indagato a Bari, ndr)». Tutte le indagini «erano sistematicamente riportate sui media». Laudati tenta di fermare le fughe di notizie, di distinguere tra intercettazioni rilevanti e non: «Decido disporre che fossero custodite presso la mia segreteria e che si utilizzassero solo le quelle pertinenti al fatto reato. Da quel momento non vi furono più fughe di notizie. Pensavo di aver fatto rispettare il codice di procedura penale. Non era così». Contro di lui partono gli esposti al Csm. Anche quello dell'allora collega sostituto procuratore di Bari, Giuseppe Scelsi. Laudati viene accusato di rallentare l'inchiesta e finisce sotto procedimento disciplinare. L'accusa è anche quella di aver tutelato così l'immagine istituzionale dell'allora premier Silvio Berlusconi. Per lo stesso motivo finisce imputato a Lecce, per abuso d'ufficio e favoreggiamento personale. Sempre assolto. E oggi può sfogarsi su «Quarta Repubblica» a Rete4. È Palamara a rivelare come quel tentativo di fermare le fughe di notizie gli costò il sospetto «di connivenza con Berlusconi. Allora non era possibile difenderlo», ricorda l'ex magistrato. «Avrebbe significato fare passare Berlusconi come vittima di magistrati scellerati». Infatti, «da quel momento contro di me si è scatenato l'inferno - rammenta il procuratore - Non era possibile ammettere che le accuse nei miei confronti erano infondate perché ciò avrebbe significato ammettere che il diverso comportamento tenuto da altre Procure e da altri magistrati nei confronti di Berlusconi costituiva una forzatura. In quel momento storico, in cui la magistratura era governata dalle correnti di sinistra unitamente a Palamara, mi è piombata addosso la accusa più grave e più infamante per un magistrato: quella di aver aiutato Berlusconi. Ovviamente era del tutto infondata, avevo solo applicato la legge, ma fu tutto inutile sono stato estromesso da tutto. D'altra parte colpirne uno per educarne cento». Si è ritrovato così da inquirente a imputato, sia in sede disciplinare al Csm che penale nell'inchiesta aperta a Lecce: «Un'esperienza terribile. Ci ho messo dieci anni per essere assolto da tutto. Ho sempre pensato: se questo è successo a me che sono un Procuratore figuriamoci cosa può succedere al cittadino qualunque». Lodovica Bulian

Quel “marketing giudiziario” che Costa vuole combattere…Da Costa arriva una forte critica al "marketing giudiziario" che coinvolge sia le procure sia i giornalisti. «La vera sentenza non interessa a nessuno». Il Dubbio il 19 agosto 2021. Il deputato di Azione, Enrico Costa, lo chiama “marketing giudiziario”, ovvero la prassi ormai consolidata dalle varie procure italiane, specie quelle che si occupano di indagini antimafia, di applicare alle inchieste un nome convenzionale. L’ex viceministro della Giustizia, in un intervento affidato al “Foglio”, parla dal “marketing giudiziario” per affrontare il caso di Marco Sorbara, di cui si è occupato ampiamente il Dubbio.

Sorbara e il “marketing giudiziario”. «Geenna è il nome di un’inchiesta li che scosse la Valle d’Aosta nel 2019. Come osservava la Stampa, “L’operazione “Geenna” prende il nome dalla Bibbia e significa luogo di eterna dannazione: deriva da una valle alle porte di Gerusalemme che fu segnata di anatema dal re Giosia per essere divenuta sede del culto di Moloch, che imponeva la pratica di bruciare in olocausto i bimbi dopo averli sgozzati, diventando scarico dei rifiuti della città e luogo dove gettare le carogne delle bestie e i cadaveri insepolti dei delinquenti”. Appare evidente il parallelismo studiato con la morfologia della regione oggetto delle indagini. Marco Sorbara è il nome di un ex consigliere regionale della Valle d’Aosta, arrestato nell’inchiesta “Geenna”, che ha trascorso oltre 900 giorni in custodia cautelare prima di essere assolto in Appello perché il fatto non sussiste. Non credo che per Sorbara sarà semplice scrollarsi di dosso quell’abbinamento».

Il ruolo della stampa. L’affondo di Enrico Costa si sposta poi sulla stampa che amplifica il cosiddetto “marketing giudiziario”. «Chiunque si trovi sulla traiettoria del marketing giudiziario, perché di questo si tratta, è bollato per sempre. Perché il nome dell’inchiesta, sapientemente impastato con la conferenza stampa, con i trailer, con le intercettazioni, con i titoli di giornali, con il frullatore della rete, non lascia scampo. E sopravvive agli eventi processuali. Le sentenze? Buone per il casellario, non certo per ribaltare fiumi di inchiostro. Un marketing non solo tollerato, non solo a opera di pochi, ma sistematico. Molte inchieste vengono rappresentate come fossero dei film. C’è un titolo, un trailer, una conferenza stampa nella quale si proiettano gli arresti, le perquisizioni, i pedinamenti, le intercettazioni anche vocali». «Infine, c’è il botteghino di questo capolavoro che è la rete. Eppure si tratta un film in cui parla solo la campana dell’accusa, la difesa non viene citata nemmeno nei titoli di coda. Ma va sottolineato anche che buona parte dei pm lavora silenziosamente, e soffre la spettacolarizzazione che fanno pochi, ma rumorosi colleghi (che poi magari si buttano in politica)».

I nomi più famosi delle inchieste giudiziarie. Ed ecco che passa in rassegna i nomi di alcune operazioni venute alla luce dell’opinione pubblica negli ultimi anni. «Le cronache ci danno un riscontro quotidiano della fantasia a senso unico nel battezzare i fascicoli. Dall’operazione Waterloo a quella Petrolmafie, piuttosto che Evasione continua, Metastasi, Farmabusiness, Crimine, Pelli Sporche, Appaltopoli, Università Bandita, Sotto Scacco, Conte Ugolino, Sistemi criminali, Ecoboss, Falsa politica sono inchieste che finiscono con condanne, ma talvolta anche assoluzioni o proscioglimenti prima del processo. E uno stato di diritto deve pensare a chi, innocente, finisce in questo ingranaggio. Il marketing giudiziario è quanto di più pericoloso, incivile, illiberale, arbitrario».

«La vera sentenza non interessa a nessuno». Per concludere, arriva anche una critica ai giornalisti che si occupano di giudiziaria. «Con quale spirito critico molti giornalisti seguono le indagini e assorbono le informazioni trasmesse dagli inquirenti? L’interesse immediato non è quello di approfondire, ma di pubblicare al più presto. Nome dell’inchiesta prima di tutto. E a seguire l’impostazione accusatoria, visto che in quella fase la difesa ancora non è pervenuta. Sarebbe questa la massima espressione del diritto di cronaca dovere di informare? Recepire e basta? Scordarsi che dopo le inchieste ci sono i processi? Spegnere il rubinetto delle notizie quando finalmente si apre il dibattimento? La vera sentenza per molti giornalisti è la conferenza stampa della Procura, perché la sentenza vera, quella pronunciata dopo il processo, non interessa più a nessuno». Tranne per il Dubbio…

Come limitare gli show delle Procure. Contro la gogna mediatica servono uffici stampa delle Procure. Paolo Itri su Il Riformista l'11 Agosto 2021. Giunge notizia che proprio in questi giorni il Parlamento italiano ha recepito la direttiva dell’Unione europea numero 343 del 2016. Con tale direttiva, che punta a rafforzare la presunzione di innocenza, il Parlamento europeo ha stabilito che tale presunzione sarebbe violata se, con dichiarazioni rilasciate da autorità pubbliche come le Procure, l’indagato venisse presentato alla pubblica opinione come colpevole prima della sentenza definitiva. Secondo il legislatore europeo, pertanto, le tradizionali conferenze stampa e i comunicati delle Procure, emessi per lo più in occasione dell’esecuzione di ordinanze cautelari, non dovrebbero mai rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole, almeno fino a quando non intervenga una sentenza del giudice, fatta comunque salva la tutela della libertà di stampa e dei media. L’obbligo, nel fornire informazioni ai media, di non presentare gli indagati come colpevoli, non impedirà tuttavia alle Procure di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato. Fin qui le novità introdotte dalla direttiva europea che, se da un lato produrrà sicuramente l’effetto di contenere il numero delle conferenze stampa delle Procure, dall’altro non inciderà per ovvi motivi né sull’attitudine specifica dei capi delle Procure stesse a gestire i rapporti con gli organi pubblici di informazione né, più in generale, sulla qualità dell’informazione nel nostro Paese. Mi spiego meglio. Il problema del cortocircuito mediatico-giudiziario nasce nel nostro Paese all’epoca di Tangentopoli, cioè quando l’emersione di un profondo ed endemico sistema di corruzione politica determinò una profonda trasformazione anche dei rapporti tra Procure e organi di informazione. L’eccezionalità del momento finì per legittimare, anche nell’opinione comune, una sorta di stato di eccezione in forza del quale tutto divenne lecito, dalle reiterate violazioni del segreto istruttorio alla instaurazione di rapporti privilegiati tra magistrati e giornalisti. Le confessioni a raffica e l’uso distorto del carcere preventivo completarono l’opera, facendo passare in secondo ordine la presunzione di innocenza, quasi si trattasse di una inutile formalità burocratica da abolire il prima possibile: tale era il ritmo con cui dalle indagini emergevano fatti sempre più nuovi e sempre più gravi. Vivevamo in un’epoca in cui chiunque venisse raggiunto da un’informazione di garanzia era per definizione colpevole e non aveva alcun senso parlare di giusto processo o della sua ragionevole durata. A trent’anni di distanza, è oggi possibile – anzi, direi doveroso – cercare di recuperare un rapporto più corretto ed equilibrato tra giustizia e media, nel rispetto dei principi di continenza, interesse pubblico all’informazione e rispetto dei diritti della persona. Non sono altrettanto convinto, però, che la strada indicata dall’Ue sia la migliore, considerate le specificità del nostro Paese. Principalmente, non mi convince l’idea di un bavaglio alle Procure alle quali, per una più corretta informazione – se non si vuole peraltro correre il rischio di creare dei pericolosissimi canali informativi occulti – dovrebbe invece essere consentito fornire in maniera chiara e trasparente ogni notizia utile a comprendere i passaggi delle vicende di maggiore interesse per l’opinione pubblica, seppure ovviamente nel più totale rispetto della verità processuale, della presunzione di non colpevolezza e dei diritti di tutte le persone coinvolte (e quindi, inutile dirlo, anche di quelle già raggiunte da sentenze di condanna). Soprattutto, non vorrei che il divieto di divulgare informazioni sui procedimenti penali in corso, salvo che sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine, si trasformasse automaticamente in un bavaglio alla libera stampa, tenuto soprattutto conto dei tempi biblici che quasi sempre nel nostro Paese intercorrono tra indagine e sentenza del giudice. Un modo più equilibrato di risolvere il problema potrebbe essere quello di istituire, almeno presso le Procure più grandi, dei veri e propri uffici stampa, simili a quelli già esistenti presso le Questure, in maniera da instaurare un rapporto più formale e trasparente tra organi di informazione e procuratori della Repubblica, ognuno quindi per la propria parte responsabile rispettivamente della gestione dell’informazione – in conformità alle leggi e al codice – e delle modalità di diffusione della notizia – in conformità del codice deontologico dei giornalisti. Perché i magistrati potranno anche essere a volte degli ottimi giuristi, ma troppo spesso appaiono come dei pessimi comunicatori. Paolo Itri

Giustizialismo mediatico: anche per il Codacons è il vero fascismo di cui si dovrebbe parlare e avere davvero paura. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 10 Agosto 2021. «Gli squadristi facevano così. Andavano in sette otto, prendevano un avversario solo solo e lo bastonavano con ferocia. I giornalisti del Fatto e di Repubblica hanno fatto la stessa cosa con Renato Farina. Per invidia, credo: Farina è molto migliore di loro». Lo ha scritto Piero Sansonetti in un suo tweet di lancio dell’articolo pubblicato oggi sul Riformista. Il titolo corrisponde alle aspettative di chi scrive: «Farina Linciato, ora i nomi dei giornalisti al servizio dei pm». Ho poco meno di mezzo secolo di esperienza in questioni legate all’informazione giudiziaria. Certamente degenerata negli ultimi tre decenni. E trovo nella richiesta di Sansonetti, uomo di sinistra, la propria vecchia e immutata stima per la sua onestà intellettuale e professionale. Pur non avendo esitato a manifestarne pubblicamente il dissenso, quando ho ritenuto doveroso farlo. Nonostante offra spesso, e liberamente, la mia firma al Riformista. Neppure io, convintamente antifascista come Sansonetti, avendo giurato due volte fedeltà alla Repubblica, assieme all’osservanza della Costituzione e delle leggi repubblicane, temo il fascismo dei vari Casapaound. Temo invece più reali e pericolose forme di autentico fascismo post moderno. Ben descritte da Sansonetti, riferendosi al linciaggio mediatico subito dall’indifeso e isolato Renato Farina. Giornalista che non conosco personalmente. Mentre conosco invece tanti altri giornalisti che, portavoce più o meno occulti delle procure, hanno fatto in tale modo carriere spesso folgoranti. Al pari di tanti magistrati, e anche appartenenti alle forze dell’ordine, delle quali ho io stesso fatto parte, che hanno costruito le loro unicamente sul triangolo incestuoso e cancerogeno per la democrazia e le libertà fondamentali: PM-Polizia Giudiziaria-Media. Sansonetti parla di almeno un migliaio di giornalisti al servizio delle procure. E persino di un centinaio di giornalisti che, secondo lui, hanno collaborato e addirittura ancora collaborano coi servizi segreti. Cosa che, come per i preti, se fossero a libro paga, sarebbe vietata dalla legge. Qualche anima candida mi ha obiettato: se Sansonetti ne conosce i nomi li faccia, oppure taccia per sempre. Gli ho risposto che basterebbe leggere il Riformista per sapere che lo fa da tempo. Mentre di chi continua a credere di essere un giornalista investigativo limitandosi a pontificare sul povero Farina e aspettando che altri scrivano sulle tante altre complicità giornalistiche con procure e servizi, perché lui non lo sa, penso solo due cose. O che é in malafede o che vive col prosciutto sugli occhi. Tertium non datur. E nessuna delle due cose è degna di vero giornalismo. A prescindere dal possesso del tesserino di iscrizione all’ordine e dalla frequenza delle troppe scuole di giornalismo. Mestiere che un tempo, come quello dello sbirro, si imparava soprattutto consumando le suole. Non dietro uno schermo a copiare e incollare, spesso fuori contesto, i verbali e le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali delle indagini preliminari. Che in altri paesi civili nessuno si sognerebbe di poter fare. Il vero giornalismo investigativo dovrebbe stare nella capacità di fare le pulci a tutto e tutti. Senza essere il portavoce occulto di niente e nessuno. Almeno quando non lo si è ufficialmente e alla luce del sole. Anche il Codacons, la principale associazione a difesa dei consumatori, è da tempo sceso in campo per una giustizia giusta. Che non può prescindere da un’informazione corretta. E da un giornalismo che sia il vero cane da guardia delle libertà e dei diritti dei cittadini. E non il cane obbediente ai piedi del padrone del momento. Abbiamo voluto chiedere un suo commento in proposito. E ci hanno risposto tramite Claudio Cricenti, responsabile dell’ufficio Legale.

Avvocato Cricenti, i giornalisti, per legge, non possono lavorare per i servizi di sicurezza. Ma non dovrebbero neppure essere i portavoce di fatto delle Procure, come denuncia Sansonetti. Qual’é al riguardo la posizione del Codacons?

Siamo assolutamente d’accordo con Sansonetti. E purtroppo abbiamo dovuto denunciare diversi episodi spiacevoli di connivenza tra giornalisti e potere. I consigli regionali dell’ordine dei giornalisti archiviano tutto. Applicando il principio del “cane non mangia cane”. E approfittando della legge che non consente se non al procuratore generale di appellare le archiviazioni.

Ci può fare un esempio?

Un giornalista Vip del Corriere della Sera da noi denunciato per presunte scorrettezze deontologiche ha subito incassato la sua brava archiviazione. E si é vendicato presentando una querela per diffamazione contro l’associazione. Il Pm, più veloce della luce, ha subito avviato il procedimento contro di noi. Manco fossimo stupratori seriali.

I consumatori lo sono anche di informazioni. Quale ruolo vuole avere ed ha il codacons a difesa dell’informazione e contro le fake news?

Lottiamo per eliminare la giurisdizione domestica disciplinare. Sia di giornalisti che dei magistrati.

Cosa pensa il Codacons dei due pesi e delle due misure denunciate da Sansonetti? É noto che molte carriere di magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine e giornalisti siano state create da un perverso triangolo di reciproci scambi di favori. Cosa intende fare il Codacons a tutela del cittadino consumatore di informazione, oltre che di giustizia giusta?

Istituiremo, dopo lo sportello “sos malagiustizia”, lo sportello “sos malainformazione”. Ma serve cambiare la legge che è fatta per le categorie professionali. E non tutela i fruitori dell’informazione: i consumatori.

Pensa che il referendum sulla giustizia giusta, sostenuto dal Codacons, possa avere un impatto positivo anche su un’informazione non disinformante?

Se i magistrati saranno responsabili dei loro errori anche l’informazione, oggi succube per paura delle caste, ne trarrà vantaggio.

Giampiero Mughini per Dagospia l'8 agosto 2021. Caro Dago, abituato come sono da sempre ad accorrere in difesa dei “vinti” ti confesso che mi ha stupito fin dall’inizio questo subbuglio attorno al nome e alla figura di Renato Farina. E tanto più mi spiace che la goccia che ha fatto traboccare il vaso (che lo ha spinto a dimettersi dall’incarico che gli aveva dato Renato Brunetta, di gran lunga uno dei migliori ministri del governo Draghi) sia stata l’intervista che Farina aveva dato al mio amico Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera, un giornalista sulla cui lealtà professionale sono disposto a mettere tutt’e due le mani sul fuoco, ma anche le gambe, il naso e entrambe le orecchie. Farina ha giudicato che quella intervista avesse le movenze di un attacco personale, un attacco che avveniva sul gran quotidiano lombardo dopo quelli che lui aveva subito dalla Repubblica e dal Fatto, dove Marco Travaglio gli aveva dedicato un articolo la cui virulenza io non la metterei neppure in un articolo su Adolf Hitler. A quel punto Farina ha rassegnato le dimissioni da un incarico che gli sarebbe stato pagato 18mila euro lordi l’anno e Brunetta quelle dimissioni le ha accettate. Del resto “Giuseppi” Conte quelle dimissioni le aveva chieste come una delle condizioni del suo appoggio al governo Draghi. Caro Dago, perdonami se parto da lontano. Il fatto è che ho i capelli bianchi. Ai tempi del processo a Gesù Cristo non c’ero, ma a tutto quello che è venuto dopo sì. Della mia fraterna amicizia con Fabrizio Roncone ho detto. Quanto a Farina, lo conosco da almeno quarant’anni. Erano i tempi in cui tra loro orgogliosi militanti cattolici di Comunione e liberazione e noi laici c’era un’avversione frontale. Al punto che loro rifiutavano qualsiasi contatto con un giornalista laico. Erano i tempi in cui il professore Augusto Del Noce, una delle figure intellettuali più limpide degli anni Settanta e da me venerato (il suo libro su Antonio Gramsci è un gioiello), rischiava grosso a fare una conversazione pubblica sul divorzio (cui lui diceva di no) perché immancabilmente dal pubblico qualcuno inveiva contro di lui. (Farina che negli ultimi anni della vita di Del Noce gli faceva da autista mi ha raccontato di essere stato testimone di alcune di quelle scenate.) Sin da subito non mi accodai a quell’atteggiamento e ne assunsi uno di rispetto verso cattolici che avevano tutto il diritto di esserlo orgogliosamente. Tanto che loro mi accordarono la primissima intervista mai fatta da Roberto Formigoni a un giornalista laico. Fu in quel contesto che ho conosciuto Renato Farina, di cui tutto dimostrava che era un intellettuale che aveva ragionato a lungo sulle sue scelte. Punto. Poi è accaduto quel che è accaduto. Che sia stato dimostrato che Farina a un certo punto era per metà giornalista e per metà agente dei servizi segreti, che in un paio di occasioni ha confuso in un unico mazzo le due attività, tutte cose non encomiabili ma che io ritenevo facessero parte del tutto conseguentemente del suo “interventismo” politico-culturale, del suo atteggiamento fondamentalmente “estremista”, da cui il suo linguaggio polemico nei confronti di alcuni “ostaggi” italiani che il nostro governo aveva recuperato dalle mai dei terroristi pagando suon di milioni. Detto questo, per me Farina rimaneva l’orgoglioso intellettuale cattolico che avevo conosciuto più di quarant’anni fa. Ci mandavamo saluti e auguri. Gli dicevo talvolta che mi era particolarmente piaciuto qualche suo articolo su Libero. Nella materia la penso esattamente come il Togliatti del 1947, che firmò un provvedimento di amnistia per reati minori compiuti da fascisti repubblichini. Renato ha già pagato per le sue colpe e non c’è che ne venga perseguitato a vita dai babbei che distinguono tra BUONI (che lo sono per nascita) e CATTIVI (che lo sono per nascita). Punto. Succede poi che stamattina Farina mi mandi via mail la lettera con cui ha rassegnato le dimissioni e che io subito dopo telefoni a Roncone. Al quale ho fatto un’unica osservazione, che da intervistatore aveva fin troppo assunto il cipiglio di chi vuole mantenere le distanze dal suo interlocutore. L’espressione usata da Fabrizio nel corso dell’intervista, che sceglie lui gli interlocutori a cui dare “del tu” e che Renato non è uno di quelli, io non l’avrei usata. Una frase del genere ci sta in un giornale militante (il Foglio, il Manifesto, il Fatto), non sul Corsera. Detto questo Roncone è un bravissimo giornalista e lo stesso Farina mi ha detto che lui ha enormemente apprezzato il libro giallo scritto a quattro mani da Roncone e Aldo Cazzullo, che lui avrebbe firmato riga per riga l’articolo assai elogiativo che di quel libro scrisse Vittorio Feltri su Libero. Mi spiace per Renato, che avrebbe fatto benissimo il suo lavoro. Mi spiace per Brunetta, il cui operato da ministro al momento merita nove. Mi spiace ogni volta che sui giornali corre del sangue. Sarà perché sono un bonaccione, anche se in sessant’anni di attività nessuno se n’è mai accorto.

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2021. Questo è il tormentato sabato pomeriggio dell'ex agente segreto Betulla (da civile: Renato Farina, di anni 66), che - dopo due giorni di polemiche roventi - si è dimesso da consigliere per la comunicazione istituzionale del ministro Renato Brunetta. Il racconto comincia alle 16,45. Con una telefonata. Betulla era del ramo, certi trucchetti dovrebbe conoscerli. E invece ci casca. Legge sul display del telefonino «Numero Privato», e risponde. «Ah! Mhmm Sei tu. Sono a messa, sto pregando. Ho visto un numero sconosciuto e ho risposto pensando fosse il presidente Draghi. Possiamo sentirci tra un po'?» (voce soffiata, curiale). Betulla è di parola, almeno stavolta. Richiama cinque minuti dopo. Dice di essere appena uscito dal santuario di Santa Maria del Fonte, a Caravaggio, nella pianura bergamasca. Ansima. «Sono ore un po' complicate». Non un po': molto. Il suo curriculum è tornato di attualità. Un personaggione: ciellino, prima al Sabato e poi all'Indipendente e al Giornale, tipologia di giornalista ossequioso, nel 2004 è arruolato da Pio Pompa nei ranghi del Sismi diretto da Niccolò Pollari. Inizia una nuova carriera. Buia. Chicche sparse: riserva un trattamento di scherno per gli ostaggi italiani rapiti in Iraq - Simona Pari e Simona Torretta («le vispe terese»), Giuliana Sgrena («rapita dai suoi amici terroristi»), Enzo Baldoni («un pirlacchione» da «vacanze intelligenti»); poi, nel maggio del 2006, tre anni dopo il sequestro a Milano di un imam dalla vita bizzarra, Abu Omar, Farina - qualificandosi come giornalista - va al palazzo di Giustizia di Milano e incontra i magistrati Armando Spataro e Ferdinando Pomarici che, sul rapimento organizzato dalla Cia, conoscono già moltissimi dettagli. Fingendo di intervistarli, gli racconta un po' di balle. E, soprattutto, prova a coinvolgere il pm Stefano Dambruoso (sperando così di spostare la competenza dell'indagine a Brescia). Poi esce e, invece di telefonare al suo direttore, chiama Pio Pompa: «È stata durissima, ma ce l'ho fatta». Invece sono loro che l'hanno fatta a lui: la sua visita era attesa, sotto le scrivanie dei giudici, due microspie. Farina, che lavoro fai? Ma lui, niente. Continua e scrive il falso contro Romano Prodi, assicurando che, sul caso Omar, quando era premier fosse d'accordo con gli Usa e i nostri Servizi. Al processo patteggia una condanna a sei mesi per favoreggiamento. Però al Sismi sanno essere riconoscenti: così gli rimediano due biglietti di tribuna per Italia-Ghana, ai mondiali di Germania; lui ringrazia sulla prima pagina di Libero, in codice non troppo cifrato: «Ho usato amici che la sanno lunga. Fatta! Grazie a Pio e a Dio» (intanto, tra dimissioni e reintegri, è tornato a far parte dell'Ordine dei giornalisti). Ora bisogna immaginarselo che cammina sotto il sole a picco. Verso il parcheggio del santuario. Al cellulare. «Sai che io di te mi ricordo un sacco di cose? Per esempio, nel 2014 scrivesti un articolo su Berlusconi e». Sono io che faccio le domande. 

Lei, se vuole, risponde: come nasce la sua collaborazione al ministero della Pubblica amministrazione?

«Mi dai del lei? Siamo colleghi, dovremmo darci del tu».

Decido io a quali colleghi dare del tu.

«Come vuole. Allora: io e Renato collaboriamo da quando ero vicedirettore di Libero e insieme lanciammo una collana di libri che ha venduto milioni di copie...». 

Mi sfugge il nome della collana.

«Eh, ora sfugge pure a me. Sono un po' teso».

Brunetta.

«Mi stima, lo stimo. Intesa intellettuale forte. Siamo stati insieme nel Pdl, io come deputato. Con lui, da tempo, esercito l'arte del ghostwriter, gli scrivo testi e discorsi».

Quale sarà il suo compito al ministero?

«Renato mi chiederà dei pareri: che espressioni usare in pubblico, su cosa insistere...». 

Quanto guadagnerà?

«18 mila euro lordi. All'anno, non al mese».

Lei non teme, con il suo passato, di mettere in difficoltà il presidente Mario Draghi?

«L'ho detto a Renato: se dovessi essere un problema, mi tiro indietro. Certo non m' aspettavo subito tanta cattiveria Chiaro che vogliono indebolirlo, minare il lavoro grandioso che ha fin qui svolto». 

Questa telefonata dura 16 minuti e 15 secondi. Alle 17,44, però, Betulla richiama. Stavolta è risoluto.

«Volevo comunicarti che ho sbagliato a parlare con te: un errore che un consigliere per la comunicazione non può e non deve fare. Mi sono confrontato, poco fa, con Brunetta. Mi dimetto». Fino a sera, poi, un rosario di WhatsApp in cui l'ex agente segreto Betulla chiedeva di poter rileggere i suoi virgolettati (se ci pensate, una bella faccia tosta). 

Renato Farina al Corriere della Sera: "Intervista odiosamente falsa", ecco tutte le frasi inventate sul caso-Brunetta. Libero Quotidiano l'8 agosto 2021. Di seguito, la lettera inviata da Renato Farina a Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, in seguito alla pubblicazione sul Corsera di oggi, domenica 8 agosto, di un'intervista alla firma di Libero smentita però in più punti. La vicenda è quella delle polemiche sorte dopo la nomina a consigliere per la comunicazione di Renato Brunetta di Renato Farina, polemiche dovute alla vergognosa campagna di stampa montata dal Fatto Quotidiano e Repubblica. In seguito al polverone, Farina ha lasciato l'incarico.

Caro Direttore, l’intervista come risulta sulla pagina del Corriere a firma di Fabrizio Roncone è odiosamente fasulla. Sfido l’autore a pubblicare l’integrale audio sul sito del Corriere se mai abbia registrato. Più che un’intervista è un ritratto tipo body shaming della mia persona. Non ho mai detto che ho scritto i discorsi di Renato Brunetta, né che io stavo pregando. Ero banalmente a Messa e ho richiamato per gentilezza. La mia risposta su Draghi era ovviamente una battuta, e ho detto pure qualcosa come: figuriamoci se un nessuno come me è in grado di dare un problema a Draghi. Sant’Anselmo sosteneva che si può tranquillamente scrivere che la Bibbia dice: «Dio non esiste». Basta togliere le tre parole che precedono la negazione: «Lo stolto dice: Dio non esiste». Ho sbagliato a mettermi nelle mani di chi dal primo istante della conversazione mi ha trattato con disprezzo. Le dimissioni nascono dal fatto di cui mi sono reso immediatamente conto chiusa la telefonata: se dopo gli articoli tossici del Fatto e di Repubblica anche il Corriere si affida a chi ridicolizza programmaticamente l’interlocutore, come l’esito documenta, l’unico modo per non essere un bersaglio utile per colpire di rimbalzo il ministro, è togliermi di mezzo. Questo ho fatto con una nota inviata alle agenzie, il resto sono bubbole di fango. Con stima per il suo lavoro. E amarezza per il torto che ho subito io e che ha offeso la buona fede mia e dei suoi lettori.

Renato Farina

LA REPLICA DI RONCONE per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2021.

Confermo tutte le parole e i sospiri ascoltati ieri durante i colloqui avuti con l’ex agente segreto Betulla (Renato Farina). Certo comprendo la sua amarezza per essere finito al centro di un’altra sconcertante vicenda. 

Tra Sallusti e Travaglio botte da orbi: Il direttore di Libero: «Sciacalli del Fatto, fatevi schifo». Redazione sabato 7 Agosto 2021 su Il Giornale. «Guardatevi allo specchio e fatevi schifo». A Roma dicono “quando ce vò ce vò“. E in questo caso ce vò tutta. È infatti successo che al Fatto Quotidiano non abbia digerito la nomina di Renato Farina a consulente del ministro Renato Brunetta. Per il giornale di Travaglio sarebbe a dir poco inopportuna, alla luce di vecchi legami con i nostri Servizi, struttura in cui Farina operava sotto il nome convenzionale di “agente Betulla”. Il neo-consulente, una legislatura in Parlamento con il PdL, è soprattutto una delle firme di punta di Libero, giornale ora diretto da Alessandro Sallusti. È stato proprio quest’ultimo a replicare sull’edizione online del suo quotidiano con le parole prima riferite.

Lite sulla nomina di Farina a consulente di Brunetta. Sallusti e Travaglio incrociano spesso la lama davanti alle telecamere dello studio di Lilly Gruber su La7. Ma quasi mai il duello tra i due raggiunge i toni fatti registrare dalla vicenda insorta sulla nomina di Farina. Nella sua replica Sallusti lamenta infatti la «consueta ferocia» esibita dal Fatto Quotidiano nell’attacco mosso al «nostro prestigioso collaboratore». Ma il direttore di Libero non si accontenta di difendere Farina e il rigo successivo decide di passare al contrattacco.

Sallusti: «Giornalisti dalla doppia morale». «Sappiano questi sciacalli – dice all’indirizzo della redazione di Travaglio – che noi siamo orgogliosi di ospitare la firma di Renato, che in quanto a collaborazioni improprie (l’agente Betulla, ndr) è un dilettante rispetto a tanti colleghi legati a filo doppio non solo con i Servizi ma pure con magistrati e politici». Addirittura col botto la conclusione che Sallusti dedica a quelli che definisce «giornalisti faziosi e dalla doppia morale». Eccola: «Che dire, guardatevi allo specchio e fatevi schifo». Aspettiamoci ora la controreplica al curaro da parte di Travaglio. La Gruber è ancora in vacanza, ma la singolar tenzone tra i due direttori continua.

Alessandro Sallusti per “Libero Quotidiano” il 7 agosto 2021. Ieri il Fatto Quotidiano, con la sua consueta ferocia, ha attaccato Renato Farina, nostro prestigioso collaboratore, perché in maniera legittima e trasparente ha avuto una collaborazione professionale (poche migliaia di euro all'anno) con il ministero guidato da Renato Brunetta. Sappiano quegli sciacalli che noi siamo orgogliosi di ospitare la firma di Renato, che in quanto a collaborazioni improprie (una vicenda del passato legata ai Servizi) è un dilettante rispetto a tanti colleghi legati a doppio filo non solo con i Servizi ma pure con magistrati e politici. Che dire, guardatevi allo specchio e fatevi schifo, giornalisti faziosi e dalla doppia morale.

Pietro Colaprico per “la Repubblica” il 7 agosto 2021. Professione reporter: non è la sua. Non di Renato Farina. Avete presente il concetto americano del giornalista come "cane da guardia della democrazia"? Siamo agli antipodi. E non ce ne dovremmo occupare se un altro Renato, il Brunetta ministro forzista del governo in carica, non avesse nominato come consulente proprio lui, il fu "agente Betulla", anche se agente non è stato mai. I suoi ruoli erano l'informatore a libro paga e l'agente provocatore, entrambi svolti con incredibile sprezzo del ridicolo. Lo stesso Vittorio Feltri gli dette del "vigliacco", quando Farina non volle ammettere di essere l'autore di un articolo che poteva costare il carcere a un altro collega del loro giro, Alessandro Sallusti. Ora, senza emettere giudizi a casaccio, vanno segnalate alcune "faccende". La prima riguarda Enzo Baldoni. Come si ricorderà, fu il primo reporter italiano (era un free lance) a morire in zona di guerra afgana per mano degli assassini che sostengono di agire in nome di Allah. Betulla raccontò per filo e per segno la sua morte: s' era divincolato, ribellato e perciò ucciso. Tutto falso. Era una "manipolazione". I nostri servizi segreti erano lì lì per liberarlo e Baldoni, che non sapeva, che non capiva, l'ha pagata cara. Una versione ispirata - ma l'abbiamo saputo tempo dopo - da un altro factotum del potere, Pio Pompa. Un plenipotenziario manutengolo (e quindi perfetto capro espiatorio) del potente Niccolò Pollari, boss dei servizi segreti militari per volere di Berlusconi. E veniamo alla seconda faccenda, esilarante se non fosse tragicomica e perversa. Maggio 2006, tre anni dopo il sequestro a Milano di un iman della stramba vita, chiamato Abu Omar. Farina telefona come giornalista ai magistrati che indagano. Chiede con insistenza un'intervista. Va a palazzo di giustizia e incontra Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, che sul sequestro, organizzato dalla Cia, sanno già moltissimo. Racconta loro alcune panzane, cerca di coinvolgere il pubblico ministero Stefano Dambruoso (mossa per spostare la competenza a Brescia) e quando esce chiama non il suo direttore, ma Pio Pompa: «È stata durissima, ma ce l'ho fatta». "Betulla" si sbagliava: non immaginava di essere già intercettato, che la sua venuta al palazzo di giustizia fosse attesa e che sotto la scrivania dei magistrati ci fossero le microspie. Veniamo alla terza faccenda, simile a molte altre: scrive il falso contro Romano Prodi, assicurando che quando era presidente del consiglio fosse d'accordo con gli alleati americani e i nostri servizi per il rapimento di Abu Omar. Articolo, anche questo, scritto per compiacere Pompa. Al processo, patteggiò una condanna a sei mesi per favoreggiamento. E poi, giocando tra dimissioni e reintegri, è tornato a far parte dell'Ordine dei giornalisti. Ovviamente Farina, a malefatte compiute, era già entrato in Parlamento, eletto in Forza Italia. E la sua giustificazione è sempre stata di aver combattuto per la patria. Per la patria o per chi più volte ha provato, come voleva Pio Pompa, a «disarticolare la magistratura»? Anche contro Ilda Boccassini ha composto numerose infamie, la sua cifra professionale è in effetti l'attacco violentissimo su notizie che gli trovano altri. In Italia ci sono tantissimi giornalisti. Se Brunetta ha scelto uno con una carriera talmente screditata avrà le sue ragioni. Il ministro fa sapere che Farina ha già pagato il conto per il suo passato. La simpatia, o l'amicizia, o essere stati sotto le stesse bandiere forziste non sembrano però sufficienti per far accedere nella zona dell'attuale governo, stretto intorno a Mario Draghi, uno con quel curriculum. Uno che, con protervia, mai ha chiesto scusa a chi ha infangato, ferito, umiliato.

Ora i nomi dei giornalisti al servizio dei pm. Fatto e Repubblica linciano Renato Farina: il giornalista lascia la collaborazione con Brunetta. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Agosto 2021. La decisione presa nei giorni scorsi da alcuni nostri colleghi di linciare Renato Farina, secondo me è vile e sconsiderata. Cosa è successo? Il ministro Brunetta ha chiamato Renato Farina, giornalista di Libero con alle spalle una quarantina di anni di carriera, offrendogli una collaborazione al ministero come consulente per l’informazione. Una specie di ufficio stampa. Tutti i ministri e anche molti sottosegretari e molti parlamentari hanno un proprio ufficio stampa. Un paio di giornali hanno scoperto la cosa (è un’opera giornalistica che richiede grandi qualità investigative scoprire chi si nasconde dietro un ufficio stampa…) e hanno iniziato una campagna feroce contro Farina. Perché? Credo per le seguenti ragioni: Farina è un giornalista piuttosto isolato; Farina è una persona molto mite; Farina è un giornalista di notevoli qualità, e oltretutto possiede una dote piuttosto rara nella nostra categoria (scrive molto bene); infine Farina ha subito alcune condanne in tribunale. Essenzialmente ne ha subite due. Una per aver introdotto in un carcere, durante la sua breve esperienza parlamentare, una persona spacciandola per sua assistente, mentre non lo era, e permettendo in questo modo che un non addetto ai lavori potesse conoscere gli orrori del carcere che invece devono restare segreti. Per questo reato è stato condannato in primo grado a una pena di due anni e otto mesi di carcere. È più o meno la pena che di solito viene affibbiata a uno stupratore con qualche attenuante. L’altra condanna, la più nota, è a seimila e seicento euro di multa per aver favoreggiato due dirigenti dei servizi segreti. Precisamente Pollari e Mancini. Accusati per il sequestro di Abu Omar. Farina non è stato ovviamente condannato per avere partecipato al sequestro, ma per avere favoreggiato i due alti dirigenti dei servizi. I quali sono stati prosciolti da tutte le accuse. Quindi, se la logica funziona ancora, Renato è stato condannato per aver favoreggiato degli innocenti. Per questa ragione Farina è stato anche radiato dall’ordine dei giornalisti, e per diversi anni non ha potuto scrivere sui giornali, cioè non ha potuto svolgere il suo lavoro, né ricevere un regolare stipendio. Io, personalmente, sono entrato due volte clandestinamente in carcere, fingendomi portaborse di alcune parlamentari. Quindi non mi scandalizzo. Non ho mai collaborato, invece, coi servizi segreti. Che sono organi dello Stato e che dipendono dal governo. Sono però assolutamente certo che siano almeno un centinaio i miei colleghi che hanno collaborato e collaborano coi servizi segreti. Molti di loro sono firme assai autorevoli che influenzano la pubblica opinione. E collaborano coi servizi segreti su questioni italiane, non di politica estera come faceva Farina (che, a quanto si sa, aiutò gli 007 a liberare alcuni ostaggi), e quindi su temi molto delicati che possono modificare il corso della politica italiana. Non ho mai pensato di esprimere disprezzo, per loro. È una scelta che non condivido, come non condivido neppure la scelta che fece a suo tempo Renato (che però comprendo e trovo che avesse molte ragioni per essere fatta). Stop. Non capisco perché verso Farina si è scatenato l’inferno e verso gli altri 99 no. Vogliamo poi fare l’elenco dei giornalisti al servizio delle Procure? Credo almeno mille. E questi giornalisti sono tenuti a riferire su grandi casi giudiziari e anche politici, o economici, attenendosi solo alla versione dei loro Pm di riferimento, e in questo modo distorcono in maniera evidentissima e robusta la realtà delle cose, e trasformano l’informazione in disinformazione, spesso ai danni di imputati innocenti. Non è una novità: lo sapete tutti. Nessuno di loro però è stato chiamato a rispondere di questo, moltissimi anzi sono stati premiati.  L’Ordine dei giornalisti non mi pare sia mai intervenuto per stigmatizzare episodi clamorosi di linciaggio mediatico verso gli innocenti, né mai ha preso misure disciplinari in questi casi. Sbaglio? Le uniche eccezioni che conosco sono Farina e Feltri. A me va bene che l’Ordine non abbia mai preso misure disciplinari verso i giornalisti al servizio dei Pm: io sono allergico alle misure disciplinari (un po’ sono allergico anche agli Ordini), ma perché contro Farina sì? Ora assistiamo a questo nuovo episodio di squadrismo giornalistico, guidato dal Fatto quotidiano con Repubblica alla scorta. Realizzato con inaudito disprezzo per le persone che lavorano e vivono del loro lavoro. Hanno invocato il licenziamento di Farina, il quale, peraltro, percepiva un compenso di circa 750 euro al mese coi quali doveva pagarsi anche treni, aerei, vitto e alloggio a Roma (lui vive a Milano). Io, lo confesso, e poi lo sapete, sono un vecchio antifascista. Per storia, per tradizione, per convinzione. Oggi non mi fa paura Casapound: mi fanno paura questi. Questi che vanno a cercare nemici isolati e li bastonano ferocemente e poi se ne vanno soddisfatti e chiedono l’applauso.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

E’ FINITA FINALMENTE LA PASSERELLA “MEDIATICA” DELLE PROCURE? ERA ORA! Il Corriere del Giorno il 4 Agosto 2021. Il decreto del Governo italiano recepisce la Direttiva Europea 343 del 2016 permetterà le comunicazioni dell’autorità giudiziaria soltanto in casi residuali. Proibite le conferenze stampa dei pubblici ministeri e forze di polizia, ammesse solo in casi eccezionali. Saranno questi – a quanto anticipa Repubblica – i contenuti del decreto del Ministero della Giustizia che il prossimo Consiglio dei ministri approverà per trasformare in legge la direttiva Ue 343 del 2016, sul “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”, atto recepito dal Parlamento italiano con tre anni di ritardo di (il termine scadeva il 1° aprile 2018) inserito in extremis nella legge di delegazione europea votata il 31 marzo scorso. Delega che a propria volta sta per scadere: il Governo la deve esercitare entro il prossimo 8 agosto – la data più probabile è oggi giovedì 5 – con un decreto legislativo aperto a successivi aggiustamenti delle Camere. La formulazione del decreto dovrebbe consentire le conferenze stampa soltanto per indagini di “rilevante interesse pubblico”, un requisito che forse potrà essere valutato direttamente dall’autorità giudiziaria. Una norma a garanzia del presupposto d’innocenza con l’avvallo dell’Unione Europea. Ecco cosa prevede il testo della direttiva europea, che in realtà, è addirittura più stringente di come lo si vorrebbe declinare in Italia. Al considerando 16 si osserva che “la presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche (…) presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni (…) non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole”. Al considerando 18, ecco che Parlamento e Consiglio europeo piantano i paletti: le “autorità pubbliche” (cioè gli inquirenti) possono parlare soltanto “qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale siano fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisca informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico“. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia esprime qualche dubbio “Non vorrei che limitazioni troppo stringenti si traducessero in un ostacolo al diritto all’informazione”, dice “Sono d’accordo, però, col fatto che sia necessaria una comunicazione volta a tutelare in ogni caso la presunzione di non colpevolezza, che è un principio sacrosanto e tutelato in Costituzione. Serve trovare un punto d’incontro tra le due esigenze”.

Giro di vite sulle procure che trattano l’indagato da colpevole: il bis garantista di Cartabia. Arriva in Consiglio dei Ministri il testo che attua la direttiva UE sulla presunzione d’innocenza: obblighi di rettifica per pm e gip. Valentina Stella su Il Dubbio il 5 agosto 2021. Dopo l’approvazione del ddl penale alla Camera, un altro passo avanti nella direzione di una normativa ispirata ai principi costituzionali si sta per compiere oggi in Consiglio dei ministri, dove sarà discusso il decreto legislativo per l’attuazione della direttiva Ue 2016/ 343 “sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, recepita lo scorso 30 marzo, con voto pressoché unanime, nella legge di delegazione europea.

Il bis garantista di Cartabia. Si tratta di uno degli obiettivi elencati dalla ministra Marta Cartabia nelle proprie linee programmatiche, e che arriva con cinque anni di ritardo rispetto al dettato comunitario. Lo schema prevede innanzitutto che le autorità, magistrati inclusi, non potranno indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato, fino a quando la colpevolezza non sarà stata accertata con sentenza irrevocabile. Qualora tale principio fosse violato, “ferma l’applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari, nonché l’obbligo di risarcimento del danno, l’interessato ha diritto di richiedere all’autorità pubblica la rettifica della dichiarazione”.

La diffusione dei procedimenti penali alla stampa. Se l’autorità condivide, deve procedere alla rettifica entro 48 ore, garantendo la medesima diffusione e rilievo della dichiarazione oggetto di modifica. Se l’autorità rigetta, l’interessato si può rivolgere al Tribunale. Si prevede poi una modifica al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 (“Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero”) incentrata sulla comunicazione alla stampa: “La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende, e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.

Non tutto sarà “notiziabile”. In questi casi sarà il procuratore della Repubblica a poter “autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato”. In pratica non tutto sarà considerato notiziabile, come accade adesso, ma solo i fatti di grande rilevanza: si tratta di un passaggio importante perché la Procura sarà chiamata a motivare le ragioni di interesse pubblico della comunicazione. In più, se prima sulle conferenze stampa vigeva una sorta di deregulation, con il recepimento effettivo della direttiva, in assenza di autorizzazione, i vertici di polizia e carabinieri non potranno tenere alcuna conferenza stampa con i loro ben noti video di arresti autocelebrativi. E, secondo una possibile interpretazione della norma, il giochetto delle conferenza stampa sarà tolto dalle mani dei sostituti procuratori per impedire eccessi di protagonismo e di personalizzazione nell’esercizio delle funzioni requirenti.

Modifiche al codice di procedura penale. Lo schema di decreto legislativo prevede anche una modifica al codice di procedura penale laddove si prevede un 115- bis (“Garanzia della presunzione di innocenza”) secondo cui “nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. Se così non fosse “l’interessato può, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi alla conoscenza del provvedimento, richiederne la correzione, quando è necessario per salvaguardare la presunzione di innocenza nel processo”. I provvedimenti a cui si fa riferimento potrebbero essere le richieste di misure cautelari, le successive ordinanze dei gip ma persino le proroghe che il giudice dovrà richiedere per portare a termine processi complessi, come previsto dal nuovo istituto dell’improcedibilità. Sta di fatto che entrambe le modifiche incidono soprattutto quando la gogna mediatica imperversa, ossia nella fase delle indagini preliminari, la cui dimensione garantista è stata rafforzata nella riforma appena approvata.

Il parere di Enrico Costa. Secondo il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, che per primo indicò il tema come prioritario nell’agenda di politica giudiziaria, «si tratta di un testo di partenza che può essere considerato già un passo avanti: se il Cdm lo licenzierà farà molto meglio del passato. Ora sarà fondamentale il lavoro delle commissioni parlamentari che dovranno fornire gli altri elementi per rafforzarlo». Quelli delle commissioni non sono pareri vincolanti, ma un governo che ha fatto del dialogo una prerogativa importante sarà sicuramente aperto ai correttivi. In linea generale siamo nella stessa condizione della riforma penale: come per il testo della “mediazione Cartabia”, anche questo schema non è l’optimum ma rappresenta sicuramente un discreto punto di partenza per rafforzare la cultura garantista e lanciare un messaggio a certa magistratura requirente impegnata troppo spesso a cercare le luci della ribalta mediatica a scapito della presunzione di non colpevolezza.

Quel video terribile sui pestaggi andava pubblicato? Difficile trovare un compromesso tra diritto di cronaca e rispetto delle regole. Ma una cosa dobbiamo chiedercela: chi ha fatto arrivare alla stampa quelle immagini di Santa Maria Capua Vetere? Valentina Stella su Il Dubbio il 30 giugno 2021. È innegabile la portata di drammaticità emersa dal video pubblicato dal quotidiano Domani in cui si vedono chiaramente le violenze subìte dai detenuti lo scorso 6 aprile 2020 per mano di centinaia di agenti di polizia penitenziaria. Quelle sequenze di aggressività e sopraffazione dei (finti) custodi verso i loro custoditi, la riproposizione del «sistema Poggioreale» come metodo illegale di punizione, lo svilimento della dignità dei detenuti: tutto ciò è stato un pugno nello stomaco per moltissimi di noi, che pure da anni ci occupiamo di queste vicende, ma soprattutto per altri colleghi che spesso si mostrano indifferenti alle criticità dell’esecuzione penale, e per una grande fetta della società civile. Probabilmente quelle immagini hanno anche spinto la Ministra Cartabia a prendere una posizione più netta nei confronti di quegli accadimenti. Sicuramente quel video ha disvelato qualcosa per molti inimmaginabile. Come spesso ricorda il sociologo dei fenomeni politici, Luigi Manconi, «il carcere e la caserma sono istituzioni totali, secondo la classica definizione di Erving Goffman: sono strutture chiuse, sottratte allo sguardo esterno e al controllo dell’opinione pubblica e della rappresentanza democratica». Ora invece tutti possono vedere. Ma nonostante il valore pedagogico, siamo sicuri che quel video andava pubblicato? Ci siamo posti la stessa domanda relativamente alle immagini degli ultimi istanti di vita dei passeggeri nella funivia del Mottarone. Non è semplice dare una risposta: c’è il gioco il diritto di cronaca, la necessità di denunciare pubblicamente misfatti così terribili, ma non dobbiamo dimenticare il rispetto delle regole e del codice di rito. Si tratta di un documento che, seppur non coperto da segreto istruttorio, ai sensi dell’articolo 114  comma 2 c.p.p. non può essere pubblicato, in quanto relativo a procedimento in fase di indagine preliminare. E allora ci si chiede: chi ha fatto arrivare ai colleghi del Domani il video? La procura aprirà un fascicolo di indagine per stabilire eventuali responsabilità?

La spettacolarizzazione delle indagini. Agenti indagati, vanno processati in aula non in piazza. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 7 Luglio 2021. Finalmente i media si occupano di carcere! Ci sono volute immagini tremende e messaggi raccapriccianti per sollevare lo sdegno dell’informazione e quello dell’opinione pubblica. Anche i sostenitori storici del “buttare la chiave” hanno dovuto ammettere che la crudeltà di quanto visto e letto non lascia spazio a interpretazioni. Uno squarcio di luce intrisa di sangue sta attraversando il carcere, lasciato solo e abbandonato a se stesso da tempo immemorabile. Ora è necessario tenere alta l’attenzione per evitare che le tenebre tornino ad avvolgere quel mondo sconosciuto o, comunque, dimenticato. Quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere ha confermato l’importanza della figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e quella di una Magistratura di Sorveglianza attiva, oltre che in ufficio, anche negli istituti di pena. Dal loro tempestivo intervento, infatti, hanno preso vita le indagini che sono state coordinate e svolte nei necessari tempi rapidi. Dai messaggi scambiati tra gli indagati, emerge l’esistenza di un “sistema Poggioreale”, in relazione alle violenze da far subire ai detenuti. Il riferimento è alla famigerata “cella zero” del carcere napoletano, oggi oggetto di un processo, ancora in corso, nei confronti di alcuni agenti di quell’istituto. La violenza della “mattanza” di Santa Maria Capua Vetere ci fa comprendere come gli autori fossero convinti della loro impunità. Detto ciò, credo che vadano fatte almeno due riflessioni di natura politica. La prima è relativa alle dichiarazioni di coloro che hanno affermato che si sarebbe trattato di «poche mele marce» e che il resto della polizia penitenziaria è sano, come lo è la dirigenza dell’amministrazione. Ciò è del tutto fuorviante.  A essere “marcio” da tempo è il sistema penitenziario. In questo malessere sono costretti – e sottolineo costretti – a vivere detenuti e agenti. I primi trattati come animali, privati di un progetto di responsabilizzazione e rieducazione, stipati in spazi angusti e antigienici; i secondi messi a guardia di persone abbrutite e private anche della dignità e, pertanto, da educare senza rispetto e, quando serve, a mazzate. Non a caso le numerose condanne inflitte all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo fanno riferimento alla necessità di un intervento di sistema che non c’è mai stato, per colpa di una politica cieca che non guarda al di là di uno strumentale interesse elettorale. La stagione degli Stati generali dell’esecuzione penale, iniziata dopo l’ennesima condanna inflitta dalla Cedu e culminata con il lavoro di ben tre Commissioni ministeriali per la riforma dell’ordinamento penitenziario, si è chiusa con un nulla di fatto e le modalità di approccio della politica al pianeta carcere non sono mutate. Occorre riprendere quei lavori, frutto di un serio e serrato confronto tra persone esperte e provenienti dai diversi settori del mondo della giustizia. Per la seconda è bene chiarire preliminarmente che chi scrive si occupa da anni della tutela dei diritti dei detenuti e oggi è co-responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. Non è, pertanto, sospettabile di alcun pensiero avverso la popolazione detenuta né di favorire l’amministrazione penitenziaria. Fermo restando l’importanza – e l’abbiamo già detto – di tutto quello che è derivato dalla pubblicazione di messaggi e video (in merito ai quali il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha anticipato che ce ne sarebbero altri ancora più violenti), occorre evidenziare, ancora una volta, che la spettacolarizzazione della giustizia e i processi di piazza non giovano al Paese. Si tratta di giustizia sommaria, che – pur per episodi gravissimi – travolge vite umane e con esse i loro familiari, dinanzi a quella che è la verità parziale di un’ipotesi accusatoria. Mentre dovrebbe essere il processo, con tutte le sue garanzie, ad accertare la verità. Si obietterà: ma come, vi sono i messaggi, i video, la colpevolezza è certa! No, signori, la giustizia non funziona così. Altrimenti continueremo ad alimentare un istinto brutale di linciaggio popolare che, senza alcun intervento di un giudice, vuole la condanna del colpevole. Non possiamo accettare questa deriva che lentamente ci sta portando all’abbrutimento della nostra civiltà giuridica. Comprendo le ragioni che hanno indotto la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere a diffondere il comunicato stampa di ben 13 pagine, in cui venivano testualmente riportati i messaggi degli indagati, e comprendo pure le ragioni della pubblicazione del video delle torture, ma non le condivido. Sono il frutto di una politica che è rimasta indifferente dinanzi alle notizie apprese nel corso delle indagini, lasciando convivere per un anno intero vittime e carnefici. Una politica che, dinanzi alle denunce delle torture dell’aprile scorso, ha dichiarato che la legalità nel carcere di Santa Maria Capua Vetere era stata ripristinata. Oggi il Ministero della Giustizia ha una guida nuova, certamente orientata verso i principi costituzionali. Basterà? Riccardo Polidoro

Dalla Uno bianca a SanPa la "nera" degli Ottanta in tv. Matteo Sacchi il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Arriva su History il documentario sulla feroce banda che insanguinò la Romagna. È segno di una tendenza. Quando la cronaca diventa Storia? Quando le generazioni che vengono dopo i fatti, avendone sentito parlare diventano curiose, quando chi quei fatti li ha vissuti, a colpi di radio e telegiornali, vuole vederseli rimettere davanti, con una luce nuova (si spera più fredda e più pacata). Questo fenomeno è chiaramente in corso per le vicende dell'Italia degli anni 80/90. Lo prova la fortuna che hanno fiction, docufiction e documentari dedicati a quel periodo. Ultimo in ordine di tempo arriva su History Channel La banda della Uno bianca, documentario che andrà in onda domani e dopo domani alle 21 e 50. La vicenda ricostruita è quella della banda, composta da poliziotti, che tra il 1987 e il 1994 terrorizzò l'Emilia Romagna con una escalation di rapine ed omicidi. È un racconto a più voci, tra cui spiccano soprattutto quelle del sostituto commissario Luciano Baglioni e del sovrintendente capo Pietro Costanza, i due agenti che con perseveranza condussero l'indagine, sino a rendersi conto che la lunga scia di sangue - 103 atti criminali, 102 feriti, 24 morti - portava verso dei loro colleghi. Ovviamente in questo caso ad attirare l'attenzione del pubblico, allora come oggi, è l'incredibile dimensione e la ferocia «militare» della banda. Ferocia che Baglioni e Costanza furono tra i primi ad incontrare, nel 1987. Quando il nome «Banda della Uno bianca» non era stato ancora inventato, indagavano, con altri colleghi della questura di Rimini, sulle misteriose e violente rapine notturne ai caselli lungo la A14. I rapinatori tentano un'estorsione contro un commerciante che, però, si fa scortare dagli agenti lungo l'autostrada dove i banditi hanno previsto lo scambio. Il risultato è un tremendo scontro a fuoco, dove viene ucciso il sovrintendente di polizia Antonio Mosca. Se questa è la partenza della vicenda, a rendere particolarmente interessante La banda della Uno bianca (prodotto da Stand By Me) è la capacità del documentario di dar spazio a molti protagonisti di quell'epoca, tra cui l'allora sindaco di Rimini Giuseppe Chicchi, che ricostruiscono il contesto in cui si mosse la banda. Una Romagna sospesa tra il divertimento e la fame di denaro, tra il lavoro duro e la voglia di saltare le tappe, tra l'allegria e una rabbia cupa carica di malessere. Una spaccatura che non si è mai davvero chiusa e che nelle parole dei sopravvissuti alla violenza dei tre fratelli Savi (che erano il cuore feroce del gruppo della Uno bianca), come Francesca Gengotti, emerge con chiarezza. Un pezzo d'Italia rimase incredulo e terrorizzato, sotto le raffiche di colpi, non più ideologiche, come negli anni Settanta ma proprio per questo ancora più brutali. E bruciante risulta il contrasto tra i veri servitori della legge e dello Stato, ma potremmo dire più in generale della comunità, e chi usò la divisa per mascherare meglio la sua natura e trasformò il suo addestramento in mezzo di sopraffazione per prevalere in un mondo dove non conta nulla se non dimostrare la propria forza. In modo diverso queste complessità, queste sottili linee di faglia che caratterizzarono quel periodo sono quelle che emergono anche in altri prodotti. La serie Alfredino. Una storia italiana (Sky), come spiegava in queste pagine il collega Alessandro Gnocchi, ha messo ben in luce come attorno al pozzo dove era caduto il piccolo Rampi si agitassero diverse Italie: quella generosa, quella pasticciona, quella che voleva a tutti costi vedere in diretta il lieto fine, quella che si impegnò allo spasimo e quella che si perse nei cavilli. Ancora prima, la serie SanPa (Netflix), per quanto sbilanciata nel suo puntare il dito contro gli errori di Muccioli senza vederne i meriti, ha raccontato altre fratture tremende che hanno attraversato il nostro Paese negli anni Ottanta. Il gorgo di una generazione sprofondata nella droga, l'assenza di un sistema sanitario che a parte il metadone aveva poco da offrire, lo spontaneismo di una comunità, San Patrignano, che cresce a dismisura e perde il controllo di se stessa. Non stupisce quindi che quel pezzo di vicende italiane, rimaste a lungo schiacciate tra gli anni di piombo e i grandi rivolgimenti degli anni Novanta, sia tornato ad essere d'attualità. Proprio al concludersi di quel decennio lo storico Francis Fukuyama ha costruito l'idea di «fine della Storia». Era un'idea poco feconda per descrivere gli anni a seguire il crollo del Muro di Berlino. Ma risulta falsa anche per gli «immobili» anni 80. La storia italiana, forse, si era fatta cronaca. Ma ora capiamo quanto quella cronaca ci abbia cambiato.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco. 

Denise Pipitone: giornalisti denunciati per violenza privata da dieci mazaresi. Debora Faravelli il 21/06/2021 su Notizie.it. Alcuni giornalisti che si occupano del caso di Denise Pipitone sono stati denunciati da dieci mazaresi: l'accusa è di violenza privata. Dieci cittadini di Mazara del Vallo hanno denunciato i giornalisti di Ore14, aggrediti mentre stavano realizzando un servizio sul caso di Denise Pipitone, per violenza privata. Ad annunciarlo è stato il conduttore Milo Infante che sul suo profilo Instagram ha affermato che nella puntata di lunedì 21 Piera Maggio, la madre della bimba scomparsa nel 2004, approfondirà insieme a lui le figure di Gaspare Ghaleb e Francesca Adamo, rispettivamente il compagno di Jessica Pulizzi e la collega di Anna Corona che ha messo l’orario falso di uscita dal lavoro della stessa Anna. “Parleremo poi dei 10 mazaresi che hanno denunciato i giornalisti per violenza privata. Tra questi c’è anche l’aggressore del nostro inviato”, ha aggiunto. Il riferimento è all’aggressione subita da Fadi El Hnoud, sul posto per realizzare interviste sul caso. Un uomo lo ha minacciato (“Vi uccido”) per poi aggredirlo fisicamente. Quest’ultimo ha denunciato subito l’accaduto alla locale caserma dei Carabinieri che hanno identificato l’aggressore, ripreso in volto dalle telecamere. A rendere noto l’episodio era stata una nota di Unisgrai in cui, esprimendo solidarietà ai colleghi aggrediti, gli autori si erano detti pronti ad essere parte civile contro chi li ha minacciati. “A Mazara del Vallo le telecamere della Rai danno fastidio a chi non vuole che i cittadini siano informati”, aveva poi aggiunto un comunicato di Fnsi.

La tv del dolore ha superato ogni limite. Andrea Valesini su L'Eco di Bergamo Domenica 20 Giugno 2021. Appena 54 secondi, ma è un pugno nello stomaco. Il video che ritrae gli ultimi istanti del viaggio della funivia del Mottarone (fino allo schianto a terra) e di vita di 14 dei suoi 15 passeggeri è andato in scena in tv, con sovrapposta in un angolo la scritta «Esclusiva Tg3», firma dello scoop e ostentazione dell’orgoglio. Poi quel macabro documento è finito su altri media e sui social, visto da milioni di persone. A giustificare la messa in onda si è ricorsi al solito, ipocrita e pigro «diritto di cronaca». Ma quel diritto se non è accompagnato dal dovere di rispettare le persone e di non esporle al pubblico almeno in punto di morte, apre alla barbarie. Un limite invalicabile ormai invece superato. Nemmeno i parenti delle vittime del Mottarone avevano ancora visionato il video. È strano che uno scrittore sensibile come Ferdinando Camon difenda la diffusione delle terrificanti immagini perché «la verità non va nascosta». Proprio lui che vive di un uso sapiente delle parole dovrebbe sapere che gli ultimi istanti del viaggio della funivia sono stati raccontati dai giornali fin nei dettagli e che altri video simulano perfettamente l’accaduto, praticamente sovrapponibili senza sbavature all’originale. La verità poi non sono quelle immagini che ne costituiscono una parte, ma la risposta alla domanda: se dei freni di emergenza manomessi sappiamo molto, perché la fune si è spezzata? Peraltro in questa vicenda c’è anche un risvolto penale. La Procuratrice di Verbania, Olimpia Bossi, in un comunicato ha sottolineato come la pubblicazione del video sia vietata dalla legge, trattandosi di atti di indagine che, benché depositati per le parti e non più coperti da segreto, «sono relativi a procedimenti in fase di indagini preliminari». Ora però la Procuratrice dovrebbe andare fino in fondo: essendo la diffusione un reato penale, appurare da dove è uscito il materiale riservato. La vicenda è tanto più grave perché l’osceno e irrispettoso «scoop» è stato realizzato dal tg di un canale della tv pubblica, che non dovrebbe rispondere a logiche di audience greve. Andrea Valesini

Eriksen a terra e la tragedia del Mottarone: tv e social sbattono la morte in diretta. Oltre il limite. Hoara Borselli domenica 20 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Le immagini di Christian Eriksen disteso a terra che lotta tra la vita e la morte. E il video shock della tragedia della funivia del Mottarone sono solo alcuni tra gli ultimi casi di cronaca che accendono il faro sul tema della spettacolarizzazione dell’informazione. Quale è il confine etico e morale tra ciò che è idoneo o meno rendere pubblico? La tragedia della funivia del Mottarone ci ha ricordato ancora una volta come in molti preferiscano i dettagli più macabri rispetto ad un’informazione vera e attendibile. Accendendo i riflettori sull’istante in cui le persone perdono la vita in modo così sconvolgente si compie un doppio errore: di deontologia e anche di difesa del giornalismo. Sono diventate virali in pochi istanti le immagini che durano poco più di un minuto: la cabina che sale. Che sembra essere arrivata a destinazione. Ma che poi scivola velocemente verso giù e cade nel vuoto. E dentro, visibili, le 15 persone che sono precipitate giù: 14 delle quali hanno perso la vita. Un’immagine drammatica che tutti, mentalmente, avevamo ricostruito dopo il resoconto giornalistico della tragedia. E che adesso rimbalza su tutti i social andando ad alimentare quella morbosità macabra di cui sembra non si riesca più a fare a meno. Il video, pubblicato in esclusiva dal Tg3, e rilanciato da tutte le testate, ha generato una sorta di corsa alla condivisione per non rimanere indietro su nulla. Altrettanto sconvolgenti le scene del malore di Christian Eriksen, il giocatore danese trasmesso in diretta tv, con le immagini che si soffermano sul volto esanime dopo il malessere, a cercare quell’istante morboso di chi si trova a vivere un dramma sotto i riflettori. Un Truman show del dolore che con il diritto di cronaca segna una distonia netta. Emblematico l’abbraccio con cui i compagni di squadra di Christian hanno preservato la privacy per la tragicità del momento. Dando una lezione al mondo e alla stessa informazione che per diritto di cronaca non si ferma. Invece quel momento andava fermato. Raccontato per capire come stesse il calciatore, ma spegnendo immediatamente i riflettori per non alimentare quel voyeurismo insano, maniacale. I commenti indignati da parte degli utenti social dei canali delle testate che hanno fatto la scelta di mandare in onda sia le immagini della funivia che quelle del calciatore danese a terra, a distanza di poco tempo hanno suscitato un’indignazione comune legata dal filo invisibile della spettacolarizzazione del dolore. Rendere fruibile le immagini che documentano gli istanti di vita dei drammi non aggiunge niente all’informazione. Ma fa emergere l’assioma della “pornografia del dolore”. Esemplificative in questo senso sono le parole riportate da Mario Morcellini, direttore della Scuola di Comunicazione Unitelma Sapienza: «Mettere in diretta le grida della disperazione, a me sembra che non sia un esercizio di informazione». La questione sulla sulla deontologia giornalistica diventa centrale. Il giornalismo che riesce a raccontare senza eccedere nel morboso dell’occhio che non deve spegnere mai la luce, è un punto focale. Ci vuole responsabilità. Essere in diretta con il dolore ha poco a che fare con la rappresentazione dell’informazione a livello di cronaca giornalistica. È innegabile che stia cambiando il rapporto tra verità in diretta e dramma del momento comunicativo. I social ci seguono ovunque, amplificando ciò che parte dalla tv. E la drammaticità morbosa diventa protagonista. L’ultimo tassello della cronaca nera in diretta sta diventando la nostra informazione quotidiana.

Eitan, l’ultima foto nella funivia è la morte del giornalismo. Giuseppe Gaetano il 26/05/2021 su Notizie.it. Da parte nostra l’augurio di scattarne di belle, di fotografie, negli anni che verranno. Da incorniciare e conservare nella memoria. Il bimbo in mare preso in braccio dal soccorritore a Ceuta, quello morto sulla spiaggia libica, quello che guarda la finestra della cabina di una funivia. Che forse sta per morire. Oggi il peggio per Eitan sembra passato. O forse deve ancora venire. Risvegliarsi a 5 anni senza genitori e fratelli è uno choc che lo segnerà per tutta la vita. Ma quando martedì il Corriere della Sera ha dato via allo spam della sua “ultima immagine” prima della strage – com’è stata presentata a ruota da ogni media – non si sapeva ancora bene se Eitan ce l’avrebbe fatta, e come ne sarebbe uscito. Tra le tante foto di bambini diffuse online ogni giorno, quella nella cabina, dove altre 14 persone hanno trovato la fine, non aggiunge nulla all’informazione: non ha valore documentale, né umano né investigativo. Non è una notizia. In quello scatto, seguito da quel titolo, non c’è rispetto che per il clic. E non è una questione di deontologia, giacché tecnicamente il sopravissuto minore è girato di spalle e irriconoscibile. Sarà pruriginosa, ma è anche una questione di discrezione, tatto, pudore, buon gusto. Se ancora contano qualcosa. Possiamo dire di non esserci accodati, per quel che vale. Forse qualcuno aveva già pronto l’album di famiglia da pubblicare. Invece è andata bene: Eitan è vivo e la sua privacy salva. Certo quell’istantanea spalmata ovunque resterà impressa in Rete e lo rincorrerà, rispuntando continuamente fuori, come il dramma che ha vissuto e vivrà. Potevamo evitargli la “delicatezza” di consegnarla al web. Da parte nostra l’augurio di scattarne di belle, di fotografie, negli anni che verranno. Da incorniciare e conservare nella memoria. E di provare, un giorno, a risalire senza paure su una funivia. Per i giornali, invece, quella della cabina della morte resterà davvero l’ultima, e unica, foto che potranno più pubblicare.

Fabio Giuffrida da open.online.com il 16 giugno 2021. Sono state diffuse le immagini delle telecamere di videosorveglianza che mostrano, per la prima volta, cosa è accaduto davvero nell’incidente della funivia che collega Stresa con il Mottarone. Una tragedia in cui sono morte 14 persone. Come mostra il video, la cabina numero 3 ha praticamente completato il suo tragitto. Poco prima dell’arrivo, però, rallenta: nelle immagini, a quel punto, si vedono i passeggeri all’interno – in tutto quindici, tra cui anche il piccolo Eitan, l’unico sopravvissuto alla strage – attendere la conclusione del viaggio, ignari di quanto sarebbe accaduto poco dopo. Improvvisamente la cabina si blocca, si impenna e inverte la rotta per tornare a scendere, a fortissima velocità, sganciata da uno dei cavi. Fino all’impatto con il pilone e la caduta (che non si vede perché avviene dietro al rilievo). Il filmato fa parte del dossier nelle mani degli inquirenti della procura di Verbania che indagano sul gestore della funivia, Luigi Nerini, il direttore di esercizio Enrico Perocchio, e il capo servizio, Gabriele Tadini. L’accusa è di concorso in omicidio colposo plurimo, lesioni colpose gravissime, falso in atto pubblico e rimozione dolosa di sistemi di sicurezza.

Mottarone, Tg3 e Tg La7 pubblicano il video con la dinamica del disastro. La procuratrice Bossi: “Scelta illegittima e inopportuna”. Il Fatto Quotidiano il 16 giugno 2021. In un filmato registrato dalle telecamere di sorveglianza e pubblicato dai due notiziari si vede la cabina che, a qualche metro dalla stazione di arrivo, si rovescia su se stessa e precipita a velocità folle per un centinaio di metri. Il magistrato inquirente ricorda in una nota come sia "vietata la pubblicazione anche parziale" di quelle immagini, "trattandosi di atti relativi a procedimento in fase di indagini preliminari", che dunque non potrebbero essere riportati integralmente sugli organi di stampa. La spaventosa dinamica della strage della funivia Stresa-Alpino-Mottarone, descritta tante volte a parole, è immortalata in un video registrato dalle telecamere di sorveglianza e pubblicato in esclusiva da Tg3 e Tg La7. La cabina numero tre dell’impianto a fune, intorno a mezzogiorno di domenica 23 maggio, si trova a qualche metro dalla stazione di arrivo. All’improvviso, con un movimento quasi fluido, si rovescia su se stessa: precipita a velocità folle per un centinaio di metri, scarrucola all’altezza dell’ultimo pilone e precipita nel vuoto. Sullo sfondo le acque del lago Maggiore. Altre immagini mostrano una persona in attesa nella stazione, che osservando il disastro, in preda al panico, si precipita di corsa fuori dalla struttura. La pubblicazione del video è stata definita illegittima e inopportuna dalla procuratrice di Verbania, Olimpia Bossi, che conduce le indagini sull’incidente. Nonostante le immagini siano atti “non più coperti da segreto in quanto noti agli indagati”, scrive il magistrato in una nota, ne è “comunque vietata la pubblicazione anche parziale” ai sensi dell’articolo 114, comma 2 del codice di procedura penale, “trattandosi di atti relativi a procedimento in fase di indagini preliminari”, che dunque non potrebbero essere riportati integralmente sugli organi di stampa. “Ancor più del dato normativo – prosegue Bossi – mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese “per il doveroso rispetto che tutti, prati processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità”. A far precipitare la vettura l’effetto combinato della rottura della fune traente e della disattivazione del sistema frenante d’emergenza per mezzo di “forchettoni” che bloccavano le ganasce. Gli indagati per omicidio colposo, al momento, sono il gestore dell’impianto Luigi Nerini, il direttore dell’esercizio Enrico Perocchio e il capo operativo del servizio Gabriele Tadini. Nelle prime ore di mercoledì i Carabinieri di Verbania, coordinati dalla procuratrice Bossi e dal sostituto Laura Carrera, si sono presentati nella sede della Leitner, la società incaricata della manutenzione dell’impianto, per acquisire i documenti relativi agli interventi svolti negli ultimi anni.

Mottarone, diffuso il video integrale: scoppia l'ira sui social.  Strage Mottarone: diffuso il video della cabina che viaggia a velocità folle prima di schiantarsi contro un pilone. Da notizie.virgilio.it il 16 giugno 2021. Divulgato il video della tragedia della Funivia del Mottarone, in cui nella mattinata di domenica 23 maggio hanno perso la vita 14 persone, dopo che la cabina n.3, spezzatosi il cavo che la trainava, ha iniziato a viaggiare all’indietro a velocità folle, senza essere bloccata dai freni fuori uso per via del “forchettone” . Dalle immagini, pubblicate dal Tg3, si nota la cabina arrivare praticamente a destinazione. Ed è proprio in quel momento che la fune cede e da avvio al drammatico incidente. Un viaggio terrificante lungo circa 300 metri e durato una manciata di infernali secondi, fino all’epilogo tragico contro un pilone della struttura della stessa funivia. Il filmato è stato registrato da due telecamere di sorveglianza della stazione a monte dell’impianto. I due video, uno ripreso dall’esterno della stazione, l’altro dall’interno, sono agli atti dell’inchiesta che sta svolgendo la Procura della Repubblica di Verbania. Nel registro degli indagati ci sono tre persone su cui pendono le accuse di omicidio colposo plurimo, lesioni gravissime e disastro dovuto a rimozione di sistemi di sicurezza. Trattasi del titolare delle Ferrovie del Mottarone, Luigi Nerini, il capo servizio Gabriele Tadini (per ora unica persona in custodia cautelare agli arresti domiciliari) e il direttore di esercizio dell’impianto, Enrico Perocchio.

Ira social: “Che senso ha trasmettere questo video?”

Sui social, tantissimi gli utenti che non hanno apprezzato la scelta del Tg3 di divulgare il video integrale della tragedia. “Ma il senso di trasmettere un video del genere?”; “Pessima cosa del Tg3 condividere interamente il video sul profilo”; “Il video della funivia che precipita? Anche no grazie, non lo guarderò”; “Mi aspetto che venga ritirato. Che pena”. Sono solo alcuni dei tweet – seguiti da molti altri – che hanno trovato poco azzeccata la decisione di trasmettere il video in forma integrale.

E poi: “Perché mostrare quel video? Cosa aggiunge, cosa racconta che già non sia stato ampiamente e non sempre garbatamente raccontato”.

Un altro tweet recita: “Questa cosa che ve la sentite di guardare la gente che muore io non la capirò mai”.

Video Mottarone: le reazioni di politici e giornalisti

Enrico Borghi del Pd ha scritto su ‘Twitter’: “Sono sconcertato dalla diffusione delle immagini del drammatico incidente della Funivia del #mottarone . Lo dico da parlamentare, da uomo originario di quei luoghi e da privato cittadino. Il dolore delle persone va rispettato, mentre in questa società lo trasformiamo in show. No!”.

Questo il tweet di Laura Garavini di Italia Viva: “Trasmettere le immagini del Mottarone vuol dire calpestare la memoria delle vittime e il dolore dei familiari. È un’offesa all’informazione di cui la Rai non può essere complice. Invito tutti a non aprire quel video. Oggi e sempre, fermiamo noi per primi la tv del dolore”.

Il giornalista Clemente Mimum ha commentato: “Ho visto e rivisto i 52 secondi dei due filmati della tragedia di Mottarone. Impossibile non rimanere sconvolti e pensare al terrore che hanno vissuto le 14 vittime. Chissà se qualcuno pagherà?

Il commento di Mario Calabresi: “Un tempo, grazie al cielo, non esistevano telecamere ad ogni angolo di strada e così non sono cresciuto con un’immagine fissa negli occhi. Penso allo strazio di chi rivivrà in continuo l’ultimo attimo di vita di una persona amata. #mottarone”.

Strage Mottarone, unico sopravvissuto il piccolo Eitan: come sta il bimbo. Unico superstite della strage del Mottarone è il piccolo Eitan, 5 anni, che “migliora ed è con la sua famiglia”. “Ed è giusto che la sua famiglia si occupi di lui mentre noi ci occupiamo degli aspetti tecnici di questa vicenda. Abbiamo l’esigenza di accertare quanto prima e nel miglior modo possibile quanto è accaduto”. Così Armando Simbari, legale che segue la vicenda processuale per il piccolo e la sua famiglia. Il bimbo giovedì scorso è stato dimesso dall’ospedale. Prima di entrare in Procura a Verbania il legale ha aggiunto che “è necessario scandagliare tutti i profili, dalla dinamica dell’incidente, alla gestione e manutenzione della funivia”.

Il Tg3 pubblica il video del crollo della funivia. È bufera in Rai. Francesca Galici il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Dal profilo Twitter del Tg3 Rai, il video dell'incidente del Mottarone in pochi minuti è rimbalzato ovunque non senza critiche, tra le quali quelle del pm. Da questa mattina circola sui social il video del momento esatto in cui la cabina della funivia del Mottarone scivola giù quando si spezza la fune traente. Si tratta delle immagini di due telecamere di sorveglianza, riprese dai carabinieri attraverso i monitor nel giorno stesso dell'incidente, trasmesse in esclusiva dal Tg3 Rai. Si vede con precisione quanto è accaduto in quei lunghi secondi, fino a quando la cabina non urta contro il pilone, che fa da trampolino, e precipita al suolo fuori dalla portata della telecamera. In tanti hanno criticato la diffusione del video, che dura poco meno di due minuti, e nel pomeriggio anche il pm di Verbania ha detto la sua, non condividendo la decisione di renderlo pubblico. "Assoluta inopportunità per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità", ha detto Olimpia Bossi. Il procuratore, quindi, ha aggiunto: "Portare a conoscenza degli indagati e dei loro difensori gli atti del procedimento a loro carico nelle fasi processuali in cui ciò è previsto non significa, per ciò stesso, autorizzare ed avallare l'indiscriminata divulgazione del loro contenuto agli organi di informazione". Un giudizio netto da parte della dottoressa Bossi, che sottolinea "si tratti di immagini dal fortissimo impatto emotivo, oltretutto mai portati a conoscenza neppure dei familiari delle vittime la cui sofferenza come è intuitiva comprensione non può e non deve essere ulteriormente acuita da iniziative come questa". Non è noto chi abbia consegnato queste immagini al Tg3 Rai. Olimpia Bossi ha specificato che il video fa parte degli atti depositati alla convalida del fermo e di applicazione della misura cautelare, ai quali gli indagati hanno avuto accesso per farne copia. Tuttavia, come ha sottolineato il procuratore Bossi, sono "immagini di cui è comunque vietata la pubblicazione, anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto nota gli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari". Al di là del lato normativo, conclude il procuratore, "mi preme sottolineare l'assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone". Nel pomeriggio è intervenuto anche Marcello Foa, presidente della Rai: "Sono profondamente colpito dalle immagini trasmesse dal Tg3. È doveroso per il servizio pubblico, in circostanze come questa, valutare attentamente tutte le implicazioni, a cominciare da quelle etiche e di rispetto per le vittime e per i loro familiari, nella consapevolezza del peso mediatico ed emotivo di ogni immagine e di ogni commento". Il presidente, quindi, ha concluso: "Quanto accaduto deve essere di insegnamento e motivo di riflessione per la Rai. Ho sempre rispettato le scelte editoriali dei direttori e mi sono sempre astenuto dal commentarle pubblicamente, ma come presidente della Rai in questo caso non posso restare in silenzio".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Funivia Stresa Mottarone, la pm Bossi dura con il Tg3: "Erano immagini vietate", il sospetto sugli avvocati. Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. La pm Olimpia Bossi ha rilasciato un duro comunicato sul servizio mandato in onda dal Tg3 della Rai in cui veniva mostrato il video dello schianto della cabina numero 3 della funivia del Mottarone. Quattordici persone hanno perso la vita in quel tragico indicente dello scorso 23 maggio: le immagini mostrate dal Tg3 sono state estrapolate dall’impianto di videosorveglianza e sono state riprese da quasi tutti le trasmissioni televisive e i quotidiani online. “Preciso che tali immagini, contenute in un file video - si legge nella nota a forma della pm Olimpia Bossi - risultavano depositate, unitamente a tutti gli atti di indagine, all’atto della richiesta di convalida del fermo e di applicazione di misura cautelare, con diritto degli indagati e dei rispettivi difensori di prenderne visione ed estrarne copia, diritti ampiamente esercitati”. Quindi potrebbe essere stato uno degli avvocati a inviare il video al Tg3, o comunque qualcuno che aveva accesso agli atti. “Si tratta tuttavia di immagini di cui è comunque vietata la pubblicazione - ha sottolineato la procura di Verbania - anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto noti agli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari. Ma ancor più del dato normativo, mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia”. 

La tragedia della funivia e la pornografia del dolore. La procuratrice: «I familiari non avevano visto quelle immagini». Tv e testate web diffondono il video della tragedia. L'ira della procuratrice Bossi: «Atto coperto da segreto». Simona Musco su Il Dubbio il 17 giugno 2021. «Quelle immagini non erano state portate a conoscenza dei familiari», dice con mestizia, in un comunicato secco ma efficace, la procuratrice di Verbania Olimpia Bossi. Immagini che durano poco più di un minuto: la cabina che sale, sembra essere arrivata a destinazione, ma poi scivola velocemente verso giù e cade nel vuoto. E dentro, visibili, le 15 persone che sono precipitate giù, 14 delle quali hanno perso la vita. Un’immagine drammatica che tutti, mentalmente, avevamo ricostruito dopo il resoconto giornalistico della tragedia della strage della funivia del Mottarone. Ma oggi alla descrizione si aggiunge qualcosa di più: il video, pubblicato in esclusiva dal Tg3 e rilanciato da tutte le testate, in una sorta di corsa alla condivisione per non rimanere indietro su nulla. Ma inaspettatamente, forse, i commenti indignati da parte degli utenti social dei canali di ognuna delle testate che hanno fatto questa scelta si sono moltiplicati in pochi secondi. Da lì ne è partita un’altra di corsa: quella a giustificare la propria iniziativa, spiegata con l’obbligo di informare. «Ecco perché abbiamo pubblicato quel video», si legge ovunque, «le immagini sono più potenti di mille parole», si aggiunge qui e lì, «nessuna delle vittime è identificabile», si prosegue. Parole che hanno il gusto di una giustificazione che, comunque, fa acqua da tutte le parti. Ma è Bossi a spiegare quanto fuori luogo, se non illegittimo, sia stato pubblicare quelle immagini, consegnate alla stampa dai carabinieri, secondo quanto sostiene il Post. Le immagini sono state estrapolate dall’impianto di videosorveglianza della funivia e messe a disposizione delle parti già a fine maggio scorso, all’atto della richiesta di convalida del fermo e di applicazione di misura cautelare. «Si tratta, tuttavia, di immagini di cui, ai sensi dell’articolo 114 comma 2 c.p.p., è comunque vietata la pubblicazione, anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto noti agli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari», spiega la procuratrice. Ma se non bastasse la legge – i giornali non si sono mai fatti problemi, d’altronde, a pubblicare qualsiasi cosa, anche se coperta dal più vincolante dei segreti -, c’è una questione etica che avrebbe dovuto spingere le testate coinvolte ad aspettare un attimo. È sempre Bossi – che pure aveva fondato sulla «risonanza internazionale» e soprattutto mediatica della vicenda il pericolo di fuga dei tre indagati – a spiegare il perché. «Ancor più del dato normativo – si legge in una nota della procura -, mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone, per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità. Portare a conoscenza degli indagati e dei loro difensori gli atti del procedimento a loro carico nelle fasi processuali in cui ciò è previsto, non significa, per ciò stesso, autorizzare ed avallare l’indiscriminata divulgazione del loro contenuto agli organi di informazione, soprattutto, come in questo caso, in cui si tratti di immagini dal fortissimo impatto emotivo, oltretutto mai portate a conoscenza neppure dei familiari delle vittime, la cui sofferenza, come è di intuitiva comprensione, non può e non deve essere ulteriormente acuita da iniziative come questa».

La procuratrice e il pomposo e del tutto inutile comunicato stampa. Il video della strage del Mottarone e la lezioncina della pm contro gli avvocati. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Giugno 2021. La dott.ssa Olimpia Bossi, loquace Procuratrice della Repubblica di Verbania, vede -come milioni di altre persone- che il drammatico video degli ultimi attimi di vita dei passeggeri della funivia del Mottarone è improvvisamente diffuso sui social. La cosa scatena reazioni forti, in assoluta prevalenza di sdegnata condanna per questa forma di autentica pornografia di una sciagura. C’è anche chi la pensa diversamente, sul presupposto che la conoscenza di un fatto realmente accaduto è almeno neutra, se non addirittura meritevole di apprezzamento. Sono opinioni tutte lecite, ognuno la pensi come meglio crede. Ma tutto è lecito attendersi, fuor che l’incredibile comunicato stampa della Procuratrice capo di Verbania, con il quale in buona sostanza sembrerebbe si sia voluto dire questo: condivido lo sdegno, quel video è sì agli atti della indagine ma sia chiaro che il mio Ufficio non ha nulla a che fare con la sua diffusione, che fermamente condanno. Piuttosto, sappiate che quel video abbiamo dovuto depositarlo e metterlo a disposizione dei difensori degli indagati, che infatti ne hanno chiesto e ricevuto copia. E qui, a seguire, la dott.ssa Bossi parte con una intemerata non richiesta e non dovuta, sul fatto che i diritti di difesa non esistono perché se ne possa abusare. Il diritto ad estrarre copia di un atto serve per conoscerlo e studiarlo, non per diffonderlo sui social. È una mia sintesi, ma credo sia perfettamente fedele al significato testuale e sostanziale del comunicato, d’altronde ampiamente diffuso. Noi avvocati riceviamo spesso queste non richieste lezioncine su cosa sia il diritto di difesa ben esercitato, e quale quello male esercitato, e di come il difensore, per sua naturale ed un po’ perversa indole, tenderebbe ad abusarne appena possibile, sicché questa ennesima, peraltro piuttosto dozzinale, potremmo farcela scivolare addosso senza particolare interesse. Ma qui il tema è un altro: che c’azzecca -avrebbe detto il famoso ex collega della dott.ssa Bossi– questo bignamino sul diritto di difesa, in quel contesto? E prima ancora: come diavolo è saltato in mente alla Procuratrice di fare questo pomposo e del tutto inutile comunicato stampa? L’unica risposta sensata, davvero l’unica, è che quel magistrato abbia voluto dire urbi et orbi, in una forma tanto implicita quanto inequivocabile, che sono stati i difensori degli imputati a diffondere quel video, così dandoli in pasto allo sdegno social-popolare. I tre Colleghi, non a caso, si sono sentiti costretti a replicare in modo molto forte e deciso, respingendo l’inequivocabile addebito. Non me ne vogliano, quegli avvocati, se affermo una banalità di carattere generale: nulla esclude che un difensore, anche contro l’interesse del proprio assistito, divulghi atti di indagine. L’amico giornalista insistente, una calcolata strategia difensiva, o quant’altro. Quello che la dott.ssa Bossi dovrà spiegare bene -perché io dico che dovrà spiegarlo, perché non posso nemmeno immaginare che non gliene venga chiesto conto- è che cosa le abbia consentito di escludere dal novero delle probabilità che il giornalista insistente potesse essere amico, chessò, di un ufficiale di PG che fa le indagini, di un dipendente della segreteria del suo ufficio o di quello del Gip, di un difensore delle parti offese, o di un collega magistrato. Dobbiamo necessariamente pensare che la Pm abbia notizie certe circa la responsabilità di qualche avvocato, perché diversamente quel pistolotto è una intollerabile, gratuita e gravissima provocazione. E aggiungo che perfino se avesse quella certezza, avrebbe dovuto fare solo una cosa: aprire in silenzio una indagine con imputazione provvisoria a carico del sospettato, non certo diffondere comunicati stampa con annesso sermone sul cattivo difensore. A meno che non ci si debba definitivamente rassegnare all’idea che le indagini penali debbano essere non più governate da rigoroso riserbo, ma invece dalla implacabile diretta streaming. In politica, lo streaming si è dimostrato una pagliacciata senza storia; ma nelle indagini penali, è pura inciviltà. Non c’è da qualche parte un superiore gerarchico (qui mi taccio) o disciplinare che abbia qualcosa da dire in proposito? Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione Camere Penali Italiane

Tragedia del Mottarone, gli avvocati: «Nessun interesse a diffondere quel video». I legali dei tre indagati non ci stanno: "Il comunicato diffuso dalla procura di Verbania attribuisce, neppure velatamente, la divulgazione di quelle immagini agli indagati e, per essi, ai loro difensori". Simona Musco su Il Dubbio il 18 giugno 2021. Alla fine la colpa è sempre la loro, degli avvocati. È quanto trapela, al di là dei passaggi condivisibili, dal comunicato della procura di Verbania, che nel deprecare la pubblicazione del filmato della tragedia della funivia del Mottarone, tra le righe (ma nemmeno troppo) attribuisce la questione all’ostensione dei filmati estrapolati dal sistema di videosorveglianza anche alle difese. Filmati di cui le difese erano in possesso sin dal 26 maggio – poco dopo la tragedia -, ma che sono stati diffusi solo recentemente, tramite una ripresa effettuata da un cellulare che il Tg3 attribuisce ad un esponente dell’Arma dei Carabinieri. A mettere i puntini sulle i sono i difensori dei tre indagati – Gabriele Tadini, difeso da Marcello Perillo, Enrico Perocchio, difeso da Andrea Da Prato, e il gestore Luigi Nerini, difeso da Pasquale Pantano. «Il comunicato stampa della procura della Repubblica di Verbania – si legge in una nota – è condivisibile quanto allo sdegno dovuto all’illegittima circolazione del video che riprende la tragedia della funivia. Tuttavia non possiamo sottacere che tutto il comunicato attribuisce, neppure velatamente, la divulgazione di quelle immagini agli indagati e, per essi, ai loro difensori. Il reiterato accenno al “diritto degli indagati” “ampiamente esercitato” di prendere visione degli atti; al “divieto di pubblicazione” “benché non più coperti dal segreto” con la chiosa che la conoscenza degli atti da parte dei difensori “non significa autorizzare ed avallare l’indiscriminata divulgazione agli organi di stampa” non lascia dubbi: sono stati i difensori». Affermazioni gravi, specie dopo una campagna di spettacolarizzazione che di certo non deriva dagli indagati. I quali, affermano le difese, «sono gli ultimi ad avere interesse alla diffusione di quel video che, nella sua drammaticità, è sicuramente rappresentativo dell’ipotesi accusatoria. Le difese, dunque, già toccate per l’anomala sostituzione del gip (tema passato in secondo piano dopo la diffusione del video, ndr), respingono con forza quell’accusa certamente diffamatoria se non calunniosa ed invitano gli inquirenti, a ristabilire un clima di serena dialettica evitando apodittiche e maliziose illazioni. Tanto era dovuto nella fervida speranza che cali il sipario mediatico e ci si dedichi definitivamente alle indagini», conclude la nota. Una precisazione dovuta, dopo aver assistito alla “giustificazione mediatica” del pericolo di fuga: bisognava tenerli in carcere, secondo l’accusa, perché l’evento aveva avuto troppa risonanza. La gip Donatella Banci Buonamici si oppose. Cos’è accaduto dopo è storia.

Il video della funivia: diritto di cronaca o giornalismo sciacallo? Era giusto pubblicare quelle immagini? Aggiungono qualcosa alla comprensione pubblica della tragedia o sono solo uno spettacolo morboso e crudele? E non è forse un esercizio ipocrita gridare allo sciacallaggio quando da decenni nuotiamo letteralmente nella “tv del dolore”? Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 19 giugno 2021. Il video della funivia di Mottarone, con le telecamere di sicurezza che inquadrano gli ultimi, drammatici momenti della cabina che cade nel vuoto della valle, ha generato una tempesta di polemiche e di interrogativi sulla deontologia del nostro giornalismo. Era giusto pubblicare quelle immagini? Aggiungono qualcosa alla comprensione pubblica della tragedia o sono solo uno spettacolo morboso e crudele? Non si tratta di un’inutile violenza nei confronti dei parenti delle vittime? O al contrario: nasconderle non significa rinunciare al proprio diritto di cronaca? E non è forse un esercizio ipocrita gridare allo sciacallaggio quando da decenni nuotiamo letteralmente nella “tv del dolore”? Domande che non possono trovare risposte univoche perché la ragione non pende quasi mai tutta da un lato. Nel mondo degli adulti non sempre trovi i buoni schierati tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra, la realtà non è una favola manichea e a volte richiede uno sforzo di immedesimazione. Per esempio: fanno bene a scandalizzarsi i parenti delle vittime: chiunque al loro posto reagirebbe indignato di fronte a quello strazio reiterato. Ma allo stesso tempo le ragioni di chi si è assunto la responsabilità di divulgare il video non sembrano pretestuose. In un certo senso sono nel giusto entrambi. Poi ci sono le valutazioni di merito, di opportunità, di decenza, anche di limite, ma riguardano la sfera individuale, lo stile che il giornalismo si vuole dare, non certo la morale pubblica. Invece, come sempre accade l’opinione si è divisa a metà, due fazioni simmetriche e munite di elmetto duellano da giorni, insultandosi, gridando chi all’indecenza cannibale de mezzi d’informazione chi all’ipocrisia e alla censura. Anche nella nostra redazione la vicenda ha acceso un vivo confronto e, per ragioni di sensibilità, abbiamo scelto di non pubblicare quel video. Ma la deontologia non c’entra. Sarebbe stato del tutto legittimo metterlo in rete, come ha fatto la stragrande maggioranza dei media a cominciare dal servizio pubblico. Accantoniamo per il momento le accuse lanciate dalla procuratrice di Verbania Olimpia Bossi che cita l’articolo 114 del Codice di procedura penale sul divieto di rendere noti atti non coperte dal segreto prima della fine delle indagini preliminari. Tecnicamente è nel giusto (l’Agcom sta peraltro verificando se la Rai abbia rispettato il contratto di servizio), ma quante volte giornali, tv e altri media hanno infranto le regole, magari per proteggere una fonte anonima, o, nel caso contrario, nel divulgare intercettazioni messe in quel caso a disposizione dalle stesse procure? Oppure, come nel caso di Mottarone, nel diffondere una testimonianza visiva che ritengono importante? Probabilmente il video della funivia che sprofonda giù nel vuoto non ha un grande valore giornalistico (di certo ha un valore investigativo per gli inquirenti) ma non è un’imposizione: siamo tutti liberi di non guardare quella sequenza da film horror, di “cambiare canale” come si diceva un tempo. Ma difficilmente cambiamo canale, anzi, non lo abbiamo mai fatto. Dalla tragica morte di Alfredino Rampi avvenuta oltre quarant’anni fa come una diretta televisiva durata oltre 36 ore, lo “spettacolo” della morte ha inondato i nostri schermi, ha accompagnato le nostre serate, esteso a dismisura la nostra soglia di tolleranza. Abbiamo sezionato cadaveri, osservato a loop le scene più spaventose e catastrofiche del nostro tempo, l’uccisione di Muammar Gheddafi, selvaggiamente linciato dalle milizie di Misurata, l’impiccagione di Saddam Hussein trasmessa praticamente in mondovisione o lo scempio del cadavere dei suoi figli Uday e Qusay da parte dei marines americani. Pensiamo alle truculente decapitazioni degli ostaggi di al Qaeda come il povero Daniel Perle, o alle ossessive messe in onda degli attentati dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center di New York. Quante volte abbiamo visto le vittime gettarsi nel vuoto per non venire mangiate dal fuoco che stava divorando le torri gemelle? Poi ci sono i grandi casi di cronaca nera con i relativi “mostri” e le vittime uccise mille volte dalle occhiute ricostruzioni dei programmi più “pulp”, i dettagli morbosi illuminati solo per ottenere audience, i plastici, i criminologi di latta, le raccapriccianti interviste realizzate a caldo ai familiari dei defunti. Uno show ininterrotto in cui la morte è la protagonista assoluta Con l’avvento dei social-network, che trasformano questo show in uno spettacolo globale, pensare di censura per giornali e televisioni è semplicemente impossibile, per non dire ridicolo. Spetta alla sensibilità individuale di chi fa questo mestiere selezionare il materiale che ha tra le mani, separare l’utile dal superfluo, le informazioni dal gossip, le notizie dalle patacche. E assumersi sempre la responsabilità delle proprie scelte.

L’osceno Var della strage del Mottarone e leggi che la stampa la viola regolarmente…La pubblicazione di quei filmati è un atto illegale che deve essere sanzionato Il punto è che tale illecito viene punito con multe risibili. Cataldo Intrieri su Il Dubbio il 19 giugno 2021. Quarant’anni dopo la morte in diretta da Vermicino del povero Alfredino vegliato oscenamente nella sua disperata agonia da un popolo di voyeur, arriva, in parallelo con lo sviluppo tecnologico, il VAR di una strage. Assistiamo tutti ipnotizzati alla ripetizione rallentata degli ultimi istanti delle povere vite umane intrappolate nella funivia e spazzate via, immaginandoci cosa debbano aver provato nel momento in cui si sono sentite mancare la terra sotto di loro, i lunghi istanti del volo finale prima dello schianto. La cosa più oscena non sono tuttavia le immagini ma i commenti con cui tutti i responsabili dei media (tra le poche eccezioni questo giornale) hanno giustificato la scelta “pecorona” di accodarsi al tg 3 nel pubblicare la sequenza. Retorica a fiumi e solenni richiami al diritto di cronaca, senza avere il coraggio di ammettere che l’unica molla era una manciata di click e copie in più cui in questi tempi di magra non si può rinunciare. Spiccano tra le giustificazioni quelle del quotidiano di Torino diretto da Massimo Giannini, che una volta prima della svolta anti-5 stelle  del giornale dove allora scriveva (La Repubblica) guardava con simpatia al populismo giudiziario dei seguaci di Grillo e Casaleggio( non è un mistero che a votarli furono anche insospettabili liberals “ de noantri” come Galli della Loggia, lui almeno confesso).Scrive il commento di accompagnamento de La Stampa “ che la potenza delle immagini…che non lasciano spazio ad irricevibili guardonismi ( sic!) è più forte di mille parole e chiarisce come l’intervento dei freni avrebbe potuto impedire il disastro. “Dopo la morte alla moviola abbiamo la sentenza in presa diretta, senza quelle inutili formalità come perizie e processi, roba da “impunitisti “come direbbe un altro cristallino liberal come Enrico Letta. Secondo Giannini “la scelta di disarmarli (i freni) ha avuto come conseguenza ciò che si vede” e se qualcuno non avesse capito lo spiega lui: il filmato “definisce una responsabilità umana di cui sarà necessario chiedere conto”. Toni che sarebbero stati bene in bocca ad un Saint Just o ad un Viscinski, quando invocavano la ghigliottina ed i gulag per direttissima contro i nemici della rivoluzione, invece li usa il direttore di un giornale democratico e liberale. Per combinazione di taglio nella stessa pagina vi è un commento sulla questione dell’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati che spiega come in realtà il profilo delle responsabilità sia una cosa assai più complessa di come la metta giù l’ottimo Giannini. Ad esempio prima di attribuire la patente di infamia e di colpevoli bisognerebbe stabilire “oltre ogni ragionevole dubbio” che sarebbero bastati i freni ad evitare la tragedia ed ancora come sottolinea l’ex magistrato che l’evento fosse prevedibile per i responsabili. Tutte cose un po’ tecniche e assai difficili (come gli effetti dei vaccini) su cui occorrerebbe si pronunciassero prima non dico qualche straccio di giudice ma almeno un perito. Certo le mani prudono di fronte alle immagini ma la ragione ronza fastidiosamente nella mente umana e dovrebbe frenare l’istinto, almeno per un illuminato liberal. Se non bastasse il parere di Bruti c’è anche l’opinione del procuratore capo di Verbania, Olimpia Bossi, che in un comunicato in cui, tanto per cambiare, riversa sui difensori l’addebito di aver diffuso i filmati (forse per alimentare la “giocosa macchina da linciaggio” dei propri assistiti) ma dice una cosa, una volta tanto, condivisibile. La dottoressa Bossi spiega correttamente che l’art. 114 del codice di procedura penale vieta la pubblicazione non solo degli atti di indagine espressamente coperti da segreto ma anche di quelli depositati ai difensori che non possono comunque essere divulgati alla pubblica opinione. È  una tesi cara agli avvocati ed ai garantisti : mi è capitato di scriverne  in un’altra vicenda assai meno drammatica , quella degli esami taroccati del calciatore Luis Suarez di cui vennero diffusi verbali e filmati mentre erano in atto ancora le prime investigazioni. Qualcuno eccepirà che i filmati non sono atti di indagine priori della polizia ma documenti in possesso di un indagato e come tali pubblicabili secondo anche una sentenza della Cassazione. Non è questo il punto: non si tratta di pubbliche registrazioni utilizzabili da chiunque ma registrazioni ad uso privato come quelle delle video-camere di sicurezza che secondo la legge e le direttive del garante della privacy (protezionedatipersonali.it/videosorveglianza-e-tutela-dei-cittadini) hanno finalità strettamente limitate e non sono divulgabili. Su tale tesi procure ed organi di polizia hanno fatto sempre orecchie da mercante perché avrebbe stroncato sul nascere il fiorente mercato dei verbali clandestini e delle intercettazioni, telefoniche ed ambientali, ai giornalisti amici. Invece è proprio così e correttamente sul punto lo spiega la procura di Verbania: la pubblicazione di quei filmati è un atto illegale che deve essere sanzionato in quanto gli atti di indagine segreti e non devono restare riservati sino almeno alla richiesta di rinvio a giudizio e non pubblicabili neanche per estratti parziale fino a che degli stessi non venga a conoscenza il giudice nel processo. Il punto è che tale illecito viene punito con multe risibili per cui i giornali se ne infischiano e pubblicano impunemente la vita intima come la morte oscena di poveri cittadini, sia imputati che vittime. State certi che di fronte a sequestri di copie e siti, oltre che del pagamento di salatissime sanzioni, i cultori della libertà di stampa sarebbero ben attenti: non sarebbe male che uno degli emendamenti alla riforma penale di Cartabia se ne occupasse. Un’ultima cosa: colpisce stamani la diffusa auto-solidarietà e l’indulgenza plenaria della stampa al gran completo sulla questione. Non mancano speciosi distinguo da pseudo giuristi: il segnale che in questo paese, liberali o meno, alla fine contano interessi di prossimità. Sostiene uno che se ne intende come Giuliano Ferrara che la rivoluzione (liberale e non) in Italia non sia possibile: “ci conosciamo tutti”. Credo ci sia del vero.

Perché ho deciso di pubblicare il video della funivia del Mottarone e non la foto di Eitan prima del crollo. Fabrizio Capecelatro il 17/06/2021 su Notizie.it. Difendo il mio dovere di giornalista di pubblicare il video del disastro della funivia del Mottarone perché spiattella in faccia a me e ai miei lettori le conseguenze della nostra incuria. Come tutti i direttori di giornale, nella giornata del 16 giugno mi sono dovuto interrogare se il video del disastro della funivia del Mottarone diffuso dal Tg3 andasse ripubblicato e, dopo l’insorgere delle polemiche, se non fosse necessario rimuoverlo, scusandoci con i lettori. Ho subito scartato questa seconda ipotesi perché sarebbe stato come voler fare la “verginella” dopo aver partecipato a un’orgia. Quella decisione andava presa prima, quando dalla redazione mi avevano chiamato per sapere se procedere oppure no, e poi la scelta, ponderata, andava mantenuta e difesa. E non ripensata quando è montata, sui social network, la caccia alle streghe di chi, dopo aver visto il video, criticava chi lo aveva pubblicato, sostenuti da un’inutile comunicazione della Procura di Verbania che, dopo non essere riuscita a tutelare una prova agli atti dell’indagine, ne richiedeva la non pubblicazione. Prima di dare il mio consenso alla pubblicazione di quel video su Notizie.it ho ragionato, con la velocità che il giornalismo digitale richiede, su come ci si era comportati in passato nel giornalismo e, così, mi sono ricordato delle immagini, agghiaccianti come quelle mostrate nel video della funivia, delle persone che dalle Torri Gemelle preferirono lanciarsi nel vuoto per avere almeno il diritto di scegliere come morire. Mi sono ricordato i vari video e la foto, divenuta simbolo di quel disastro, del camioncino della Basko fermo pochi metri prima del dirupo causato dal crollo del ponte Morandi. Anche quelle immagini, così come contestato del video della funivia del Mottarone, cosa aggiungevano alla comprensione dei fatti? Innanzitutto è, come detto, una prova agli atti della Magistratura e pertanto ha evidentemente una sua rilevanza nella ricostruzione di quel disastro, in cui sono morte 14 persone. Quel video è, infatti, una testimonianza diretta di quanto accaduto e pertanto, se è utile agli inquirenti per ricostruire, perché non dovrebbe essere altrettanto utile ai lettori per capire? Per capire innanzitutto quali sono le conseguenze dell’incuria che ciascuno di noi può applicare nello svolgimento del proprio lavoro o delle proprie attività quotidiane. Parliamoci chiaro: quello che è successo alla funivia della Mottarone non è una tragedia, ma la conseguenza dei comportamenti scorretti mantenuti dai lavoratori e, probabilmente, anche dalla proprietà della funivia che, un po’ per incuria, un po’ per profitto, hanno aperto un impianto che, alle lacune di quanto accaduto, sicuramente doveva essere chiuso. Allo stesso modo di come il crollo del ponte Morandi fosse conseguenza di un inefficiente sistema di manutenzione delle strade, questo disastro è frutto di precise responsabilità che la Magistratura accerterà. Il primo, però, è ormai certo che sia da attribuire alle grandi società e alla loro ingordigia, mentre questo più probabilmente all’incuria di semplici dipendenti. Oltre all’evidenza che dopo un anno e mezzo di incertezze e paure, in cui da un momento all’altro ci siamo riscoperti vulnerabili e incapaci di domare la natura, siamo stanchi di riscoprire ogni volta che la morte può entrare all’improvviso nella nostra vita, a darci fastidio di quel video è lo spiattellarci in faccia il rischio delle nostre azioni commesse con superficialità e negligenza. Quante volte ciascuno di noi, nello svolgere il proprio lavoro o altre attività, si è detto “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. E così il medico rimanda a casa il ragazzo di 24 anni che accusa un dolore alla gola e alla testa, che poi muore per una leucemia fulminante; il poliziotto non prende la denuncia della donna che ha paura dell’insistenza dell’ex, che poi la uccide; il muratore aggiunge poca calce al cemento per finire prima il lavoro e poi, alla prima scossa di terremoto, la casa crolla. Noi stessi rimandiamo il tagliando dell’auto presi da altri impegni e magari causiamo un incidente, sporgiamo troppo il vaso dal balcone, pensando “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. Poi le cose succedono, all’improvviso, da un momento all’altro, una delle prime domeniche di sole dell’anno, all’indomani delle tanto agognate riaperture dopo un anno e mezzo di lockdown alternato. Ma ormai è troppo tardi. Allora sì, difendo il mio dovere di giornalista di spiattellare in faccia a me stesso e ai miei lettori le conseguenze della nostra incuria, la pericolosità di quel “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. E se questo servirà a sensibilizzarci affinché la prossima volta, prima di pronunciare quella frase, ci pensiamo un po’ su e magari ricontrolliamo meglio il nostro, ci atteniamo alle regole e ai protocolli, allora avrò assolto due volte al mio compito di giornalista: avrò informato, affinché non ricapiti. Soltanto qualche giorno prima, il 26 maggio, mi era stata posta dalla mia redazione una domanda molto simile: “Hanno divulgato la foto del bambino che si è salvato da quel disastro prima che la funivia crollasse. Che facciamo, la pubblichiamo?”. In quel caso risposi di no, pur rinunciando a qualche lettore, perché quello era un inutile accanimento, una perversa bramosia di entrare nell’intimo delle persone, quella era la morte del giornalismo. Ma quella foto, a differenza del video del crollo, non aggiungeva nulla alla ricostruzione dei fatti (e infatti non mi risulta sia negli atti processuali, come il video) e soprattutto non dimostrava nulla, se non che quel bambino era felice prima che l’incuria di noi grandi si abbattesse su di lui.

DAGONOTA il 17 giugno 2021. Non si dovrebbe mai perdere tempo a spiegare perché si dà una notizia. I giornalisti questo fanno, o dovrebbero fare. Ma vista l’assurda e incomprensibile shitstorm piovuta sulle testate che hanno pubblicato il video della tragedia del Mottarone è necessario spendere due parole. I twittaroli che ieri hanno manifestato orrore e indignazione per quel filmato dovrebbero chiedere conto ai giornali delle notizie che non danno e non di quelle che giustamente pubblicano. In secondo luogo: quanti dei censori social, che ieri hanno storto il naso e puntato il ditino evocando addirittura la morte del giornalismo, hanno fatto lo stesso quando le grandi testate hanno mostrato il morente George Floyd o il ponte Morandi che si sbriciolava con 43 persone inghiottite dalle macerie? Che dire della foto del piccolo Aylan Curdi morto sulla spiaggia? Aggiungeva qualcosa al dramma dei migranti? Per noi sì, come “aggiunge qualcosa” ogni testimonianza, immagine o video che racconta la realtà anche nella sua crudezza, perché non usiamo doppie morali. A differenza di chi condivide e diffonde quelle immagini soltanto quando sono funzionali alla loro battaglia ideologica o politica.

Gianluca Nicoletti per “La Stampa” il 17 giugno 2021. Da ieri è oggetto di aspro dibattito il video che documenta gli ultimi attimi prima dello schianto della cabina 3 della funivia del Mottarone. È in discussione l'opportunità di aver diffuso quel filmato nei telegiornali e nell' informazione sul web. Da una parte è invocato il dovere di integrare con quelle immagini una tragedia che è stata per giorni al centro di tutte le cronache. Dall' altra si invoca il rispetto per le 14 vittime di quel disastro, come dei familiari sottoposti all' atrocità di vedere moltiplicato ovunque l'episodio che rappresenta l'epicentro del loro dolore. Sono 59 secondi in cui è, senza dubbio, possibile rivivere emotivamente il passaggio violento dall' essere ignari partecipi di un'escursione, a tracollare sul fondo della cabina che si impenna all' improvviso, per poi ritornare a folle velocità verso valle fino allo schianto contro un pilone. Non si può fare a meno di essere trapassati dall' angoscia per quelle persone che non saranno più vive nel giro di pochi secondi. È veramente di poca importanza cercare di risalire a chi abbia avuto interesse perché quel video fosse diffuso. Qualcuno che ne era in possesso lo ha messo in circolazione, il file era disponibile per tutte le parti coinvolte nell' inchiesta sull' incidente, sia come presunti responsabili quanto come parti lese. Non si può fingere di non sapere quanto sia oramai irreale pensare che, un documento video di questa rilevanza, possa essere ignorato da chi ha il compito di informare. Il video testimonia in maniera inequivocabile quello che per settimane è stato ricostruito attraverso infografiche, non si può certo immaginare che un tassello di realtà così fondamentale potesse essere ignorato. Come ha poco senso disquisire se sia stato più corretto chi si è fatto lo scrupolo di pixellare i volti degli esseri umani, nei primi frame in cui erano chiaramente visibili, o chi invece lo abbia trasmesso senza alcun filtro, considerando tale attenzione solo un maldestro voler edulcorare la propria responsabilità. Sono tutti filoni per accendere interminabili dispute da social opinionismo. È facile immaginare lo spostarsi della discussione su piani ideologici; qualcuno tirerà sicuramente in ballo il politicamente corretto a senso unico, il cinismo dei giornalisti, il disprezzo per la dignità degli esseri umani. Forse basterebbe ricordare che nessun atto che avvicini alla verità può ledere chi perde la vita a causa di un crimine. È vero che la verità si accerta nei tribunali e non nei giornali, è sacrosanto e questo accadrà. È anche vero che fornire ai propri lettori, teleutenti o follower che siano, elementi che aiutino a misurare, nella sua effettiva entità, una sciagura sicuramente causata da negligenza umana è un atto che ribadisce, per le stesse vittime, il diritto ad avere giustizia.

Valeria Braghieri per “il Giornale” il 17 giugno 2021. Erano arrivati. Era il momento in cui ci si gira verso le porte in attesa dell'apertura. Mascherine, zaini sulle spalle e schiena dritta: pronti a scendere. Ma non arriva nessun centimetro di contatto. La cabina tre non tocca la banchina. Si blocca, torna indietro e si impenna. Inizia il suo brevissimo viaggio a ritroso, sparata a tutta velocità, in esilio da qualsiasi geografia e tragitto. Come se stesse prendendo la mira oltre il bersaglio. Urta il pilone, il cavo si stacca e la cabina tre precipita nel vuoto. Con tutti quanti dentro: quindici passeggeri, quattordici morti, tranne Eitan, il bimbo israeliano rimasto orfano e senza fratello. Ce lo siamo sempre immaginati così. Ma vederlo così è tutta un'altra storia. Buca il vuoto e il cielo le si arriccia attorno, come i lembi di un fazzoletto che si chiudono con un peso al centro. Si sente la tensione che precede l’irreparabile. Perché conosciamo già la fine e perché in quella manciata di secondi l'aria si tende di irreale. E poi scricchiola di tragedia. Ce lo siamo sempre immaginati così. Ma vederlo così è tutta un'altra storia. Ieri è stato chiaro davvero cos'è successo il 23 maggio scorso alla funivia del Mottarone. Le immagini raccolte dalle telecamere di videosorveglianza sono andate in onda al Tg3 e sono subito rimbalzate sui siti e sulle altre tv. Non avrebbero dovuto essere rese pubbliche, ma sono «uscite». Non le avevano mai viste neppure i parenti delle vittime. Perché fanno sussultare e svuotano. Il Procuratore della Repubblica, Olimpia Bossi, ieri ha fatto un comunicato stampa, per spiegare che la pubblicazione delle immagini è vietata, trattandosi di atti relativi a un procedimento in fase di indagini preliminari. «Ma ancor più del dato normativo» diceva la Bossi «mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone, per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti, e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità». Anche la Rai si è «spaccata» sulla decisione del Tg3 di divulgare le immagini. C' è chi ha parlato di «scelta macabra» e lo stesso Marcello Foa, presidente della Rai, si è detto «toccato dalle immagini» e ha spiegato che il servizio pubblico avrebbe dovuto tener conto «dell'impatto emotivo» di quel filmato. Mentre dalla redazione della Terza Rete giustificavano la diffusione del video spiegando che «aggiunge qualcosa in più alla comprensione della tragedia». Opportunità e sensibilità, insomma. Ognuno le proprie. Ma intanto stringe lo stomaco quella cabina che cambia rotta. E quell' impennata, che deve averli scaraventati tutti gli uni addosso agli altri, per poi partire all' impazzata verso lo schianto. Non si sente nulla, ma sentiamo lo stesso le grida fino al terrore che va a comprimere i polmoni e a renderli afoni. E noi non siamo quelle madri, quei padri, quei fratelli... Erano arrivati. Praticamente arrivati. A guardarli oggi, sapendo cosa c' è dopo, viene da tendere le mani da quella banchina mai toccata per afferrarli, agganciarli in qualche modo, tenerli. «Tenere» è il verbo che salva. Sempre. Viene voglia di sdraiarsi sul cemento e di agganciare in qualche maniera disperata quella bara di metallo prima che si lanci a tutta velocità. A guardarli oggi, a fare senso più della morte, è la vita. Vedere la vita che c' era fino a pochi istanti prima. L' uomo con lo zaino sulle spalle e la mascherina sulla bocca che si volta verso l'uscita per scendere. È quello lo sgomento. Lo sgomento è la vita. A far senso è la vita. Vederla ignara, stagliata sul destino.

Quando la morte va in diretta: cosa c'è dietro la "pornografia del dolore". Angela Leucci l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Stefano Cristante analizza come i media sono cambiati di fronte alla cronaca nera, seguendo forse le aspettative del pubblico: da Alfredino Rampi a Denise Pipitone. Alfredino Rampi, Sarah Scazzi, Noemi Durini, Denise Pipitone. Sono i nomi di quattro bambini e ragazzi legati dalla cronaca nera e da una presunta ingerenza mediatica sulle loro storie, che ha innescato un interrogativo fondamentale: quali sono i limiti tra diritto di cronaca e invadenza della stampa? Per capirlo bisogna fare un passo indietro e andare per un attimo oltre i confini dell’Italia. Nel 1980, quindi un anno prima della vicenda di Alfredino, Bertrand Tavernier girò un film dal titolo “La morte in diretta”. Il film di Tavernier raccontava di un’emittente pronta a documentare la morte di una donna a mo’ di reality show. E Tavernier previde così che il modo di fruire la televisione stava cambiando, soprattutto per quando riguarda il rapporto tra verità in diretta e dolore. Gli intellettuali, si sa, sono lungimiranti: forse qualcosa era nell'aria, forse qualcosa stava cambiando nei meccanismi della narrazione mediatica? Il 10 giugno 1981 Alfredino precipitò in un pozzo nei pressi della seconda casa di famiglia nei pressi di Vermicino. La Rai mandò a reti unificate una lunghissima diretta di 18 ore che tenne incollato il pubblico allo schermo. Ma Alfredino non uscirà mai vivo da quel pozzo. Il 26 agosto del 2010 scomparve invece ad Avetrana la giovanissima Sarah Scazzi. Il suo corpo sarà ritrovato solo il 6 ottobre successivo dopo la prima confessione dello zio Michele Misseri: l’annuncio del ritrovamento giunse alla famiglia quella stessa sera, durante una diretta di “Chi l’ha visto?”. Anni dopo, nel settembre 2017, avvenne la sparizione di un’altra adolescente, Noemi Durini. Dopo giorni di ricerche e indagini, ci fu la confessione del suo killer, Lucio Marzo, e il ritrovamento anche in questo caso del corpo, con un dettaglio agghiacciante: Noemi era stata sepolta viva. I genitori di Marzo appresero della confessione e del ritrovamento in diretta: fu un momento stridente sebbene molto probabilmente casuale, perché, come talvolta accade, si allontanò l'attenzione dalla vittima e la si spostò sul suo carnefice e i parenti di lui. La posizione dei genitori di Lucio, di recente iscritti nel registro degli indagati per occultamento di cadavere, è stata archiviata. L’ultimo tassello della cronaca nera in diretta riguarda invece il caso di Denise Pipitone. Scomparsa da Mazara del Vallo il 1 settembre 2004, di recente sono state riaperte le indagini sulla sua sparizione. Nelle scorse settimane, è stata perquisito il garage della vecchia abitazione in cui vivevano Anna Corona e Jessica Pulizzi, ex moglie e figlia di Piero Pulizzi, padre naturale di Denise. Non si sa cosa cercassero gli inquirenti, ma le ricerche sono state accompagnate da una lunga diretta Facebook di una testata locale fuori dalla porta del garage, rilanciata poi da alcune testate nazionali. “I nostri smartphone ci chiedono solo di essere accesi e di essere portati con noi”, spiega a IlGiornale.it Stefano Cristante, docente di Sociologia della comunicazione all’UniSalento - dov'è anche presidente del corso di laurea in Scienze della comunicazione e delegato del rettore alla comunicazione istituzionale - e direttore della rivista internazionale “Hermes, Journal of Communication”.

Professor Cristante, come mai nel caso di Alfredino Rampi si scelse di mandare in onda, a reti unificate, le operazioni di soccorso?

“Non credo che l’obiettivo della diretta televisiva a reti unificate della Rai il 10 giugno del 1981 fosse quello di tenere inchiodati più di 20 milioni di telespettatori a una morte in diretta: in verità, prima che arrivassero le telecamere, tutto faceva pensare che si sarebbe potuto far vivere alle masse italiche un grande lieto fine, con il salvataggio di un bambino documentato dalla tv di Stato. Invece l’epica dell’impresa salvifica dovette lasciare posto alla costruzione narrativa di una tragedia. Questo cambio modificò la tv e modificò il pubblico. La partecipazione tragica è fatta di condivisione di dolore, un cemento persino più forte della gioia per un evento positivo. La diretta sulla morte di Alfredino fu il contraltare della conquista della luna del 1969. Un’impresa enorme, costosissima, memorabile, giocata nello spazio cosmico. E molti italiani parteciparono all’evento seguendo la tv. Invece l’episodio di Vermicino riguardò un anfratto apertosi nelle nostre terre, uno scivolamento in basso verso le viscere del pianeta e un bambino piccolo, di nemmeno dieci anni. Per la prima volta i produttori televisivi si resero conto che la dimensione narrativa era più importante del contesto e della gravità intrinseca della questione. Nel caso di Vermicino il set si dispose quasi naturalmente intorno alle telecamere: e quando arrivò l’amatissimo presidente Sandro Pertini la comunità nazionale ebbe anche il sigillo formale della propria sovrapposizione con lo Stato. Si poteva essere popolo anche attraverso la tv e la sua implacabile istanza documentale”.

Ne seguì una riflessione sull’invadenza della tv. Il fenomeno però continua a oggi in forme diverse?

“Credo che la tragedia di Vermicino abbia segnato un punto di non ritorno per la storia della tv. Chi parlò all’epoca di pornografia del dolore volle mettere in primo piano il cinismo dell’operazione, ma si trattò di atteggiamenti intellettuali ben poco comprensibili. La tv aveva invece intercettato un desiderio autentico di presenza e partecipazione popolare agli eventi: senza dubbio da allora questo desiderio si è ampliato, anche perché la tv stessa ha esteso enormemente la propria programmazione oraria diventando un produttore di immagini e suoni lungo le 24 ore di ogni giornata. La diretta della strage della Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 modificò ulteriormente il fenomeno, riportando a una visione globale della diretta tv e recuperando le modalità della visione dell’allunaggio. I sociologi Dayan e Katz dedicarono nei tardi anni ’80 un libro importante ai ‘media event’, che il traduttore italiano tradusse con l’efficace espressione di ‘grandi cerimonie dei media’. Vi è – secondo gli studiosi – una trasmigrazione del sacro nei grandi media event, che vanno studiati seguendo analisi sofisticate e particolari, proprio perché si staccano dalla quotidianità audiovisiva d’abitudine e mettono in condivisione il nuovo patrimonio condiviso dell’umanità, che non sono più le opinioni ma le emozioni”.

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Quale può essere su una famiglia o su una comunità l’impatto mediatico di un fatto di cronaca vissuto in diretta, come fu ad esempio per Sarah Scazzi?

“Certamente le comunicazioni in diretta televisiva hanno un impatto maggiore sui protagonisti di qualunque altra modalità di informazione. E nel caso della madre di Sarah Scazzi che viene informata in diretta della morte della figlia vi fu un’impreparazione evidente da parte giornalistica. Ma il punto resta quello che dicevamo prima: attorno al medium tv si sono costruite comunità provvisorie enormi che hanno accompagnato la modifica del rapporto ‘evento-rappresentazione-emozione pubblica’”.

La Procura di Marsala ha riaperto le indagini sul caso Pipitone e la perlustrazione di un garage è stata trasmessa in tempo reale su Facebook. Come Internet e i social stanno modificando il fenomeno?

“Ora la tv non è più così centrale nella mente degli individui, perché ci sono altri media che consentono un pieno possesso partecipativo senza dover stare davanti alla tv. I nostri smartphone ci chiedono solo di essere accesi e di essere portati con noi. È cambiato perciò di nuovo tutto l’equilibrio della partecipazione”.

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Quali sono i confini tra l’informazione e la cosiddetta “tv del dolore”?

“In generale, nella rappresentazione audiovisiva non ci sono più confini netti tra i generi. I palinsesti sono più morbidi e rigiocabili nell’arena dei recuperi, consentiti dalle Teche Rai e soprattutto dalla collocazione on line di una massa crescente di materiali televisivi. La tv è di fatto un ingrediente dei social, e i social sono trattati dalla tv come fonte. Non finirà certo qui. Il totem tv è in fase di smontaggio e rimontaggio, sempre più costretto a fare i conti con il desiderio di personalizzazione dei consumatori, indotto dalla percezione dei social e alla loro grammatica. Di tanto in tanto elementi comunitari attireranno di nuovo l’attenzione popolare e si ricostruiranno comunità di persone che abbandoneranno le cose che stavano facendo per gettare se stesse nella visione di un evento. Forse un elemento da tenere presente è il gigantismo fisico delle tv di nuova generazione, che occupano uno spazio bidimensionale ma davvero ampio. Lo sport televisivo, in questo senso, sta cambiando di nuovo natura, consentendo agli schermi di farci assistere quasi fisicamente a ciò che accade. Ma i social ci seguono anche in bagno, anche a letto, ovunque noi stiamo: alla tv resta la sottolineatura, l’evidenziazione e la cornice cognitiva. Non è poco, naturalmente. E il dolore ne resta protagonista. Ma la tendenza vera è la contaminazione tra media e la ‘socializzazione’ della tv, cioè il suo obbligo a fare i conti costantemente con i social".

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Gino Girolimoni non era il “mostro”. Ma Il processo mediatico gli distrusse la vita. Accusato e assolto dell'omicidio di 4 bambine che sconvolse l'Italia fascista, il suo nome rimane ancora oggi un marchio d'infamia. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 7 giugno 2021. Più che un nome un aggettivo: “Girolimoni”, ossia il mostro di Roma, l’autore dei barbari omicidi di quattro bambine che scossero Italia fascista. Ogni romano di una certa età ancora oggi utilizza quell’espressione quando dalle acque torbide della cronaca nera emerge il delitto a sfondo sessuale di un minorenne. E poco importa che il signor Gino Girolimoni fosse un uomo innocente: nell’immaginario collettivo quel nome è un marchio d’infamia, che corrisponde alla sinistra nomea del pedofilo. Un’antonomasia. Siamo nel 1924, Mussolini ha preso il potere da due anni e l’immagine che vuole dare di sé e del suo regime deve essere rassicurante. Nei cinema da lì a poco avrebbero furoreggiato le commedie dei Telefoni bianchi, storie di borghesi e nobildonne alle prese con i piccoli tormenti del cuore in una cornice ammantata di benessere e finta spensieratezza. Saranno i brutali omicidi delle bambine romane a incrinare quel quadretto idilliaco. Quando il 31 marzo viene ritrovato in un fosso di Monte Mario il corpo della piccola Emma Giacomini (aveva 4 anni) i giornali prestano un’attenzione relativa a quel tremendo delitto. La bambina era stata adescata in un giardino pubblico -raccontano i testimoni- da un elegante e slanciato signore con i baffi vestito di grigio, il suo cadavere presentava evidenti segni di violenza. Tre mesi dopo un altro agghiacciante delitto: Bianca Carlieri detta “Biocchetta”, tre anni, giace senza vita in un fosso a poche decine di metri dalla Basilica di San Paolo fuori le mura. Anche lei prima di venire uccisa aveva subito abusi. Ormai nessuno può più ignorare quell’orrore, e i media di regime cambiano atteggiamento: bisogna trovare il “mostro” e bisogna farlo il prima possibile, ci mette la faccia il Duce in persona che convoca il capo della polizia Arturo Bocchini e promette giustizia. La settimana precedente era stato ucciso il deputato socialista Giacomo Matteotti e gli efferati crimini del “mostro” sono anche un’occasione per distogliere l’attenzione popolare sulla deriva autoritaria che il nostro Paese stava vivendo. Così in tutta la capitale si scatena una gigantesca caccia all’uomo fatta di paranoiche segnalazioni di improbabili orchi e maniaci avvistati un po’ ovunque. Intanto però gli omicidi continuano. A novembre un’altra bambina, Rosa Pelli, 4 anni, viene rapita e uccisa con lo stesso metodo; il corpo è rinvenuto nei pressi di piazza S.Pietro. In città dilagano la psicosi e l’emozione: ai funerali, raccontano le cronache, partecipano più di 100mila persone mentre altri macabri ritrovamenti avvengono nei mesi successivi. A maggio Elisa Berni, 6 anni, che giace sul ciglio del Tevere ancora in vita ma in stato di choc, ad agosto Celeste Tagliaferro su ponte Michelangelo, appena un anno e mezzo, anche lei era stata risparmiata. L’ultima vittima è Armanda Leonardi, 5 anni, uccisa e ritrovata in un giardino dell’Aventino. Le indagini si concentrano sul mondo slabbrato delle borgate, vengono fermati senza tetto, malati psichiatrici, pregiudicati per reati sessuali, poveri diavoli, Eppure le descrizioni parlano di un uomo ben vestito dall’aria benestante, bisogna cercare altrove. Il ministero dell’Interno mette una taglia di 50mila lire (circa 45mila euro di oggi) le denunce arrivano a migliaia nei commissariati ma senza alcun esito.La svolta nella primavera del 1927: viene fermato un ragazzo di 28 anni, Gino Girolimoni, un mediatore di cause per infortuni sul lavoro con l’hobby della fotografia. Lo ha riconosciuto un brigadiere di servizio in uno dei quartieri dove era stata rapita una bambina. Lo conosceva bene: erano nello stesso reggimento durante la Prima guerra mondiale e lo vedeva spesso aggirarsi nei parchi pubblici, una volta aveva anche parlato con una ragazzina di 12 anni con fare sospetto.Girolimoni viene fermato, portato al commissariato di Borgo dove decine di testimoni giurano che il mostro è lui. Conoscenti e vicini di casa improvvisamente si ricordano che quel ragazzo è un tipo «strano», «inquietante ». Nella sua abitazione la polizia trova i vestiti e i costumi che Girolimoni usa per le sue fotografie. Ovvio: sono i “travestimenti” che il maniaco indossa per adescare le piccole. Il celebre criminologo lombrosiano Samuele Ottolenghi conferma: Girolimoni ha proprio la faccia del pervertito. L’agenzia Stefani parla di «prove irrefutabili». È il primo processo mediatico della storia italiana, Peccato che le prove fossero tutt’altro che irrefutabili. In pochi mesi, grazie al coraggio di un commissario, Giuseppe Dosi, e alla tenacia dell’avvocato Ottavio Libotte, Girolimoni viene prosciolto per non aver commesso il fatto. Testimonianze contraddittorie, incongruenze temporali, nulla si tiene in piedi.Dosi è convinto che il colpevole sia un pastore britannico. Ralph Lyonel Brydges, che aveva precedenti per abusi su minori. Ma è un amico intimo del console inglese e la sua insistenza viene punita dal regime che lo destituisce per poi farlo rinchiudere in un manicomio. Mentre Girolimoni è un uomo libero: la sua assoluzione finisce nei trafiletti delle pagine interni dei giornali. Morirà solo e poverissimo nel 1961 e, anche se innocente, nell’immaginario marcito della nazione è e resterà sempre “il pedofilo”.

Angelo Panebianco per il “Corriere della Sera” l'1 giugno 2021. Forse la lettera a Il Foglio con cui, alcuni giorni fa, Luigi Di Maio ci metteva al corrente della sua svolta garantista è il frutto di una autentica conversione. Oppure di un astuto calcolo: magari non ci saranno veti sul suo nome quando, tra qualche mese o anno, si apriranno le consultazioni per la formazione del futuro governo. O forse è il frutto di entrambe le cose. Ma non è importante. Quella svolta merita comunque apprezzamento. È essenziale però non sopravvalutarne le possibili conseguenze. In un Paese senza memoria storica si fa presto a scambiare gli effetti per le cause: si fa presto, ad esempio, a credere che siano stati i 5 Stelle a imporre all' Italia la loro visione forcaiola della vita pubblica. Talché, se Di Maio riesce a convertirli alla civiltà (giuridica in questo caso), il gioco è fatto, i problemi sono risolti. Ma no. Per niente. I 5 Stelle non sono una causa, sono un effetto. È perché in ampi settori dell' opinione pubblica era radicata quella visione forcaiola che i 5 Stelle hanno avuto successo, sono diventati addirittura il primo partito alle ultime elezioni. Ignora la storia e scambierai le lucciole per lanterne, le cause per gli effetti. Qualcuno si ricorda ancora del caso di Enzo Tortora? All' epoca l' espressione circo mediatico-giudiziario non era ancora stata inventata. Tortora venne arrestato nel giugno del 1983 per (niente meno) associazione camorristica e spaccio di droga. Si scatenò contro di lui, rinchiuso in una cella, una sarabanda mediatica selvaggia, violenta, durata mesi e mesi. Poiché coloro che si occupavano del caso alla Procura di Napoli avevano deciso che Tortora fosse un capo della camorra, l' intero Paese, per un bel po', accettò di credere, a scatola chiusa, a quella bufala. Cosa accadde ai responsabili, giudiziari e non, di quella vicenda? Le loro carriere vennero stroncate? Furono per lo meno danneggiate? No, non pagarono dazio. Non subirono alcuna sanzione. Il caso Tortora dimostrò a tutti che in questo Paese è possibile sequestrare un innocente, tentare di distruggerlo, presentarlo come un mostro sui mezzi di comunicazione, senza che ciò comporti il benché minimo danno per la carriera dei responsabili e dei loro sodali. La verità è che, come il caso Tortora dimostrò, il principio (di civiltà) della presunzione di non colpevolezza non è mai stato davvero accettato in questo Paese. Poi arrivò Mani Pulite. Colpì la diffusa corruzione. Essa doveva essere colpita. Ma i modi in cui ciò avvenne non furono tutti irreprensibili. Pochi oggi negano che ci furono degli eccessi: altro che rispetto della presunzione di non colpevolezza. Si verificò, inoltre, un rovesciamento dei rapporti di forza fra magistratura e politica i cui effetti perdurano tutt' ora. Posso assicurare per esperienza che a quell' epoca criticare certi aspetti della «rivoluzione giudiziaria» allora in atto significava diventare il bersaglio degli insulti di quello che allora era chiamato «popolo dei fax», coloro che inneggiavano alle manette, che volevano il sangue. Per inciso, sarebbe interessante se qualche psicologo studiasse gli effetti che produsse sui bambini e gli adolescenti di allora sentir dire da tutte le televisioni dell' epoca che l' Italia è un «Paese di ladri». È cambiato qualcosa? È stato ripristinato, nella coscienza dei più, il principio della presunzione di non colpevolezza? Si è posto fine alle gogne mediatiche? No, non è mai cambiato niente. Le cause sono diverse. C' è certamente la circostanza che la politica ha alimentato queste tendenze: i politici sono garantisti quando oggetto di provvedimenti giudiziari sono loro o i loro amici, sono forcaioli quando vengono colpiti i loro avversari. Ciò è il frutto di un atteggiamento strumentale e opportunistico (di tanti italiani, non dei soli politici) nei confronti delle leggi. Vale ancora, anzi vale più che mai, quanto disse circa cento anni fa Giovanni Giolitti: «In Italia, le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici». Vale anche il fatto che, causa dell' unità delle carriere dei magistrati, molti italiani non riescono a distinguere fra un giudice e un procuratore. E se un procuratore è chiamato giudice, questo non è un errore innocente. Ne deriva infatti che i suoi provvedimenti verranno scambiati per sentenze: l' indagato diventa così un colpevole il cui reato è stato provato. Il processo diventa superfluo, anzi un fastidioso onere per i contribuenti. Al fondo naturalmente giocano le nostre tradizioni illiberali. Intendiamoci: anche nei Paesi anglosassoni, nei quali i principi liberali sono più saldi e che per questo alcuni di noi ammirano, ci sono nella pubblica opinione tendenze forcaiole. Ma, per lo più, in quei Paesi sono garantiste le élite, è garantista la classe dirigente. Essa è pertanto in grado di fare muro, di impedire alle pulsioni illiberali di una parte del pubblico di fare gravi danni. In Italia, invece, ci sono segmenti delle élite (per esempio, intellettuali) che condividono il credo forcaiolo di una parte dell' opinione pubblica. Per questo in Italia non ci sono vere barriere. Si noti che tutto ciò non dipende dalla divisione fra guelfi e ghibellini, fra la destra e la sinistra. Si pensi a un grande vecchio, un protagonista della storia comunista, scomparso di recente: Emanuele Macaluso. Combinava una visione togliattiana della politica e una concezione liberale della giustizia. Non credo che Di Maio riuscirà davvero a convertire molti fra i 5Stelle. Dovrebbero rinunciare alla vera «ragione sociale» del loro movimento politico. Dovrebbero rinunciare anche all' alleanza di fatto che hanno stabilito con il settore più politicizzato e militante della magistratura. In ogni caso, si ricordi che le ragioni che spiegano la prevalenza in questo Paese di atteggiamenti illiberali in materia di giustizia sono profonde, vengono da lontano. La pur meritoria dichiarazione di un politico non basta a cambiare le cose. Non può sostituire una lunga e faticosa opera di rieducazione del pubblico. Che dovrebbe cominciare a scuola. Basta metterla così per capire quanto possa essere ardua l' impresa.

Nei processi che tutti conosciamo “Nulla è come appare”: parola di Nicodemo Gentile. Il penalista è stato coinvolto in casi di cronaca noti al grande pubblico come quello di Sarah Scazzi e Melania Rea. Con questo libro racconta i retroscena. Angelo Barraco su La Voce di New York il 29 Maggio 2021. “Nulla è come appare – Storie di delitti, storie di accertamenti tecnici” (Faust Edizioni) è il nuovo libro dell’Avvocato Nicodemo Gentile e presidente dell’Associazione Penelope Italia. Nelle 280 pagine si parla di scienze forensi, puntando l’occhio su casi di omicidi efferati che hanno attraversato la carriera del noto penalista, come quello di Sarah Scazzi, Melania Rea, Roberta Ragusa, Trifone e Teresa, Sara Di Pietrantonio. L’Avvocato utilizza un linguaggio semplice, mettendo in luci alcuni scorci di quotidianità che sembrano delle vere e proprie polaroid statiche, tra l’anticamera di una storia raccontata e quella che ancora deve ancora svilupparsi all’orizzonte. Non è un semplice resoconto di fatti di cronaca, ma la descrizione dettagliata di un progressivo sviluppo giudiziario che parte dalla scena del crimine e arriva nelle aule di tribunale, con l’importante ruolo delle indagini scientifiche, di quelle difensive e del ruolo che ha l’avvocato. Questo libro mette al centro di tutto l’importanza dei rapporti umani e professionali che si consolidano col tempo, fino a costruire un percorso di ricchezza che si sviluppa attraverso i rami della scienza, incastrati come piccoli tasselli di un mosaico, indispensabili e solidi. Abbiamo intervistato l’Avvocato Nicodemo Gentile, presidente dell’Associazione Penelope Italia, che ci ha raccontato la genesi del libro.

“Nulla è come appare – Storie di delitti, storie di accertamenti tecnici” è il titolo del tuo nuovo libro. Come nasce?

“L’idea nasce dall’esigenza, sempre più sentita, di far conoscere le complessità del processo penale che spesso vengono poco rappresentate nella cronaca televisiva e giornalistica. Quanto è difficile, complessa, delicata e quanta responsabilità pone agli operatori che intervengono in questo spazio tecnico: ricostruire fatti avvenuti nel passato che devono essere poi affinché qualcuno possa avere giustizia e qualcuno possa essere condannato. L’idea che al di là della necessità di avere in questo contesto, uomini e professionisti responsabili. Una riflessione forte e attenta al rapporto tra processo e scienza, tra uomo e professionista, tra professionista e consulenti. La voglia di farlo in modo nuovo e quindi non solo tramite il racconto dell’Avvocato ma anche il racconto dell’uomo che attraversa, frequenta i vari tribunali d’Italia e quindi non è soltanto un percorso dell’uomo ma è il percorso del tecnico ed è anche un percorso negli spazi di questa nostra bellissima Italia”.

La cosa che mi ha colpito di questo libro è sicuramente la ricostruzione fotografica di ogni evento: ogni contesto che hai vissuto sembra essere rimasto profondamente impresso nella tua mente nei momenti che hanno preceduto quell’istante, come una tazzina di caffè caldo tra le mani, una finestra aperta oppure il colore della tovaglia di un tavolo o di alcuni odori che sembrano percettibili anche per chi legge. Un prima e un dopo che capovolge in modo irreversibile quel presente, trasformandolo quasi in un nuovo inizio. Nel libro si parla dell’importanza del lavoro multidisciplinare…

“Il lavoro multidisciplinare per me, ormai, è un progetto a cui non posso rinunciare. La complessità e la delicatezza di una ricostruzione, che diventa multidisciplinare e non vede soltanto l’Avvocato coinvolto ma un team di esperti, proprio perché la tecnologia, l’evoluzione della tecnica ha fatto si che noi ci dobbiamo confrontare con discipline sempre più raffinate. Quindi una capacità enorme di ricostruire fatti, attraverso il risultato e l’applicazione di discipline che una volta era impensabile utilizzarle e che impongono la necessità della formazione e di avere dei compagni di viaggio molto qualificati. Ho cercato di raccontarlo con una trama narrativa nuova, semplice. Non è un manuale ma da molte nozioni e nel frattempo ci sono le emozioni. È un libro che ha due grandi protagonisti: l’uomo e il professionista, con spaccati di processi delicati in cui ci sono grossi tensioni, in cui c’è anche la chiacchiera con il grande scienziato davanti al caffè. Anni di studio, di battaglie ma anche di relax, dove mi sono goduto le bellezze della nostra Italia”.

Quando il professionista torna a casa e posa la toga, cosa rimane in quel caso del professionista?

“Da un punto di vista astratto è molto semplice per chi vive il mondo del penale come me, che sono sempre storie umane molto drammatiche, complesse, difficili. Si dice che la nostra è una professione anfibia perché dovrebbe galleggiare tra la sensibilità dell’uomo e l’indifferenza emotiva, la freddezza del professionista. In realtà questo aspetto che distingue l’uomo dal professionista, da un punto di vista pratico, è molto complesso e difficile. Spesso e volentieri, togliersi la toga e rimettersela in realtà non riesce, soprattutto per chi, Avvocato di strada, e su strada, come dico io, nel senso che vivo a contatto con i miei assistiti, con i loro familiari, ne assorbo le ansie, le lacrime, quindi spesso e volentieri non è facile allontanarsi da queste tensioni. Certo, col tempo diventa una corazza la toga, quindi un po’ ti blinda però in realtà però di fronte alla morte di una ragazzina di 22 anni, di fronte alla morte di un bambino, di fronte alle lacrime di una mamma, di fronte alle speranze di un detenuto, l’uomo cede e si fa assorbire in certe dinamiche che scrollarsi da dosso non è semplice, però bisogna farlo. Questo libro racconta anche di questi tormenti, di questi momenti”.

Angelo Barraco, classe 89, è un giornalista che nasce in Sicilia, precisamente a Marsala, in provincia di Trapani. E' un giornalista curioso è attento ai dettagli che negli anni ha collaborato per numerose testate giornalistiche... 

La tragedia di Mottarone. Sulla strage del Mottarone va in onda il piagnonismo preventivo all’italiana. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 31 Maggio 2021. Il direttore del Riformista ed io ci alterniamo nel commentare le notizie sul Tg4 delle 19 e sembra che gli ascoltatori apprezzino una forma di News peraltro confezionato in maniera completa e con materiale di cronaca di prima mano. Entrambi, a giorni alterni, ci siamo occupati della catastrofe della funivia di Stresa, e adesso che tutto è più chiaro sono arrivato a una conclusione che vorrei condividere con i lettori e che non ha a che fare con le funivie, ma con il verme del populismo, che è figlio sia del giustizialismo che dell’Italia piagnona e forcaiola. È quell’Italia geneticamente priva di pretese nei confronti della verità, e più ancora priva di garanzie verso la persona intesa, come essere umano degno comunque di rispetto. Ciò che ho annusato di fronte all’accaduto – i morti macellati nel terrore di un macchinario fuori controllo – è stato il piagnonismo preventivo all’italiana che costituisce l’anestetico contro il limpido desiderio di conoscere fatti, cause, responsabilità, errori e le necessarie correzioni. Ma più che altro sapere: bene, senza una coltre di luoghi comuni tra cui primeggiano -sempreverdi – le “micidiali fatalità”, le “imprevedibili sciagure”, accompagnati da un malloppo di sentimenti ipocriti e precotti che rimbalzavano da molti telegiornali, dalle prime pagine e dal chiacchiericcio degli uffici stampa impegnati a spegnere ogni eventuale libido per la verità. Non critico l’espressione privata del dolore e la costernazione per i bambini esposti come cadaveri da copertina sulle spiagge libiche o siriane, oppure nel tritacarne di una funivia. I sentimenti e il dolore fanno parte del menù informatico. Ma dall’inizio a me è sembrato che mancasse il desiderio semplice asciutto urgente e prevalente – oltre che pratico – di sapere che cosa fosse successo, sapendo che si doveva trattare comunque di errore umano, a prescindere da colpe e delitti. Le inchieste all’inizio erano appena accennate nella dose minima sindacale, ma mancava la rappresentazione del fatto analizzato come errore umano, su meccanismo umano inventato azionato e curato dall’uomo. Mio padre, come ho raccontato nel corso delle cronache, era un ingegnere delle Ferrovie dello Stato che fra i suoi compiti aveva quello di collaudare e sottoporre a revisione da stress funivie, seggiovie, montagne russe e luna-park, treni, cabinovie e cremagliere in ogni angolo del nostro Paese. Ho passato gli anni dell’adolescenza a seguirlo mentre investigava su disastri ferroviari, stradali, di tutte le macchine che debbono avere freni d’emergenza automatici e dispositivi di sicurezza. Da quelle avventure una cosa ho imparato: non esistono “incidenti fatali inspiegabili” a meno che non ci sia di mezzo Madre natura con le sue delizie: tsunami, fulmini, frane, eruzioni, terremoti. Se c’è disastro sulle macchine, c’è errore umano. Fiutando nell’aria e nelle parole l’inclinazione verso il fatalismo della sciagura piovuta dal cielo come una punizione degli dèi, ho cercato di richiamare l’attenzione sull’errore umano, che invece sentivi culturalmente respinto come un elemento accessorio e in fondo fastidioso: mi sentivo soffocato dalla sopraffazione del banale. Poi, c’è stata la svolta: la scoperta dei meccanismi che avrebbero potuto forse frenare, ma che erano stati rimossi. “Tanto, la fune portante non si rompe perché non si è mai rotta”. E invece si è rotta. Adesso dicono che proprio i forchettoni rimossi l’abbiano tranciata, si vedrà al processo. Di qui il fermo di tre presunti responsabili. Ed ecco che, soltanto a questo punto, non compare il desiderio di sapere, ma avviene un cambio di maschera: tutti i lamentosi piangenti che parlavano di fatale incidente mandato forse dal demonio, subisce una mutazione trasformandosi in un esercito di carpentieri che inchiodano patiboli. Hanno già processato e condannato i presunti colpevoli sul conto dei quali l’unica curiosità si concentra su un solo punto: avevano pianto? Avevano tentato di buttarsi dalla finestra? Eravamo passati da un atteggiamento rinunciatario rispetto alla richiesta di verità alla giustizia sommaria: “Chiudeteli in galera e buttate la chiave”. Il populismo di destra stemperava l’indignazione con l’attenuante della lunga astinenza da Covid, mentre quello grillesco starnazzava dalla felicità gridando: a morte i profittatori e galera senza pietà. Male che vada, domani, qualcuno chiederà scusa attraverso un giornale, come ha appena fatto Di Maio con una lettera al Foglio in cui chiede scusa al sindaco di Lodi ingiustamente perseguitato e finalmente assolto. Ma per ora, quella fetta del nazional-populismo sinistrese festeggia la vittoria sulla malvagità di chi fa profitto, a prescindere. Nel frattempo, tutte le regole delle garanzie, come ha già scritto il direttore del Riformista, sono saltate cedendo il passo ad anticipazioni delle sentenze di ogni ordine e grado, particolarmente gradite a una folla improvvisata passata dai riti fatalisti della disgrazia (probabilmente per reazione del Pianeta offeso da chi pianta cicoria togliendo spazio alle fragole di bosco), al partito populista della punizione esemplare.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Il rapporto tra presunzione d’innocenza e diritto all’informazione. Gli show dei Pm non sono sentenze, quella delle Procure è la verità parziale. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 25 Maggio 2021. Nel corso di un incontro sul tema della presunzione d’innocenza e in particolare sull’adesione dell’Italia alla recente direttiva europea, organizzato dalla Camera penale di Santa Maria Capua Vetere, il dibattito ha toccato pure la separazione delle carriere. Nel mio intervento ho sostenuto, tra l’altro, che la madre di tutte le riforme, che interesseranno il processo penale, dovrà essere l’approvazione in Parlamento della proposta di legge costituzionale d’iniziativa popolare promossa dalle Camere penali, relativa alla separazione delle carriere dei magistrati, che ha ottenuto la firma di 75mila cittadini. Nel rapporto tra giustizia e informazione, infatti, direttamente coinvolto dal principio di presunzione d’innocenza, è fondamentale che il ruolo della fonte venga compreso dai destinatari delle notizie. La cronaca giudiziaria, con pochissime eccezioni, presenta l’indagato come già colpevole e talvolta l’affermazione è corredata da indizi indicati dalla Procura, a volte con video-riprese con tanto di logo della polizia giudiziaria operante, ormai specializzata in perfette regie di azione. Le conferenze, come i comunicati, non hanno e non possono avere contraddittorio perché gli atti non sono conosciuti dall’interessato che, del tutto indifeso, vede la sua vita sconvolta negli affetti, nel lavoro e spesso irrimediabilmente nella salute. Eppure, i dati ci dicono che, nel 2020, in Italia i casi d’ingiusta detenzione sono stati 750, per una spesa complessiva, in indennizzi, pari a circa 37 milioni di euro. Napoli, con 101 casi, è il distretto con il maggior numero di risarciti. La separazione delle carriere, oltre al principale pregio di garantire un giudice terzo, avrà anche un’importante ricaduta sull’informazione giudiziaria. Una volta entrata in vigore la legge, col tempo si comprenderà che il procuratore che ha tenuto la conferenza o diramato il comunicato sta illustrando l’attività svolta che dovrà poi trovare conferma innanzi al giudice, componente di un diverso un settore della giustizia, quello demandato a stabilire la verità. Finalmente sarà chiaro all’opinione pubblica che la notizia proviene dall’accusa e che non è accertato che l’interessato sia colpevole, ma è solo – come previsto dalla legge – indagato. L’informazione data, pertanto, non è una sentenza. L’attenzione dell’opinione pubblica si sposterà naturalmente e correttamente verso il processo che verrà seguito con maggiore attenzione dagli stessi cronisti. L’importanza della separazione delle carriere, anche per il principio di presunzione d’innocenza, non è stata ritenuta conferente dal magistrato presente al dibattito che, nell’esprimere il suo disaccordo sulla battaglia portata avanti dall’Ucpi, ha specificato che la riforma farebbe perdere autorevolezza alle Procure perché quanto riferito nelle conferenze o nei comunicati stampa sarebbe ritenuta una verità parziale. Ed è qui il punto, infatti! Fermo restando che la fonte della notizia non perderebbe alcuna autorevolezza, in quanto la comunicazione proviene da chi ha coordinato le indagini, quindi l’unico che ha autorità per riferire, è evidente che la sua non può che essere proprio una “verità parziale”, perché proveniente da una parte, in assenza di qualsiasi contraddittorio. Ed è importante che ciò sia ben chiaro a chi diffonderà la notizia e soprattutto a chi l’apprenderà. Nel difficile equilibrio tra presunzione d’innocenza e diritto all’informazione è proprio questa “verità parziale” la svolta culturale da promuovere. Riccardo Polidoro

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 18 maggio 2021. Il talk si sta mangiando la realtà, riducendo tutto a chiacchiera. Attraverso una congerie di parole, il talk cambia la nostra percezione della realtà, altera la costruzione di un sapere sociopolitico, complica, drammatizzandola, la gerarchia delle necessità. Tutto era cominciato con lo sport (Biscardi), con la rappresentazione del dolore (Costanzo), con la politica (Funari). Nel tempo, il talk, con le sue regole e i suoi rituali, ha inghiottito tutto: la cronaca nera, lo spettacolo, la medicina, ora persino la magistratura. Il talk show è parola che si fa spettacolo, come vuole tradizione drammaturgica: è una necessaria semplificazione delle idee, è una fatale iniezione di populismo, è un esplicito incitamento alla forte contrapposizione. La domanda che possiamo porci è questa: se un tema delicato come quello della magistratura, con gli stracci che volano, con le correnti che si danno battaglia, finisce in un talk dove si urla (Mario Giordano, tanto per fare il primo esempio che viene in mente), siamo sicuri che il pubblico capisca qualcosa? Siamo sicuri che per i magistrati la tv sia il posto giusto per dibattere o non sia invece un modo per regolare i conti? Come dicono gli psicoterapeuti televisivi, oggi tutto è «narrazione», «storytelling». Certo, tutto è narrazione, ma nelle logiche del talk questo significa che una parola vale l' altra e l' unica strategia è quella di spararne tante (di parole), in una escalation sempre più ridondante, in modo tale che l' ultima faccia dimenticare quelle precedenti. Imbastire una narrazione significa lisciare il pelo al pubblico, fingere di «fare opinione»: è il genere che diventa attore principale. Serializzando un argomento (ogni settimana una puntata), si minano le istituzioni stesse su cui si regge una comunità. Immagino lo sconforto della ministra Marta Cartabia.

La passerella di Enzo Tortora coi ferri polsi fu il primo atto del processo mediatico. La vicenda giudiziaria di Tortora fu il primo caso in cui i giornalisti indossarono la toga da inquisitori. Scrive Francesca Scopelliti su Il Dubbio il 18 maggio 2021. Il primo esempio di processo mediatico, studiato con una sceneggiatura e una regia degne di un kolossal, è senza dubbio la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora: dalla passerella con i ferri ai polsi per raggiungere il cellulare della polizia penitenziaria, alla feroce campagna stampa frutto di una costante violazione del segreto d’indagine (l’avvocato Raffaele della Valle, difensore di Tortora, ama raccontare che in quei giorni gli atti giudiziari venivano depositati in edicola e non in procura!). Tutto doveva servire a costruire Tortora colpevole. Ad ogni costo. Per salvare la credibilità dell’inchiesta contro la NCO. Per salvare la loro faccia, quella dei due inquirenti. Per compensare la mancanza di prove e riscontri. C’è un libro, piccolo nel formato ma grande nei contenuti, Il circo mediatico-giudiziario, scritto da Daniel Soulez Larivière, che nel distinguere il potere mediatico da quello giudiziario pone l’accento sul giornalismo di investigazione e sul giudice alla conquista dei media. Un testo che avrebbe dovuto fare scuola. Non è andata così. Anzi, a dire il vero sembra aver semmai “suggerito” come coniugare inchieste giudiziarie e mezzi di informazione per ottenere il massimo risultato. Nella prefazione, Giuliano Ferrara scrive “credo di essere la persona giusta” perché alla fine degli anni ottanta, in una trasmissione Rai “Linea rovente”, aveva indossato la toga per celebrare una dozzina di processi televisivi (tra gli “imputati” vi era stato anche Marco Pannella). “Ma io scherzavo!” precisa. E invece anche in questo caso il format tv ha fatto scuola. E tanti giornalisti, di quelli che si prendono troppo sul serio, che non hanno il senso della misura ma solo quello dell’arroganza, seduti dietro la loro scrivania oppure in piedi davanti alla telecamera, hanno ripreso quella toga e l’hanno indossata davvero. A discapito dello Stato di diritto. Falsificata dalle emozioni del gossip, la verità mediatica diventa nei fatti più forte, più suggestiva della verità vera. Ogni anno, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, di fronte alle più alte autorità, il Procuratore Generale di turno della Cassazione denuncia il consolidato malcostume di offendere – in nome del diritto all’informazione – la dignità e il rispetto della vita privata di un cittadino, il diritto costituzionale ad un giusto processo, la presunzione di innocenza. La “verità” mediatica, ammaliante come il canto delle sirene per Ulisse, diventa più risonante di quella processuale. Anche per quel giudice che ha il compito di giudicare secondo la legge e che invece – mancando la condizione della separazione delle carriere – viene già influenzato dai magistrati inquirenti. Le cronache giudiziarie spesso lasciano un marchio sull’imputato, assecondando il giustizialismo e la presunzione di colpevolezza. D’altronde non è vero, come sostenne un noto magistrato, che “non esistono innocenti ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti?”. Durante la rivoluzione francese, nei giorni del Terrore, la ghigliottina era lo spettacolo più ambito: ai suoi piedi si accalcavano delle vecchie che, tra berci e risate sguaiate, assistevano al mostruoso cadere delle teste. Per accaparrarsi il posto in prima fila arrivavano molto prima dell’esecuzione, e per ingannare l’attesa lavoravano a maglia. Per questo le chiamavano “les tricoteuses”. I nuovi mostri si accomodano ora davanti al televisore, ansiosi di vedere la ghigliottina della calunnia o della ingiusta condanna cadere sulla testa del povero disgraziato di turno. Non di rado sfogano il loro disprezzo scrivendogli contro frasi indegne sui cosiddetti “social”, l’unico strumento che hanno per cercare di attenuare la loro indicibile solitudine. Quanto a tutti gli altri, si limitano a fare spallucce. Almeno fino a quando la giustizia ingiusta non decide di colpirli, all’improvviso.

Francesca Scopelliti, Presidente Fondazione per la giustizia giusta Enzo Tortora

«L’imputato è un morto che cammina, condannato prima del processo». Intervista a Giorgio Spangher: «Il processo mediatico? Se i cittadini si stupiscono di una sentenza vuol dire che il loro giudizio è stato alterato. Bisogna riappropriarsi delle garanzie». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 maggio 2021. Per Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto Processuale Penale alla Sapienza, «gli imputati sono morti che camminano perché su di loro si posa lo stigma sociale scaturito dal racconto che il pubblico ministero costruisce intorno a loro e che la stampa replica all’infinito».

Professore quanto è grave il problema del processo mediatico nel nostro Paese?

Il problema è molto grave. Le spiego il perché con alcuni esempi. Il giudice emette una sentenza e dal popolo si leva un grido di stupore “Li hanno assolti! Ma non erano colpevoli?”. Pensiamo poi a Mafia Capitale: benché la Cassazione abbia escluso l’aggravante mafiosa, per molti resta sempre un crimine di stampo mafioso. Cosa voglio dire con questo? Che il nostro sistema processuale non è incentrato sul dibattimento in aula ma sulla fase delle indagini. Prima era diverso. Nel 1955 in Italia si è celebrato il processo per la morte di Wilma Montesi, giovane donna ritrovata morta sulla battigia a Torvaianica. Tra gli imputati c’era Piero Piccioni, figlio di Attilio, fra i massimi esponenti della Democrazia Cristiana. L’avvocato di Piccioni riuscì a ottenere lo spostamento del processo da Roma a Venezia perché la gente si accalcava nel palazzo di giustizia della Capitale per conoscere morbosamente tutti i dettagli della vicenda. Per questa tensione mediatica sui giudici del dibattimento, il processo fu trasferito. Un grande successo per la difesa che ottenne anche l’assoluzione.

Cerchiamo di snocciolare meglio il problema.

L’avvocato Valerio Spigarelli fece giustamente notare che all’inizio del processo per Mafia Capitale c’erano molti giornalisti poi nessuno ha seguito le udienze e sono ritornati solo il giorno della sentenza. Se manca da parte della stampa il racconto del processo, la narrazione rimane ancorata alla formulazione dell’imputazione fatta dal pm durante le indagini e alla comunicazione che fa sulle fonti di prova. La gente assorbe pienamente la qualificazione giuridica data dal pm che presenta come già colpevoli gli indagati. Questo inoltre va a condizionare – ed è l’aspetto ancora più grave – tutta la fase iniziale del procedimento. Quante persone nel processo Mafia Capitale sono state mandate al 41bis, misura che poi si è rivelata inopportuna alla luce della sentenza?

Quindi mi pare di capire che i problemi sono due.

Sì. Abbiamo quello relativo alle conferenze stampa del pm e ai video delle forze dell’ordine che già condannano le persone coinvolte. Questa immagine di colpevolezza viene offerta all’opinione pubblica per un tempo indefinito: si costruisce intorno a uno soggetto un giudizio di responsabilità ma anche un fatto che appare cristallizzato come vero, grazie anche all’abuso delle intercettazioni. A ciò si aggiunge il modo in cui il soggetto viene presentato. Pensi a quanto accaduto a Massimo Bossetti il cui arresto è andato in onda a reti unificate. O andando indietro nel passato ad Enzo Carra che fu condotto dal carcere al tribunale con gli “schiavettoni” ai polsi per essere incriminato da Davigo.

Quindi il dibattimento non conta più?

Esatto: arriva a distanza di tempo e non conta più di tanto. La criticità è dunque questa: che il processo si celebra prima di entrare nell’aula di dibattimento. E questo va ad incidere anche sulla credibilità della giustizia.

Oggi poi assistiamo allo strano fenomeno che se un giudice assolve o mitiga la pena la gente e i parenti delle vittime si scagliano contro di lui. Se condanna va tutto bene, in caso contrario qualcosa non ha funzionato.

Esatto. È qui che sta la patologia; se la gente si stupisce della sentenza vuol dire due cose: che il suo giudizio è stato precedentemente condizionato e che non ha assistito al dibattimento.

A formare il giudizio preventivo c’è anche il fatto che vengono pubblicati atti di indagine che non dovrebbero essere resi noti o accade che testimoni vengano contro interrogati nelle trasmissioni tv.

La regola sarebbe quella che il pm ha il dono della riservatezza; gli atti non dovrebbero uscire se non nei limiti in cui si dà conoscenza del contenuto in via sommaria. Invece il compito della Procura può essere molto utile nel correggere, come ha detto il procuratore Melillo qualche giorno fa in un webinar, l’informazione scorretta, qualora la stampa fornisse all’opinione pubblica una ricostruzione errata.

Secondo Lei i giudici hanno una struttura tale da non farsi influenzare dal processo mediatico parallelo?

Un proverbio sardo dice che nel cuore di un uomo entra solo dio e il coltello. È difficile capire quanto un giudice possa essere impermeabile alle influenze esterne. Io credo che il nostro giudice è un professionista che ha l’onere di motivare la sua decisione. Sa che la sua sentenza va a giudizio in Appello e poi in Cassazione: nulla teme di più il giudice che il giudizio dei suoi colleghi.

Però è anche vero che da tanto tra i giuristi si dibatte di come la virgin mind dei giudici possa essere inficiata. Il giudice di primo grado dovrebbe arrivare in aula senza sapere nulla.

Questo è un altro discorso, lei ha ragione. Non sono in grado di valutare il condizionamento psicologico di un magistrato. Quello che posso dirle è che il codice di procedura penale dice che il giudice valuta in base alle prove che ha regolarmente acquisito nel processo. Purtroppo con le sentenze del 1992 e 1994 della Corte costituzionale noi recuperiamo larga parte del materiale dichiarativo che è stato assunto dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria. È un problema che mette in crisi l’oralità a svantaggio del contraddittorio. Il concetto di tabula rasa del giudice vergine non esiste più, non dal punto di vista dell’influenza mediatica ma del materiale probatorio.

Un’altra conseguenza del processo mediatico è anche la trasformazione degli indagati e degli imputati in mostri. Su di loro si posa uno stigma sociale difficile da abbandonare, al di là delle risultanze processuali.

Su questo ha ragione: proprio lo spostamento del processo nella fase delle indagini e la morbosità mediatica determinano già una sanzione per gli indagati. Questo è fuori discussione ed è lo stigma peggiore perché il pubblico ministero li presenta in una certa maniera e i giornali danno voce solo a quel racconto. Sono già dei morti che camminano anche se si salveranno e verranno dichiarati innocenti. Saranno per sempre vittime della damnatio memoriae.

Infatti nonostante sentenze di assoluzione, le persone e alcuni colleghi giornalisti su determinati fatti di cronaca continuano a ritenere gli imputati colpevoli, giustificandosi così: “la verità giuridica non è quella storica”.

Esatto, questo è importante: quello che il pm costruisce nei suoi capi di imputazione è la cosiddetta verità storicizzata, come se dicesse a se stesso “il processo è una cosa, ma io come pubblico ministero custodisco la verità”. Il pm costruisce una sua notitia criminis che resta storicizzata, anche se il processo farà un altro corso.

Come usciamo da tutto questo? Adesso abbiamo recepito anche la direttiva europea sulla presunzione di innocenza.

Ma dobbiamo attuarla subito insieme a degli strumenti importanti, come il reclamo, il diritto all’oblio e anche una sanzione disciplinare nei confronti del pubblico ministero che tiene conferenze stampa superando i limiti previsti per il rispetto della presunzione di innocenza. Il primo obiettivo è comunque riappropriarci delle garanzie: tutti gli attori coinvolti devono capire questo, dai pubblici ministeri ai giornalisti. E mai dimenticare che il processo penale non riguarda gli altri, ma domani potrebbe riguardare noi.

Sisto: «Oggi chi è sotto processo non è più un uomo». Il Dubbio il 10 maggio 2021. La lectio magistralis del Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto all’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli. «Oggi chi è sotto processo corre il rischio di non essere più un uomo. Il cittadino che riceve un’informazione di garanzia, infatti, viene mediaticamente colpito nell’immagine, nella persona, negli affetti familiari, nella posizione lavorativa, nella dignità. E questa pena sociale è spesso molto più pesante rispetto a quella derivante dal fatto reato». Parola di  Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia, intervenuto così nel corso di una lectio magistralis all’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli. Secondo Sisto «non si può ragionare di rieducazione del reo se non si interviene in modo deciso sul processo mediatico perché oggi la sentenza arriva comunque troppo tardi, quando ormai è stata dispiegata tutta la forza spietata della condanna pubblica». «L’obiettivo è dunque quello di orientare nuovamente il procedimento giudiziario in senso costituzionalmente ortodosso, a cominciare dallo stop a quelle conferenze stampa post arresti che sono ormai diventate vere e proprie feste cautelari, passando dalla inibizione alla pubblicazione di foto e nomi dei magistrati impegnati nei processi , fino alla effettiva garanzia di un doveroso diritto all’oblio», conclude. La battaglia contro il processo mediatico è uno degli impegni prioritari per Sisto, che in un recente incontro al Consiglio Nazionale Forense aveva invitato la massima istituzione forense a unire le forze per riportare la giustizia nelle aule del tribunale. «Sono convinto che su questo tema possa esserci una sensibilità comune ed un ampio consenso a prescindere dalle appartenenze politiche», aveva detto il sottosegretario rivolgendosi al plenum del Cnf. «Bisogna restituire il processo alle aule di tribunale – aggiungeva  – a chi, nella giurisdizione, determina le sorti del processo».

L’incidente probatorio in diretta tv da Giletti. A "Non è l'Arena" di Massimo Giletti l'ennesimo criminal show sul caso che vede indagato Ciro Grillo e suoi tre amici per un presunto stupro avvenuto nel 2019 in Sardegna. Valentina Stella su Il Dubbio l'11 maggio 2021. Domenica sera è andato in scena a Non è l’Arena di Massimo Giletti l’ennesimo criminal show sul caso che vede indagato Ciro Grillo e suoi tre amici per un presunto stupro avvenuto nel 2019 in Sardegna. Durante tutta l’ora dedicata alla vicenda sono stati mostrati corposi stralci dei verbali delle sommarie informazioni testimoniali raccolte dai carabinieri e anche audio ricostruiti delle dichiarazioni delle presunte vittime.   Al momento gli indagati hanno ricevuto il nuovo avviso di conclusioni indagine e non c’è stata ancora l’udienza preliminare. Chiediamo all’avvocato Luca Brezigar, co-responsabile dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Ucpi, se in queste circostanze diffondere stralci dei verbali di un provvedimento sia lecito oppure no: « pur se gli atti non sono più coperti da segreto, avendone anche gli indagati conoscenza, rimane comunque il divieto di pubblicazione totale o parziale fino allo svolgimento dell’udienza preliminare. Lo scopo è quello di tutelare l’interesse allo svolgimento di un giusto processo dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale il cui convincimento si deve formare in aula nel principio della parità delle parti». Il problema però, prosegue Brezigar, «è che le sanzioni per chi non rispetta quanto previsto dal codice sono troppo blande: l’art. 684 cp prevede l’arresto fino a trenta giorni o una ammenda da euro 51 a euro 258. Bisognerebbe sanzionare più pesantemente per creare una maggiore deterrenza». Il problema della pubblicazione degli atti non ha sfiorato gli ospiti di Giletti, anzi sono fioccati complimenti per chi li ha ottenuti e pubblicati. Proprio il vice direttore de La Verità, Francesco Borgonovo, presente in studio ha commentato: «ricordiamo che il primo a tirare fuori  – non un verbale – ma il racconto di un video è stato Beppe Grillo». Si tratta, per l’avvocato Brezigar, «di una risposta priva di senso perché non è entrato nel merito della questione. Grillo è rimasto il solito giustizialista che è sempre stato, a differenza di quello che qualcuno ha sostenuto; tuttavia è divenuto vittima dei meccanismi perversi del processo mediatico perché nulla giustifica la pubblicazione degli atti». Ma poi come arrivano gli atti nelle mani dei giornalisti? «In generale, possono arrivare dalla polizia giudiziaria, ma anche dagli uffici di procura interessati a sviluppare una particolare attenzione mediatica nei confronti di personaggi pubblici per ricevere appunto l’afflato dell’opinione pubblica. Ma anche i legali di parte civile potrebbero avere lo stesso interesse: far parlare del procedimento in corso per raccogliere consenso popolare ma anche solo per farsi pubblicità.  Qualunque sia la fonte  si tratta di pubblicazioni che inquinano il processo». Un altro episodio a parer nostro clamoroso è che durante la trasmissione abbiamo assistito ad una contestazione formale a un teste da parte di Giletti, come se stessimo già in aula. Il gestore del B&B dove hanno alloggiato le due ragazze, presunte vittime dell’aggressione sessuale di gruppo, ha riferito che dopo quella notte “erano scosse”. A quel punto il conduttore e i suoi ospiti presenti in studio gli hanno contestato che nelle dichiarazioni rese a verbale davanti ai carabinieri aveva detto una cosa completamente diversa ossia che le ragazze “erano felici”. L’uomo, posto davanti all’ambiguità delle sue parole, ha replicato in maniera confusa dicendo che tutto quello che ha riferito ai giornalisti corrisponde al vero, e che semmai sono stati i carabinieri a verbalizzare in modo erroneo le sue dichiarazioni, aggiungendo  – altro aspetto grave – che all’inizio credeva che le ragazze avessero forse rubato una borsetta ma poi, venuto a sapere del presunto stupro dai giornalisti, ha cambiato percezione dei fatti. «È un dato eclatante – ci dice esterrefatto Brezigar -. Avanzare prove durante una trasmissione o addirittura fare un incidente probatorio non fa affatto bene al processo che forse ne seguirà, soprattutto perché si rischia di inficiare la verginità cognitiva dei giudici.  Inoltre quel testimone appare alquanto inattendibile a questo punto, anche se capita sempre più spesso che i pm utilizzino quanto sentito o letto nei massi media. Tali situazioni potrebbero essere arginate se i pubblici ministeri vietassero ai testimoni, come previsto dal nostro codice, di andare a riferire a chiunque e a maggior ragione alla stampa quello che già hanno dichiarato nelle sedi opportune». Lasciamo andare l’avvocato Brezigar impegnato in un convegno organizzato dagli Osservatori Media, Errori Giudiziari ed Europa dell’Ucpi dal titolo “Presunzione d’innocenza: la direttiva europea e la realtà italiana”: «stiamo lavorando ad un disegno di legge che vada a limitare le distorsioni del processo mediatico bilanciando il diritto di cronaca con quelli del giusto processo».

Calci, insulti e minacce per gli avvocati che osano difendere i “mostri”. A chiunque sia accusato si deve assicurare un giusto processo. Senza eccezioni. Altrimenti con un'imputazione infamante si passerebbe direttamente al patibolo. Valentina Stella su Il Dubbio l'11 maggio 2021. Diceva il famoso avvocato francese Jacques Verges: «Je ne suis pas l’avocat de la terreur, mais l’avocat des terroristes. Hippocrate disait: “Je ne soigne pas la maladie, je soigne le malade”. C’est pour vous dire que je ne défends pas le crime mais la personne qui l’a commis» (Non sono l’avvocato del terrorismo, ma l’avvocato dei terroristi. Ippocrate diceva: “Non curo la malattia, curo il malato”. È per dirvi che non difendo il crimine ma la persona che lo ha commesso). L’assimilazione tra l’avvocato e il suo assistito è una delle tante distorsioni che intaccano il ruolo del difensore nella società. Eppure come ha scritto Ettore Randazzo in “L’avvocato e la verità” (Sellerio Editore Palermo): «solo i nemici della democrazia e della libertà possono temere l’avvocatura». Sempre di più in questi anni stiamo assistendo a vari tipi di attacchi verso coloro che esercitano un diritto costituzionalmente garantito: gli avvocati vengono vilipesi sui social, ricevono sputi fuori dalle aule e pallottole nella buca delle lettere, addirittura le loro auto sono incendiate e le loro famiglie minacciate di morte. Su questo giornale vi abbiamo raccontato diverse storie in merito che vi riproponiamo in questa carrellata. Nel 2017 alcuni balordi diedero fuoco alla macchina dell’avvocato Pierluigi Barone. Dopo ricevette una telefonata anonima al suo studio: «Il tuo cliente è un assassino», riferendosi ad uno dei cinque giovani, difeso da Barone, indagato al tempo con altri per omissione di soccorso per la morte del 18enne Matteo Ballardini. Proprio al Dubbio l’avvocato raccontò che nella telefonata fecero altre minacce: «Mi hanno detto che poi toccherà alla casa, e poi a mia moglie. Paura? Io sono un legale e non mollo i miei clienti. Questo modo di fare violento mina i principi base della Costituzione e della civiltà. E noi non possiamo cedere». Invece questo messaggio: «Volevo complimentarmi con gli avvocati Mario Scarpa e Ilaria Perruzza, che assistono i 4 maiali stupratori di Rimini! Complimenti per la dignità che avete dimostrato nell’accettare la difesa e non aver rifiutato! Questo Stato tra qualche anno li promuoverà facendoli entrare a pieno diritto nella Casta dei Togati. Nel frattempo speriamo che il tempo regali ad entrambi l’esperienza vissuta dai due polacchi», fu uno dei tanti gravemente offensivi indirizzati ai due avvocati che assunsero l’incarico difensivo di quattro immigrati accusati dello stupro e della violenza avvenuti nei confronti di una giovane polacca e di un suo amico. Arriviamo nel 2018: «Sentenza vergognosa! Dato che la giustizia non esiste sarà fatta in un altro modo. Vendetta anche per te avvocatura»: iniziava così la lettera minatoria che, accompagnata da un proiettile, giunse all’avvocato Andrea Miroli, legale della famiglia Ciontoli, dopo la sentenza di primo grado per la morte di Marco Vannini. Sempre nello stesso anno all’avvocato Giovanni Codastefano, difensore d’ufficio di un uomo accusato di aver violentato la moglie e maltrattato la figlia, toccò leggere questo sul web: «Penso che fa più schifo l’avvocato che lo difenderà», «Vergognati! Come si fa a difendere uno del genere?», «Certi avvocati per du soldi difenderebbero anche lo stupratore delle loro madri… merdacce!», «Bastardo anche l’avvocato». Non finisce qui: l’avvocato Simone Matraxia, legale di fiducia di Innocent Oseghale, il nigeriano coinvolto nella morte di Pamela Mastropietro, fatta a pezzi e ritrovata in due trolley abbandonati sul ciglio della strada, appena ricevette il mandato lesse su Facebook: «L’avvocato che si prende la briga di difendere certe persone, e certi reati va denunciato per complicità» e altresì «Ha pure un avvocato? Ahhhhh la pena di morte». L’anno successivo ci spostiamo al Tribunale di Frosinone quando il presidente della Corte d’assise Giuseppe Farinella pronunciò la sentenza di primo grado per l’omicidio di Emanuele Morganti, il ventenne deceduto dopo essere stato aggredito in una notte di marzo del 2017 ad Alatri. Un caso drammatico che aveva suscitato molto commozione per la morte di un ragazzo accerchiato e picchiato, dopo una serata in un locale con la fidanzatina. Non fu allora omicidio volontario, come richiesto dall’accusa, ma preterintenzionale. La derubricazione del reato scatenò l’ira dei parenti e degli amici della vittima. Qualcuno, fuori dal tribunale, aggredì il pool difensivo come ci raccontò proprio l’avvocato Giosuè Bruno Naso: «Ci hanno minacciati e insultati gridandoci “bastardi”, “schifosi”, “come fate a difendere delle merde simili?”». Arrivarono anche degli sputi verso di loro e si rese necessario l’intervento di alcuni agenti delle forze dell’ordine. Sempre nel 2019 a subire minacce sui social furono gli avvocati Domenico Gorziglia, Giovanni Labate e Marco Mazzatosta, legali di Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci, i due giovani di CasaPound, accusati di violenza di gruppo, lesioni aggravate e violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità psichica e fisica nei confronti di una donna di 36 anni. «Ma gli avvocati sono i peggio», «i due vanno condannati in base alle leggi, vanno puniti, ma chi andrebbe arrestato seduta stante deve essere l’avvocato» e ancora «Lasciateli al popolo, saprà fare giustizia più di quella togata… non dimenticate il legale che andrebbe anche radiato» e «io metterei in galera pure gli avvocati che favoreggiano sti maledetti difendendoli ». Nel 2020 a ricevere minacce di morte furono gli avvocati Massimiliano e Mario Pica, legali dei tre allora indagati per la morte del giovane Willy Monteiro Duarte, ucciso durante un pestaggio a Colleferro. Ricevettero una telefonata anonima a studio: «Dì all’avvocato che lo ammazziamo». Ma anche Andrea Starace e Giovanni Bellisario, legali di Antonio De Marco, reo confesso del duplice omicidio di Eleonora Manta e Daniele De Santis, sono finiti nel mirino dei leoni da tastiera: «anche l’avvocato dovrebbe andare in carcere», «non vi vergognate a difenderlo», «se le vittime fossero stati i vostri figli vi sareste comportati allo stesso modo?». E poi ad aprile di quest’anno vi abbiamo raccontato la storia di due avvocate di Brescia S.L.e M.M processate e insultate dal Tribunale del popolo per aver fatto assolvere un uomo accusato di violenza sessuale: «Ma questi avvocati non si vergognano a difendere un delinquente simile. Lo schifo assurdo che per i soldi non si guarda in faccia nessuno, eppure sono donne ma nessuna solidarietà. Il denaro e la carriera sono superiori al dramma di questa ragazza» e persino più grave: «Che non debbano mai provare nessun tipo di violenza queste sottospecie di avvocati». A chi dunque desidera gettare la chiave della cella prima di iniziare un processo, impedendo l’esercizio del diritto di difesa, rispondiamo sempre con un pensiero di Ettore Randazzo: «Senza processo la giustizia dove starebbe? Nel lugubre simbolismo di un cappio penzolante col plauso raccapricciante di un gruppo di scalmanati dimostranti? Ci mancherebbe! Tutti devono essere processati e dunque difesi. Incondizionatamente; altrimenti basterebbe un’accusa grave e infamante per giustiziare sommariamente una persona, espellendola dal consesso civile; non possiamo di certo consentire una simile barbarie».

Se l’indagato diventa il “colpevole” e l’avvocato il suo “complice”. Se Il difensore è identificato col suo assistito, finisce per meritare anche lui la punizione. Tutelare il (presunto) reo è di per sé una colpa. Logico, no? Giuseppe Belcastro su Il Dubbio il 10 maggio 2021. È un circolo vizioso quello che, in parte, può spiegare la perniciosa identificazione tra l’Avvocato e l’assistito. E si basa, mi pare, su due pilastri: la necessità e la distorsione.

La necessità. Nel sistema degli equilibri democratici disegnato dalla Costituzione, è necessario che il  cittadino che delega potestà allo stato sia messo nella condizione di verificare se e come quella potestà venga esercitata. Non fa eccezione la giurisdizione. Però la verifica, un tempo affidata in larga parte alla presenza diretta nei luoghi della giustizia (le aule), durante la effettiva celebrazione di quell’esercizio (il processo), da parte di chi ne avesse interesse (il cittadino o il cronista), è invece oggi affidata ad una mediazione diffusa, quella dei mass media. La struttura del villaggio globale rende così istantanea la divulgazione di informazioni, sopravanzate dalla loro stessa velocità di trasmissione; insomma, non importa tanto ciò che si racconta, quanto il fatto che lo si racconti per primi. L’attenzione e il racconto puntano allora direttamente sulla prima cosa disponibile: le indagini, fase pre-processuale incondizionatamente governata dalla parte che accusa. Ma se chiediamo di un fatto a chi rispetto ad esso ha un preciso (e legittimo) interesse ne otterremo assai probabilmente una narrazione che a quell’interesse è consentanea. Un’imperfetta competenza tecnica del narratore sull’argomento fa, a volte, il resto del lavoro. Dunque, si comprende agevolmente perché la narrazione della vicenda giudiziaria focalizzata sull’indagine restituisca ineluttabilmente l’idea che ogni indagato sia in realtà un colpevole. E questo incomincia a lumeggiare il secondo pilastro di cui si diceva.

La distorsione. Perché, se l’indagato è un colpevole, tutto ciò che segue cronologicamente all’indagine non serve più. Il processo, insomma, da luogo di effettivo esercizio della giurisdizione, diventa inutile orpello, buono nella migliore delle ipotesi a confermare quanto già si sapeva dall’inizio. Il controllo collettivo sull’esercizio della funzione, insomma, alimentato da una narrazione precoce, parziale e a volte di scarsa qualità, non solo perde il suo scopo, ma rischia persino di corrompere dall’interno la funzione stessa cui è rivolto. Ecco, proprio quando questo accade (ormai quasi sempre) l’Avvocato diventa il suo assistito e, quasi come lui, merita la punizione. In fondo è logico: difendere un colpevole è di per sé una colpa che al contempo qualifica chi la commette e fa perdere inutilmente alla collettività tempo e risorse. In questo humus virulento, che favorisce talvolta episodi di isteria collettiva, invettive e minacce, l’Avvocato non partecipa più della giurisdizione, ma ne ostacola prezzolatamente l’esercizio, frapponendo cavilli per salvare il criminale di cui è certamente compare. E allora alla gogna pure l’Avvocato perché, in fondo, come si fa a difendere gente così? È un circolo vizioso, si diceva, per rompere il quale basterebbe forse un poco di ragionevolezza, che però oggigiorno è merce assai rara. Se ne potrebbe prendere a prestito da tutti quelli che gli ingranaggi del processo hanno assaggiato sulle loro carni, scoprendo, quand’anche colpevoli, che l’Avvocato difende diritti e non delitti. O persino e forse meglio da coloro, nient’affatto pochi, che ne sono usciti indenni nel corpo, ma non sempre nello spirito: gli assolti, gli ingiustamente accusati. Tutti costoro sanno in maniera esperienziale cosa sia per davvero un’indagine, un processo e, prima ancora, il clamore che lo precede; e sanno pure quanto siano vacui i rimedi postumi approntanti dal sistema a questo circo, troppo spesso indegno. Ma essi sanno soprattutto che non sarebbero arrivati sull’altra riva del fosso senza un Avvocato, altro da sé, a garantire il rispetto dei loro diritti. L’Avvocato non è il suo assistito e ogni assistito ha respirato questa elementare verità che chi può dovrebbe spiegare incessantemente per tutte le ore di tutti i giorni. Non fosse altro che al fine di evitare che, per capirlo, si debba prima o poi tutti provarlo sulla nostra pelle.

Assolti ma per sempre dannati. I dannati della gogna, da Mastella a Lupi 20 storie di tritacarne mediatico-giudiziario nel libro di Ermes Antonucci. Frank Cimini su Il Riformista il 5 Maggio 2021. Il processo è già una pena perché c’è la gogna mediatica. Ma non tanto al momento del processo. Molto prima. Con le indagini preliminari dove le procure sono i signori assoluti, i difensori non toccano palla e la difesa non ha difesa. Ermes Antonucci giornalista del Foglio racconta 20 casi di “dannati della gogna”, persone rovinate, con l’assoluzione che serve a molto poco quasi a niente e ci sono pure le vicende di chi paga dazio alla cattiva fama senza essere stato nemmeno inquisito formalmente. Essere indagati dai mezzi di informazione è molto peggio che finire inquisiti dai magistrati. «Tanto più vasta sarà l’eco mediatica dell’accusa tanto meno chi l’ha promossa sarà disposto a riconsiderarne il fondamento – scrive nella prefazione l’avvocato Gian Domenico Caiazza – Il cappio si stringe intorno al collo del presunto colpevole con un doppio nodo scorsoio, la gogna mediatica da un lato, l’accusatore impegnato nella strenua autodifesa a oltranza dall’altro. Non c’è scampo fino a quando il presunto colpevole non avrà la ventura di incontrare un giudice indifferente all’una e all’altro. Un evento purtroppo nient’affatto scontato e comunque quasi sempre drammaticamente tardivo». Secondo Caiazza non dobbiamo disperare ma essere consapevoli che la strada da percorrere è quella di recuperare finalmente un principio di responsabilità del magistrato per i suoi atti giudiziari. «Oggi questo è precluso da un sistema di valutazioni professionali positive al 99,6 per cento, dunque inesistenti. Un potere pubblico irresponsabile rappresenta un irrimediabile squilibrio democratico» conclude il legale. «Il fenomeno si è affermato in numerose nazioni ma è in Italia che mostra una forza è una violenza senza pari – chiosa Antonucci – tanto da portare a un annientamento sostanziale di alcuni principi basilari della nostra Costituzione, a partire dalla presunzione di non colpevolezza». Il tritacarne, ricorda l’autore, si palesa in varie forme: notizie passate ai giornalisti da procure e polizia giudiziaria, pubblicazione di materiale di indagine ancora coperto da segreto, diffusione di intercettazioni spesso penalmente irrilevanti, assenza di contraddittorio, invasione morbosa negli ambiti privati dei malcapitati e, dulcis in fundo, mancanza di attenzione per le fasi successive dei procedimenti. E se va bene minuscoli trafiletti sui giornali. “Tanto è già uscito tutto” è la considerazione di molti giornalisti che dovrebbero sottoporre a vaglio critico le tesi dell’accusa. E come potrebbero dal momento che “il pane quotidiano” arriva loro dalle procure. Come disse un famoso avvocato ai tempi della falsa rivoluzione di Mani pulite (ma i tempi non sono cambiati e se sì sono cambiati in peggio): «Il pm fa anche il caporedattore nei quotidiani del mandamento giudiziario». Giovanni Novi, ex presidente del Porto di Genova, arrestato con l’accusa di un patto illecito stipulato con presunte irregolarità nell’assegnazione dei moli. Dal 2008 al 2014, le date del calvario. La Cassazione lo assolve sentenziando che Novi agiva per il bene del porto. Ma al danno si aggiunse la beffa. Novi non ha avuto diritto al risarcimento delle spese legali perché l’Avvocatura dello Stato interpretò la sua carica come onoraria. Insomma finché si trattava di processarlo era un presidente a tutti gli effetti. Nel momento in cui doveva essere risarcito diventava onorario. L’inchiesta evaporata avrebbe provocato al porto di Genova danni per sette milioni di euro. «Quello che mi è dispiaciuto di più – ha detto Novi – al momento dell’assoluzione mia moglie non c’era più». Calogero Mannino che fu ministro e parlamentare è stato sotto processo per 30 anni con l’accusa di essere mafioso prima dell’assoluzione definitiva. Mannino, 80 anni, pensa al futuro della giustizia e alla modifica della prescrizione. «Il risultato è che i processi saranno ancora più lunghi solo perché un ministro della giustizia che non ha nessuna esperienza di aule giudiziarie ha voluto avventurarsi sull’eccitazione di alcuni organi di stampa amici». Insomma il futuro della gogna mediatica. Clemente Mastella è stato assolto quindici volte su quindici. Maurizio Lupi fu costretto da non indagato a dimettersi da ministro per la storia di un orologio d’oro regalato al figlio da un amico di famiglia di vecchia data. Giulia Ligresti fu assolta dopo sei anni con la revoca della pena che aveva patteggiato da innocente. Perché quella sentenza era in contraddizione con il verdetto che aveva assolto il fratello Paolo. Dell’imprenditore Andrea Bulgarella il quotidiano Repubblica scrisse che aveva l’odore della mafia addosso. Dopo l’assoluzione non sono arrivate le scuse. È la stampa bellezza. E insieme alla “giustizia” di danni ne fa tanti. I dannati della gogna. Editore Liberi libri. 133 pagine. Autore Ermes Antonucci. Frank Cimini

Spinti all'addio. Lupi e i suoi fratelli. Vittime innocenti dei tagliagole a 5 stelle. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Novembre 2019. Chissà se, quel 19 ottobre 1995 in cui il ministro Filippo Mancuso fu crocifisso nell’aula di Palazzo Madama, il giovane Maurizio Lupi, consigliere comunale a Milano, ha percepito il fatto come un punto di non ritorno e se ha immaginato che esattamente vent’anni dopo sarebbe toccata a lui una simile sorte. E soprattutto se aveva intuito, essendo stato lui eletto in un consiglio comunale risorto sulle macerie di una giunta sterminata da Tangentopoli, che da quel momento in avanti, o si procedeva alla ricostruzione, proprio come quella post-bellica, dello Stato di diritto, o non si sarebbero più contate le vittime del giustizialismo. Anche tra i componenti di un governo. Non ci sono molti modi per cacciare un ministro, nel nostro Paese. Non lo può fare, al contrario di quanto accade in paesi come la Spagna e l’Inghilterra, il presidente del consiglio, né la Costituzione ha previsto il caso della sfiducia individuale. Pure nel 1995, sulla base di un regolamento della Camera (che in seguito la Corte costituzionale dichiarò applicabile anche al Senato), il Pds, che costituiva la maggioranza di sostegno al governo Dini, riuscì a impallinare un grande ministro di Giustizia per “eccesso di garantismo”: il guardasigilli Mancuso aveva osato mandare gli ispettori all’intoccabile pool di Milano e aveva criticato gli incriticabili “professionisti dell’antimafia”. Quello del ministro Mancuso resterà l’unico caso di sfiducia individuale andato in porto. Anche se, da quel momento in avanti, e soprattutto dopo l’entrata in Parlamento del Movimento Cinquestelle, sarà tutta una fioritura di mozioni di sfiducia individuale, in gran parte legate a inchieste giudiziarie, anche se presentate nei confronti di ministri non indagati. Secondo la Banca dati della Camera, dal 1990 al 2017 sono state presentate 58 mozioni di sfiducia individuale, il solo partito di Grillo nella quindicesima legislatura ne ha protocollate 25. Sono armi spuntate, anche perché sono in genere strumenti usati dai partiti di opposizione, che non hanno i numeri per farle votare. Ma c’è un modo molto più subdolo ed efficace da parte degli stessi governi e delle maggioranze per eliminare un ministro quando un’ombra vada a oscurare la sua reputazione, ed è quello di accompagnarlo alle dimissioni “spontanee”. Il caso di Maurizio Lupi è esemplare, ma non è stato il solo, negli anni dei governi di sinistra. Apripista è stata la ministra del governo Letta Josefa Idem nel 2013, per una violazione nel pagamento dell’Ici. Un peccato veniale, la cui penitenza è stata scontata, prima ancora che con l’uscita della ministra dal governo, con una vera lapidazione mediatica ben orchestrata in particolare dal Fatto quotidiano. Seguirà un anno dopo, nel 2014, il caso di Nunzia De Girolamo, ministro dell’Agricoltura dello stesso governo, che verrà intercettata, quindi sbattuta sui giornali senza essere neppure indagata. Cosa che avverrà in un secondo momento. Ma intanto anche lei verrà accompagnata “spontaneamente” alla porta, salvo verificare nel 2017 di esser stata completamente prosciolta. Siamo arrivati al governo Renzi, quando assistiamo al consueto balletto del circo mediatico-giudiziario che coinvolge prima Maurizio Lupi e poi Federica Guidi, mai indagati in due inchieste (Grandi Opere e Tempa rossa) che si sono poi sciolte come bolle di sapone. Anche Matteo Renzi si comporterà come i suoi predecessori, a partire da quel presidente Dini che accompagnò alla porta il proprio ministro Guardasigilli. Non hai il potere di revoca? Lo sostituisci con le dimissioni “spontanee”. Basta che tu presidente del Consiglio lasci ai tuoi parlamentari la libertà di voto a una qualunque mozione di sfiducia individuale che qualche grillino tagliagole avrà sicuramente presentato, ben imbeccato dal suo quotidiano di partito. A quel punto il malcapitato ministro non potrà che dimettersi. Non c’è scampo, come ha ben verificato Matteo Salvini, quando ha cercato di difendere i diritti degli uomini di governo del suo partito. La storia si ripete, da quel 19 ottobre 1995. Tiziana Maiolo

I partiti in balia delle toghe. Quante vite e carriere politiche devastate dalla furia della magistratura. Viviana Lanza su Il Riformista il 8 Settembre 2020. Indagati e assolti. Qualche volta anche rovinati. Talvolta costretti a stravolgere il corso delle proprie scelte e indirettamente anche quelle di altri. Sicuramente provati e in qualche modo vittime di un sistema giudiziario che prevede tempi sempre lunghissimi per arrivare a una sentenza. La storia giudiziaria napoletana e campana è piena di casi che ripropongono il tema della cosiddetta “giustizia a orologeria” respinta con forza dalla magistratura, di errori giudiziari e inchieste annunciate in pompa magna e ridimensionate nel corso dei successivi step processuali. «Era stata una sentenza importante. Nel processo sui rifiuti pur essendo i reati ipotizzati ormai prescritti i giudici si erano espressi nel merito con una sentenza di piena assoluzione per insussistenza delle accuse. Poi la procura aveva fatto appello per trasformare l’assoluzione di merito in assoluzione per prescrizione. Oggi la Corte di appello ha dichiarato inammissibile l’impugnazione del pm ed ha confermato la sentenza di primo grado. Ringrazio gli avvocati Krogh e Fusco e le persone che mi sono state vicine in momenti difficili. Per quanto mi riguarda è la conferma che è giusto aver fiducia nella giustizia e che i tempi dovrebbero essere più brevi perché la lunghezza dei processi danneggia gli innocenti e premia i colpevoli». A maggio 2019 Antonio Bassolino commentava così la sentenza che metteva la parola fine a una parentesi giudiziaria durata 16 lunghi anni. L’ex sindaco di Napoli ed ex governatore della Campania usciva definitivamente assolto dal processo su presunte irregolarità nella gestione della più grande emergenza rifiuti che la regione abbia vissuto. La Corte di Appello aveva appena dichiarato inammissibile l’appello dei pm della Procura di Napoli, che si erano opposti alla sentenza di primo grado chiedendo che fosse trasformata da assoluzione di merito in assoluzione per prescrizione, e aveva confermato la piena assoluzione di Bassolino e di altri 26 imputati. L’ombra delle accuse fu definitivamente allontanata, ma gli effetti politici di quegli anni ormai non potevano essere più annullati. Accadde lo stesso per Clemente Mastella. A gennaio 2008, quando era ministro della Giustizia e leader dell’Udeur, fu coinvolto, assieme alla moglie Sandra Leonardo, all’epoca presidente del consiglio regionale della Campania, nell’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere su presunti illeciti nelle nomine Asl. Dopo quasi dieci anni arrivò la sentenza di assoluzione piena per lui, la moglie e altri imputati: «i fatti non costituiscono reato», sostennero i giudici. La sentenza ridiede onore a Mastella e agli altri assolti ma non poté rimediare agli effetti politici di quelle accuse non confermate nel processo: le dimissioni di Mastella, la sfiducia al governo Prodi, le nuove elezioni con la vittoria di Berlusconi. Indagato, esposto alla gogna mediatica e poi assolto: il caso più recente è quello di Stefano Graziano, consigliere regionale del Pd campano. Il 12 agosto scorso l’archiviazione decisa dal gip di Santa Maria Capua Vetere lo ha scagionato dall’accusa di reati elettorali. Già nell’aprile 2016, proprio alla vigilia delle elezioni amministrative, Graziano fu coinvolto in un’inchiesta con la pesante accusa di concorso esterno in associazione camorristica salvo poi essere scagionato quando, dopo mesi di indagini, la stessa Dda aveva chiesto e ottenuto per lui l’archiviazione. Intanto la gogna mediatica e soprattutto politica aveva già prodotto i suoi effetti.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Chi è Roberta Bruzzone: biografia, età, marito e figli della criminologa. Antonella Acernese il 3 Maggio 2021 su controcampus.it. La migliore nel suo campo, psicologa forense e criminologa, chi è Roberta Bruzzone: biografia, età, altezza, origini, marito, figli, vita privata, curriculum e carriera. Laureata in Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Torino, si specializza a Genova in Psicopatologia Forense e approfondisce gli studi in America, negli Stati Uniti. Criminologa, psicologa forense, opinionista e personaggio televisivo. Tantissimi sono i casi di cronaca nera di cui si è occupata e che l’hanno resa famosa, presenziando in diversi programmi tv, come Porta a Porta e Quarto Grado, in qualità di ospite fissa. Conduce anche due programmi su Real Time Donne mortali e La scena del crimine. Ricopre i ruoli di Presidente dell’Accademia Internazionale delle Scienze Forensi, di Direttore Scientifico e di Vicepresidente de “La Caramella Buona Onlus”. Il suo carisma e le sue qualità la portano ad esperienze televisive varie come quella di giudice di Ballando con le Stelle, a partire dal 2017. Acquisisce notorietà come consulente della difesa di Michele Misseri, nel delitto di Avetrana. Prima ancora è coinvolta come consulente anche nella strage di Erba. L’abbiamo sentita poi nel caso di Denise Pipitone. Ma parlarci di lei non saranno solo i casi come quello di Piera Maggio e la figlia Denise Pipitone, Roberta Bruzzone chi è oggi, quanti anni ha, con chi è sposata, compagno e figli, sarà la sua biografia a rivelarcelo. Per scrivere una biografia e sapere chi è Roberta Bruzzone, Instagram, Facebook ed il suo curriculum vitae, ci saranno utili per scoprire innanzitutto età, altezza, vita privata, marito e figli della criminologa. Nata a Finale Ligure il 1 Luglio 1973, sotto il segno zodiacale del Cancro. Della sua famiglia non si sa molto. Il padre è un poliziotto e sin da piccola cresce osservando il suo mestiere. Da lui sicuramente eredita la passione per il mistero e la grande curiosità. Ha due fratelli gemelli più piccoli, Andrea e Federica. In un aneddoto sulla sua infanzia ha raccontato che, a soli tre anni stava per affogarli mentre cercava di far loro il bagnetto, ma fortunatamente è intervenuta la nonna. E’ molto legata alla nonna. Difatti racconta che il momento peggiore della sua vita è stata proprio la sua morte, avvenuta nel 2004. La criminologa è alta 168 cm e pesa circa 62 kg. Lunghi capelli biondi, sorriso avvenente e sguardo intenso. E’ conosciuta per le sue qualità intellettuali ma anche per il suo fascino. Ha uno stile rock, non convenzionale, difatti spesso nelle sue apparizioni indossa giacche di pelle e abiti borchiati. Il profilo Instagram di Roberta Bruzzone è abbastanza attivo. Seguita da circa 70 mila persone, pubblica soprattutto aggiornamenti sulle sue apparizioni televisive e su casi di cronaca di cui si sta occupando. Sin da piccola mostra attenzione e curiosità nei confronti del mistero, dell’ignoto, tanto da affermare di essere attratta dai luoghi abbandonati. Al contrario dei suoi coetanei racconta che “invece che avere paura dell’uomo nero io lo andavo a cercare.” Vivace e ribelle, viene addirittura cacciata dalla scuola materna. La sua indole la conduce su una strada ben precisa: quella dell’investigazione e del crimine. Si laurea in Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Torino, si specializza a Genova   in Psicopatologia Forense e approfondisce gli studi in America, negli Stati Uniti. E’ una donna molto passionale. Difatti vive di stimoli sempre nuovi e cerca esperienze adrenaliniche. Si spiega così la sua passione per le motociclette, ereditata da suo padre. La nonna le regala la sua prima moto a 12 anni. Ad oggi possiede due ducati, una Diavel e uno Streetfighter 848. Della sua vita privata sappiamo che è stata sposata, l’ex marito di Roberta Bruzzone è Massimiliano Cristiano, con il quale è stata legata dal 2011 al 2015. I due non hann avuto figli e sono rimasti in ottimi rapporti, tanto da pubblicare nel giorno del loro divorzio una foto insieme in cui brindano, scrivendo “Chiudere una storia importante in maniera civile si può”. Nel giugno 2017 la criminologa si sposa con rito civile a Fregene, in spiaggia. L’attuale compagno è Massimo Marino, funzionario della Polizia di Stato che per due anni è stato impegnato in una missione all’ambasciata italiana di Kabul. Più volte ha rivendicato con forza   la scelta di non aver figli. Molti la conoscono per apparizioni televisive varie e per averla vista impegnati in importanti casi come la strage di Erba, fino al caso della scomparsa della piccola Denise Pipitone, Roberta Bruzzone, chi è oggi lo sappiamo soprattutto per la sua straordinaria carriera. Dopo essersi laureata e specializzata in Psicologia e Psicopatologia Forense, inizia immediatamente una carriera in forte ascesa. Diviene consulente di Michele Misseri, nel delitto di Avetrana. Segue da vicino la strage di Erba. E’ poi impegnata nei tantissimi casi di cronaca nera italiana, mostrando acutezza e attenzione ad ogni dettaglio. Per il suo carisma viene invitata a presenziare in numerosi programmi tv, come esperta criminologa. Dal 2008 è ospite fissa di Porta a Porta nell’ambito delle puntate dedicate alla cronaca nera. E’ autrice e conduttrice della trasmissione La scena del crimine, andata in onda sulla rete locale GBR – Teleroma 56. Nonché conduttrice di Donne mortali, andata in onda per tre edizioni sull’emittente Real Time. La criminologa tuttavia mostra poliedricità e versatilità, difatti a partire dal 2017 è invitata come opinionista nel programma Ballando con le Stelle, con il compito di tracciare i profili psicologici dei vip in gara e svelare quanto riuscisse a cogliere della loro personalità. E’ docente di Psicologia Investigativa, Criminologia e Scienze Forensi presso l’Università LUM Jean Monnet di Bari e del Master di I Livello in Criminologia Investigativa presso l’Università degli Studi Niccolò Cusano. E’ anche scrittrice di diverse opere: Chi è l’assassino. Diario di una criminologa; Segreti di famiglia. Il delitto di Sarah Scazzi. Le prove, i depistaggi e le lacrime di plastica; State of Florida vs Enrico Forti. Il grande abbaglio; con Emanuele Florindi pubblica Il lato oscuro dei social media. Nuovi scenari di rischio, nuovi predatori, nuove strategie di tutela; con Valentina Magrin Delitti allo specchio. I casi di Perugia e Garlasco a confronto oltre ogni ragionevole dubbio; infine nel 2018 esce Io non ci sto più. Consigli pratici per riconoscere un manipolatore affettivo e liberarsene. Famosa non solo per essere criminologa, Roberta Bruzzone chi è oggi, lo sanno anche gli appassionati di musica Rock considerato che è la cantante della RockRiders Band, insieme al marito. Scopriamo come nasce questa nuova esperienza. Nel 2020 fonda insieme al marito chitarrista la band, coinvolgendo un gruppo di amici appassionati di musica rock “vecchia scuola”. La musica ed il ritmo è forte ed intenso e punta l’attenzione sulla violenza nei confronti delle donne. La donna è fortemente convinta che “la musica sia un potente strumento di comunicazione in grado di raggiungere i livelli più profondi delle emozioni e innescare cambiamenti positivi.” Il nuovo singolo “È troppo tardi ormai” si colloca all’interno della campagna di prevenzione contro la violenza sulle donne, all’interno dell’iniziativa del 2018, chiamata “Io non ci sto più.” Il testo, intenso e profondo è scritto dal marito. Racconta di “un viaggio doloroso all’interno di una storia sbagliata e malevola, in cui non sono mancati i maltrattamenti fisici e psicologici. La protagonista del brano attraversa tutte le fasi critiche per prendere consapevolezza e arrivare, finalmente, a dire basta. Il messaggio è perentorio e preciso: il momento giusto per dire basta è adesso.”

Anagrafica Principale. Nata a Finale Ligure il 1 Luglio 1973, sotto il segno zodiacale del Cancro. Alta 168 cm e pesa circa 62 kg. Laureata in Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Torino, si specializza a Genova in Psicopatologia Forense e approfondisce gli studi in America, negli Stati Uniti. Tantissimi sono i casi di cronaca nera di cui si è occupata e che l'hanno resa famosa, presenziando in diversi programmi tv, come Porta a Porta e Quarto Grado, in qualità di ospite fissa. Conduce anche due programmi su Real Time Donne mortali e La scena del crimine.

Antonella Acernese. Studentessa di Lettere Moderne alla Federico II di Napoli. Sono cresciuta a contatto con libri d'ogni genere, sviluppando amore verso le lettere e il potere della loro combinazione. Ho iniziato a collaborare con testate giornalistiche e scrivendo su blog, sin da giovanissima. L'obiettivo di affermarmi nel mondo lavorativo, in qualità di giornalista, è la mia più grande motivazione. Fortemente affascinata dall'essere attiva sul campo e vigile nello sguardo nei confronti della realtà. Mi appassionano i dettagli, i retroscena, la possibilità di scoprire antefatti e di non arrestarsi mai, in tale ricerca. La dedizione nella ricerca costante dei dettagli è alla base della rubrica di Attualità che curo: "Le biografie dei personaggi". Curiosità, fatti e i loro mondi da scoprire, mi affascinano e mi stimolano nell'addentrarmi in essi e narrarli. Dico da sempre e senza remore, di essere nata per scrivere, per fondere insieme questa mia passione alla volontà di contribuire ad un servizio pubblico, ad informare e far conoscere. Scrittura pulita, chiara e rispettosa, un plain language, è ciò a cui miro nella stesura degli articoli, affinché cronaca e notizie possano essere consumate da tutti, senza alcun ostacolo di chiarezza.

Ed a proposito di credibilità.

7 Ottobre 2010 - La criminologa Bruzzone: "Misseri un pedofilo assassino". Ma poi cambia diagnosi!

Esattamente il 7 ottobre 2010 sul Tgla7, la dottoressa Bruzzone diceva, a proposito del Misseri: «Non credo francamente che questa vicenda sia nata quarantadue giorni fa. Non penso che il 26 agosto sia l'unico momento in cui questa persona soggetto ha avuto un interesse sessuale per un minore. Parliamo di un pedofilo assassino e questo tipo di soggetti difficilmente a quell'età ha il proprio ingresso nella vita criminale per cui purtroppo c'è da indagare in maniera molto più allargata nella vita di quest'uomo e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti...» Allorché la giornalista chiedeva alla dottoressa Bruzzone se secondo lei il Misseri avesse avuto dei complici, lei rispondeva testualmente che non lo riteneva proprio veritiero: «Penso che sia assolutamente probabile che questa persona abbia commesso tutto da sola. Non ci vedo nulla di impossibile per una persona soltanto... Ha fatto quello che ha fatto, ha abusato del corpo di questa giovane, poi ha atteso un tempo secondo me ragionevole tanto per muoversi probabilmente magari con il favore della notte, e portare poi il corpo là dove è stato ritrovato, celato in maniera estremamente accurata e difficilmente ritrovabile se non su indicazione dell'assassino, come poi effettivamente avvenuto.» Quando poi le è stato chiesto che pena meritava quest'uomo, ha risposto senza esitare: «In questo caso l'ergastolo penso sia impossibile non comminarlo... c'è piena consapevolezza, c'è lucidità... probabilmente sentiremo parlare ....forse un tentativo di stabilire una sorta di seminfermità, ma in questo caso ripeto è assolutamente escludibile sulla base di ciò che è stato fatto da quest'uomo sia durante la fase omicidiaria, sia nella fase successiva di occultamento del cadavere e ahimè nella fase che ha riguardato come sembra anche la fase della violenza sessuale...» A questo punto la giornalista chiedeva come difendersi da questi soggetti, visto che a dire della Bruzzone uno come il Misseri doveva essere già conosciuto come pedofilo. E a questo punto la Bruzzone è stata quanto mai categorica: «Denunciando! Facendo emergere il tutto! facendosi consigliare da professionisti, andando ai Centri Antiviolenza... Telefono Rosa.... Io collaboro con loro da anni e sono assolutamente un interlocutore preziosissimo per questi tipi di casi...». Immaginiamo cosa sarebbe successo se Sabina Misseri si fosse recata a Telefono Rosa e avesse denunciato che da mesi sapeva che il padre molestava Sarah e lei...Che giustizia avremmo avuto, ascoltando oggi le parole della criminologa dottoressa Bruzzone, che dice il contrario di tutto quanto affermato prima?

Nuovo processo per Michele Misseri, l’agricoltore di Avetrana coinvolto nei processi per l’uccisione della nipote Sarah Scazzi, per il cui assassinio sono state condannate all’ergastolo la figlia Sabrina e la moglie Cosima Serrano (in primo grado con conferma in secondo). Il gup del Tribunale di Taranto, Valeria Ingenito, il 10 settembre 2015 ha rinviato a giudizio Michele Misseri (già condannato anche in appello a 8 anni di reclusione per soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi) con l'accusa di calunnia nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. La professionista è stata consulente di parte nel processo per l’omicidio mentre il legale è stato difensore dello stesso Misseri, che inizialmente confessò l’omicidio della ragazzina per poi addossare le responsabilità a sua figlia Sabrina. Insieme con Misseri, che risponderà di calunnia, sono finiti sotto processo per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista Ilaria Cavo, accusati di aver fatto da “sponda” in qualche maniera alle accuse lanciate da Misseri nei confronti dell’avvocato Daniele Galoppa e della dottoressa Roberta Bruzzone, rispettivamente ex legale ed ex consulente dello stesso Misseri. La giornalista di Mediaset Ilaria Cavo, attuale assessore alla Comunicazione e alle Politiche giovanili della Regione Liguria, avrebbe rilanciato le versioni di Misseri attraverso servizi televisivi. Il contadino di Avetrana, quando è tornato ad accusarsi dell’omicidio, ha sostenuto di essere stato in qualche modo indotto da Bruzzone e Galoppa a tirare in ballo sua figlia Sabrina (condannata in primo e secondo all’ergastolo, come sua madre Cosima Serrano). Il rinvio a giudizio, con processo fissato per l’1 dicembre 2015, è stato disposto dal gup dottoressa Valeria Ingenito. Lo stesso gup aveva a suo tempo autorizzato la citazione, come responsabili civili delle società «Rai», «Rti» per “Mediaset”, «Edizioni Universo», ed «Rcs» per il settimanale “Oggi”. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, sia la giornalista che l’opinionista-Mediaset avrebbero espresso opinioni che avrebbero fatto sorgere dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. Il primo, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa, come si ricorderà, era stata nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri. 

Calunniò la Bruzzone e Galoppa: chiesti 4 anni per "zio Michele". A giudizio anche Ilaria Cavo e un penalista romano. Quattro anni di carcere per Michele Misseri, che deve rispondere di calunnia, e il minimo della pena prevista, un anno, per i due suoi coimputati: la giornalista Ilaria Cavo e l’avvocato, Fabrizio Gallo che rispondono di diffamazione, scrive Giovedì 14 Giugno 2018 "IlQuotidianodipuglia.it". Sono queste le richieste formulate dall'accusa, affidata al pubblico ministero Mariano Buccoliero, nel processo che vede come principale imputato lo zio di Sarah Scazzi, già rinchiuso nel carcere di Lecce dove sta scontando otto anni per la soppressione del corpo della nipote Sarah Scazzi, uccisa a soli 15 anni. Il contadino di Avetrana è finito sotto processo per aver accusato il suo ex avvocato, Daniele Galoppa, e la criminologa Roberta Bruzzone, di averlo entrambi costretto ad accusare la figlia Sabrina Misseri dell’uccisione di Sarah, delitto di cui in un primo momento lo stesso Michele si era addossato ogni colpa. Gli altri due imputati, l’ex giornalista ora assessore della Regione Liguria e il penalista romano, già difensore per un breve periodo di Misseri, avrebbero messo in dubbio la correttezza di Galoppa e Bruzzone avallando la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto ad alterare la verità dei fatti. A querelare tutti erano stati la stessa Bruzzone e Galoppa, ora parte lesa nel processo, i quali hanno già anticipato di voler intentare un’azione risarcitoria in sede civile. La nota criminologa era stata nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri. Il giudice del Tribunale di Taranto dove si svolge il processo, Elvia Di Roma, ha fissato la prossima udienza per il 3 ottobre.

PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?

La domanda è sorta spontanea al dr Antonio Giangrande che sulla vicenda di Avetrana ha scritto il libro ed il sequel “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana, Il resoconto di un Avetranese”. Questione importante, quella sollevata da Antonio Giangrande, in quanto se fondata, mette in una luce diversa il rapporto tra la stessa dr.ssa Bruzzone e Michele Misseri, suo accusatore.

Veniamo alla notizia censurata dai media.

La criminologa Roberta Bruzzone vittima di stalking, si legge su “ net1news” dal 12 gennaio 2015. “La criminologa e psicologa Roberta Bruzzone ha denunciato il suo ex fidanzato per stalking. Proprio grazie alla sua professione, la donna si è spesso occupata di vittime di molestie e persecuzioni e mai forse avrebbe pensato di vivere tutta quell’angoscia in prima persona. Roberta Bruzzone che conduce una trasmissione sul canale tematico del digitale terrestre “real time” è ormai un volto noto essendo spesso ospite nei salotti televisivi in qualità di esperta della materia. La donna è però entrata a far parte della folta schiera di vittime di molestie. A perseguitarla, l’ex fidanzato, appartenente alle forze dell’ordine che dopo una relazione durata cinque anni, chiusasi nel 2008 ha cominciato a tormentarla. Telefonate, sms, ma anche pedinamenti e agguati veri e propri: “E’ arrivato a puntarmi una pistola alla tempia – ha confessato la criminologa – è pericoloso”. La Bruzzone ha denunciato il suo ex per ben sette volte. L’uomo ha anche diffuso calunnie sul suo conto via internet. Ora pare le cose vadano meglio.  Sulla questione ci sono degli aggiornamenti. A riferirle a Net1 News tramite raccomandata sono i legali dell’interessato, secondo cui la dottoressa Bruzzone per le sue dichiarazioni ai media è stata rinviata a giudizio per diffamazione aggravata: la prima udienza del processo è stata fissata per quest’anno. Al processo, sempre secondo quanto riferisce la raccomandata ricevuta, si costituiranno parte civile alcune associazioni a tutela delle donne.”

A quanto pare l’interessato, che sembra abbia presentato varie controquerele, si lamenta del fatto che il perseguitato è proprio lui e che ciò sia fatto per screditarlo dal punto di vista professionale, perché entrambi i soggetti svolgono la stessa professione, anche con comparsate in tv.  

Visionando l’atto pubblico si anticipa già che il processo a carico della Bruzzone avrà vita breve. Non perché non sia fondata l’accusa, la cui fondatezza non mi attiene rilevare, ma per una questione tecnica. I tempi adottati per la fissazione della prima udienza e il fatto che vi è un errore di procedura da parte del Pm (non si è rilevato il possibile reato di calunnia continuato e comunque il reato di atti persecutori, stalking, e quindi si è saltata la fase dell’udienza preliminare) mi porta a pensare che la prescrizione sarà l’ordinario esito della vicenda italica. Comunque un Decreto di Citazione a Giudizio diretto presso un Tribunale Monocratico contiene già di per se il seme del dubbio sul carattere della persona incriminata. Sospetto insinuato proprio da un magistrato e per questo credibile, salvo enunciazione di assoluzione postuma.

A me non interessa la vicenda in sé. Sarà la magistratura, senza condizionamenti, a decidere quale sia la verità. E sarà, comunque, la persona offesa dalla diffamazione in oggetto a dire la sua anche sul comportamento di alcuni organi di stampa citati in querela. Il professionista, noto perché svolge la stessa professione della Bruzzone, non cerca pubblicità, anche se, per amor di verità, è citatissimo sul blog di Roberta Bruzzone. In questa sede una cosa, però, mi preme rilevare. Dove sono tutti quei giornalisti che per la Bruzzone si stracciano le vesti, riportando a piè sospinto su tutti i media ogni sua iniziativa, mentre questa notizia del suo rinvio a giudizio non è stata ripresa da alcuno? Che ciò possa inclinare la sua credibilità e minare l’assunto per il quale Michele Misseri non abbia avuto alcun condizionamento nell’accusare la figlia Sabrina?

Oltre tutto la dr.ssa Bruzzone non ha gli stessi trattamenti di riguardo in Fori giudiziari che non siano Taranto.

A scanso di facili querele si spiega il termine “di riguardo” usato, riportandoci alle dichiarazioni del 19 marzo 2013 fatte dall’avv. di Sabrina Misseri, Franco Coppi: «Come si può definire priva di riscontri la confessione di un uomo che fa trovare il cadavere e il telefonino della vittima?», ha detto ancora Coppi. «Le motivazioni della successiva ritrattazione - ha aggiunto - rivalutano la confessione di Misseri come unica verità. La confessione del 6 ottobre 2010 spiazza i pubblici ministeri che già si erano affezionati alla pista che porta a Sabrina Misseri. Mi chiedo se quel metodo di indagine non sia contrario allo spirito del codice di procedura penale. I mutamenti di versione da parte di Michele avvengono quasi sempre dopo sospensioni di interrogatorio e su richiesta del difensore, anche con qualche aiuto involontario di quest'ultimo». Esempio, ha detto Coppi, l'interrogatorio in carcere di Michele Misseri del 5 novembre 2010, in cui l'agricoltore accusa la figlia Sabrina del delitto, e «al quale non si comprende a quale titolo partecipa la criminologa Roberta Bruzzone quale consulente di parte». «Michele è scaltro - ha aggiunto - e coglie l'occasione per accusare la figlia. C'è stata un'opera di persuasione efficace nei suoi confronti. E poi perché non dice nulla su quello che per gli inquirenti sarebbe il vero movente dell'omicidio, non dice nulla sull'arrivo di Mariangela, sulla moglie, e non basta dire, come fanno i pubblici ministeri, che lui non sapeva nulla perché non era in casa al momento del delitto».

Ecco, quindi, che a proposito dei diversi trattamenti riservati a Roberta Bruzzone si cita Savona. A Savona il tanto atteso colpo a sorpresa della parte civile non è arrivato, scrive “Il Secolo XIX”. Anzi. L’irruzione nel processo per il delitto di Stella della notissima criminologa genovese Roberta Bruzzone, è stato bloccato sul nascere dal giudice delle udienze preliminari Emilio Fois che ha respinto l’istanza del legale di Andrea Macciò, ucciso con un colpo di fucile al cuore il 13 dicembre 2013 da Claudio Tognini, di un incidente probatorio per la verifica dello stato dei luoghi dove si è consumato il dramma. L’obiettivo della parte civile sarebbe stato quello di cercare tracce ematiche nella cucina di Alessio Scardino, il proprietario del fucile che ha sparato e dell’alloggio, per arrivare ad una nuova ricostruzione dei fatti. Se il pubblico ministero Chiara Venturi non si è opposta alla richiesta, ci ha pensato il giudice a rigettarla.

 Vittima di stalking denuncia la criminologa Bruzzone. Marzia Schenetti, parte offesa a processo contro l'ex fidanzato, si è sentita diffamata da una lettera della nota criminologa ora agli atti della causa di Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Due donne contro, di cui una a dir poco famosa visto che è spesso ospite di Bruno Vespa nel suo programma televisivo “Porta a porta”. Stiamo parlando della criminologa 41enne Roberta Bruzzone che, a partire da febbraio, dovrà affrontare un processo (davanti al giudice di pace) per diffamazione, visto che è stata denunciata dall’imprenditrice toanese 48enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l’ex fidanzato Rodolfo “Rudy” Marconi che accusa di stalking. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell’udienza del 17 maggio 2013 che “esplode” questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all’Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E’ in quest’ambito che fra le due nascono delle frizioni, talmente poco edificanti da finire a carte bollate. In questo clima avvelenato “piomba” – nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking – una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo il capo d’imputazione in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano che viene definita “soggetto alquanto discutibile che ha mostrato, in una serie innumerevole di occasioni, la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze al solo scopo di danneggiare le persone verso cui nutre rancore”. Giudizi sulla Schenetti che diventano vere e proprie rasoiate: “Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato e complesso come la violenza sulle donne e sui minori, persona con problematiche personologiche incline a distorcere e mistificare la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettative di fama, successo e arricchimento personale o che, come nel caso della scrivente – rimarca la criminologa – avevano la colpa di metterla in secondo piano». Con l’ultimo deciso affondo: “Persone come la Schenetti rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza e che il Marconi è stato raggiunto da una serie di false accuse, costruite a tavolino allo scopo di poter permettere alla presunta vittima di sfruttare biecamente la sua condizione ed ottenere così visibilità mediatica”. La Schenetti, tramite l’avvocatessa Enrica Sassi, ha denunciato per diffamazione la criminologa e di recente il giudice di pace ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, fissando le date del processo. «In realtà la diffamata sono io – replica la nota criminologa – e ho denunciato la Schenetti in procura a Roma. Testimonierò nel processo e, atti alla mano, spiegherò come stanno veramente le cose. Quella lettera è il mio pensiero e ritengo di avere agito in buona fede».

La criminologa tv finisce a processo. Roberta Bruzzone imputata per diffamazione. Tra i testimoni anche il generale Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Lei: «La vera vittima sono io» di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. Dalle poltrone bianche di Bruno Vespa, alle aule del tribunale di Reggio. Roberta Bruzzone, 41 anni, la fascinosa criminologa forense, si trova ora catapultata nella prospettiva opposta: imputata per diffamazione nei confronti di una reggiana, presunta vittima di stalking. Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking, e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi, poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. Per questo è accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone — si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due donne, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Nella missiva, infatti, il personaggio tv ribadiva come la parte civile di quel processo fosse «incline a distorcere la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettavate di fama, successo e arricchimento personale». Non solo. Avrebbe anche aggiunto, nero su bianco, che i soggetti come lei «rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza». L’ipotesi di reato, dunque, è diffamazione. Il giudice di pace, mercoledì, ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, Emanuele Florindi, e ha fissato le date delle prossime udienze: 4, 11, 18 e 25 febbraio. Tra i testimoni della parte offesa, c’è poi un altro personaggio di spicco: il generale in congedo Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Ma la Bruzzone, combattiva più che mai, si difende: «Si tratta di un ricorso diretto al giudice di pace che non ha avuto nemmeno il vaglio del pm — incalza —. Lei mi accusa in maniera falsa e infondata ed è stata a sua volta querelata da me. Quella lettera era stata mandata in virtù di consulente esperta, chiamata dal suo avvocato. Da sempre porto avanti una battaglia contro le finte vittime di stalking e questo mi pare uno di quei casi». Promette, anche, che arriverà qui, a spiegare le sue ragioni: «Io verrò a Reggio e sarò sottoposta a esame, come ho richiesto: intendo dimostrare a tutti chi è questa donna: una persona a caccia di visibilità, che non ha ottenuto in altro modi». Una prima udienza davanti al giudice di pace di Reggio Emilia piena di tensioni, perché la nota criminologa 42enne Roberta Bruzzone ha subito inteso replicare per le rime all’accusa per diffamazione mossagli dall’imprenditrice toanese 49enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l'ex fidanzato Rodolfo "Rudy" Marconi che accusa di stalking, scrive Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell'udienza del 17 maggio 2013 che "esplode" questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all'Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E' in quest'ambito che fra le due nascono delle frizioni, poi "piomba" - nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking - una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo la procura in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano, da qui la denuncia ora sfociata nel processo. Ieri la criminologa ha dato battaglia solo davanti ai cronisti (verrà sentita in aula più avanti): «La Schenetti ha un problema di visibilità – dice la Bruzzone – che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile e io non mi fermerò davanti a niente, procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei. Io non credo che sia una vittima e continuerò a ripeterlo in ogni sede». L'imprenditrice – costituitesi parte civile tramite l’avvocatessa Enrica Sassi – è sta sentita in udienza: «Per me quella lettera fu una violenza tremenda, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me». Tanti i nervi scoperti e siamo solo alla prima “puntata”...

Tacchi alti, vestita di nero, trucco impeccabile e capello fluente, scrive di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. È iniziato così, non senza momenti di tensione e brusii di chi la vedeva nei corridoi, il processo per diffamazione che vede imputata Roberta Bruzzone, 42 anni, la fascinosa criminologa forense habituée delle poltrone bianche di Bruno Vespa, a Porta a Porta. Ad accusarla è una donna reggiana, presunta vittima di persecuzioni (non ne riveliamo l’identità per proteggere la sua privacy). Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi (l’imputato), poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. La Bruzzone è dunque accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone – si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi (che rappresenta la parte offesa) e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Ieri la prima udienza, davanti al giudice di pace, con la testimonianza della presunta vittima. «Quella lettera per me fu una violenza tremenda – ha detto –. Non fu altro che un insieme di diffamazioni e calunnie, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Mi sono sentita colpita da una donna che si intrometteva con violenza in un procedimento di violenza che io stessa avevo subito». E ha aggiunto: «Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me. Ci siamo sentite una volta al telefono quando è entrata nell’associazione di cui io sono presidente e la Bruzzone mi ha detto di essere stata anche lei vittima di stalking. Io invece non le ho mai parlato della mia vicenda personale. Avrei voluto, ma non ne ho avuto il tempo. Poi ci siamo viste una volta a luglio del 2012 a Sinai (in provincia di Cagliari) durante un’iniziativa contro la violenza alle donne, in cui lei ha colto l’occasione per presentare il suo libro, senza citare la nostra associazione. Al termine del convegno le abbiamo chiesto di uscirne e lei lo ha fatto il giorno dopo». La Bruzzone, però, non ci sta. E a margine dell’udienza, chiosa: «Quella donna ha un problema di visibilità che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile. Io non mi fermerò davanti a niente e procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa che dirà contro di me. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei». Tutto rimandato alla settimana prossima, per i testimoni di parte civile.

Prossimamente scopriremo che credibilità ha Roberta Bruzzone, finta vittima di stalking che presto verrà processata... e non solo perché denunciata da un ufficiale di Polizia, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Contro Vento”. Non ho mai amato i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure amo quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire. Per questo preferisco contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa. Come me tanti altri si formano una propria idea in maniera autonoma, senza ascoltare i vari gossippari che si mostrano in video per convenienza professionale... quando non hanno un contratto a pagamento. Ma non tutti resistono alla tentazione, per cui c'è chi questi programmi li guarda. Addirittura c'è anche chi li ascolta e si infastidisce per le parole che sente. Ad esempio, giorni fa mi hanno informato di alcune frasi pronunciate in maniera troppo leggera e spensierata nella puntata di Porta a Porta trasmessa martedì 20 gennaio 2015. A pronunciarle il magistrato Simonetta Matone. Simonetta Matone in televisione non va con la toga da magistrato. Per cui figura essere un'opinionista con molta esperienza giuridica. Lei martedì 20 gennaio, forse non pensando al dopo, ha paragonato i gruppi facebook creati a favore degli imputati ai fanatici che inneggiano e osannano i terroristi, nel caso specifico a chi ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e tanti altri francesi. Quella parte della puntata trattava l'omicidio di Loris Stival, quindi i gruppi a cui si riferiva sono certamente quelli che sostengono "Veronica Panarello". Non contenta, ha reiterato il reato verbale facendo credere ai telespettatori che chi aderisce ai gruppi innocentisti e critica le indagini, su internet scrive a vanvera e senza sapere nulla perché degli atti non ha letto neppure una riga. Probabile che non se ne sia resa conto, ma ha praticamente affermato che nessuno ha il diritto di criticare i magistrati perché questi sono "unici, bravi belli e infallibili". Ora c'è da dire che, pur essendosi ritagliata un'enorme visibilità mediatica partecipando da tanti anni al programma presentato da Bruno Vespa, nella vita privata è un magistrato che lavora al ministero di Grazia e Giustizia. E dai dati si capisce il probabile motivo per cui difende i magistrati. Ma c'è anche da dire che in questi anni trascorsi di fronte alle telecamere, lei prima di tutti ha dato giudizi senza aver letto neppure una riga, seppur cercando di restare neutrale chiarendo ogni volta il punto, sui casi di cronaca nera trattati da Porta a Porta. E fa specie che si permetta di giudicare in pubblico chi ha democraticamente il suo stesso diritto di parlare ed esternare la propria idea. La speranza è che a mente fredda abbia compreso di avere un tantino esagerato e magari chieda scusa a chi non è d'accordo col pensiero di alcuni magistrati, a chi si è sentito chiamato in causa anche se critica in maniera civile e dopo essersi informato al meglio (naturalmente non deve scuse a chi i magistrati li offende). Questo perché non tutti i magistrati sono infallibili. D'altronde le richieste di risarcimento a causa di errori giudiziari, in Italia sono quasi tremila ogni anno, stanno a dimostrare la non infallibilità della giustizia. In ogni caso, a parte la svista di cui sopra, le opinioni di Simonetta Matone si possono accettare perché ha un passato davvero encomiabile e in materia giuridica è senz'altro molto ferrata. Meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai? Su quest'ultimo punto vedremo se sarà dello stesso avviso dopo i diversi processi che la attendono da qui in avanti. Ad esempio, il 15 dicembre 2015 dovrà presentarsi al tribunale di Tivoli per rispondere del reato previsto dall'articolo 595 - comma tre - del codice penale per aver messo in atto, con più azioni consecutive, un disegno criminoso fatto di calunnie e offese atte a colpire un ufficiale di Polizia. Udienza conclusa con un decreto di citazione diretta in giudizio di fronte al giudice monocratico di Tivoli il giorno 3 ottobre 2016. Proc. N. 5860/2011 RGNT mod. 21. Infatti le accuse di stalking presentate dalla Bruzzone contro un ufficiale di Polizia col quale aveva avuto una relazione fra il 2004 e il 2005, addirittura una ventina di denunce dal 2009 al 2014, si sono rivelate tutte infondate. Mentre le interviste rilasciate sulla vicenda dalla opinionista di Porta a Porta, in cui non lesinava particolari sul comportamento malato, parole sue, di chi la perseguitava (ma ora grazie ai magistrati sappiamo che nessuno in realtà la perseguitava), sono tuttora impresse negli archivi delle testate giornalistiche nazionali (Corriere della Sera in primis), su internet e in televisione, sulle registrazioni di Porta a Porta e di Uno Mattina. Insomma, chi la fa l'aspetti - verrebbe da pensare - perché la vita a volte può riservare sorprese. E la Bruzzone di sorprese ne avrà una in più, perché, dato che è ambasciatrice di Telefono Rosa, un'associazione che aiuta le donne vittime di violenza, e viste le denunce per stalking da lei presentate e rivelatesi infondate, in tribunale si troverà di fronte anche alcune associazioni in difesa della donna che hanno deciso di costituirsi parte civile perché "l'utilizzo strumentale" della denuncia per un reato grave come lo stalking contribuisce a rendere meno credibili le donne che subiscono realmente una violenza. Ma non è l'unica bega che la Bruzzone dovrà affrontare in tribunale, visto che è indagata anche dalla Procura di Reggio Emilia per un reato simile ( così come su riportato da di Benedetta Salsi su “Il resto del Carlino” e Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. La moglie di un vero stalker, oggi ancora nei guai perché accusato di truffa da un'altra sua ex, si è sentita descrivere dalla Bruzzone quale finta vittima incline a distorcere la realtà (in pratica ha difeso lo stalker poi condannato). In questo caso le date del processo sono ancora più vicine nel tempo (le udienze sono fissate per il 4 - 11 - 18 e 25 febbraio 2015). Altra bega, che risale al 2012 e che presto verrà dipanata dai giudici, è una citazione civile che riguarda lei ed alcuni suoi collaboratori (promossa  dall’associazione Donne per la Sicurezza. Lei e loro su Facebook, con frasi razziste, (secondo quanto riporta il sito dell’associazione: “Mmmmm..   quanto costa affittare una russa per fare qualche foto e far finta di avere una vita ???? troppo divertenteeeee…” oppure   ““ ..ci vuole stomaco per stare con un pezzo di merda così anche se solo per sghei e solo per 5 minuti…STRANO MA VEROOO”),  hanno insultato per lungo tempo sia la modella di origine russa Natalia Murashkina, moglie del poliziotto che nel contempo la Bruzzone denunciava ingiustamente, sia le ragazze russe trattate come donne che si vendono a poco prezzo. Di questa vicenda si interessò alla fine del 2012 anche "La Pravda", un giornale russo letto da oltre cento milioni di persone. Senza parlare delle accuse mosse contro di lei da Michele Misseri, che afferma di essere stato convinto dalla Bruzzone ad inserire nel delitto di Sarah Scazzi la figlia Sabrina (con prospettive davvero vantaggiose), affermazioni che se provate le costerebbero una condanna rilevante e la carriera, ciò che ancora nessuno ha capito, e immagino che al tribunale di Tivoli si cercherà anche di chiarire questo punto, è il motivo per cui la Bruzzone abbia innestato un movimento di denunce rivelatesi infondate condite da interviste mediaticamente rilevanti ma alla luce dei fatti false. O tutti ce l'hanno con lei, e francamente è difficile da credere, o è lei ad avere motivi che l'hanno spinta a screditare l'ufficiale di polizia e le altre persone. Che dietro ci sia qualcosa di importante? Su questo punto troviamo il dato certo che il poliziotto da lei accusato, nel 2009 - anno delle prime denunce di stalking - aveva avviato una campagna politico-sindacale per ridurre gli sprechi della pubblica amministrazione. In pratica, aveva proposto di far acquistare i prodotti per le investigazioni scientifiche (alle forze di polizia) direttamente in America risparmiando così milioni di dollari di tasse e, soprattutto, di spese di mediazione ad aziende di import export.

Questo è l’articolo di riferimento. Csi all'italiana: paghiamo il doppio degli altri la polvere per le impronte digitali. La denuncia del sindacato di polizia: la Scientifica è costretta a risparmiare sulle indagini. La colpa è dei mediatori che fanno raddoppiare il costo delle attrezzature made in Usa, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci vuole preparazione scientifica, occhio addestrato, pazienza: ma l'analisi scientifica della scena di un crimine si basa anche sull'utilizzo di materiale tecnico avanzato e costoso. Chi non è rimasto allibito nel vedere in televisione la prontezza con cui i tecnici della Csi, la polizia scientifica statunitense, sfoderano ogni genere di diavolerie hit-tech? Non che le forze di polizia italiane abbiano granchè da invidiare a quelle a stelle e strisce, quanto a preparazione. Ma l'abbondanza di mezzi è una delle caratteristiche che, in questo e in altri campi, ci separa irrimediabilmente dall'America. E, secondo la denuncia del sindacato di polizia Consap, la situazione negli ultimi tempi si è ulteriormente aggravata. La carenza di mezzi è diventata cronica, al punto che spesso e volentieri - in particolare sulla scena di reati considerati «minori», come i furti in appartamento - la polizia evita di compiere tutti i rilievi necessari perchè l'ordine è quello di risparmiare su tutto: compresa la polverina necessaria a rilevare le impronte digitali. Colpa della crisi economica, sicuramente. Ma anche di una anomalia tutta italiana: la polvere per le impronte è di produzione Usa, tutte le polizie la comprano direttamente dai produttori oltreoceano, mentre la polizia italiana passa - chissà perchè - attraverso una società di mediazione. Il risultato, sostiene il Consap, è che paghiamo il prodotto il doppio degli altri. «Prodotti, come ad esempio le polveri per rilevare le impronte digitali o il famoso luminol per la ricerca del sangue umano, hanno costi abbastanza elevati e vengono prodotti da poche ditte al mondo. In particolare la Polizia di Stato e le altre forze di polizia italiane utilizzano in larga parte prodotti della Sirchie, azienda americana leader del mercato per qualità e affidabilità dei materiali commercializzati. In questo periodo di profonda crisi economica, i tagli di bilancio, oltre che a congelare gli stipendi dei poliziotti, stanno riducendo la possibilità di acquisire una quantità sufficiente di tali sostanze e di fatto i reparti specializzati di investigazioni scientifiche devono limitare il loro impiego solo ai casi più eclatanti, in pratica solo gli omicidi e qualche rapina. Sempre più spesso i cittadini che hanno subito reati definiti minori, come furti, danneggiamenti, non ricevono un intervento adeguato da parte degli investigatori che non dispongono di attrezzature sufficienti e che spesso sopperiscono, per amor proprio, con materiali acquistati di tasca loro o con mezzi di fortuna che poi spesso vengono contestati in sede di processo. La Consap, che da più di un anno sta monitorando e analizzando questo problema, ha potuto constatare che i prodotti per criminalistica non vengono acquistati dall'Amministrazione direttamente dall'azienda produttrice ma da una ditta concessionaria italiana. In pratica la Polizia di Stato paga i materiali da utilizzare sulla scena del crimine circa il doppio del loro prezzo di catalogo. Il problema è stato da tempo posto all'attenzione degli esperti di settore e di alcuni politici. E si è subito avuta la sensazione di aver toccato degli interessi economici rilevanti». Uno «spreco ingiustificato, che si ripercuote in maniera drammatica sulla sicurezza e sulla possibilità di ottenere giustizia da parte del cittadino».

E ciò che pare strano, è che la Bruzzone collabora con le aziende che controllano la maggioranza delle forniture di prodotti alle forze di polizia (la Sirchie e la Raset). C'è da chiedersi se non voglia dire nulla la sua presenza nel video pubblicitario presente sulla pagina "Chi siamo" del sito internet della Sirchie.

In seguito a questo articolo ci sono stati degli sviluppi.

"Alla dottoressa Roberta Bruzzone non piace la critica e con una strana Diffida mi inviata a pagarle 250.000 euro e a darle il nome di chi mi informa..., - scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando-Controvento”. . E' capitato anche a me. Come altri in questi anni anch'io ho ricevuto la Diffida dalla dottoressa Roberta Bruzzone. Una diffida strana in cui mi invita a pagarle - inviandoli allo studio del suo avvocato – ben 250.000 euro quale risarcimento per i gravissimi danni di immagine provocati da ciò che ho scritto in un articolo, in questo articolo, in cui, visto quanto aveva affermato a Porta a Porta, l'ho criticata. Articolo che ho completato con le notizie su una serie di processi in cui dovrà difendersi. Alla fine, dopo aver notato alcune stranezze, ho anche posto una domanda lecita che si sarebbe sciolta in acqua con una semplice e veloce risposta plausibile. Invece mi è arrivata una diffida. Strana. Ora, prima di entrare nel dettaglio e contestare pubblicamente tutte le parole del legale della Bruzzone, voglio premettere che la nostra legge è chiara e che per fare una diffida ci vogliono motivi validi. Motivi che non esistono se chi informa scrive notizie vere usando parole non offensive senza entrare nella sfera privata del personaggio di cui parla. Quindi, per quanto riguarda il diritto di cronaca si devono usare certe accortezze e ci si deve informare in maniera esaustiva. Qualcosa cambia quando chi scrive esercita il diritto di critica. Naturalmente non si può criticare un pinco pallino qualunque in un articolo destinato a più persone, specialmente se il pinco pallino a livello nazionale non lo conosce nessuno e vive e agisce in un ambiente ristretto. Al contrario, però, si può criticare quanto dice chi nel tempo è diventato un personaggio pubblico e in pubblico, o in programmi seguiti da milioni di telespettatori, esprime proprie opinioni e concetti. Concetti e opinioni che non tutti debbono per forza condividere e proprio per questo si possono criticare, perché - come ha stabilito anche il tribunale di Roma già nel 1992 - chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica. Dopo questa obbligatoria premessa, mi addentro nella diffida inviatami dal legale della dottoressa Bruzzone, avvocato Emanuele Florindi, per dimostrare quanto sia strana, assurda e priva di ogni fondamento. Il legale inizia col dire che nell'articolo ho scritto un numero impressionante di falsità. E non appena ho letto questa frase mi è spuntato un sorriso venendomi alla mente la storia del bue che chiamava cornuto l'asino. Questa la prima parte della diffida: Dott.ssa Roberta Bruzzone Vs Massimo Prati. <Gentile Sig. Prati, formulo la presente in nome e per conto della Dott.ssa Roberta Bruzzone, in relazione all'articolo da lei pubblicato su volandocontrovento.blogspot.it, per contestarne integralmente toni e contenuti. Nello specifico, non soltanto il suo articolo contiene un numero impressionante di falsità e di imprecisioni, ma risulta anche essere singolarmente contraddittorio: è davvero strano, infatti, che, mentre nelle prime righe del suo articolo Lei affermi di non amare "i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure [...] quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire", poi si presti a fare esattamente la stessa cosa mescolando artatamente giuste informazioni, velate menzogne e subdole insinuazioni volte a creare pregiudizio alla mia Assistita. Non mi risulta neppure che Lei abbia provveduto a "contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa", dato che ha proceduto a pubblicare il suo articolo basandosi su fonti unilaterali... a tal proposito, saremmo piuttosto interessati a conoscere l'identità di tali fonti, visto che sembrerebbero aver concorso con Lei ad un trattamento illecito di dati personali e di dati giudiziari il che, per un paladino dei diritti dell'imputato quale Lei si presenta, appare piuttosto singolare. Basandosi su tali "fonti" Lei ha, infatti, redatto un articolo falso, diffamatorio e gratuitamente offensivo nei confronti della mia Assistita, da Lei presentata come faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare e falsificare la realtà e collusa con le aziende che controllano le forniture di prodotti alle forze di polizia.> Alla faccia! Sarò mica malato a scrivere le cotante robacce notate dal legale...Non sono malato, non necessito di cure e quindi, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali rispondo punto per punto perché mi sono accorto che né la dottoressa né il suo avvocato paiono aver capito un articolo non diffamatorio in cui non ho assolutamente presentato Roberta Bruzzone quale persona faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare, a falsificare la realtà e collusa. E mi chiedo con quale spirito e pensiero l'abbiano letto. Partiamo dall'inizio. E' vero che non amo quelle trasmissioni in cui gli opinionisti sono chiaramente ostili alle difese e danno per certo quanto trapela dalle procure. Mi piace l'imparzialità e non credo che trasmissioni "unilaterali" siano da mandare in onda. E' vero che per scrivere sui fatti di cronaca nera non mi baso su quanto scrivono quei media e quei "gossippari" che diffondono notizie che a posteriori si rivelano inutili e tendenziose. Gli esempi sono migliaia. E' vero che le mie fonti principali sono le stesse dei giornalisti: avvocati, indagati, i loro familiari e anche periti e inquirenti. E' vero che per non lasciarmi influenzare dai pregiudizi baso i miei scritti soprattutto sugli atti ufficiali, che leggo più volte per non travisarli, e sulla logica. Mi sembra il minimo da fare quando si vuol scrivere di cronaca nera in maniera corretta e di un indagato, magari in custodia cautelare in carcere, che si dichiara innocente e rischia l'ergastolo. Detto questo, non credo sia difficile comprendere che l'inciso inserito a inizio articolo era generico e riferito ai casi di cronaca nera e non alla dottoressa Bruzzone. Infatti è quando scrivo di cronaca nera che contatto chi è parte della notizia. Quindi nessuna falsità inserita nella premessa dell'articolo, che era solo una premessa, per l'appunto, e nulla c'entra con quanto ho poi scritto sulla dottoressa che, a meno non commetta un omicidio (o non ne confessi uno già commesso) o non venga carcerata ingiustamente, al momento non è parte di alcun caso di cronaca nera. Detto anche che per scrivere di processi che devono ancora iniziare non si necessita di "fonti" particolari, se la notizia è vera, se l'udienza è fissata e se il capo d'accusa esiste che fonte serve?, mi chiedo per quale motivo dovrei divulgare le identità di chi mi informa e, soprattutto, perché dovrei farle conoscere all'avvocato Florindi. Un motivo lecito e valido non esiste. Inoltre, nessun trattamento illecito dei dati personali si può rilevare quando si parla di atti processuali non secretati riguardanti i maggiorenni (non sono io che divulga quanto è secretato dalle procure), dato che sono atti pubblici a disposizione di chiunque ne faccia richiesta. Come non esiste nessun trattamento illecito sulla privacy se si vengono a conoscere notizie sui personaggi pubblici parlando del più e del meno in un bar con un magistrato, un cancelliere o un avvocato che frequenta quel dato tribunale. Perché, vista la dimensione mediatica della dottoressa Bruzzone, vale sempre il dettame dei giudici. Loro e non io hanno stabilito che chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla propria dimensione pubblica. Per cui, pare proprio che nella premessa di falsità non ne abbia scritte. E per continuare a confutare la diffida inviatami, ci sarebbe da chiedersi da quale esternazione, presente nei quasi novecento articoli da me scritti e presenti sul blog, l'avvocato abbia capito che io sono "un paladino dei diritti dell'imputato". Mai ho scritto di essere un paladino e mai che difendo tutti gli imputati. Difendo i diritti di alcuni, questo è vero, ma lo faccio quando sono lesi in maniera per me evidente. Per cui, tanto per esemplificare e far capire meglio, critico i procuratori e i giudici quando un indagato che si dichiara innocente viene spedito in carcere ancor prima di indagini approfondite o di riscontri che provino le accuse formulate da terzi. Basti pensare a Sabrina Misseri (in custodia cautelare da quattro anni e mezzo) che nel volgere di poche ore finì in galera senza alcuna verifica sulle parole del padre - che quel 15 ottobre 2010 non era nelle migliori condizioni fisiche e mentali - e che ora è in carcere per motivi assai diversi da quelli che si sono usati per carcerarla. Forse l'avvocato Florindi neppure sa che Michele Misseri fu svegliato a notte fonda e portato ad Avetrana dalle guardie penitenziarie che lo presero in custodia quando ancora era buio pesto. Tanto che una volta giunte al paese furono costrette a "nascondersi", con l'imputato in auto, fra la vegetazione di contrada Urmo in attesa dell'arrivo dei procuratori. Questa è una notizia inedita, mai uscita sui media, e dimostra che mi informo nei modi giusti e nei luoghi giusti senza cercare lo scoop a tutti i costi. In pratica dovrebbe far capire, anche all'avvocato, che non sono uno dei tanti che copia-incolla per avere un maggior numero di entrate e guadagnare mostrando improvvisamente uno spot pubblicitario. Inoltre non scrivo articoli a favore di chiunque sia indagato, perché gli assassini veri li vorrei vedere in carcere per la vita... anche i reo-confessi se autori di delitti efferati. Per questo critico la legge che permette a chi confessa di ottenere troppi benefici e di uscire dal carcere in tempi rapidi. Ma la dottoressa Bruzzone, nonostante i processi che la attendono, non è in carcere e nemmeno ci andrà mai. Lei è libera di esternare le sue convinzioni in televisione e di andare dove vuole. Nessuno, giustamente, ha limitato la sua libertà. Quindi nessun suo diritto è da difendere. Stia pur certo l'avvocato che se venisse spedita in carcere prima ancora di essere indagata nella giusta maniera, che se contro di lei i gossippari parlassero solo in base a chi accusa, sarei io il primo a difenderla e a criticare i media per la mancanza di etica e professionalità. E ancora: in quale passaggio dell'articolo avrei descritto la dottoressa faziosa, forcaiola e quant'altro? Io, dopo aver criticato la dottoressa Simonetta Matone per aver paragonato chi scrive su facebook, nel particolare si parlava dei siti innocentisti che credono a Veronica Panarello, a chi incita i terroristi (citando Charlie Hebdo), scrissi: "meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai?" Dove sarebbero le falsità, visto che la dottoressa si contrappone chiaramente a chi cerca di difendere Veronica Panarello e lo dice apertamente al dottor Vespa, allo stesso avvocato Villardita e ai telespettatori? Se è vero, come è vero, che Veronica Panarello deve ancora subire il primo processo e si dichiara innocente, dire di fronte a milioni di persone che si hanno idee diametralmente opposte all'avvocato Villardita, quindi colpevoliste, non significa forse parlare senza imparzialità e, soprattutto, senza considerare la presunzione di innocenza? Non è forse vero che l'opinione della dottoressa è molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori? Vista la sua popolarità credo proprio che questo non si possa negare. Come non si può negare che nelle mie parole non si trovino frasi che sottintendano termini quali: "incompetente" (mai scritta e mai pensata una cosa del genere), "forcaiola" (non c'è nulla nell'articolo che porti a questo termine, visto che viene usato per situazioni molto più gravi), "razzista" (questa parola neppure se ampliamo al massimo il significato entrando sulla Treccani c'entra nulla con quanto ho scritto), "faziosa" (per essere faziosi bisogna sostenere con intransigenza e senza obiettività le proprie tesi, non limitarsi ad esprimere una opinione parlando con toni alti e molto colpevolisti). Non ho quindi scritto alcuna falsità e la mia critica ha basi più che fondate. Anche perché vale sempre la legge che dice: il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca perché nell'articolo non si parla di fatti ma si esprime un giudizio o, più genericamente, un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un'interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti. Ora qui ribadisco che alla luce di quanto ho visto e ascoltato in registrazioni di Porta a Porta, la mia critica era più che obiettiva anche se per legge non necessitava di una obiettività approfondita. Quindi, ancora una volta mi chiedo per quale motivo l'avvocato Florindi mi abbia inviato una diffida. Comunque, tanto per finire, mi addentro anche nell'ultima accusa che mi fa, quella di aver dipinto la sua assistita come una persona propensa a mistificare la realtà e collusa con le aziende che "controllano le forniture alle forze di Polizia" (e tanto per far capire come son fatto, non per altro, mi sono chiesto subito cosa stessero a significare le parole - "controllano le forniture alle forze di Polizia" - scritte dall'avvocato). Nell'articolo mi chiedevo se la dottoressa Bruzzone considererà ancora infallibili i giudici e i procuratori dopo i processi che dovrà affrontare. Specialmente perché il rigetto di tutte le denunce da lei presentate contro un dirigente dell'UGL (Polizia di Stato) la dipingono come una falsa vittima di stalking che ha approfittato della sua posizione parlando ai media di reati mai subiti. E questo sarebbe veramente grave perché contribuirebbe a rendere meno credibili le tante vere vittime di stalking. E' per queste parole che per l'avvocato l'avrei dipinta come persona propensa a mistificare la realtà? Forse l'avvocato dimentica che non sono stato io a rigettare le denunce della dottoressa, ma i magistrati che hanno valutato le indagini partite in seguito a quelle denunce. Io mi sono limitato a riportare la notizia e a far qualche considerazione. Non è quindi a me che deve fare accuse, ma a chi ha svolto le indagini e a chi le ha valutate prima di rigettarle. Comunque, proprio a causa di quei rigetti mi chiedevo il motivo per cui, a partire dal 2009 (anno in cui uscì da una associazione di criminologi di cui il dirigente dell'UGL era presidente) avesse presentato una ventina di denunce, quelle poi rigettate, nei confronti del presidente stesso. E qui mi ero fermato. Ma dato che ora ne sto scrivendo, amplio l'informazione dicendo che le denunce coinvolsero altri membri del consiglio direttivo dell'associazione di cui fino a poco tempo prima lei stessa faceva parte. E che iniziò a presentarle dopo le richieste di spiegazioni su questioni economiche che la stessa associazione le poneva. Insomma, pur senza entrare nei dettagli, nell'articolo ponevo una domanda lecita a cui si poteva rispondere in maniera chiara così che, in maniera altrettanto chiara, avrei inserito la risposta a capo articolo dando spazio a una replica. Non era così complicato da fare. Anche perché nell'articolo di cui si discute non ho calcato la mano preferendo restar fuori da vicende ben più complesse che l'avvocato di certo conosce. Ma proseguiamo con la parte della diffida in cui è scritto: Se Lei, comportandosi da interlocutore corretto e scrupoloso ci avesse contattato, avremmo potuto produrLe pagine di osservazioni atte a smentire le informazioni in Suo possesso, dimostrando, ad esempio, che l'azione civile della sig.ra Natalia Murashkina (tra l'altro neppure Russa!) è pretestuosa, infondata e priva di riscontri (ci basti qui osservare che la pagina contestata risulta creata in data successiva ai fatti)... Mi fermo un attimo per un chiarimento e per dimostrare non che l'avvocato è male informato quando afferma che Natalia Murashkina non è neppure russa, perché pur se nata fuori dai confini è a tutti gli effetti russa e lui lo sa, ma per dirgli che gli sarà molto difficile convincere un giudice che non è reato scrivere parolacce e brutte offese su una donna russa nata fuori dai confini russi, mentre lo è scriverle su una donna russa nata a Mosca. Oltretutto l'avvocato sa per certo che in Russia i passaporti distinguono la nazionalità dalla cittadinanza. Motivo per cui si può essere di nazionalità russa anche se nati occasionalmente in altra nazione. In ogni caso, non erano né l'avvocato né la dottoressa che dovevo contattare per scrivere quelle quattro righe che riguardavano la vicenda di Natalia Murashkina, visto che al massimo avrebbero potuto fare una arringa difensiva (quella va indirizzata a un giudice e non a me) e non produrmi atti giudiziari in grado di contrastare il fatto che gli insulti, per il magistrato che porta avanti la causa ci furono. E a questo proposito oggi aggiungo una postilla che avevo evitato di inserire. Una informazione che potevo dare e non ho dato. E cioè che La Pravda nel suo articolo parlò di offese scritte anche da alcuni collaboratori della dottoressa. Particolare che avevo evitato di sottolineare perché mi pare non credibile (però ho chiesto e non risulta che la Pravda abbia ricevuto alcuna diffida), ma che oggi aggiungo per far capire quanto avessi scritto in maniera soft senza appesantire situazioni che invece paiono pesanti. A processo la pagina facebook risulterà essere successiva ai fatti? Meglio per la dottoressa e peggio per la Murashkina, che quando perderà la causa criticherò aspramente per aver denunciato il falso. Qui colgo l'occasione per aggiornare in maniera migliore la notizia e dire che la causa civile intentata da Natalia Murashkina è stata rigettata per vizio di forma. Non per altro. Naturalmente verrà ripresentata in appello senza alcun vizio. E naturalmente questo non inficia il procedimento penale - che si occupa degli stessi reati e ha un iter diverso - che continua per la sua strada. Andando avanti nella diffida si legge che il processo di Reggio Emilia ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile visto che dal dibattimento stanno emergendo dati ed informazioni in grado di confermare quando affermato dalla dott.ssa Bruzzone nel corso del processo a carico del presunto stalker (a proposito, lei non sosteneva a spada tratta la presunzione di innocenza?) che non risulta ancora condannato...No avvocato, non è proprio così che sta andando. Giusto per aggiornare anche questa notizia, le confermo che il processo di Reggio Emilia - in cui la dottoressa risponde di diffamazione - nella prossima udienza, fissata a maggio, vedrà sul banco dei testimoni - citati dal pubblico ministero - sia il Generale Luciano Garofano che lo stesso dirigente dell'UGL denunciato più volte dalla sua assistita. Inoltre, sempre in quel di Reggio Emilia, a causa di quanto la dottoressa ha dichiarato ai giornalisti all'uscita dall'aula dopo le prime udienze c'è la possibilità, neppure tanto remota, che si apra un secondo processo. Vedremo presto se ho sbagliato la diagnosi. In ogni caso il processo di Reggio Emilia non ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile, come ha scritto, e il signore che chiama presunto stalker è persona nota e prima della vicenda che ha visto coinvolta la dottoressa era già stato condannato sia per truffa (condanna definitiva) che per stalking (nel 2012 il pubblico ministero nella sua arringa lo definì uno "stalker seriale" e il giudice confermò le sue parole condannandolo). Motivo per cui, in questo caso la presunzione di innocenza, per come la vedo, poco c'entra. E ancora ha scritto che il processo di Tivoli del 15 dicembre 2015 viene atteso con ansia e trepidazione della nostra Assistita visto che in quella sede avrà finalmente modo di provare, innanzi ad un Giudice la fondatezza delle sue accuse... Per quanto riguarda Tivoli, non vedo l'ora di sentire cosa dirà la sua assistita al giudice e come risponderà alle domande. Mi auguro che abbia una spiegazione plausibile e delle prove a discolpa certe che la aiutino a non subire una condanna e a dimostrare di essere una vera vittima di stalking. Così che io possa poi criticare e chiedere una condanna per lo stalker, che al momento non esiste, e per i magistrati che non l'hanno fin qui creduta. Inoltre ha anche scritto: In merito a Michele Misseri, le avremmo spiegato che attualmente questo signore è sotto processo proprio per quelle famose affermazioni...Michele Misseri, come avrà capito, lo conosco e conosco anche le accuse da lui mosse contro la sua assistita. So che il processo ha già subito dei rinvii e che a maggio è in programma l'ennesima prima udienza. Quindi nessuno sul punto mi doveva spiegare nulla perché conosco perfettamente entrambe le posizioni. Inoltre nell'articolo mi sono limitato alla considerazione che se se alla dottoressa "andrà male" la sua carriera sarà finita. Questo perché è sempre possibile, almeno in ipotesi, che un processo si possa perdere. E continua scrivendo: mentre in relazione all'accusa di collusione con le aziende che forniscono materiali alle nostre Forze di Polizia... definire questa "notizia" ridicola è decisamente utilizzare un eufemismo. Mi scusi avvocato, ma quando mai ho parlato di collusione? Fare accuse di collusione significa affermare che un determinato accordo c'è stato sicuramente. Io invece ho semplicemente messo in relazione fra loro eventi verificabili da chiunque e notando una stranezza ho posto una domanda a cui bastava dare risposta. Scrivere che la "notizia" è ridicola non è dare una risposta, è aggirare l'ostacolo che non si vuole saltare. La mia domanda, posta a un personaggio pubblico, era lecita perché la cronistoria ci dice che la relazione fra la dottoressa e il dirigente della Polizia durò pochissimo e finì nel lontano duemilacinque. Che la sua assistita continuò la collaborazione con l'associazione di criminologi per altri quattro anni, fino al duemilanove quando si interruppe in maniera non amichevole. Che il presidente della stessa associazione - intervistato da Luca Fazzo nel 2011 - denunciò le enormi spese sostenute dal ministero e spiegò quanto fosse economicamente vantaggioso acquistare il materiale per le indagini direttamente in America e non dagli intermediari. La domanda che posi nell'articolo nacque da una serie di considerazioni. Nel duemilanove la dottoressa Bruzzone fondò l'associazione culturale A.I.S.F. (Accademia Internazionale Scienze Forensi), una organizzazione "non profit" - questo è da dire - che da statuto non dà dividendi ai soci. Una associazione che tra i suoi partner allinea l'azienda che produce e vende i prodotti alla Polizia e quella che ha l'esclusiva per l'Italia di tali prodotti. A questo si aggiungono due fatti certi: sia che la dottoressa ha partecipato al video pubblicitario dell'azienda produttrice, video presente sul sito internet dell'azienda e su You Tube (se lo ha fatto per amicizia bastava scriverlo senza pensar male delle mie parole), sia che le denunce di stalking, quelle rigettate, furono presentate a partire dal 2009 contro chi dapprima le chiedeva conto del denaro speso mentre collaborava con l'associazione di criminologi e dopo si era attivato in prima persona per cercare di far acquistare i prodotti direttamente dall'America senza pagare intermediari. Avvocato, lei sa che nell'articolo non ho scritto la parola "collusione" e sono rimasto soft non inserendo tante altre domande lecite che mi frullavano per la testa. Domande che in questa risposta pubblica inserisco per farle capire quale altro modo uso per informarmi. Ad esempio, nell'articolo in questione mi limitai e non chiesi se il dottor Bruno Vespa conosce il sito della A.I.S.F. ed è al corrente che ogni volta che presenta la dottoressa Bruzzone di riflesso pubblicizza, a titolo gratuito sulla principale televisione di stato, non solo l'organizzazione "no profit" di cui la dottoressa è presidente - la A.I.S.F. - ma anche un'azienda privata. Essendo l'associazione culturale una "non profit" la pubblicità gratuita è sicuramente lecita. Perlomeno credo fosse certamente lecita fin quando l'associazione nel suo sito internet non ha riportato l'IBAN (cioè un'utenza bancaria su cui fare bonifici) di una S.A.S. (Società in Accomandita Semplice) che in teoria dovrebbe essere esterna all'associazione stessa. La S.A.S a cui mi riferisco è quella aperta dalla stessa dottoressa Bruzzone il 06 giugno 2014 (quindi dieci mesi fa) e registrata alla camera di commercio il 12 giugno 2014. Una Società in Accomandita Semplice che, come da visura camerale, ha quali soci accomandatari anche i due avvocati che figurano con nome e cognome sulla carta intestata della diffida che mi ha inviato, assieme al suo signor Florindi. Gli stessi avvocati che, come lei d'altronde, figurano nel consiglio direttivo della "associazione no profit". Ora, per quanto possa capirne e mi hanno spiegato, credo che prima di fare un simile movimento pubblicitario, cioè inserire l'IBAN di una azienda commerciale che guadagna sul proprio lavoro ai piedi di tutte le pagine elettroniche di una associazione "no profit" (che essendo "no profit" non dà dividendi ai soci), ci si sia fatti consigliare da un buon commercialista. Per cui immagino che sia del tutto legale, dato che la SAS sul proprio guadagno ci paga le tasse. Ciò che trovo strano è altro. Una stranezza, ad esempio, è che il logo della SAS sia praticamente identico, tranne per le scritte, al logo dell'associazione "no profit". Un'altra ancora più strana è che cliccando sul logo della SAS presente nelle pagine dell'associazione "no profit", si venga reindirizzati su una pagina della stessa associazione "no profit" e non sul sito della SAS. Quasi che la SAS e l'associazione "no profit" siano l'unica faccia di due società. In pratica una società che per statuto non può dividere gli utili nel suo sito ospita e pubblicizza una SAS che gli utili fra i suoi soci li può dividere. Insomma, ciò che si vede dall'esterno (magari non è così e la Rai avrà la gentilezza di spiegarcelo in maniera chiara) è che il dottor Bruno Vespa pubblicizzando l'associazione no profit finisca per pubblicizzare gratuitamente una S.A.S. - capisce cosa intendo, avvocato? Che a un occhio critico la situazione pare quantomeno ambigua e andrebbe spiegata. Come ambigua è la parte della diffida in cui scrive: Ne consegue che, non avendo lei eseguito alcun riscontro nè alcuna verifica, ha redatto un articolo ricco di falsità ponendo in essere proprio quelle condotte che, tanto severamente, ha tentato di stigmatizzare nel suo testo. Tutto ciò premesso, la dott.ssa Bruzzone, mio tramite Vi - INVITA E DIFFIDA - a rimuovere dal Suo Blog l'articolo in questione, a comunicarci immediatamente, e comunque non oltre 5 giorni dal ricevimento della presente, il nominativo (o i nominativi) di chi Le ha fornito le informazioni ivi pubblicate e di versare, per il tramite di questo Studio, la somma di euro 250.000 a titolo di risarcimento per i gravissimi danni all'immagine della mia Assistita cagionati dalla diffusione di notizie false e diffamatorie. In queste sue parole, false e intimidatorie signor avvocato, un giudice di polso potrebbe pure configurare il reato di estorsione. Specialmente perché, seppur sia stato limitato volendo risponderle con un articolo che non può essere infinito, le ho dimostrato non solo che non ho assolutamente mentito, ma anche che prima di scrivere mi informo e faccio verifiche (e ne faccio tante), cerco riscontri e quando qualcosa non mi quadra pongo domande pubbliche per non ottenere risposte di circostanza (che non servono a nulla e non aiutano i lettori a capire). Per questi motivi non ho rimosso, e non ho alcuna intenzione di rimuovere, l'articolo in questione. Per questi motivi la invito a cambiare atteggiamento e, se vorrà, a rispondere alle mie domande in maniera pacata senza cercare di intimidire chi critica la sua assistita. Fornire ai lettori notizie relative a un personaggio pubblico è cosa che si fa tutti i giorni (e se il personaggio finisce sotto processo la notizia esiste e si può dare). Inoltre tutti i personaggi pubblici, finché restano tali, ricevono critiche per quanto dicono o scrivono. Dalla piccola show girl al Presidente della Repubblica. E' la norma, dato che la democrazia permette di non appiattirsi al pensiero altrui e di esternare il proprio, anche se diverso. Per questo motivo, non essendo avvezzo a criticare un personaggio pubblico a prescindere ma avendo l'abitudine di elogiarlo o criticarlo per i vari comportamenti che pone in essere di volta in volta, così come posso essere d'accordo e apprezzare la sua assistita per quanto fa e dice su certi casi di cronaca nera (Chico Forti è uno ma ce ne sono altri), posso anche non essere d'accordo e criticarla quando a parer mio non si dimostra all'altezza del suo ruolo pubblico o fa qualcosa che mi risulta strano e incomprensibile. Una cosa deve essere chiara. Volandocontrovento è un blog indipendente che non ha editori a cui obbedire. Un blog che prima di pubblicare articoli cerca informazioni e riscontri. Un blog in cui nessuno scrive falsità (al massimo negli articoli pubblicati si possono trovare piccole inesattezze scritte in buonafede). E fin quando la democrazia lo permetterà, a nessun personaggio, sia bianco o sia nero, sia giallo o sia verde, sia rosso o sia blu, sia pubblico o che pubblico lo diventi per quindici giorni o per quindici anni a causa di una posizione politica ridicola o di una indagine criminale in voga sui media, è concessa l'immunità da critiche...”

Bruzzone contro Raffaele: «Imitazione becera e volgare». La criminologa querela l'imitatrice: «Sessualizzazione della mia persona», scrive “Il Corriere della Sera”. Una «becera e volgare sessualizzazione della mia persona». Così la criminologa Roberta Bruzzone bolla, parlando a Fanpage.it, la performance di Virginia Raffaele che l’ha imitata sabato ad «Amici». «Io non ho nessun problema contro la satira» precisa Bruzzone, «l’elemento intollerabile è giocare sull’aspetto sessuale in maniera sguaiata, becera, volgare, gratuita», lontana - precisa - da una professionista che tutto questo l’ha sempre evitato. «L’elemento che mi porta in tv ormai da oltre dieci anni - sottolinea - non è la mia avvenenza fisica ma il tipo di contenuti che tratto e l’esperienza dovuta al lavoro che svolgo». « Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona» aggiunge, confermando la sua decisione di querelare la Raffaele. In tempi di femminicidi, mentre lottiamo contro la visione della donna-oggetto, «che questo tipo di contenuti sia proposto da una donna è ancora più sconcertante», osserva.

Selvaggia Lucarelli contro la criminologa Bruzzone: «La Raffaele è ben più simpatica e gnocca di lei», scrive “Il Messaggero”. Virginia Raffaele imita la criminologa Roberta Bruzzone, ma questa non gradisce. E nella faccenda non poteva che intromettersi Selvaggia Lucarelli. Ne è scaturito un botta e risposta che non va tanto per il sottile. «Bagascia vestita in modo improponibile», ha tuonato la Bruzzone contro l'imitatrice, "rea" di aver messo in scena «una rappresentazione becera, volgare, gratuita, sguaiata». Dopodiché in un tweet la Bruzzone ha annunciato che sarebbe passata alle vie legali. E la replica della Lucarelli non si è fatta attendere: «Leggo che la Bruzzone, in un tweet, lascia intendere di aver scomodato il suo favoloso team di legali per bastonare Virginia Raffaele che ha osato farne una parodia (divertente) ad Amici - ha scritto - Nella vita ho ricevuto un po' di querele, ma la lettera dell'avvocato della Bruzzone per un mio servizio su Sky me la ricordo bene. Spiccava. Non solo per la pretestuosità degli argomenti (era un servizio innocuo e fu l'unica tra 100 servizi a offendersi), ma perchè inviò copia al Ministero delle pari opportunità per accusarmi di sessismo». «La Raffaele - continua la Lucarelli - è ben più simpatica e gnocca di lei. (tanto il ministero delle pari opportunità è stato abolito, magari scriverà alla Boldrini)».

Vittorio Feltri contro Roberta Bruzzone: "Al suo confronto i pm sono delle mammolette", scrive “Libero Quotidiano”. Dopo le imitazioni di Virginia Raffaele, il commento di Vittorio Feltri. La criminologa diventata famosa al grande pubblico grazie a Bruno Vespa che l'ha invitata più volte a Porta a Porta, viene attaccata dal fondatore di Libero che scrive: "Si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere" Feltri l'accusa soprattutto di dare affosso all'imputato dato che è più facile che difenderlo.  "La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia".  Con una stilettata Feltri dice che in sui confronto i pubblici ministeri sono delle "mammolette". Feltri ricorda quando, durante una puntata di di Linea Gialla di Salvo Sottile si trovava accanto alla Bruzzone per comentare le vicenda giudiziaria di Raffale Sollecito che all'epoca era ancora in attesa di giudizio. Feltri riteneva che non vi fossero gli estremi per condannarlo, lei sì. La Cassazione ha dato ragione a Vittorio. Da qui la conclusione di Feltri: "Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".

“Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione”…, scrive Vittorio Feltri per “il Giornale”. "Da alcuni anni Roberta Bruzzone, criminologa dall'aspetto attraente (ciò che aiuta sempre a rendersi riconoscibili e, perché no, apprezzabili a occhi maschili e pure femminili), è personaggio televisivo tra i più noti. Il suo bel volto compare spesso in video, anzi sempre, nelle trasmissioni che trattano di morti ammazzati, assassini probabili, gialli irrisolti: temi che da qualche tempo vanno forte e hanno un seguito notevole di pubblico. A lanciare la gentile signora è stato Bruno Vespa a Porta a porta, in cui gli omicidi raccontati sono frequenti e costituiscono una sorta di rubrica fissa, come il bollettino meteorologico. Il principe dei conduttori, dopo averla invitata una prima volta, non ricordo in quale circostanza, avendone gradito gli interventi - forse anche le fattezze - non ha più smesso di convocarla per discettare di coltellate, strangolamenti, alibi e roba del genere noir. Roberta si è tenacemente costruita una fama di investigatrice spietata: ormai è ospite indispensabile in qualsiasi programma al sangue in onda su varie emittenti, tutte assai interessate a dissertare di delitti, un filone appassionante per il pubblico serale, stanco di talk show politici prodotti in serie con la fotocopiatrice. La criminologa mostra di trovarsi a proprio agio nelle discussioni, di solito vivaci, sulla colpevolezza di Tizio e di Caio; e si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere. Si sa come vanno i processi mediatici. Si dà addosso all'imputato dato che è più facile e più spettacolare che non difenderlo. Si calca la mano sugli elementi a suo carico e si sorvola su quelli a discarico. Cosicché la gente, sempre vogliosa di sentenze esemplari, si eccita e non tocca il telecomando nel timore di perdersi le fasi più sadiche del linciaggio. La natura umana fa schifo e collide con i principi basilari del diritto: chi è stato incastrato dalla cosiddetta giustizia andrebbe considerato innocente fino a prova contraria. La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia. In confronto a lei, i pubblici ministeri sono mammolette. Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione. Ciascuno ha le proprie inclinazioni e magari le asseconda con pertinacia. La criminologa, benché non sia togata, agisce con una determinazione impressionante: nei dibattiti davanti alla telecamera riesce a spiazzare chiunque, magistrati inclusi. Una notte, a Linea gialla, diretta da Salvo Sottile (bravo e preparato), ero seduto accanto a Bruzzone per esaminare la vicenda di Raffaele Sollecito, in attesa di giudizio. Personalmente ero dell'idea che il giovanotto fosse da assolvere per mancanza di prove; lei aveva un'opinione opposta alla mia. Non dico che litigammo, ma eravamo in procinto di farlo. Trascorsi alcuni mesi, la Cassazione ha dato ragione a me. Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".

Questo è quanto riportato dalla stampa con verità, attinenza ed interesse pubblico.

Chi di processi ferisce di processo perisce, scrive Alberto Dandolo per Dagospia.  A Milano non si fa altro che parlare della citazione a giudizio della platinatissima criminologa Roberta Bruzzone nell’ambito di un procedimento penale a suo carico presso il Tribunale di Tivoli. La vispa professionista deve infatti difendersi dalle accuse di un suo ex compagno, Marco Strano che l’ha trascinata in tribunale in quanto, si legge nelle carte, ne avrebbe “ripetutamente offeso la reputazione…pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori”. Nei documenti si legge che la criminologa amata da Vespa e dalla Parodi deve difendersi dall’accusa che “utilizzava altresì più volte in maniera denigratoria l’aggettivo “strano” facendo chiaro riferimento alla persona del suo ex compagno, come nei seguenti post: “in effetti mi sembra proprio strano …questo impulso diffamatorio irrefrenabile…, “questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee”; e ancora sottolineava : “è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine”; “ non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all’estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…” ( post del 23.11.2010) , lo definiva, quindi un mitomane fallito con in dotazione una calibro 9”, lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane, ed infine commentava, con riferimento alla nuova compagna straniera del querelante, che lui l’aveva affittata staccandone il cartellino ed acquistata in qualche compravendita di spose dall’est facendosi qualche foto con lei per far finta di avere una vita (post del 01-12- 2010).”

La criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori": ecco i post "incriminati", scrive Mario Valenza il 16/09/2015 su “Il Giornale”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9". Queste e altre dure espressioni sarebbero state Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Strano sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". E ora i post su Facebook potrebbero sbarcare in tribunale...

Tivoli, la criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione, scrive “Libero Quotidiano”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9": questa e altre frasi sono state rivolte da Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Egli sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". Come andrà a finire? 

Caso Marco Strano - Roberta Bruzzone - Bruno Vespa e milioni di inganni e sprechi ai danni della Polizia - Interrogazione "aperta" al capo della Polizia si legge sul sito internet di Polizia Nuova Forza Democratica. L'Organismo Sindacale Polizia Nuova Forza Democratica nasce con lo scopo di salvaguardare i doveri degli appartenenti alle Forze dell'Ordine e di tutelare i diritti di donne e uomini che hanno consacrato la propria vita professionale alla sicurezza di tutti i cittadini. Il legislatore, con l'approvazione della Legge 121/81, ha previsto la demilitarizzazione del Dipartimento Della Pubblica Sicurezza e il conseguente Ordinamento Civile della Polizia Di Stato, con l'obbiettivo di rendere tangibile la sinergia sociale tra cittadini e poliziotti. Il nostro Organismo P.N.F.D. condivide, con spirito di servizio, "l'animus del Legislatore" deputando proprio fondamento la collaborazione tra i tutori dell'ordine e la società civile. Il nostro statuto, non a caso, prevede l'iscrizione all'organismo P.N.F.D. sia per gli operatori della Polizia Di Stato, soci ordinari, sia per i rappresentanti del mondo del lavoro o associazioni che operano nel volontariato sociale, soci aggregati e onorari. Polizia Nuova Forza Democratica vuole essere la calcina che lega tutti i cittadini che, senza clamore, ogni giorno, con il coraggio dell'onestà compiono il proprio dovere costruendo il bene comune. Questa organizzazione sindacale intende costituirsi parte civile nei vari processi che, a partire dal prossimo dicembre, vedono imputata la c.d. "Ambasciatrice di Telefono Rosa" - Roberta Bruzzone che sarà giudicata dall'Autorità giudiziaria per aver indirizzato accuse di stalking, false e strumentali, attraverso denunce, poi archiviate, interviste televisive e sui giornali, migliaia di pagine di social networks, nei confronti di Marco Strano, funzionario di Polizia, moralmente e professionalmente incensurabile, per questo stimato a livello nazionale e internazionale e quindi lustro per la Polizia di Stato. Accuse che stanno provocando un crescente malumore tra i colleghi che ben conoscono la vicenda reale, completamente diversa da quella veicolata dai media. Le accuse di stalking si sono infatti rivelate poi assolutamente infondate, ma hanno ingiustamente gettato un'ombra sull'intera categoria degli appartenenti alla Polizia di Stato tanto che la magistratura ha approfondito - attraverso già due rinvii a giudizio di Bruzzone per diffamazione aggravata e attraverso altri procedimenti tuttora in fase di indagine per altri più gravi reati presso le Procure di Roma e di Tivoli (che riguardano anche soci e collaboratori della predetta) - come il contrasto con il collega Strano non fosse legato a vicende sentimentali, come si voleva far intendere (il collega è felicemente sposato da anni), ma molto più presumibilmente al fatto che quest'ultimo ha pubblicamente denunciato il business dei corsi di formazione. Neanche a farlo apposta, infatti, la suddetta organizza corsi attraverso il marchio AISF(Accademia Internazionale di Scienze Forensi) - marchio spesso citato anche nella trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa - solo apparentemente no-profit in quanto strettamente collegato con la SaS CSI-Academy (di cui Roberta Bruzzone risulta socio accomandante e che propone corsi e perizie forensi a pagamento): SaS che ha un logo pressoché identico a quello dell'Associazione pubblicizzata da Bruno Vespa e con cui condivide un sito web, situazione che potrebbe trarre in inganno milioni di telespettatori. Tutto ciò a nostro avviso dovrà essere analizzato attentamente innanzitutto dal Garante per le comunicazioni, per motivi di pubblicità occulta e di concorrenza sleale. Ma soprattutto: sarà "sicuramente casuale" che la società di Roberta Bruzzone risulti partner commerciale dell'azienda statunitense SIRCHIE e della società di rappresentanza italiana RASET - leaders in Italia nella commercializzazione di prodotti per criminalistica - e che il collega Marco Strano abbia intrapreso da almeno 5 anni una battaglia politico-sindacale finalizzata alla razionalizzazione della spesa pubblica nel settore dei prodotti per investigazioni scientifiche che, se andasse in porto, porterebbe un calo di fatturato di milioni di euro nelle predette aziende a vantaggio dell'Amministrazione della PS, i cui vertici purtroppo persistono invece nello sprecarli, a discapito dell'erario oltre che riducendo le potenzialità investigativo-scientifiche. Per quanto sopra esposto, chiediamo se il Capo della Polizia sia al corrente o meno della suddetta vicenda, quali iniziative abbia intrapreso e/o intenda intraprendere affinché sia ripristinato il prestigio della categoria e fatta luce su sprechi, privilegi e abusi che ne stanno seriamente minando le fondazioni.

Roma, 11 ottobre 2015 

F.TO
Il Segretario Nazionale per l'Italia centrale e gli uffici dipartimentali - FILIPPO BERTOLAMI

Il Segretario Nazionale Generale - Rappresentante Legale - FRANCO PICARDI

Rissa legale tra criminologi, scrive Mauro Sartori su “Il Giornale di Vicenza”. Si trasferisce anche in città il duro confronto tra Roberta Bruzzone e l'ex compagno Marco Strano. L'uomo accusa di plagio l'autrice per alcuni passaggi riportati. Lei replica con denunce per stalking e chiedendo misure di sicurezza. Carabinieri a piantonare la sala, notifica di documenti legali per spiegare il terreno minato su cui si muoveva l'incontro pubblico di ieri sera, querele e minacce attraverso i social network: sono gli ingredienti della guerra in atto fra due criminologi di fama, che ieri ha vissuto un capitolo scledense. Da una parte Roberta Bruzzone, psicologa forense nota per le partecipazioni come consulente ai talk show televisivi quando si parla di omicidi; dall'altra l'ex fidanzato Marco Strano, dirigente della polizia di stato, fondatore dell'Associazione internazionale di analisi del crimine. Oggetto del contendere il libro “Chi è l'assassino - diario di una criminologa”, edito dalla Mondadori. Strano accusa Bruzzone di plagio. Nella parte introduttiva del libro ci sarebbero passaggi copiati senza autorizzazione, tanto che il dirigente della polizia avrebbe chiesto con una procedura d'urgenza il ritiro dal commercio del libro, ma non l'ha ottenuto. Ieri sera la criminologa, chiamata come esperta da Bruno Vespa per le puntate di “Porta a porta” in cui si parla dei delitti di Sarah Scazzi e Melania Rea, tanto per citare i due più conosciuti, era a palazzo Toaldi Capra, dove ha presentato proprio il libro conteso ed ha parlato anche della sua attività quale ambasciatrice di “Telefono rosa”. L'altro ieri alla libreria Ubik, che organizzava l'incontro, due avvocati dell'Alto Vicentino, come domiciliatari dei legali di Strano, hanno recapitato ai titolari copia di un'ordinanza emessa dal tribunale di Milano in cui viene rigettato il ricorso di sequestro del libro, ma lascia aperta la porta ad un eventuale risarcimento del danno patito dal poliziotto. Una mossa che in verità non ha avuto conseguenze sullo svolgimento della serata ma che ha inasprito la tensione fra le due parti, tanto che ieri Bruzzone ha twittato parlando «di due scagnozzi non identificati che denuncerò per concorso in atti persecutori» che sarebbero andati alla Ubik e, in una successiva mail diffusa, «di un ennesimo tentativo di screditarm posto in essere da un soggetto che ormai trova l'unica ragione della sua misera esistenza nel rancore nutrito nei miei confronti e nel porre in essere atti persecutori nei miei confronti di cui sono vittima da quattro anni». In pratica da quando è finita la relazione sentimentale fra i due che un tempo andavano d'amore e d'accordo. La criminologa si è sentita minacciata tanto da richiedere misure di sicurezza ai promotori, prima di entrare in sala: «L'ho denunciato per stalking e quanto accaduto a Schio mi seriverà per integrare la denuncia stessa. Purtroppo non accetta l'evidenza dei fatti - ci ha riferito ieri sera Roberta Bruzzone. - La mia è un'opera autonoma, tratta da miei incarichi documentati. Le sue accuse sono deliranti. Per me la vicenda era chiusa con il rigetto del ricorso ma non si rassegna e allora comincio ad avere timore, soprattutto se si allarga a minacciare anche gli organizzatori delle mie serate nel tentativo di boicottarle. La mia vita è cristallina, ma non posso andare avanti così».

Bruzzone porta in tribunale l'ex ris Garofano. E' guerra totale (per un affare di cuore), scrive di Giordano Tedoldi il 16 marzo 2016 su “Libero Quotidiano”. Da quando la criminologia è uscita da laboratori e aule universitarie per diventare un genere affine al "Processo del Lunedì" - con la sola differenza che nel salotto tv criminologico si dibatte se la macchie di sangue possano ricondursi all' imputato o siano solo succo di lampone - anche il criminologo, figura solitamente composta, taciturna, anche un poco sinistra, è diventato un personaggio del gossip pubblico e dello scazzo ipersensibile, insomma, siamo ufficialmente al volo degli stracci criminologici. E come ogni bella commedia prevede, c' è un protagonista maschile e uno femminile, l'un contro l'altra armati. Lei è, va da sé, Roberta Bruzzone, psicologa forense e "dark lady" dell'opinione televisiva a cadavere ancora caldo, spesso chiamata in trasmissione anche quando è più raffreddato. La dottoressa Bruzzone, che ha un caratterino in tono con la sua avvenenza diciamo così fiera, ne ha dette di cotte e di crude al suo pari grado - non in termini militari, perché quello è generale dei carabinieri benché in congedo, ma in termini di valore televisivo - vale a dire all' ex comandante del Ris Luciano Garofano, anche lui con un debole per le poltrone dei talk show, il quale ha reagito con una denuncia per diffamazione. L' antefatto era ricostruito ieri sul Secolo XIX da Marco Grasso, e, come per le persone comuni, dietro alla lite e alla convocazione davanti al giudice il prossimo 7 aprile, c' è un affare di cuore. Scrive il Secolo: «Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l'accusa di aver taroccato i titoli; lei a sua volta mette in discussione gli studi dell'uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione». Vabbè, fin qui ordinaria amministrazione di relazioni sentimentali che si sfasciano. Ma il comandante Garofano, incautamente, si schiera pubblicamente a difesa dell'ex compagno della Bruzzone. E si becca dalla collega criminologa una denuncia per diffamazione, con allegata lettera aperta al vetriolo in cui l'esordio è tutto un programma: «Dottor Garofano, porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell'Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo, non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». Ora, a onor del vero pare che il regolamento dei conti tra i due, più che sulla reputazione di un collega, verta sulla loro rivalità per il titolo di numero uno della criminologia televisiva. In questo i duellanti sono l'una il riflesso dell'altro: così alla denuncia della Bruzzone è partita quella opposta e simmetrica di Garofano per la velenosa epistola citata. E anche lui ha condito la denuncia per diffamazione con apprezzamenti alla collega: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo), faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione». A commento di questa sapida commedia, un antico adagio latino: "simul stabunt vel simul cadent", "insieme staranno o insieme cadranno". Così passa la gloria criminologica edificata su una sequela di massacri: con un volo di stracci.

Bruzzone vs Garofano: la zuffa dei criminologi finisce in tribunale, scrive Marco Grasso il 15 marzo 2016 su “Il Secolo XIX". Si ritroveranno il prossimo 7 aprile, ma non in un salotto televisivo. La prossima puntata del duello più aspro della criminologia italiana si terrà davanti al giudice Marco Panicucci. Da un lato c’è la psicologa forense ligure Roberta Bruzzone, volto noto delle televisioni, citata a giudizio per diffamazione. Dall’altro un altro personaggio pubblico dello stesso settore, l’ex comandante dei carabinieri del RisLuciano Garofano, che si è rivolto alla magistratura dopo un post di Facebook in cui veniva definito «indegno di indossare la divisa» e «membro di un sodalizio criminale». A monte di questa guerra c’è una vicenda di cuore. Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente per dieci anni della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l’accusa di aver taroccato i titoli (polemica che peraltro solleva una questione di cui la categoria dibatte da anni, ovvero l’assenza di un albo professionale dei criminologi); lei a sua volta mette in discussione gli studi dell’uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione. La lite tra i due ex fidanzati va avanti a colpi di denunce reciproche e messaggi di fuoco sui social network, e finisce per coinvolgere anche colleghi come Garofano: l’ex militare, oggi consulente privato, si schiera apertamente con Strano, scatenando le ire di Bruzzone, che lo denuncia per diffamazione alla Procura di Roma e gli scrive una lettera pubblica, oggetto di questa seconda causa. «Dottor Garofano - esordisce la criminologa - porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell’Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo. Non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». La replica arriva subito dopo un intervento apparso sul profilo Facebook di Marco Strano: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti in ogni sede. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui, per inciso, il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo) faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione». 

La criminologa di Vespa e gli affari con la polizia. Un sindacato: “Costose forniture alla Scientifica da azienda legata alla Ong di Bruzzone. E spot a ‘Porta a Porta’”. E poi continuano le polemiche dopo il servizio di “Report” sulla Corte Costituzionale. Rassegna stampa: Il Fatto Quotidiano, pagina 15, 1 dicembre 2015, di Ferruccio Sansa. Un esposto al capo della polizia Alessandro Pansa. Poi una lettera protocollata al ministro Angelino Alfano, al presidente della Commissione parlamentare Rai Roberto Fico e al presidente Rai Monica Maggioni. Titolo: “Caso Bruzzone-Vespa”. A scrivere un gruppo di dirigenti che si raccoglie dietro la sigla Polizia Nuova Forza Democratica. Che non per la prima volta critica i massimi vertici della polizia. Oggetto: pubblicità occulta, forniture di materiale per la polizia scientifica. E convegni organizzati presso la Questura di Roma da società private. Il principale bersaglio delle critiche è la criminologa Roberta Bruzzone, una delle regine del salotto politico più famoso d’Italia: Porta a Porta. Sì, la trasmissione di Bruno Vespa viene nominata più volte. Anche per la famigerata puntata in cui ospitò i Casamonica. Non sarebbero comportamenti illeciti, fino a prova contraria. Ma la lettera, visti i nomi in gioco, sta creando polemiche negli ambienti delle forze dell’ordine e della Rai. Mentre Bruzzone smentisce e annuncia querele. Primo: il sindacato punta il dito sui costi del materiale in uso alla polizia scientifica come la polvere per il rilievo delle impronte digitali. «Sarebbe possibile – si sostiene – acquistare prodotti della medesima qualità evitando i dazi doganali sui prodotti americani con un risparmio dal 20 al 30%». Che cosa c’entrerebbe Bruzzone? Da visure effettuate dal Fattonon risulta sia socia dell’impresa importatrice. Filippo Bertolami, segretario Pnfd, aggiunge però: «Dai siti Internet della società di Bruzzone emerge che l’importatore ha una partnership con la sua fondazione. Così come, peraltro, con lo stesso programma della tv pubblica Porta a Porta». Per questo il sindacato parla di «pubblicità occulta, svolta anche con magliette e sottopancia nel corso delle trasmissioni». Il punto: «L’Accademia internazionale di scienze forensi (una Ong che fa capo a Bruzzone, ndr.), che beneficerebbe di tale pubblicità ha un sito che trasferisce ad arte sul sito della Csi Academy, società di consulenza che si occupa di perizie e di formazione. Un’impresa con un logo quasi identico a quello dell’associazione no profit». Gli stessi soggetti che organizzano, riferisce Bertolami, eventi e corsi presso i locali della Questura di Roma: «Per i poliziotti di un sindacato sono gratuiti, ma tutti gli altri devono pagare. Chiediamo se sia possibile che un locale istituzionale sia utilizzato per iniziative a fini di lucro». Il Fatto Quotidiano ha raccolto le versioni di tutti gli interessati. Pubblicità occulta nel salotto più famoso della Rai? Bruno Vespa giura: «Mi pare impossibile. Sto molto attento. Se qualcuno l’ha fatto, non accadrà più. Stiamo attentissimi». Bruzzone aggiunge: «Quella lettera riferisce un mucchio di falsità. Ho già consegnato personalmente una lettera al capo della polizia per chiarire le cose». E la fornitura per la polizia scientifica effettuata da società legate a Bruzzone? «Se i prodotti costano più che se fossero comprati in America dipende dai dazi doganali e dalla spedizione», assicura il titolare. Fonti della polizia aggiungono: «Ci sono regolari gare». Ma quegli eventi realizzati negli uffici della Questura? «Il corso è organizzato da un altro sindacato. Ma se non sarà gratuito per tutti non concederemo gli spazi».

La criminologa Bruzzone: “Da bambina smembravo bambole e ho tentato di annegare i miei fratellini”. La criminologa più famosa della tv si racconta, scrive la Redazione TPI il 22 Gennaio 2019. In televisione l’abbiamo vista spesso commentare i grandi fatti di cronaca che hanno segnato il paese, ma lei, Roberta Bruzzone, la criminologa più famosa della tv, ha un lato oscuro che non aveva mai mostrato. Ospite di Caterina Balivo, la famosa esperta di delitti imperfetti ha lasciato a bocca aperta il pubblico con aneddoti di quando era bambini. La Bruzzone ha confessato che da piccola aveva una strana propensione per il macabro: “Da bambina mi piaceva sperimentare tecniche di smembramento e decapitazione con le bambole”. Ma non è finita qui: sulla poltrona candida dello studio della Balivo, la criminologa ha confessato (è proprio il caso di dirlo) di aver tentato di uccidere i suoi fratelli, quando era bambina: “Tentai di annegarli nella vasca da bagno”. Ma per fortuna intervenne la nonna: “Mi fermò giusto in tempo. Non ero imputabile, avevo solo tre anni e mezzo. Li picchiavo, ma ero molto piccola. Io la classica bambina femminuccia tranquilla? No, non su questo pianeta.”, precisa la criminologa. Dai suoi racconti si evince che Roberta Bruzzone deve essere stata una bambina particolare. Anche a scuola, fin da piccolissima, le cose non andavano meglio che a casa: “Sono addirittura stata cacciata dalla scuola materna delle suore. Le suore raccomandarono a mia madre di non portarmi più in quella scuola”, spiega l’esperta di nera. Al di là della sua infanzia, la criminologa ha parlato anche dell’ammirazione nei confronti di Bruno Vespa: “È una persona a cui voglio molto bene, se mi chiedesse di seppellire un cadavere gli darei una mano”, dice sorridendo. Roberta Bruzzone, classe 1973, è diventata famosa all’indomani del delitto di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010, quando rivestì il ruolo di consulente di Michele Misseri, inizialmente indicato come assassino della nipote.

"Quei rapporti troppo stretti tra le Procure e i giornali". Stefano Zurlo il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Il giurista e le piaghe del sistema: molti contatti con la politica, magistratura non in grado di autoriformarsi. Una crisi senza fine. Una crisi che è la somma di molti problemi. La giustizia italiana naviga in acque tempestose, ma la soluzione non è dietro l'angolo. Il professor Sabino Cassese, uno de più noti giuristi italiani, compone un cahier de doléances in sette capitoli.

Professore, da dove cominciamo?

«Anzitutto, dai tempi dei processi. Negli Stati Uniti, la regola è che si percorrano i diversi gradi di giurisdizione nel giro di un anno. In Italia questa durata va moltiplicata per tre o per sette, a seconda dei tipi di giurisdizione. Questo fattore di crisi è prodotto dal ridotto numero di magistrati. Il Consiglio superiore della magistratura ha fatto una politica malthusiana. Nonostante che la magistratura sia l'unico settore dello Stato nel quale sia stato reclutato in modo ordinato, regolare e continuo personale, le dimensioni del reclutamento sono state sempre limitate. La seconda causa è il rendimento dei magistrati, perché il corpo della magistratura ha rifiutato valutazioni e misure dei rendimenti. E ciò nonostante che vi siano state, in Italia, best practices, come quella del tribunale di Roma, per qualche tempo, o come quella del tribunale di Torino».

Lei ha spesso sottolineato la dispersione dei magistrati, un tema generalmente sottovalutato.

«Sì, molti magistrati sono applicati in altri compiti. Il numero di quelli che non svolgono funzioni di accusa o di giudizio è alto. In particolare, il numero di magistrati che svolgono funzioni amministrative nel ministero della Giustizia, che appartiene a un altro potere, quello esecutivo, con la conseguenza di dispersione di preziose energie, da un lato, e anche dell'utilizzo di personale che non è stato scelto e selezionato per svolgere compiti amministrativi, ma per svolgere funzioni giudiziarie».

Veniamo al potere delle procure.

«Il terzo fattore di crisi è costituito dalle procure e dal modo in cui alcune di queste hanno stabilito rapporti con i mezzi di formazione dell'opinione pubblica, svolgendo quella funzione che viene chiamata «naming and shaming»: vengono iniziate indagini, se ne dà notizia agli organi di informazione dell'opinione pubblica, la durata di queste indagini oscilla in archi di tempo pluriennali, la procedura si conclude con un nulla di fatto o viene ridimensionata, ma intanto l'indagato è stato condannato».

Ma la politicizzazione di alcuni pm è leggenda o realtà?

«È una malattia endogena, che viene dall'interno e che colpisce in particolare alcuni procuratori. Per spiegarla, bisogna chiarire che i costituenti temevano l'influenza della politica sulla magistratura e hanno quindi organizzato un sistema di garanzie, che culmina nel Consiglio superiore della magistratura, che opera come uno scudo rispetto ad interferenze esterne. Se, tuttavia, i magistrati siedono in uffici amministrativi, e quindi operano all'esterno di questo scudo, oppure maturano aspirazioni a svolgere funzioni politiche, lo scudo non funziona».

Come arginare le manovre delle correnti al Csm?

«Il Consiglio superiore della magistratura è un organo para-parlamentare nel quale, paradossalmente, è proprio la componente magistratuale che si divide lungo linee partigiane. L'organo, che doveva soltanto essere uno schermo per evitare l'invadenza della politica, è diventato di autogoverno. Ora, assistiamo alla sua incapacità di porre rimedio ai propri errori funzionali».

Ma la magistratura è in grado di correggere queste distorsioni?

«No, nonostante sia composta da persone di prim'ordine, non è in grado di autoriformarsi. So che ci sono iniziative di gruppi di magistrati preoccupati dello stato attuale, che si incontrano per avanzare proposte di razionalizzazione. Sarebbe bene che proposte venissero rapidamente redatte, valutate, discusse, perché i rimedi debbono venire prevalentemente dall'interno. Ho grandissima fiducia sul nuovo titolare del ministero della Giustizia, che fin dai primi passi ha indicato i rimedi per risolvere il problema dei tempi della giustizia».

L'opinione pubblica è sempre più disorientata.

«È il settimo fattore. La percezione diffusa circa lo stato dell'ordine giudiziario è molto preoccupante. E i rimedi sono attesi con urgenza».

Tortora, Stasi, Amanda e gli altri: processati e condannati a mezzo stampa. La lunga galleria degli orrori del processo mediatico: quando il presunto colpevole è processato e condannato a mezzo stampa. Valentina Stella su Il Dubbio il 21 aprile 2021. «Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa in innocentisti e colpevolisti – in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come uno scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Tortora in questo è un caso esemplare»: così scriveva il 5 maggio 1987 Leonardo Sciascia su El Pais. L’articolo iniziativa così: «Marco Pannella è il solo uomo politico italiano che costantemente dimostri di avere il senso del diritto, della legge e della giustizia» e forse anche per questo fu l’unico articolo di Sciascia che nessun quotidiano o periodico volle pubblicare. Ma questa è un’altra storia; però quelle parole sono significative di come il nostro Paese faccia da sempre fatica ad accettare un approccio laico e consapevole della giustizia. Un sintomo di questo giustizialismo etico e populista è proprio il processo mediatico: potremmo dire che prese il via proprio con Enzo Tortora. Era il 1983 e i militari, per trasferire il noto conduttore, accusato ingiustamente di associazione camorristica, nel carcere di Regina Coeli, aspettarono che fosse mattina presto per garantire ai fotografi la prima fila davanti all’Hotel Plaza e riprendere il giornalista con i ceppi ai polsi. Da allora è stato un susseguirsi di processi mediatici, che sempre più hanno invaso quella sfera che dovrebbe rimanere circoscritta nelle aule giudiziarie. Il 9 maggio 1997 la giovane studentessa Marta Russo fu raggiunta alla testa da un colpo di pistola che si rivelerà mortale, mentre passeggiava, in compagnia dell’amica Iolanda Ricci, in un viale dell’Università de La Sapienza di Roma. Mai come in quel caso la stampa ebbe la capacità di costruire i mostri, di spettacolarizzare gli eventi e di emettere la sentenza prima dei giudici. Come scrisse Francesco Merlo sul Corriere della Sera «dopo quelle politiche è questa la prima vera, grande istruttoria collettiva, una specie di apocalisse del delitto. Manca solo un numero verde per avere o dare suggerimenti ai pm o al questore o al capo della Mobile o, perché no?, agli imputati. È come se l’Italia intera dirigesse e seguisse le indagini, tutte le indagini minuto per minuto». Per quel delitto furono condannati  Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone. Quest’ultimo, scontata la pena, ottenne una cattedra all’Istituto Einaudi di Roma: vi rinunciò a causa del clamore mediatico. Il tribunale del popolo non perdona: sulla stampa la condanna è a vita, purtroppo. Nel 2002 ad irrompere nelle nostre case fu il delitto di Cogne: il piccolo Samuele Lorenzi, secondo una sentenza definitiva, fu ammazzato nel lettone da sua madre Annamaria Franzoni che lo colpì 17 volte probabilmente con un utensile di rame. Come non scordare l’ormai celebre plastico di casa Lorenzi a Porta a Porta: «Quando ci fu il delitto di Cogne i giornali pubblicarono la pianta della casa. Erano plastici su carta. Noi abbiamo fatto quelli veri», disse Bruno Vespa a Vanity Fair. Poi arrivò il delitto di Garlasco: il 13 agosto 2007 Chiara Poggi fu uccisa nella sua villetta di famiglia. Dopo cinque gradi di giudizio a finire in carcere è stato il fidanzato Alberto Stasi. La politica in quel mese non offriva spunti e quindi tutta l’attenzione venne data all’omicidio; persino Fabrizio Corona si recò nel piccolo paese in provincia di Pavia per contattare due cugine della vittima, finite per qualche giorno tra le sospettate non dei magistrati ma del popolo. Alberto Stasi fu subito lombrosianamente condannato dalla stampa, come ricordò lo scrittore Alessandro Piperno sul Corsera: «Mi chiedo se Alberto Stasi, frattanto, abbia fatto il callo alle sue mille foto apparse in questi due anni sui giornali. Nel qual caso a quest’ora saprà che non c’è centimetro quadrato del suo corpo né impercettibile dettaglio del suo contegno che non parli di colpevolezza: l’incarnato diafano, la sobrietà dei lineamenti, la sfuggente pudicizia, tutto lo rende l’interprete ideale del ruolo di Stavroghin in una eventuale trasposizione cinematografica de I demoni di Dostoevskij». Sempre nello stesso anno ma ad inizio novembre, fu Perugia a finire al centro della cronaca giudiziaria italiana e internazionale: la studentessa inglese Meredith Kercher venne ritrovata priva di vita con la gola tagliata nella propria camera da letto, all’interno della casa che condivideva con altri studenti, in via della Pergola 7. Il processo divenne una grande fiction: due giovani amanti  – Raffaele Sollecito e Amanda Knox – , il sesso, la droga e le notti brave. I media, imbeccati soprattutto dalla procura, si schierarono immediatamente sul fronte colpevolista: «No all’orgia e l’hanno uccisa» (La Stampa), «Tre arresti per Meredith: Sono loro gli assassini» (La Repubblica), «Meredith uccisa con il coltello di Raffaele» (Il Giornale), solo per citarne alcuni. Non erano loro gli assassini ma hanno fatto comunque 4 anni di carcere da innocenti, mentre la stampa li mostrificava. Questa immagine accusatoria non scomparve neppure dopo l’assoluzione definitiva della Suprema Corte di Cassazione. Basti leggere l’articolo di Marco Travaglio, pubblicato il 29 marzo 2015, dopo la sentenza finale, che continuava a sostenere che la verità sostanziale non è quella processuale, è che i due ragazzi sono gli unici a poter essere logicamente considerati concorrenti del Guede nel delitto di omicidio di Meredith Kercher. Un altro anno orribile fu il 2010: il 26 agosto ad Avetrana, in provincia di Taranto, venne uccisa la piccola Sarah Scazzi. Per la giustizia le colpevoli sono la zia Cosima Serrano e la cugina Sabrina Misseri. La vicenda ebbe un grandissimo rilievo mediatico, culminato nell’annuncio del ritrovamento del cadavere della vittima in diretta sul programma Rai Chi l’ha visto? dove era ospite, in collegamento, la madre di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo. Per non parlare del tour dell’orrore; per un periodo alcune agenzie di viaggio hanno offerto un pacchetto all inclusive: viaggio andata e ritorno, pranzo in trattoria, visita a casa Scazzi e villa Misseri, tappa veloce in chiesa, piccolo stop al cimitero dove riposa la vittima, infine il momento clou al pozzo dove era stata seppellita dallo zio Michele Misseri.Di sicuro la guida non avrà spiegato i termini giuridici della questione! Nello stesso anno ma qualche mese dopo, il 26 novembre, scomparve da Brembate, in provincia di Bergamo, Yara Gambirasio. Il suo corpo fu ritrovato esattamente tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Il 16 giugno 2014 viene arrestato Massimo Giuseppe Bossetti, un muratore di Mapello incensurato di 44 anni. Probabilmente in questo caso si raggiunse il punto più alto del voyeurismo mediatico-giudiziario: il suo arresto fu mandato in onda da tutte le televisioni. Sono stati i dieci minuti più bui del perverso rapporto tra stampa e forze dell’ordine e procure. Qualcuno potrebbe dire «ma è colpevole”»: nessuno, neanche il peggior criminale, può essere privato della sua dignità come è accaduto a Bossetti, a maggior ragione se dietro la telecamera c’era un agente dello Stato. E arriviamo al 2015, a quel terribile 17 maggio quando a Ladispoli, in provincia di Roma, perse la vita il giovane Marco Vannini, colpito accidentalmente da un colpo di pistola sparato dal padre della fidanzata, Antonio Ciontoli. Il 3 maggio la Cassazione si pronuncerà per la seconda volta sul caso. Gli imputati, ossia tutta la famiglia Ciontoli, sono stati perseguitati dalla stampa: agguati sotto casa, sul posto di lavoro, per strada. A causa di questo hanno dovuto abbandonare l’abitazione e rifugiarsi separatamente in altre città. Ben tre ex Ministri – Bonafede, Trenta, Salvini – si sono esposti sul fronte colpevolista senza aspettare una sentenza definitiva. Qui, purtroppo o per fortuna, non siamo negli Stati Uniti dove due giorni fa, durante il processo per la morte di George Floyd, il giudice Peter Cahill ha bacchettato la deputata democratica Maxine Waters che nei giorni precedenti si era espressa a favore di una sentenza di colpevolezza per il poliziotto: «Mi piacerebbe che i rappresentati politici la smettessero di parlare di questo caso e di farlo in modo non rispettoso della legge», ipotizzando che i commenti della deputata «potrebbero rappresentare la base per un appello».

La cultura unica dell'accusa. Non spetta ai Pm informare l’opinione pubblica, l’imputato non può essere presentato come colpevole prima del processo. Valerio Spigarelli su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Il dibattito sulla Giustizia in Italia è contrappuntato da alcune questioni, che si trascinano da decenni in vesti apparentemente diverse ma dalla sostanza identica. Siccome la politica italiana non affronta i veri nodi, ogni volta si riparte da zero magari affidando ai giuristi, la cui capacità di sublimare il nulla è notoriamente prodigiosa, il compito di risolvere le questioni all’interno di pensose commissioni ministeriali che partoriscono soluzioni che la politica si incarica poi di banalizzare – quando le traduce in legge – e la giurisprudenza di vanificare attraverso l’interpretazione. Una sorta di gioco dell’oca in cui si riparte sempre dallo stesso punto. Il problema è che molte delle questioni, si pensi alla prescrizione, all’ergastolo ostativo, alla riforma del processo, vengono affrontate in nome di una visione del sistema penale fondata su una vera e propria distorsione. Il processo viene visto come uno strumento di difesa sociale e per tale motivo si carica di una serie di aspettative che finiscono per snaturarne le funzioni. Secondo la nostra Costituzione le persone si processano per stabilire se, rispetto a un determinato fatto, esse meritano le massime sanzioni che, in uno stato di diritto, possono essere applicate: perdita della libertà personale o dei propri beni. In altre parole, benché questo sia da molti decenni assolutamente negato dalla cultura diffusa, tanto da suonare oggi come una bestemmia sociale, i processi non servono a combattere fenomeni criminali se non in via indiretta. Per dirla alla maniera complicata dei giuristi, la prevenzione generale, cioè la carica deterrente che deriva dalla affermazione di responsabilità penale, non è questione del processo. Francesco Carrara, che aveva il dono della semplicità, spiegava che il codice di procedura penale è la legge per i galantuomini. Va sottolineato che, nelle aule delle università, e in quelle dei convegni giuridici, difficilmente si troverebbe qualcuno disposto a sostenere il contrario. Viceversa, e l’esempio di Pier Camillo Davigo è illuminante in questo senso, eserciti di magistrati hanno predicato, se non a parole certamente nei fatti, l’esatto contrario. Si prenda la vicenda della custodia cautelare. A leggere le norme di riferimento – e i verbali delle commissioni ministeriali all’esito dei cui lavori quelle norme hanno guadagnato un surplus strabiliante di avverbi – essa dovrebbe essere uno strumento eccezionale, extrema ratio recita il breviario giuridichese. Soprattutto non dovrebbe mai essere applicata come una “anticipazione della pena” prima della sentenza di condanna, ciò in ossequio alla presunzione di non colpevolezza. Solo che se si consultano gli annali della giurisprudenza ci si accorge che il concetto è stato rimosso persino attraverso il ricorso all’inquisitorio concetto di abiura: se non confessi non recidi i tuoi legami criminali, pertanto sei pericoloso e dunque rimani in carcere. Peraltro la stessa idea arretrata, rimodulata sull’ordinamento penitenziario, ha corroso la funzione della pena, come dimostra la vicenda dell’ergastolo ostativo da poco dichiarato, sia pur a termine, incostituzionale, dopo anni di indefessa applicazione. La verità è che per il diritto vivente la custodia cautelare è quella anticipazione della pena che la Costituzione non vorrebbe e lo è proprio perché la magistratura italiana, da decenni, sposa l’idea del processo come strumento di difesa della società. Per questo, di fronte all’incerto destino della pena a causa della irragionevole durata del medesimo, si preferisce applicare il motto “pochi, maledetti e subito”, caro ai bottegai romani. Altro che extrema ratio. È un problema di cultura, si sarebbe detto negli anni Settanta, una cultura autoritaria ove peraltro regna una logica capovolta: più è grave il reato meno garantiti sono il processo e la pena. Ciò travolge anche la presunzione di non colpevolezza. Nella maggior parte dei paesi occidentali, e secondo le convenzioni internazionali, questo è un principio fondamentale che garantisce il soggetto debole, l’imputato, di fronte alla straordinaria potenza dello Stato che lo accusa. Violando questo principio si finisce per alterare i meccanismi decisionali del Giusto processo e dunque del prodotto finale, la sentenza. Presentare l’imputato come un colpevole, dunque anche diffondere elementi di prova come intercettazioni, filmati e via discorrendo prima del processo vero e proprio, letti in funzione accusatoria, nel corso di conferenze stampa indette dai pm, viola quel principio. Il corto circuito che nel nostro paese si verifica da decenni su questo tema è troppo evidente per insistere, semmai è importante sottolineare che anche le ragioni che la magistratura italiana adduce per giustificare tali pratiche, cioè da un lato il dovere da parte degli organi giudiziari di informare direttamente la pubblica opinione e dall’altro di consentire un controllo pubblico dell’etica della classe dirigente, sono espressioni della medesima visione culturale del processo come strumento di difesa sociale che snatura la funzione giurisdizionale, anche perché fatalmente porta alla ricerca del consenso all’azione giudiziaria. I magistrati sono sottoposti alla legge e solo alla legge, per questo sono indipendenti, se cercano il consenso sociale – in qualche caso pretendono, vedi la stagione di mani pulite e l’epica antimafia – ciò dipende proprio da quella distorta visione del processo. Identica matrice si ritrova anche nella opposizione alla separazione delle carriere tra giudici e pm largamente maggioritaria nella magistratura italiana. Accusare e giudicare sono questioni diverse e l’una deve essere autonoma e indipendente dall’altra. Non è faccenda di rapporti di colleganza o di caffè consumati assieme al bar come, con micidiale idiozia, concionano avversari o supporter della separazione delle carriere, ma di rapporti di potere all’interno del medesimo ordine. Rapporti di potere reali, effettivi, che possono condizionare l’esercizio del soggetto fatalmente più debole – se non altro perché privo dell’impressionante dotazione repressiva, in uomini, mezzi e soprattutto norme, in dotazione alle Procure – cioè il giudice. Il che rende evanescente quella funzione di terzietà che solennemente la Costituzione proclama all’articolo 111. Il pensiero, su questo tema, corre al Palamaragate, ma anche alle vicende legate alle dichiarazioni del Procuratore Gratteri e a quelle del processo Eni a Milano, e non occorre aggiungere altro. Terzo significa equidistante da un punto di vista valoriale, cioè indifferente alla prevalenza delle ragioni punitive dello Stato o a quelle di libertà dell’imputato. Di nuovo una questione culturale, di cultura dei soggetti processuali, che deve essere unica per tutti: pm, giudici, avvocati e, si parva licet, anche di chi si occupa della informazione giudiziaria. La pretesa di identificare nella magistratura, e solo nella magistratura, la depositaria di una cultura unica, la mitica e vaporosa cultura della giurisdizione, che legittimerebbe l’unitarietà delle giudici/pm in un solo corpo giudiziario, di nuovo affonda nella distorta visione della funzione giudiziaria come scudo della società nei confronti dei fenomeni devianti. Insomma, l’identificazione della giurisdizione nel suo complesso con l’azione dell’accusa, il gigantismo delle procure, la ricerca del consenso da parte dei pm, l’utilizzo incostituzionale della custodia cautelare come anticipazione di pena, lo straordinario e prolungato utilizzo delle intercettazioni, e molto altro ancora sono il frutto della medesima idea, quella del processo come strumento di difesa sociale che pervade la magistratura italiana. Per cambiare questa idea l’unica maniera è creare le condizioni strutturali affinché se ne affermi una diversa. Ciò significa non solo modificare l’ordinamento della magistratura separando giudici e pm, ma anche rendere la magistratura stessa diversa da quella corporazione chiusa che è. Se la figura del pm è ormai dominante, fuori e dentro il processo, la responsabilità, infatti, non è solo di un legislatore bislacco esposto a ogni refolo di populismo giudiziario, ma della giurisprudenza, che è parto dei giudici, non dei pm. Sono loro che devono cambiare cultura, e per farlo devono prima perdere il monopolio assoluto della giurisdizione attraverso un significativo accesso laterale di soggetti diversi, non monopolizzati dalle pratiche correntizie fin dall’ingresso come uditori – come abbiamo appreso da Palamara che su questo non è stato smentito da nessuno – e non condizionati da una idea palingenetica dell’azione giudiziaria. Questo è compito della Politica che non può essere delegato alle commissioni ministeriali. Valerio Spigarelli

Il monito del giudice. “Basta processi show, servono solo a Pm vanitosi”, l’accusa del giudice Nicola Russo. Viviana Lanza su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Quando era giudice della sezione penale del Tribunale di Napoli fu nel collegio che si occupò di uno dei più grandi processi per corruzione degli ultimi anni, quello sulla presunta compravendita di senatori nel 2008: un processo che fu anche uno dei casi giudiziari più mediatici del tempo. «All’epoca facemmo una scelta di controtendenza – spiega Nicola Russo che presiedeva il collegio quando, nel 2014, il processo approdò al primo grado – Scegliemmo di non ammettere le telecamere durante il dibattimento e scrivemmo un’ordinanza con la quale motivammo le ragioni per le quali ritenevamo che l’intrusione mediatica durante le testimonianze avrebbe nociuto al processo. Fu una decisione presa nonostante tutte le parti (pubblica accusa, parte civile e difesa) chiedessero invece di autorizzare le telecamere». In quel processo l’accusa era rappresentata dal pm Henry John Woodcock, nel pool assieme ai magistrati Vanorio, Piscitelli e Milita. Tra gli imputati c’era Silvio Berlusconi che fu poi assolto nei successivi gradi di giudizio per prescrizione. Gli unici a evitare di esasperare la mediaticità del caso furono, dunque, i giudici: «Fummo gli unici a difendere questa posizione – ricorda Russo – E ancora oggi ritengo che quella fu una scelta giusta, perché quello che noi giudici dovevamo preservare nei limiti del possibile era la genuinità delle prove e del processo. L’informazione ci sarebbe comunque stata, perché avevamo consentito a Radio Radicale di ascoltare le testimonianze (che è cosa diversa dal diffondere le immagini del processo) e alle udienze c’erano anche giornalisti per cui non fu vietata la comunicazione sul processo. Fu vietata la sovraesposizione del processo che è qualcosa che si deve evitare laddove è possibile, altrimenti tutto viene enfatizzato: i ruoli delle parti, le dichiarazioni, anche la serenità di chi deve giudicare viene emessa a dura prova se si sta sotto le telecamere tutti i giorni». Nicola Russo, oggi consigliere della Corte di Appello di Napoli, ex giudice della sezione penale e già componente del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura, fa con Il Riformista una riflessione sulla mediaticità dei processi, sullo sbilanciamento verso la fase delle indagini più che del dibattimento, sul cortocircuito che spesso si crea tra informazione e spettacolarizzazione quando si parla di casi giudiziari. In nome del popolo mediatico (se pure i magistrati smettono di affidarsi al processo) è il titolo di un suo intervento sulla rivista Questione Giustizia che ha destato particolare attenzione. «Purtroppo la percezione del bisogno di conoscenza nella collettività si è trasformata, è quella di dare l’informazione subito e a prescindere da ciò che avverrà dopo. Perché ciò che conta è creare attorno al fatto una comunicazione, che poi questa comunicazione venga superata da altri fatti diventa quasi irrilevante». Di qui le gogne mediatiche, gli errori giudiziari, le vittime di una giustizia sommaria. «Si rincorre l’immediatezza della notizia invece di avere la pazienza di aspettare che sia il processo a dare le risposte e si rischia così che il fatto si risolva nel breve tempo e nel breve spazio di una notizia giornalistica finendo per sostituire il processo. La sovraesposizione – spiega Russo – è un danno che si crea all’immagine della giustizia». Ai magistrati invece può portare qualche vantaggio? «Credo che la visibilità possa servire a fare carriera più fuori dalla magistratura, magari nella politica».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

(ANSA il 29 aprile 2021) Agcom ha adottato una delibera di richiamo nei confronti de La7 per il programma Non è l'Arena in merito al caso Alberto Genovese. L'Autorità chiede "il rigoroso rispetto dei principi sanciti nel Testo unico e nei provvedimenti dell'Autorità a tutela di una informazione imparziale e di una corretta modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari e dell'immagine della donna". Agcom ritiene che "sotto il profilo della continenza, la trattazione del medesimo argomento in ben 12 puntate del programma con spazi di durata compresa tra i 50 e gli 80 minuti, denuncia un'attenzione sproporzionata al fatto di attualità".

Dibattimento mediatico e giuria del popolo: processo all’italiana sul caso Grillo jr. Il processo vero non è ancora iniziato ma la macchina mediatico-giudiziaria è quasi arrivata a sentenza. Tutto sulla pelle di un ragazzo e una ragazza. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 21 aprile 2021. Il processo non è mai iniziato, il dibattimento sì. Sui media. Difesa e accusa di Ciro Grillo e della sua presunta vittima scelgono di anticipare il confronto fuori dall’aula di Tribunale, producendo fantomatiche prove, ascoltando improvvisi testimoni e lanciandosi in arringhe via social. Inizia Beppe Grillo, padre del maggiore indiziato, convinto che il figlio non abbia «fatto niente», riconoscendo al massimo la colpevolezza per il reato di “coglionaggine”, nuova fattispecie creata appositamente dal garante M5S per quattro «ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello». La vittima? Nessuna vittima per “l’avvocato” Grillo, la ragazza era certamente consenziente «perché una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf, e dopo 8 giorni fa una denuncia. È strano». Cala il gelo in “aula” per qualche istante. Poi sono la mamma e il papà della ragazza a rispondere al comico, definendo la sua arringa «una farsa ripugnante». «Cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati, cercare di sminuire e ridicolizzare il dolore, la disperazione e l’angoscia della vittima e dei suoi cari sono strategie misere e già viste», aggiungono. Processo finito? No. Perché c’è ancora un genitore che non ha parlato. E Parvin Tadjik, moglie di Grillo, presente nella villa dove sarebbe stato consumato l’abuso, vuole aggiungere qualcosa, per replicare a Maria Elena Boschi (tra i tanti membri di un’immaginaria giuria popolare): «C’è un video che testimonia l’innocenza dei ragazzi, dove si vede che lei è consenziente, la data della denuncia è solo un particolare», rincara la donna. E tra un commentatore e l’altro interviene un altro avvocato, questa volta vero, della ragazza: «Porterò il video di Beppe Grillo in Procura perché reputo che sia una prova a carico, documenta una mentalità», dice Giulia Bongiorno. Prova a carico di chi non è chiaro, visto che sotto indagine c’è Ciro e non Beppe. Del resto, sono tanti gli elementi poco chiari in questa vicenda in cui vittime e carnefici si confondono nelle urla del processo in piazza.

Il giornalismo spietato contro Grillo e Boda. Il figlio del comico subisce un processo a mezzo stampa. Come lo ha subito la dirigente del ministero dell'istruzione indagata per corruzione. E' ora che procure e giornalismo separino le carriere. Davide Varì su Il Dubbio il 20 aprile 2021. Il messaggio è duro. Ed è rabbioso. A tratti appare come la rabbia dolente di un padre che da anni assiste al processo (per ora tutto mediatico) al proprio figlio accusato di stupro. Uno stillicidio quotidiano con titoli sparati e foto impietose. «Mio figlio è su tutti i giornali come stupratore seriale insieme ad altri tre ragazzi. Se fossero veri stupratori seriali li avrei portati io in galera a calci nel culo», ha infatti urlato nel suo breve video: un minuto, o poco più, di urla. Un flusso ininterrotto di accuse. È un dolore vero, quello del comico. Forse sguaiato e con tratti di insopportabile di misoginia. E’ un dolore che non ha tenuto conto di chi ha denunciato quella violenza. Ma tutto questo sarà esaminato in un’aula di tribunale, non siamo qui a emettere sentenze. Anzi, è esattamente quello da cui dobbiamo tenerci alla larga. Qualcuno in queste ore ricorda a Grillo che lui e suo figlio stanno subendo lo stesso trattamento che i suoi militanti hanno riservato a decine, centinaia di persone indagate e processate a mezzo stampa. Potremmo ricordarglielo anche noi del Dubbio, ma sbaglieremmo perché ora Grillo è dall’altra parte della sbarra, dalla parte dell’imputato. La vicenda del figlio di Grillo arriva pochi giorni dopo il tentato suicidio di Giovanna Boda, la dirigente del ministero dell’Istruzione indagata per corruzione che si è gettata dallo studio del suo avvocato dopo aver visto altri titoloni e altre foto impietose di un’indagine ancora in corso. Sono storie dolorosissime che ricordano a tutti noi quanto sia indispensabile e urgente che i giornalisti si tengano ben lontani dai magistrati. E viceversa. E forse, come qualcuno ha già detto, è questa la vera e più urgente separazione delle carriere che va realizzata.

«La gogna ha quasi ucciso Giovanna: non sia più la regola in questo Paese». Intervista alla senatrice Paola Binetti, che ha annunciato un'interrogazione parlamentare sul caso di Giovanna Boda, la dirigente del Miur che ha tentato il suicidio dopo aver saputo di essere indagata. Simona Musco su Il Dubbio il 13 maggio 2021. Un’interrogazione parlamentare affinché il corto circuito mediatico-giudiziario che ha portato Giovanna Boda a tentare il suicidio non si verifichi più. Ad annunciare al Dubbio l’iniziativa è la senatrice di Forza Italia Paola Binetti, intenzionata a far sì che quanto accaduto all’ex dirigente del Miur non accada più. La storia è nota: Boda, ad aprile, si è gettata dal secondo piano di un palazzo a due passi dal centro di Roma, a poche ore dalla perquisizione disposta dalla procura di Roma per un presunto giro di corruzione che la vedrebbe protagonista assieme ad una sua collaboratrice e all’editore dell’agenzia di stampa Dire. Uno shock immenso, il suo, sbattuta sui giornali come l’ennesima furbetta da mortificare pubblicamente in modo esemplare. E ciò nonostante le accuse a suo carico siano ancora tutte da verificare. Un’indagine appena partita che ha già provocato una marea di conseguenze gravissime. «L’unica cosa che vorrei è capire come restituire giustizia ad una persona coinvolta in una vicenda che, a mio avviso, ha dei contorni drammatici», spiega Binetti, che oltre ad essere una politica è anche neuropsichiatra. Ed ora vuole evitare che la gogna rimanga la regola nel nostro Paese.

Senatrice, perché le interessa tanto il caso di Giovanna Boda?

Perché non c’è solo l’accusa che è stata perpetrata nei suoi confronti, ma anche quel tentativo di suicidio. C’è stata, evidentemente, una sofferenza di cui probabilmente porterà le tracce a lungo su di sé. Il mio unico desiderio è capire come poter essere utile alla verità delle cose, alla giustizia dei fatti e ristabilire, in qualche modo, un ordine in eventi che si sono creati prima ancora di essere interpretati correttamente. Fatti sbattuti subito in prima pagina. È un desiderio di chi ha conosciuto Giovanna Boda, in tanti momenti, in tante situazioni e ne ha apprezzato l’intelligenza.

Che persona è?

La prima volta che l’ho vista è stato durante il secondo governo Prodi: lei ha organizzato una delle prime navi della legalità, portando a Palermo tanti studenti, nel luogo stesso in cui, per l’immaginario collettivo, c’è stata la maggiore offesa e trasgressione alla legalità. Tutte le volte che sono entrata in contatto con lei ho sempre trovato una persona disponibile, generosa, capace di farsi in quattro e allo stesso tempo coraggiosa. Una persona di quelle che siamo contenti di avere nella pubblica amministrazione, perché non si muoveva a rallentatore in quelle che sono le ganasce di una burocratizzazione un po’ inerte. Non era una di quelle che diceva “non si può fare”, come spesso accade quando ci si avvicina ad un problema un po’ più complesso. Mi ha colpita molto e mi rallegro che sia uscita da qualunque tipo di rischio, anche se non escludo affatto che porterà a lungo le conseguenze di quel gesto. Le fratture ci sono, ma non sono solo fisiche: sono anche nell’anima. Davanti ad un’incomprensione che l’ha spinta a questo bisogno di fuga vuol dire che quelle ferite sono state profonde, non una minaccia epidermica.

Come ha saputo di questa vicenda?

Dai giornali. Avevo visto Giovanna un mese prima circa, non avrei pensato mai una cosa del genere. È stato esplosivo.

Cosa ha pensato?

L’idea di aver associato immediatamente l’accusa di corruzione con quella risposta, il tentativo di suicidio, ti fa rendere conto di quanto deve essere stata forte questa aggressione. Di quanto deve essere stata devastante questa accusa per lei. Di gente accusata di reati contro la pubblica amministrazione ce n’è tanta in giro, ma se si percepisce la cosa in maniera così infamante da mettere a repentaglio la propria vita, vuol dire che l’umiliazione subita, la ferita subita, è così profonda da non aver trovato vie di scampo, vie di fuga. Non c’è nessuno che le abbia detto che le cose si sarebbero potute chiarire. È come se le avessero sparato addosso una tale carica di rischio che in quel momento ha preferito fuggire. Non c’è nessuna accusa che possa permettere di capire perché una persona arrivi a mettere a repentaglio la propria vita, se non una percezione di sé così limpida, così onesta che anche un solo rischio di compromettere la propria immagine fa sembrare la vita non più degna di essere vissuta. Mi sono chiesta: quanto è giusta una giustizia che spinge una persona a fare questo?

In questo caso è il cortocircuito mediatico che gioca anche un ruolo importante: il suo nome è finito sui giornali e non sono mancate ricostruzioni e parallelismi con casi clamorosi, come la vicenda Palamara.

Esattamente. La notizia dell’accusa è stata data contestualmente al tentativo di suicidio: è come se non le avessero lasciato alcuna speranza.

Quali iniziative ha intenzione di intraprendere?

Ho intenzione, nel suo interesse, di fare un’interrogazione parlamentare.

Cosa chiederà?

Chiederò tre cose. Che ci sia una maggiore discrezione, quindi evitare fughe di notizie da parte dei magistrati, perché qualcuno l’avrà detta questa cosa alla stampa. Chi permette che ciò accada? La prima riserva è dunque precauzionale. La seconda è chiedere che la stampa rispetti maggiormente il proprio codice etico. Se noi non abbiamo tutti gli elementi non possiamo permettere che si faccia carne da macello con la buona fama di una persona. La stampa è partita con un tempismo pazzesco, in tempo reale. Vuol dire che qualcuno ha detto e qualcuno ha voluto. Ma i diritti valgono solo a senso unico o possono essere manipolati a puro scopo di lucro?

La terza questione qual è?

Giovanna è stata per molto tempo il direttore generale della Pubblica istruzione, con delega agli studenti. Sono decine di migliaia i ragazzi che l’hanno avvicinata, l’hanno conosciuta e hanno partecipato alle iniziative da lei promosse. Che cosa resterà dentro di loro di tutto ciò? Se, come mi auguro, si dimostrerà la sua piena innocenza, quali saranno per loro le conseguenze della consapevolezza di come una persona può essere massacrata? Io spero con tutto il cuore che nel momento in cui si dimostrerà la sua assoluta innocenza meriti una restituzione, non da dodicesima pagina in basso a sinistra.

Quello è il rischio.

Spero meriti la restituzione di una dignità piena, perché attraverso di lei si sono colpite anche molte intelligenze giovani, molta passione civile da parte dei ragazzi. E abbiamo alla base questa drammatica vicenda che ogni tanto si crea, l’associazione assai poco sana tra una certa magistratura e una certa stampa, che invece di essere al servizio della verità corre il rischio di essere al servizio dello scoop.

Questo ha a che fare anche con la riforma della giustizia e il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza?

Esattamente. Noi dobbiamo essere garantisti e sostenere una persona, nel momento in cui c’è un avviso di garanzia. Non possono confondere la comunicazione dell’indagine con la comunicazione della condanna. Bisogna fare capire al cittadino onesto che non bisogna aver timore della giustizia. Ma è evidente che in una situazione del genere il timore di una giustizia ingiusta abbia presidiato gesti come quello di Giovanna che, non dimentichiamolo, ha una bimba di tre anni. Ma poi mi domando: si sta compiendo un’indagine, che bisogno c’è di trasformarla in un processo mediatico?

Ci sono due problemi: da un lato il fatto che il garantismo venga percepito in maniera distorta, come se chi lo professa chiedesse l’impunità per feroci criminali, dall’altro c’è anche un problema mediatico. Come si risolve questa situazione?

Noi siamo davanti ad un’informazione che è sempre più spregiudicata. Per carità, per me il giornalismo d’inchiesta è fondamentale, ma ribadisco: ci deve essere un codice etico. È assolutamente ingiusto sbattere il mostro in prima pagina, anche se si tratta di personaggi pubblici. Se si vuole stigmatizzare un fatto in modo esemplare prima bisogna avere tutte le garanzie e la certezza che ciò che si sta dicendo è vero. Perché se è falso si contraddice il più profondo dei principi del buon giornalismo. E in questo caso falsificare i fatti, che significa forzarli prima ancora di averli verificati, è confondere l’intuizione con una dimostrazione. Il sospetto si può avere, ma va verificato. Perché tutto questo ha un costo altissimo. Per questo vogliamo la riforma della giustizia.

Remissione dell’inquirente che dà l’indagato per colpevole? Il patto fra toghe vanificherebbe il rimedio. Come intervenire quando a violare la presunzione d’innocenza, nelle dichiarazioni alla stampa, è lo stesso pm titolare dell’indagine? Si tratta della principale sfida posta dalla direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza, che l’Italia ha finalmente recepito. Il deputato di Azione Enrico Costa propone la “remissione” del fascicolo ad altro ufficio. Ma la naturale solidarietà fra magistrati rischia di vanificare il rimedio. Alessandro Parrotta su Il Dubbio il 23 aprile 2021. Circa un mese fa, su queste stesse pagine, il collega avvocato, deputato di Azione ed ex viceministro della Giustizia Enrico Costa sollevava il problema del mancato rispetto della presunzione d’innocenza all’interno degli assetti giudiziari. Secondo l’onorevole Costa, il principio della presunzione d’innocenza verrebbe costantemente e sistematicamente compresso nonché, per certi versi, violato ogni qual volta venga strumentalizzata, quale oggetto di mediatizzazione, l’azione penale, anche tramite l’anticipazione di atti d’indagine o lo svolgimento di simulazione di processi in tv, esponendo inevitabilmente alla pubblica gogna persone innocenti, rectius, indiscutibilmente innocenti fino alla conclusione dei tre gradi di giudizio o della cosiddetta sentenza passata in giudicato.. O, almeno, così dovrebbe essere ai sensi dei codici sostanziale e di rito. Nota è nel nostro Paese la tendenza a rendere i processi dei veri e propri spettacoli, lanciati in pasto alle opinioni della massa, a consulenti e periti che operano plastiche ricostruzioni e fingono conclusioni, calpestando ogni forma di diritto alla presunzione di innocenza. Ma simili violazioni avvengono in primis, e in maniera più distruttiva per la vita dell’indagato, quando il pubblico ministero tende a mediatizzare il procedimento di sua competenza, allorquando le parole spese dal medesimo dinanzi i microfoni attengono a tempi verbali propri dell’indicativo, più che del congiuntivo o condizionale. “Sono colpevoli di…” in luogo di “pare che siano colpevoli di…”. È vero che chi parla è un magistrato, ma non è il giudicante, viceversa una parte processuale che siede al lato opposto dell’avvocato, la difesa privata.

Il rimedio ipotizzato da Costa: la remissione del procedimento. Costa evidenzia un problema, insomma, di cui non si può non condividere l’assunto. In particolare, nella summenzionata intervista, il deputato di Azione propone di introdurre un istituto, che egli stesso definisce “remissione”, con il quale il procedimento passa dal magistrato inquirente macchiatosi di eccessiva eco mediatica a un nuovo ufficio. L’istituto così definito è figlio di un legittimo spirito garantista che, come si evidenziava sopra, viene spesso calpestato. A questo punto però è necessario chiedersi come una cosiddetta “remissione” del magistrato inquirente possa funzionare e se, in concreto, siffatto istituto possa rivelarsi utile per l’indagato. A tal fine procederemo per step secondo quelli che sono i maggiori interrogativi che una simile riforma comporta. La remissione interverrebbe solo nel caso di mediatizzazione del processo o ogniqualvolta ci sia un “calpestamento” della presunzione di innocenza? Probabilmente, sarebbe auspicabile una restrizione dell’ambito di applicazione alla sola mediatizzazione del procedimento o a poche altre evidenti e tassative ipotesi. La ratio è lapalissiana: ampliare eccessivamente l’ambito oggettivo di applicazione della remissione rischia di compromettere il carico per le autorità giudiziarie, le quali, già sufficientemente stressate, si ritroverebbero molto probabilmente invase di richieste di remissione del magistrato inquirente. Per ovviare a ciò pare necessario che i confini dell’istituto ivi ipotizzato siano definiti con precisione chirurgica, non solo per quanto detto poc’anzi, ma anche e soprattutto perché non bisogna dimenticare come il pm sia un magistrato con il compito di rinvenire elementi tanto a carico quanto a discarico del prevenuto ( come la Costituzione insegna) e, ancor prima, la verità. Pertanto, così come un avvocato può essere convinto dell’innocenza del proprio assistito, parimenti il procuratore può essere altrettanto convinto della colpevolezza dello stesso, a volte innamorandosi del castello accusatorio al punto da poter manifestare in taluni ambiti simile convinzione, che, inevitabilmente, collide con la presunzione di innocenza. Pertanto, è auspicabile che solo laddove la violazione del diritto alla presunzione di innocenza sia manifestamente palese e manifestamente lesiva per il soggetto indagato/ imputato, intervenga l’istituto della remissione, e non già quando il pm eserciti l’azione penale senza aver realmente valutato tutte le circostanze. Come potrebbe essere proposta ed esaminata l’istanza. A questo punto è necessario domandarsi chi abbia la facoltà di azionare l’istituto della remissione. È pacifico affermare, senza eccessive elucubrazioni, che l’istituto possa essere fatto valere dal soggetto che vede lesa la propria presunzione di innocenza, ossia la persona indagata/ imputata, la quale, si ipotizza, potrebbe presentare una istanza dinanzi l’autorità procedente affinché questa si esprima nel merito dell’asserita lesione. In ordine a quest’ultimo aspetto, al fine di non rallentare eccessivamente i procedimenti, è necessario che la questione attorno alla remissione si risolva in breve tempo, anche allo scopo di evitare distorsioni. A tal fine è possibile ipotizzare che, successivamente alla presentazione di una memoria ad hoc ad opera della difesa, l’organo giudicante procedente, esaminata la questione, si esprima sull’accoglibilità o meno, per poi rimandare eventualmente a una successiva udienza per la trattazione nel merito, sentendo le parti entro un termine di giorni dalla presentazione della richiesta. Il vero interrogativo: a chi va trasferito il fascicolo? In terzo luogo è necessario definire a chi il fascicolo debba tradursi. In ordine a quest’ultimo aspetto, infatti, le insidie non sono poche. Ipotizziamo infatti che, successivamente a un vittorioso esperimento di remissione, il fascicolo sia trasferito ad altro procuratore facente parte della stessa Procura, o della stessa area di competenza. Premesso che il trasferimento del fascicolo nell’ambito dello stesso Tribunale, e quindi Procura, è inevitabile e necessario, a maggior ragione se vi è già un giudice “precostituito per legge”, siffatto rimedio potrebbe finire per risultare del tutto sterile. Si immagini la traduzione di un fascicolo dall’ufficio del procuratore Tizio a quello del procuratore Caio, suo vicino di stanza all’interno dello stesso Palazzo di Giustizia. È evidente che simile trasferimento, in simili casi, rischia di essere sostanzialmente inutile, soprattutto in quei Tribunali di piccole dimensioni in cui il numero di magistrati inquirenti si conta sulle dita di una mano, e laddove un cambio di paternità del fascicolo non garantisce in nessun modo un cambio di atteggiamento nei confronti della causa, visti gli inevitabili legami tra magistrati inquirenti. Pertanto, è nella sostanza utile un cambio formale di paternità del fascicolo? A parere di chi scrive la risposta deve trovare segno negativo, non garantendo simile traduzione del procedimento, oltre tutto, il rispetto di garanzie di innocenza che, in ogni caso, risulterebbero già violate e non più ripristinabili in forza della remissione. È possibile trarre qualche spunto da un istituto già presente nel nostro ordinamento, che è la ricusazione del giudice. La ricusazione interviene in quelle situazioni in cui la presenza del soggetto giudicante è in una posizione tale che ne inficia irrimediabilmente la sua neutralità. In un istituto come quello ipotizzato, invece, la remissione interverrebbe solo una volta dimostrata la violazione del diritto alla presunzione di innocenza da parte del magistrato inquirente, rendendo del tutto vana una traduzione del fascicolo che interverrebbe solo ex post il fatto lesivo. Insomma, posta in questi termini la remissione appare più come una “punizione” per il pm, che un vero rimedio di salvaguardia delle garanzie processuali e non può dirsi uno strumento veramente utile a cui far ricorso, dovendosi le soluzioni ricercare altrove, a maggior ragione se si considera che la contropartita si risolverebbe in un inevitabile appesantimento dei processi e non semplice modifica del codice di rito.

Il giudice è soggetto soltanto alla legge. Caro Pignatone, informare non è compito dei Pm. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Nell’eterno dibattito sulla giustizia e, in particolare, sul rapporto tra processo penale, informazione e garanzie dell’indagato/imputato si sono registrate negli ultimi giorni almeno tre novità legate alla decisione parlamentare di recepire nel nostro ordinamento la direttiva UE 2016/343. La prima è il fatto in sé. La direttiva del 2016 languiva in attesa che le si desse adempimento da alcuni anni, gli ultimi tre dei quali il nostro paese è stato in patente violazione dell’obbligo di darvi esecuzione (fissato dalla direttiva stessa al 2018). Un inadempimento grave, che gli ultimi governi hanno ignorato, a cominciare dai titolari del dicastero della Giustizia, benché esso riguardasse il rispetto di principi fondamentali di civiltà giuridica e imponesse anche la previsione di procedure (rimedi effettivi) nel caso della loro violazione. La seconda novità riguarda invece il contenuto della previsione, che impone, come ormai a tutti noto, che, «le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole» (art. 4). Si tratta di un obbligo – peraltro conforme all’articolo 27 della nostra Costituzione – che si applica per le dichiarazioni al di fuori, ma anche nel processo. La terza novità è che la direttiva è rivolta espressamente alle autorità pubbliche e ai magistrati, non riguarda cioè la libertà di stampa o di cronaca, ma i doveri di ufficio dei soggetti pubblici che ruotano intorno all’amministrazione della giustizia. Nel far ciò la direttiva, benché non pare sia stato messo in luce da nessuno, delimita anche il campo di quelle che possono essere le “dichiarazioni pubbliche rilasciate dall’autorità”. E afferma un principio molto chiaro: tali dichiarazioni sono ammissibili solo se funzionali ad esigenze del processo, non per dare una generica informazione all’opinione pubblica. Perché il diritto all’informazione è assicurato dalla pubblicità, qualora sia prevista, degli atti giudiziari, non da un’attività informativa generale che non è compito delle autorità pubbliche, le quali parlano appunto attraverso quegli atti giudiziari. Che tale sia l’interpretazione corretta della direttiva, lo dimostra, chiaramente la motivazione della stessa (“considerando” n. 18), la quale, ne costituisce, com’è noto, parte integrante anche al fine della corretta interpretazione dei suoi articoli. E cosa dice tale disposizione? Che la divulgazione di informazioni da parte delle autorità pubbliche su procedimenti penali è ammessa «qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale siano fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisca informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico». Inoltre il ricorso a tali dichiarazioni dovrebbe essere “ragionevole” e “proporzionato”. Com’è evidente, l’interesse pubblico che giustifichi le dichiarazioni è un interesse intrinseco al processo (come, in ipotesi, la diffusione di informazioni che consentano di localizzare un latitante) non un presunto interesse generale all’informazione dei sulle ragioni del processo e su chi ne è coinvolto. L’informazione dei cittadini spetta semmai ad altri (giornalisti, studiosi, opinionisti), nell’esercizio del diritto di cronaca e di manifestazione del pensiero, e nei limiti previsti dall’ordinamento. Perché anche il diritto di cronaca (così come il diritto di manifestazione del pensiero) subisce dei limiti per la tutela di valori costituzionali altrettanto fondamentali. È bene dunque che si continui e si alimenti il dibattito su questi temi, perché ci sono ancora molte questioni che devono essere affrontate. A cominciare, ad esempio, dall’abitudine di molti rappresentanti dell’accusa (tra cui i capi degli uffici del pubblico ministero) di indire conferenze stampa o rilasciare interviste “informative” sull’attività svolta nell’ambito dei processi penali. Tali posizioni, benché sia probabilmente impopolare, non convincono da un punto di vista costituzionale e, a questo punto, anche dell’ordinamento europeo. Anche perché, se tale facoltà di informare veramente fosse prevista, non si comprende perché essa sia esercitata nella quasi totalità dei casi dai pubblici ministeri (che sono una parte del processo, quindi non completamente “disinteressata”) e non ad esempio dai giudici che adottano gli atti (si pensi alle misure cautelari, quelle che, in genere, producono il clamore mediatico) e che, in ipotesi, sarebbero gli unici titolati a “spiegare” le ragioni di quelle scelte. E tantomeno convince la tesi (su questo punto dissento dalle considerazioni, per altro condivisibili, del Dott. Pignatone su La Stampa di ieri) che questa attività di comunicazione pubblica, oltre che facoltativa sarebbe addirittura doverosa, perché costituirebbe un obbligo corrispondente al diritto di ogni cittadino di essere informato e alla “responsabilità” gravante su chiunque eserciti pubblici poteri. La nostra Costituzione non prevede una tale responsabilità diretta dei magistrati di fronte ai cittadini e anzi fa di tutto per sottrarre costoro a qualsiasi forma di condizionamento da parte dell’opinione pubblica. Essa prescrive infatti che il giudice è soggetto soltanto alla legge (art. 101) e alla legge deve rispondere. La giustizia è amministrata “in nome” del popolo (art. 101) e non “per conto” del popolo, proprio non c’è da “rendere conto” al popolo, ma solo alla legge. Non solo non c’è, dunque, una responsabilità politica diretta (essendo l’indipendenza assicurata proprio per spoliticizzare l’azione della magistratura) ma non esiste nemmeno una responsabilità politica “diffusa”, generica, qual è quella – secondo alcuni studiosi – imputabile ad altre cariche dello Stato sottoposte al “diritto di critica” dei cittadini, per le proprie azioni.

Le critiche dei cittadini, anche contro i provvedimenti giudiziari, benché legittime, ovviamente, dal punto di vista costituzionale non possono e non debbono avere alcuna influenza nelle decisioni di chi quei provvedimenti assume. L’unica responsabilità imputabile ai magistrati, accomunati in questo a tutti i funzionari e i dipendenti pubblici (art. 28 Cost.), è quella giuridica, da far valere nelle sedi e con i procedimenti all’uopo previsti (e sicuramente migliorabili). Insomma, rispetto della presunzione di non colpevolezza, limitazione delle dichiarazioni delle pubbliche autorità, rimedi effettivi nel caso di violazione; questo è il significato della Direttiva europea 2016/343, tardivamente, attuata. È bene esserne consapevoli, per non tradirne lo spirito e la lettera, e non tradire così anche la nostra Costituzione.

Macché processo, resta la condanna “sociale” imposta dal dio-pm…L'intervento di Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto penale alla Sapienza, a proposito della direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza che vieta gli abusi mediatici delle procure. Giorgio Spangher su Il Dubbio il 13 aprile 2021. È inevitabile che, in un meccanismo delicato e sofisticato come il processo penale italiano, reso ulteriormente complesso da un sistema di diritto penale stratificatosi nel tempo che è chiamato a integrarlo in molti dei presupposti di alcuni suoi istituti e percorsi, lo spostamento di alcuni “mattoncini” dell’edificio determinino squilibri e scompensi. Il tutto, naturalmente, è amplificato dalle dinamiche che tutto ciò può determinare sui poteri delle parti e dei soggetti processuali che le varie previsioni sono chiamate ad applicare, con ulteriori ricadute di sistema. Il potere, perché di potere si tratta, dentro il processo non è infinito: la dilatazione dei poteri di una parte restringe e ridimensiona quelli dell’altra, nel nuovo equilibrio che si determina. Sono state più volte scandagliate le implicazioni di sistema delle sentenze del 1992 e 1994 della Corte costituzionale e le implicazioni della riforma costituzionale dell’articolo 111 della Costituzione e della legge n. 63 del 2001. Sono state a più riprese valutate le ricadute dell’evoluzione giurisprudenziale nella dinamica dei rapporti tra indagini preliminari e dibattimento. Si sono già affrontate le tematiche della dinamica dei rapporti tra pubblici ministeri e giudici delle indagini preliminari nella considerazione degli esiti delle richieste degli uni e della determinazione degli altri, anche a prescindere da possibili patologie, in linea astratta irrilevanti. Sono già state considerate, pur nell’alterato equilibrio, i rapporti tra indagini “preliminari”, esercizio dell’azione penale, controllo-filtro dell’udienza preliminare e dibattimento. Sono già state a più riprese evidenziate le espansioni mediatiche delle indagini preliminari, non corrette dalla natura dell’iscrizione nel registro di reato della notizia criminosa del soggetto indagato e dell’informazione di garanzia, nonché della misura cautelare e del successivo interrogatorio, tutti connotati dall’indicazione di garanzia che li caratterizza. Si sono a più riprese richiamate le previsioni costituzionali in tema di presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza irrevocabile. In questo contesto, alcuni recenti episodi, anche clamorosi, hanno evidenziato ulteriori risvolti del rapporto tra indagini preliminari, esercizio dell’azione penale in relazione alla fase e alle fasi del giudizio. Non si tratta di considerazioni inedite ma che, pur tuttavia, nella misura in cui trascendono da riflessioni astratte meritano di essere considerate, anche nella loro prospettazione dogmatica e di sistema. Ora, controllata o no che sia da un giudice, richiesto di un provvedimento (proroga delle indagini, misura cautelare, intercettazione), il pubblico ministero sviluppa per un tempo alquanto ampio con pienezza di poteri di indagine, unitamente alla polizia giudiziaria il fondamento dell’ipotesi investigativa da lui formulata, la consolida con l’attività probatoria irripetibile o dotata comunque di una “resistenza” e la cristallizza dapprima in una preimputazione (art. 415 bis c.p.p.) e poi nell’imputazione (art. 416 c.p.p.).Si tratta di un fatto di rilevanza giuridica, in quanto prospettata da un organo avente ruolo e status significativo connesso al suo ruolo, che – prescindendo da altri elementi – è considerato muoversi nella dimensione della parte, ma pur sempre connotato, nella sua configurazione istituzionale, come organo condizionato dal principio di legalità, dal rispetto delle leggi che lo riguardano, ancorché nell’interpretazione che del suo egli intenda essere destinatario. È indubitabile che l’orizzonte nel quale si sviluppa questa attività nella prospettiva di chi la compie abbia precisi significati e fondamenti e che questa prospettazione sia destinata ad incidere nel convincimento di quanti ne vengano a conoscenza. Si consideri che la prospettazione accusatoria è supportata – come detto – dalla raccolta di materiale probatorio di supporto, selezionato e coordinato in quella prospettiva. Questi elementi potranno essere certamente superati, modificati, attenuati o esclusi nei successivi sviluppi processuali dibattimentali, dalle decisione intermedie e da quelle definitive, ma non potranno essere cancellati o obliterati, essendosi medio tempore stratificati e comunque essendo escluso il loro assoluto superamento. Peraltro, sino a questi momenti la loro presenza giuridica processuale, nei riferiti termini, permane. Quanto detto consente di capire meglio alcuni scontri in atto tra Procura della Repubblica e organi giudicanti, soltanto silenziati nel reciproco formale riconoscimento delle rispettive funzioni.È sempre successo che, a fronte di un esito processuale non in linea con l’ipotesi accusatoria, la Procura abbia evidenziato, ricorrendo le condizioni (prescrizione del reato oppure operatività dell’art. 530, comma 2, c.p.p.), che l’ipotesi accusatoria non era stata smentita. Restava sullo sfondo il dato “storico” della vicenda processuale (si pensi al processo Andreotti, in via esemplificativa). L’accentuarsi delle ipotesi di contrapposti esiti processuali ha rafforzato alcune questioni del ruolo delle indagini preliminari rimaste sotto traccia.Se in termini, un po’ brutali, a fronte di un pieno proscioglimento in primo grado per non aver commesso il fatto, si è affermato che – essendo passato un arco temporale molto lungo – comunque l’imputato era stato “sfregiato”, in termini più meditati si è parlato, anche con riferimento a risultati delle indagini ancora in corso, di diffusione di atti parziali selezionati, di investigazione preliminare della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, non ancora sottoposti a verifica dibattimentale, alla distinzione tra “verità storicizzata” e “verità processuale” in qualche modo attribuendo alla prima una sorta di “primazia” o comunque di un dato che va accreditato come “verità”, a prescindere dal futuro processo che, governato da sue regole, le seleziona in funzione dell’accertamento della sola responsabilità penale. Il dato si ricollega all’atteggiamento conseguente comunque all’accertamento e alla prospettazione di un soggetto facente parte, per quanto in una prospettiva unilaterale, pur sempre, dell’autorità giudiziaria.Ancora, da ultimo, si è riconosciuto, con qualche accento critico, che con la chiusura delle indagini, ma si direbbe ancor prima durante il loro svolgimento, il p.m. “abbia una storia da narrare” in termini compiuti, e che il processo su questa tela tracciata dall’accusa abbia una cadenza frammentata sino alla sintesi decisoria che comunque non potrà rimuovere e cancellare quella narrazione. Tutto ciò ha indotto e induce ad affermare la presenza di una forte “presunzione sociale della colpevolezza e della responsabilità” durante una lunga parte dello scorrere processuale, che se vede alcune Procure contestare, come detto, con sempre più forza e atteggiamento dialettico, gli esiti alternativi del giudizio, superando quegli atteggiamenti cui si è fatto cenno, vede altri trincerandosi dietro la solidità delle proprie posizioni, coperte dalla ritenuta neutralità dell’obbligatorietà dell’azione penale, e altri ancora soddisfatti del loro lavoro, e altri imputare a vario titolo e ragione la diversa valutazione alla quale il processo è pervenuto. Al di là delle tensioni negli uffici giudiziari e la difficoltà per la società di comprendere i contrastanti esiti della singola vicenda giudiziaria e dello sconcerto della divaricazione di organi chiamati ad applicare la legge, resta comunque non rimossa la sedimentazione del narrato accusatorio, di una possibile verità storicizzata e di una presunzione sociale di colpevolezza.

Parla la giornalista di La7. L’accusa di Gaia Tortora: “Processi show, il problema non sono solo le procure ma anche il mondo dell’informazione”. Angela Stella su Il Riformista l'1 Aprile 2021. Due giorni fa la Camera dei Deputati ha recepito la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza nella legge di delegazione europea. Il testo vincola appunto le autorità pubbliche, e dunque gli stessi magistrati, a non presentare la persona come colpevole fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata. Ne parliamo con Gaia Tortora, giornalista e volto noto dell’informazione di La7 e figlia di Enzo Tortora, una delle vittime più famose della malagiustizia italiana.

Come giudica questo voto della Camera?

Sicuramente si è raggiunto un obiettivo importante, anche se con un certo ritardo. Quello della presunzione di innocenza è un concetto che dovrebbe essere scontato, eppure così non è. Quindi il recepimento della direttiva è un passo in avanti per la cultura giuridica del nostro Paese in chiave garantista.

Da un punto di vista politico, abbiamo visto esultare le forze di maggioranza tranne il Movimento Cinque Stelle che ha ridimensionato il risultato. Secondo lei con questa nuova Ministra si può sperare in una più ampia e convinta convergenza verso un approccio garantista della giustizia?

Nutro una discreta dose di fiducia nei confronti del nuovo Ministro della Giustizia perché forse finalmente grazie alla professoressa Cartabia abbiamo l’occasione di depersonalizzare e depoliticizzare la giustizia, di non associarla sempre a qualche personaggio che sia Silvio Berlusconi, Matteo Renzi o lo stesso Alfonso Bonafede. Con questo nuovo Ministro ci muoviamo solamente all’interno di una cornice costituzionale e nel pieno rispetto dei principi di uno Stato di Diritto.

Il deputato di Azione Enrico Costa, che insieme al collega di +Europa Riccardo Magi, si è speso molto a favore della direttiva ha sostenuto in più occasioni che nel nostro Paese la presunzione di innocenza è ignorata. E da ciò derivano una serie di abusi come le centomila persone assolte in primo grado, che però prima hanno subito una feroce gogna mediatica. Lei è d’accordo con questa analisi?

In questo caso sono i numeri a dare valore all’analisi. Dopo di che, bisogna anche dire che il problema non è solo di certe procure che mettono in piedi lo show mediatico, in quanto la gogna appartiene al mondo dell’informazione. È chiaro che se da oggi, con il recepimento della direttiva, un pubblico ministero userà espressioni che inducono a ritenere un indagato già colpevole, il giornalista dovrebbe avere la professionalità per farlo notare: riportare la dichiarazione ma censurarla come inopportuna. Poi ci potrebbe essere anche il caso contrario in cui un pm rispetta il giusto linguaggio ma poi l’informazione fa un tipo di narrazione colpevolista. Quindi eviterei generalizzazioni.

Come si risolve il corto circuito mediatico giudiziario? Ad esempio su molti giornali vediamo pubblicate intere ordinanze o intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’inchiesta giuridica.

Il problema è sempre quello di come bilanciare il diritto di cronaca del giornalista con i diritti degli indagati e imputati quali quello alla riservatezza. Non si può mettere un freno al giornalismo di inchiesta, però i fatti vanno raccontati in maniera oggettiva, realistica senza prendere una posizione che potrebbe instillare nel pubblico il pregiudizio. È importante distinguere tra giornalismo di inchiesta e processo mediatico parallelo. Poi c’è da fare anche una considerazione di tipo politico.

Prego.

Fino a poco tempo fa al Ministero della Giustizia c’era un Guardasigilli di un movimento politico che ha fatto dello slogan “onestà, onestà” il proprio cavallo di battaglia. L’onestà dovrebbe valere in principio per tutti e non spetta a nessuno emettere una sentenza prima di un giudizio definitivo. Questo significa rispettare il principio di non colpevolezza.

Nonostante ci siano dei divieti, vediamo spesso riprese e mandate in onda persone ammanettate. Questa è una responsabilità della nostra categoria di giornalisti.

Certo, è nostra. Nel fare il nostro mestiere dovremmo avere quel buon senso che ci mette nelle condizioni di non sposare la tesi accusatoria e quindi rispettare la dignità di chi viene privato della libertà personale. Poi se vuoi agitare il popolo verso la forca o lasciar intendere che una informazione di garanzia sia già un marchio di colpevolezza allora non stai facendo un buon lavoro. Dividere il Paese tra innocentisti e colpevolisti fa sicuramente share ma non offre un buon servizio al dibattito pubblico.

La Ministra Marta Cartabia proprio nelle sue prime dichiarazioni aveva detto: «A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per una effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale». A suo padre questa riserbo non fu concesso, anzi dovette subire quella che negli Stati Uniti chiamano perp walk o walk of shame, la passeggiata della vergogna dinanzi ai fotografi. Possibile che dopo lo scandalo Tortora abbiamo dovuto aspettare così tanti anni per fare un piccolo grande passo nella giusta direzione?

La dichiarazione della Ministra è ineccepibile. Purtroppo come ricordava lei a mio padre non è stato concesso quel riserbo. Tuttavia da allora qualcosa è cambiato, non molto ma è così. Non credo che si facciano fare più quelle passeggiate della vergona. Certo, soffriamo ancora di una certa politicizzazione dell’inchiesta: diversi trattamenti sono riservati a seconda, ad esempio, del partito o della “casta” a cui si appartiene qualora si venga indagati. Si dovrebbe giudicare in base agli atti e a quello che emerge nei processi, senza nessun altro metro di giudizio. Il problema è profondamente culturale e tocca tutti gli attori in gioco: magistratura, giornalisti, opinione pubblica. Rispetto alla vicenda di mio padre ci fu una nota giornalista che scrisse: «Se è stato arrestato di notte, qualcosa avrà fatto». Instillare questo dubbio nella testa delle persone o conservarlo nella propria mente quando si fa il lavoro di giornalista equivale ad una condanna. Mio padre mi raccontava che, anche se è stato assolto, quando camminava per strada e negli occhi delle persone intravedeva il sospetto nei suoi confronti quella situazione lo uccideva per la seconda volta. L’assoluzione ti ripaga in parte perché il dramma che vivi non ti abbandona mai. Quello che ti si è scatenato intorno non è più risarcibile da nessun punto di vista. Bisogna fare un processo alle nostre coscienze e pensare che a chiunque possa accadere quello che è successo a mio padre e a tanti come lui.

Ci si chiede sempre di immedesimarci nei parenti delle vittime di reati. Io invece chiedo a lei cosa significa essere parenti di una vittima di errore giudiziario, che ha subìto quello che ha subìto suo padre.

È una bomba atomica che ti esplode dentro: è un qualcosa di cui non ti capaciti a maggior ragione se tu credi nelle istituzioni. E mio padre ci credeva da sempre. Non posso poi scordare colleghi che hanno stappato lo champagne perché mio padre era stato arrestato e lo hanno dipinto in maniera distorta. Questo non si può dimenticare. Nonostante la devastazione che abbiamo sofferto, alla fine mio padre è stato assolto. Un giudice ha riconosciuto la sua innocenza e questo mi porta a credere ancora nella giustizia, in quei magistrati che lavorano bene e nel silenzio.

Però chi ha sbagliato tra i magistrati ha fatto carriera. Su questo giornale per primi, stimolati dall’appello rivolto dall’Unione delle Camere Penali al neo presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, abbiamo aperto un dibattito sulla valutazione professionale dei magistrati. In sintesi: quando il Csm valuta i profili per le eventuali promozioni dovrebbe tenere in conto anche le statistiche relative alle inchieste dei pm che si sono poi concluse con le assoluzioni, ad esempio. Ma nella magistratura c’è molta reticenza. Lei che ne pensa?

Sono pienamente d’accordo: i magistrati devono essere giudicati come tutti gli altri. Il tema della valutazione è importante e dovrebbe essere affrontato in questo Paese. Ci sono purtroppo delle categorie che non si sa per quale motivo vogliono sottrarsi e considerarsi immuni. Valutare non vuol dire mettere alla gogna ma esaminare il proprio lavoro.

Se la fonte è il pm? Bufera sulla Procura di Trapani, quando la libertà di stampa si scontra con la fughe di notizie. Alberto Cisterna su Il Riformista l'8 Aprile 2021. La prolungata incursione della Procura di Trapani sui telefoni di una giornalista non indagata per alcun reato ha sollevato un nugolo di polemiche e innescato un’ispezione ministeriale. Al di là del riflesso corporativo che anima la stampa, come qualunque agglomerato professionale, e delle preoccupazioni più distaccate espresse da autorevoli commentatori (Vladimiro Zagrebelsky, “Intercettazioni, un attentato all’informazione”, su La Stampa del 6 aprile), la questione è tutta sul tappeto e non dovrebbe essere ulteriormente ignorata. Probabilmente è giunto il momento di fare chiarezza sullo statuto del segreto che garantisce e sostiene la libertà di stampa e di fissare limiti ben disegnati per l’attività di indagine che riguardi i giornalisti sotto controllo a causa dell’esercizio della loro attività. Che i giornalisti siano i terminali di notizie di ogni genere è cosa scontata. La funzione imprescindibile della libertà di stampa è talmente ben compresa e ben percepita dalla collettività da non essere oggetto di perplessità o di critiche. Così a nessuno verrebbe in mente di privare il giornalista del suo diritto/dovere di tacere le fonti delle proprie informazioni, a parte gli ostacoli costituzionali e di rango sovranazionale che impedirebbero una tale decisione. La questione si complica quando lo scudo della libertà di stampa si misura con altri valori costituzionalmente rilevanti che esigono una delicata operazione di bilanciamento. Si è discusso della recente decisione parlamentare di rafforzare, d’intesa con la ministra Cartabia, lo statuto della presunzione d’innocenza o delle prescrizioni riproposte dal Garante per la privacy in materia di riprese e foto di soggetti ammanettati; tutti profili che intingono nel giardino proibito della libertà di informazione e che vedono la necessità di salvaguardare altri interessi, parimenti meritevoli di protezione. Per non parlare del dibattito, non ancora sopito, che ha accompagnato la riforma delle intercettazioni e la pubblicazione delle relative conversazioni. Mettere ordine in questa selva di diritti e costruire doveri simmetrici di tutela non è operazione facile, ma alla quale non si può più a lungo rinunciare da parte del legislatore. Pena l’affermarsi, anche in questo settore, di una supplenza giudiziaria che conia principi e regole, spesso impossibili da generalizzare e da far operare ad ampio raggio. Il caso di Trapani sembra abbastanza chiaro: l’intercettazione della giornalista muove dalla pretesa di individuare le fonti delle sue informazioni e di mettere mano sui responsabili di un traffico di immigrati clandestini. Ovviamente nulla vieta a un giornalista di entrare in contatto con l’autore di reati e di raccogliere da costui informazioni. Accade tutti i giorni quando benevole manine, commettendo precisi reati, consegnano carte coperte da segreto istruttorio o divulgano intercettazioni ancora segrete, come sarebbe accaduto da ultimo nell’affaire Procura di Roma. In questi casi, in genere, a nessun viene in mente di metter mano ai tabulati o ai telefoni del fortunato esponente della libera stampa che sia entrato in possesso di atti illeciti. Almeno che l’attività non si sia svolta senza la copertura, l’assenso, la connivenza o anche solo la benevola tolleranza degli inquirenti di turno. In questa sfortunata evenienza si procede a tutto spiano con sequestri, perquisizioni, acquisizioni di tabulati e quant’altro possa servire a identificare il reprobo divulgatore. Basterebbe censire i casi in cui una tale reazione si scatena (pochini) per stabilire – tutte le altre volte in cui nulla accade – che la fuga di notizie muove dal perimetro di chi il segreto avrebbe dovuto custodirlo e che invece lo ha messo in circolazione per lo meno con negligenza (come recita la legge disciplinare dei magistrati). Il caso di Trapani appare, invece, molto diverso da quanto solitamente accade in tema di notizie di reato e libera stampa. Per cui le cose vanne tenute distinte e occorre evitare, appunto, riflessi corporativi. Questa volta sembrerebbe che l’intento degli inquirenti fosse quello di “pedinare” telefonicamente la giornalista per individuarne le fonti e acquisire informazioni utili alle indagini. È chiaro che si tratta di una rete a strascico che coinvolge profondamente l’intera catena dei collegamenti informativi e che isola e condiziona in modo pesante l’attività professionale del giornalista. Il rapporto confidenziale con le fonti ne viene ampiamente compromesso e, con esso, risulta eluso il segreto che vincola il giornalista rispetto al propalatore. Questo modo di procedere porta inevitabilmente a selezionare i giornalisti distinguendo tra chi partecipa stabilmente al mefitico triangolo informativo descritto dal dottor Palamara (pm – polizia giudiziaria – giornalista embedded) e chi lavora con fatica sul campo conquistandosi fiducia e informazioni per svolgere il proprio lavoro. Il primo modello regola il “mercato” delle notizie in una posizione privilegiata di cellula che viene attivata in caso di necessità; il secondo prototipo si trova la polizia giudiziaria per casa o in ufficio pronta a sequestrare tutto quanto sia necessario. L’Ordine dei giornalisti poco dice su questa discriminazione che coinvolge soprattutto i giovani cronisti e le proteste di questi giorni poco risolvono. Le notizie solitamente sono nella disponibilità di chi non dovrebbe divulgarle e se qualcuno le riceve comodamente e qualcun altro deve rischiare per averle è evidente che la libertà di stampa ha declinazioni ingiuste e ondivaghe. Oltre che opache, posto che rischia di finire al servizio di interessi poco trasparenti, quando non illegali come di recente è stato denunciato. L’unica soluzione è quella di impedire che le attività d’indagine – che non possono mancare nel caso di Trapani come non dovrebbero mancare in ogni altro caso quando si tratta di scoprire dei malfattori – si svolgano a 360 gradi compromettendo l’intera rete informativa del giornalista. Nessuna novità, si badi bene. Lo aveva affermato a chiare lettere la Cassazione in una esemplare sentenza riguardante un sequestro operato presso un giornalista e la sua testata. Ricordavano i giudici di piazza Cavour che vi è «la necessità di preservare il diritto del giornalista a cautelare le proprie fonti, in vista dell’espletamento della funzione informativa, considerata uno dei pilastri fondamentali delle libertà in una società democratica» e che «il giudice può ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni solo in presenza delle due condizioni: a) che la rivelazione della fonte sia indispensabile per la prova del reato per il quale si procede, prendendo a riferimento fatti specifici in ordine ai quali si sviluppa l’attività di indagine b) che le notizie non possano essere altrimenti accertate». Se il giornalista non può essere costretto a rivelare le fonti se non in questi casi, è evidente che questo privilegio non possa essere aggirato in altro modo, a esempio con perquisizioni o intercettazioni a maglie larghe. L’«altrimenti accertate» rinvia, certo, anche a questi mezzi di prova, ma nell’assoluto rispetto del principio di continenza e proporzionalità che vorrebbe che si intercetti solo quanto sia immediatamente e direttamente correlato al reato per cui si procede. Questo imporrebbe che l’attività di ascolto fosse costante e che l’operatore di polizia vigilasse attentamente su quanto viene detto, spegnendo l’apparato ogni volta la conversazione sia estranea allo specifico reato per cui le intercettazioni sono state autorizzate. Una fatica e uno spreco di uomini, impegnati 24 ore su 24 si dice. Vero, ma questo è un buon motivo per circoscrivere le intercettazioni solo ai casi in cui siano «assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini» (articolo 267 Cpp), evitando di accendere i microfoni in modo indiscriminato. Lo sappiamo, trasandatezze del genere non sono accadute sempre. Ma questa è un’altra storia (direbbe Moustache il barista filosofo di Irma la dolce). Nell’immediato l’unica precauzione per tutelare la libertà di stampa, e tutti gli altri diritti costituzionalmente compromessi dalle intercettazioni, è quello di imporre un ascolto permanente che impedisca di registrare quanto è inutile o appare tale. Il rimedio dello stralcio o della cancellazione postuma, forse, mitiga il danno, ma non quello recato alla libertà di stampa con le squadernarsi delle fonti.

«Ai giornalisti dico, libertà di stampa non è libertà di gogna». Caso intercettazioni a Trapani, parla il costituzionalista Giovanni Guzzetta, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all'Università di Roma Tor Vergata. Valentina Stella su Il Dubbio il 7 aprile 2021. Riflettendo con il costituzionalista Giovanni Guzzetta, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università di Roma Tor Vergata, potremmo dire che la mia libertà di stampa finisce dove inizia la tua dignità di indagato. Lo spunto ci viene ancora dallo scandalo dei giornalisti intercettati dalla Procura di Trapani.

Tanto scandalo, giustamente, per i giornalisti intercettati. Nulla quando ad esserlo sono gli avvocati che discutono con i loro assistiti.

In Italia siamo abituati a fare discorsi molto ideologici. La questione in realtà è molto complessa e delicata in quanto non esistono diritti e pretese da tutelare in modo assoluto. Tutta la giurisprudenza, sia quella interna – Cassazione e Corte Costituzionale – , che quella sovranazionale  – Cedu e Corte di Giustizia – , sottolinea sempre il fatto che in queste materie è necessario un bilanciamento tra interessi.

Quali sono gli interessi in gioco?

C’è quello del giornalista al diritto di cronaca; quello dello Stato alla repressione dei reati, soprattutto di quelli gravi da cui deriva un forte interesse pubblico al loro contrasto; poi quello soggettivo alla riservatezza sia di coloro che sono interessati dall’attività giornalistica sia degli avvocati. Pertanto stracciarci le vesti in astratto rappresenta un esercizio ideologico.

In concreto, invece, cosa possiamo dire?

Spero che questa vicenda, i cui dettagli non sono ancora totalmente chiariti tanto è vero che è in corso un’ispezione da parte del Ministero della Giustizia,  possa costituire l’occasione per una riflessione meglio articolata più che per una reazione corporativa.

Professore mi aiuti a capire: l’articolo 103 quinto comma del cpp vieta l’intercettazione tra avvocato e cliente. Non esiste una norma così chiara per i giornalisti.

Per i giornalisti non esiste una disposizione in tal senso, per gli avvocati sì. Tuttavia la Cassazione ha messo in evidenza come anche nelle conversazioni tra avvocati e assistiti ciò che si tutela è il rapporto professionale con il cliente: in questo caso la registrazione dell’intercettazione andrebbe interrotta.  Mentre se i due discutono di qualcosa che esce dal perimetro di quel rapporto  e  quindi l’avvocato non sta svolgendo più il suo ruolo l’intercettazione sarebbe lecita. La stessa cosa vale per i giornalisti: pur non essendoci una disposizione specifica, esiste però una disciplina della tutela della fonte, ribadita da una sentenza della Cedu del 6 ottobre 2020 ‘Jecker contro Svizzera’. La Corte ha ribadito la fondamentale necessità di tutelare le fonti ma ha anche precisato che persino in quel caso, se sussistono degli interessi pubblici straordinariamente importanti e purché sia motivato, il divieto posto a tutela della segretezza della fonte può essere superato.

Quindi il discorso è molto articolato.

Certo e riguarda più soggetti. La disciplina delle intercettazioni nel nostro Paese è estremamente invasiva ed è stato fatta oggetto di numerose modifiche. La mia sensazione è che non abbiamo ancora raggiunto un equilibrio adeguato. Ci sono poi tutta una serie di problemi connessi, come l’utilizzazione dell’intercettazione per l’individuazione di reati diversi da quelli per la quale l’intercettazione era stata autorizzata.

Aggiungo un altro problema: la pubblicazione delle intercettazioni sulla stampa, spesso prive di valore probatorio, aiutano a costruire il "mostro" da prima pagina.

Certamente la libertà di stampa è una delle più antiche e più importanti. Nello stesso tempo però essa non è assoluta e bisogna che accettiamo questo concetto. La libertà di stampa deve essere contemperata con altri interessi: il codice di procedura penale all’articolo 114 vieta la pubblicazione degli atti coperti da segreto.

C’è anche l’articolo 684 del codice penale “Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”.

Esatto. Il problema è che le sanzioni sono molte blande. Non escludo che ci siano stati dei casi in cui l’ammenda sia stata pagata e la notizia comunque pubblicata. Forse dovremmo sviluppare una sensibilità maggiore nei confronti dei limiti alla libertà di stampa nel suo proprio interesse.

In che senso?

Se la libertà di stampa diventa libertà di gogna prima o poi la categoria dei giornalisti subirà una reazione da parte dell’opinione pubblica.

Su questo sono pessimista. E mi chiedo se siamo noi ad alimentare questo circo mediatico o è l’opinione pubblica che ci chiede di rafforzare un certo voyeurismo colpevolista.

Probabilmente entrambi i fattori alimentano il fenomeno. Attenzione però: non dimentichiamo un’altra componente del complicato puzzle, ossia i settori della magistratura in cerca di pubblicità.

Ultimamente è stato proprio il Ministro Cartabia a porre l’accento sul riserbo delle indagini preliminari per tutelare il principio di innocenza. Quindi il problema esiste ed è serio.

Il problema è talmente evidente che noi nei fatti viviamo costantemente una elusione del principio della presunzione di non colpevolezza. La sanzione penale non è l’unica che un soggetto possa subire: c’è anche quella reputazionale e sociale.

L’altro giorno l’ex magistrato Nello Rossi mi ha detto «ho partecipato a conferenze stampa, che ritengo siano fondamentali in presenza di misure cautelari, per spiegare le ragioni di tali provvedimenti».

Credo che la magistratura possa spiegare la propria attività attraverso gli atti, senza una interlocuzione diretta con l’opinione pubblica. I giornalisti poi hanno tutto il diritto e dovere di dare le informazioni nei limiti dell’ordinamento, spesso superati in mancanza di adeguate sanzioni e imputazioni di responsabilità.

Questo perché accade?

A causa di questa ideologia assolutizzata del diritto di cronaca che dal punto di vista costituzionale non è corretta. Questo diritto, come quello di manifestare il  pensiero, subisce dei limiti nell’ordinamento. Non esistono diritti assoluti se non in qualche rarissimo caso, come la libertà d’arte. I diritti incontrano dei limiti: il problema non è di stabilire questi ultimi ma di renderli cogenti nell’interesse di tutti, altrimenti si passa dall’ordinamento al far west.

Media e pregiudizi: così la presunzione di innocenza viene mortificata. Il report dell’Agenzia per i diritti fondamentali ha preso in esame il modo in cui la presunzione di innocenza e i diritti correlati sono applicati nella Ue. Simona Musco su Il Dubbio il 4 aprile 2021. La presunzione di innocenza in Italia è fortemente influenzata dai media, dai pregiudizi e dalla presenza delle gabbie nelle aule dei tribunali. È quanto si evince dal report dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ( Fra), che ha preso in esame il modo in cui la presunzione di innocenza e i diritti correlati sono applicati all’interno dell’Unione europea. In Italia, si legge nel report, la presunzione d’innocenza è tutelata dalla Costituzione. Ma ciò che manca è l’attuazione pratica di tale principio nei procedimenti giudiziari e sui media. Sono troppe le fughe di notizie e le fonti non ufficiali, che distorcono spesso la verità dei fatti e sviliscono il principio di presunzione d’innocenza. Ma la sfida cruciale, si legge nel report, riguarda la «sproporzionata attenzione» prestata dai media alla fase istruttoria e alla fase iniziale del procedimento, quando i pubblici ministeri «hanno necessità di dimostrare la solidità dell’accusa e di sostenere il coinvolgimento dell’imputato nel caso». Ma è scarsa l’attenzione riservata allo sviluppo e alla conclusione del procedimento: «Gli imputati, spesso presentati come colpevoli dai media durante la fase delle indagini, non hanno l’opportunità di ripulire la propria reputazione se danneggiata poiché nessuna attenzione viene prestata al risultato del procedimento», si legge. Per quanto riguarda le indagini, gli avvocati di diversi Stati membri hanno manifestato la convinzione che la polizia si concentri molto di più sulla raccolta di prove a carico che non a discarico. Atteggiamento che, in Italia, gli avvocati attribuiscono anche ai pubblici ministeri. «Le indagini preliminari compromettono il principio della presunzione di innocenza, perché i pubblici ministeri dovrebbero cercare prove a carico dell’imputato ma anche a discarico. Questo è qualcosa che – in 16 anni di esperienza professionale – ho visto molto raramente», ha sottolineato un avvocato italiano. Per quanto riguarda gli effetti della copertura mediatica sulla presunzione di innocenza, molti avvocati degli Stati membri hanno evidenziato l’importanza della libertà di stampa e il ruolo unico dei media come “cane di guardia” del potere, anche giudiziario, ma la copertura mediatica finisce per incidere sull’equità complessiva dei procedimenti. Se da un lato ciò può risultare vantaggioso, aumentando la trasparenza dei processi, dall’altro i giornali possono esercitare «pressioni» sui tribunali, come ha evidenziato un procuratore portoghese, secondo cui spesso «influenzano l’opinione pubblica senza avere la completa conoscenza di casi penali». Fenomeno che accade anche in Italia: «Una volta che il sospetto è stato identificato , la presunzione d’innocenza è in qualche modo già violata. Anche se le accuse sono successivamente confutate, è difficile da correggere sui media», ha testimoniato un giornalista. Il problema principale riguarda gli imputati in custodia cautelare che vengono accompagnati in aula dagli agenti penitenziari e controllati durante l’udienza: alcuni tribunali prevedono percorsi separati, in modo da evitare il contatto con il pubblico e i media. Spesso partecipano in un’area separata dell’aula fornita di sbarre, la cosiddetta ‘ gabbia’. Situazione, questa, che ha un forte impatto sull’immagine pubblica degli imputati e di conseguenza sulla loro presunzione di innocenza. «Il fatto che un imputato sia tenuto in gabbia può generare nella stampa la convinzione della colpevolezza dell’imputato. A volte questa scelta si basa sul pericolo; altre volte l’imputato è trattenuto lì anche un pericolo non c’è», ha evidenziato un giudice italiano. E la presunzione d’innocenza vale meno quando l’imputato è accusato di reati di mafia.

Le regole europee. Presunzione d’innocenza, non basta la direttiva per placare la furia di Pm e giornaloni. Riccardo Polidoro su Il Riformista l'1 Aprile 2021. La nostra Costituzione, all’articolo 27, prevede che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Sappiamo, purtroppo, che non è così e la “presunzione d’innocenza” , dopo oltre 70 anni, è continuamente violata, in nome di un’informazione sempre più veloce e di un’esigenza di visibilità di cui molti non riescono a fare a meno. Quanto accade è da addebitare a un sistema Giustizia che non funziona e a un sistema mediatico sempre più aggressivo. “Sbattere il mostro in prima pagina”, citando l’indimenticabile film di Marco Bellocchio con Gian Maria Volontè, fa parte del lavoro del giornalista che, avuta la notizia, deve pubblicarla, ma dovrebbe comunque farlo nei limiti di una prudente valutazione dei fatti, delle fonti e del contesto. Senza alcuna giustificazione, invece, le conferenze stampa di coloro che hanno svolto le indagini e ancora più gravi i casi di singoli soggetti, autori di attività investigative o venuti a conoscenza dei fatti per ragioni del proprio lavoro, che affidano all’amico giornalista la diffusione della notizia, magari in cambio di una bella fotografia. A volte accade – invero non raramente – che il “mostro” sia invece un galantuomo al quale sono stati tolti dignità, affetti e lavoro. Della sua innocenza si saprà dopo anni di calvario giudiziario, ma egli sarà stato dimenticato dagli  accusatori e dai voraci media che lo ignoreranno o lo relegheranno in un trafiletto a fondo pagina. Giova ricordare, pur calcolando solo quelle per le quali vi è stato il risarcimento del danno, che le ingiuste detenzioni in Italia sono più di mille ogni anno, cioè tre al giorno. Nel 2019 la città di Napoli è stata quella con il maggior numero di casi indennizzati, ben 129, seguita da Reggio Calabria con 120 e da Roma con 105. Nell’ottobre del 2019, la Procura di Napoli emanò un apposito ordine di servizio per l’accesso dei giornalisti agli uffici e per i criteri e le modalità di rilascio di copia dei provvedimenti giudiziari agli organi di stampa, nel tentativo di contemperare il diritto di cronaca, previsto dall’articolo 21 della Costituzione, con le garanzie dell’indagato. Invero, alcun radicale mutamento sembrerebbe esserci stato sulla pubblicazione delle indagini.  In tutta Italia, i media continuano a “bruciare” vite prima che arrivi la sentenza definitiva: nella maggior parte dei casi, prima ancora che l’indagato abbia piena conoscenza delle accuse. Intanto la Camera, quasi all’unanimità, ha approvato l’ingresso nella legislazione italiana della direttiva europea 343 del 2016 che richiama il principio di non colpevolezza, già chiaramente espresso dalla nostra Costituzione: una buona notizia che lascia sperare in tempi migliori dopo quelli recentissimi, davvero bui. Il “cambio di passo” è tanto importante quanto evidente e si avverte la presenza di un ministro della Giustizia finalmente autorevole e che vive per e di Costituzione. Ma dalla forma scritta alla pratica c’è di mezzo il mare e, nel nostro caso, l’oceano, popolato da pesci rampanti che vogliono venire a galla per mostrare quanto sono belli e bravi e magari aspirare a tane migliori. Tutta la nostra legislazione penale viene (r)aggirata ove non sono previste sanzioni. I termini, per esempio, se non sono perentori, sono pressoché inutili. E ancora, quanti sono i provvedimenti di rigetto di richieste di proroga del termine delle indagini fatte dalle Procure? Si contano sule dita di una mano, tant’è che ormai gli avvocati non si oppongono più. Se davvero non vogliamo più vedere immagini di arresti, ascoltare le intercettazioni spesso interpretate anche da voci incattivite, ascoltare nomi d’indagati già descritti come colpevoli con “presunte sentenze” in cui sono indicate solo verità – queste davvero presunte, ma spacciate per indiscutibili e ormai definitivamente accertate – occorre prevedere delle sanzioni, per una vera tutela dell’indagato. Tutela che deve innanzitutto stabilire effettivamente la segretezza delle indagini e rivolgersi a chi ha il dovere e l’obbligo di farla rispettare. In prima linea vi sono le Procure e la polizia giudiziaria, custodi degli atti d’indagine svolti e da svolgersi. Subito dopo i Giudici per le indagini preliminari destinatari delle richieste delle Procure, di autorizzazioni o di misure cautelari. Solo successivamente gli avvocati e va precisato che la loro conoscenza è del tutto parziale, riduttiva e comunque giunge in grande ritardo rispetto ad altri. Le notizie ufficialmente giungono dalle conferenze stampa delle Procure, di giorno in giorno più sofisticate e ricche di particolari. Ufficiosamente giungono da singoli “addetti ai lavori” per svariati interessi. Dunque, come intervenire? Qual è il deterrente capace anche di rispettare il diritto di cronaca e quello di essere informati? Basterebbe prevedere che le Procure possano tenere conferenze stampa solo dopo l’esercizio dell’azione penale, cioè quando i capi d’imputazione si sono cristallizzati e vi è già stato il contraddittorio con la difesa. Inoltre andrebbe chiarito – anche al fine di una corretta diffusione della notizia e una esatta educazione dell’opinione pubblica – che quella diffusa è l’ipotesi accusatoria che dovrà essere verificata in giudizio. Si sposterebbe così – com’è giusto che sia – l’attenzione mediatica sul processo, unico strumento per accertare la verità. Gli altri canali d’informazione dovranno trovare immediate sanzioni disciplinari. Il tema della “presunzione d’innocenza” non è terreno di battaglia tra garantisti e colpevolisti: è un principio costituzionale e pertanto va rispettato sempre, senza indugi, ancor prima di guardare all’Europa.

Media e giustizia, il virus populista che ha umiliato lo Stato di diritto. Da Mani Pulite a Rinascita-Scott, quell’intreccio diabolico tra informazione e procure. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 28 marzo 2021. Che la rivoluzione mangi i suoi figli lo diceva Charlotte Corday prima di pugnalare a morte ”l’amico del popolo” Jean Paul Marat nella vasca da bagno. E se lo sarebbe dovuto ricordare anche Antonio Di Pietro, pugnalato alle spalle dallo stesso sistema mediatico che, 20 anni prima, lo aveva portato alla ribalta. “Di Pietro facci sognare” titolava Sorrisi e Canzoni Tv nella primavera del 1992; la “tonino-mania” scuoteva l’Italia che aveva trovato il suo super eroe nell’ex poliziotto diventato il magistrato simbolo di Mani Pulite. Più nazional-popolare di Raffaella Carrà e di Pippo Baudo, di cui era una specie di propaggine giustizialista, anche lui con un certo senso per lo spettacolo ma con l’incazzatura facile. Come nel Terrore giacobino i media si attivano per scovare i nemici del popolo, gli avvisi di garanzia – che dovrebbero garantire e invece offendono- sono frecce scagliate dai giornali e dai tg contro “i ladri” e i “corrotti”, sentenze di colpevolezza scritte dalle scrivanie delle redazioni. Fioccano gli arresti, le custodie cautelari, il tintinnio di manette accompagna sinistro gli interrogatori. «Tenerli in carcere è un modo per farli parlare» si vantano dalla procura milanese con il popolino che plaude sullo sfondo, vociando dagli schermi televisivi dei talk show; spuntano le arene di Santoro, i baffoni di Ruotolo inviato nelle piazze urlanti che chiedono pene esemplari per i politici ladroni nel nome dell’onestà (lo spettro grillino già incombeva in filigrana). Quell’onda travolgente dà alla testa a tutti e tutti si assiepano sul pulpito dell’accusa, procuratori avengers e giornalisti aspiranti detective. Si forma il “grumo”, ossia quel garbuglio tra informazione e giustizia che da tre decenni stravolge i principi dello stato di diritto, fa a pezzi le garanzie della difesa e umilia il processo penale, derubricato a mero orpello. Quasi un genere letterario talmente è ormai radicato nell’immaginario collettivo, con tutto il suo fiorire di neologismi questurini, stralci sconnessi di intercettazioni, retorica vendicatrice. La giustizia penale diventa uno spettacolo per allattare i palinsesti, il brontolio fin lì dimesso degli italiani si era trasformato in un ringhio feroce, incitato a tambur battente proprio dal circo mediatico. Il pomeriggio in cui lanciarono le monetine contro Bettino Craxi tutti i sergenti della cronaca giudiziaria capirono che quello del capro espiatorio da stanare con torce e forconi era un format potente, che la caccia spasmodica ai disonesti appassiona le masse come una guerra civile, Risentimento piccolo borghese travestito da rabbia popolare va bene, ma intanto il venticello della calunnia si era fatto tsunami. Ci vuole davvero molto poco per confezionare un servizio televisivo colpevolista; musiche da thriller hollywoodiano, tono di voce grave e caricato, la classica telefonata alla controparte che “rifiuta” di incontrare il reporter-segugio per far vedere che ha qualcosa da nascondere, e soprattutto un patchwork di notizie montate ad arte in cui si mischiano indagati e imputati, sentenze e sospetti, indagini e processi. Il giornalismo si dissolve in fiction ma che importa: così lievita lo share, si vendono le copie, si moltiplicano i click. Antonio Di Pietro è stato fatto fuori da un servizio di 20 minuti del programma Report intitolata Gli Insaziabili (sic) in cui venne accusato di possedere illegalmente 56 immobili tra case e rustici agricoli. Le accuse si rivelarono infondate ma il leader dell’Idv da quel giorno è un cadavere politico. La beffarda nemesi che colpisce proprio l’hidalgo di Tangentopoli non rende meno amaro il quadro generale, anzi mette in luce proprio il cinismo di un sistema tritatutto, pronto a gettare nel fango i vecchi eroi e sostituirli con nuovi interpreti. La recente inchiesta di Riccardo Iacona dedicata all’indagine Rinascita Scott del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri fondata unicamente sugli atti messi a disposizione dalla procura stessa e dalla polizia giudiziaria è solo l’ultimo, e neanche il più brillante esempio, di questo genere letterario. Telecamere nascoste, intercettazioni decontestualizzate, avvocati difensori rappresentati come sodali dei boss, e la voce off della pubblica accusa a dipanare il filo degli eventi. Il tutto condito dalle cupe suggestioni di trame neomassoniche e di mostruosi intrecci tra le cosche e il mondo politico. Difficile per un giudice rimanere virgin mind di fronte a un simile fuoco di fila e quando il processo mediatico ha già consumato le sue sentenze. Un riflesso pavloviano, percorre scattoso il nostro giornalismo, alimentato dagli abili sceneggiatori della magistratura inquirente che nomina le sue inchieste con titoli accattivanti, concepiti per diventare all’istante dei meme giornalistici. Come nell’inchiesta Mafia Capitale: dopo oltre 5 anni di udienze il tribunale ha stabilito che gli intrallazzi dei vari Buzzi e Carminati non erano mafia, ma tv e giornali hanno fatto una fatica immane a rimuovere quella succulenta etichetta. Poco male: si rifaranno con gli interessi nella prossima fiction giudiziaria.

SILVIA DI PAOLA per la Verità il 4 aprile 2021. Il canale Nove ha trasmesso un documentario su 'ndrangheta e malaffare in Lombardia che era completamente falso: è stato girato da finti reporter che hanno intervistato attori che interpretavano i ruoli di boss, spacciatori e pentiti. Il reportage era stato acquistato per 425.000 euro. A smascherare la messinscena è stato un carabiniere davanti alla tv, il quale si è accorto che un edificio spacciato come una raffineria di coca per la Milano bene era in realtà una palazzina anonima in zona Barona. La Procura ha indagato 4 persone, tra cui il giornalista spagnolo David Berian Amaitrain, 43 anni, volto della serie tv incentrata sulle realtà criminali più pericolose del pianeta. Il canale Nove della società Discovery è parte lesa. (Federico Berni) [Corriere della Sera]

Affari d’oro coi falsi ‘ndranghesti in Tv. La procura di Milano che indagato un giornalista spagnolo accusato di aver confezionato e venduto un falso reportage sulla ndrangheta per quasi mezzo milione di euro. Il Dubbio il 26 marzo 2021. Che con la 'ndrangheta si fanno affari, era noto da tempo. Quello che era meno noto, ma in fondo neanche troppo, è la capacità di vendere il “prodotto” ndrangheta. La notizia arriva dalla procura di Milano che indagato un giornalista spagnolo accusato di aver confezionato e venduto  un reportage falso. Era stato presentato come una inchiesta esclusiva nel cuore della criminalità organizzata italiana, con interviste a esponenti della ‘Ndrangheta e rivelazioni dei diretti interessati. I carabinieri e la Procura di Milano ritengono invece che fosse tutta una finzione il programma “Clandestino”, realizzato dal giornalista spagnolo David Beriain e trasmesso da canale Nove nel novembre 2019. Un progetto costato 425mila euro. Ieri mattina la Procura ha emesso un avviso di conclusione delle indagini preliminari e ha indagato quattro persone per truffa in concorso. Il canale, che risulta parte offesa, è stato indotto a credere che il reportage – come scrivono i carabinieri – “contenesse fatti realmente accaduti, filmati da reporter infiltratisi sotto copertura, rivelatisi invece frutto di una recita ad opera di attori appositamente scritturati”. Le indagini sono partite grazie a un militare della compagnia Porta Magenta che durante la visione del programma si è accorto che un palazzo indicato come raffineria di cocaina a Milano, in realtà era un semplice condominio dove non c’era alcuna irregolarità. Tra gli indagati c’è un italiano di 53 anni, pregiudicato per reati di corruzione, favoreggiamento, accesso abusivo a sistema informatico e rivelazione di segreto d’ufficio. Nel suo caso il provvedimento è stato notificato dalla compagnia carabinieri di Marcianise (Caserta). Destinatari anche il giornalista 43enne Beriain e i due responsabili di una società di produzione di documentari che vivono in Spagna, una 43enne e un 33enne.

Presa diretta va in replica e fa il “processo-bis” in Tv. Ma Iacona ha mai parlato con un innocente finito in galera? La trasmissione Rai ripropone l'inchiesta di Gratteri Rinascita-Scott a processo ancora aperto. Nessuno in Rai si è accorto della gravità? Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 26 marzo 2021. La Rai ha rimandato in onda nel pomeriggio di sabato scorso la trasmissione “Presa diretta” che già il lunedì precedente aveva puntato i riflettori sull’inchiesta “Rinascita Scott”. È l’ultima manifestazione di arroganza di un potere mediatico giudiziario che (ignorando le perplessità sollevate da Il Dubbio prima di ogni altro e poi da altri) ha dimostrato di disporre di una straordinaria potenza di fuoco utilizzando uno schema di attacco efficace ma vecchio come il cucco: chi critica la trasmissione è contro il giornalismo d’inchiesta, chiunque muova rilievi ai Pm impegnati in Rinascita Scott, se mafioso non è poco ci manca. Il rischio è cadere nella trappola ed accettare un tale schema di gioco. Alla provocazioni bisogna rispondere con la forza dei fatti. Per esempio: è vero o non è vero che nella precedente puntata di “Presa diretta” , dedicata all’ inchiesta “New Bridge”, sono stati presentati come delinquenti persone che sono stati assolti da ogni accusa e come ‘ndranghetisti alcuni indagati che i giudici – ribadiamo i giudici – hanno stabilito che tali non sono? Come è potuto succedere? C’è una sola spiegazione, “Presa diretta” ha utilizzato come unico punto di osservazione dei fatti la procura della Repubblica. Lo aveva fatto in “New Bridge”, l’ha riproposto in “Rinascita Scott”. Se il grande giornalismo d’inchiesta avesse utilizzato la stessa postazione, Peppino Impastato sarebbe ricordato come un folle estremista intento a mettere bombe sui binari, la storia di Giuliano sarebbe stata quella d’un bandito ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri e l’anarchico Pinelli sarebbe passato alla storia come un complice degli autori (?) della strage di Piazza Fontana. Infine un giornalismo d’inchiesta qualche domanda sul perché la Calabria sia in assoluto la prima regione d’Italia (e Catanzaro la prima città) per fondi destinati alle vittime di ingiusta detenzione l’avrebbe pur posta. Invece niente di tutto questo. Ed il perché lo spiega il procuratore capo di Catanzaro : “siamo in guerra” e quindi “Presa diretta” si comporta come un bollettino dal fronte di battaglia. Le telecamere fanno vedere cadaveri di morti ammazzati, testimonianze di persone intimidite dai mafiosi o il volto sofferente delle vittime di usura. Tutte cose vere e tutte cose da far vedere. Anzi i crimini sono molti di più e molto più gravi di quanto Presa diretta non abbia detto o fatto intendere. Aggiungiamo che molto spesso i responsabili dei crimini più efferati non vengono individuati e lo “Stato” (ed i corrispondenti dal “fronte” ) farebbero bene a domandarsi il perché. Quello che è comunque certo è che non si onorano le vittime di mafia aggiungendo ad esse le vittime della “giustizia”. Non avranno conforto le madri, i bambini, le mogli delle vittime di mafia se altre madri o altri bambini piangeranno senza colpa per i loro cari buttati nelle carceri da innocenti. Non ha bambini Gian Luca Callipo, ex sindaco di Pizzo, arrestato in Rinascita Scott e che, secondo la Cassazione, non andava arrestato? Non ha figli l’ex sindaco di Marina di Gioiosa tenuto 5 anni in carcere e riconosciuto innocente? Un sano giornalismo di inchiesta darebbe certamente spazio (e tanto) alle vittime di mafia ma anche (almeno altrettanto) a coloro che sono stati stritolati dalla giustizia sommaria. E sono tanti. Ma anche se fosse stata una sola persona ad avere la vita spezzata dalla “giustizia” che ha bisogno di grandi numeri per avere spazio sui media, non è accettabile, e non è umano, che ciò venga accettato senza batter ciglia. Non è compatibile con con la direttiva UE del 2016 che vuole sia garantita nei fatti la presunzione di innocenza. Ed è inquietante che il dottor Gratteri, ancora oggi, su “Famiglia Cristiana” tracci un collegamento tra garantismo e collusione con la ndrangheta. Comprenda il dottor Gratteri: non ci sentiamo secondi a nessuno nella lotta contro la mafia ma senza mai prescindere dalla verità. E dire la verità non significa attaccare questo o quel magistrato (tutt’altro) ma solo impegnarsi affinché la Calabria resti in Europa e sia una Regione italiana tutelata dalla Costituzione e non una terra “all’ovest del Pecos” in cui vige la “Legge dei sette capestri”.

Giustizia mediatica, così l’Italia sbeffeggia l’Ue e la Costituzione. Dal 2016 saremmo tenuti a recepire il testo che vieta ai pm di additare gli imputati come colpevoli. L'intervento di Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto Processuale Penale alla Sapienza. Giorgio Spangher su Il Dubbio il 25 marzo 2021. Sta andando in scena alla Commissione Giustizia della Camera qualcosa di surreale. Si tratta del recepimento della cosiddetta legge europea della direttiva Ue 2016/234 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, leggasi duemilasedici, relativa al rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto dell’imputato di presenziare al processo nei procedimenti penali. Com’è scritto nelle considerazioni iniziali (1), si tratta di quanto previsto, relativamente al diritto ad un equo processo ed alla presunzione di innocenza, dagli artt. 47 e 48 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea (“Carta”) e dall’art. 6 della Cedu, dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’art. 11 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Dopo 51 premesse, l’articolato si struttura in 11 articoli e fissa al 1° aprile 2018 il termine entro il quale gli Stati membri devono dare attuazione alle disposizioni della direttiva. Come emerge dalla intitolazione, sono due le aree tematiche di intervento: la presunzione di innocenza e il diritto di presenziare al processo. Nel delineare l’ambito di applicazione della direttiva, si precisa che la direttiva si applica a ogni fase del procedimento, dal momento in cui una persona sia indagata o imputata per aver commesso un reato o un presunto reato sino a quando non diventa definitiva la decisione che stabilisca se la persona abbia commesso il reato, cioè, ai sensi dell’art. 3, sino a quando non sia stata legalmente provata la colpevolezza. Il nucleo centrale della direttiva è racchiuso nell’art. 4, comma 1, ove si dispone che “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità”. Al comma 2 della stessa disposizione si dispone che a garanzia del rispetto di queste previsioni deve essere assicurato agli indagati e imputati un ricorso effettivo. I riferiti limiti informativi (art. 4, comma 3) non impediscono alle pubbliche autorità di divulgare informazioni sui procedimenti penali qualora non sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico. Nella prospettiva qui considerata, all’art. 5 si prevede che “Gli Stati membri adottano le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica. Il paragrafo 1 non osta a che gli Stati membri applichino misure di coercizione fisica che si rivelino necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi”. Con ulteriori disposizioni si precisano i temi dell’onere della prova della colpevolezza che incombe all’accusa, del diritto alla prova (art. 6), del diritto al silenzio e del diritto di non autoincriminarsi (art. 7), nonché gli artt. 8-9 disciplinano il diritto di presenziare al processo, e il diritto ad un nuovo processo in caso di mancata presenza al processo. Dopo l’art. 10 che, come visto, richiede la predisposizione di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti di cui alla direttiva, l’art. 11 prevede che entro il 1° aprile 2020 e successivamente ogni tre anni, gli stati membri trasmettano i dati con cui si è data attuazione alla direttiva e entro il 1° aprile 2021 sia presentato al Parlamento europeo ed al Consiglio una relazione sull’attuazione della direttiva. Quanto esposto, impone una riflessione preliminare sull’europeismo ad intermittenza ed a parole: una direttiva del 2016, non solo non è stata recepita ma sembra sussistano difficoltà per il suo recepimento. Pochi giorni fa la Corte di Lussemburgo ha precisato che per i tabulati è necessaria l’autorizzazione del giudice, essendo il pm una parte processuale contrapposta alla difesa. Ieri la Cedu ha condannato (per la seconda volta) l’Italia per la durata delle indagini che abbia impedito alla persona offesa di costituirsi parte civile, a pochi mesi di distanza da una decisione di contrario avviso della Corte costituzionale (C. cost. n. 249 del 2020). Pochi mesi fa, il Parlamento non ha ritenuto di aderire al protocollo 16 della Cedu. Tornando alla direttiva, sono chiare le resistenze per la sua approvazione ove si considerino le esternazioni della polizia giudiziaria e dei pubblici ministeri, la fuga sapiente di notizia, di interviste, di processi mediatici, con possibili condizionamenti sull’attività dei collegi giudicanti e disorientamenti dell’opinione pubblica. A tacer d’altro, basterebbe considerare che la presunzione d’innocenza, con le sue implicazioni che la direttiva evidenzia in termini maggiormente contenutistici, figura già nella nostra Carta costituzionale. Cosa impedisce un rapido recepimento? Un retro pensiero sulla disciplina della sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado?

La giustizia spettacolo. La classe dirigente campana è stata spazzata via da inchieste show. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Marzo 2021. Ieri sono state depositate le motivazioni della sentenza di assoluzione di Lina Lucci, l’ex segretario generale della Cisl Campania finita sotto processo con l’accusa (infondata) di essersi indebitamente appropriata di oltre 200mila euro sottratti dalle casse del sindacato per spese personali. L’inchiesta nacque nel 2016: contro la Lucci ci furono la querela del commissario straordinario, la relazione dell’allora responsabile amministrativo e una serie di conversazioni da questi registrate ma trascritte con un’operazione di taglia e incolla che ha spinto il giudice a parlare di «un quadro fattuale la cui reale esistenza è dubbia e indimostrata» e a smontare le tesi dell’accusa punto per punto. Quanto spazio avrà la notizia sui giornali? Quasi sicuramente non lo stesso riservato, a suo tempo, alle ipotesi della Procura. Perché, quando un processo si conclude e c’è finalmente la sentenza, i media non hanno più la capacità e il potere di restituire quello che hanno tolto e ridare ad assoluzioni e proscioglimenti la stessa eco riservata a sospetti e accuse. È un meccanismo perverso da cui ancora si fatica ad uscire. E al danno si aggiunge la beffa, se si pensa a certi paradossi. Quali? La storia di Lucci riporta alla memoria altri casi di assoluzioni eclatanti e appare come l’ennesimo esempio di personalità di rilievo pubblico sacrificata sull’altare delle lotte di potere interne. Il sacrificio si compie adendo le vie giudiziarie e l’effetto indirettamente ricade a pioggia sulla città, per cui un intero pezzo della classe dirigente napoletana viene messa da parte. È accaduto con Antonio Bassolino, impegnato sul fronte dell’emergenza rifiuti in Campania e subito scaricato dal suo partito, il Pd, alla notizia delle inchieste della Procura, salvo poi essere assolto per ben 19 volte. È accaduto con Lorenzo Diana, l’ex parlamentare impegnato sul fronte dell’antimafia, sostituito alla presidenza del Caan di Napoli, per decisione del sindaco di Luigi de Magistris, dopo la notizia del suo coinvolgimento nell’inchiesta della Dda su Cpl Concordia: anche Diana è stato completamente scagionato (lo stesso pm ne ha chiesto l’archiviazione), ma dopo cinque anni di gogna. La stessa Lina Lucci era impegnata non solo all’interno del sindacato, ma anche in una battaglia pubblica per il rinnovamento del porto di Napoli: è stata fermata da un’inchiesta che si è conclusa con assoluzione «perché il fatto non sussiste», come ha spiegato il giudice nelle motivazioni. In tutti questi casi la città si è ritrovata improvvisamente privata di una parte della classe dirigente per scoprire, a distanza di anni (nel nostro Paese la giustizia è lenta), che non c’erano prove e le accuse erano infondate. Ma è una scoperta che puntualmente arriva quando ormai nulla è come prima né può più diventarlo. Sicché i “buoni”, cioè gli assolti, restano fuori dai giochi o devono faticare non poco a risalire la china, e gli altri, anche chi ha una condanna seppure in primo grado (bisogna sempre essere garantisti!), sono richiamati e riammessi a un ruolo istituzionale. È l’impazzimento del sistema? Può darsi. Sta di fatto che la vicenda di Lina Lucci solleva più di una riflessione. Su certe selezioni effettuate su base giudiziaria, sulle zone grigie dell’associazionismo democratico, sui tempi (lenti) dei processi nelle aule di giustizia e su quelli (rapidissimi) nei salotti dei talk show.

«Io, pm sotto attacco perché non passo le carte ai giornali». Parla Giancarlo Bramante, procuratore capo di Bolzano che si è occupato del caso di Benno Neumair. Il magistrato è stato condannato dai “soliti” media perché ha osato preservare il segreto istruttorio dal voyerismo della stampa. Valentina Stella su Il Dubbio il 17 marzo 2021. «Come spesso cerco di spiegare ai colleghi dell’ufficio, il pubblico ministero deve vivere nel costante dubbio, inteso come verifica continua dei fatti e delle circostanze su cui sta indagando, anche a favore della persona sottoposta ad indagine preliminare, come previsto dall’articolo 358 ccp»: a dirlo al Dubbio è il dottor Giancarlo Bramante, Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Bolzano. Lo intervistiamo perché ha suscitato delle critiche in Alto Adige e in qualche salotto televisivo nazionale la scelta della Procura di secretare per un mese la confessione di Benno Neumair, reo confesso dell’omicidio dei genitori Peter Neumair e Laura Perselli, scomparsi a Bolzano il 4 gennaio di quest’anno. Il 29 gennaio il figlio era stato arrestato e il 6 febbraio il corpo della madre era stato trovato nell’Adige. La confessione sarebbe arrivata poco dopo, in due successivi interrogatori che la Procura ha secretato fino al lunedì della scorsa settimana, quando, tramite un comunicato stampa, ha reso noto che l’indagato aveva ammesso le sue responsabilità. Il fascicolo è stato desecretato contestualmente alla richiesta di incidente probatorio finalizzato ad accertare le condizioni mentali del ragazzo. La Procura, in base agli atti processuali, ha ritenuto doveroso stabilire se il ragazzo fosse capace di intendere e volere al momento dei tragici fatti e se sia dunque imputabile. Il presidente dell’Ordine dei giornalisti del Trentino Alto Adige, Mauro Keller, aveva criticato la decisione di mantenere il segreto istruttorio perché il fatto è di «evidente interesse pubblico e rilevanza sociale». Anche la sorella dell’indagato si era detta dispiaciuta di aver appreso della confessione da parte della stampa. Su questo la giunta dell’Anm del Trentino-Alto Adige ha invece difeso la scelta della Procura pur «nel massimo rispetto per la sofferenza dei familiari della coppia Neumair». Altresì “Quarto Grado” nella trasmissione di venerdì scorso ha stigmatizzato il silenzio della Procura insieme alla disposizione della perizia psichiatrica. Questo giornale difende la scelta della Procura: da tempo denunciamo le storture del processo mediatico parallelo ma potremmo sembrare di parte. Invece, proprio due giorni, fa è stata la Ministra Cartabia a dire: «A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale».

Procuratore da dove nasce la scelta di secretare l’ammissione di responsabilità?

Il primo interrogatorio dell’indagato ad un certo punto è stato sospeso per volontà dei difensori, che hanno fatto richiesta di ‘riserva di prosecuzione’. A quel punto è stato doveroso da parte dei colleghi sostituti, in accordo con i difensori, procedere alla secretazione. Si è trattato di una scelta dettata dal fatto che l’atto non era compiuto e le dichiarazioni non erano assolutamente complete.  La scelta dei pubblici ministeri rientra tra le facoltà previste dal codice di procedura penale, sussistendone tutti i presupposti procedurali. Tenga presente poi un aspetto importante.

Prego.

L’interrogatorio, per come lo interpreto io, è un atto di difesa dell’indagato. Non è uno strumento di imposizione. Per esempio, l’indagato può chiedere di avvalersi della facoltà di non rispondere  oppure decidere di non prendere posizione in merito ad una precisa questione. In astratto, il substrato probatorio può acquisire una tale valenza che si può giungere anche alla richiesta di archiviazione. Si tratta di concetti che dovrebbero essere conosciuti da chi vuole discutere di fatti di cronaca.

Cosa ne pensa di quanto detto due giorni fa dalla ministra Cartabia in merito alla fase delle indagini?  

Nel rispondere al direttore dell’Adige,  Alberto Faustini, esprimo proprio questo concetto: sono fermamente convinto che la prova si forma in dibattimento, nel contraddittorio con la difesa e le altri parti processuali, dinanzi ad un giudice terzo e super partes che valuta i fatti. Il concetto di verità è molto articolato soprattutto in un processo penale garantisticamente concepito sul concetto del ragionevole dubbio.

Anche la vostra scelta di optare per la perizia psichiatrica dell’indagato ha suscitato polemiche. Eppure, come prevede il codice, il ruolo di un pm è anche questo.

Come spesso cerco di spiegare ai colleghi dell’ufficio,  il pubblico ministero deve vivere nel costante dubbio, inteso come verifica continua dei fatti e delle circostanze su cui sta indagando, anche a favore della persona sottoposta ad indagine preliminare, come previsto dall’articolo 358 ccp. Ogni dato acquisito nel corso delle indagini, ogni dichiarazione delle persone informate sui fatti e dell’indagato devono trovare un riscontro oggettivo per poi essere presentato al giudice che lo valuterà. La verità del pubblico ministero non esiste ontologicamente, esiste la conclusione delle indagini preliminari che ha la sua sintesi della richiesta di rinvio a giudizio con la formulazione del capo di imputazione in forma chiara e precisa. Si tratta quindi di una tesi su un fatto penale che deve passare al vaglio di più giudici, prima di poter divenire pronuncia definitiva che rappresenterà la verità processuale dei fatti, e che non necessariamente rappresenterà la verità assoluta. L’accertamento della verità trova quindi la propria sintesi nelle sentenze definitive, nel pieno rispetto del principio costituzionale di non colpevolezza di cui all’articolo 27 della Costituzione.  Io credo profondamente in questo che le ho appena detto e cerco di trasmetterlo ai miei giovani procuratori.

Come abbiamo scritto in un recente articolo i primi ad essere attaccati sono stati gli avvocati che difendono i “mostri da prima pagina”, poi i giudici che li assolvono, dopo i giornalisti che li intervistano e infine le Procure che rispettano semplicemente principi basilari. Come si affronta questa pericolosa deriva?

Secondo me il problema è complesso e articolato: da un lato c’è l’aspettativa della società di una decisione rispetto ad un determinato caso e dall’altro lato ci sono poi le garanzie di quel concreto caso. Avviene purtroppo una sovrapposizione tra il caso concreto che si erge a caso generale. Si perde di vista che dietro ogni singolo caso ci sono delle forme processuali. È chiaro che se si eliminano i principi del giusto processo, il diritto alla difesa, e tutte le garanzie costituzionali la questione diviene prettamente culturale. Essa riguarda tutti i soggetti dello svolgimento del processo: magistratura, avvocatura, giornalisti, società civile. Ci deve essere sempre un controllo dell’opinione pubblica sulle notizie ma il controllo vero deve essere svolto nel rispetto dei principi processuali.

La mediaticità dei processi. Giustizia lumaca, così è la stampa a dare le sentenze. Viviana Lanza su Il Riformista il 14 Marzo 2021. «Nessun giudice deve farsi condizionare da quello che legge sui giornali, sicuramente può restare amareggiare se una sua decisione viene letta in maniera molto critica ma anche questo fa parte del nostro lavoro». Per Tullio Morello, magistrato della sezione penale del Tribunale di Napoli e per molti anni giudice delle indagini preliminari, «i processi non devono essere mai celebrati sulla stampa, perché senza conoscere tutti gli atti posti a margine di un provvedimento non è possibile avere un approccio tecnico». Per Morello, dunque, il nodo sta nella mediaticità dei processi, e non solo. «C’è anche una colpa del sistema – aggiunge – che è quella di dare maggiore importanza alla fase delle indagini rispetto alla fase del giudizio». Una sorta di sbilanciamento, dunque, a favore della prima fase dell’iter giudiziario, che corrisponde a quella delle ipotesi e delle ricostruzioni accusatorie, e a scapito della fase del dibattimento vero e proprio, cioè del momento in cui l’accusa viene provata o smentita. «In molti casi accade che la polizia o il pm riservi un’attenzione per la fase preliminare delle indagini diversa rispetto a quella del giudizio. Tuttavia, questo non deve essere letto solo come un punto di colpa per l’investigatore o l’inquirente, ma va letto anche considerando che i tempi del processo sono ormai assolutamente distorti, l’eccessiva durata dei processi è inaccettabile e inevitabilmente comporta una maggiore attenzione per la fase iniziale, che è la più calda. Perché il risultato vero si ha dopo tanti anni quando le cose ormai sono cambiate e non sono nemmeno più gli stessi investigatori a curare l’andamento del processo». Il giudice Morello centra, quindi, un tema cruciale del dibattito sulla giustizia: la durata dei processi. «Su questo rivolgerei un appello sempre più forte al legislatore affinché si riesca una volta per tutte ad accorciare i tempi dei processi. Una persona, colpevole o innocente che sia, ha diritto a una risposta in tempi ragionevoli, lo dice anche la Costituzione. Ogni processo riguarda vicende umane, non bisogna dimenticarlo». La storia giudiziaria è piena di casi mediatici, di lungaggini processuali che hanno avuto ripercussioni devastanti su vite e carriere di chi ne era protagonista, di errori giudiziari eclatanti. Morello è figlio del giudice Michele Morello che fu nel collegio della Corte di Appello che assolse Enzo Tortora ponendo fine al calvario giudiziario del noto presentatore. «Anche di fronte ai casi più clamorosi, il giudice non deve mai lasciarsi condizionare. Credo sia importante non innamorarsi dei processi. Io, dopo aver firmato una sentenza, metto da parte il processo cercando di dimenticarmene, di non innamorarmene, anche perché bisogna considerare che ci sono tre gradi di giudizio. Questo è uno degli aspetti su cui insisto di più nel momento della formazione dei colleghi più giovani». Lavoro difficile quello del giudice, che con le sue decisioni può determinare non solo l’esito di una vicenda giudiziaria ma anche di una o più vite umane. «Un giudice che si fa influenzare dovrebbe solo cambiare lavoro – conclude Morello – Nessun giudice si fa condizionare da un articolo, da una manifestazione, da un qualsiasi tipo di protesta. Cresciamo sapendo che le nostre decisioni per loro natura scontentano qualcuno. Il problema riguarda il modo di riportare le notizie e il clamore che si dà agli arresti e non alle assoluzioni. Se ne discute da tanti anni ma purtroppo sempre con risultati alquanto scarsi».

Dagospia il 19 marzo 2021. Intervista esclusiva (di Antonello Sette) all’avvocato Federico Tedeschini, già docente di Diritto Pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma.

Professor Tedeschini, partiamo dalla strettissima attualità. La Corte europea ha circoscritto il ricorso alle intercettazioni solo ai casi più gravi. E’ la fine di un abuso?

C’è molto di più rispetto a quello che lei mi dice. La Corte europea, ha stabilito, una volta per tutte, senza possibilità di diverse interpretazioni, che l’utilizzo delle intercettazioni deve essere autorizzato solo da un giudice e non dal pubblico ministero, che difende per sua natura i diritti dell’accusa. Sinora, nella stragrande maggioranza dei casi avveniva esattamente il contrario, con l’abusata scusa dell’urgenza.

L’abuso delle intercettazioni da parte dei pubblici ministeri è anche frutto di quel corto circuito malagiustizia-informazione che lei ha più volte denunciato senza mezzi termini…

Io penso che i grandi problemi della giustizia italiana, non solo di quella penale, derivino dal consolidamento di un pactum sceleris fra i mezzi di informazione e i magistrati, intesi come un potere dello Stato rappresentato soprattutto dal Csm. Un patto scellerato in base al quale, in cambio della fornitura, a richiesta, di scoop e notizie della più varia natura, la stampa nasconde le inefficienze e gli errori, spesso drammatici, di tutto il sistema giudiziario. Inefficienze che, per quanto riguarda il diritto penale, nascono soprattutto dalla confusione che si fa nell’ambito della magistratura tra pubblico ministero e giudice.  E non c’è dubbio che la scelta della Corte europea di riservare al giudice l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni, apra uno squarcio di luce e di aria pulita su una deriva barbarica. E’ stato, infatti finalmente chiarito che il pubblico ministero non è un giudice. E’ solo una parte del processo.

A proposito di corto circuito giustizia-informazione è di strettissima attualità anche lo scalpore per il processo calabrese “Rinascita Scott” contro alcune cosche della ndrangheta, celebrato, prima ancora di iniziare, su Rai Tre, nel programma Presadiretta…

Sul processo in corso non mi pronuncio. E’, però, inquietante che, altri non abbiano ritenuto di osservare altrettanto silenzio. In un processo contro trecento persone, molti imputati sono finiti in carcere e successivamente la maggioranza di loro è stata liberata, nel silenzio dei media, dalla Corte di Cassazione. Si sbattono i mostri in prima pagina. Poi si scopre che mostri non erano, ma è troppo tardi, perché per l’opinione pubblica restano per sempre i mostri che erano descritti sui titoli dei giornali. Questa consolidata barbarie riguarda non solo “Rinascita Scott”, ma un’infinità di altri processi. E’ di strettissima attualità anche il caso dei manager dell’Eni. Per anni, molti giornali hanno promosso le loro vendite sul cosiddetto scandalo della corruzione internazionale per le tangenti, che sarebbero state riscosse in Nigeria. Ora si è accertato, una volta per tutte, che quelle tangenti erano un’invenzione. Mi domando chi risarcirà le persone colpite e affondate a livello mediatico. Io non dico che la giustizia non debba fare il suo corso, ma la gogna mediatica, per di più preventiva, è una vergogna inaccettabile in un Paese civile.

Tornando a Rinascita Scott, le pare ragionevole che un programma televisivo di grande ascolto dia quasi tutto lo spazio all’accusa e quasi nessuno alla difesa, contrabbandando le tesi dell’accusa come delle verità, senza ricordare che quelle verità devono essere ancora accertate nel processo.

Con l’aggravante che l’evento mediatico in questione è stato celebrato da un’emittente che dovrebbe per sua natura svolgere un servizio pubblico. In un Paese civile avrebbero già mandato a casa i vertici della Rai. C’è stato, invece, un sostanziale silenzio generale, a partire dalla Commissione di Vigilanza, salvo qualche intervento spot che lascia il tempo che trova. E’ tutto un sistema incompatibile con le regole europee sulla tutela delle libertà fondamentali. Dobbiamo decidere, una volta per tutte, se noi nel processo ci crediamo o no. Se decidiamo di non crederci, basta abolirlo. Le verità dell’accusa non sono ancora la verità processuale. Oltretutto, una volta sbandierate sui giornali, creano un clima di legittima suspicione, perché tutti quelli chiamati a giudicare saranno stati nel frattempo condizionati da quello che hanno letto sui giornali. Lo squilibrio fra accusa e difesa viola palesemente l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Del rapporto perverso fra i pubblici ministeri, giornali e tv ha parlato anche Luca Palamara nel libro-intervista di Alessandro Sallusti, da tempo in testa a tutte le classifiche di vendite. Ha letto il libro?

Un testo di contenuto tecnico, che viene stampato in trecentocinquantamila copie, è diventato un contraltare alla grande stampa. Io vi leggo, innanzi tutto, la prova dell’’abbandono da parte del nostro sistema di quel fondamentale principio, secondo cui l’esercizio del potere implica sempre una responsabilità. Un principio di civiltà giuridica, che vale per tutti, meno che per i magistrati. Ci sono state molte indignate smentite, qualche querela, ma nulla di più. Il libro è servito a spiegare agli italiani quello che la stampa non aveva neppure accennato. Gli italiani hanno potuto capire che il sistema giudiziario ha tutti difetti di un sistema politico. Con una differenza non da poco. I politici, se esagerano, non vengono rieletti. I magistrati restano, invece, in ruolo.

La tanto invocata e mai realizzata riforma del Csm potrebbe essere utile?

Lo dicono tutti, anche quelli che vorrebbero mantenerla così come è. Sarebbe necessaria perché si potrebbe rompere il sistema delle correnti. Qualcuno dovrebbe spiegarmi come quel sistema sia compatibile con il principio della certezza del diritto. Come può un giudice dispensare serenamente giustizia se appartiene a questa o a quella corrente portatrice di interessi diversi da quelli delle altre?

Che cosa l’ha fatta più arrabbiare?

La stessa cosa. Da sempre. Non accetto che i cittadini siano in balia dei pubblici ministeri, e anche purtroppo dei Tribunali della Libertà, senza potersi in alcun modo difendere. Uno stato di soggezione, prostrazione e frustrazione, incompatibile con il sistema disegnato dalla Corte europea dei diritti dell’umo. Ma ci stiamo arrivando.

A che cosa stiamo arrivando?

A renderci finalmente conto, nonostante il contributo nullo della grande stampa, della necessità di riformare il nostro sistema per renderlo uguale a quello degli altri Paesi europei. Una delle condizioni, imposteci dall’Europa per l’accesso al Recovery Fund, è la riforma della giustizia. E, anche a questo proposito, la stampa omette di scrivere che l’Europa vuole una giustizia non solo efficiente, ma soprattutto “giusta”. La giustizia italiana non è una giustizia garantista. E’ sotto gli occhi di chi voglia vedere. Oltre che guardare.

La giustizia che confonde la questione morale con la questione penale. Lunedì scorso nella trasmissione “Presa Diretta”, su Rai3, per oltre tre ore si è svolto un processo parallelo a quello che è appena iniziato a Catanzaro, nel quale sono imputate oltre 400 persone. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 20 marzo 2021. Nella settimana nella quale il lungo processo all’Eni e in particolare a Scaroni e a De Scalzi, accusati della corruzione più scandalosa del secolo scorso, si conclude con l’assoluzione piena perché il fatto non sussiste, la Rai organizza una trasmissione in prima serata per anticipare il processo che è cominciato a Catanzaro da pochi giorni per oltre 400 imputati. Nella trasmissione televisiva tutti gli imputati sono stati dichiarati colpevoli a prescindere dalla conclusione del processo che avverrà fra molti mesi. Le notevoli sentenze che si sono concluse e si concludono con l’assoluzione dell’imputato non sono in grado di turbare la stampa e la Rai, che calunniano ed espongono al pubblico ludibrio persone in attesa di provare la propria innocenza. Aggiungo che quando la sentenza statuisce che il fatto non esiste, significa che il processo era pretestuoso, non doveva essere fatto: è il caso dell’ultima sentenza dell’Eni, ente prestigioso nel mondo che è stato sottoposto per lunghi anni a denigrazioni di ogni tipo. Come è possibile che un Paese che ha solide tradizioni giuridiche come l’Italia sia caduto così in basso e con l’indifferenza dei più, si calpesti diritti fondamentali, ma anche principi elementari di educazione, di rispetto per le persone?! Proviamo a dare una risposta. Assistiamo da anni allo scontro tra garantisti e giustizialisti con polemiche vivaci ma alla fine si scopre che ognuno è alternativamente garantista e giustizialista a seconda dei propri interessi personali. È la questione morale che viene invocata e al tempo stesso dimenticata. Negli anni 70 è stata posta in maniera forte e drammatica la “questione morale“ come problema sociale e istituzionale: lo fece per primo Enrico Berlinguer in presenza della crisi del comunismo sovietico per dare una linea politica al suo partito e per riscattarlo dai soprusi e dai finanziamenti sovietici. Invocò questa scelta giusta senza denunziare i “peccati” del Pci, solo per contestare il potere dei partiti della maggioranza che in quel periodo governavano. E la “questione morale” divenne prontamente “questione penale” e la magistratura, con le modalità ormai note, si impegnò a processare il “sistema” più che a indagare sui singoli reati e sui diretti responsabili. Il giudice, nonostante le innumerevoli sentenze di assoluzione, che pur vi sono state, ha acquisito le caratteristiche del giudice etico che condanna il male per far vincere il bene! Siccome in Italia il giudice viene confuso con il pubblico ministero è quest’ultimo l’angelo vendicatore del malcostume: questo il messaggio che il servizio pubblico trasmette. Il confondere la “morale” con il “penale“ costituisce l’equivoco più deleterio per la comunità e per le istituzioni perché permette di “consentire” ma al tempo stesso di “criminalizzare” qualunque comportamento non trasparente o non opportuno! La Rai trasgredisce la questione morale in tutti i suoi aspetti, riservatezza, obbligo di informazione corretta sostenuta da prove che valgono anche fuori dal processo.Nel vecchio processo penale italiano il pm istruiva il processo inquisitorio nel senso che raccoglieva le “prove” e portava il suo elaborato al giudice; nella concezione del “nuovo” (si fa per dire!) processo accusatorio il pm è dominus dell’accusa, ma gli indizi che raccoglie, debbono diventare “prove” nel contraddittorio, dinanzi al giudice. La dialettica processuale individua il pm come “parte” e dà rilevanza al giudice “terzo”, al di sopra delle parti. Nella pratica quotidiana avviene in maniera profondamente diversa da come il codice stabilisce. E la Rai servizio pubblico che dovrebbe rispondere alle leggi dello Stato e alla Costituzione, ma dovrebbe soprattutto rispondere alla legge morale che è il presupposto di qualunque ordinamento, tiene conto solo degli indizi ricercati dal pm e li fa diventare prove nella trasmissione. Dunque lunedì scorso nella trasmissione Presa Diretta per oltre tre ore si è svolto un processo parallelo a quello che è appena iniziato a Catanzaro e credo si sia superato qualunque limite. Il processo ha un suo valore sociale e questo dovrebbero saperlo paradossalmente più i pm che i giudici, perché il dibattito in tribunale deve essere finalizzato a far diventare prova gli indizi, i sospetti che hanno consentito l’indagine con i provvedimenti relativi. È il cittadino singolo e la società nel suo insieme che sono interessati e rendere giustizia e la democrazia si invera in questo rapporto istituzionale. D’altra parte questo accanimento a colpevolizzare le persone prima di un giudizio terzo non si comprende se non con il dilagare di un populismo penale irrazionale e pericoloso e soprattutto rancoroso. Nessuna democrazia al mondo può supportare una ferita così grave come questa, di fronte alla quale non si può assistere inerti. Il governo che negli anni scorsi ha voluto garantirsi una presenza consistente nella Rai, deve dare direttive per far applicare la Costituzione, e il Parlamento deve controllare che non ci sia una informazione distorta che allarmi il cittadino e renda un imputato colpevole prima del sacrosanto processo di cui ha diritto. Il signor Riccardo Iacona conduttore della trasmissione così come gli altri conduttori dovrebbero prendere atto di tutte le sentenze che scagionano i presunti colpevoli che in precedenza avevano abbandonatemene offeso. Aggiungo per ultimo che in particolare nella trasmissione di lunedì si è intervenuto in una problematica delicatissima costituita dal rapporto tra l’avvocato e il suo cliente che è l’anima del processo perché il diritto di difesa è sacrosanto e costituzionalmente garantito, e dunque l’onorevole avvocato Giancarlo Pittelli è stato offeso e calunniato. Ho ricordato tante volte una mia proposta di legge, mai approvata, volta a tenere segreto il nome del giudice e in particolare del pm, per tutelarli e metterli appunto al riparo da reazioni sconsiderate, ma anche da critiche ingiuste a cui a volte sono sottoposti. Se ci fosse questa legge il protagonismo dei pm, inevitabile per la umana debolezza, non alimenterebbe processi farlocchi in tv e il procuratore Gratteri, pm nel processo di Catanzaro, sarebbe maggiormente rispettato. Un appello al ministro della Giustizia che ha i poteri per evitare i processi in tv.

La lettera di un giudice ai colleghi. Colleghi magistrati, i processi non fateli in TV come Gratteri. Emilio Sirianni su Il Riformista il 19 Marzo 2021. Emilio Sirianni è un giudice che da sempre vive e lavora in Calabria. Nei giorni scorsi, dopo la messa in onda di “Presa Diretta” (la trasmissione Tv della quale è stato protagonista il Procuratore Gratteri), ha scritto una lunga mail ai suoi colleghi. La mail è stata pubblicata ieri su “Questione Giustizia”, la rivista di Magistratura Democratica. Ne pubblichiamo amplissimi stralci. Ero indeciso se scrivere di nuovo sull’argomento. La sensazione di inutilità, di prendersela contro i mulini a vento è forte, come pure la voglia di dire “ma chi me lo fa fare”. Però, in questo Sud io ci sono nato e ci vivo, l’oppressione e pervasività di “quel” potere le conosco bene e conosco bene la rassegnazione alla sconfitta. E relativi volti. Quelli di chi, letteralmente, ti rappresenta la fine della vita tua e di chi ti è vicino, pur non facendolo in modo esplicito, ma sempre con ragionamenti ellittici, dal suono amichevole persino e proprio per questo più terrorizzanti. Quelli di quanti stanno dietro o a fianco ai primi, ma mai nei luoghi della gente normale e che indossano toghe, siedono in c.d.a., presiedono enti, casse, partiti, fondazioni, frequentano le stanze di compensazione degli interessi che contano e decidono le sorti di queste terre da generazioni. Infine quelli dagli occhi bassi e i pugni stretti, che mordono le labbra e cedono e cedono e pare non debbano mai smettere di farlo. Ma io sono in grado di comprendere e svelare, per il mestiere che faccio e, proprio perché conosco quei volti, sento di dover continuare a parlare. (…) Su Rai3, nella trasmissione Presa diretta, si è parlato del noto processo Rinascita-Scott, che proprio in questi giorni muove i primi passi nella nuovissima aula bunker costruita in tempo record a Lamezia Terme. (…) Sento il bisogno di dire quanto questa riflessione mi costa. Mi costa molto, per tante ragioni che prima ho solo accennato. Perché ho riconosciuto nei molti filmati dei ROS i volti di cui dicevo. Perché ho riconosciuto, nelle parole intercettate, parole che mi suonano in testa e mi pesano sul cuore da una vita. Di più, mi costa molto perché, da tecnico, ho ben percepito –come chiunque di voi abbia visto la trasmissione- il valore e l’importanza di quegli elementi di prova. Il loro peso dirompente laddove vanno a incidere l’empireo degli intoccabili, squarciando la pesante coltre dietro cui si nascondono. Mi costa moltissimo perché sento sulla mia pelle la rabbia e il dolore di quei genitori che hanno perso i figli per mano di un potere criminale, di tutte quelle donne e quegli uomini che manifestavano a sostegno dell’indagine sotto le finestre dei carabinieri all’indomani degli arresti, invocando finalmente giustizia. Ma al tempo stesso, proprio per questo, non posso tacere. La stampa – lo sappiamo bene – fa il suo mestiere. Cerca notizie d’interesse pubblico e le diffonde e il valore di un giornalista si misura sulla sua capacità di trovare le notizie e sulla capacità di esporle. Il giornalista di cronaca le scova muovendosi fra segreti istruttori e fasi di discovery, fra prove nascoste e prove esibite, fra indiscrezioni carpite e indiscrezioni fatte filtrare. Del resto anche la polizia giudiziaria e gli organi inquirenti fanno il loro di mestiere. Cercando prove, custodendole gelosamente, coltivandole affinché, al momento giusto, germoglino e diano frutti. Ma anche in questo caso, in un gioco di specchi e di parti che è antico quanto il processo stesso, praticando sovente l’arte dell’indiscrezione veicolata e del consenso. Spesso utili anche per le sorti delle ipotesi d’accusa, ma altrettanto spesso per quelle delle carriere personali. In America ci hanno costruito, da sempre, un genere letterario e cinematografico che non conosce crisi. Nella trasmissione di ieri, però, abbiamo assistito ad una sorta di smascheramento. Tutto si è svolto alla luce del sole anzi sotto la luce delle telecamere. Negli studi televisivi ed in esterni, letteralmente sul luogo del reato. Niente segreti pazientemente carpiti o sapientemente filtrati nell’ombra del lavoro d’indagine giornalistica od investigativa, ma ufficiali dei carabinieri che illustrano il contenuto di intercettazioni telefoniche e video, indicano i luoghi in cui si sono appostati per eseguire le riprese, illustrano le storie criminali dei vari protagonisti e gli organigrammi delle rispettive cosche. E in alto su tutti, ovviamente, l’Inquirente. Tralasciamo gli aspetti personali che ognuno è libero di valutare come meglio crede. Penso ai reiterati riferimenti a concetti quali “codardia/vigliaccheria” o ai dialoghi interiori con compagna morte (intervista alla Gazzetta del Sud del 16 marzo). Quel che mi allarma, e che dovrebbe allarmare tutti, è che, proprio alla vigilia di un delicatissimo processo, si ritenga normale che il pubblico ministero partecipi, in veste di protagonista assoluto (pur se affiancato, come detto, da spalle di prim’ordine), al processo mediatico-televisivo che precede e affianca quello che s’avvia nell’aula bunker. Un processo nel quale tre giovanissime colleghe, che assieme non arrivano a sommare 10 anni di anzianità, dovranno affrontare, oltre all’ordinaria pressione che accompagna un processo di queste dimensioni e complessità anche la pressione mediatica, enorme, che una delle parti processuali oggettivamente contribuisce a determinare. So che sapranno farlo, che resistere a simili pressioni è la parte di bagaglio professionale che alle nostre latitudini si acquisisce più celermente, ma è giusto ed accettabile che ciò accada? Infine, noi, che siamo cresciuti alle lezioni di garantismo di Luigi Ferrajoli e di tanti altri maestri, abbiamo fermo in mente il loro insegnamento che ci ricorda come il soggetto da tutelare nel processo penale sia sempre l’imputato, a difesa dei cui fondamentali diritti sono predisposte tutte le regole e garanzie che ne scandiscono l’incedere. La prima delle quali è quella che stabilisce che la prova si forma nel processo. Non nelle indagini ed ancor meno nella rappresentazione mediatica delle stesse. Una regola, questa, che esprime anche un fondamentale principio epistemologico del processo penale accusatorio, che individua nel contraddittorio e nella dialettica paritaria tra le parti del processo il miglior criterio per giungere all’accertamento della verità. Ed a me, a noi tutti che in queste terre disgraziate ci troviamo o abbiamo scelto di vivere, quello che interessa, prima d’ogni altra cosa, è la verità. Per questo, principalmente, vorrei invitare chiunque indaghi sulla criminalità mafiosa, con toga sulle spalle o stellette sul petto, a non arruolarsi in quella guerra che il Procuratore Gratteri ha evocato in TV, continuando, molto più banalmente, a fare ciascuno la cosa più difficile: il proprio mestiere.

Iacona con Presa diretta ha fatto disinformazione, il giornalismo d’inchiesta è cosa seria. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 21 Marzo 2021. La Rai ha reagito duramente, per bocca del suo Amministratore Delegato Salini, alle veementi proteste che in particolare l’Unione delle Camere Penali ha indirizzato alla trasmissione Presa Diretta, condotta su RAI 3 dal giornalista Riccardo Iacona, dedicata alla indagine “Rinascita Scott” della Procura di Catanzaro. Secondo Salini, si tratta di un fulgido esempio di servizio pubblico, e di un giornalismo d’inchiesta del quale andare fieri. Il dott. Iacona a sua volta si è polemicamente rivolto al sottoscritto, chiedendo se per caso io sia dell’idea che i giornalisti possano interessarsi di una inchiesta giudiziaria solo dopo la sentenza definitiva. Entrambe le reazioni sono frutto di una speculazione retorica e polemica che elude il tema che abbiamo posto. Vediamo subito perché.

1. La trasmissione andata in onda non ha nulla del cosiddetto “giornalismo di inchiesta”. Il dott. Iacona e la sua redazione hanno semplicemente e comodamente preso visione degli atti di quella indagine, evidentemente messi a disposizione dalla Procura o dalla Polizia Giudiziaria, e confezionato in modo del tutto unilaterale una sintesi degli elementi di prova (intercettazioni e video riprese, in modo particolare) ritenuti più significativi ed efficaci in termini accusatori. Peraltro, l’adesione della narrazione al punto di vista accusatorio è manifesta.

2. Ciò avviene nello stesso momento in cui ha inizio il processo davanti al Tribunale di Catanzaro. Nel processo penale quegli atti sono ignoti al Tribunale, al quale è fatto divieto di conoscerli se non mediante la eventuale e futura acquisizione degli stessi in dibattimento, in contraddittorio tra le parti, dunque valutate e superate eventuali eccezioni difensive sulla loro utilizzabilità e legittimità, e valutati altresì i contributi difensivi (peritali, testimoniali, documentali) che ne contestino il significato probatorio. Si chiama “verginità cognitiva del Giudice”, garanzia imprescindibile della terzietà ed indipendenza del suo giudizio. Quale fine essa abbia fatto, grazie al nostro “giornalismo d’inchiesta”, è superfluo dirlo.

3. L’idea che intercettazioni, videoriprese e dichiarazioni accusatorie o apparentemente confessorie rechino in sé il crisma della oggettività è una delle più indecenti ipocrisie del giornalismo nostrano. Non facciamo altro nei processi, quotidianamente, che constatare – come è d’altronde perfettamente ovvio- che il significato di una conversazione o di una immagine sia destinata a confermarsi o invece a radicalmente trasfigurarsi alla luce, per esempio, di un’altra precedente o successiva. Qualunque conversazione, decontestualizzata o indebitamente contestualizzata, muta del tutto il proprio significato. Allo stesso modo, se mostro un filmato deprivato del suo sonoro (come esattamente accaduto in trasmissione), e lo faccio seguire da altra scena che però non è pertinente alla prima, sto confezionando una rappresentazione arbitraria e falsificata di quell’evento. La valutazione del significato di quelle immagini, così come la legittimità della scelta di quali rappresentare e quali no, non può che spettare alla sua sede naturale, cioè al processo ed ai suoi giudici, non certo alla redazione di una trasmissione televisiva, per di più palesemente partigiana a favore dell’organo dell’Accusa.

4. Lo stesso vale per la prova dichiarativa: se si riportano le dichiarazioni accusatorie ed autoaccusatorie di uno dei protagonisti della indagine, tacendo che già un Giudice (non un PM: esistono anche i Giudici) le ha qualificate come non attendibili, si opera una scelta deliberata di falsificazione del flusso informativo su quei fatti. Ancora una volta, ecco la ragione per la quale si tratta di materiale necessariamente riservato in via esclusiva al vaglio dibattimentale.

5. Se si informa la pubblica opinione – con toni apertamente elegiaci – di una indagine giudiziaria, accuratamente nascondendo gli oltre 140 provvedimenti di annullamento e revoca (spesso per “insussistenza del fatto”) di misure cautelari già pronunciati nel corso di essa, si fa una consapevole attività di disinformazione.

6. A proposito di “giornalismo di inchiesta” e di servizio pubblico: come mai non c’è verso di vedere, nemmeno per sbaglio, una puntata sui 140 indagati ingiustamente arrestati, detenuti ed infangati in questa, come in altre indagini precedenti di segno analogo? Poi, per carità, dott. Salini, ognuno ha la sua idea di cosa sia il servizio pubblico. Io di certo non apprezzo la Sua.

Tansi: “Camere Penali contro Iacona? In Calabria è normale: si attacca chi denuncia, non chi delinque. Ma assordante è silenzio politica”. Danilo Loria il 18 Marzo 2021 su strettoweb.com. “Un attacco strumentale, che va ben oltre il libero diritto di critica di uno qualunque dei telespettatori paganti di una produzione televisiva del servizio pubblico garantito dalla Rai. Mi riferisco, come ovvio, a quanto l’Unci Calabria, vale a dire l’articolazione territoriale delle Camere Penali, ha sostenuto attraverso un comunicato ufficiale diramato a tutti gli organi di stampa, tuonando contro l’approfondimento giornalistico sullo storico primo maxi-processo alla ‘ndrangheta denominato Rinascita-Scott, proposto da Riccardo Iacona nell’ormai notissima Presadiretta lunedì scorso secondo la stessa Unci lesivo del diritto alla difesa degli imputati”, è quanto scrive in una nota Carlo Tansi. “Una posizione, quella assunta dalle Camere Penali calabresi –sottolinea Tansi- che francamente non sta in piedi, considerato come per un procedimento di tali dimensioni e così sfaccettato, con centinaia di presunti colpevoli alla sbarra, diventa impossibile creare una qualche forma di condizionamento di natura mediatica della Corte giudicante. E a riguardo mi permetto di ricordare, pur non essendo un tecnico della materia, che qui non si sta ad esempio parlando dei delitti di Erba, Cogne o Avetrana, con uno o al massimo due imputati e un numero imprecisato di talk-show interamente dedicati al tema con tanto di plastici illustrativi ed esperti consulenti nei vari studi televisivi intenti a spaccare il capello in quattro e ad analizzare apparenti prove e indizi come fossero sì, davvero, dei periti in un’aula di Giustizia. Nell’occasione di Presadiretta si discute infatti di ben altro, ossia di uno squarcio coraggiosamente aperto su un mondo blindato, impenetrabile, protetto a ogni livello ovvero quello della più potente consorteria criminale del mondo. Fatto che va molto oltre al medesimo processo Rinascita-Scott, assumendo peraltro una valenza altissima secondo il principio sancito dall’art. 21 della Costituzione mediante cui i nostri Padri Costituenti hanno tutelato la libertà di espressione e informazione. Iacona ha dunque scoperchiato il Vaso di Pandora, illuminando il tenebroso sottobosco in cui si saldano gli interessi perversi di vecchi boss ancora degni del Padrino, e simbolicamente legati a coppola e lupara, quasi fossero ‘chiddi cu i peri incritati’ tipo Riina e Provenzano; nuovi famelici capibastone più affaristici e intraprendenti; insospettabili colletti bianchi al completo servizio in cambio di fiumi di denaro da parte dei vertici delle varie ‘ndrine; appartenenti alle forze dell’ordine corrotti e alcuni di quei ‘bravi cittadini’ a disposizione del Sistema in cerca di utilità di qualsivoglia genere. Una Malapianta che cresce infestando una foresta sana e drogando l’economia e la società di una regione altrimenti fra le più belle d’Italia e non solo”. “Ma quello che mi fa più male, addirittura sconvolgendomi, non è tanto l’affondo dell’Unci regionale a salvaguardia dei suoi interessi fra avvocati secondo l’accusa asseriti burattinai di certi giochi di potere e soldi, tantissimi soldi, imputati eccellenti e capimafia ottimi clienti, bensì l’assordante silenzio della politica. Un’Istituzione che avrebbe dovuto urlare tutto lo sdegno e la rabbia per quanto mostrato da Rai3 in diretta nazionale e viceversa chiusa a riccio, per i troppi inconfessabili strusci con quel mondo di..mezzo, in attesa di veder passare la tempesta. Una vergogna senza fine. Una pagina nera, da voltare al più presto. Perché unicamente con una classe dirigente, intesa nel suo complesso, non impermeabile rispetto a certe lusinghe si è potuti arrivare a questo punto. Quasi di non ritorno. Alla politica di tutte le ‘colorazioni’ hanno insomma fatto gola voti e formidabili appoggi economici per le campagne elettorali, motivi alla base di un patto con il Diavolo che hanno pagato, e stanno pagando a caro prezzo, tantissime generazioni di calabresi onesti. Ecco perché è arrivato il momento di dire basta, ma serve una rivoluzione dal basso. Ogni persona perbene, per quel che può, inizi dunque a rendersi promotrice e artefice del cambiamento”, conclude Tansi.

l processo in Rai. Iacona beatifica Gratteri e dimentica di chiedergli dei suoi flop. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Marzo 2021. Caro Riccardo Iacona, ho letto le tue dichiarazioni in polemica con l’avvocato Caiazza. Ho visto che temi che le camere penali vogliano cancellare il diritto di cronaca e il tuo diritto di preparare, in modo libero e senza condizionamenti, una trasmissione televisiva a sostegno delle tesi dell’accusa contro alcuni degli oltre 400 imputati al processo Rinascita Scott. In queste dichiarazioni spieghi come si fa giornalismo e come si respingono le ingerenze. Io faccio giornalismo da 46 anni. Non mi è mai capitato – devo ammetterlo – di impegnarmi in iniziative a favore di una Procura. Non metto in discussione il tuo diritto di farlo, per le ragioni più diverse, compresa – immagino – la tua convinzione della bontà delle tesi dell’accusa e dell’irrilevanza di quelle degli imputati. Non contesto niente a te: contesto la Rai che ha deciso di mandare in onda il tuo servizio. Mandandolo in onda ha tradito la sua vocazione di servizio pubblico, ha violato il diritto e la Costituzione. E ha compiuto una azione di infangamento di alcuni cittadini, molti dei quali incensurati. E anche un tentativo di influenzare la Corte. La cosa che mi dispiace è che nelle proteste contro questa azione violenta della televisione di Stato intervengano solo le Camere penali e qualche sporadico esponente politico. Tutti gli altri, terrorizzati, e rincantucciati in silenzio tremebondo. Non sono belle queste cose, Riccardo. Noi viviamo in Italia, non in Turchia né in Venezuela. Almeno, così credevo. Tu dici che i giornalisti dovrebbero occuparsi di più di ‘ndrangheta. Può darsi. E anche di come si svolgono le inchieste. Tu, per esempio, qualche hanno fa mandasti in onda in Tv un altro servizio giornalistico su Gratteri. Con Gratteri un po’ beatificato. Si parlava dell’indagine di Gratteri chiamata “New bridge”, una inchiesta antimafia che fece gran clamore sui giornali. 24 mafiosi in gattabuia, 40 indagati. Poi, Riccardo, lo avrai saputo, si è scoperto che di quei quaranta i mafiosi erano pochini. Uno solo fu condannato con il famoso 416 bis. L’altro giorno ti sei scordato di chiedere a Gratteri come mai quell’inchiesta andò così male. E se furono risarciti gli innocenti e i diffamati. E non gli hai chiesto nemmeno come mai, la celebre inchiesta “Marine”, con 200 arrestati in una sola notte e in un solo paesino, produsse solo 8 condanne. E poi ti sei scordato, dopo aver detto che la Procura di Catanzaro era un porto di mare prima dell’arrivo di Gratteri, di intervistare il procuratore precedente, un certo Lombardi, magistrato stimatissimo. Per conoscere il suo parere. Né, mi pare, hai voluto sentire il parere di Otello Lupacchini, il Procuratore generale quando partì Rinascita Scott, il quale su Rinascita Scott aveva molti dubbi. Poi hai lasciato che fosse crocifisso Pittelli, ma non hai chiesto come mai alcune intercettazioni (quelle che avrebbero dovuto inchiodarlo) fossero state mutilate o manipolate (come racconta lo stesso Pittelli qui). Peccato. Magari quando uno fa un’inchiesta prova a raccontare un po’ tutto, non solo la tesi di un procuratore. Certo, ciascuno ha le sue idee sul giornalismo. Tutte legittime. C’è per esempio chi pensa che il compito nostro sia quello di raccontare più verità possibile e di metterci sempre, per riflesso condizionato, dalla parte dei deboli e contro i potenti. Qui i deboli sono i prigionieri e gli imputati. Il potente, sicuramente è il procuratore. Non discuto la tua libertà di stare dalla parte del potente. Mica è un delitto. Discuto il diritto della Tv di Stato di gettare vagonate di fango su persone che la nostra legge considera innocenti. Non so se questo è il miglior modo di fare giornalismo. Forse sì. Dovrò convincermi, prima o poi, che tra Sciascia e Travaglio il migliore è Travaglio. Tra Rossanda e Scanzi il migliore è Scanzi…

La lettera al presidente Marcello Foa. La Rai ha violato la Costituzione, Gratteri protagonista di processo mediatico contro Pittelli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Carissimo Presidente Foa, la Rai ha mandato in onda un processo ad alcuni cittadini calabresi, e in particolare all’avvocato Pittelli, assumendo in pieno le parti dell’accusa e costruendo un monumento al Pm di quel processo. Il quale Pm – nonostante le ripetute raccomandazioni dello stesso Csm, del Procuratore generale della Cassazione e della ministra Cartabia – ha violato spavaldamente ogni riservatezza e si è prestato a diventare il protagonista indiscusso di un processo mediatico e di una gogna. Il processo – quello vero – è in corso a Catanzaro, e la Rai è intervenuta a gamba tesa a favore dell’accusa. In questo modo la Rai ha violato tutti i principi dello Stato di diritto e della nostra Costituzione. Prestandosi – come servizio pubblico – ad una operazione di giustizialismo che sarebbe impossibile in qualunque altro paese anche vagamente democratico. Presidente, io la conosco come esponente del giornalismo liberale, e le chiedo: l’avevano informata? Lei ha dato il permesso? Cosa pensa di questo plotone di esecuzione? Intende difendere in qualche modo i diritti dei cittadini infangati? Pensa che sia il caso di proseguire con queste trasmissioni? Progetta una trasmissione di riparazione? Conto sulla sua sensibilità e sono sicuro che vorrà rispondermi.

Il processo in tv. Processo sommario di Iacona a Pittelli sulla Rai: Gratteri star della puntata in stile sovietico. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Non è più il processo agli uomini di una cosca di ‘ndrangheta, è il processo a Giancarlo Pittelli, anzi non è più neanche un processo, è una sentenza sommaria di condanna. Lo ha deciso la Rai con la messa in onda, lunedì sera, di una puntata di Presa diretta di stile sovietico. Sarà perché ancora non è stato trovato un tribunale i cui giudici non siano incompatibili a giudicare gli imputati del Maxiprocesso di Nicola Gratteri. Sarà forse perché nessuno è Einstein ed è in grado di distinguere posizione da posizione dei 416 accusati che ogni giorno dal 16 gennaio compaiono all’interno della maxi-struttura di Lamezia dove si celebra il processo “Rinascita Scott”. O sarà per qualche insondabile motivo, di quelli da professionisti dell’antimafia che continuano a rimestare in un passato di stragi e devastazioni che (per fortuna) non esistono più, ma senza le quali rischiano in tanti di restare disoccupati. Sarà forse per tutti questi motivi messi insieme che la Rai, quel servizio pubblico che tutti gli italiani festosamente pagano sulla bolletta dell’energia elettrica, ha deciso di tagliare la testa al toro e di annullare il processo. Tanto a che cosa serve? La sentenza è presto emessa: tutti colpevoli. A dispetto di quel che proprio due giorni fa aveva detto con solennità la ministra della giustizia Marta Cartabia a proposito del principio costituzionale della presunzione di innocenza. Un giornalista all’uopo lo si trova sempre, Riccardo Iacona. Un regista è già lì pronto, Riccardo Iacona, e così un direttore d’orchestra e un tecnico delle luci. Sempre lui, Riccardo Iacona. La prima immagine è suggestiva, un tripudio di luci color cobalto e la voce narrante che ti mette subito le mani alla gola: Vibo Valentia e la sua provincia si illuminano di blu, con tremila carabinieri e gli uomini del Gis che stringono d’assedio 334 arrestati e 416 indagati. Sono state smantellate le mafie di questi luoghi con i loro 160.000 abitanti e 50 Comuni. Sono I Cattivi. Accompagnati da una musica assordante da marcia funebre in un film dell’orrore. Ma per fortuna c’è il Buono. Ecco la prima immagine di soddisfazione del procuratore Gratteri (nel film comparirà complessivamente sei volte) nella conferenza stampa di quel 19 dicembre del 2019, dopo la retata di 334 persone. Nulla si dice di quel che è accaduto nei giorni successivi, le scarcerazioni, gli annullamenti disposti da giudici di diversi gradi, intervenuti con precisione chirurgica sulla vera pesca a strascico attuata dai carabinieri guidati dal procuratore capo. La musica si fa più drammatica mentre l’occhiuto ufficiale dei carabinieri a bordo dell’elicottero mostra i territori ormai occupati dai mafiosi che “si sono inseriti in ogni ambiente della città”. Suggestivo, così come lo è l’arresto in treno del boss della ‘ndrangheta Luigi Mancuso, dopo due anni di pedinamenti. Seconda immagine di Gratteri in conferenza stampa, che conferma. Ma si capisce subito che, benché lui sia effettivamente un capo mafia di gran peso in quelle zone della Calabria, non è lui il vero protagonista del film girato dalla Rai. Si butta lì l’argomento vero che sta a cuore agli autori del film dell’orrore: Mancuso sapeva con precisione il giorno e l’ora in cui sarebbe stato arrestato, tanto che si è dovuto giocare d’anticipo. Chi gli dava le notizie? Prima dei titoli di coda, appare in video l’Autore, che ci allarma sull’esistenza di “uomini infedeli della Pubblica Amministrazione”, butta lì il nome dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ci rassicura perché all’inchiesta hanno lavorato centinaia di uomini. Terza immagine di Gratteri in conferenza stampa. Frase lapidaria: questa non è cronaca giudiziaria, questa è la democrazia. Fine dell’Anteprima.

Il 19 dicembre del 2019. “Rinascita Scott” parte come “la più grande operazione antimafia dopo quella di Palermo”. Ma dopo poco i numeri dovrebbero provocare rossore sulle guance di chi l’operazione ha condotto. Dei 334 ordini di arresto ben 203 sono stati annullati: 51 dal gip, 123 dal tribunale della libertà, 13 dalla cassazione senza rinvio e 9 con rinvio. Una disfatta. Tutto ciò accadeva oltre un anno fa. Ma l’orologio della Rai si è fermato a quel 19 dicembre, infatti parla solo dei 334 finiti in carcere omettendo il fatto che ai due terzi di loro le manette sono state rapidamente tolte. Si accenna al fatto che il procuratore di Catanzaro attua un blitz ogni due mesi. Nessun cenno ai tanti flop arrivati dai primi processi su quelle operazioni, fino a “Nemea”, con otto assolti su 15 e una sentenza che nei fatti anticipa già un giudizio di condanna nei confronti di alcuni personaggi della cosca Mancuso. Il motivo per cui, se nella corte d’appello di Catanzaro esistono giudici attenti e rigorosi, il dibattimento “Rinascita Scott” dovrebbe essere fermato per cambiare due delle tre giudici del tribunale, in quanto, come loro stesse ammettono, incompatibili per pre-giudizio: sono le stesse magistrate di “Nemea”. Tutta la ricostruzione porta a puntare la telecamera su un Nicola Gratteri in maglioncino nel suo ufficio (quarta uscita), che non parla tanto di mafia o di omicidi o di lupara bianca. Eppure nel corso degli anni anche la Calabria, come la Sicilia, non si è fatta mancare niente. Lui riferisce all’intervistatore-autore di quanto sia stato bravo a sgomberare gli uffici della procura da persone curiose e sospette, tra cui persino uno che non era calabrese e neanche sposato. Chissà che cosa mai facesse in quei corridoi. Questo non è un momento di pace, ma di guerra, dice il procuratore. La mente va subito al processo dell’aula bunker, che è poi quel che sta facendo il dottor Gratteri in questi giorni nel ruolo dell’accusa. Il processo che la Rai considera inutile ora diventa anche terreno di “guerra”. E del resto le immagini dell’ufficio del procuratore si alternano con quelle dello stesso giornalista in un altro ufficio ricco di librerie e boiserie con decine di scatoloni: sono gli atti dell’accusa, fogli e fogli intestati alla procura della repubblica. Neanche lo sforzo di consultare l’ordinanza del gip. La storia della ‘ndrangheta o la risposta alla domanda ossessiva: come hanno fatto i Mancuso a diventare i re della zona? Hanno fatto tutto da soli?

L’avvocato Giancarlo Pittelli. Giancarlo Pittelli dovrebbe essere, nelle intenzioni, il pesce grosso della pesca a strascico. Il suo arresto però non è casuale, l’avvocato era nel mirino da almeno tre anni. Il trattamento cui viene sottoposto è da subito particolare, stressante, umiliante: ore di attesa, trasferimento in Sardegna, rifiuto da parte dei magistrati di sentire la sua versione dei fatti, troppo lungo per le toghe il viaggio da Catanzaro. È accusato di tutto e di niente: prima di associazione mafiosa, poi di concorso esterno, ma soprattutto di rivelazione di atti d’ufficio. Che potrebbe sembrare poca cosa, ma non lo sarebbe, se veramente lui avesse fornito al suo assistito Luigi Mancuso un intero verbale del pentito che lo accusa. Pittelli nega che ciò sia accaduto e prove non ce ne sono. C’è piuttosto il pervicace sospetto che aleggia intorno a qualunque avvocato che difenda imputati per reati di mafia. Non solo si identifica la persona con il reato, ma si estende il sospetto anche al legale. Per dare un’idea del trattamento che, anche sul piano giornalistico, sta subendo l’ex parlamentare, quando sul suo tavolo viene sequestrato un suo foglio di appunti, persino nella trasmissione della Rai il manoscritto viene definito “pizzino”, neanche Pittelli fosse Totò Riina. Si gioca sul fatto che in Parlamento l’avvocato, come fanno tutti i suoi colleghi, ma anche i magistrati, lavorasse nella commissione giustizia (raramente i giuristi vanno all’agricoltura o alle politiche sociali) e che presentasse al ministro interrogazioni in tema di diritto penale. Si mostrano le immagini dell’aula di Montecitorio, quasi fosse un prolungamento di una situazione ambigua, e le si alterna con le riprese carpite per strada, mentre legale e assistito entrano nello studio dell’avvocato. Si arriva a dire che non è stato possibile captare il colloquio tra i due (il che sarebbe anche vietato, o comunque non utilizzabile processualmente), ma che comunque lo si può immaginare. Quindi si è anche autorizzati a virgolettare il frutto dell’immaginazione di qualche carabiniere. Dopo che il procuratore Gratteri ha fatto la sua quinta comparsata, viene finalmente data la parola per qualche minuto ai due avvocati difensori di Giancarlo Pittelli, Salvatore Staiano e Guido Contestabile. I quali cercano di spiegare che il reato concretamente non c’è, e si sforzano invano di capire che cosa l’accusa (e anche Iacona e anche la Rai) intenda per “messa a disposizione” di Pittelli nei confronti della cosca Mancuso. Ha raccomandato la figlia all’università, si è interessato perché fosse operato un bambino malato? E dove è la prova del verbale trafugato del pentito? Forse ha ragione la Rai, è inutile fare il processo, se queste sono le “prove”. O forse erano inutili le manette e tutto quel che ne è seguito? Intanto l’inconsapevole Riccardo Iacona, dopo averci propinato la sesta uscita di Gratteri, augura al procuratore “buon lavoro” e gli invia “un abbraccio forte”. Ognuno ha gli amici che preferisce.

Gratteri in Tv, i penalisti: «Espone i giudici a pressioni mediatiche». «Il dottor Gratteri, padre dell’inchiesta, sarà ospite di Presa diretta, a quanto par di capire dai trailer, addirittura personalmente e probabilmente senza alcun contraddittore o, al più, col contributo registrato anzitempo di qualche Difensore». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 marzo 2021. Il paradosso è servito: da un lato il Tribunale collegiale di Vibo Valentia ha autorizzato ieri le riprese audiovisive del maxiprocesso “Rinascita-Scott”, maxi-inchiesta del procuratore della DDA di Catanzaro, dottor Nicola Gratteri, vietando però di poterle trasmettere prima della lettura del dispositivo della sentenza del maxiprocesso per «garantire l’assoluta genuinità della prova». Dall’altro lato c’è la decisione di “Presa diretta”, la trasmissione di Rai3 condotta da Riccardo Iacona,  di dedicare la puntata del 15 marzo proprio alla maxi-inchiesta. Difficile spiegare questo corto circuito che comunque viene stigmatizzato da una nota dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane che critica la messa in onda, innanzitutto nello sbilanciamento tra accusa e difesa: «Il dottor Gratteri, appunto padre dell’inchiesta, sarà ospite della trasmissione, a quanto par di capire dai trailer, addirittura personalmente e probabilmente senza alcun contraddittore o, al più, col contributo registrato anzitempo di qualche Difensore». E poi la risposta al tweet con cui il conduttore ha lanciato lo speciale: «Raccontarla – ha scritto Iacona – non è cronaca giudiziaria, ma una questione di libertà e democrazia che riguarda tutti». Ma, dicono i penalisti, «di libertà e democrazia» si può parlare «solo evitando di esporre il processo penale alle indebite influenze di narrazioni giornalistiche, tanto più se unilaterali, ma comunque in grado di condizionare, non solo l’opinione pubblica, ma anche l’esercizio stesso della giurisdizione». Proprio l’obiettivo che si è prefissato il Tribunale con la nota divulgata ieri, ma che sarà evidentemente eluso. Poi l’Osservatorio ricorda che a fronte dell’interesse mediatico suscitato dall’inchiesta, vi è stato  «un numero elevatissimo di annullamenti delle misure cautelari irrogate nel procedimento» che «testimoniano indiscutibilmente quanto il clamore che ha accompagnato l’inchiesta e gli arresti di molte persone sia stato e sia del tutto ingiustificato». Eppure vi ricordate che disse il dottor Gratteri a Sky Tg24? «I giornali nazionali hanno boicottato la notizia». Scrivono i penalisti: «L’informazione è il sale della democrazia. Attenzione però: aprire i microfoni a una parte processuale (spesso la stessa e ancorché garantendo un contraddittorio solo apparente), ora per magnificarne l’importanza e l’impegno, ora per assicurarsi l’empatia del grande pubblico mentre il giudizio è in corso, offre una visione parziale e quindi potenzialmente distorta dei fatti oggetto dell’inchiesta medesima, non rappresentando affatto un esercizio democratico, men che mai liberale». Per queste ragioni, fermo il sacrosanto diritto di cronaca, «non si può che stigmatizzare l’iniziativa del Giornalista nonché il fatto che il Procuratore della Repubblica abbia consentito a prender parte alla trasmissione nonostante il processo sia ancora in corso, con il conseguente rischio di compromettere il sereno esercizio della giurisdizione così esponendo tutte le parti processuali e gli stessi giudici a indebite pressioni mediatiche. Al tempo stesso si auspica che nel corso del programma televisivo venga in ogni caso massimamente preservata la neutralità nell’esposizione dei fatti ed evitato ogni potenziale pregiudizio per il sereno svolgimento del processo pendente avanti l’Autorità Giudiziaria di Catanzaro». I processi si celebrano nelle aule giudiziarie, non in televisione con l’arbitro che tifa spudoratamente per una squadra.

Caro Iacona, le prove si formano in Aula e non in uno studio Rai. Presa diretta di Riccardo Iacona celebra il processo Rinascita-Scott sulla Rai. Gratteri ringrazia lo Stato di diritto un po' meno. Davide Varì su Il Dubbio il 14 marzo 2021. L’ex senatore e avvocato di grido di Catanzaro che si presta in mille modi ad aiutare il clan e poi il ruolo della “massoneria deviata” che aggiusta i processi insieme ai soliti “burattinai”. Saranno le motivazione di una sentenza di condanna di qualche mafioso, penserete voi. Neanche per sogno, sono le motivazioni con cui Riccardo Iacona spiega sul “Domani” di oggi – e scusate il calembour – la decisione di dedicare un’intera puntata di “Presadiretta” al processo anti-ndrangheta Rinascita Scott. Nulla di male, replicherà ancora qualcun altro. Certo: non c’è proprio nulla di male per chi pensa che un processo possa essere celebrato in Tv di fronte al “pubblico pagante”. E si perché c’è un piccolo dettaglio che molti non conoscono o danno per scontato: il processo in questione, chiesto dalla procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, è ancora in corso. Anzi, è appena all’inizio. E dunque la trasmissione di Iacona piomba su quel processo rischiando seriamente di condizionarne gli esiti. Ma non parliamo certo di un caso isolato: la lotta alla criminalità organizzata giustifica da tempo qualsiasi forzatura delle regole dello stato di diritto. E nonostante giornali e tv italiani nelle scorse settimane abbiano celebrato in pompa magna i cento anni di Leonardo Sciascia, nessuno pare aver assimilato la sua lezione. Soprattutto quella in cui lui, siciliano fino al midollo e nemico giurato di Cosa nostra, spiegava ai professionisti dell’antimafia che la criminalità organizzata non può essere sconfitta con la “terribilità della giustizia” ma solo con la forza del diritto. Ma visto che il centenario di Sciascia è passato e le belle intenzioni le porta via il vento, oggi accade che l’ordinanza di un magistrato diventa una sentenza: sentenza di condanna, naturalmente. E non è un caso che Iacona nel suo articolo peschi a piene mani in quell’ordinanza presentandola come verità provata. Ma evidentemente deve essersi perso un piccolo passaggio: la prova si forma in dibattimento e non in uno studio della tv pubblica.

Quel “processo sommario” di Presadiretta che non aiuta a sconfiggere i clan. Riccardo Iacona ha "celebrato" nello studio tv della Rai un processo di Gratteri del quale non c'è ancora neanche un grado di giudizio. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 16 marzo 2021. La trasmissione Presa diretta ha dedicato l’intera puntata di lunedì sera alla lotta alla ndrangheta per come declinata nell’inchiesta “Rinascita Scott”. Chiariamo subito una cosa: la ndrangheta in Calabria c’è ed è una cosa drammaticamente seria dal momento che, come sempre ed ovunque, tende ad accompagnarsi con il traffico di droga, l’uso della violenza, la pratica dell’usura ed il costante tentativo di intimidire i cittadini e corrompere funzionari pubblici, politici e appartenenti alle forze dell’ordine. Focalizzare, così come hanno fatto le telecamere di Presa diretta, queste cose in terra di ndrangheta ci è sembrato persino banale. Farcele vedere di nuovo è come fare un servizio sull’acqua alta a Venezia o sulla nebbia in Val Padana pretendendo di rivelarci chissà quale novità. A meno che non si voglia “impressionare” e portare fuori strada l’opinione pubblica e dare una lettura distorta sul perché, nonostante le centinaia di “retate” , la ndrangheta sia riuscita a fare un salto di “qualità” trasformandosi nel giro di qualche decennio, da una modesta e, a volte, pittoresca associazione di uomini di malavita, in una delle più terribili organizzazioni criminali dell’Europa occidentale. Se il dottor Iacona, conduttore di Presa Diretta, ci avesse aiutato a comprendere come tutto ciò è stato possibile, avrebbe dato un importante contributo alla verità. Invece ha puntato alla lettura della realtà calabrese utilizzando solo la “filigrana” di Rinascita Scott, pur essendo questo un processo alle prime battute. Per farlo è stato necessario presentare come credibili pentiti e collaboratori di giustizia che potrebbero non esser ritenuti tali dai giudici e come sicuri colpevoli imputati (anche incensurati) che potrebbero essere assolti da ogni accusa. Mortificando così la presunzione di innocenza ed il ruolo stesso degli avvocati impegnati nella difesa. Iacona, per esigenze estranee alla trasmissione, ha voluto presentare Rinascita Scott come la “madre” di tutte le inchieste quando invece è in assoluta e perfetta continuità con le cento inchieste precedenti che hanno avuto tutte le stesse caratteristiche: l’altissimo numero di arrestati, un impiego massiccio di militari, le prime pagine sui giornali, l’inclusione di qualche personaggio noto, le luci della ribalta sul pm. Finora però quasi tutte le “grandi inchieste” precedenti che hanno ritmato la storia della Calabria, da “Stilaro” a “Marine”, a “Circolo formato” (che si appena conclusa), a “Lande desolate” sono state dei grandi flop che hanno portato alla assoluzione di quasi tutti gli imputati e prodotto dubbi, scetticismo e rassegnazione nell’opinione pubblica calabrese, stretta tra una mafia aggressiva da un lato e la giustizia sommaria dall’altro. Oltre che ad un grande spreco di risorse pubbliche ed umane. Come abbiamo detto sabato scorso , la trasmissione Presa Diretta, nel febbraio del 2014, aveva usato la stessa tecnica, la stessa regia e lo stesso Pm come protagonisti nell’inchiesta “New Bridge”. Senza però trarre le necessarie conseguenze sul fatto che, su decine di imputati per mafia coinvolti in quella inchiesta, uno solo (dico1) è stato condannato con il 416 bis. Nella trasmissione di lunedì sera, volendo far apparire il dottor Gratteri come l’alfa e l’omega della lotta alla ndrangheta, Iacona ha molto insistito sul fatto che, prima del suo arrivo, la procura di Catanzaro fosse una specie di porto di mare per tutti i mafiosi. Ma se così è, non si capisce proprio perché non abbiano fatto parlare il suo predecessore, un anziano procuratore della Repubblica, rispettato da tutti? Perché non si è fatto parlare l’ex procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini, trasferito ad altra sede perché ha osato avanzare qualche, pur correttissima, critica verso i metodi usati in Rinascita Scott? Così come è stata concepita la trasmissione Presa Diretta non aiuta a capire la realtà, anzi ci porta su un binario morto. Quello che è più inquietante è la sensazione (ma è qualcosa in più) che alcuni magistrati cerchino legittimazione e successo non ricercando la giustizia e la verità ma stabilendo rapporti forti con la stampa e soprattutto con giornalisti affermati e trasmissioni famose. Una cosa è certa: il successo così strappato (ma non meritato) può essere giocato nell’immediato su tutti i tavoli che contano. Ed infatti l’inchiesta “New Bridge” è stata utilizzata come possibile lasciapassare per far transitare il dottor Gratteri da un ufficio della Procura di Reggio Calabria a quello di ministro della Giustizia. Non saprei dire oggi a cosa si tende! Se veramente lo volesse, il conduttore di Presa Diretta sarebbe ancora in tempo ed avrebbe mille modi, tutti onorevoli, per riparare gli errori fatti finora e contribuire a sconfiggere la ndrangheta con una sana informazione di cui si sente un gran bisogno. Perché tanto Iacona che Gratteri dovrebbero capire che proprio la verità è il necessario antidoto per sconfiggere la ndrangheta.

Processo Rinascita Scott, ok alle riprese tv. L'Unione cronisti: «Provvedimento tardivo e parziale». Il Quotidiano del Sud il 13 marzo 2021. «È un provvedimento tardivo, parziale e tutt’altro che rispondente alle esigenze della libera informazione e, in particolare, del diritto costituzionale di informare ed essere informati». Così il gruppo calabrese dell’Unione nazionale dei cronisti italiani, guidato dal giornalista Michele Albanese, commenta la decisione assunta dal Tribunale di Vibo Valentia «che “dopo una lunga ed inspiegabile attesa” – evidenzia l’Unci in una nota – ha finalmente autorizzato le riprese audiovisive del maxiprocesso Rinascita Scott». «Preliminarmente – continua la nota – ci domandiamo quale evento nuovo sia intervenuto affinché il collegio giudicante di uno dei procedimenti penali più importanti della storia giudiziaria italiana, riconoscesse che “sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento”. Perché tale “interesse sociale” non è stato riconosciuto sin dall’inizio del processo? Perché le numerose richieste pervenute da colleghi di tutto il mondo al Tribunale di Vibo Valentia sono rimaste inevase?». L’Unci rammenta anche di «aver incontrato (attraverso il presidente Michele Albanese ed il segretario Pietro Comito) il presidente del Tribunale di Vibo Valentia Antonio Erminio Di Matteo affinché fosse latore delle osservazioni dei cronisti al collegio del maxiprocesso Rinascita Scott. Anche in quel caso, l’appello a superare il diniego delle riprese fu disatteso. Cosa è accaduto di nuovo? E soprattutto, ci domandiamo, perché autorizzare le riprese ma con una serie di limitazioni che finiscono, a conti fatti, col rendere questa stessa autorizzazione quasi inutile?». 

Il processo di Gratteri si celebra in Tv. Ma senza difesa. Il processo Rinascita Scott del procuratore Nicola Gratteri lunedì verrà promosso sulla Rai. Ma nessuno ha invitato gli avvocato difensori...Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 13 marzo 2021. Lunedì prossimo, in prima serata, la trasmissione “Presa diretta” si occuperà del processo “Rinascita Scott”. Ci dovrebbe essere in studio il procuratore capo di Catanzaro. Siamo contrari ad ogni censura ma, ancor prima di parlare d’altro, ci sembra giusto porci una domanda :è opportuno che una “parte” del processo(cioè l’accusa) intervenga in prima serata lasciando in ombra la difesa ed esercitando di fatto una pressione indebita sull’opinione pubblica che potrebbe avere un pur remoto riverbero sui giudici? C’è un precedente che, quantomeno a noi, sembra di estrema importanza e che riguarda lo stesso Pm e la stessa trasmissione. Siamo in una notte di febbraio del 2014.In contemporanea tra New York e la Calabria scatta l’operazione “New BRIDGE”. Un “ponte” criminale che collega (secondo gli inquirenti) la potente famiglia Gambino con la ndrangheta calabrese. In piena notte da Gioia Tauro partono le gazzelle della polizia con lampeggianti accesi e le telecamere di “Presa diretta” al seguito, per arrestare i capi della ndrangheta che tale “ponte” avrebbero costruito. L’intera operazione viene presentata prima in diretta dalla Calabria ed in collegamento da New York e successivamente negli studi di “presa diretta” come un formidabile e straordinario colpo assestato contro la ndrangheta e la famiglia Gambino che è una delle cinque “grandi famiglie” della mafia Italo-americana. Vengono operati 24 arresti, gli indagati sono una quarantina. Si badi bene, nessun tribunale, aveva ancora condannato gli indagati ma le telecamere non hanno rinunciato a riprendere la classica sfilata in manette degli arrestati. Il dottor Gratteri, allora sostituto alla DDA di Reggio Calabria, ha spiegato dagli schemi di Presa diretta e con dovizia di particolari la straordinaria importanza strategica dell’operazione e l’alto spessore criminale degli arrestati nella gerarchia del crimine organizzato. Sono passati sette anni, alcuni degli arrestati sono stati assolti, altri condannati a qualche mese di reclusione per reati minori. La ndrangheta è praticamente uscita dal processo ed infatti solo uno(dico 1) degli indagati è stato condannato per associazione mafiosa.(sentenza non definitiva) E, con la ndrangheta, è uscita dal processo anche la famiglia Gambino. Per tutti gli imputati e persino per quello che veniva indicato dagli inquirenti come il capo e la “mente” d’una pericolosa cosca calabrese è caduto il reato di associazione mafiosa (416 bis) e finanche l’aggravante (l’art. 7 L) che prende forma quando, pur non essendo organici alla mafia, si utilizza la forza intimidatrice della ndrangheta per raggiungere i propri fini.Quasi tutti i beni degli imputati, già sequestrati, sono stati dissequestrati. Non dico e non voglio dire che tutti gli indagati siano gigli di campo, anche perché alcuni imputati sono stati condannati ma -particolare non di poco conto – non per mafia. Una cosa però è certa: dell’imponente “ponte” tra “potenti cosche” della Locride ed i Gambino per come ha preso forma negli studi di “Presa diretta” resta solo uno scarno scheletro composto da trafficanti di droga come, purtroppo, ce ne sono tanti in ogni angolo d’Italia. Per cui, pur a distanza di tanti anni, non si capisce proprio perché dedicare un’intera trasmissione ad un’operazione di polizia che non ha avuto nulla di straordinario e niente di speciale. Sarà stato certamente un caso ma due giorni dopo la trasmissione, il dottor Gratteri, ospite centrale ed unico di Iacona in quella serata , verrà incluso da Renzi nella lista dei ministri come titolare del dicastero della giustizia così come caldamente “raccomandato” dallo studio televisivo. Alla luce dei fatti che abbiamo raccontato non saprei dire se il procuratore di Catanzaro ed il dottor Iacona siano ancora convinti che sia stata una scelta giusta quella di dedicare la prima serata di un canale RAI ad un’operazione che non ha avuto-ne potrà più avere – alcun serio riscontro nelle sentenze dei giudici. Una riflessione su quanto accaduto 7 anni fa, dovrebbe indurre a non riproporre lo stesso schema, la stessa regia e gli stessi commentatori proponendo in prima serata il processo, Rinascita Scott, ancora alle prime battute. Si potrebbe discutere di altre inchiesta su cui la Cassazione ha detto la parola definitiva. Per esempio “circolo formato” dal momento che proprio ieri i giudici, dopo aver letteralmente demolito in sede di appello l’inchiesta, hanno assolto in via definitiva e con formula ampia il sindaco di Marina di Gioiosa (RC) dopo anni passati nelle patrie galere. Mandare in onda “Rinascita Scott”, soprattutto se senza la presenza delle difese degli imputati e della stampa garantita, non ci sembra corretto nei confronti dell’opinione pubblica che potrebbe scambiare le ipotesi dell’accusa per giudizi inappellabili, ed , ancor meno, per i giudici impegnati nella ricerca della verità.Forse, ma il forse è di troppo, non è giusto per gli imputati che potrebbero essere innocenti. Infine non è accettabile che la Calabria venga trasformata in un set permanente in cui si gira sempre lo stesso “film” , senza alcun valore “artistico” e senza qualità. Probabilmente qualcuno vorrebbe rianimare “Rinascita Scott” che si trascina stancamente e nel disinteresse generale. In Calabria e fuori. Oppure, è non vorremmo crederci, si perseguono fini estranei alla Giustizia e che nulla hanno a che vedere con la giusta lotta alla mafia.

L'informazione cede al giustizialismo. Giornali schiavi dei Pm, ecco come vite e carriere vengono bruciate dai media. Viviana Lanza su il Riformista il 12 Marzo 2021. C’è un dato, nell’annuale report di Antigone (associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale), che conferma, a proposito delle pressioni e processi mediatici, l’allarme lanciato dal Riformista e segnalato dai magistrati di AreaDg e dalla giunta della Camera penale di Napoli. Su un campione di più di 7.000 articoli di stampa, in oltre il 60% dei casi si è riscontrato un approccio colpevolista alle vicende giudiziarie o un atteggiamento acritico rispetto alle ipotesi dell’accusa. È un dato che la dice lunga sulla deriva giustizialista di opinione pubblica e una larga parte dei media. La percentuale è stata stilata all’esito di una ricerca condotta dall’Unione delle Camere penali ed è evidenziata nel rapporto Antigone nel paragrafo in cui si affronta un tema sempre attuale, quello del mostro sbattuto in prima pagina, dei processi sommari e popolari fatti in tv o su alcuni giornali prima ancora che nelle aule di giustizia. «A farne le spese non sono solo le garanzie per le persone coinvolte nei procedimenti penali – si legge nel rapporto – ma anche la serenità di giudizio del magistrato, la sua effettiva imparzialità e la necessaria riservatezza delle indagini». Per quanto negli ultimi anni siano state introdotte norme a tutela della privacy di chi finisce agli arresti o sul registro degli indagati, «molto spesso giornali e tv diffondono nomi e immagini di persone senza preoccuparsi del loro diritto alla riservatezza», evidenzia il report di Antigone. Perché? Di certo non è sempre facile bilanciare diritti costituzionalmente garantiti, come quello di cronaca e di conoscere le modalità con cui è gestita la giustizia con il diritto alla privacy, e – diritto spesso dimenticato – quello alla presunzione di innocenza. Inoltre è sempre più diffusa la tendenza ad appassionarsi alla fase delle indagini preliminari più che alle fasi successive di un processo: e su questo spetto ci mette lo zampino il sistema giustizia con i tempi troppo lunghi dei processi, per cui diventa impossibile seguire l’iter giudiziari che durano dieci o vent’anni. Di recente il Csm ha provato a porre un argine dettando delle linee guida per i rapporti tra stampa e magistratura, ma – osserva Antigone – «il meccanismo attuale fa sì che i giornalisti si trovino spesso in una relazione di dipendenza dalle autorità giudiziarie che sono la loro fonte privilegiata». Di qui le falle del sistema. «Il sistema giudiziario fatica da tempo a garantire il segreto istruttorio nella fase iniziale del procedimento penale, cioè a garantire che gli atti non verranno diffusi illegalmente e dunque non verranno pubblicati dalla stampa». La violazione del segreto è un reato, tuttavia i responsabili non vengono quasi mai individuati: nessuno, in genere, indaga sulle fughe di notizie, eppure quanti scoop giornalistici e quante carriere di magistrati sono passati anche per indiscrezioni su indagini raccontate prima del tempo. E quanti drammi si sono consumati per via di avvisi di garanzia, intercettazioni o indiscrezioni investigative rivelati prima ai giornalisti che ai diretti interessati. Anche la storia giudiziaria di Napoli è piena di casi del genere, di fughe di notizie su indagini cosiddette “choc” che si sono sgonfiate subito in sede di Riesame o nelle tappe successive dell’iter giudiziario. «Serve una svolta culturale – sostiene Antigone – e dovrebbe riguardare anche gli operatori della giustizia, i quali hanno approcci e capacità comunicative differenti». Il problema riguarda anche la comunicazione delle forze di polizia, «spesso troppo autocelebrativa e poco rispettosa della presunzione di innocenza». «La diffusione di dati sensibili è la norma, come è la norma l’assenza di condizionali nel presentare le ipotesi accusatorie», aggiunge l’associazione. Il fenomeno dei processi mediatici, paralleli ai processi veri e propri, è ampio e non riguarda soltanto personalità note del mondo politico o imprenditoriale. «A fare le spese di una sovraesposizione mediatica – ragiona Antigone – sono anche le persone sprovviste di mezzi, specie su scala locale». Riflettendo in termini di proposte, si è pensato a rimedi compensativi per chi è danneggiato dal processo mediatico, qualcosa di simile a quanto già avviene per l’ingiusta detenzione o per la durata irragionevole del processo, oppure a considerare una sorta di attenuante per chi subisce un processo mediatico prima di quello giudiziario e viene condannato, o una compensazione monetaria per chi finisce alla gogna e viene poi prosciolto. Ma al momento nessuna proposta è stata accolta e il problema ancora esiste.

"Dietro c'è un disegno preciso". “Povero giornalismo, ridotto a fare copia incolla delle veline delle procure”, intervista a Pierluigi Battista. Aldo Torchiaro su il Riformista il 18 Novembre 2020. Politici innocenti, assolti, archiviati. La lista nera pubblicata lunedì sul Corriere della sera da Pierluigi Battista – una vita in posizioni di vertice a La Stampa, Panorama, Corsera – fa discutere, perché fa male. Vorremmo dire che interroga le coscienze, ma sarebbe illusorio. Interroga la coscienza di qualcuno; per gli altri, quella lunga lista di non colpevoli perde interesse, smentisce il pregiudizio dei pregiudicanti. L’ultimo in termini cronologici è Antonio Bassolino, che ha vinto 19 processi conclusi con «il fatto non sussiste». Ma dal tritacarne della giustizia nella Seconda Repubblica sono usciti, più o meno malconci, Filippo Penati, Pd, l’ex governatore del Piemonte Cota (Lega), l’ex governatore del Lazio Francesco Storace (centrodestra), l’ex sindaco di Terni Leopoldo Di Girolamo (Pd), l’ex sindaco di Parma Pietro Vignali (civico vicino a Forza Italia). «Assolti Clemente Mastella e la moglie Sandra Lonardo, sottoposta peraltro a forti misure restrittive. Neanche assolto, ma addirittura archiviato prima del processo Stefano Graziano, consigliere regionale del Pd. Assolto Nicola Cosentino, ex re campano di Forza Italia». La lista prosegue con decine di nomi la cui storia invoca una giustizia giusta. 

Si è dimesso Gaudio, appena nominato.

«E io dico: bisognerebbe scandire un bel “Chi se ne frega”. Aveva l’iscrizione nel registro degli indagati per una accusa che tra l’altro sembra prossima a decadere? Ma chissenefrega. Impariamo a dirlo, quando ci troviamo davanti al nulla. Gaudio non so se sarebbe stato un buon commissario alla sanità, so che essere indagato non può essere oggetto di condanna pubblica preventiva. Ha qualche condanna passata in giudicato? No. E allora di cosa parliamo?»

Da dove parte, Battista, questa crociata contro la politica?

«Con Mani Pulite. Perché malgrado le correzioni in senso garantista del codice penale, dovute alla riforma di Giandomenico Pisapia, si cominciò a pensare che la semplice iscrizione nel registro degli indagati fosse un atto di colpevolezza. Bastava entrare nel registro degli indagati per doversi dimettere, scusare, scomparire».

L’avviso di garanzia come lettera scarlatta.

«E infatti ci fu una catena di dimissioni, immediate. Nel corso degli anni, tutte le persone che magari erano indagate ma poi nemmeno portate a processo, perché non c’erano gli elementi, nei media venne tirato fuori il termine di “coinvolto”. Scrivere: “Nell’inchiesta è coinvolto Tizio” ne comportava la fine della carriera politica, anche se poi penalmente erano fatti irrilevanti o, come spesso è stato, del tutto inesistenti».

Quindi fu un’offensiva mediatica, ad avvelenare il clima?

«Dall’offensiva semantica nel linguaggio giornalistico possiamo rilevare il momento in cui si crea quel clima avvelenato. Tra il 1992 e il 1993 nei giornali e nelle televisioni si usa “coinvolto”: si dice “spunta il nome di Caio” per dire che seppur marginalmente citato in una conversazione, qualcosa c’è dietro a quel nome. Non la notizia di un fatto, ma di un sospetto».

Nascono le gazzette delle Procure. Oggi (ieri per chi legge, ndr) abbiamo visto qualcuno che infatti si è inalberato, per quella tua lista di errori giudiziari e di campagne diffamatorie.

«Ci sono alcuni che hanno costruito una fortuna su quelle campagne. Hanno cavalcato l’odio sociale dipingendo i politici come Diavoli del male e i magistrati come Angeli del bene. Hanno eretto una barriera manichea, da scontro frontale, diventando acritici fotocopiatori di veline delle Procure e indicando come nemici coloro che invece giustamente si erano dichiarati innocenti o, peggio ancora, garantisti: cioè disposti a sostenere il diritto del dubbio fino a condanna definitiva».

Questo antigiornalismo ha un disegno?

«Intanto è un disegno culturale. Una società basata sul sospetto che incentiva il controllo e frena le libertà. La dipendenza dalle fonti delle Procure è il suicidio del giornalismo».

Una volta c’era il segreto istruttorio.

«Ma si è trovato il modo di aggirarlo. Perché i magistrati fanno delle ordinanze di custodia cautelare e dentro l’ordinanza, per dimostrare la fondatezza della loro richiesta, ci mettono come documentazione migliaia di pagine di intercettazioni, che a quel punto non sono più coperte da segreto. E le passano ai giornali. Talvolta con un post-it».

Cosa indica il post-it?

«Gli stralci da copiare. Quei passaggi più rilevanti di altri ai fini mediatici, magari dove l’intercettato usa parole volgari, o fa riferimenti sopra le righe, si prende la libertà di una battuta. Perché quella roba vende, anche se è solo folclore. Il colore poi a processo si rivela insussistente e l’imputato ne esce pulito, ma intanto il processo mediatico glielo hanno fatto e lui ha perso il posto, in molti casi la famiglia, la salute. E talvolta si è tolto anche la vita».

Scarsa cultura garantista o poca professionalità di certi giornalisti?

«Diciamo le cose come stanno: ci sono degli analfabeti giudiziari, a partire dal Fatto Quotidiano. Altrimenti non si giustifica quello che si scrive, perché non voglio credere alla malafede di certi colleghi. Non sanno la differenza tra indagato e imputato, tra imputato e indagato, non conoscono la Costituzione e figuriamoci la procedura penale. Mettono tutto nel calderone e servono in tazza fumante».

L’interferenza tra magistratura e politica ha stravolto la natura della sinistra. Penso soprattutto al Pd, che ha sempre preso le distanze dagli amministratori indagati. Nel Pds c’era una regola nello statuto, all’arrivo dell’avviso di garanzia l’indagato doveva immediatamente autosospendersi dal partito e dagli incarichi.

«Il Pd ha sempre abbandonato i suoi, appena la magistratura faceva un passo. Un caso scandaloso fu quello di Del Turco, leader sindacale, uomo colto, un riformista. Venne arrestato di notte come fosse un malfattore e additato al pubblico ludibrio dal Procuratore Trifuoggi, che disse di avere in mano delle prove schiaccianti. Il Pd tagliò i ponti, lo disconobbe. Ma quelle prove erano talmente schiaccianti che la Procura chiese tre volte la proroga dei termini perché non riuscivano a trovare niente. E alla fine venne condannato per una sola delle accuse, perché non si è mai trovata la tangente di cui si parlava».

Il giornalismo d’inchiesta insegna: “follow the money”.

«E invece i soldi sono i grandi assenti dai processi. Perché le tangenti indicate nelle roboanti conferenze stampa delle Procure poi non si materializzano. Malgrado le intercettazioni, i sequestri dei Pc, le indagini approfondite della Guardia di Finanza, spesso non si trovano le tangenti e le accuse cadono, senza mai nessuno che si scusi. Da due anni vedo un grande impiego di mezzi per trovare la tangente russa che sarebbe andata alla Lega, e non la si trova».

Le intercettazioni non andrebbero mai usate?

«Le intercettazioni portano quasi sempre fuori strada, perché come dicevo puntano al colore. La legge ne impedirebbe la pubblicazione ma si è trovato subito il modo di aggirarla, citando gli atti. Il problema è di cultura giuridica. Il pool Mani Pulite aveva metodi brutali, usava la carcerazione preventiva, ma puntava a trovare le tangenti e a ripercorrerne il percorso. Oggi si montano processi sulle parole, senza preoccuparsi troppo di trovare il denaro».

Dovrebbe esserci un maggior autocontrollo, un richiamo dell’ordine dei giornalisti?

«Bisognerebbe imparare a fare questo mestiere. L’Ordine è un orpello fascista che negli altri Paesi democratici occidentali non esiste e non potrebbe esistere. Io lo abolirei».

Le attenzioni selettive seguono piste prestabilite. Figure-chiave. Craxi, Berlusconi, oggi Renzi…

«Questa indagine sulla Fondazione Open mi sembra avere un obiettivo curioso: la magistratura vuole definire che cosa è un partito, cos’è una corrente, cos’è una area di influenza. Si sono incaricati di un compito ambizioso e forse un po’ fuori dai loro confini».

Anche sugli imprenditori si potrebbero fare liste di nomi massacrati senza colpa.

«Penso a Silvio Scaglia, ma sì: la lista anche in questo caso potrebbe essere lunghissima. Alla famiglia Riva le aziende sono state espropriate, a fronte di niente. Seguo la vicenda di Alfredo Romeo. E adesso vediamo dove porta il filone Autostrade. Imprenditori e manager pubblici chiedono sempre più spesso lo scudo penale, in Italia. E solo in Italia. Perché da noi se non hai garanzie straordinarie non puoi lavorare, hai la certezza sin dall’inizio di finire tra gli ingranaggi di questo meccanismo del fango».

Quell’assalto mediatico al Gup che ha scarcerato l’uomo condannato per omicidio. Dopo le numerose proteste degli ultimi giorni, la Camera Penale di Napoli interviene sul caso di Fortuna Bellisario per ribadire che «abbiamo il dovere di non cedere a pulsioni irrazionali e di ricordare che la giustizia non può mai essere vendetta». Valentina Stella su Il Dubbio l'11 marzo 2021. «Assistiamo ancora una volta ad una forte pressione mediatica che potrebbe anche involontariamente influire sul corretto esercizio della giurisdizione»: a dirlo al Dubbio è l’avvocato Angelo Mastrocola, segretario della Camera Penale di Napoli, in merito ad una vicenda quantomeno originale se non preoccupante per la serena amministrazione della giustizia. È opportuno che un Presidente di Tribunale rilasci una intervista in cui solleva dubbi su alcuni aspetti della decisione di un Gup in materia cautelare, rispetto ad un fatto di cronaca che ha comportato addirittura manifestazioni di parenti e amici della vittima e sdegno mediatico? Il contesto è il seguente: la giovane Fortuna Bellisario è stata uccisa nel 2019 con una stampella ortopedica dal compagno, che per questo delitto è stato condannato a dieci anni con rito abbreviato, riconosciuto colpevole di omicidio preterintenzionale, come richiesto dallo stesso Pm. Qualche giorno fa, dopo due anni di carcere, l’uomo è andato ai domiciliari, perché il Gup ha accolto il ricorso dell’avvocato e lo ha giudicato non pericoloso socialmente. La decisione ha scatenato numerose proteste e anche un flash mob dinanzi al Palazzo di Giustizia con uno striscione “In-Giustizia per Fortuna”. Quanto accaduto è stato commentato anche in una intervista fatta su Repubblica alla dottoressa Elisabetta Garzo, da un anno al vertice del Tribunale di Napoli, e dal titolo “Garzo: Caso Fortuna, inopportuni i domiciliari nella casa del massacro”: «premessa importante – dice la dottoressa Garzo – non posso entrare in alcuna valutazione sul provvedimento» ma, sollecitata dalla giornalista, prosegue: «ecco, forse doveva essere valutata con ancora ulteriore rigore, rispetto a quello che il giudice avrà adottato, dove e come concedere i domiciliari. Questo mi sento di dirlo. Magari, non avrei destinato quell’uomo nella stessa casa dove era avvenuto il massacro della donna». Queste dichiarazioni insieme alla campagna mediatica e ai sit-in di protesta sotto il Tribunale hanno suscitato una reazione critica da parte della Camera Penale di Napoli che ha elaborato un lungo documento, siglato dal Presidente Marco Campora e dal segretario Mastrocola, per  stigmatizzare quel corto circuito che si è creato tra media, magistrati e tribunale del popolo intorno al caso della donna uccisa.  «Siamo vicini ai familiari ed agli amici della sventurata Fortuna Bellisario – scrive la Camera Penale –  ne comprendiamo il dolore sordo ed insopportabile, la rabbia e finanche una – per loro comprensibile – volontà di vendetta».  Tuttavia, proseguono i penalisti, « noi – e cioè tutti quelli che non hanno perso una persona cara in questa vicenda – abbiamo il dovere di non cedere a pulsioni irrazionali, di ricordare che la giustizia non può mai essere vendetta e che la qualità della funzione giurisdizionale non si misura sulla base degli anni di galera che vengono inflitti. Concetti basilari che, tuttavia, negli ultimi anni sono costantemente messi in discussione da un populismo penale che sembra ormai aver smarrito anche un qualsivoglia sub-strato ideologico per degradare a mero istinto o riflesso di maniera. Allo stesso modo, occorre sempre ribadire che i processi non si occupano mai dei fenomeni ma solo ed esclusivamente di singoli casi, ognuno diverso dall’altro». Il tema “femminicidio” è meramente culturale prima che penale: «Nessun ergastolo, infatti, eviterà un nuovo femminicidio in futuro. Nessuna pena esemplare potrà avere efficacia dissuasiva di condotte che sfuggono completamente allo schema del rapporto costi/benefici; solo una nuova struttura materiale e culturale della società (che sia pur in tempi lunghissimi sta evolvendo nei termini auspicati) consentirà davvero alle donne di allontanarsi in tempo dai propri aguzzini». E comunque, ricordano gli avvocati, la decisione è stata emessa rispettando quello che prevede il codice: «Dunque, nessuno scandalo, nessuna “eccentricità” ma una sentenza assolutamente coerente ed in linea con la produzione giurisprudenziale quotidianamente emessa.  E, ciononostante, a seguito della lettura del dispositivo sono partite le solite proteste: la pena è troppo bassa, l’imputato uscirà di galera dopo pochi anni, anzi è già libero perché il GUP gli ha concesso gli arresti domiciliari! È un format che si autoalimenta e che sta inesorabilmente avvelenando la qualità della nostra democrazia». Aggiungiamo: sta immolando il garantismo sull’altare di una presunta sicurezza collettiva. Ma l’aspetto forse più importante che mette in evidenza la Camera Penale è che questa ondata di indignazione popolare a cui la stampa ha dato ampia eco, senza minimamente dare conto dei meccanismi del giusto processo, avrebbe spinto persino il Presidente del Tribunale di Napoli a sollevare obiezioni su un aspetto della decisione del Gup: «Le spinte provenienti dall’esterno sono talmente forti che ormai travolgono, talvolta, anche i protagonisti della giurisdizione, tanto che finanche il Presidente del Tribunale si è lasciato andare, in un’intervista pubblica, a valutazioni critiche in ordine ai provvedimenti emessi dal  GUP. Nonostante il garbo e la cautela delle affermazioni, infatti, dalla intervista emerge chiaramente – allorquando si afferma che “forse la vicenda doveva essere valutata con ancora ulteriore rigore” o “magari, non avrei destinato quell’uomo nella stessa casa dove era avvenuto il massacro della donna” – una presa di distanza dalle valutazioni del GUP. Ma non solo: simili dichiarazioni rischiano di condizionare inconsciamente anche i giudici che si occuperanno in futuro della vicenda ed, in particolare, i giudici del riesame che a breve saranno chiamati a rivalutare, a seguito di ricorso della Procura, la situazione cautelare dell’imputato». Non ravvisate qualcosa di completamente stonato nel connubio tra pressione mediatica e esercizio della giurisdizione? «Per carità, le sentenze sono sempre criticabili  – dicono Campora e Mastrocola – ed ognuno può legittimamente ritenere – previo ovviamente adeguato e consapevole studio dell’incartamento processuale – che la pena comminata sia troppo bassa o che il titolo di reato sia sbagliato. […] E, tuttavia, occorre registrare che la critica è sempre unidirezionale e colpisce unicamente le sentenze di assoluzione o le sentenze di condanna ad una pena non draconiana. Nessuno mai si azzarda a criticare una sentenza che commina un ergastolo, mentre costituiscono ormai un topos le grida – di solito: “Vergogna, Vergogna!” -delle vittime, spalleggiate sovente da “agitatori” politici o dell’informazione, alla lettura dei dispositivi che assolvono l’imputato o che lo condannano ad una pena non ritenuta abbastanza severa». Ci piace concludere con quanto scritto in ‘A furor di popolo’ (Donzelli editore), dal professore e avvocato Ennio Amodio, secondo cui oggi la giustizia è caratterizzata da fenomeni anti-costituzionali e  anti-illuministi: «alla razionalità si sostituisce l’emotività delle vittime di reati; al rispetto della dignità umana subentra la collera, che spinge a vedere nel delinquente un nemico da eliminare; la proporzionalità della pena cede il posto a un estremismo sanzionatorio che pretende dal giudice pene sempre più aspre; il carcere, infine, diventa il luogo elettivo per segregare chi ha sbagliato, al fine di garantire al massimo la sicurezza collettiva».

Avvocato troppo presente in giornali e tv: cosa rischia. Carlos Arija Garcia su laleggepertutti.it l'11 Marzo 2021. Per la Cassazione, la sovraesposizione mediatica può comportare la sospensione dall’esercizio della professione. Il precedente di Avetrana. «Vuoi fare l’avvocato o vuoi fare lo showman, l’opinionista, il “tuttologo” in tv o sui giornali»? È questa la domanda che i legali onnipresenti nelle trasmissioni televisive o sugli articoli dei quotidiani rischiano di sentirsi fare se non pongono un limite alla loro esposizione mediatica. E siccome il troppo stroppia, la Cassazione ha deciso che l’avvocato troppo presente in giornali e tv rischia di essere sospeso dall’esercizio della professione.

Avvocato sospeso per troppe apparizioni in tv. È successo di recente ad una legale a cui il Consiglio dell’Ordine competente ha impedito di esercitare per quattro mesi. La sua «colpa»? Secondo la Suprema Corte, sarebbe venuta meno nei rapporti con la stampa «ai criteri di equilibrio e misura» nel rilasciare interviste nel rispetto dei doveri di segretezza e riservatezza, nonché per aver posto in essere condotte vietate per l’acquisizione della clientela e non aver mantenuto nei confronti di colleghi un comportamento ispirato a correttezza e lealtà. Certo, il caso esaminato dalla Cassazione era del tutto singolare. A detta del Consiglio nazionale forense, e secondo i documenti acquisiti, l’avvocato in questione avrebbe svelato ai media il contenuto dei processi a cui partecipava come difensore, sarebbe apparsa in alcuni programmi televisivi addirittura con le sembianze alterate per tentare di non farsi riconoscere come interprete di ruoli in processi inventati e, infine, si sarebbe anche improvvisata regista e sceneggiatrice: avrebbe arruolato un’attrice come figurante per farle fare in tv la parte naufraga salvata proprio dall’avvocato. Tutte illazioni e niente di dimostrabile, secondo la legale. Che vede nella sospensione una sanzione sproporzionata, visto che si trattava del primo procedimento disciplinare nei suoi confronti e che il tutto si sarebbe potuto risolvere con un avvertimento. La Cassazione, invece, al cartellino giallo ha preferito il rosso. Per quanto riguarda il procedimento disciplinare a carico degli avvocati, infatti, la determinazione della sanzione adeguata costituisce tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, come stabilito dalle Sezioni Unite. La censura sulla valutazione del giudice di merito, di conseguenza, diventa inammissibile.

Avvocati e abuso dei media: il precedente di Avetrana. Non è la prima volta che gli avvocati vengono richiamati all’ordine per la sovraesposizione mediatica. Era successo nel 2010 in occasione del delitto di Avetrana in cui fu uccisa la quindicenne Sara Scazzi, omicidio per il quale sono state condannate in via definitiva all’ergastolo la cugina e la zia della vittima. Per i difensori di una delle imputate fu aperto un procedimento disciplinare dall’Ordine degli avvocati di Taranto, infastidito dalle loro continue apparizioni in televisione e sui giornali e dalla «troppa disinvoltura» nel cercare un cliente che garantisce maggiore visibilità. L’Ordine volle anche indagare su presunte partecipazioni in tv dietro pagamento. L’impressione è che fossero stati superati i limiti dei doveri deontologici sia in relazione all’inchiesta sia per l’atteggiamento troppo aggressivo tenuto durante le trasmissioni televisive.

Avvocati e media: il Codice di deontologia. Il Codice di deontologia forense vieta all’avvocato di «offrire senza esserne richiesto una prestazione rivolta a una persona determinata per uno specifico affare». Inoltre, non è possibile chiedere interviste e farsi pubblicità. Non si possono nemmeno convocare conferenze stampa «fatte salve le esigenze di difesa del cliente». In caso di contestazione dell’addebito, l’avvocato viene invitato a rendere dei chiarimenti e una memoria difensiva. Dopo di che, si aprono due strade: quella dell’archiviazione o quella del procedimento disciplinare. Che può concludersi con l’avvertimento, la censura, la sospensione o cancellazione dall’albo oppure con la definitiva radiazione. Ai tempi del delitto di Avetrana, in un’intervista al quotidiano La Stampa, il professor Natale Fusaro, docente di criminologia all’Università La Sapienza, avvocato penalista ed esperto di questioni di deontologia, fece notare che «è vietato qualsiasi comportamento, elogio della propria persona e capacità professionale che dia un vantaggio a scapito degli altri. L’avvocato – concludeva Fusaro – dovrebbe limitarsi a rendere informazioni sulla linea difensiva cercando di evidenziare quali siano le ragioni del proprio assistito». Il tutto, mantenendo «equilibrio e misura nel rilasciare interviste nel rispetto dei doveri di discrezione e riservatezza».

QUANDO LA STAMPA UCCIDE. Giovanni Terzi per "Libero quotidiano" il 10 marzo 2021. Ho il ricordo netto di mio padre, Antonio Terzi direttore di Gente negli anni Settanta, che raccontava sgomento, in famiglia, quello che stava accadendo al nostro Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Leone venne vilipeso e fatto oggetto di attacchi personali da Camilla Cederna insieme al gruppo dell' Espresso; mio padre non li amava particolarmente. Già qualche anno prima, sempre Camilla Cederna, aveva attaccato Luigi Calabresi, il commissario della polizia ucciso a Milano in via Cherubini davanti a casa, e subito dopo toccò al Presidente "galantuomo", così era solito chiamarlo mio padre. «Vi ho rovinato, dovete perdonarmi». Con queste parole inizia a raccontarmi Giancarlo Leone, figlio dell' ex Presidente, per rappresentare lo stato d' animo del padre in quegli anni. Giancarlo Leone, giornalista professionista dal 1977 già direttore di Rai 1 oltre che, dal 2006 al 2011 vice direttore generale del servizio pubblico radiotelevisivo italiano, ricorda con emozione quegli anni in cui il linciaggio del padre avveniva quotidianamente sulla stampa italiana. «Avevo in quegli anni il doppio ruolo di figlio e di giornalista. Ero il corrispondente a Roma del giornale Il Piccolo di Trieste e vivevo nella sala stampa San Silvestro dove, naturalmente, arrivavano tutte le veline dal Parlamento».

E come fu questo doppio ruolo?

«Doloroso. Mio padre soffriva profondamente, si sentiva responsabile nei nostri confronti ed iniziò ad avere una grande depressione che ha sempre cercato di mascherare. Però quella campagna stampa ebbe degli effetti sia psichici che fisici devastanti su di lui».

E lei insieme alla sua famiglia cosa cercavate di fare?

«Tutti noi avevamo un compito prioritario, far sentire a mio padre il nostro amore e la nostra presenza; vede quello che accadde fu devastante per tanti motivi ...».

Mi dica ...

«Prima di tutto era falso. In secondo luogo non apparteneva al modo di essere di mio padre che non era un uomo cinico capace, come fecero in seguito Pertini e Cossiga, di usare la comunicazione in modo diverso, meno istituzionale. Mio padre, come si direbbe oggi, era un tecnico ...».

Pensare che il Presidente Giovanni Leone fosse stato un tecnico e non un politico fa riflettere. Perché dice questo?

«Non ha mai fatto parte organica dell' establishment politico. È stato Presidente della Camera e poi Presidente del Consiglio, prima di essere eletto a capo dello Stato; mio padre ha sempre servito le istituzioni e non i partiti».

Effettivamente il professor Giovanni Leone è sempre stato un giurista esterno alla partitocrazia ed estraneo ai "giochi conciliari" di quel periodo del compromesso storico. Non gli venne, proprio per questo, mai perdonato di essere stato votato, come Presidente della Repubblica, da una maggioranza che conteneva anche l' allora MSI. Così partì la macchina del fango. Un po' come adesso?

«In realtà è profondamente diverso. Nel caso di mio padre la "macchina del fango" partì con una tenaglia giornalistico-politico. Mio padre non ebbe mai a che fare con la magistratura come spesso accade, invece, ai giorni nostri. Il tutto nacque negli anni Settanta e riguardava la fornitura degli aerei Lockheed in Italia all' aeronautica militare. Lo scandalo della corruzione politico-militare della Lockheed si trasformò in un processo al sistema di governo che dal dopoguerra aveva come principale riferimento la DC».

In cui naturalmente suo padre nulla c' entrava ...

«Nella maniera più assoluta. C' era un furore ideologico che divenne sempre più massiccio fino a che mio padre non si dimise, unico Presidente della Repubblica ad averlo fatto. Rimane a me impresso nella memoria il discorso che mio padre fece il giorno delle dimissioni "Sono certo che la verità finirà pei illuminare presente e passato e sconfessare un metodo che, se mettesse radici, diventerebbe strumento fin troppo comodo per determinare la sorte degli uomini e le vicende della politica. A voi ed al nostro Paese auguro progresso e giustizia nel vivere civile"».

Ma oltre a questo passo del discorso che è stato premonitore su un metodo politico per distruggere un avversario, la delazione, c' è ne è un altro che personalmente mi ha molto colpito ed è quando suo padre disse: "Credo tuttavia che oggi abbia io il dovere di dirvi - e voi, come cittadini italiani, abbiate il diritto di essere da me rassicurati - che per sei anni e mezzo avete avuto come presidente della Repubblica un uomo onesto, che ritiene d' aver servito il Paese con correttezza costituzionale e dignità morale". Suo padre era davvero preoccupato di non essere degno di rappresentare lo Stato italiano?

«Mio padre nel 1947 fu un giovane costituente; ossia diede il suo contributo al nascere della Carta costituzionale firmata da Enrico De Nicola ed è a quella carta che si ispirò quotidianamente in ogni suo comportamento».

Voi faceste causa al gruppo Espresso?

«Noi figli sì. La cosiddetta "inchiesta dell' Espresso", non fu altro che una campagna diffamatoria conclusasi con il riconoscimento dell' estrema correttezza istituzionale di mio padre. Camilla Cederna dovette ammettere che le sue fonti non erano provate e soprattutto erano deviate».

La Cederna chiese scusa ?

«Mai».

Perché secondo lei?

«Non lo so. L' unica cosa che riuscì a dire che si era ispirata alle agenzie di stampa OP di Mino Pecorelli che, all' epoca, riusciva a fare uscire notizie assolutamente inventate come quella che mio fratello andava a caccia in elicottero».

Suo padre però fu completamente riabilitato?

«Questo sì. Però mi creda che dalle dimissioni mio padre non fu più lo stesso. Anche dopo i festeggiamenti dei suoi novant' anni a Palazzo Giustiniani in sala Zuccari nel 2008, davanti al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e alle più alte cariche istituzionali, alla fine tornò profondo il suo dolore».

In quella occasione però a restituire "l' onore" al Presidente Leone furono anche Marco Pannella ed Emma Bonino che, come loro stessi hanno riconosciuto, avevano approvato, sbagliando, le critiche e le polemiche nei confronti di suo padre. Non bastò?

«Purtroppo no. Anche Francesco De Martino con un messaggio sottolineò la correttezza di ogni attività istituzionale di mio padre e come fossero infondate le accuse mosse nei suoi confronti. Purtroppo il danno era già stato fatto: irreparabile».

Lei ha sofferto per tutto questo?

«La sofferenza era legata al martirio vissuto da mio papà».

Lei nella sua carriera si è occupato sia di informazione, da giornalista, che di comunicazione, anche come dirigente Rai. Come è cambiato il servizio pubblico negli ultimi anni?

«È cambiata la comunicazione completamente. Il web ed i social hanno disintermediato il processo delle notizie dando grande democraticità da una parte ma volgarizzando e semplificando il linguaggio dall’altra. La vera scommessa sarà proprio nel fatto di riuscire a ricostruire qualità nella informazione anche sul web».

Come secondo lei?

«Un riferimento deve essere il New York Times che è riuscito a trasformarsi sul web. L’informazione deve tornare ad essere una impresa con dei costi perché di qualità».

E la Rai?

«Io credo che se si riuscirà a costruire una fondazione, purtroppo mancata dal governo Renzi, con personalità di altissimo livello capaci di individuare il perimetro dell’offerta ebbene questo consentirebbe alla Rai di mantenere una posizione centrale nel panorama televisivo multimediale».

In tutto questo racconto della sua vita che importanza ha avuto sua madre?

«Mia madre, che oggi ha novantatré anni, è stata il baricentro di tutto. La sua moralità ha generato in me un rapporto altissimo con le donne. Posso dire che prima di trovare una persona che potesse essere all’altezza per fare con me una famiglia ho impiegato cinquant’anni. Ma il tempo mi sta dando ragione visto che siamo ancora felici insieme».

L’arresto diventa spettacolo. Penalisti infuriati: «Così si alimenta la gogna». Omicidio di Faenza, la polizia filma il momento dell'arresto e il Resto del Carlino pubblica il video. Ma l'Unione Camere Penali non ci sta: «Se è vero che la cronaca è un diritto, non lo sono né lo possono diventare la curiosità o la sete di vendetta». di Valentina Stella su Il Dubbio domenica 7 marzo 2021. Se negli Stati Uniti sono abituati alla walk of shame delle persone tratte in arresto costrette dalla polizia a fare la passerella dinanzi alla folla di giornalisti, qui in Italia abbiamo i video delle forze dell’ordine a celebrare la camminata della vergogna, come se la vicenda di Enzo Tortora non ci avesse insegnato nulla. Il caso in questione di oggi riguarda il video della Polizia di Stato pubblicato sul sito del Resto del Carlino: 90 secondi di auto-esaltazione che riprendono prima il convoglio di macchine degli agenti in autostrada e poi l’esecuzione dell’ordine di custodia cautelare nei confronti dei due indiziati – Claudio Nanni e Pierluigi Barbieri – rispettivamente presunti mandante e  esecutore materiale dell’omicidio di Ilenia Fabbri, meglio noto alle cronache come l’omicidio di Faenza. Tale episodio viene ora fortemente stigmatizzato dall’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane con un documento di cui vi proponiamo ampi stralci: «Questa volta le telecamere sono addirittura entrate nelle abitazioni degli indagati, riprendendo tutte le fasi in cui costoro venivano privati della loro libertà, mentre indossavano le manette, in attesa di ogni giudizio, attraverso una profanazione non certamente mitigata dall’oscurazione postuma del loro viso». Il fatto su cui si indaga è sicuramente grave, «ma il diritto  di cronaca – scrivono i penalisti – non può spingersi fino alla divulgazione al pubblico delle immagini integrali dell’arresto dei due indagati, coperti per altro dal presidio della presunzione di innocenza». Ma cosa prevede la legge in merito? L’Osservatorio lo spiega chiaramente:«La legge vieta la pubblicazione dell’immagine di una persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova con le manette ai polsi ovvero soggetta ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta e punisce chiunque contravvenga a tale divieto con sanzioni di carattere penale e disciplinare. Salve le sanzioni previste dalla legge penale, la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lettera b) costituisce infatti illecito disciplinare a carico di esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato e di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate nel comma 1 il pubblico ministero informa l’organo titolare del potere disciplinare». Pertanto è evidente che «tutelare con maggior cura possibile la dignità delle persone sottoposte ad indagini, o comunque coinvolte in un procedimento penale, è dunque un preciso dovere dello Stato, tanto più qualora la persona versi in condizioni di particolare vulnerabilità; eppure questo principio, sancito dalle direttive europee, oltre che dalla legge italiana, viene continuamente vituperato». Come sappiamo molte  persone sono state sbattute sulle prime pagine dei giornali e la loro immagine è stata distrutta, «eppure, ad oggi, non risultano segnalazioni degli Uffici di Procura e tantomeno iniziative disciplinari a fronte della non infrequente pubblicazione di foto e riprese di arrestati in manette, magari con l’ipocrita accorgimento delle manette “pixelate” e dunque, paradossalmente, ancor più sottolineate». La conclusione è che «se è vero che la cronaca è un diritto, non lo sono né lo possono diventare la curiosità o la sete di vendetta. Gli strumenti per contenere queste distorsioni sono sempre stati in un cassetto che purtroppo nessuno vuole aprire. Sarà impegno dei penalisti italiani ricercare quella chiave a tutela delle garanzie costituzionali che si è scelto di difendere».

Giudici contro giornali. Giudici contro giornali, Area bacchetta la stampa: basta con le pressioni. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Marzo 2021. Il reato viene derubricato da volontario a preterintenzionale e l’uomo, accusato di aver ucciso la moglie, viene messo agli arresti domiciliari dopo due anni trascorsi in un carcere. La storia diventa quindi un caso per la stampa cittadina e per l’opinione pubblica. Ci sono proteste e un sit-in davanti al tribunale. Si grida al mostro scarcerato senza fermarsi a riflettere su norme, diritti, garantismo. Certo, il reato è grave, la storia molto triste e il femminicidio è un fenomeno odioso e preoccupante, ma ogni caso merita di essere valutato singolarmente e la giustizia non deve mirare alla vendetta. Ma la situazione in città diventa tale da far intervenire una parte della magistratura che pubblicamente chiede di evitare pressioni mediatiche sui giudici. Cosa succede? Viene da chiederselo ricordando gli anni delle inchieste mediatiche, delle sentenze emesse su giornali e tv prima ancora di arrivare davanti ai giudici, di indagini che si sono concluse con un nulla di fatto dopo essere state inizialmente sbandierate come se contenessero verità assolute e ignorando le conseguenze, spesso devastanti, sulle vite di chi ne veniva travolto. Cosa succede? L’interrogativo ritorna. Forse ci si sta rendendo conto che è il garantismo il principio da seguire, che gridare subito al mostro o al colpevole è sbagliato, che magistratura e stampa dovrebbero rimanere ciascuna nei propri ambiti senza cercare l’una la complicità dell’altra, che i giudici dovrebbero essere liberi e autonomi tanto rispetto a logiche di corrente e di potere quanto a pressioni mediatiche. Dopo la notizia di Repubblica sulla scarcerazione dell’uomo accusato di omicidio e l’onda mediatica che ne è scaturita, i magistrati di AreaDg, la corrente di sinistra della magistratura, hanno preso posizione: «Fuori alle porte del Tribunale di Napoli è in atto un sit-in di protesta per una decisione cautelare, assunta nel processo per l’omicidio di Fortuna Bellisario, che ha fatto discutere. Crediamo che, in un momento come questo, siano necessari tutto il rispetto e la considerazione possibili per le ragioni delle persone che manifestano ma anche una ferma richiesta di rispetto per le decisioni dei giudici, sia di chi si è già pronunciato, sia di coloro che saranno chiamati a esprimersi nelle successive fasi del giudizio cautelare e di merito». «Ogni spiegazione istituzionale del senso e del significato dei provvedimenti giudiziari – prosegue la nota – va incoraggiata, per garantire trasparenza e comprensibilità dell’azione giudiziaria ma, come anche il Capo dello Stato ha avuto modo di precisare nella comunicazione al Csm del 25 settembre 2018, ciò non significa che le decisioni giudiziarie debbano orientarsi secondo le pressioni mediatiche né che si debba intervenire per difendere pubblicamente le decisioni assunte. Mentre è opportuna una adeguata comunicazione istituzionale, scevra da commenti e valutazioni. La “serenità” delle decisioni è e deve restare un valore nell’ambito di un sistema garantito da più fasi e gradi di giudizio. Siamo certi che tutti, anche i titolari del diritto di cronaca e di informazione, concorderanno su questo». Ma qual è il caso che ha ispirato questa presa di posizione? Vincenzo Lo Presto ha 43 anni, nessun precedente penale ma una gravissima accusa per la quale è stato di recente condannato in primo grado, con rito abbreviato, a dieci anni di reclusione: è accusato di aver aggredito la moglie con la stampella con cui si aiutava a camminare avendo seri problemi di deambulazione e di averne causato la morte. La donna, Fortuna Bellisario, morì il 7 marzo 2019. Lo Presto ha ammesso di averla picchiata in passato ma sulla responsabilità per la morte della moglie il processo, secondo il suo difensore (avvocato Sergio Simpatico), è tutt’altro che chiuso. Confrontando i risultati della perizia autoptica sul corpo della donna e dati di studi scientifici di livello internazionale, la difesa è pronta a sostenere il processo in appello. Intanto la scarcerazione di Lo Presto ha sollevato un caso mediatico al punto che la Procura si è attivata per chiedere che l’uomo torni in cella, nonostante sia costretto su una sedia a rotelle e per il giudice che lo ha condannato non sia da considerarsi un soggetto pericoloso né in grado di fuggire o reiterare il reato.

"Dietro c'è un disegno preciso". “Povero giornalismo, ridotto a fare copia incolla delle veline delle procure”, intervista a Pierluigi Battista. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Novembre 2020. Politici innocenti, assolti, archiviati. La lista nera pubblicata lunedì sul Corriere della sera da Pierluigi Battista – una vita in posizioni di vertice a La Stampa, Panorama, Corsera – fa discutere, perché fa male. Vorremmo dire che interroga le coscienze, ma sarebbe illusorio. Interroga la coscienza di qualcuno; per gli altri, quella lunga lista di non colpevoli perde interesse, smentisce il pregiudizio dei pregiudicanti. L’ultimo in termini cronologici è Antonio Bassolino, che ha vinto 19 processi conclusi con «il fatto non sussiste». Ma dal tritacarne della giustizia nella Seconda Repubblica sono usciti, più o meno malconci, Filippo Penati, Pd, l’ex governatore del Piemonte Cota (Lega), l’ex governatore del Lazio Francesco Storace (centrodestra), l’ex sindaco di Terni Leopoldo Di Girolamo (Pd), l’ex sindaco di Parma Pietro Vignali (civico vicino a Forza Italia). «Assolti Clemente Mastella e la moglie Sandra Lonardo, sottoposta peraltro a forti misure restrittive. Neanche assolto, ma addirittura archiviato prima del processo Stefano Graziano, consigliere regionale del Pd. Assolto Nicola Cosentino, ex re campano di Forza Italia». La lista prosegue con decine di nomi la cui storia invoca una giustizia giusta.

Si è dimesso Gaudio, appena nominato.

«E io dico: bisognerebbe scandire un bel “Chi se ne frega”. Aveva l’iscrizione nel registro degli indagati per una accusa che tra l’altro sembra prossima a decadere? Ma chissenefrega. Impariamo a dirlo, quando ci troviamo davanti al nulla. Gaudio non so se sarebbe stato un buon commissario alla sanità, so che essere indagato non può essere oggetto di condanna pubblica preventiva. Ha qualche condanna passata in giudicato? No. E allora di cosa parliamo?»

Da dove parte, Battista, questa crociata contro la politica?

«Con Mani Pulite. Perché malgrado le correzioni in senso garantista del codice penale, dovute alla riforma di Giandomenico Pisapia, si cominciò a pensare che la semplice iscrizione nel registro degli indagati fosse un atto di colpevolezza. Bastava entrare nel registro degli indagati per doversi dimettere, scusare, scomparire».

L’avviso di garanzia come lettera scarlatta.

«E infatti ci fu una catena di dimissioni, immediate. Nel corso degli anni, tutte le persone che magari erano indagate ma poi nemmeno portate a processo, perché non c’erano gli elementi, nei media venne tirato fuori il termine di “coinvolto”. Scrivere: “Nell’inchiesta è coinvolto Tizio” ne comportava la fine della carriera politica, anche se poi penalmente erano fatti irrilevanti o, come spesso è stato, del tutto inesistenti».

Quindi fu un’offensiva mediatica, ad avvelenare il clima?

«Dall’offensiva semantica nel linguaggio giornalistico possiamo rilevare il momento in cui si crea quel clima avvelenato. Tra il 1992 e il 1993 nei giornali e nelle televisioni si usa “coinvolto”: si dice “spunta il nome di Caio” per dire che seppur marginalmente citato in una conversazione, qualcosa c’è dietro a quel nome. Non la notizia di un fatto, ma di un sospetto».

Nascono le gazzette delle Procure. Oggi (ieri per chi legge, ndr) abbiamo visto qualcuno che infatti si è inalberato, per quella tua lista di errori giudiziari e di campagne diffamatorie.

«Ci sono alcuni che hanno costruito una fortuna su quelle campagne. Hanno cavalcato l’odio sociale dipingendo i politici come Diavoli del male e i magistrati come Angeli del bene. Hanno eretto una barriera manichea, da scontro frontale, diventando acritici fotocopiatori di veline delle Procure e indicando come nemici coloro che invece giustamente si erano dichiarati innocenti o, peggio ancora, garantisti: cioè disposti a sostenere il diritto del dubbio fino a condanna definitiva».

Questo antigiornalismo ha un disegno?

«Intanto è un disegno culturale. Una società basata sul sospetto che incentiva il controllo e frena le libertà. La dipendenza dalle fonti delle Procure è il suicidio del giornalismo».

Una volta c’era il segreto istruttorio.

«Ma si è trovato il modo di aggirarlo. Perché i magistrati fanno delle ordinanze di custodia cautelare e dentro l’ordinanza, per dimostrare la fondatezza della loro richiesta, ci mettono come documentazione migliaia di pagine di intercettazioni, che a quel punto non sono più coperte da segreto. E le passano ai giornali. Talvolta con un post-it».

Cosa indica il post-it?

«Gli stralci da copiare. Quei passaggi più rilevanti di altri ai fini mediatici, magari dove l’intercettato usa parole volgari, o fa riferimenti sopra le righe, si prende la libertà di una battuta. Perché quella roba vende, anche se è solo folclore. Il colore poi a processo si rivela insussistente e l’imputato ne esce pulito, ma intanto il processo mediatico glielo hanno fatto e lui ha perso il posto, in molti casi la famiglia, la salute. E talvolta si è tolto anche la vita».

Scarsa cultura garantista o poca professionalità di certi giornalisti?

«Diciamo le cose come stanno: ci sono degli analfabeti giudiziari, a partire dal Fatto Quotidiano. Altrimenti non si giustifica quello che si scrive, perché non voglio credere alla malafede di certi colleghi. Non sanno la differenza tra indagato e imputato, tra imputato e indagato, non conoscono la Costituzione e figuriamoci la procedura penale. Mettono tutto nel calderone e servono in tazza fumante».

L’interferenza tra magistratura e politica ha stravolto la natura della sinistra. Penso soprattutto al Pd, che ha sempre preso le distanze dagli amministratori indagati. Nel Pds c’era una regola nello statuto, all’arrivo dell’avviso di garanzia l’indagato doveva immediatamente autosospendersi dal partito e dagli incarichi.

«Il Pd ha sempre abbandonato i suoi, appena la magistratura faceva un passo. Un caso scandaloso fu quello di Del Turco, leader sindacale, uomo colto, un riformista. Venne arrestato di notte come fosse un malfattore e additato al pubblico ludibrio dal Procuratore Trifuoggi, che disse di avere in mano delle prove schiaccianti. Il Pd tagliò i ponti, lo disconobbe. Ma quelle prove erano talmente schiaccianti che la Procura chiese tre volte la proroga dei termini perché non riuscivano a trovare niente. E alla fine venne condannato per una sola delle accuse, perché non si è mai trovata la tangente di cui si parlava».

Il giornalismo d’inchiesta insegna: “follow the money”.

«E invece i soldi sono i grandi assenti dai processi. Perché le tangenti indicate nelle roboanti conferenze stampa delle Procure poi non si materializzano. Malgrado le intercettazioni, i sequestri dei Pc, le indagini approfondite della Guardia di Finanza, spesso non si trovano le tangenti e le accuse cadono, senza mai nessuno che si scusi. Da due anni vedo un grande impiego di mezzi per trovare la tangente russa che sarebbe andata alla Lega, e non la si trova».

Le intercettazioni non andrebbero mai usate?

«Le intercettazioni portano quasi sempre fuori strada, perché come dicevo puntano al colore. La legge ne impedirebbe la pubblicazione ma si è trovato subito il modo di aggirarla, citando gli atti. Il problema è di cultura giuridica. Il pool Mani Pulite aveva metodi brutali, usava la carcerazione preventiva, ma puntava a trovare le tangenti e a ripercorrerne il percorso. Oggi si montano processi sulle parole, senza preoccuparsi troppo di trovare il denaro».

Dovrebbe esserci un maggior autocontrollo, un richiamo dell’ordine dei giornalisti?

«Bisognerebbe imparare a fare questo mestiere. L’Ordine è un orpello fascista che negli altri Paesi democratici occidentali non esiste e non potrebbe esistere. Io lo abolirei».

Le attenzioni selettive seguono piste prestabilite. Figure-chiave. Craxi, Berlusconi, oggi Renzi…

«Questa indagine sulla Fondazione Open mi sembra avere un obiettivo curioso: la magistratura vuole definire che cosa è un partito, cos’è una corrente, cos’è una area di influenza. Si sono incaricati di un compito ambizioso e forse un po’ fuori dai loro confini».

Anche sugli imprenditori si potrebbero fare liste di nomi massacrati senza colpa.

«Penso a Silvio Scaglia, ma sì: la lista anche in questo caso potrebbe essere lunghissima. Alla famiglia Riva le aziende sono state espropriate, a fronte di niente. Seguo la vicenda di Alfredo Romeo. E adesso vediamo dove porta il filone Autostrade. Imprenditori e manager pubblici chiedono sempre più spesso lo scudo penale, in Italia. E solo in Italia. Perché da noi se non hai garanzie straordinarie non puoi lavorare, hai la certezza sin dall’inizio di finire tra gli ingranaggi di questo meccanismo del fango».

Come lavorano i magistrati. Per la sentenza ci vogliono due anni, ma la gogna scatta subito. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Febbraio 2021. I tempi dei processi sono diventati più lunghi. Colpa del Covid si dirà. Sta di fatto che la giustizia diventa sempre più lenta, e quindi sempre meno giusta. Nel settore penale i tempi dei procedimenti sono assai variabili, dipendono dalle fasi in cui si trova il processo, dal numero di imputati, dalla complessità delle fonti di prova da analizzare. Tuttavia, secondo l’ultimo report sulla giustizia napoletana presentato in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, la metà dei processi definiti nel 2020 in primo grado, dinanzi al tribunale collegiale, ha avuto una durata superiore ai 2 anni, per cui su 558 processi definiti 242 hanno avuto un tempo superiore ai due anni, mentre solo 129 si sono risolti in 6 mesi e appena 73 entro l’anno, mentre per i dibattimenti dinanzi al giudice monocratico il bilancio del 2020 ha fatto registrare, su 10.310 processi definiti, 4.229 con durata superiore ai due anni e solo 1.696 chiusi entro i sei mesi. Meno biblici i tempi della definizione delle udienze preliminari e dei riti abbreviati, il che appare anche scontato visto che si tratta di una tappa del processo che, lo dice anche il nome, prevede un’accelerazione sui tempi del processo evitando di ascoltare testimoni in aula e basando la valutazione sui soli atti del fascicolo. Ebbene, nel 2020 quasi tutte le udienze davanti a gip/gup sono state definite in tempi rapidi, per cui dei 19.995 procedimenti ben 17.346 sono stati definiti entro sei mesi. Quanto alle indagini, i tempi variano a seconda della complessità dei casi e della tipologia dei reati contestati: nell’ultimo anno si sono contati 6.725 fascicoli che si trascinano da oltre due anni e 18.934 definiti in sei mesi su un totale di 35.896 casi finiti sotto la lente della Procura di Napoli. Il vero collo di bottiglia della giustizia napoletana resta, tuttavia, la Corte di Appello dove, nonostante gli sforzi organizzativi per compensare le croniche carenze di organico tra il personale della magistratura e quello amministrativo, i tempi di definizione non sempre sono stati inferiori ai due anni e la prescrizione è intervenuta nel quasi 40% dei casi, quindi quasi nella metà dei processi approdati in secondo grado. Che giustizia è questa? Viene da chiederselo: chi è vittima aspetta una giustizia che arriva molto in tardo o addirittura non arriverà mai e chi è innocente deve aspettare troppi anni prima di vedere riabilitate la propria immagine, la propria onestà, la propria professionalità. Basta leggere le cronache di questi ultimi giorni per capire di cosa parliamo: l’ex parlamentare antimafia Lorenzo Diana è stato scagionato, con inchiesta archiviata, dopo 1991 giorni di attesa; l’avvocato penalista Raffaele Chiummariello è stato scagionato, con caso archiviato, dopo più di dieci anni di indagini; il regista e professore dell’Accademia di Belle Arti Stefano Incerti è stato scagionato per il caso di abusi sessuali ai danni di studentessa che un anno fa aveva fatto nascere l’inchiesta della Procura di Napoli e sollevato un gran polverone mediatico con tanto di gogna social (gogna che per il prof ora continua visto che si sta indagando sull’accusa di un’altra studentessa che dopo il clamore del primo filone investigativo ha raccontato di essere stata palpeggiata all’uscita di un’aula nel 2015). E proprio la gogna social e mediatica è l’altro risvolto di indagini e processi subito spettacolarizzati ma definiti poi in tempi tutt’altro che ragionevoli. Infine c’è la prescrizione, quella su cui il presidente della Corte d’Appello Giuseppe De Carolis di Prossedi si è soffermato analizzando i dati del bilancio giudiziario del 2020: «È una sconfitta per la giustizia e determina la sostanziale impunità per tutti i reati cosiddetti minori, tra cui anche alcuni particolarmente allarmanti come le truffe agli anziani o le lesioni personali. Ma d’altra parte in assenza della prescrizione la pendenza inevitabilmente salirebbe e aumenterebbe la durata dei processi, con la conseguenza che l’imputato eventualmente innocente rimarrebbe sotto processo per un tempo lunghissimo e anche un’eventuale condanna che giungesse a molti anni di distanza dai fatti rischierebbe di essere inutile». 

Napoli 1994, l’anno in cui l’avviso di garanzia divenne condanna. Francesco Damato su Il Dubbio il 23 gennaio 2021. La seconda Repubblica era appena nata e Silvio Berlusconi ricette l’avviso dell’indagine mezzo stampa e in pieno G8. Seguì a breve la crisi di governo. Lorenzo Cesa ha fatto bene ad esprimere tutta la sua incrollabile fiducia nella magistratura, pur con tutto il tempo che questa, come al solito, si prenderà eventualmente per scagionarlo, magari senza neppure rinviarlo a giudizio e chiedergli scusa del fango già cadutogli addosso con la notizia dell’avviso di garanzia e perquisizione domiciliare. Tempestivamente dimessosi da segretario dell’Udc già di Pier Ferdinando Casini sollevandosi – sospetto e in qualche modo spero dall’onere, imbarazzo e quant’altro dei contatti con Palazzo Chigi e dintorni per l’allargamento della maggioranza ai “volenterosi”, egli ha dalla sua per il buon esito della vicenda giudiziaria esplosagli fra i piedi i precedenti del famoso magistrato che se ne occupa: il mancato ministro della Giustizia Nicola Gratteri. Di cui l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano negò nel 2014 la nomina caldamente propostagli dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. Le retate che ogni tanto scattano per iniziativa di Gratteri sono ormai famose, oltre che per il clamore mediatico, per gli indagati e imputati che escono dalle fila strada facendo, prosciolti o assolti. L’ultimo è l’ex presidente della regione calabrese Mario Oliviero, detronizzato a suo tempo proprio per ragioni giudiziarie e infine assolto dall’accusa di corruzione, ma dopo che per le sue disavventure sono cambiati ai danni del proprio partito, il Pd, pur lesto a scaricarlo, e a vantaggio del centrodestra gli equilibri elettorali e politici della Calabria. Cesa ha insomma buone probabilità almeno statistiche di cavarsela anche adesso, come ai tempi della Tangentopoli della cosiddetta prima Repubblica e di altri problemi avuti nella seconda o terza. Pure l’associazione a delinquere di stampo o modalità mafiosa di cui è sospettato adesso l’ex segretario dell’Udc e mancato ministro dell’Agricoltura, secondo le indiscrezioni raccolte sulla Stampa da Flavia Perina, già deputata della destra di Gianfranco Fini, potrebbe sfiorire nell’inconveniente, lamentato dalla collega di partito e senatrice Paola Binetti, dei segretari di formazioni politiche costretti per doveri d’ufficio a frequentare “gente d’ogni tipo”. Resterà comunque a carico anche di Cesa, come in passato di politici di ogni colore, pur se prevalentemente di destra e dintorni, almeno nella accezione della sinistra depositaria delle migliori virtù, sotto l’abito o il soprabito della “diversità” vantata dalla buonanima di Enrico Berlinguer e dei suoi esegeti, la pratica purtroppo ricorrente della giustizia “ad orologeria”. A proposito della quale il meno che si possa dire, volendone avere rispetto e non correre il rischio di guai di ogni tipo, è che certa magistratura è sfortunata per la frequente coincidenza di retate, arresti e avvisi di garanzia con passaggi politici di una certa importanza. Nel 1989 un orologio di puntualità elvetica volle che l’esplosione di Tangentopoli con l’arresto del socialista Mario Chiesa in flagranza di reato, come teneva sempre a sottolineare l’allora capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli, avvenisse nelle prime battute di una campagna elettorale che sembrava destinata, secondo i progetti dei vertici politici della maggioranza di quel tempo, nel ritorno di Bettino Craxi a Palazzo Chigi e nell’ascesa al Quirinale di Arnaldo Forlani. All’inizio della nuova legislatura lo stesso o un altro orologio di uguale puntualità volle che i fascicoli giudiziari degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli arrivassero e fossero sfogliati nella giunta delle autorizzazioni a procedere della Camera, con tutte le fughe di notizie del caso, mentre i partiti della maggioranza confermata dalle urne, sia pure con margini ridotti, si apprestavano a formalizzare la designazione del leader socialista alla guida del nuovo governo. Cui il nuovo capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro sbarrò la strada dopo avere inusualmente allargato le consultazioni di rito a Borrelli ricavandone l’impressione, quanto meno, che Craxi stesse vicino al coinvolgimento in Tangentopoli, formalizzato tuttavia sei mesi dopo. Nel 1994, agli esordi della cosiddetta seconda Repubblica inaugurata a Palazzo Chigi da Silvio Berlusconi quello stesso orologio o un altro volle che gli umori antigovernativi di Umberto Bossi, incoraggiati al Quirinale da Scalfaro in persona, incrociassero le indagini della Procura di Milano per corruzione sul presidente del Consiglio, avvisato dell’inchiesta a mezzo stampa mentre presiedeva a Napoli un summit sulla malavita. Seguì a breve la crisi perseguita dall’ormai ex alleato leghista. Un’altra spinta ad una crisi in gestazione contro Berlusconi sarebbe arrivata nel 2011 dalla vicenda giudiziaria dei suoi personalissimi passatempi sessuali, così come la condanna definitiva per frode fiscale, in una sessione estiva della Corte di Cassazione, arrivò in tempo nel 2013 per indebolire le cosiddette larghe intese cui Berlusconi aveva appena contribuito col governo di Enrico Letta.

Quei pm che condannano a mezzo stampa e la politica ferma al ’92. Davide Varì su Il Dubbio il 23 gennaio 2021. Il problema non è (solo) Nicola Gratteri, ma una politica ferma al ’92 che cavalca le indagini o ne è terrorizzata…E’ ora di uscirne. Quella del procuratore Nicola Gratteri non è un’indagine a orologeria – non in questo caso – e non c’è alcun disegno delle procure per “prendere il potere”. Oltretutto dovremmo trovarci di fronte a “menti raffinatissime” e servirebbe una sottigliezza politica fuori dal comune per immaginare e portare avanti un piano del genere. Senza contare che mai come oggi la magistratura italiana è dilaniata, divisa in fazioni e in uno stato di guerra civile permanente: un ritratto ben rappresentato dalla drammatica istantanea del caso Palamara. Ma il fatto che non ci sia il “dolo” non vuol dire che non ci sia un’anomalia e uno slittamento delle regole di ingaggio da parte di alcune procure. E del resto la storia del nostro Paese è costellata di episodi del genere. È sufficiente fare un nome, Tangentopoli, per capire di cosa parliamo. Le indagini, gli arresti, le retate in diretta tv ordinate dal pool milanese non hanno semplicemente condizionato la politica ma l’hanno rasa al suolo; hanno smantellato la prima Repubblica permettendo la nascita di un nuovo sistema, di nuovi partiti, di nuovi leader e di un movimento che da allora in poi ha individuato nelle procure il centro da cui far partire il cambiamento politico del paese. Un filo rosso che lega le monetine del Raphael al Movimento 5Stelle arrivato in Parlamento con una narrazione panpenalista e populista. Insomma, l’indagine di Gratteri ci ha portato di nuovo dentro il conflitto tra politica e magistratura, un luogo molto familiare e domestico qui in Italia. Ma la via d’uscita di questo conflitto non è dentro le procure. O non solo. Una parte della responsabilità è dentro le segreterie dei partiti – o di quello che ne è rimasto – e non perché i politici non siano in grado di vigilare sull’onestà dei propri candidati e del proprio personale – il grado di corruzione di un politico rispecchia quello del paese, né più né meno – ma perché la politica e i partiti sono diventati talmente fragili da non essere più in grado di assorbire un semplice avviso di garanzia senza farsi travolgere e terremotare. Insomma, il potere delle procure non è altro che il frutto di un passaggio di consegne, una delega che nei primi anni ‘ 90 la politica ha firmato in bianco ai magistrati. Sarebbe ora che quella stessa politica ritrovi il coraggio e la forza di imporre il suo ruolo democratico e il rispetto della Costituzione per cui si è colpevoli solo dopo tre gradi di giudizio e non dopo una conferenza stampa di un PM.

Giuseppe Cricenti: «I pm stiano lontani da tv e giornali: così alimentano la gogna». Valentina Stella su Il Dubbio il 23 gennaio 2021. Giuseppe Cricenti, consigliere della Cassazione, interviene sulle polemiche dopo l’intervista al Corriere della Sera il procuratore Nicola Gratteri. Ieri in un’intervista al Corriere della Sera il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, rispondendo al giornalista che gli chiedeva come mai spesso le sue inchieste vengano ridimensionate, ha detto: «Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni» . Ne parliamo con Giuseppe Cricenti, magistrato, consigliere della Suprema Corte di Cassazione.

Come giudica questa affermazione?

«Mette giustamente in evidenza che ad accogliere le misure cautelari non è sempre il medesimo giudice, ma sono giudici diversi, il che dimostra che c’è un fondamento. Andrebbe tuttavia fatto il medesimo ragionamento anche per le assoluzioni, dove pure i giudici sono sempre diversi. Quanto alla previsione che la storia spiegherà il perché di quelle assoluzioni, non è chiaro a cosa si riferisca. I giudicati resistono alla storia: se invece si intende dire che emergeranno ragioni di assoluzione diverse da quelle processuali, allora mi pare una insinuazione scorretta».

Non c’è il rischio che i giudici che si troveranno a valutare inchieste di Gratteri possano perdere la dovuta serenità?

«I giudici non si fanno di certo condizionare da interviste. In generale, resta comunque un problema delicato: se un pm va continuamente in tv o rilascia sistematiche interviste sulle inchieste in corso, alimenta la tendenza a fare i processi mediatici, che già in Italia hanno raggiunto una rilevanza inaccettabile, ed a bollare di colpevolezza persone che poi, purtroppo a distanza di anni per la lentezza della giustizia, risulteranno assolte, ma che nell’immaginario collettivo rimangono impresse secondo l’immagine negativa divulgata a suo tempo».

Non sarebbe opportuno che l’Anm stigmatizzasse questa dichiarazione di Gratteri?

«Certo, se col dire che “la storia spiegherà queste situazioni” si intende dire che non sono state assoluzioni corrette processualmente, ma che invece sono state determinate da altro, allora si tratta di una allusione che getta discredito su chi è intervenuto in quelle decisioni, e sull’intera Magistratura: non mi pare deontologicamente corretto che un pm faccia allusioni sulle sentenze sfavorevoli».

Gratteri ha aggiunto "Io non faccio politica con le mie inchieste". È così?

«Certo, non fa politica in senso stretto, né mira a condizionare gli elettori o ad incidere sugli esiti elettorali, tanto meno a determinare governi o parlamenti. Ma il problema non è questo: è una questione politica, infatti, quella dei fondamenti dell’etica pubblica. Dovrebbero concorrervi sistemi normativi diversi, dalla religione, alla deontologia, al diritto nel suo complesso, alla stessa politica, che, a suo modo, è un sistema normativo anche esso. Invece, l’etica pubblica in Italia è in gran parte dettata dal diritto penale, ed all’uso che ne fanno alcune Procure. L’azione moralizzatrice delle Procure fornisce supporto alla politica militante, che se ne avvale per propagandare soluzioni penal- populistiche anche in questioni dove l’incriminazione potrebbe essere evitata. Non è un fenomeno esclusivamente italiano. Negli Stati Uniti è ben descritto da Jonathan Simon. In questo senso, alcuni pm, che si muovono con una certa attenzione al contesto, fanno certamente politica».

L’anno scorso, all’inaugurazione dell’anno giudiziario il pg Salvi disse: mai cercare nell’azione inquirente «il consenso della pubblica opinione». Secondo Lei Gratteri ha aderito a questa richiesta?

«Direi di no. Non c’è indagine che non sia accompagnata da interviste e comparse televisive, che non servono ad informare dell’accaduto: per quello bastano le conferenze stampa apposite. E spesso si va li a sostenere la bontà della propria azione davanti alla opinione pubblica. Io proporrei che per ogni inchiesta vi siano comunicati stampa in cui si tace il nome del pm che l’ha condotta e si diano solo le informazioni che sono di interesse pubblico. Non sarebbero violati né il diritto a fornire l’informazione né quello ad averla. Il nome del pm non è necessario, e vieterei a chi ha condotto una indagine di rilasciare interviste su quanto ha fatto, o peggio, di farne propaganda sui social».