Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

LA CULTURA

 

ED I MEDIA

 

SESTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Benefattori dell’Umanità.

I Nobel italiani.

Scienza ed Arte.

Il lato oscuro della Scienza.

"Il sapere è indispensabile ma non onnipotente".

L’Estinzione dei Dinosauri.

Il Computer.

Il Metaverso: avatar digitale.

WWW: navighi tu! Internet e Web. Browser e Motore di Ricerca.

L’E-Mail.

La Memoria: in byte.

Il "Taglia, copia, incolla" dell'informatica.

Gli Hackers.

L’Algocrazia.

Viaggio sulla Luna.

Viaggio su Marte.

Gli Ufo.

Il Triangolo delle Bermuda.

Il Corpo elettrico.

L’Informatica Quantistica ed i cristalli temporali.

I Fari marittimi.

Non dare niente per scontato.

Le Scoperte esemplari.

Elio Trenta ed il cambio automatico.

I Droni.

Dentro la Scatola Nera.

La Colt.

L’Occhio del Grande Fratello.

Godfrey Hardy. Apologia di un matematico.

Margherita Hack.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Cervello.

L’’intelligenza artificiale.

Entrare nei meandri della Mente.

La Memoria.

Le Emozioni.

Il Rumore.

La Pazzia.

Il Cute e la Cuteness. 

Il Gaslighting.

Come capire la verità.

Sesto senso e telepatia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ignoranza.

La meritocrazia.

La Scuola Comunista.

Inferno Scuola.

La Scuola di Sostegno: Una scuola speciale.

I prof da tastiera.

Università fallita.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mancinismo.

Le Superstizioni.

Geni e imperfetti.

Riso Amaro.

La Rivoluzione Sessuale.

L'Apocalisse.

Le Feste: chi non lavora, non fa l’amore.

Il Carnevale.

Il Pesce d’Aprile.

L’Uovo di Pasqua.

Ferragosto. Ferie d'agosto: Italia mia...non ti conosco.

La Parolaccia.

Parliamo del Culo.

L’altezza: mezza bellezza.

Il Linguaggio.

Il Silenzio e la Parola.

I Segreti.

La Punteggiatura.

Tradizione ed Abitudine.

La Saudade. La Nostalgia delle Origini.

L’Invidia.

Il Gossip.

La Reputazione.

Il Saluto.

La società della performance, ossia la buona impressione della prestazione.

Fortuna e spregiudicatezza dei Cattivi.

I Vigliacchi.

I “Coglioni”.

Il perdono.

Il Pianto.

L’Ipocrisia. 

L’Autocritica.

L'Individualismo.

La chiamavano Terza Età.

Gioventù del cazzo.

I Social.

L’ossessione del complotto.

Gli Amici.

Gli Influencer.

Privacy: la Privatezza.

La Nuova Ideologia.

I Radical Chic.

Wikipedia: censoria e comunista.

La Beat Generation.

La cultura è a sinistra.

Gli Ipocriti Sinistri.

"Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

Antifascisti, siete anticomunisti?

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Nullismo e Il Nichilismo.

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

La Cancel Culture.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Perché esiste il negazionismo.

L’Inglesismo.

Shock o choc?

Caduti “in” guerra o “di” guerra?

Kitsch. Ossia: Pseudo.

Che differenza c’è tra “facsimile” e “template”?

Così il web ha “ucciso” i libri classici.

Ladri di Cultura.

Falsi e Falsari.

La Bugia.

Il Film.

La Poesia.

Il Podcast.

L’UNESCO.

I Monuments Men.

L’Archeologia in bancarotta.

La Storia da conoscere.

Alle origini di Moby Dick.

Gli Intellettuali.

Narcisisti ed Egocentrici.

"Genio e Sregolatezza".

Le Stroncature.

La P2 Culturale.

Il Mestiere del Poeta e dello scrittore: sapere da terzi, conoscere in proprio e rimembrare.

"Solo i cretini non cambiano idea".

Il collezionismo.

I Tatuaggi.

La Moda.

Le Scarpe.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Ada Negri.

Albert Camus.

Alberto Arbasino.

Alberto Moravia e Carmen Llera Moravia.

Alberto e Piero Angela.

Alessandro Barbero.

Andrea Camilleri.

Andy Warhol.

Antonio Canova.

Antonio De Curtis detto Totò.

Antonio Dikele Distefano.

Anthony Burgess.

Antonio Pennacchi.

Arnoldo Mosca Mondadori.

Attilio Bertolucci.

Aurelio Picca.

Banksy.

Barbara Alberti.

Bill Traylor.

Boris Pasternak.

Carmelo Bene.

Charles Baudelaire.

Dan Brown.

Dario Arfelli.

Dario Fo.

Dino Campana.

Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante Alighieri o Alighiero.

Edmondo De Amicis.

Edoardo Albinati.

Edoardo Nesi.

Elisabetta Sgarbi.

Vittorio Sgarbi.

Emanuele Trevi.

Emmanuel Carrère.

Enrico Caruso.

Erasmo da Rotterdam.

Ernest Hemingway.

Eugenio Montale.

Ezra Pound.

Fabrizio De Andrè.

Federico Palmaroli.

Federico Sanguineti.

Federico Zeri.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Fernanda Pivano.

Filippo Severati.

Fran Lebowitz.

Francesco Grisi.

Francesco Guicciardini.

Gabriele d'Annunzio.

Galileo Galilei.

George Orwell.

Giacomo Leopardi.

Giampiero Mughini.

Giancarlo Dotto.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini.

Giovannino Guareschi.

Gipi.

Giorgio Strehler.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Grazia Deledda.

J.K. Rowling.

James Hansen.

John Le Carré.

Jorge Amado.

I fratelli Marx.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lisetta Carmi.

Luciano Bianciardi.

Luigi Pirandello.

Louis-Ferdinand Céline.

Luis Sepúlveda.

Marcel Proust.

Marcello Veneziani.

Mario Rigoni Stern.

Mauro Corona.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarotti.

Milo Manara.

Niccolò Machiavelli.

Oscar Wilde.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam.

Pablo Picasso.

Paolo Di Paolo.

Paolo Ramundo.

Pellegrino Artusi.

Philip Roth.

Philip Kindred Dick.

Pier Paolo Pasolini.

Primo Levi.

Raffaello.

Renzo De Felice.

Richard Wagner.

Rino Barillari.

Roberto Andò.

Roberto Benigni.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Rosellina Archinto.

Sabina Guzzanti.

Salvador Dalì.

Salvatore Quasimodo.

Salvatore Taverna.

Sandro Veronesi.

Sergio Corazzini.

Sigmund Freud.

Stephen King.

Teresa Ciabatti.

Tonino Guerra.

Umberto Eco.

Victor Hugo.

Virgilio.

Vivienne Westwood.

Walter Siti.

Walter Veltroni.

William Shakespeare.

Wolfgang Amadeus Mozart.

Zelda e Francis Scott Fitzgerald.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Il DDL Zan: la storia di una Ipocrisia. Cioè: “una presa per il culo”.

La corruzione delle menti.

La TV tradizionale generalista è morta.

La Pubblicità.

La Corruzione dell’Informazione.

L’Etica e l’Informazione: la Transizione MiTe.

Le Redazioni Partigiane.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Diritto all’Oblio: ma non per tutti.

Le Fake News.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Satira.

Il Conformismo.

Professione: Odio.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Reporter di Guerra.

Giornalismo Investigativo.

Le Intimidazioni.

Stampa Criminale.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Corriere della Sera.

«L’Ora» della Sicilia.

Aldo Cazzullo.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Andrea Purgatori.

Andrea Scanzi.

Angelo Guglielmi.

Barbara Palombelli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Pizzul.

Bruno Vespa.

Carlo Bollino.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carlo Verdelli.

Cecilia Sala.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Emilio Fede.

Enrico Mentana.

Eugenio Scalfari.

Fabio Fazio.

Federica Angeli.

Federica Sciarelli.

Federico Rampini.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Franca Leosini.

Francesca Baraghini.

Francesco Repice.

Franco Bragagna.

Furio Colombo.

Giampiero Galeazzi.

Gianfranco Gramola.

Gianni Brera.

Giovanna Botteri.

Giulio Anselmi.

Hoara Borselli.

Ilaria D'Amico.

Indro Montanelli.

Jas Gawronski.

Giovanni Minoli.

Lilli Gruber.

Marco Travaglio.

Marie Colvin.

Marino Bartoletti.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Maurizio Costanzo.

Melania De Nichilo Rizzoli.

Mia Ceran.

Michele Salomone.

Michele Santoro.

Milo Infante.

Myrta Merlino.

Monica Maggioni.

Natalia Aspesi.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Crepet.

Paolo Del Debbio.

Peter Gomez.

Piero Sansonetti.

Roberta Petrelluzzi.

Roberto Alessi.

Roberto D’Agostino.

Rosaria Capacchione.

Rula Jebreal.

Selvaggia Lucarelli.

Sergio Rizzo.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Rosati.

Toni Capuozzo.

Valentina Caruso.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.

Vittorio Messori.

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Censura.

Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere. 

"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".

Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.

La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.

Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.

La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”

A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.

A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.

A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.

A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.

A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.

Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.

Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.

Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.

Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.

Vi ricordo che la pubblicazione di libri da parte di una persona che non detiene i diritti di pubblicazione necessari costituisce una violazione del codice penale e la violazione della politica di Amazon, che la autorizza a sospendere o chiudere gli account che tentano più volte questa operazione.

Vi ricordo che accusare ingiustamente qualcuno di violare i diritti di pubblicazione altrui è ingiurioso e offensivo.

Vi ricordo che sospendere o chiudere ingiustamente un account è lesivo dei diritti commerciali e foriero di risarcimento del danno.

Nel merito:

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon e le opere citate ai sensi di legge contendono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Spero di essere stato esauriente, in caso è un abuso da parte di Amazon.

TRIBUNALE PENALE DI TARANTO UFFICIO DEL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI DOTT.SSA PAOLA R. INCALZA

Proc. Pen. n. 4401/18 R.G.N.R. 4578/18 R.G.GIP DECRETO PENALE n.663/18

OPPOSIZIONE A DECRETO PENALE DI CONDANNA EX ART. 461 C.P.P.

Il sottoscritto dr Antonio Giangrande, nato a Avetrana il 02/06/1963, C.F.: GNGNTN63H02A514Q, residente in Avetrana (TA), via A. Manzoni n. 51, dichiaratamente domiciliato, ai sensi dell'art. 161 cpp, presso la propria residenza all'indirizzo suindicato, rappresentato e difeso, giusta procura in calce, dall'Avv. Mirko Giangrande del Foro di Taranto (C.F. GNGMRK85A26E882V – P.I. 02834700730), il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni a mezzo fax al numero 099/9708396 e PEC avv. mirkogiangrande@postecert.it, imputato nel procedimento penale n. 4401/18 R.G.N.R., 4578/18 R.G. GIP e destinatario del decreto penale di condanna n. 663/18 emesso dal GIP Paola R. Incalza presso il Tribunale di Taranto

PREMESSO CHE

1. In data 1 febbraio 2021 è stata ricevuta la notifica del decreto penale di condanna n.663/18 emesso, nell’ambito del procedimento penale in epigrafe dalla Dott.sa Paola R. Incalza, GIP presso il Tribunale Penale di Taranto, in data 26 giugno 2018 e depositato in cancelleria il 29 giugno 2018 (All. 1);

2. Con il predetto decreto l’interessato è stato condannato per il delitto di cui agli artt. 81 cpv. c.p., 595, 3° comma, c.p., alla pena di 9.000,00 di multa, pena sospesa;

3. Il dott. Antonio Giangrande veniva condannato “perchè, con più azioni esecutive di un disegno criminoso, offendeva la reputazione di Bravo Stefano mediante la pubblicazione sul sito “Google Libri” – quindi, attraverso il sistema “Internet”- di libri dal contenuto ingiurioso ed altamente lesivi dell’immagine professionale della p.o., indicandola come persona coinvolta nell’ambito dell’inchiesta “MAFIA CAPITALE”, in particolare:

- pubblicava il libro e-book da titolo “GOVERNOPOLI”, INDICANDO LA P.O. come “IL COMMERCIALISTA CHE RICICLAVA I SOLDI DI BUZZI E CARMINATI”, soggetti coinvolti nel predetto procedimento penale e sottoposti a misure cautelari;

- pubblicava il libro e-book dal titolo “APPALTOPOLI: APPALTI TRUCCATI” indicando la p.o. come: “STEFANO BRAVO LO SPALLONE DEL CLAN, IL COMMERCIALISTA CHE PORTAVA I SOLDI OLTRECONFINE, E’ STATO TRA I PROMOTORI DELLA HUMAN FOUNDATION, UNA CREATURA DELL’EX-MINISTRO PD GIOVANNA MELANDRI…”

- pubblicava il libro e-book dal titolo: “MAFIOPOLI SECONDA PARTE: LA MAFIA SIAMO NOI”, indicando la p.o. come: “STEFANO BRAVO CHE RICICLAVA I SOLDI PER BUZZI E CARMINATI”.  In Avetrana, sino al 28 aprile 2015 (competenza territoriale individuata ex art.9, 3°comma, c.p.p.)

PROPONE

Opposizione avverso il decreto penale di condanna n.663/18 emesso dal GIP, Dott.ssa Paola R. Incalza presso il Tribunale Penale di Taranto, nel procedimento penale n. 4401/2018 R.G.N.R. e n. 4578/2018 R.G. GIP, il 26/06/2018 e depositato in data 29/06/2018 e ricevuto in notifica in data 1/02/2021, chiedendo che si proceda con le forme del giudizio Ordinario (e non per giudizio immediato/giudizio abbreviato/applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p.) e che il decreto penale qui opposto venga revocato per i seguenti

MOTIVI

In tema di diffamazione, diritto di cronaca e di critica, i punti di riferimento normativi sono vari.

L'art. 21 della Costituzione dispone che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

L'art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.

L'art. 10 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali (Libertà di espressione) dispone che “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”. L'art. 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (Libertà di espressione e d'informazione) recita: “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati”.

L'Art. 51 del Codice Penale (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) prevede che “L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità”

L'art. 2 legge 69/1963 (“Ordinamento della professione di giornalista”) dispone che «È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte e riparati gli eventuali errori.».

L'odierno imputato ha esercitato il diritto di cronaca e di critica. Tale diritto, costituzionalmente garantito dall'art. 21 della Costituzione, incontra solo tre limiti:

- Verità;

- Attinenza– continenza;

- Interesse pubblico. Il diritto di cronaca è esercitabile sia su stampa periodica e non periodica. Quest'ultima consiste in ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè non stampata regolarmente. Ne è un esempio il saggio o un romanzo in forma di libro). Nella fattispecie in oggetto, l'attività del dott. Giangrande è di “cristallizzare la cronaca” e applicando su di essa una “critica storica”.

La Corte di Cassazione, nel tempo, è spesso intervenuta a contemperare i vari e contrapposti diritti in ambito di diritto di cronaca. In due famose sentenze (Cass. Pen. 8959/1984; Cass. Civ. 5259/1984) la Suprema Corte afferma che l'esercizio della libertà di diffondere alla collettività notizie e commenti è legittimo, e quindi può anche prevalere sul diritto alla riservatezza se concorrono le seguenti condizioni:

- Che la notizia pubblicata sia vera ("verità del fatto esposto");

- Che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale ("rispondenza ad un interesse sociale all'informazione", ovvero requisito della pertinenza);

- Che l'informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obbiettività ("rispetto della riservatezza ed onorabilità altrui", ovvero "correttezza formale della notizia o della critica").

- Che se tutte queste condizioni vengono rispettate, una notizia può essere pubblicata anche se danneggia la reputazione di una persona.

Nella sent. 18174/14 la Suprema Corte attesta che: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". In tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, una delle ragioni fondanti della esclusione della antigiuridicità della condotta lesiva della altrui reputazione deve essere ravvisata nell’interesse generale alla conoscenza del fatto nel momento storico e, dunque, nell’attitudine della informazione a contribuire alla formazione della pubblica opinione, in modo che il cittadino possa liberamente orientare le proprie scelte nel campo della formazione sociale, culturale e scientifica (Cass., sez. V penale, sent. 7340/2019).

In tema di diffamazione a mezzo stampa, al fine di attribuire efficacia esimente all'esercizio del diritto di cronaca e di critica, la verità della notizia e la fondatezza dell'opinione vanno valutate con riferimento al momento in cui sono state divulgate, non potendo assumere alcun rilievo gli eventi successivi (Corte d'appello di Bari, sent. 2524/2019).

In materia di diffamazione a mezzo stampa, non sussiste una generica prevalenza del diritto all'onore sul diritto di critica, in quanto ogni critica alla persona può incidere sulla sua reputazione. D'altra parte, negare il diritto di critica, solo perché lesivo della reputazione di taluno, significherebbe negare il diritto di libera manifestazione del pensiero. Il diritto di critica, pertanto, può essere esercitato anche mediante espressioni lesive della reputazione altrui, purché esse siano strumento di manifestazione di un ragionato dissenso e non si risolvano in una gratuita aggressione distruttiva dell'onore. Per contro, si configura un abuso del diritto di critica in caso di palese travalicamento dei limiti della civile convivenza, di utilizzo di espressioni sgradevoli e non pertinenti al tema in discussione, senza che sussista alcuna finalità di pubblico interesse (Trib. Roma, sez. XVIII, sent. 20090/2019).

In tema di diffamazione, l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Cass. Pen., sez. V, sent. 17243/2020).

In tema di responsabilità civile per diffamazione, il diritto di critica non si concreta nella mera narrazione dei fatti, ma si esprime in un giudizio avente carattere necessariamente soggettivo rispetto ai fatti stessi; per riconoscere efficacia esimente all'esercizio di tale diritto, occorre tuttavia che il fatto presupposto ed oggetto della critica corrisponda a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze soggettive (Trib. Roma, sez. I, sent. 2537/2020).

Riguardo al tema della diffamazione, l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuità ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico in quanto non hanno adeguati equivalenti (Cass. Pen., sez. V, sent. 15089/2019). La sussistenza dell'esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto; l'esercizio di tale diritto consente l'utilizzo di espressioni forti e anche suggestive al fine di rendere efficace il discorso e richiamare l'attenzione di chi ascolta (Cass. Civ., sez. III, ordinanza 14370/19).

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

- può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

- può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

- può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

- non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.

Il dott. Giangrande è un giurista, sociologo storico, youtuber e blogger d'inchiesta ed opera nell'ambito del libero pensiero stabilito dall'art. 21 della Costituzione. La legge 633/1941, all'art. 65, sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo.  

Per la Suprema Corte (Cass. 16236/2010), “con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”.

Il dott. Giangrande, come saggista, al fine di studio o di discussione, per critica storica o per inchiesta, poteva approfondire e comparare un caso ad altri casi già trattati, per elevarli ad anomalia del sistema. Nel caso di specie i soggetti originali non possono impedirne la pubblicazione, né il pubblicato può essere da loro ritirato. Non esiste alcun legame con le parti. La pubblicazione, credibile, attendibile, affidabile ed incontestabile, avviene per amor di Verità.

L'odierno opponente, nella propria attività, aggrega contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati. La dottrina maggioritaria evidenzia che “per uso di critica” deve intendersi l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione.

La critica storica può scriminare la diffamazione (Cass. Pen., sez. V, sent. 47506/2016). L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”.

La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione (Cass. Pen. sez. V, sent. 47506/2016), dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Le frasi contestate sono tratte da brani riferiti ad articoli di stampa mai rettificati riconducibili a Francesco Merlo su “la Repubblica” del 12/12/2014 (All. 2) e Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso” del 18/12/204 (All. 3). La parte offesa non ha mai chiesto la rettifica dei brani citati: né, a quanto pare dalla pubblicazione recente, all’autore principale, né al secondario. 

Si deposita: 1. Copia del decreto penale di condanna n. 663/18;

2. Copia dell'articolo Francesco Merlo su Repubblica;

3. Copia dell'articolo di Marco Damilano ed Emiliano Fittipaldi su L'Espresso

Avetrana, lì 08/2/2021

Dott. Antonio Giangrande

Per Autentica Avv. Mirko Giangrande

ON.LE GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

PRESSO IL TRIBUNALE DI TARANTO

Il sottoscritto Avv._________ , difensore di _______ nato a ______ il ______ e residente in ______ alla via _____

DICHIARA

di proporre opposizione avverso il decreto penale di condanna emesso dal GIP (dott. _______) presso il Tribunale di _________in data _______ e notificato in data _______, con il quale l’imputato è stato condannato alla pena di € 9.000,00  per il reato di cui agli artt. __________.

(Chiede altresì il giudizio immediato, abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti. Parte eventuale da aggiungersi se si ritiene di definire il giudizio con un rito alternativo).

Si allega: procura speciale (se non già in atti)

Luogo,_________________

Dal Cav ai grillini. Chi dimentica le notizie in fondo al barile. Francesco Maria Del Vigo il 23 Ottobre 2021 su Il Giornale. Ci sono notizie che, per certi giornali, non sono notizie. O, per lo meno, non lo sono abbastanza da meritare la loro attenzione. Ci sono notizie che, per certi giornali, non sono notizie. O, per lo meno, non lo sono abbastanza da meritare la loro attenzione. Facciamo qualche esempio pratico. Primo caso da manuale del giornalismo al rovescio. Giovedì Silvio Berlusconi è stato assolto dal tribunale di Siena, nell'ambito del processo Ruby ter, dall'accusa di corruzione in atti giudiziari. Il fatto non sussiste, recita la sentenza. Ma il fatto non sussiste neppure per una certa stampa. Nel senso che lo hanno rimosso. Alla scuola di giornalismo della sinistra engagé, evidentemente, non è una notizia. L'accusa era quanto mai balorda, ma è piuttosto singolare che proprio i quotidiani che più la hanno sostenuta e strombazzata ora la occultino nelle pagine più periferiche. Per Stampa e Repubblica - che per anni hanno dedicato fiumi di inchiostro e un quantitativo di carta corrispondente a qualche ettaro di bosco alle vicende giudiziarie del Cavaliere - la vicenda non merita neppure la prima pagina. Una notiziola, se possibile annegata in mezzo a una pagina o nascosta nel passaggio di un titolo. Se avessero potuto la avrebbero camuffata tra le previsioni meteorologiche. Secondo caso. Mercoledì, qui, sulle colonne del Giornale, abbiamo raccontato ai nostri lettori che l'ex capo dell'intelligence di Hugo Chavez ha rivelato che il regime ha dato soldi al Movimento 5 Stelle fino al 2017. Cioè poco prima che iniziasse la campagna elettorale che poi ha portato alla vittoria dei grillini. Ricapitoliamo: una sanguinaria dittatura comunista avrebbe foraggiato un partito italiano, di fatto influenzando la politica di casa nostra. Vi sembra una notizia? A noi decisamente sì. Eppure, anche in questo caso, gran parte della stampa - salvo rare eccezioni - ha fatto finta di niente. I giornali che ci hanno perseguitato per mesi con i presunti fondi di Mosca alla Lega di Matteo Salvini, davanti al caso Venezuela fanno i pesci in barile. Non vedono, non sentono e - soprattutto - non scrivono. Guai a disturbare i Cinque Stelle, specialmente in questo momento di grande scambio di effusioni con il Partito Democratico di Enrico Letta. Due esempi per un metodo molto diffuso, specialmente a sinistra: il giornalismo à la carte, le notizie si pubblicano solo quando fanno comodo.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

La notizia censurata. Anche la Rai censura la notizia dei fondi venezuelani al Movimento 5 Stelle, serve una svolta. Michele Anzaldi su Il Riformista il 23 Ottobre 2021. Le indiscrezioni pubblicate dalla stampa dicono che i neoamministratori della Rai, scelti dal governo Draghi, starebbero per procedere in queste ore, al più tardi nei prossimi giorni, con le nomine dei nuovi direttori di testata. Indipendentemente dai nomi che verranno proposti, che devono essere scelti in autonomia dal vertice aziendale auspicabilmente nel pieno rispetto della professionalità, della deontologia giornalistica e del curriculum, è sconcertante che non sembri esserci alcuna novità sul piano organizzativo ed editoriale dei telegiornali. Davvero la Rai di Draghi, ovvero del presidente del Consiglio che in questi mesi ha avuto il coraggio di avviare fondamentali riforme per il Paese nell’ambito dell’attuazione del Pnrr, intende su un settore vitale come l’informazione andare avanti con l’assetto del secolo scorso? Davvero l’amministratore delegato Fuortes, invece di porre le basi per eliminare la lottizzazione, intende andare avanti con una nuova carrellata di nominati come chi l’ha preceduto? Può essere questa la nuova Rai “europea” di profilo draghiano? Otto testate giornalistiche con otto direttori e una pletora di ufficiali e sottufficiali, tra vicedirettori, capiredattori, capiservizio, etc., ha ancora un senso ed è compatibile con l’allarme sui conti lanciato in Vigilanza proprio dal nuovo amministratore delegato? Ma è mai possibile che si perpetui un modello organizzativo identico a quello della Prima Repubblica, quando i maggiori servizi pubblici europei hanno invece negli ultimi anni rivoluzionato i propri assetti per rinforzare ad esempio il proprio ruolo sull’informazione digitale e sul web? La Bbc nel Regno Unito, France Television in Francia, Zdf e Ard in Germania, Tve in Spagna hanno un unico centro produttivo ed editoriale delle news per rafforzare la qualità dei contenuti, le All News e l’informazione sul Web, dove la Rai continua a essere fanalino di coda e, quindi, sostanzialmente irrilevante. Eppure dal 1993 ha un modello in casa che ha funzionato egregiamente anche sul piano del pluralismo: la news room unica per il Giornale Radio. Perché lo stesso modello non viene adottato anche per i tg? Negli ultimi anni (prima con l’ex Ad Gubitosi, poi con Verdelli nella sua qualità di direttore editoriale) la Rai aveva elaborato due piani di riforma delle news, perché una profonda ristrutturazione di quel comparto era stata giudicata necessaria e non rinviabile sul piano dell’efficienza, della qualità, di un pluralismo vero e del contenimento dei costi, eliminando duplicazioni di funzioni, ma soprattutto sprechi e clientele. Che fine hanno fatto quei piani? Dopo essere stati insabbiati e chiusi in un cassetto dalla Rai gialloverde di Conte e dell’amministratore delegato Salini, davvero possono essere ignorati anche dall’Ad Fuortes e dal Cda presieduto da Marinella Soldi? Si può lanciare l’allarme sui conti, sull’insostenibilità dell’attuale situazione finanziaria del servizio pubblico, e poi ignorare un piano già pronto come il Piano Newsroom di Gubitosi, approvato anche dalla commissione di Vigilanza allora presieduta dal presidente Fico, che a regime farebbe risparmiare 70 milioni di euro all’anno? L’inefficienza e l’inefficacia dell’attuale assetto informativo Rai è sotto gli occhi di tutti, dalle notizie censurate (vedi i presunti fondi di Chavez a M5s) alla lunga sequela di errori, dalla moltiplicazione dei costi all’assenza delle testate Rai quando c’è da dare per primi una notizia. Leggere in queste ore che il nuovo Ad e il nuovo Cda abbiano deciso di perpetuare un modello bocciato dai più importanti servizi pubblici radiotelevisivi europei desta meraviglia e sconcerto perché smentisce clamorosamente la linea di rigore e di rinnovamento perseguita dal presidente Draghi. Spero che il vertice Rai si fermi in tempo: le nomine non possono essere staccate da un piano di riforma delle news in linea con quanto fatto dalle altre tv in Europa. Michele Anzaldi

Chi era Luigi Amicone. Un anno fa si è impegnato a censurarmi. Ha fatto in modo che nessuno pubblicasse le mie opere. Ha inoltrato l’esposto infondato contro di me ad Amazon, Google Libri e Lulu, costrongendoli a cancellare il mio account di pubblicazione e di fatto censurandomi. L’unico a farlo rispetto a centinaia di migliaia di autori e di citazioni e in riferimento a un suo articolo marginale, doverosamene citato, pubblicato su Il Giornale.it, posto in discussione ed in contraddittorio rispetto ad altri altricoli sullo stesso argomento. Mi ha posto temporaneamente sul lastrico, ledendo, oltretutto, la mia onorabilità e reputazione. Questa la mia risposta:

Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che  sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.

Mi vogliono censurare su Google.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto. 

Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.

Morto Luigi Amicone, tra i fondatori di Cl e del settimanale «Tempi»: una vita tra politica e battaglie civili. Andrea Senesi su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Un infarto nella notte. Pneumotorace e conseguente arresto cardiaco. Soccorso d’urgenza, trasportato all’ospedale San Gerardo di Monza, è morto dopo pochi minuti. Aveva 65 anni. Luigi Amicone, già consigliere comunale di Forza Italia non eletto alle ultime amministrative (605 preferenze), ma prima, decenni prima, tra i fondatori di Cl e poi del settimanale d’area Tempi, di cui era ancora direttore, ma soprattutto attivista di molte battaglie (perse) in Italia. Il referendum sul divorzio e poi l’aborto, il giustizialismo di Mani Pulite, l’eutanasia, i matrimoni gay. Sempre in campo, anche se sempre sconfitto. Un mese fa, da candidato azzurro a Palazzo Marino, annusando la sconfitta del pediatra Luca Bernardo contro Beppe Sala, s’era scagliato contro Matteo Salvini: « Ha confuso Milano con Milano Marittima. La gente è sconcertata, si poteva vincere a mani basse ma si va verso una sconfitta a mani alzate».

Il ricordo su «Tempi»

Un «capotribù». Così, lo salutano gli amici e colleghi di Tempi. La moglie Annalena, una famiglia numerosa, sei figli. Ecco il ricordo sul sito web del settimanale: «Ancora ieri discutevamo con lui di un articolo da scrivere, di un intervento da pubblicare su Tempi, di come commentare l’ultimo sviluppo di cronaca. La notizia della sua morte ci coglie all’improvviso e impreparati, come sempre accade. Che don Giussani, il suo amico e maestro, che aveva per lo spirito libero e gioviale di Amicone una predilezione, ci guidi in questo momento di smarrimento, ricordandoci di confidare sempre in quel Destino al cui cospetto si trova ora il nostro carissimo amico Gigi».

Amicone nasce il 4 ottobre 1956. A 13 anni brucia nella piazza centrale di un paesino abruzzese una bandiera spagnola in segno di protesta per il garrottamento franchista dell’anarchico catalano Puig Antich. «Avevo il libretto rosso di Mao in tasca e quel libretto lo conservo ancora», raccontò al Corriere. A 14 anni a Milano entra all’istituto tecnico Molinari, lo stesso di Sergio Ramelli di cui è coetaneo. Si mette a bazzicare Avanguardia Operaia, «ma sulla mia strada si para nel frattempo don Giorgio Pontiggia, il più viscerale, potente, gigantesco educatore che abbia mai conosciuto. Una figura alla Guevara che mi porta a Cristo invece che alla rivoluzione proletaria». Poi i decenni con Cl, la lezione di vita di don Giussani «che amava raccomandare agli amici “la mia ossessione è stata quella di non vivere inutilmente, vivi pazzo!”». Diceva: «Ecco, a me è successo questo».

Le passioni politiche

Fonda Tempi e diventa uno degli intellettuali più in vista del movimento. Un reazionario purissimo, dicevano tutti di lui. Eppure è lui che trova a Casarsa e fa pubblicare su Il Sabato, altra rivista d’area, alcune poesie inedite di Pierpaolo Pasolini, intellettuale comunista, omosessuale, eretico per definizione. Negli anni Amicone si farà anche putiniano, trumpiano e a un certo punto persino orbaniano, cosa che lo porta in minoranza anche tra gli eredi di don Gius. Ha una nipote che vive in California e fa la surfista. È una superfemminista e da leader del «Me too» locale è diventata a suo modo celebre per aver appena ottenuto una legge che equipara i premi sportivi delle donne a quelli degli uomini.

A Palazzo Marino

In Consiglio comunale con Forza Italia, la politica d’aula non lo appassionava più di tanto. Si scaldava giusto per le «sue» battaglie, l’ultima contro il riconoscimento all’anagrafe del doppio papà per i figli dell’utero in affitto. «Io voglio diventare il prossimo presidente di Cl — ama ripetere — e avere l’ufficio in San Fedele, così da essere vicino sia al prossimo sindaco che alla chiesa della piazza, che è considerata il modello di riferimento per l’architettura sacra dell’arte della Controriforma».

L’ultima campagna elettorale

All’inizio di ottobre aveva scritto un de profundis anticipato per Bernardo, «vittima» della «presunzione dell’uomo solo al comando», ossia Salvini. «La città che poteva vincere a mani basse, sembra proprio che il centrodestra abbia deciso di perderla a mani alzate» scriveva il consigliere di FI. L’attacco al Capitano era stato frontale: «Forse ha confuso Milano con Milano Marittima. E adesso corre con tutti gli alleati verso l’abisso». Accusava la Lega e FdI di essersi dimenticati del candidato nel logo delle liste. «Forza Italia è l’unico partito della coalizione che ha mantenuto l’impegno a inserire il candidato nel proprio simbolo». Era rimasto Amicone, fino alla fine.

Il cordoglio di colleghi e amici

A ricordare Amicone ci sono diversi colleghi, da Gad Lerner a Mario Adinolfi. «Luigi è stato per me un avversario appassionato ma gentile con il quale ci siamo sempre voluti bene. Oggi lo piango insieme ai suoi familiari e alla sua comunità di fede», ha twittato Lerner. Così Adinolfi: «Volle dedicarmi una copertina di Tempi in cui mi descrisse come un “pericolo pubblico”. Discutevamo molto, qualche volta in tv ci capitò pure di litigare. Ma Luigi ci credeva. Dio, se ci credeva. Che dolore».

Poeta, rubacuori e innamorato delle idee. Addio Amicone, combattente della libertà. Luca Doninelli il 20 Ottobre 2021 su Il Giornale. È stato tra i fondatori di Cl e "Tempi". Fatale un infarto, aveva 65 anni. Lo si è detto fin dall'antichità: spesso la vita allontana tra loro le persone, spesso la morte le riavvicina. In un solo giorno due persone importanti per la mia vita se ne sono andate, una a causa di un infarto, l'altra per un incidente in moto. Si chiamavano Luigi Amicone e Raffaele «Lele» Tiscar. Erano due personaggi pubblici, impegnati nel giornalismo e nella politica, e avevano tutti e due sessantacinque anni come me. Quello che ho conosciuto meglio era Luigi Amicone. Eravamo compagni di università, tutti e due ciellini, lui iscritto a Scienze Politiche, io a Filosofia. Lui era un vero leader, e in quegli anni tristi (1975-1980) la sua personalità debordante segnò la vita di tanti compagni, me compreso. Lo chiamavamo Luigino, non perché fosse piccolo ma perché aveva gli occhi, la faccia e i modi di chi, diventando grande, riesce a mantenere la poesia dell'adolescenza. Io gli volevo bene. In un clima dominato dall'ideologia e dalla violenza, Luigi mi insegnò a non avere paura, a mettere in gioco con coraggio e ironia la mia piccola fede e i miei ideali, a non rinchiuderli in discorsi e analisi da circolo culturale, a sfidare il mondo. Luigino era bello, simpatico, sapeva cantare bene e le ragazze si innamoravano di lui. Scriveva belle poesie. Insieme conoscemmo Giovanni Testori, nel 1978, e ne fummo segnati per sempre. Testori ci fece scrivere un libro ciascuno. Fare, fare: questo era il suo modo di farci crescere. Uscito dall'università, Luigi andò a lavorare al settimanale Il Sabato, che è stato fucina di tanti grandi giornalisti, e al quale collaboravo anch'io come critico letterario. Avevamo meno di venticinque anni: e a questo pensiero non posso non pensare alla fortuna che abbiamo avuto, lui, io e tanti altri, ad incontrare sulla nostra strada uomini come Don Giussani e come Testori, che ci hanno insegnato a scommettere su ciò in cui credevamo e a rischiare per questo. Poi le nostre vite hanno preso direzioni diverse, ma credo di avere ereditato da lui alcune cose, che ho sempre conservato, come la testardaggine con cui ho imparato a mantenere intatti, nell'età adulta, i sogni di quando ero ragazzo. Diciamo che Luigi mi ha insegnato a non mettere mai la testa a posto. In seguito, dopo la fine de Il Sabato, Luigi ha fondato il settimanale Tempi, che ha diretto fino alla pensione, dopo di che si è messo in politica. Su tante cose non eravamo d'accordo, specialmente in politica, ed è probabile che anche le nostre idee su Cl non fossero le stesse. Non è sempre facile capire perché, a un certo punto della vita, le opinioni comincino a divergere, perché le parole non dette, i temi non affrontati d'un tratto emergano e scavino una distanza tra due persone. Con Luigi, però, le cose sono andate diversamente rispetto ad altri. Ci siamo allontanati, è vero, ma mai del tutto. Abbiamo continuato a incontrarci, a scriverci. Spesso le divergenze portano alla rottura dei rapporti, fino a cancellare la stima di un tempo. Con Luigino non è andata così. Ci è capitato di pensare male l'uno dell'altro, e non una volta sola, eppure alla fine la stima ha sempre vinto. E il merito è stato soprattutto suo, della sua capacità affettiva. Quello che ci univa è sempre stato più forte di quello che ci divideva: perché a dividerci erano le opinioni, i discorsi, i parti della nostra testa, mentre a unirci è stato un dono immeritato, una specie di marchio a fuoco, quello che fa gridare a Rimbaud «sono prigioniero del mio Battesimo», ma che non è una prigione, è piuttosto una libertà inimmaginabile, sfacciata, che resiste a tutti gli errori e a tutti gli equivoci. Ciao, Luigino caro, a presto. Ti prometto che cercherò di essere un uomo migliore. Luca Doninelli

Chiacchierate su Dio e pastasciutta. A Luigi Amicone, un amico che se ne va. Marina Corradi su Avvenire  il 20 Ottobre 2021. Lutto nel mondo della politica e del giornalismo milanese per la morte improvvisa di Luigi Amicone, colpito da un infarto nella notte tra lunedì e ieri. Amicone, 65 anni e padre di sei figli, era stato consigliere comunale di Forza Italia dal 2016 fino a poche settimane fa quando non era stato rieletto alle ultime amministrative. Esponente di Comunione e Liberazione nel 1994, aveva fondato il settimanale Tempi di cui era ancora direttore. Il funerale giovedì 21 ottobre alle 10,45 nel Duomo di Monza. Nell’ultimo Whatsapp promettevi: «Appena arrivo a Milano vengo da voi a pastasciuttare». E, sotto, una foto del mare della Gallura che amavi tanto, nel sole mite di ottobre ancora più infinito. Non ci credo ancora, che sei morto. La notizia, ieri mattina, è stata un pugno: ma non ho realizzato veramente – il cuore chiede tempo davanti alla morte, alza paratie in difesa, lasciando filtrare la realtà lentamente. Mi dicono però, Luigi, che sei morto davvero. Vinto un cancro, evitato il Covid, a 65 anni ancora quella faccia da ragazzo, sotto ai capelli incontrollabili. Ma ieri notte, d’improvviso, una lacerazione al petto, e il fiato che disperatamente mancava. Te ne sei andato in un’ora. Questo è la nostra vita, un prestito che ci viene chiesto indietro in un istante. Io, attonita. Come su un sentiero in montagna che si fa sempre più erto, e ti volti, quel compagno caro non c’è più. E più schiacciante il silenzio, attorno. Il brutto della vecchiaia è che gli amici disertano (e in un anno Fabio, e Antonio, e ora tu). Ma tu no, tu, non ci posso credere. Eri nato combattente. Da bambino t’avevano messo in una classe differenziale, tante ne combinavi. A sedici anni giravi con il libretto di Mao in tasca, ansioso di trovare una bandiera per cui valesse la pena di battersi. Ti tolse dal giro di Avanguardia Operaia don Giorgio Pontiggia, grande amico di Luigi Giussani. Lui ti adottò come un figlio. La bandiera, negli infiammati e plumbei anni ’70, l’avevi trovata. Una domenica di venticinque anni fa al mare, in Toscana, ho visto sulla soglia della chiesa, a Messa, un tipo in braghe corte, camicia a fiori, gilet militare. «Ce n’è di strani, fra i cristiani», mi sono detta. Tu, sulla soglia ci stavi per fumare, io per esitazione esistenziale. Ma com’è stato bello incontrare uno che parlava come me, si arrabbiava come me, dubitava a volte come me, eppure era appassionatamente cristiano. Quanti giorni con i nostri figli, sei tu e Anna, tre noi. Dalla prima epica traversata da Livorno a Bastia, con un mare d’inferno, le onde sopra la prua del traghetto. Io moribonda e tu che, irresponsabile, dormivi su un divano. E la Gallura? Nella parte più selvatica e sconosciuta, la luce, le cappelle romaniche, quante cose ci hai fatto scoprire. E quante sere insieme a Milano, quando con i ragazzi di "Tempi", il tuo settimanale, chiudevi il numero e, tardi, venivate a cena da noi. Le nostre voci che nella gentilezza del Chianti e nell’affondare della notte si allargavano, allegre. E si discuteva di tutto, ma alla fine quel "tutto" era Dio. Avevamo condiviso molte battaglie, fino a quando non abbiamo preso onde divergenti. Trump, Orbán, la Lega: quanto abbiamo litigato. Ma sapendo che, comunque, noi due non potevamo non restare amici. Per una comune domanda, che non smettevamo di farci. Una sera anni fa, d’estate. Io, in una turbolenza d’anima: «Parliamo sempre di Cristo, ma io Cristo non lo vedo». Fino alle due, a combattere. La mattina ho avuto un’amnesia totale, un’ischemia. Quando hai saputo che stavo bene sei scoppiato in una risata: «Hai visto che, quando proprio insisti, Lui si fa vedere?». Eri uno che mi sapeva fare ridere, e anche per questo ti volevo tanto bene. Scioglievi la mia malinconia nella tua vitalità irruente da ex scolaro terribile. Non dovevi, proprio tu, Luigi, non dovevi disertare. Il mio vecchio cane qui accanto non ti farà più rumorose feste, alla porta, e tu non gli dirai più, affettuoso: «Vecchio bastardo, ma sei ancora qui?». Non butterò più per te la pasta, abbondante, a qualsiasi ora. Non prenderai da solo il whisky dalla credenza, come uno di casa. (Temo che il cuore, ora, cominci a capire). Guardo la foto del mare della Gallura di tre giorni fa. Che mare, e che cielo: più grande, e quanto chiaro. Penso a Paolo ai Corinzi: "Ora vediamo come in uno specchio, confusamente; ma allora vedremo faccia a faccia".

È morto il giornalista Luigi Amicone, fondò la rivista Tempi. Orlando Sacchelli il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Lutto nel mondo del giornalismo e della politica milanese: Luigi Amicone è morto a 65 anni. Da studente alla Cattolica aderì a Comunione e Liberazione. Insegnò religione e lettere nei licei e poi divenne giornalista. Si è spento nella notte il giornalista Luigi Amicone. Il fondatore del periodico Tempi aveva 65 anni. È stato colto da un infarto. Nato a Milano il 4 ottobre 1956 da genitori abruzzesi, a soli 14 anni si avvicinò al gruppo di Avanguardia Operaia. Studente universitario alla Cattolica si Milano, conobbe don Luigi Giussani e aderì al movimento cattolico Comunione e Liberazione. Laureato in Scienze Politiche e in Lettere Moderne, insegnò religione e poi lettere nei licei e poi divenne giornalista. Per tredici anni lavorò al settimanale Il Sabato, occupandosi di Esteri. Seguì da vicino il sanguinoso conflitto tra cattolici e protestanti a Belfast, e poi a Beirut per coprire un altro scontro, quello tra Libano e Siria. Documentò il crollo dei regimi comunisti dell'Est Europa e poi la guerra tra serbi e croati dopo il disfacimento della Jugoslavia. Nel corso degli anni aveva collaborato anche con Il Foglio e il Giornale. Eletto in Consiglio comunale nel 2016 a Milano, nelle liste di Forza Italia, amava battersi soprattutto per le battaglie ideali in cui credeva fermamente, legate alla difesa della vita e ai valori cristiani. Si era ripresentato alle elezioni di quest'anno ma non era stato rieletto a Palazzo Marino. "Luigi Amicone - ha twittato Gad Lerner - è stato per me un avversario appassionato ma gentile con il quale ci siamo sempre voluti bene. Oggi lo piango insieme ai suoi familiari e alla sua comunità di fede". "È morto nella notte il mio caro amico Luigi Amicone per un infarto - ha scritto sempre su Twitter Mario Adinolfi -. Volle dedicarmi una copertina di Tempi in cui mi descrisse come un ''pericolo pubblico''. Discutevamo molto, qualche volta in tv ci capitò pure di litigare. Ma Luigi ci credeva. Dio, se ci credeva. Che dolore". In una lettera agli elettori (nel 2018 si candidò alle Politiche, senza essere eletto) rivendicò con orgoglio la sua amicizia con "laici come Giuliano Ferrara e Lodovico Festa (ex segretario della federazione Pci di Sesto San Giovanni, la ex 'Stalingrado' d’Italia), con i quali ho vissuto amicizie profonde e battaglie 'ratzingeriane' indimenticabili sui temi della difesa della vita, del referendum sulla legge 40, del contrasto alla cultura del relativismo e della morte. Insomma, ho cercato di restare fedele e presente a un certo incontro con il cristianesimo avvenuto nella mia giovinezza e del quale oggi posso ben dire, “ecco, quell’incontro con Cristo avvenuto per tramite don Luigi Giussani mi ha salvato la vita, in tutti i sensi”.

Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana

Don Giussani, il garantismo, le battaglie in Tv. Chi era Luigi Amicone, tra i fondatori di Comunione e liberazione portato via a 65 anni da un infarto. Roberto Formigoni su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Un infarto nella notte. Poi la corsa inutile all’ospedale San Gerardo di Monza. Luigi Amicone si è spento nella notte di lunedì all’età di 65 anni. Tra i fondatori di Comunione e liberazione, e a lungo direttore del settimanale “Tempi”, il giornalista è stato un vero garantista. Qui di seguito il ricordo dell’uomo, del giornalista che Roberto Formigoni ha affidato al Riformista. Di che pasta fosse la personalità di Luigi Amicone se ne sono resi conto anche quelli che non lo conoscevano quando, nel pieno della bufera politico-mediatico-giudiziaria che mi aveva investito, dedicò una copertina di Tempi a Formigoni presidente di Regione Lombardia e alle sue realizzazioni politiche e amministrative. Tanti mi erano rimasti vicini in quei giorni difficili, ma un conto è fare sentire la propria vicinanza a livello personale e privato, altro è impegnare la propria reputazione, mettere in gioco l’opera in cui sei pubblicamente impegnato per sostenere un amico in difficoltà. Per amicizia e per amore della giustizia. Luigi Amicone era un cattolico ciellino che non si faceva problemi a passare da Luigi Giussani, il sacerdote che, ricambiato, tanto lo aveva amato e valorizzato, all’ateo devoto Giuliano Ferrara all’ateo-ateo Marco Pannella non per amore del garantismo (che pure apprezzava), ma per amore della giustizia e della libertà. Ad Amicone si attagliava perfettamente una tipica espressione giussaniana: “ingenua baldanza”. Aveva l’aria dell’eterno ragazzino, facile alla battuta tagliente e alla risata fra amici, ma la serietà del padre di famiglia che trascorre tutta la vita con la stessa donna e con lei mette al mondo sei figli coi quali si batte e combatte fino alla fine (storie raccontate nel suo libro Le avventure di un padre di famiglia); la serietà del giornalista imprenditore che, rimasto disoccupato, si lancia in un’avventura un po’ folle come quella di creare senza soldi un settimanale di ambizioni nazionali, Tempi, perché tutti i ciellini e tutti coloro che in Italia amavano la libertà avessero una voce che parlava a loro e di loro. Tempi incarnava davvero la sua apertura totale e la sua curiosità sconfinata: c’era tutto, dai giudizi politici provocatori e raffinati alle storie commoventi di gente comune. Pur essendo entrambi ciellini, a causa della differenza di età di quasi dieci anni non abbiamo condiviso molte esperienze formative comuni, ma ci siamo sentiti e visti infinite volte quando lui era direttore e io deputato nazionale o presidente di Regione. Mi telefonava o chiedeva di venire a trovarmi. Mi poneva domande, e io rispondevo nel modo più aperto e impegnativo possibile. Allora lui veniva fuori con le sue considerazioni, le sue intuizioni, le sue visioni che sparigliavano le carte. Ed io ero contento di avergli dato appuntamento, cercavo sempre di darglielo perché sapevo che ci avremmo guadagnato entrambi. Non erano mai incontri banali e non erano mai discorsi scontati. La stessa filigrana dei suoi interventi su Tempi o su altri giornali o in tivù: potevi essere d’accordo o in disaccordo con lui, ma sempre ti meravigliavi delle sue argomentazioni, degli spunti che sapeva trovare. Non ho problemi ad ammettere che da lui ho imparato, più di una volta. Non aveva paura di confrontarsi con nessuno, accettava gli inviti nelle trasmissioni-trappola di Michele Santoro e di Gad Lerner e si batteva come un leone, dava e prendeva artigliate senza mai tirarsi indietro. Leggeva e aveva letto in gioventù tantissimo e, come ha scritto Jack Kerouac, «di tutto parlava – e io aggiungo: scriveva- con nervosa intelligenza». Negli ultimi anni, liberato della direzione di Tempi, scriveva quotidianamente note politiche sulla situazione nazionale o su quella di Milano con la consueta passione, ed era una delle prime cose che io leggevo la mattina, perché erano sempre commenti centrati e ficcanti. Per queste, e per tante altre ragioni, non gli si poteva non volere bene. Tanto più quando, lui e il suo successore alla guida di Tempi Emanuele Boffi, si sono prestati a fare da tramite fra me, ristretto nel carcere di Bollate, e i tanti amici che da tutta Italia mi scrivevano e ai quali facevo fatica a rispondere. Sul settimanale si parlava della mia condizione e si sono pubblicate alcune mie lettere, che mi permettevano di raggiungere tutti. Ci mancherà la sua intelligenza vivacissima, la sua capacità di provocare, la sua personale traduzione in realtà dello slogan sessantottino “la fantasia al potere”. Il destino ha voluto che la sua scomparsa coincidesse con quella di un altro grande amico e collaboratore, Raffaele Tiscar, che con me ha condiviso responsabilità nel parlamento italiano e in Regione Lombardia, un manager di grandi capacità e un politico di grande intelligenza. Appena un mese fa è tornato alla casa del Padre un altro grande amico, Pier Alberto Bertazzi, un uomo che ha fatto molto per me fino alla fine e che è la persona all’origine del nome “Comunione e Liberazione”. Con tutte queste coincidenze, non posso non pensare che il Signore ci sta chiedendo qualcosa di grande e di misterioso. Dio non permette nulla che non possa essere un bene per i suoi fedeli. Dio sta chiedendo la nostra conversione, sta chiedendo la mia conversione. Roberto Formigoni

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Io sono un giurista ed un giornalista d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

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Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o dipressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa su su articoli di terzi. Vedi  “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news.

Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Io sono il segnalatore di illeciti (whistleblower) più ignorato ed  oltre modo più perseguitato e vittima di ritorsioni del mondo. Ciononostante non mi batto per la mia tutela, in quanto sarebbe inutile dato la coglionaggine o la corruzione imperante, ma lotto affinchè gli altri segnalatori, che imperterriti si battono esclusivamente ed inanemente per la loro bandiera, non siano tacciati di mitomania o pazzia. Dimostro al mondo che le segnalazioni sono tanto fondate, quanto ignorate od impunite, data la diffusa correità o ignoranza o codardia.

Segnalatore di illeciti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il segnalatore o segnalante di illeciti, anche detto segnalatore o segnalante di reati o irregolarità (termine reso a volte anche con la parola anglosassone e specificatamente dell'inglese americano whistleblower) è un individuo che denuncia pubblicamente o riferisce alle autorità attività illecite o fraudolente all'interno del governo, di un'organizzazione pubblica o privata o di un'azienda. Le rivelazioni o denunce possono essere di varia natura: violazione di una legge o regolamento, minaccia di un interesse pubblico come in caso di corruzione e frode, gravi e specifiche situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza pubblica. Tali soggetti possono denunciare le condotte illecite o pericoli di cui sono venuti a conoscenza all'interno dell'organizzazione stessa, all'autorità giudiziaria o renderle pubbliche attraverso i media o le associazioni ed enti che si occupano dei problemi in questione. Spesso i segnalatori di illeciti, soprattutto a causa dell'attuale carenza normativa, spinti da elevati valori di moralità e altruismo, si espongono singolarmente a ritorsioni, rivalse, azioni vessatorie, da parte dell'istituzione o azienda destinataria della segnalazione o singoli soggetti ovvero organizzazioni responsabili e oggetto delle accuse, venendo sanzionati disciplinarmente, licenziati o minacciati fisicamente.

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). In inglese viene invece utilizzata la parola whistleblower, che deriva dalla frase to blow the whistle, letteralmente «soffiare il fischietto», riferita all'azione dell'arbitro nel segnalare un fallo o a quella di un poliziotto che tenta di fermare un'azione illegale. Il termine è in uso almeno dal 1958, quando apparve nel Mansfield News-Journal (Ohio). L'origine dell'espressione whistleblowing è tuttavia ad oggi incerta, sebbene alcuni ritengano che la parola si riferisca alla pratica dei poliziotti inglesi di soffiare nel loro fischietto nel momento in cui avessero notato la commissione di un crimine, in modo da allertare altri poliziotti e, in modo più generico, la collettività. Altri ritengono che si richiami al fallo fischiato dall'arbitro durante una partita sportiva. In entrambi i casi, l'obiettivo è quello di fermare un'azione e richiamare l'attenzione. La locuzione «gola profonda» deriva da quella inglese Deep Throat che indicava l'informatore segreto che con le sue rivelazioni alla stampa diede origine allo scandalo Watergate.

Definizione. Il segnalatore di illeciti è quel soggetto che, solitamente nel corso della propria attività lavorativa, scopre e denuncia fatti che causano o possono in potenza causare danno all'ente pubblico o privato in cui lavora o ai soggetti che con questo si relazionano (tra cui ad esempio consumatori, clienti, azionisti). Spesso è solo grazie all'attività di chi denuncia illeciti che risulta possibile prevenire pericoli, come quelli legati alla salute o alle truffe, e informare così i potenziali soggetti a rischio prima che si verifichi il danno effettivo. Un gesto che, se opportunamente tutelato, è in grado di favorire una libera comunicazione all'interno dell’organizzazione in cui il segnalatore di illeciti lavora e conseguentemente una maggiore partecipazione al suo progresso e un'implementazione del sistema di controllo interno. La maggior parte dei segnalatori di illeciti sono "interni" e rivelano l'illecito a un proprio collega o a un superiore all'interno dell'azienda o organizzazione. È interessante esaminare in quali circostanze generalmente un segnalatore di illeciti decide di agire per porre fine a un comportamento illegale. C'è ragione di credere che gli individui sono più portati ad agire se appoggiati da un sistema che garantisce loro una totale riservatezza.

La tutela giuridica nel mondo. La protezione riservata ai segnalatori di illeciti varia da paese a paese e può dipendere dalle modalità e dai canali utilizzati per le segnalazioni.

Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Nell'introdurre un nuovo art. 54-bis al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si è infatti stabilito che, esclusi i casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile italiano, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria italiana o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Inoltre, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Si è tuttavia precisato che, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato, con conseguente indebolimento della tutela dell'anonimato. L'eventuale adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata al Dipartimento della funzione pubblica per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le discriminazioni stesse sono state poste in essere. Infine, si è stabilito che la denuncia è sottratta all'accesso previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241; tali disposizioni pongono inoltre delicate problematiche con riferimento all'applicazione del codice in materia di protezione dei dati personali. Nel 2014 ulteriori rafforzamenti della posizione del segnalatore di illeciti sono stati discussi con iniziative parlamentari, nella XVII legislatura. In ordine alla possibilità di incentivarne ulteriormente l'emersione con premi, l'ordine del giorno G/1582/83/1 - proposto in commissione referente del Senato - è stato accolto come raccomandazione; invece, è stato dichiarato improponibile l'emendamento che, tra l'altro, puniva con una contravvenzione chi ne rivelasse l'identità. Nel 2016 la Camera dei deputati, nell'approvare la proposta di legge n. 3365-1751-3433-A, «ha scelto, tra l'altro, la tecnica della "novella" del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» per introdurre una disciplina di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro. Il testo pende al Senato come disegno di legge n. 2208 Il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90 afferma che - a decorrere dal 4 luglio 2017, data di entrata in vigore del predetto decreto - i soggetti destinatari della disposizioni ivi contenute (tra i quali intermediari finanziari iscritti all'Albo Unico, società di leasing, società di factoring, ma anche dottori commercialisti, notai e avvocati) sono obbligati a dotarsi di un sistema di segnalazione di illeciti, l'istituto di derivazione anglosassone per le segnalazioni interne di violazioni.

Stati Uniti d'America. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Non si è colti, nè ignoranti: si è nozionisti, ossia: superficiali.

Nozionista è chi studia o si informa, o, più spesso, chi insegna o informa gli altri in modo nozionistico.

Nozionista è:

chi non approfondisce e rielabora criticamente la massa di informazioni e notizie cercate o ricevute;

chi si ferma alla semplice lettura di un tweet da 280 caratteri su twitter o da un post su Facebook condiviso da pseudoamici;

chi restringe la sua lettura alla sola copertina di un libro;

chi ascolta le opinioni degli invitati nei talk show radio-televisivi partigiani;

chi si limita a guardare il titolo di una notizia riportata su un sito di un organo di informazione. 

Quel mondo dell'informazione che si arroga il diritto esclusivo ad informare in virtù di un'annotazione in un albo fascista. Informazione ufficiale che si basa su news partigiane in ossequio alla linea editoriale, screditando le altre fonti avverse accusandole di fake news.

Informazione o Cultura di Regime, foraggiata da Politica e Finanza.

Opinion leaders che divulgano fake news ed omettono le notizie. Ossia praticano:  disinformazione, censura ed omertà. 

Nozionista è chi si  abbevera esclusivamente da mass media ed opinion leaders e da questi viene influenzato e plasmato.

Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere. 

"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".

Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.

La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.

Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.

La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”

A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.

A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.

A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.

A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.

A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.

Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.

Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.

Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.

Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.

Il Diritto di Citazione e la Censura dei giornalisti. Il Commento di Antonio Giangrande.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri. Su uno di questi “L’Italia dei Misteri” di centinaia di pagine, veniva riportato, con citazione dell’autore e senza manipolazione e commenti, l’articolo del giornalista Francesco Amicone, collaboratore de “Il Giornale” e direttore di Tempi. Articolo di un paio di pagine che parlava del Mostro di Firenze ed inserito in una più ampia discussione in contraddittorio. L’Amicone, pur riconoscendo che non vi era plagio, criticava l’uso del copia incolla dell’opera altrui. Per questo motivo ha chiesto ed ottenuto la sospensione dell’account dello scrittore Antonio Giangrande su Amazon, su Lulu e su Google libri. L’intero account con centinai di libri non interessati alla vicenda. Google ed Amazon, dopo aver verificato la contronotifica hanno ripristinato la pubblicazione dei libri, compreso il libro oggetto di contestazione, del quale era stata l’opera citata e contestata. Lulu, invece,  ha confermato la sospensione.

L’autore ed editore Antonio Giangrande si avvale del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Nei libri di Antonio Giangrande, per il rispetto della pluralità delle fonti in contraddittorio per una corretta discussione, non vi è plagio ma Diritto di Citazione.

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto. 

La vicenda merita un approfondimento del tema del Diritto di Citazione.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola.

Alcuni giornalisti contestavano a Saviano l’uso di un copia incolla di alcuni articoli di giornale senza citare la fonte.

Da Wikipedia: Nel 2013 Saviano e la casa editrice Mondadori sono stati condannati in appello per plagio. La Corte d'Appello di Napoli ha riconosciuto che alcuni passaggi dell'opera Gomorra (lo 0.6% dell'intero libro) sono risultate un'illecita riproduzione del contenuto di due articoli dei quotidiani locali Cronache di Napoli e Corriere di Caserta, modificando così parzialmente la sentenza di primo grado, in cui il Tribunale aveva rigettato le accuse dei due quotidiani e li aveva anzi condannati al risarcimento dei danni per aver "abusivamente riprodotto" due articoli di Saviano (condanna, questa, confermata in Appello). Lo scrittore e la Mondadori in Appello sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. Lo scrittore ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza e la Suprema Corte ha confermato in parte l'impianto della sentenza d'Appello e ha invitato alla riqualificazione del danno al ribasso, stimando 60000 euro una somma eccessiva per articoli di giornale con diffusione limitatissima. La condanna per plagio nei confronti di Saviano e della Mondadori è stata confermata nel 2016 dalla Corte di Appello di Napoli, che ha ridimensionato il danno da risarcire da 60.000 a 6.000 euro per l'illecita riproduzione in Gomorra di due articoli di Cronache di Napoli e per l'omessa citazione della fonte nel caso di un articolo del Corriere di Caserta riportato tra virgolette.

Conclusione: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Cosa hanno in comune un giurista ed un giornalista d’inchiesta; un sociologo e un segnalatore di illeciti (whistleblower); un ricercatore o un insegnante e un aggregatore di contenuti?

Essi si avvalgono del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il Diritto di Citazione si svolge su Stampa non periodica. Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Il diritto di cronaca su Stampa non periodica diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

L’art. 21 della Costituzione permette di esprimere liberamente il proprio pensiero. Nell’art. 65 della legge l. n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Quando si parla di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Diritto di citazione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il diritto di citazione (o diritto di corta citazione) è una forma di libera utilizzazione di opere dell'ingegno tutelate da diritto d'autore. Infatti, sebbene l'autore detenga i diritti d'autore sulle proprie creazioni, in un certo numero di circostanze non può opporsi alla pubblicazione di estratti, riassunti, citazioni, proprio per non ledere l'altrui diritto di citarla. Il diritto di citazione assume connotazioni diverse a seconda delle legislazioni nazionali.

La Convenzione di Berna. L'articolo 10 della Convenzione di Berna, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: Articolo 10

1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore.

Le singole discipline.

Stati Uniti. Negli Stati Uniti è il titolo 17 dello United States Code che regola la proprietà intellettuale. Il fair use, istituto di più largo campo applicativo, norma generalmente anche ciò che nei paesi continentali europei è chiamato diritto di citazione.

Italia. L'art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.». Con il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003 è stata introdotta l'espressione di comunicazione al pubblico, per cui il diritto è esercitabile su ogni mezzo di comunicazione di massa, incluso il web. Con la nuova formulazione c'è una più netta distinzione tra le ipotesi in cui “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera" viene effettuata per uso di critica o di discussione e quando avviene per finalità didattiche o scientifiche: se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. L'orientamento giurisprudenziale formatosi in Italia sul vecchio testo dell'art. 70 è stato in genere di restringerne la portata. In seguito a successive modifiche legislative, è stata fornita tuttavia una diversa interpretazione della normativa attualmente vigente, in particolare con la risposta ad un'interrogazione parlamentare nella quale il senatore Mauro Bulgarelli chiedeva al Governo di valutare l'opportunità di estendere anche in Italia il concetto del fair use. Il governo ha risposto che non è necessario intervenire legislativamente in quanto già adesso l'articolo 70 della Legge sul diritto d'autore va interpretato alla stregua del fair use statunitense. A parere del Governo il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003, ha reso l'articolo 70 della legge sul diritto d'autore sostanzialmente equivalente a quanto previsto dalla sezione 107 del copyright act degli Stati Uniti. Sempre secondo il Governo, sono quindi già applicabili i quattro elementi che caratterizzano il fair use:

finalità e caratteristiche dell'uso (natura non commerciale, finalità educative senza fini di lucro);

natura dell'opera tutelata;

ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all'intera opera tutelata;

effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione.

Sempre a parere del governo, la normativa italiana in materia del diritto d'autore risulta già conforme non solo a quella degli altri paesi dell'Europa continentale ma anche a quello dei Paesi nei quali vige il copyright anglosassone.

A rafforzare il diritto di corta citazione è nuovamente intervenuto il legislatore, che all'articolo 70 della legge sul diritto d'autore ha aggiunto il controverso comma 1-bis, secondo il quale «è consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro [...]». La norma, tuttavia, non ha ancora ricevuto attuazione, non essendo stato emanato il previsto decreto ministeriale. Altre restrizioni alla riproduzione libera vigono nella giurisprudenza italiana, come, per esempio, quelle proprie all'assenza di libertà di panorama.

Francia. In Francia la materia è regolata dal Code de la propriété intellectuelle.

Unione europea. L'Unione europea ha emanato la direttiva 2001/29/CE del 22 maggio 2001 che i singoli Paesi hanno applicato alla propria legislazione. Il parlamento europeo nell'approvare la direttiva Ipred2, in tema di armonizzazione delle norme penali in tema di diritto d'autore, ha approvato anche l'emendamento 16, secondo il quale gli Stati membri provvedono a che l'uso equo di un'opera protetta, inclusa la riproduzione in copie o su supporto audio o con qualsiasi altro mezzo, a fini di critica, recensione, informazione, insegnamento (compresa la produzione di copie multiple per l'uso in classe), studio o ricerca, non sia qualificato come reato. Nel vincolare gli stati membri ad escludere la responsabilità penale, l'emendamento si accompagnava alla seguente motivazione: la libertà di stampa deve essere protetta da misure penali. Professionisti quali i giornalisti, gli scienziati e gli insegnanti non sono criminali, così come i giornali, gli istituti di ricerca e le scuole non sono organizzazioni criminali. Questa misura non pregiudica tuttavia la protezione dei diritti, in quanto è possibile il risarcimento per danni civili.

Citazioni di opere letterarie. La regolamentazione giuridica delle opere letterarie ha una lunga tradizione. La citazione deve essere breve, sia in rapporto all'opera da cui è estratta, sia in rapporto al nuovo documento in cui si inserisce. È necessario citare il nome dell'autore, il suo copyright e il nome dell'opera da cui è estratta, per rispettare i diritti morali dell'autore. In caso di citazione di un'opera tradotta occorre menzionare anche il traduttore. Nel caso di citazione da un libro, oltre al titolo, occorre anche menzionare l'editore e la data di pubblicazione. La citazione non deve far concorrenza all'opera originale e deve essere integrata in seno ad un'opera strutturata avendo una finalità. La citazione inoltre deve spingere il lettore a rapportarsi con l'opera originale. Il carattere breve della citazione è lasciato all'interprete (giudice) ed è perciò fonte di discussione. Nell'esperienza francese, quando si sono posti limiti quantitativi, sono stati proposti come criterio i 1.500 caratteri. Le antologie non sono giuridicamente collezioni di citazioni ma delle opere derivate che hanno un loro particolare regime di autorizzazione, regolato in Italia dal secondo comma dell'articolo 70. Le misure della lunghezza dei brani sono fissati dall'art 22 del regolamento e l'equo compenso è fissato secondo le modalità stabilite nell'ultimo comma di detto articolo.

Citare, non copiare! Attenzione ai testi altrui. Scrive il 2 Giugno 2016 Chiara Beretta Mazzotta. Citare è sempre possibile, abbiamo facoltà di discutere i contenuti (libri, articoli, post…) e di utilizzare parte dei testi altrui, ma quando lo facciamo non dobbiamo violare i diritti d’autore. Citare o non citare? Basta farlo nel modo corretto! Si chiama diritto di citazione e permette a ciascuno di noi di utilizzare e divulgare contenuti altrui senza il bisogno di chiedere il permesso all’autore o a chi ne detiene i diritti di commercializzazione. Dobbiamo però rispettare le regole. Ogni testo – articoli, libri e anche i testi dal carattere non specificatamente creativo (ma divulgativo, comunicativo, informativo) come le mail… – beneficia di tutela giuridica. La corrispondenza, per esempio, è sottoposta al divieto di rivelazione, violazione, sottrazione, soppressione previsto dagli articoli 616 e 618 del codice penale. Le opere creative sono tutelate dalla normativa del diritto d’autore e non possono essere copiate o riprodotte (anche in altri formati o su supporti diversi), né è possibile appropriarsi della loro paternità. Possono, però, essere “citate”.

È consentito il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica…L’art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscono concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera». Vale a dire che – a scopo di studio, discussione, documentazione o insegnamento – la legge (art. 70 l. 633/41) consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o parti di opere letterarie. Lo scopo deve essere divulgativo (e non di lucro o meglio: il testo citato non deve fare concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera stessa).

Dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione. Per rispettare il diritto di citazione dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione.  Quindi, se per esempio state facendo la recensione di un testo, il diritto di citazione vi consente di “copiare” una piccola parte di esso (il diritto francese prevede per esempio 1500 caratteri; in assoluto ricordate che la brevità della citazione vi tutela da eventuali noie) purché diciate chi lo ha scritto, chi lo ha pubblicato, chi lo ha tradotto e quando. Nessun limite di legge sussiste, invece, per la riproduzione di testi di autori morti da oltre settant’anni (questo in Italia e in Europa; in Messico i diritti scadono dopo 100 anni, in Colombia dopo 80 anni e in Guatemala e Samoa dopo 75 anni, in Canada dopo 50; in America si parla di 95 anni dalla data della prima pubblicazione). Se volete citare un articolo, avete il diritto di riassumere il suo contenuto e mettere tra virgolette qualche stralcio purché indichiate il link esatto (non basta il link alla home della testata, per dire). Va da sé che no, non potete copia-incollare un intero pezzo mettendo un semplice collegamento ipertestuale! Questo lo potete fare solo se siete stati autorizzati. Tantomeno potete tradurre un articolo uscito sulla stampa estera o su siti stranieri. Per pubblicare un testo tradotto dovete infatti essere stati autorizzati. Quindi, se incappate in rete in un post di vostro interesse che non vi venga in mente di copiarlo integralmente indicando solo un link. Aggregare le notizie, copiandole totalmente, anche indicando la fonte, non è legale: è necessaria l’autorizzazione del titolare del diritto. E poi, oltre a non rispettare le leggi del diritto d’autore, fate uno sgarbo ai motori di ricerca che penalizzano i contenuti duplicati.

Prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. E se scoprite un plagio in rete? Dal 2014 non c’è più bisogno di ricorrere alla magistratura. Cioè non c’è più bisogno di un processo, né di una denuncia alle autorità (leggi qui). C’è infatti una nuova procedura “accelerata”, introdotta con il recente regolamento Agcom, e potete avviare la pratica direttamente in rete facendo una segnalazione e compilando un modulo (per maggior informazioni su come denunciare una violazione leggi la guida: “Come denunciare all’Acgom un sito per violazione del diritto d’autore”).

Volete scoprire se qualcuno rubacchia i vostri contenuti? Basta utilizzare uno tra i tanti motori di ricerca atti allo scopo. Per esempio Plagium. È sufficiente copiare e incollare il testo e analizzare le corrispondenze in rete. Spesso, ahimè, ne saltano fuori delle belle… Mi raccomando, prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. Quando fate una citazione – che si tratti di una grande poetessa o dell’ultimo cantante pop – usate le virgolette e mettete il nome dell’autore e del traduttore. È una questione di rispetto oltre che legale. E se volete essere presi sul serio, fate le cose per bene.

LO SPAURACCHIO DELLA CITAZIONE DI OPERA ALTRUI. Avvocato Marina Lenti Marina Lenti su diritto d'autore. A volte mi capita di rispondere a dei quesiti postati su Linkedin e siccome quello che segue ricorre spesso, colgo l’occasione per trattarlo,in maniera molto elementare (niente legalese! ), anche in questa sede. Si tratta di una delle maggiori preoccupazioni di chi scrive: la citazione. Può trattarsi della citazione di una dichiarazione rilasciata da qualcuno, oppure la citazione di un titolo di un libro o di un film, o similia. Spesso gli autori sono paralizzati perché pensano che ogni volta sia necessaria l’autorizzazione del titolare dei diritti connessi alla dichiarazione o all’opera citata. Ovviamente non è così perché, in tal caso si arriverebbe alla paralisi totale e tutta una serie di generi morirebbe: manualistica, saggistica, biografie… Bisogna ricordare sempre che il diritto d’autore, oltre a proteggere la proprietà intellettuale, deve contemperare anche l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui, a certe condizioni, in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. E’ per questo che si ricorre al concetto di fair use, che nella nostra Legge sul Diritto d’Autore si ritrova al primo comma dell’art. 70: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.

In aggiunta, il concetto è più chiaramente formulato nella Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, cui l’Italia aderisce, all’art. 10 comma 1: “Sono lecite le citazioni tratte da un’opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo”.

Dunque, non c’è bisogno di autorizzazioni se, per esempio, se in un dialogo, un personaggio riferisce all’altro di aver letto il libro X, o aver visto il film Y, o aver letto l’intervista rilasciata dal personaggio famoso Z. Diverso sarebbe, ovviamente, se ci si appropriasse del personaggio X dell’altrui opera Y per farlo agire nella propria (e se state pensando alle fan fiction, ebbene sì, a stretto rigore le fan fiction sono illegali, solo che alcuni autori, come J.K. Rowling, le tollerano finché restano sul web e sono messe a disposizione gratuitamente; altri, come Anne Rice, le combattono invece in tutti i modi). Lo stesso vale se si riporta la dichiarazione di un’intervista, oppure un brano di un’altrui opera. In questo caso basterà citare in nota la fonte: nome dell’autore, titolo dell’intervista/opera, data, numeri di riferimento (a seconda della pubblicazione), editore, anno. Oltretutto, riportare la fonte dà maggiore autorevolezza alla vostra opera perché dimostra che le citazioni riportate non sono "campate in aria". Ovviamente la citazione deve constare di qualche frase, non di mezza intervista o mezzo libro, altrimenti va da sé l’uso non sarebbe più "fair", cioè "corretto".

Bisogna tuttavia fare attenzione al contenuto di ciò che si cita, per non rischiare di incorrere in altri possibili problemi legali diversi dalle violazioni del diritto d’autore: se, ad esempio, si cita una dichiarazione di terzi che accusa la persona X di essere colpevole di un reato e questa dichiarazione è priva di fondamento (perché, ad esempio, non c’è stata una sentenza di condanna), ovviamente potrà essere ritenuto responsabile della diffamazione alla stregua della fonte usata.

Il concetto di fair use, a differenza che in Italia, è stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale molto sofisticata in Paesi come l’America. Magari in un prossimo post esamineremo i quattro parametri di riferimento elaborati dai giudici statunitensi per discernere se, in un dato caso, si verta effettivamente in tema di fair use. Tuttavia, nonostante questa lunga elaborazione, va tenuto presente che si tratta sempre di un terreno molto scivoloso, che ha volte ha dato luogo pronunciamenti contraddittori.

La riproduzione e citazione di articoli giornalistici. Di Alessandro Monteleone.

La normativa.

La materia trova disciplina nei seguenti testi di legge: art. 10, comma 1, Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche (ratificata ed eseguita con la L. 20 giugno 1978, n. 399); artt. 65 e 70, Legge 22 aprile 1941, n. 633 (di seguito anche “Legge sul Diritto d’Autore”).

L’opera giornalistica.

Come noto, l’opera giornalistica che abbia il requisito della creatività è tutelata dall’art. 1 della Legge sul Diritto d’Autore. Il quotidiano (ovvero il periodico) è considerato pacificamente opera “collettiva”, in merito alla quale valgono le seguenti considerazioni. In base al combinato disposto degli artt. 7 e 38, Legge sul Diritto d’Autore l’editore deve essere considerato l’autore dell’opera. L’editore – salvo patto contrario – ha il diritto di utilizzazione economica dell’opera prodotta “in considerazione del fatto che […] è il soggetto che assume su di sé il rischio della pubblicazione e della messa in commercio dell’opera provvedendovi per suo conto ed a sue spese”. L’editore è titolare “dei diritti di cui all’art. 12 l.d.a. (prima pubblicazione dell’opera e sfruttamento economico della stessa). E ciò senza alcun bisogno di accertare […] un diverso modo ovvero una distinta fonte di acquisto del diritto sull’opera componente, rispetto a quello sull’opera collettiva”, inoltre “il diritto dell’editore si estende a tutta l’opera, ma includendone le parti”.

Disciplina normativa in materia di citazione e riproduzione di articoli giornalistici.

Con riferimento alla possibilità di riprodurre articoli giornalistici in altre opere si osserva quanto segue:

La Convenzione di Berna contiene una clausola generale che disciplina la fattispecie della citazione di un’opera già resa accessibile al pubblico. In particolare, in base all’art. 10 della Convenzione di Berna, la libertà di citazione incontra quattro limiti specifici:

1) l’opera deve essere stata resa lecitamente accessibile al pubblico;

2) la citazione deve avere carattere di mero esempio a supporto di una tesi e non deve avere come scopo l’illustrazione dell’opera citata;

3) la citazione non deve presentare dimensioni tali da consentire di supplire all’acquisto dell’opera;

4) la citazione non deve pregiudicare la normale utilizzazione economica dell’opera e arrecare un danno ingiustificato agli interessi legittimi dell’autore. Per essere lecite, altresì, le citazioni devono essere contenute nella misura richiesta dallo scopo che le giustifica e devono essere corredate dalla menzione della fonte e del nome dell’autore.

Art. 10, Convenzione di Berna: “1)Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”.

Con riferimento alla normativa nazionale l’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore recita testualmente: “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato […]”.

L’articolo appena citato è considerato in dottrina una norma eccezionale non suscettibile di applicazione analogica con riguardo al carattere degli articoli, pertanto, l’elencazione sopra proposta ha natura tassativa. (R. Valenti, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza). Si deve comunque evidenziare che una parte della dottrina (R. Valenti, nota a Trib. Milano, 13 luglio 2000, in Aida, 2001, 772, 471) ritiene che una corretta interpretazione dell’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore porti a ritenere lecita solo la riproduzione di articoli di attualità a carattere politico, economico e religioso (con esclusione pertanto degli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico) che avvenga in altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite.

Ulteriore disciplina è dettata nell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore che fa salva la libera riproduzione degli articoli giornalistici, a prescindere dall’argomento trattato, purché sussista una finalità di critica, discussione od insegnamento. Questa norma dà prevalenza alla libera utilizzazione dell’informazione, proteggendo la forma espressiva e lasciando libera la fruibilità dei concetti. Art. 70 LdA: “1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica odi discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. 1-bis. E' consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell'università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all'uso didattico o scientifico di cui al presente comma 2. Nelle antologie ad uso scolastico la riproduzione non può superare la misura determinata dal regolamento, il quale fissa la modalità per la determinazione dell'equo compenso. 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. (R. Valenti, cit.). Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie anche questa norma ha carattere eccezionale e si deve interpretare restrittivamente. (Da ultime Cass. 2089/1997 e 11143/1996. L’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede inoltre che “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico”, perché siano leciti, “non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera [citata]”. Tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Infine, il terzo comma dell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede che “il riassunto, la citazione o la riproduzione” siano “sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In considerazione di ciò, la mancata menzione degli elementi succitati determina una violazione del diritto di paternità dell’opera dell’autore, risarcibile in quanto abbia determinato un danno patrimoniale al titolare del diritto.

Conclusioni. La lettura combinata degli artt. 65 e 70, Legge sul Diritto d’Autore porta a ritenere che, per citare o riprodurre lecitamente un articolo giornalistico in un’altra opera, debbano ricorrere i seguenti presupposti:

1) art. 65, LdA (limite contenutistico): nel caso di riproduzione di articoli di attualità che abbiano carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, tale riproduzione può avvenire liberamente purchè non sia stata espressamente riservata e vi sia l’indicazione della fonte da cui sono tratti, della data e del nome dell’autore, se riportato;

2) art. 70, LdA (limite teleologico e dell’utilizzazione economica): la citazione o riproduzione di brani o parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi qualora siano effettuati per uso di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica entro i limiti giustificati da tali fini e purchè non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera citata o riprodotta. In relazione ai singoli articoli, quindi, l’editore potrà far valere l’inapplicabilità dell’art. 65 LdA tutte le volte in cui “il titolare dei diritti di sfruttamento – dell’articolo riprodotto – se ne sia riservata, appunto, la riproduzione o la utilizzazione” apponendovi un’espressa dichiarazione di riserva.

IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA.

Diritto d'autore e interesse generale. Contemperare l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. Opera letteraria - giornalistica, fonte di informazione e di cronaca. Diritti costituzionalmente garantiti, senza limitazione dall'art 21 della Costituzione italiana: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»

Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.

Ad questa libertà è inoltre dedicato l'articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: Art. 19: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

La libertà di espressione è sancita anche dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848:

1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.

Tesi di Laurea di Rosalba Ranieri. Pubblicato da Studio Torta specializzato in proprietà intellettuale.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO” DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA. TESI DI LAUREA IN DIRITTO COMMERCIALE. IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA: IL CASO “GOMORRA” RELATORE: Ch.issima Prof. Emma Sabatelli LAUREANDA Rosalba Ranieri.

La maggior parte delle persone comuni, non giuristi, quando pensano al diritto d’autore hanno un’idea precisa: basandosi sui fatti di cronaca, ritengono che il diritto d’autore tuteli quel cantante o autore famosi ai quali è stata rubata o copiata l’idea della propria canzone o del proprio libro. Tuttavia questa è una visione alquanto semplicistica.

Sfogliando qualsiasi manuale di diritto industriale o un’enciclopedia giuridica veniamo a sapere che: “il diritto d’autore è quel complesso di norme che tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo riguardanti le scienze, la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro, la cinematografia, la radiodiffusione e, da ultimo, i programmi per elaboratore e le banche dati, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione, attraverso il riconoscimento all’autore dell’opera di una serie di diritti, sia di carattere morale che patrimoniale”. Dunque, del diritto d’autore non dobbiamo avere una visione riduttiva, come la si aveva in passato, in quanto il diritto d’autore ha un campo d’azione molto più ampio di quanto si possa ad un primo approccio immaginare. Si può ben pensare che in passato, a fronte delle rudimentali scoperte e conoscenze nei diversi settori in cui oggi opera, il diritto d’autore tutelava parzialmente l’autore, poiché solo gli scrittori di opere letterarie potevano esser lesi nel diritto esclusivo di usare economicamente la propria opera con la riproduzione non autorizzata della stessa a mezzo della stampa.

É dunque l’invenzione della stampa che fa sorgere l’esigenza di un diritto d’autore, che nasce prima in Inghilterra con il “Copyright Act”, la legge sul copyright (il diritto alla copia) della regina Anna del 1709; poi negli Stati Uniti, ispirati dalla legge inglese, con la legge federale del 1790 e poi in Francia con le leggi post-rivoluzionarie del 1791-1793, nelle quali si riconoscono per la prima volta i diritti morali dell’autore. Solo successivamente gli altri Stati europei, come l’Italia, adotteranno una legge a tutela del diritto d’autore. Tuttavia, prima di queste leggi, il diritto d’autore inizia a formarsi già nel mondo antico. Infatti nell’Antica Grecia non c’erano specifiche disposizioni legislative, perciò le opere letterarie erano liberamente riproducibili, ma veniva condannata l’appropriazione indebita della paternità. A Roma, invece, si distingueva il diritto di proprietà immateriale dell’autore (corpus mysticum), creatore ed inventore dell’opera, dal diritto di possesso materiale del bene del libraio e dell’editore (corpus mechanicum), essendo questi ultimi che possedevano materialmente i supporti contenenti le opere. Perciò, il diritto romano riconosceva i diritti patrimoniali soltanto ai librai e agli editori, perché una volta che l’opera fosse stata pubblicata (mediante una lettura in pubblico e la diffusione di manoscritti) i diritti venivano traslati sulla cosa materiale, invece agli autori riconosceva altri diritti quali: il diritto di non pubblicare l’opera, il diritto di mantenere l’opera inedita ed altri diritti inerenti la paternità. Con la caduta dell’Impero Romano, la cultura si rifugia presso i monasteri; infatti i monaci amanuensi, avendo a disposizione numerosi volumi, iniziarono a ricopiarne manualmente il contenuto presso vaste sale illuminate: le scriptoria. Poco tempo dopo nacquero le prime Università (a Bologna, Pisa, Parigi…) e di conseguenza la cultura non fu più di esclusivo appannaggio dei religiosi, ma anche dei laici. Molti uomini ricchi del Quattrocento si interessarono alla lettura soprattutto di testi religiosi, giuridici, scientifici, ma anche di romanzi. La diffusione della cultura e l’aumento della domanda di copie di testi letterari portò ad un mercato del libro, che permetteva ottime possibilità di guadagno, allorché fu inventata la tecnica, che avrebbe consentito la riproduzione dell’opera in maniera più rapida, più economica, e meno faticosa su centinaia o migliaia di copie. Nel 1455 nacque la stampa a caratteri mobili ad opera del tedesco Johannes Gutenberg e con essa nasce l’interesse di tutelare i testi e gli autori che li producevano. È con l’avvento della stampa che l’autore è riconosciuto come titolare di privilegi di stampa, che in passato erano concessi solo agli editori. Questo sistema resse fino al XVIII sec., fino alla produzione di leggi più organiche sul diritto d’autore. Dunque, si può affermare che il diritto d’autore in senso moderno nasce con l’invenzione della stampa e dalla necessità di dare tutela alle sole opere letterarie ed artistiche che possono essere prodotte a mezzo della stampa. Successivamente, esso fu esteso anche ad altre tipologie di opere, che possono essere prodotte con mezzi diversi dalla stampa. Il diritto d’autore si sviluppa al progredire della scienza e della tecnologia e questo ha reso ancora più ampio il margine del suo utilizzo; difatti, il diritto d’autore è oggi “un istituto destinato a proteggere opere eterogenee (opere letterarie, artistiche, musicali, banche dati, software e design)”, dunque anche opere digitali e multimediali, create con programmi di computer. Da qui emerge la difficoltà di delineare una nozione di opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore.

Inoltre, il diritto d’autore riconosce una pluralità di diritti (Si tratta del diritto esclusivo di riproduzione dell’opera e del diritto esclusivo degli autori di comunicare l’opera al pubblico “qualunque ne sia il modo o la forma” (con la rappresentazione, l’esecuzione e la diffusione a distanza)) e facoltà agli autori e diverse tecniche di protezione tanto da rendere difficile anche definirne unitariamente il contenuto. Tuttavia, è possibile ravvisare dei caratteri e dei requisiti comuni alle opere eterogenee, facendole rientrare nelle norme che tutelano il diritto d’autore, così come è possibile ravvisare degli interessi ben precisi che la legge del diritto d’autore tutela, come: l’interesse collettivo a favorire ed incentivare la produzione di opere dell’ingegno attraverso la libera circolazione delle idee e delle informazioni e l’interesse individuale, propriamente dell’autore, a godere del diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera per conseguire un profitto dall’utilizzazione di essa e a godere dei diritti morali, mediante i quali si tutela la personalità dell’autore.

LE FONTI NORMATIVE NAZIONALI ED INTERNAZIONALI La capacità dell’opera creativa di suscitare interesse non solo in delimitati ambiti territoriali ha fatto sì che non si potesse prevedere una tutela limitata nello spazio, bensì una tutela universale (L’interesse di conoscere o avere tra le mani un’opera d’ingegno non si limita ai soli cittadini del territorio in cui l’autore abbia inventato la sua creazione), che permettesse la diffusione e l’utilizzo economico dell’opera anche al di là dei confini di uno Stato. Per queste ragioni sono state elaborate Convenzioni internazionali multilaterali in materia di diritto d’autore e dei diritti connessi, le quali hanno portato uno stravolgimento della previgente disciplina (Fino al 1993, anno in cui entrò in vigore il Trattato CE, oggi Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, vigeva il principio di territorialità, in base al quale il nostro ordinamento rinviava alla legge dello Stato nel quale l’opera era utilizzata o era destinata ad essere utilizzata. In tal modo, il diritto italiano accordava protezione soltanto alle opere dei cittadini italiani o alle opere di autori stranieri che fossero state pubblicate o realizzate per la prima volta in territorio italiano. Inoltre, fino al 1993, vigeva il principio di reciprocità, superato dalle Convenzioni internazionali attualmente in vigore, secondo il quale in Italia si sarebbero potute tutelare altre opere di stranieri, solo in quanto lo Stato di appartenenza dello straniero accordasse la stessa protezione concessa ai propri cittadini alle opere dei cittadini italiani), ma hanno garantito ai cittadini di ciascuno Stato contraente la possibilità di godere di una tutela uniforme. La Convenzione più importante in ordine di tempo è la Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, firmata nel 1886 a Berna e modificata nelle successive conferenze diplomatiche, alla quale ha aderito il maggior numero di Stati. Da ricordare è anche: la Convenzione universale sul diritto d’autore, firmata nel 1952 a Ginevra da parte degli Stati che non avevano firmato la Convenzione di Berna, tra questi in primis gli Stati Uniti d’America; la Convenzione internazionale sulla protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione, firmata nel 1961 a Roma; I trattati dell’OMPI sul diritto d’autore e sulle interpretazioni, esecuzioni e fonogrammi, firmati nel 1996 a Ginevra, volti ad integrare le lacune delle precedenti Convenzioni. Queste Convenzioni non solo obbligano gli Stati firmatari a rispettare il principio di assimilazione o del trattamento nazionale, secondo il quale gli Stati devono accordare ai cittadini degli Stati contraenti la stessa protezione riconosciuta ai propri cittadini, ma, in aggiunta, prevedono anche una protezione minima specifica e comune per colmare le tutele insufficienti delle leggi nazionali. Nel nostro Stato il diritto d’autore è regolato tanto dalle Convenzioni appena richiamate, alle quali ha aderito l’Italia, quanto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in tema di non discriminazione, di libera circolazione dei prodotti e dei servizi e di tutela della concorrenza; dalle Direttive comunitarie emanate in materia di diritto d’autore e anche dalla l. 22 aprile 1941, n. 633 (La l. n. 633/1941 è stata novellata ripetutamente dal nostro legislatore per dare attuazione alle direttive comunitarie, in ragione dell’obbligo di adeguamento alla normativa comunitaria, che incombe su tutti gli Stati aderenti all’ UE.) e dagli artt. 2575- 2583 c.c., che hanno recepito la codificazione normativa del Droit d’auteur francese sancita nella legge del 19/24 luglio 1793 (La legge francese sul diritto d’autore del 1793, intitolata “Droit de proprieté des auteurs”, modificata il 3 agosto 2006, è tutt’ora vigente in Francia). Dunque, ci si può domandare per quale ragione una materia così consolidata, come è attualmente la tutela del diritto d’autore, sia oggetto di questa ricerca e, come si è già anticipato, la risposta al quesito risiede nel caso giudiziario “Gomorra”, alquanto recente, che ha suscitato un notevole interesse non solo tra i giuristi ma anche tra i meri lettori del libro. Analizzando il caso concreto è possibile scorgere una serie di questioni e di profili rilevanti sul piano giuridico, che incidono addirittura sull’esito della controversia giudiziaria, mettendo in crisi l’efficacia della tutela, che non sono regolati precisamente dal legislatore e sui quali dottrina e giurisprudenza non hanno raggiunto, ancora oggi, orientamenti pacifici. In altre parole, il caso giudiziario “Gomorra” può essere utilizzato come la cartina tornasole con la quale verificare l’effettiva efficacia degli strumenti posti a tutela del diritto d’autore.

(Il caso concreto applicato al tema trattato della riproduzione di un opera con doverosa citazione dell'autore e dell'editore, al netto nella menzione sul Plagio, ossia mancanza di citazione, nota dell'autore.)

Il Convenuto. Aspetto quantitativo ed incidentale: Dunque, i convenuti respingono le doglianze della parte attrice asserendo in primo luogo che le similitudini tra gli articoli di giornale e il libro sono dovute all’identità delle fonti consultate dai giornalisti e dall’autore (forze dell’ordine e investigatori) e che gli articoli di giornale rappresentano una componente qualitativamente e quantitativamente irrilevante del libro: poche pagine rispetto alle trecentotrenta dell’intero.

La Corte. Creazione di opera letteraria atipica. Accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet, utilizzando fonti di dominio pubblico al di là dello spazio temporale congruo, senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica”.

Tribunale di Napoli – sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale sentenza n. 773, 7 luglio 2010. Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto:

1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro. (L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.)

2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”.

3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941. (L’art. 101 l. n. 633/1941 così recita “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”).

La Corte d'Appello. Distinzione di Articoli di giornale: Cronaca; Opinione; Intervista. La rilevanza dello spazio temporale. Prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato.

Corte d'Appello di Napoli - Sezione specializzata in materia d'impresa. Sentenza 4135/2016 del 26 settembre 2016, pubblicata il 21 novembre 2016 RG 4692/2015 repert n. 4652/2016 del 21/11/2016.

Gli articoli di giornali e le riviste rientrano a pieno titolo tra le opere protette dal diritto d’autore, ai sensi dell’art. 3 l. n. 633/1941. Sull’assunto non può sorgere alcun dubbio, non solo a causa della lettera della norma, ma anche perché bisogna distinguere le tipologie di articoli: l’articolo di cronaca, l’articolo d’opinione e l’intervista.

Il primo dà notizie di un avvenimento di attualità in modo obiettivo; perciò il cronista deve riferire l’accaduto, senza inserire alcun commento sulla vicenda.

Il secondo contiene non solo informazioni e riferimenti all'attualità, ma anche l'opinione del giornalista su una determinata questione di costume, di cronaca, culturale, ecc…

L’intervista, infine, è il resoconto di un dialogo tra l’intervistatore e la persona intervistata. Tuttavia, l’articolo di giornale, oltre ad avere carattere informativo, legato ai fatti di cronaca, può avere anche contenuti descrittivi e narrativi. In esso, infatti, il giornalista può inserire una propria visione ideologica, politica, culturale, sulla notizia in questione. A fronte di tale classificazione si esclude che gli articoli di cronaca possano essere plagiati a differenza di quanto avviene per gli articoli di giornale.

Le norme del diritto d’autore in tema di libere utilizzazioni sono del tutto eccezionali e ciò esclude che gli articoli di giornale tutelati possano essere riprodotti, citati o sunteggiati al di fuori dei rigorosi limiti in esse posti, nonché in assenza delle condizioni da esse previste. (...) É pur vero che, trascorso un certo spazio temporale dall’originaria pubblicazione della notizia, il fatto diventa notorio e non vi è alcuna violazione del diritto d’autore, se si utilizzano informazioni diffuse; tuttavia, rilevano le modalità con le quali le informazioni vengono usate. (...) È assolutamente fondato che nessuno ha il monopolio delle informazioni afferenti a fatti noti ed oggettivamente accaduti e che nessuno può subordinare all’obbligo di citazione la riproduzione o comunicazione di un’informazione, ma è pur vero che l’articolo di giornale può non essere solo informativo, come l’articolo di cronaca, quando non si limita ad esporre i fatti così come sono accaduti nella realtà, ma è connotato da una parte descrittiva e narrativa, che rende l’opera creativa e tutelata dal diritto d’autore. (...)

Gli articoli 657 , 708 e 1019 l. n. 633/1941 prevedono dei limiti ai diritti patrimoniali dell’autore, non anche a quelli morali, in quanto consentono la riproduzione, la comunicazione al pubblico, il riassunto, la citazione ecc… di opere per favorire l’informazione pubblica, la libera discussione delle idee, la diffusione della cultura e di studio, che prevalgono sull’interesse personale dell’autore. (L’art. 65 l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato”. 8L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”).

Corte di Cassazione. Prima sezione civile. Sentenza n. 12314/1015. L'originalità e creatività dell'opera creata con l'ausilio di articoli di giornale.

(...)La violazione del diritto d’autore non si ha solo nell’ipotesi di integrale riproduzione dell’opera altrui ma anche nel caso di mera contraffazione e, dunque, nel caso di riproduzione indebita di alcune parti dell’opera, nelle quali si ravvisano “i tratti essenziali che caratterizzano l’opera anteriore”. "Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47". Su questo punto la Cassazione si è più volte pronunciata (Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47. 12 Cass., 27 ottobre 2005, n. 20925, in Foro it. 2006, p. 2080; conf. Cass., 5 luglio 1990, n. 9139, in Giust. civ., 1991, p. 152), sostenendo che sia opportuno distinguere la riproduzione abusiva in senso stretto dalla contraffazione e dall’elaborazione creativa perché la prima consiste nella “copia integrale e pedissequa dell’opera altrui”; la seconda nella riproduzione non integrale ma sostanziale dell’opera, in quanto ci sono poche differenze e di mero dettaglio; la terza, invece, consiste in un’opera originale, in quanto si connota per l’apporto creativo del suo autore ed è, pertanto, meritevole di tutela, ex art. 4 l. n. 633/1941. (...)

Conclusioni.

Tuttavia, è certo che gli articoli di giornale e “Gomorra” seguono scopi distinti, infatti, con i primi si informa e si danno informazioni contingenti, invece, con il secondo si segue il fine di approfondire e di indurre il lettore alla riflessione sul fenomeno criminale denominato camorra. La forma e la struttura espositiva dell’opera permettono di riflettere su un altro punto nevralgico della vicenda, che vede, ancora una volta, opinioni contrastanti tra la dottrina e la giurisprudenza: l’articolo di giornale rientra tra le opere protette dal diritto d’autore? Risponde al quesito sia l’art. 3 l. n. 633/1941, che annovera tra le opere tutelate dal diritto d’autore anche gli articoli pubblicati su giornali e sulle riviste, sia la distinzione tra l’articolo di cronaca e l’articolo d’opinione. Come si può leggere nel Cap. III, par. 3.1, l’articolo di cronaca non può essere plagiato, in quanto, per definizione, si limita a narrare i fatti così come sono accaduti, nella loro successione cronologica, senza che vi ricorrano i requisiti che un’opera protetta dal diritto d’autore debba avere per legge. Tali requisiti sono elencanti nel Cap III, par. 3.1. L’articolo di opinione, invece, non è una mera elencazione, bensì, un’esposizione di fatti con terminologie e prospettive proprie del giornalista, correlate, in taluni casi, dalle opinioni di chi scrive. In essi, dunque, il giornalista racconta i fatti in modo creativo, suggerendo un’impronta personale, tali da ricondurli direttamente a se stesso, cosicché è possibile che vi siano articoli scritti da giornalisti diversi, che, seppure raccontano gli stessi fatti, non incorrono nel plagio. Gli articoli di opinione possono, dunque, essere oggetto di plagio. In conclusione, l’articolo di giornale, che ricorre nel caso giudiziario in esame, non è assimilabile ad un articolo di cronaca, così come delineato nel Cap. I, par. 1.3, e, colta questa differenza, non si può negare che l’articolo di giornale sia un’opera protetta dal diritto d’autore. Tuttavia, è bene chiarire che riconoscere come meritevoli di tutela gli articoli di giornale, nei limiti appena chiariti, non significa attribuire l’esclusiva dell’informazione al giornalista e alla testata giornalistica presso la quale costui lavora, in quanto il singolo giornalista non può essere l’unico legittimato a dare informazioni. Se così fosse, si riconoscerebbe il monopolio dell’informazione a favore della testata giornalista, che per prima ha dato la notizia, in contrasto con il principio fondamentale di libertà d’espressione, sancito nell’art. 21 della Costituzione. Sul punto si rinvia al Cap. III, par. 3.2.

Non sempre è sufficiente riconoscere fra le opere protette dal diritto d’autore gli articoli di giornale perché essi possano esser tutelati efficacemente dal diritto d’autore. Infatti, come dimostra il caso esaminato, la prospettiva assunta per l’analisi della controversia può indurre il giudice a mettere in secondo piano gli articoli rispetto il libro. Più precisamente, il giudice avrebbe potuto escludere il plagio, se, durante il confronto delle due opere letterarie, ne avesse enfatizzato il suo carattere originale e creativo, rispetto alla conformazione delle notizie di cronaca contenute nell’opera. Assumere questa prospettiva, in cui il libro diventa il termine di paragone prevalente, significa non dare la giusta rilevanza agli articoli di giornale nel giudizio di plagio. Rileverebbe unicamente che gli articoli di giornale occupino un esiguo numero di pagine del libro e, poiché rappresentano una piccola parte, si escluderebbe, a priori, che un’opera alla stregua di “Gomorra” possa essere un’opera plagiaria. Pertanto, la quantità delle pagine del libro, nelle quali sono riportati gli articoli di giornale, non ritengo sia una ragione valida per escludere il plagio. Assumere, invece, la prospettiva opposta, nella quale gli articoli di giornale diventano il primo termine di paragone, consente di rilevare il plagio, se quest’ultimi sono riprodotti nel libro con la stessa forma e la stessa struttura espositiva dei giornalisti e senza che ne venga citata la fonte. In queste disposizioni normative, la legge speciale sul diritto d’autore ammette la libera pubblicazione o comunicazione al pubblico e la libera citazione delle opere protette dal diritto d’autore, affinché, in tal modo, si permetta la diffusione delle informazioni, del sapere e della cultura. Tuttavia, tale interesse generale non deve ledere i diritti d’autore, ma deve realizzarsi nel rispetto delle norme, sancite dal legislatore. Per impedire che si violassero i diritti d’autore, si è attributo alle norme che sanciscono la libera utilizzazione dell’opera protetta il carattere eccezionale. Ciò significa che esse si applicano secondo le modalità e nei casi espressamente previsti dal legislatore e che non sono suscettibili di applicazione analogica; pertanto, non è possibile applicare queste norme a casi diversi da quelli delineati dal legislatore. Dunque, le utilizzazioni devono avvenire mediante la citazione della fonte, della data e dell’autore - le c.d. menzioni d’uso - con le quali si riconosce che “una certa opera o parte di essa è frutto del lavoro di un 91 altro autore, così da evitare di essere accusati di plagio se si attinge da un testo altrui”. Se consideriamo il caso di specie, le menzioni d’uso mancano nel libro “Gomorra”. Invece, l’art. 65 l. n. 633/1941, che ritengo applicabile al caso “Gomorra”, resta, tuttavia, inosservato nell’esecuzione dell’opera. Pertanto, sarebbe bastato riportare la fonte, perché venisse riconosciuta infondata l’accusa rivolta nei confronti di Saviano. In tal modo, l’autore, non solo sarebbe stato scagionato da ogni accusa di plagio, ma avrebbe arricchito il suo lavoro di ricerca sui fatti raccontati, avrebbe permesso ai lettori di approfondire gli avvenimenti e, allo stesso tempo, il suo libro non sarebbe stato meno interessante. Dunque, la Corte non riconosce i presupposti in virtù dei quali è ammessa dal giudice in primo grado la libera riproduzione delle notizie contenute negli articoli, in quanto esclude che le vicende narrate negli articoli di Libra siano divenute di pubblico dominio e ritiene irrilevante che Saviano abbia riprodotto gli articoli nella sua opera a distanza di tempo. L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.  I primi due gradi di giudizio Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto: 1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale 16 combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro.  2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”. 3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941.

IL DIRITTO D’AUTORE NELL’OPERA GIORNALISTICA. I CARATTERI DELL’OPERA PROTETTA DAL DIRITTO D’AUTORE. Sarebbe utopistico credere che qualsiasi opera possa esser protetta dal diritto d’autore; infatti, lo sono solo le opere che hanno una serie di caratteri di fondo ben fissati da parte del legislatore. Pertanto, in presenza di opere nelle quali si ravvisano determinati requisiti si applica la disciplina concernente il diritto d’autore e le tutele previste al suo autore o ad altri soggetti, diversi da quest’ultimo, lesi nei loro diritti patrimoniali e morali. Si potrebbe pensare erroneamente che la ricorrenza delle medesime caratteristiche includa nella tutela del diritto d’autore solo opere omogenee, ma in realtà si tratta di una nozione così di ampio respiro da consentire ad opere diversificate ed eterogenee di rientrare comunque nella tutela del diritto d’autore. In essa rientrano, infatti, le opere letterarie, artistiche e musicali tradizionali, le banche di dati, il software e il design. Analizzare i caratteri dell’opera protetta dal diritto d’autore, dunque, diventa importante per comprendere in quali casi l’autore gode di determinati diritti e quando può agire a tutela di essi.

L’opera dell’ingegno umano. Il primo carattere che deve ricorrere affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore è quello di “opera dell’ingegno umano”. Si tratta di una nozione legislativa che si ricava dagli artt. 1 e 2 della l. n. 633/1941, nei quali rispettivamente si definiscono e si classificano le opere oggetto del diritto d’autore; esse sono il frutto di una “creazione intellettuale”, che si realizza a fronte dell’attività dell’intelletto umano di ideazione ed esecuzione materiale dell’opera. Dunque il concetto di creazione intellettuale é così ampio ed elastico da consentire addirittura di comprendere opere che appartengono a campi e categorie fenomenologiche diverse, come la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro e la cinematografia, le quali, seppure si avvalgono di mezzi espressivi differenti tra loro, allo stesso tempo presentano come primo carattere di fondo l’essere un’opera derivante dall’attività dell’ingegno umano.

Il carattere rappresentativo: la forma interna e la forma esterna Un requisito che ricorre nelle opere oggetto di tutela del diritto d’autore è il carattere rappresentativo, al quale Paolo Auteri attribuisce un significato: l’opera è destinata a “rappresentare, con qualsiasi mezzo di espressione (parola scritta o orale, disegni e immagini, fisse o in movimento, suoni, ma anche il movimento del corpo e qualsiasi altro segno), fatti, conoscenze, idee, opinioni e sentimenti; e ciò essenzialmente allo scopo di comunicare con gli altri”. In parole più semplici, l’opera deve avere una forma “percepibile” e non rimanere a livello di mero pensiero; ovviamente, se così fosse, la semplice idea astratta, che non è idonea a rappresentare con organicità idee e sentimenti, non potrebbe essere oggetto di tutela. Questo carattere è sancito a livello internazionale nell’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs, il quale protegge la forma espositiva con cui l’opera appare, ad es: l’insieme di parole e frasi (c.d. forma esterna); la struttura espositiva, ad es: l’organizzazione del discorso, la scelta e la sequenza degli argomenti, le prospettive adottate, ecc... (c.d. forma interna), e non il contenuto di conoscenze, informazioni, idee, fatti, teorie in quanto tali e a prescindere dal modo in cui sono scelti, esposti e coordinati. (L’Accordo TRIPs, “The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights” (in italiano, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), è un trattato internazionale promosso dall'Organizzazione mondiale del commercio, al fine di fissare i requisiti e le linee guida che le leggi dei paesi aderenti devono rispettare per tutelare la proprietà intellettuale. L’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs così recita: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali”. 29 La distinzione tra forma esterna, forme interna e contenuto è stata elaborata sin dall’inizio del secolo scorso ad opera di un autorevole giurista tedesco, il Kohler, e viene seguita dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti. Essa è stata fortemente criticata da più parti, tanto dalla dottrina, rappresentata da Piola Caselli in Italia e da Ulmer in Germania, che dalla parte minoritaria della giurisprudenza. Si è contestato, in breve, il fondamento teorico della tesi di Kohler e la difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere tali tre elementi a livello pratico. Inoltre, ci sono state pronunce di merito, come ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano del 11 marzo 2010, dalle quali emerge che non sempre il contenuto è irrilevante ai fini del riconoscimento del plagio. Infatti, è possibile distinguere le idee diffuse nella cultura comune dalle idee innovative, che non appartengono al pensiero comune e che possono essere ricondotte ad un autore in particolare. Secondo tali pronunce giurisprudenziali, l’utilizzo del primo tipo di idee in un’opera dell’ingegno non produrrebbe plagio purché le idee vengano rielaborate in modo originale, invece l’utilizzo del secondo tipo di idee, anche se espresse in forma diversa, difficilmente escluderebbero il plagio).

Il carattere creativo: originalità e novità. Il carattere creativo è un criterio espressamente richiesto dal legislatore, negli artt. 1 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore. In dottrina tale carattere non è definito in termini omogenei. Su questo punto, la dottrina è divisa: una opinione predilige il criterio della c.d. “creatività oggettiva” 30 , secondo il quale è creativa “l’opera dotata di caratteristiche materiali, oggettive appunto, tali da distinguerla da tutti i lavori ad essa preesistenti” 31 ; l’altra, invece, sostiene il criterio della c.d. “creatività soggettiva”32 , secondo il quale è creativa l’opera che riflette la personalità dell’autore e il suo modo personale di rappresentare ed esprimere fatti, idee e sentimenti, tale da renderla “direttamente riconducibile al suo autore” (c.d. individuabilità rappresentativa). In merito alla creatività soggettiva, la dottrina ha individuato due profili del carattere creativo: l’originalità e la novità. L’originalità consiste nel risultato di un’elaborazione intellettuale che riveli la personalità dell’autore, indipendentemente dalle dimensioni e dalla complessità del contenuto dell’opera, il quale può anche essere modesto e semplice o appartenere al patrimonio comune. Dunque sarebbero originali tutte quelle opere che, seppure appaiano molto simili tra loro, hanno un taglio o una prospettiva che le rende “frutto di una elaborazione autonoma del loro autore”. Invece la novità si ha quando sono nuovi o inediti gli “elementi essenziali e caratterizzanti” dell’opera, senza che la novità sia assoluta o diventi creazione. Infatti nuove non sono solo le opere che si basano su un’idea che non ha precedenti, ma anche quelle che rielaborano elementi di opere preesistenti con forme o mezzi di espressione innovativi, tali da distinguerle dalle opere precedenti (c.d. novità in senso oggettivo). L’orientamento che ha riscontrato il maggior successo nelle pronunce giurisprudenziali è quello della “creatività soggettiva”.

La compiutezza espressiva. Un altro requisito posto dalla legge per la tutela dell’opera dell’ingegno è quello della c.d. “compiutezza espressiva”, definita dalla dottrina come “l’idoneità a soddisfare l’esigenza estetica, emotiva o informativa, del fruitore di un determinato evento creativo”. Così come asserito da Kevin de Sabbata, tale nozione è assolutamente opinabile e non vi è ancora una pronuncia giurisprudenziale o uno studio dottrinale, che sia pervenuta ad attribuirle un significato stabile e chiaro. Motivo per il quale si ravvisa una difficoltà di applicazione del principio, seppure risulterebbe rilevante per la risoluzione di casi giudiziari di plagio parziale.

La pubblicazione dell’opera. Diversamente da quanto si possa pensare, il diritto d’autore non protegge solo le opere già pubblicate e già immesse nel mercato ma anche quelle non pubblicate e non note al pubblico, le c.d. opere inedite. Infatti, la Suprema Corte, riprendendo gli artt. 6 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., ha ribadito che il diritto d’autore ha origine nel momento della mera creazione dell’opera, che costituisce un atto giuridico in senso stretto, e non al seguito del conseguimento di formalità, come gli adempimenti di deposito e di registrazione dell’opera . Nel 2012 i giudici di legittimità hanno escluso definitivamente che l’opera debba costituire “una sorgente di utilità” ai fini di tutela, potendo, dunque, essere oggetto di tutela anche prima della pubblicazione.

IL DIRITTO D’AUTORE E IL DIRITTO D’INFORMAZIONE E DI CRONACA. Dato per scontato che il diritto d’autore tuteli, ai sensi dell’art.1 l. n. 644/1941 e dell’art. 2575 c.c., le opere caratterizzate da requisiti di fondo delineati nel paragrafo precedente, possiamo asserire che tali caratteri ricorrono nell’opera giornalistica e che, pertanto, anche gli articoli di giornale sono tutelati dal diritto d’autore. Estendere la disciplina del diritto d’autore all’articolo di giornale comporta, come conseguenza inevitabile, che le norme a tutela dell’autore possano incidere sull’esercizio dell’attività di comunicazione e di informazione sociale, che si promuove con l’opera giornalistica. Il diritto d’autore e il diritto d’informazione e di cronaca possono entrare addirittura in conflitto tra loro, perché, da un lato vi è l’interesse di tutelate i diritti patrimoniali e morali dell’autore con la limitazione della libera divulgazione delle opere protette e, dall’altro lato vi è l’interesse generale alla diffusione di informazioni esatte su fatti rilevanti e di interesse generale. Diventa, dunque, necessario approfondire i profili di rilevo costituzionale sui quali può incidere il diritto d’autore, quali il diritto 61 d’informazione e il diritto di cronaca, per poter comprendere come essi si conciliano tra loro. Il diritto d’informazione è un diritto fondamentale delle persone, che è compreso, assieme al diritto d’opinione e di cronaca, nella libertà di manifestazione del proprio pensiero, sancita a livello nazionale dall’art. 21 della Costituzione e a livello sovranazionale dall’art. 19 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e dall’art.10 co. 1, della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” , che consiste “nella libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari”, senza porre limiti in merito ai mezzi di espressione e in merito agli scopi, circostanze, contenuti da esprimere, ecc… Il diritto d’informazione ha una duplice profilo: quello attivo consiste nel diritto di informare e di diffondere notizie; invece, quello passivo consiste nel diritto di essere informati, sempre che l’informazione sia “qualificata e caratterizzata (…) dal pluralismo delle fonti da cui attingere conoscenze e notizie”. In conseguenza del diritto di essere informati è fatto divieto, ai sensi dell’art. 21, co. 2, Cost., di sottoporre la stampa a controlli preventivi. Nel nostro ordinamento è dunque, vietata la possibilità di sottoporre la divulgazione dell’informazione ad autorizzazioni o censure, al fine di evitare manipolazioni della notizia e compromettere il diritto della collettività a ricevere corrette informazioni. Il diritto dei cittadini ad essere informati si esercita mediante il diritto di cronaca, definito dalla giurisprudenza come “il diritto di raccontare, tramite mezzi di comunicazione di massa, accadimenti reali in considerazione dell’interesse che rivestono per la generalità dei consociati”. Dunque, l’informazione viene comunicata e diffusa per mezzo dell’esercizio del diritto di cronaca, il quale incontra una serie di limiti per evitare che l’esercizio di questo diritto possa ledere altri diritti inviolabili. Infatti l’art. 21 co. 3 Cost., sancisce il limite del rispetto del “buon costume”, generalmente inteso come il rispetto del “pudore sessuale”. Si tratta, però, di un concetto sprovvisto di una definizione normativa e, dunque, di un significato stabile, ma a ciò sopperiscono il legislatore e l’interpretazione giurisprudenziale, tenendo conto dell’evoluzione dei costumi. Ad esempio, la legge sulla stampa n. 47 del 1948, ha stabilito che é contrario al “buon costume” la pubblicazione di contenuti impressionanti e raccapriccianti, che provocano turbamento del “comune sentimento della morale o l’ordine familiare”. Tuttavia, tanto la giurisprudenza che il legislatore nelle altre brache del diritto ammettono ulteriori limiti, quando l’esercizio del diritto d’informazione, o più in generale del diritto d’espressione, potrebbe ledere altri diritti della persona costituzionalmente tutelati ed inderogabili, quali, ad esempio il diritto alla privacy o alla riservatezza, al nome, all’immagine, alla dignità della persona e ai diritti dell’autore, riconosciuti dalla legge sul diritto d’autore. A tal proposito, la giurisprudenza, a più riprese, ha individuato una serie di requisiti, che il giornalista deve rispettare per garantire un equo bilanciamento del diritto di cronaca con altri diritti inviolabili, che potenzialmente possono entrarvi in conflitto. Per quanto riguarda il bilanciamento degli interessi dell’autore alla tutela dei suoi diritti patrimoniali e morali con gli interessi della collettività alla diffusione delle informazioni e delle notizie è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 12 aprile 1973, n. 38, nella quale ha affermato che le norme del diritto d’autore, rapportate all’informazione giornalistica, non contrastano con i principi costituzionali perché non limitano in alcun modo la “libera estrinsecazione e manifestazione del pensiero” e non “assoggettano la stampa ad autorizzazioni o censure”, ma, piuttosto, “tutelano l'utilizzazione economica del diritto d'autore e sono dirette ad assicurare la prova e a determinare l'indisponibilità della cosa, sia per preservarla da distruzione o alterazione, sia per assicurare l'attribuzione dell'opera all'avente diritto, sia per impedire ulteriori danni derivanti da violazione del diritto di autore”. Infatti, il legislatore garantisce il diritto d’informazione e il diritto di cronaca, ammettendo la libera utilizzazione dell’opera protetta purché si seguano i fini esplicitamente delineati nell’art. 70 l. n. 633/1941 – per uso di critica o di discussione, insegnamento o ricerca scientifica – e purché tale utilizzazione non costituisca una forma di concorrenza economicamente rilevante. La ratio della norma si rinviene nelle esigenze di progresso e diffusione della cultura e delle scienze. La questione, però, non è pacifica perché, se da un lato la Corte Costituzionale afferma che la tutela del diritto d’autore non può limitare la libera manifestazione del pensiero, dall’altro, alcuni giudici di merito, di fronte al caso concreto, ritengono che il diritto di cronaca non possa incidere sull’estensione del diritto d’autore, in quanto, a tale proposito, nessun limite è previsto espressamente dalla legge. Di conseguenza, nei fatti la delimitazione reciproca dei due diritti è rimessa al prudente apprezzamento dei giudici di merito.

L’OPERA GIORNALISTICA. Sulla base degli argomenti esposti in precedenza si può, dunque affermare che anche l’opera giornalistica è tutelata dal diritto d’autore, essendo una creazione intellettuale, la quale deriva dall’esercizio del diritto d’informazione e di cronaca. Infatti, l’art. 3 l. n. 633/1941 annovera i giornali e le riviste tra le c.d. opere collettive, che sono “costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico, didattico, religioso, politico ed artistico”, ma non informativo. In effetti, l’opera giornalistica é il frutto di una molteplicità di apporti creativi di diversi autori, coordinati e selezionati dal direttore della testata giornalistica. Dunque, in tale opera si possono distinguere due distinti livelli creativi: quello dei singoli giornalisti, che contribuiscono a comporre l’opera, e quello del direttore, che provvede a progettare l’opera complessiva, a scegliere e coordinare i contributi, ad organizzare e dirigere l’attività creativa dei collaboratori. Una volta rilevata questa duplice creatività, sorge spontaneo domandarsi come il legislatore tuteli tali opere. Ciò che potrebbe risultare complesso è stato, invece, risolto con estrema facilità dal legislatore, il quale ha riconosciuto come meritevole di tutela non la creatività dei singoli giornalisti, bensì quella del direttore che, mediante l’attività di scelta, di coordinamento e di organizzazione dei contributi, realizza l’opera complessiva: l’opera giornalistica. È sulla base di questa prospettiva che ben si spiegano gli artt. 7 e 38 l. n. 633/1941. L’art. 7 l. n. 633/1941 riconosce come autore delle opere collettive “chi ha diretto e organizzato la creazione dell’opera stessa”. Pertanto, rivestendo il ruolo di autore dell’opera giornalistica, il direttore del giornale può, ex art. 41 l. n. 633/1941, “introdurre nell’articolo da riprodurre quelle modificazioni di forma che sono richieste dalla natura e dai fini del giornali”, le quali, se sono sostanziali, possono essere apportate solo con il consenso dell’autore, sempre che questi sia reperibile; altrimenti, ex art. 9 dal Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico (FNSI – FIEG 1 aprile 2013 – 31 marzo 2016), “l’articolo non dovrà comparire firmato nel caso in cui le modifiche siano apportate senza l’assenso del giornalista”. Normalmente gli articoli che, a giudizio del direttore, rivestono particolare importanza sono pubblicati con la firma dell’autore, invece quelli meno rilevanti possono essere riprodotti anche senza l’indicazione del nome dell’autore. Solo se non compare la firma dell’autore, il direttore della testata giornalistica non solo può modificare ed integrare l’articolo di giornale ma anche sopprimerlo e non pubblicarlo. L’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce il diritto di utilizzazione economica dell’opera all’editore, salvo patto contrario, senza precludere ai singoli collaboratori di utilizzare la propria opera separatamente, purché si rispettino gli accordi intercorsi fra i collaboratori e l’editore, nei quali sono precisati i limiti e le condizioni dell’utilizzazione separata dei contributi dei singoli, a salvaguardia dello sfruttamento dell’opera collettiva. Sostanzialmente l’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce lo sfruttamento economico dell’opera all’editore, nel rispetto dei principi fondamentali, ai sensi degli artt. 12 e ss. l. n. 633/1941, e allo stesso tempo garantisce il diritto ai giornalisti di utilizzare il proprio articolo separatamente dall’opera complessiva, senza pregiudicare il diritto di sfruttamento economico esclusivo dell’editore sull’opera collettiva. Infatti, il legislatore, nell’art. 42 l. n. 633/1941, assicura all’autore dell’articolo di giornale pubblicato in un’opera collettiva il diritto di riprodurlo in estratti separati o raccolti in volume, in altre riviste o giornali, purché “indichi l’opera collettiva dalla quale è tratto e la data di pubblicazione”. Alla regola dell’art. 38 l. n. 633/1941, il legislatore ammette una sola eccezione, fissata nel successivo art. 39, secondo la quale l’autore può riacquistare il diritto di disporre liberamente dell’opera al ricorrere di due condizioni: 1) quando il giornalista è estraneo alla redazione del giornale, non ha un accordo contrattuale con la testata giornalistica, ma ha invitato l’articolo al giornale perché venisse riprodotto in esso; 2) quando il giornalista non ha ricevuto notizia dell’accettazione entro un mese dall’invio o la riproduzione dell’articolo non è avvenuta entro sei mesi dalla notizia dell’accettazione.

LA RIPRODUZIONE E LA CITAZIONE DELL’ARTICOLO DI GIORNALE NELL’OPERA LETTERARIA. Talvolta un libro nasce dall’esigenza di voler raccontare una storia, frutto della fantasia dell’autore, basata su fatti realmente accaduti. Infatti, molto spesso leggiamo libri con riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti. Per scrivere un libro basato su fatti già accaduti e magari notori, lo scrittore deve informarsi servendosi di giornali, riviste e altro materiale, reperibile in qualsiasi modo. Così l’autore può ricostruire gli accadimenti e assumere informazioni dettagliate, utili per il proprio libro. Questa attività di ricerca e informazione risulta di grande importanza, in quanto, solo di seguito ad essa, lo scrittore inizierà a scrivere il suo libro. Però lo scrittore deve estrarre dalle fonti le informazioni utili e rielaborarle in modo creativo. Se, invece, si limita ad un lavoro di “copia e incolla”, corre il rischio di ledere il diritto d’autore. Una volta chiarito che, gli articoli di giornale e l’opera giornalistica nel suo insieme sono tutelati dal diritto d’autore, cosa succede se ad esser riprodotto senza citazione della fonte e dell’autore in un’opera letteraria, come è accaduto nel caso di specie “Gomorra”, sia un articolo di giornale? Per rispondere al quesito è necessario esaminare il contenuto degli artt. 65, 70 e 101 l. n. 633/1941, in materia di eccezioni e limitazioni del diritto d’autore.

Gli articoli di attualità. Nell’art. 65 della legge 53 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali, quando ricorrono tre requisiti:

1) che si tratti di articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, o altri materie dello stesso genere. Sul punto la dottrina è divisa, perché, da una parte c’è chi sostiene che sia lecita la riproduzione di articoli di attualità specificamente indicati dal legislatore (a carattere politico, economico e religioso), con l’esclusione degli articoli di cronaca a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico, mentre dall’altra parte c’è chi farientrare queste ultime fattispecie di articoli tra “gli altri materiali dello stesso carattere”; (L’art. 65 della l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichi la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato”). 

2) che siano pubblicati in riviste o in giornali;

3) che la riproduzione o l’utilizzazione non sia espressamente riservata, ovvero quando manchi l’indicazione, anche in forma abbreviata, delle parole “riproduzione riservata” o di altre espressioni dal significato analogo, all’inizio o alla fine dell’articolo, secondo quanto prevede l’art. 7 del regolamento di esecuzione della legge sul diritto d’autore, approvato con il R.D. 18 maggio 1942, n. 1369. È necessario a questo punto fare una puntualizzazione, perché potrebbe intendersi erroneamente il significato dell’espressione “libera utilizzazione”. La libera utilizzazione consiste nella riproduzione o comunicazione al pubblico dell’opera senza il consenso dell’autore, ma nel rispetto di determinati adempimenti, fissati dalla legge, come l’indicazione della fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato. Tali formalità devono essere adempiute anche nell’ipotesi, delineata dall’art. 65 co. 2 l. n. 633/1941, di riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti, utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità per fini informativi e di cronaca, fatta eccezione del caso di impossibilità di conoscere la fonte e il nome dell’autore. (“La riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità è consentita ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca e nei limiti dello scopo informativo, sempre che si indichi, salvo caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore, se riportato”).  La norma in esame è eccezionale e non suscettibile di applicazione analogica, ragione per la quale la libera utilizzazione non si estende alle rassegne-stampa; infatti, la riproduzione di queste ultime deve sempre essere effettuata con il consenso dei titolari dei diritti.

La libertà di citazione. Prima della legge italiana sul diritto d’autore, la libertà di citazione è stata regolata dall’art. 10 della Convenzione d’Unione di Berna, il quale riporta pressoché il contenuto fissato nell’art. 70 l. n. 633/1941. Il legislatore italiano non ha provveduto, come previsto dalla norma internazionale, a chiarire espressamente che l’opera citata debba esser stata pubblicata e che la citazione debba avere un carattere di mero esempio e supporto di una tesi e non lo scopo di illustrare l’opera citata. (L’art. 10 della Convezione di Berna così recita “Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”. 56 La Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche fu firmata nel 1886 a Berna e ratificata ed eseguita in Italia con la legge 20 giugno 1978, n. 399. Sul punto si rinvia al Cap I, par. 1.2.).

Infatti, nell’art. 70 della legge italiana sul diritto d’autore ( L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”)  il legislatore italiano si è limitato a sancire il libero riassunto, la citazione o la riproduzione dell’opera e la loro comunicazione al pubblico, purché:

1) vi ricorra una finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica, così da garantire l’informazione e la diffusione della cultura, in quanto si permette la libera fruibilità dei concetti esposti nell’opera. La dottrina precisa che si ha “uso di critica”, quando l’utilizzazione è finalizzata ad esprimere opinioni protette dagli artt. 21 e 33 Cost.;

2) l’opera critica abbia fini autonomi e distinti da quelli dell’opera citata e non sia succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate;

3) l’utilizzazione non sia di dimensioni tali da supplire all’acquisto dell’opera, pertanto l’utilizzazione non debba essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti e idonea a danneggiare gli interessi patrimoniali esclusivi dell’autore o del titolare di diritti; 4) siano rispettate le menzioni d’uso, quali l’indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione o la riproduzione, il nome dell’autore e dell’editore. Dottrina e giurisprudenza concordano che anche questa disposizione normativa sia del tutto eccezionale, cosicché non può essere applicata per analogia, ma deve essere interpretata restrittivamente.

Informazioni e notizie giornalistiche. L’art. 101, infine, tutela le informazioni e le notizie giornalistiche, stabilendo che sono liberamente riproducibili altrove, purché non si ricorra ad “atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e (…) se ne citi la fonte”. In questo primo comma, il legislatore non ha definito gli atti contrari, ma ha fatto rinvio alle regole di correttezza professionale, fissate nel codice deontologico dell’attività giornalistica, lasciando al giudice il compito di decidere, in merito ai casi concreti per i quali è chiamato a giudicare, se quel comportamento è scorretto o meno. (L’art. 101 co. 1 l. n. 633/1941 sancisce che “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”). Tuttavia, il legislatore colma la genericità del primo comma con il secondo, nel quale specifica alcuni comportamenti che, senza alcun dubbio, costituiscono atti di concorrenza sleale: per esempio, la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso a coloro che ne hanno diritto, oppure prima che l’editore autorizzato abbia pubblicato la notizia; il c.d. “parassitismo giornalistico”, che si ha nel caso in cui il giornalista scorretto effettua la riproduzione o la radiodiffusione sistematica di informazioni e notizie, attingendo da altri giornali o fonti, che svolgono un’attività giornalistica a fine di lucro. Tutte queste pratiche scorrette sono sanzionate dalla legge con l’arresto dell’attività di concorrenza, con la rimozione degli effetti dell’illecito, con la condanna al risarcimento dei danni e la pubblicazione della sentenza. (L’art. 101 co. 2 l. n. 633/1941 così recita “Sono considerati atti illeciti: a) la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie giornalistiche o di informazioni, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso e, comunque, prima della loro pubblicazione in un giornale o altro periodico che ne abbia ricevuto la facoltà da parte dell'agenzia. A tal fine, affinché le agenzie abbiano azione contro coloro che li abbiano illecitamente utilizzati, occorre che i bollettini siano muniti dell'esatta indicazione del giorno e dell'ora di diramazione; b) la riproduzione sistematica di informazioni o notizie, pubblicate o radiodiffuse, a fine di lucro, sia da parte di giornali o altri periodici, sia da parte di imprese di radiodiffusione”).

CRONACA, INDAGINE GIORNALISTICA E ANALISI SOCIALE. Quando accade un fatto di rilievo pubblico, un ruolo fondamentale è svolto dal cronista, il quale giunge presso il luogo del fatto per raccontare gli avvenimenti così come accadono, nella loro precisa successione cronologica, realizzando un’attività di testimonianza diretta o indiretta. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”). Dunque, appare evidente che, diversamente dal giornalismo tradizionale, il quale attinge le notizie da fonti ufficiali e istituzionali perché si dia informazione sui fatti, il giornalismo d’inchiesta impiega mesi e mesi per sviluppare e preparare un’indagine giornalistica in quanto approfondisce aspetti e circostanze su fatti socialmente rilevanti, così da indurre il lettore a riflettere e formare la propria opinione, seppure diversa da quella letta sul giornale. L’inchiesta, pertanto, mette in rilievo problemi sociali o vicende politiche attuali e consente di compiere un’analisi sociale. L’inchiesta e la cronaca sono tipologie giornalistiche che si distinguono da “Gomorra”, la quale è a tutti gli effetti un’opera letteraria, che racchiude diversi generi, come “il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Dunque, accanto alla cronaca giornalistica, che consiste nel narrare fatti realmente accaduti “secondo la successione cronologica, senza alcun tentativo di interpretazione o di critica degli avvenimenti”, vi è il romanzo, un componimento letterario in prosa, di ampio sviluppo, frutto della creazione fantastica dell’intelletto dell’autore; il saggio, un componimento relativamente breve, nel quale l’autore “tratta con garbo estroso e senza sistematicità argomenti vari (di letteratura, di filosofia, di costume, ecc.), rapportandoli strettamente alle proprie esperienze biografiche e intellettuali, ai propri estri umorali, alle proprie idee o al proprio gusto”; e per finire il pamphlet, definito come un “breve scritto di carattere polemico o satirico”.

Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte. 

Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.

Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.

Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate. 

Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.

Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.

Popgiornalismo. Il caso e la post-notizia. Un libro di Salvatore Patriarca. Con le continue trasformazioni dell’era digitale, diventa sempre più urgente mettere a punto dinamiche comunicative che sappiano muoversi con la stessa velocità con la quale viaggia la trasmissione dei dati e che, soprattutto, riescano a sviluppare capacità connettive in grado di ricomprendere un numero sempre maggiore di dati-fatti-informazioni. Partendo dal fenomeno giornalistico rappresentato da Dagospia – il sito di Roberto D’Agostino che ha saputo cogliere, sin dagli albori, le possibilità offerte dal mezzo digitale – il libro analizza i caratteri di una nuova forma giornalistica, il popgiornalismo. Al centro di questa recente declinazione informativa non c’è più la notizia ma la post-notizia, la necessità cioè di lavorare sulle connessioni e sugli effetti che ogni nuovo fatto, evento o dato determina. Da qui ne conseguono i tre tratti essenziali dell’approccio popgiornalistico: la “leggerezza” pesante dell’informazione, la conoscenza del quotidiano come opera aperta e la libera responsabilità del lettore.

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione.

Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506.

La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”.

La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)

Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.

Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.

Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)

Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.

Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.

Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)

Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.

Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.

NON CI SI PUO’ SOTTRARRE ALLE CRITICHE ONLINE.

Tribunale di Roma (N. R.G. 81824/2018 Roma, 1 febbraio 2019 Presidente dott. Luigi Argan): non ci si può sottrarre alle critiche online, scrive Guido Scorza 28 febbraio 2019 su l'Espresso. In un’epoca nella quale la libertà di parola, specie online, sembra condannata a dover sistematicamente cedere il passo a altri diritti e a contare davvero poco, un raggio di libertà, arriva dal Tribunale di Roma che, nei giorni scorsi, ha rispedito al mittente le domande di un chirurgo plastico che aveva chiesto, in via d’urgenza, ai Giudici di ordinare a Google di sottrarre il proprio studio dalle recensioni del pubblico o, almeno, di cancellare quattro commenti particolarmente negativi ricevuti da pazienti e amici di pazienti. Secondo la prima sezione del Tribunale, infatti, il diritto di critica viene prima dell’interesse del singolo a non veder la propria attività professionale compromessa da qualche recensione negativa e nessuno ha diritto, nel momento in cui esercita un’attività professionale o commerciale, a pretendere di essere sottratto al rischio che terzi, ovviamente dicendo la verità e facendolo in maniera educata, lo critichino. E questo, secondo i Giudici, è quanto accaduto nel caso in questione. Il chirurgo in questione non può né pretendere che Google rinunci a mettere a disposizione degli utenti un servizio che consente, tra l’altro, la raccolta di “recensioni” sulla propria attività né che non consenta agli utenti di pubblicare commenti negativi o che cancelli quelli pubblicati. Ma non basta. Il Tribunale di Roma mette nero su bianco un principio tanto semplice quanto spesso ignorato: non può toccare a Google sorvegliare che i propri utenti non pubblichino recensioni negative perché Google non ha, né può avere, alla stregua della disciplina europea della materia, alcun obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati da terzi. Google – e il Giudice lo scrive con disarmante chiarezza – ha il solo obbligo di rimuovere un contenuto quando la sua pubblicazione sia accertata come illecita da un Giudice e la notizia gli sia comunicata. E a leggere l’Ordinanza con la quale il Giudice ha respinto le domande d’urgenza proposte dal chirurgo vien davvero da pensare che tutti dovremmo iniziare a imparare ad accettare le critiche con spirito costruttivo e come stimolo a far meglio in futuro anziché investire ogni energia nel tentativo – vano, fortunatamente, in questa vicenda – di condannare all’oblio le opinioni di chi, su di noi, si è fatto, a torto o a ragione, ma dicendo la verità, un’idea che semplicemente non ci piace. Che un professionista, in piena società dell’informazione, davanti a un cliente – per di più suo paziente – che pubblica critiche del tipo “lavoro mal fatto, senza impegno e senza amore per la sua professione” o “Pessimo, assolutamente non idoneo a trattamenti di chirurgia estetica”, anziché fare autocritica non trovi niente di meglio da fare che correre davanti a un Giudice a domandare di trattare le parole altrui come carta straccia, da gettare di corsa nel tritacarta, è circostanza preoccupante. Probabilmente la volatilità tecnologica dei bit ci ha persuasi che le opinioni, le parole e le idee del prossimo valgano poco per davvero. Bene, dunque, hanno fatto i Giudici a ricordare che la critica è costituzionalmente garantita e che ci vuol ben altro che il rammarico di un chirurgo per qualche recensione poco lusinghiera – peraltro tra tante altre positive – per pretendere di veder cancellate, a colpi di spugna, le opinioni altrui.

Vincenzo Vita per blitzquotidiano.it l'11 ottobre 2021. Giornali in tv, con che criterio sono scelti?  Vincenzo Vita si interroga in questo articolo pubblicato anche sul Manifesto.

Perché il Manifesto è rigorosamente escluso dalle comparsate in televisione?

Mettiamola in bella copia. Nelle diverse trasmissioni televisive in cui sono invitate testate della carta stampata per discutere e analizzare, c’è un clamoroso limite dialettico. Taluni giornali sono sempre in video, con una reiterazione seriale. Altri no. Spicca per la pervicace emarginazione proprio il Manifesto. E non solo, ovviamente. Tuttavia, lo storico foglio della sinistra rappresenta qualcosa di più di un quotidiano. Essendo protagonista di una storia lunga (quest’anno sono 50) e impegnata sia nella politica italiana sia nell’editoria. Senza nulla togliere ad altre insistite presenze nei talk o negli svariati commentari, risalta a occhio nudo un’ingiustizia davvero ingiustificata fra i giornali.

Ma come mai tutto questo accade? Si tratta solo di una discutibile scelta discriminatoria o c’è una routine che orienta dietro le quinte gli inviti?

Il sospetto è giustificato, vista l’insistente diceria in base alla quale lo scambio delle diverse opinioni è oggetto di filtri orchestrati da apposite agenzie. Magari non è vero, ma le voci sono insistenti e le fonti svariate.

Siamo arrivati al punto – neppure immaginato dagli alfieri della società dello spettacolo- che persino la libera informazione è soggiogata ad uno sgradevole mercato?

Quello che corre tra le reti da mattina a sera ha le sembianze di un cartello oligopolistico, costituito da taluni assi portanti e da un contorno transeunte di copertura.

Con che criterio vengono effettuate, dunque, le ospitate?

Al di là delle ovvie considerazioni inerenti alla correttezza e alla serietà, è bene ricordare che nei periodi elettorali è doveroso un surplus di attenzione. La legge n.28 del 2000 ha il suo valore generale nel rispetto della par condicio, che non è solo un articolato testuale, bensì un criterio interpretativo. Va da sé, insomma, che i privilegi assegnati secondo logiche lontane dal rispetto dell’equità e del pluralismo escono dai confini dell’opportunità e del diritto sostanziale.

Come sono scelti i giornali per i dibattiti in tv? Da tutto ciò emerge un tema soffocato da un dibattito elusivo e superficiale. Vale a dire: come si costruiscono i palinsesti? Decidono coloro che dirigono formalmente canali e trasmissioni o gli agenti che scambiano e impongono gli interlocutori? 

Sono domande imbarazzanti, che neppure verrebbe voglia di fare. Il male è sempre brutto e pornografico. Tuttavia, una sineddoche – la cocciuta esclusione de il manifesto- ci apre la porta su un universo allarmante, che ci racconta la crisi della televisione generalista classica. Dalla liturgia austera ma equilibrata delle vecchie tribune politiche, si è passati alla deregulation. Simile flusso ininterrotto dei soliti volti ha certamente contribuito alla caduta di autorevolezza tanto della politica quanto dell’informazione, trascinate in un territorio dove conta solo l’audience. E al cospetto degli indici di ascolto si immolano spesso valori importanti, preferendo personaggi eccentrici o provocatori di mestiere a momenti riflessivi e utili alla comprensione. La disaffezione verso il voto (di cui l’ultima tornata amministrativa è un esempio di scuola) ha radici pure in una rappresentazione  degenerata. L’intreccio subalterno della televisione con i social, veri e propri attrattori di fake e di insulti, dà il colpo ferale. Stupisce che sull’insieme di tali questioni le istituzioni preposte alla vigilanza tacciano, in un silenzio che ormai sa di complicità. Ogni riforma del sistema ha bisogno di rimettere mano alle relazioni tra l’ambiente crossmediale e attrici o attori del discorso pubblico. Alla vigilia di delicati ballottaggi nelle città, una verifica urgente è indispensabile. Anche le testate vanno inquadrate nella par condicio.

PS: ho scritto più volte negli ultimi tempi sul capitolo doloroso della par condicio. Scripta volant, purtroppo. Non solo le violazioni continuano imperterrite, ma si è levata qualche audace voce sul silenzio elettorale. E non per proporre di rispettare il senso democratico della norma (domenica scorsa è stata ripetutamente aggirata), bensì per ipotizzarne l’abolizione. Non si finisce mai di imparare, dicono i saggi. Al di sotto di ogni sospetto.

Il web e gli intermediari di vigilanza. Piccole Note il 9 ottobre 2021 su Il Giornale. Il futuro della democrazia liberaldemocratica a quanto pare vive di censura: Google e Youtube hanno annunciato che vieteranno pubblicità negazioniste sul cambiamento climatico, o come si legge sul loro comunicato,  “contraddicono il consenso scientifico consolidato sull’esistenza e le cause” di tale mutamento. Una decisione che segue quella di Big Tech di contrastare i contenuti non in linea con il consenso riguardante il Covid-19. Qualcosa di sinistro si sta realizzando nelle asserite democrazie d’Occidente, dove la scure della censura chiude spazi di dialogo su temi che il Potere, quello vero, ritiene sensibili, lasciando piena libertà su tematiche secondarie. Così anche la censura di Fb del filosofo Giorgio Aganbem, il cui intervento, a giudizio dei censori del social, viola la verità rivelata sul green pass, appare esemplare di quanto sta avvenendo nel mondo. Censura ancora più illegittima e odiosa perché si abbatte su un intervento che il filosofo ha fatto in una sede istituzionale, la Commissione affari costituzionale del Senato, un’ingerenza, dunque, nella più alta sede rappresentativa del popolo italiano (da qui un simbolismo più sinistro). L’accademico, la cui biografia non lascia spazio a dubbi riguardo la sua autorevolezza (al di là della condivisione o meno dei suoi giudizi), aveva espresso la propria contrarietà all’introduzione del green pass, che, affermava, è stato introdotto surrettiziamente grazie all’emergenza della vaccinazione (tale misura non si è data in campagna vaccinali del passato). Il green pass, non la vaccinazione,  è dunque il focus della vicenda e l’obiettivo di certo potere, dato che si è introdotto un sistema di controllo della popolazione come mai prima d’ora. “I politologi – afferma – sanno che le nostre società sono passate dal modello di «società di disciplina» al modello «società di controllo». Società fondate sul controllo digitale virtualmente illimitato dei comportamenti individuali, che diventano così quantificabili con un algoritmo”. E si domanda: «È possibile che i cittadini di una società che si pretende democratica si trovino in una situazione peggiore dei cittadini dell’Unione Sovietica sotto Stalin?». Al di là se sia giusto o meno imporre certe limitazioni, dibattito nel quale non vogliamo entrare, la censura del filosofo non è altro che uno dei tanti eventi che confermano la stretta che sta avvenendo contro la divergenza dai dettati del Potere. La liberaldemocrazia si sta evolvendo in altro, usando il potere invasivo e capillare di internet, non più spazio di libertà alternativo, com’era ingenuamente rappresentato ai suoi esordi, ma, consegnato al monopolio di pochi a cui è stato dato il ruolo di “intermediari di sorveglianza”, come da definizione di una nota della Harward Law Rewiew. Si tratta di strette per ora limitate, coronavirus e clima appunto, ma è una deriva che, una volta intrapresa con tale assertività, non può che farsi più serrata. L’allarme sociale per tale deriva è circoscritto, pur se rumoroso, e ha pochi spazi di tribuna, dilagando invece sui media la narrazione che discende dal consenso della cosiddetta comunità scientifica, nella quale pure esiste un dissenso, sempre più emarginato e sterilizzato. Si noti, per inciso, come anche Galileo andasse contro il consenso della comunità scientifica di allora, lezione che evidentemente non è stata recepita dalla comunità attuale, che dovrebbe essere la prima a denunciare come errate certa prassi. Proprio l’idea di un asserito “consensus” sembra, invece, alla base questa svolta della liberaldemocrazia occidentale. Proprio il consensus all’autorità distingue l’autoritarismo dal totalitarismo, dato che il primo si impone con la forza, chiede cioè solo l’obbedienza del corpo, il secondo chiede invece l’adesione della mente, cioè l’anima. Quel che si va prospettando è un futuro distopico, anche se per fortuna esistono forze che si stanno opponendo a tutto questo, in una guerra – ché di questo si tratta – che si giocherà tutta nel cuore dell’Impero, con le colonie del tutto ininfluenti, almeno ad oggi. Anche per questo è importante la battaglia che si sta giocando su Fb, che ieri ha registrato un’altra disfunzione macroscopica (segno di un conflitto reale). Ma è da capire se la pressione di cui è fatta oggetto il social da parte del potere politico è volta a ridimensionare il mostro del web per aprire nuovi spazi di libertà nella rete oppure serve solo a restringere l’autonomia e i deliri di onnipotenza del suo creatore Mark Zurckeberg. Colpisce che, mentre Fb è sotto esame, nulla turba la pace dl twitter, che benché meno massivo, ha un peso immane nel mondo, basti pensare al ruolo che ha assunto nelle varie rivoluzioni colorate. Vedremo.

"Nessun divieto. E non solo per il mio "La scuola cattolica"". Pedro Armocida il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Girare un film su un doloroso fatto di cronaca, il massacro del Circeo, che ha avuto come vittime anche minorenni e vederselo vietare ai minori di 18 anni è una forma di censura?

Girare un film su un doloroso fatto di cronaca, il massacro del Circeo, che ha avuto come vittime anche minorenni e vederselo vietare ai minori di 18 anni è una forma di censura? Lo chiediamo a Stefano Mordini, regista di La scuola cattolica, ora in sala.

Mordini, Lei è l'unico regista italiano, con un film distribuito su tutto il territorio nazionale, ad avere avuto il fatidico V.M.18 negli ultimi quindici anni?

«Trovo assurdo che oggi si vieti ai ragazzi di vedere, attraverso un libero mezzo di espressione, quello che due ragazze come loro, anni fa, hanno subito. È un atto censorio priva una generazione di una presa di coscienza che potrebbe essere utile per difendersi da quella violenza».

Nella prima motivazione i commissari entrano nei contenuti dicendo che «presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice».

«Il film racconta l'esatto contrario e oltretutto ci sono degli errori formali che mi hanno spaventato per la leggerezza in un documento che diventa pubblico».

Mentre nella motivazione d'appello ci si limita a sottolineare come «un minore non abbia gli strumenti per elaborare e contestualizzare la crudezza di alcune scene».

«Su questo almeno mi posso confrontare. Oltretutto se fosse una critica cinematografica sarebbe bella perché parla della forza delle immagini, che ci deve essere, nel racconto di un fatto di cronaca come quello, anche se sono stato sempre molto attento a tenere la violenza finale fuori campo».

Il divieto V.M.18 crea anche un danno economico sia in sala sia in futuro perché La scuola cattolica non può essere trasmesso nelle tv generaliste.

«In effetti è un'avventura economica finanziare storie scomode come questa del Circeo. Questo divieto fa sì che continui la reticenza italiana nel rileggere alcuni passaggi che rendono paradigmatico il comportamento dell'uomo con la donna. Indubbiamente nel mio film ci sono elementi che disturbano, è una ferita aperta che produce reazioni di censura».

Oggi si parla molto di cancel culture. Un'altra forma di censura?

«Se guardiamo al cinema degli anni '70, poco dopo il periodo del massacro del Circeo, in sala c'era La banda del gobbo con Tomas Milian. Lì la violenza sulle donne è esplicita, vengono mostrate a seno nudo, picchiate, con l'uomo/il marito che veniva umiliato. Oggi sarebbe inimmaginabile ma così, anche vedendo cose scomode, capisci il contesto, la cultura di un popolo e un momento storico. Io non cancellerei nulla. Soprattutto perché è il segno di un percorso. Quella rappresentazione ci sta dicendo che la società si è evoluta».

C'è chi propone di mettere dei cartelli a inizio film per contestualizzare

«Farei un po' attenzione, è complesso trovare oggi un codice comune. Con lo streaming e con le piattaforme i nostri confini intellettuali sono soprannazionali. Le culture e le sensibilità sono diverse. E poi bisogna capire che società abbiamo di fronte, i sedicenni di oggi non sono quelli di prima. E se il mio film apre un dibattito anche su questo sono felice. Però sa alla fine che penso?».

No, mi dica.

«Che se esiste tutta questa attenzione e una censura che entra in questo modo a gamba tesa su un film, allora vuol dire che il cinema è ancora un grandissimo mezzo di espressione». Pedro Armocida

Gloria Satta per “il Messaggero” il 6 ottobre 2021. Vietato ai minori di 18 anni La scuola cattolica, il film di Stefano Mordini tratto dall'omonimo romanzo premio Strega di Edoardo Albinati (Rizzoli) sul massacro del Circeo. E scoppia la polemica contro la censura cinematografica che nell'aprile scorso il ministro Dario Franceschini aveva promesso di abolire, quantomeno di riformare. Il film, che ricostruisce l'atroce fatto di cronaca del 1975, vittime Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, uscirà in sala domani distribuito da Warner Bros dopo essere passato fuori concorso alla Mostra di Venezia, ma non potrà essere visto dai minorenni: lo ha deciso l'ufficio di Revisione Cinematografica del MiBac che nella ricostruzione dello stupro e dell'omicidio, commessi dai giovani-bene Andrea Ghira, Gianni Guido e Angelo Izzo, ha visto «una sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice». Per i commissari di due sezioni ministeriali congiunte, «i protagonisti della vicenda, pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire tutti incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti». La motivazione fa riferimento a una scena in cui un professore di teologia, interpretato da Fabrizio Gifuni, parla ai suoi allievi liceali del complesso rapporto tra bene e male ricorrendo a un paradosso filosofico: se al mondo c'è il bene, c'è anche il male. «È assurdo, quella sequenza dimostra semmai che è sempre possibile compiere una scelta etica e non deviare», insorge Mordini, 53, «tant' è vero che dopo la lezione due ragazzi rinunciano ad unirsi ai massacratori del Circeo. Questo atto censorio impedisce la presa di coscienza dei giovani sulla violenza contro le donne che ancora oggi è drammaticamente protagonista della cronaca». Si esprime anche Gifuni, 55: «Sono sconcertato, pensavo ad uno scherzo», commenta l'attore, in scena al Regio di Parma con lo spettacolo Letteralmente Verdi che racconta la genesi di Un ballo in maschera, tartassato dalla censura nel 1858. Albinati si definisce «sgomento perché è quanto meno singolare che a ragazzi e ragazze, purtroppo abituati a conoscere ogni genere di violenza, perversione e oscenità, venga proibito di conoscere la ricostruzione di una storia vera». Di «divieto arcaico che desta sorpresa e preoccupazione» parla il presidente dell'Anica Francesco Rutelli e altrettanto sorpresi si dicono i familiari di Donatella e Rosaria che avevano approvato il film. Barbara Salabè, presidente di Warner Bros Italia, si appella infine a Franceschini «perché mantenga la parola data di garantire la libertà di espressione agli artisti tanto più che il film è stato realizzato perché gli adolescenti lo vedessero». Dunque la censura esiste ancora? Come stanno le cose? La riforma Franceschini ha tolto all'anacronistica istituzione la possibilità di bloccare l'uscita dei film o imporre dei tagli: sul modello della Francia e altri Paesi, oggi spetta ai produttori autoregolamentarsi proponendo la visione per tutti o con eventuali limiti di età. La commissione ministeriale deve semplicemente verificare che la classificazione sia corretta. «Noi avevamo chiesto che La scuola cattolica fosse per tutti pronti però ad accettare il divieto ai minori di 14, lo stesso adottato a Venezia», spiega il produttore Roberto Sessa. Venerdì scorso, la commissione alza il divieto ai 18 e conferma la sua scelta lunedì sera dopo l'appello presentato dal produttore che oggi parla di «decisione oscurantista, un danno non solo economico per noi ma per la credibilità della cultura italiana». Ribatte Elda Turco Bulgherini, avvocato e docente universitaria, a capo della seconda commissione che ha imposto il divieto ai minorenni: «Abbiamo giudicato con una maggioranza più che solida al termine di un dibattito coinvolgente. Non siamo critici cinematografici chiamati a giudicare se un film è bello o brutto: a guidarci è stata l'esigenza di tutelare i minori».

Il ministero nega ci sia stata censura: "Niente tagli alla Scuola cattolica". Pedro Armocida il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Ma nella "nuova" legge sulla revisione cinematografica restano i divieti. A nulla sono valse le accorate difese dello stesso regista Stefano Mordini, del produttore Roberto Sessa, delle interpreti Valentina Cervi e Valeria Golino, e pure dell'autore del romanzo Edoardo Albinati, ascoltate dal vivo, come consente la legge, da ben due commissioni congiunte di revisione cinematografica della Direzione generale cinema e audiovisivo del ministero della Cultura. La mannaia del divieto ai minori di 18 anni per La scuola cattolica, film distribuito da oggi in sala da Warner, che potrà ricorrere solo al Tar, e tratto dall'omonimo romanzo di Albinati in cui viene messo in scena il tristemente noto massacro del Circeo, è calata decisa seppur a maggioranza. E pensare che il film era stato presentato, appena un mese fa, alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia con un divieto ai minori di 14 anni, una proposta fatta dal direttore artistico, Alberto Barbera, e accolta dal presidente della Biennale, Roberto Cicutto, proprio come la legge consente di fare solo ai festival. Ma niente, il divieto ai minori di 18 anni, dato dalla prima commissione, è stato confermato da altre due, seppure con una seconda motivazione meno attaccabile di quella che entrava nei contenuti dell'opera perché ora si è rilevato come un minore non abbia gli strumenti per elaborare la rappresentazione cruda e brutale di quella violenza. Un tipo di motivazione che in genere viene usata per gli horror come L'uomo nel buio - Man In The Dark, un altro film Warner, attualmente bloccato con un divieto ai minori di 18 anni in attesa dell'appello. Ed è curiosa questa recrudescenza dei fatidici V.M.18 - in sala c'è anche Titane - perché, negli ultimi dieci anni, si contano praticamente sulle dita di due mani. Su quanto accaduto si è giustamente acceso un vespaio di polemiche ma, a chi tira in ballo il Ministro Franceschini che, in aprile scorso, aveva annunciato l'abolizione della censura con la nuova legge sulla revisione cinematografica, risponde lo stesso ministero della Cultura, paradossalmente pure finanziatore del film, sottolineando come La scuola cattolica esca in sala, quindi senza censura e senza tagli, ma con uno dei divieti previsti anche dalla nuova normativa a tutela dei minori. Infatti le disposizioni, che entreranno in una fase di sperimentazione a breve, prevedono la responsabilità degli operatori, in genere i distributori, nell'indicare con 4 bollini le opere per tutti, le opere non adatte ai minori di anni 6, le opere vietate ai minori di anni 14 e le opere vietate ai minori di anni 18. Ma anche questa sorta di autoregolamentazione sarà sottoposta a verifica dal ministero con la nuova Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche guidata dal Presidente emerito del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, composta da quarantanove componenti, esattamente come oggi tanto che alcuni sono gli stessi. Aspettiamoci dunque anche in futuro un nuovo, ancora più anacronistico caso La scuola cattolica. Pedro Armocida

Da repubblica.it il 5 ottobre 2021. Il film di Stefano Mordini sul delitto del Circeo, dal romanzo di Edoardo Albinati, è stato vietato ai minori di 18 anni. La scuola cattolica, che arriva nelle sale giovedì, ha avuto l'indicazione dalla Commissione per  la classificazione delle opere cinematografiche incaricata dalla Direzione generale Cinema e audiovisivo del Ministero della Cultura di essere vietato ai minorenni. Questa la motivazione: "Il Film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice. In particolare i protagonisti della vicenda pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire tutti incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti. Questa lettura che appare dalle immagini, assai violente negli ultimi venti minuti, viene preceduta nella prima parte del film, da una scena in cui un professore, soffermandosi su un dipinto in cui Cristo viene flagellato, fornisce assieme ai ragazzi, tra i quali gli omicidi del Circeo, un’interpretazione in cui gli stessi, Gesù Cristo e i flagellanti vengono sostanzialmente messi sullo stesso piano. Per tutte le ragioni sopracitate la Commissione a maggioranza ritiene che il film non sia adatto ai minori di anni diciotto". Un'interpretazione che il regista Mordini rigetta totalmente: "Non riesco a trovare delle ragioni valide per questa censura e se mi sforzo di trovarle, mi inquietano. Nella motivazione della commissione censura si lamenta il fatto che le vittime e i carnefici siano equiparati, con particolare riferimento a una lezione di un professore di religione, ma questo è esattamente il contrario di quello che racconta il film, e cioè che, provenendo dalla stessa cultura, è sempre possibile compiere una scelta e non deviare verso il male. Una delle due vittime, all'epoca, era minorenne e il nostro è un film di adolescenti interpretato da adolescenti. Trovo assurdo che oggi si vieti ai ragazzi anche solo di vedere, attraverso un libero mezzo di espressione, quello che due ragazze come loro anni fa hanno subito, questo atto censorio priva una generazione di una possibile presa di coscienza che potrebbe essere loro utile per difendersi da quella violenza spesso protagonista nella nostra cronaca.  E questo perché alcune delle ragioni di quella tragedia sono purtroppo ancora attuali". Il film tratto dal romanzo Premio Strega di Edoardo Albinati che fu compagno di scuola degli assassini, ricostruisce i drammatici fatti del delitto del Circeo, quando nella notte tra il 29 e il 30 settembre del 1975 Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira violentarono per 36 ore Rosaria Lopez e Donatella Colasanti portando alla morte la prima e ad un trauma mai più risanabile la seconda, morta poi a 47 anni. "I miei assistiti sono, rispettivamente, sorella di Rosaria Lopez e fratello di Donatella Colasanti, e ne sono anche eredi mortis causa" dichiara l'avvocato Stefano Chiriatti. “Hanno visionato, unitamente al sottoscritto scrivente, il film La Scuola Cattolica. Il loro evidente coinvolgimento, personale e affettivo, nella vicenda narrata, per la parte che li riguarda, ha indotto in Letizia e Roberto il risvegliarsi di traumi e dolori profondi, legati a quanto patito nel 1975 e negli anni successivi. Malgrado l’enorme sacrificio, umano ed emotivo, legato alla rievocazione vivida, visiva e sonora, di quanto accaduto alle rispettive sorelle, hanno, tuttavia, apprezzato la volontà di tramandare, anche in chiave di ammonimento per il futuro, la memoria della loro tragedia, soprattutto alle giovani generazioni. Hanno, pertanto, appreso con grande sorpresa della decisione del Ministero della Cultura di vietare la visione del film ai minori degli anni diciotto". D'altronde il regista lo aveva detto a Venezia: "Noi ci auguriamo che questo film venga visto dai giovani, abbiamo scelto di parlare di una storia anni Settanta partendo da un libro per togliere l'argomento dalla responsabilità dalla cronaca e riportarlo il più possibile alla contemporaneità e a un certo tipo di deriva che forse il cinema può aiutare a osservare". L'attenzione del film si concentra oltre che sulla scuola sulle famiglie di questi ragazzi, al giovane cast composto da Benedetta Porcaroli, Giulio Pranno, Emanuele Maria Di Stefano, Giulio Fochetti, Leonardo Ragazzini, Alessandro Cantalini, Andrea Lintozzi, Guido Quaglione, Federica Torchetti, Luca Vergoni, Francesco Cavallo, Angelica Elli, si affiancano attori di esperienza come Fabrizio Gifuni, Fausto Russo Alesi, Valentina Cervi, Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca che interpretano insegnanti e genitori. Lo scorso aprile il Ministro  Dario Franceschini, alla firma del decreto che istituì la nuova Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche, commentò: "Abolita la censura cinematografica, definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti''.

La censura sale in cattedra e vieta ai minorenni il film sul massacro del Circeo. Stefano Giani il 6 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le motivazioni: "Equipara vittime e carnefici". Il regista Mordini: "È vero l'esatto contrario". La censura è morta. Evviva la censura. Dichiarata deceduta - o decaduta - non più tardi di sei mesi fa dal ministro della cultura Dario Franceschini torna in auge a furor di Direzione generale cinema del suddetto dicastero. Altro che sepolta, insomma. È viva, vivissima. E ieri ha battuto un colpo, sollevando un vespaio. La scure è caduta su La scuola cattolica, il film di Stefano Mordini, presentato fuori concorso a Venezia all'ultima Mostra, non senza qualche tirata d'orecchie da parte della critica. E proprio al Lido, non più tardi di un mesetto fa, era stato vietato ai minori di 14 anni. Niente affatto, ha pensato bene la Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche. Il film, che tocca il delicatissimo tasto della strage del Circeo, va vietato ai 18. E così sarà, da domani, quando la tragedia di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti risorgerà indimenticata dalle coscienze italiane.

Nel '75 fu un dramma che sconvolse tutti, oggi fa perfino ribrezzo pensare che allora era stato catalogato come «reato contro la morale». E si è dovuto attendere fino al '96 per correggerlo in «crimine contro la persona». Tanto per inquadrare i risvolti sociali di quel delitto infame concepito dalla Roma bene dell'epoca. E forse proprio qui sta il punto, perché la mannaia della Direzione cinema ha alzato il tetto d'età proibita in considerazione del fatto che «la narrazione ha come punto centrale la sostanziale equiparazione di vittima e carnefice. I protagonisti, pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti». In buona sostanza, un'omogeneità incomprensibile visto che il fatto di cronaca ha rivoluzionato anche l'ordinamento giuridico. Nello specifico, una scena ha particolarmente irritato i censori. Nella prima parte un professore, soffermandosi su un dipinto della Flagellazione, fornisce ai ragazzi, tra i quali gli omicidi del Circeo, un'interpretazione in cui gli stessi, Cristo e i flagellanti vengono sostanzialmente messi sullo stesso piano. Decisamente troppo in anni di femminicidi e #Metoo con rischi e pericoli annessi e connessi. Una valutazione messa in discussione però dal regista che ha puntualizzato quanto sia «esattamente il contrario di quello che racconta il film, e cioè che, provenendo dalla stessa cultura, è sempre possibile compiere una scelta e non deviare verso il male». E spiega di aver fatto un film di adolescenti interpretato da adolescenti come lo era allora una delle vittime. In fin dei conti, La scuola cattolica ha ricevuto anche l'ok di Letizia Lopez e Roberto Colasanti, sorella e fratello delle due ragazze scomparse, che per bocca del loro legale Stefano Chiriatti si sono sorpresi davanti al divieto ai minori di 18, interpretando quelle scene dolorose come un monito futuro per le nuove generazioni. «Non trovo ragioni valide per questa censura e, se mi sforzo di trovarle mi inquietano» ha chiosato il regista Mordini, ripreso dal presidente di Anica, Francesco Rutelli, in quello che sembra un pasticciaccio tutto interno al Pd. «C'è qualcosa che non va, se si pensa di far votare i sedicenni ma gli si impedisce di vedere un film, tratto dal romanzo di Edoardo Albinati che vinse il premio Strega» ha detto l'ex sindaco di Roma sottolineando come «gli annunci di abolizione della censura non hanno trovato riscontro in una procedura - spero per poche settimane - ancora in vigore». Su un aspetto sembra difficile dargli torto. Un divieto a giovanissimi, che hanno libero accesso sul web a contenuti violenti e spesso veramente indegni sia nel versante ludico sia in quello fin troppo spregiudicato del dibattito, sembra anacronistico e fuori dal tempo, ma tant'è l'italico costume. Uno scoglio che fa inciampare perfino lo stupore della Warner, casa produttrice del film. Le motivazioni del divieto, secondo l'azienda, sono inerenti all'impianto tematico e valutazioni artistico-espressive, entrambe al di fuori dell'ambito di competenza che la legge ammette in merito di revisione cinematografica. Il contrario di quanto Franceschini proclamò esultante in aprile: «Abolita la censura e quel sistema di controlli che consentiva allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti». Come non detto. Stefano Giani 

"Carnefici e vittime equiparati": censurato il film sul delitto del Circeo. Erika Pomella il 5 Ottobre 2021 su Il Giornale. La scuola cattolica è il film che è stato presentato al festival di Venezia e che racconta il terribile delitto del Circeo: in queste ore la pellicola ha subito la censura che lo ha classificato come vietato ai minori di diciotto anni. La scuola cattolica è l'ultimo film di Stefano Mordini, presentato in anteprima mondiale allo scorso festival di Venezia e tratto dall'omonimo romanzo di Edoardo Albinati. La pellicola tratta della violenza perpetrata ai danni di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, in un caso di cronaca nera diventato famoso come il delitto del Circeo. La scuola cattolica vede tra i protagonisti attori come Riccardo Scamarcio e Valeria Golino e racconta il tremendo massacro avvenuto nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1975 nel comune di San Felice Circeo, sul litorale pontino del Lazio. La storia raccontata da La scuola cattolica è anche la testimonianza di un crimine che ha avuto un forte peso sulla giurisdizione italiana, al punto da aprire le porte a un dibattito legale e politico che si sarebbe concluso solo nel 1996, quando secondo la legge italiana lo stupro e la violenza sessuale smisero di essere un reato contro la moralità e divennero crimini contro la persona. Durante la presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia La scuola cattolica era stato classificato come vietato ai minori di quattordici anni. Ora, come riporta il comunicato ufficiale della Warner Bros. La scuola cattolica è stato vietato ai minori di diciotto anni. Una decisione che è stata ampiamente criticata, anche dalla casa di produzione del film: nel comunicato della Warner Bros, infatti, si legge come: "la censura viene operata su un film che racconta una storia vera, una storia di omicidio e di stupro". La Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche incaricata dalla Direzione generale Cinema e audiovisivo del Ministero della Cultura ha giustificato la decisione asserendo: "Il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice. In particolare i protagonisti della vicenda pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire tutti incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti. Questa lettura che appare dalle immagini, assai violente negli ultimi venti minuti, viene preceduta nella prima parte del film, da una scena in cui un professore, soffermandosi su un dipinto in cui Cristo viene flagellato, fornisce assieme ai ragazzi, tra i quali gli omicidi del Circeo, un’interpretazione in cui gli stessi, Gesù Cristo e i flagellanti vengono sostanzialmente messi sullo stesso piano. Per tutte le ragioni sopracitate la Commissione a maggioranza ritiene che il film non sia adatto ai minori di anni diciotto.” Tuttavia questa spiegazione ha lasciato ancora più interdetti, dal momento che la decisione ruota intorno agli standard artistici ed espressivi dell'opera e, in questo modo, limita la libertà d'espressione degli artisti. Una decisione, inoltre, che va anche contro quanto aveva affermato il ministro Franceschini, quando aveva abolito la censura in ambito cinematografico. Il regista del film, Stefano Mordini, ha commentato così la decisione della Commissione arrivata come il proverbiale fulmine a ciel sereno su La scuola cattolica: "Non riesco a trovare delle ragioni valide per questa censura e se mi sforzo di trovarle, mi inquietano. Nella motivazione della commissione censura si lamenta il fatto che le vittime e i carnefici siano equiparati, con particolare riferimento a una lezione di un professore di religione, ma questo è esattamente il contrario di quello che racconta il film, e cioè che, provenendo dalla stessa cultura, è sempre possibile compiere una scelta e non deviare verso il male. Una delle due vittime, all’epoca, era minorenne e il nostro è un film di adolescenti interpretato da adolescenti. Trovo assurdo che oggi si vieti ai ragazzi anche solo di vedere, attraverso un libero mezzo di espressione, quello che due ragazze come loro anni fa hanno subito, questo atto censorio priva una generazione di una possibile presa di coscienza che potrebbe essere loro utile per difendersi da quella violenza spesso protagonista nella nostra cronaca. E questo perché alcune delle ragioni di quella tragedia sono purtroppo ancora attuali." Sulla decisione è intervenuto anche l'avvocato Stefano Chiriatti, che rappresenta la sorella di Rosaria Lopez e il fratello di Donatella Colasanti, le vittime del massacro raccontato in La scuola cattolica, e ha riportato la reazione dei suoi clienti, che si sono mostrati a favore del film. L'avvocato ha infatti spiegato: "Hanno visionato, unitamente al sottoscritto scrivente, il film La Scuola Cattolica. Il loro evidente coinvolgimento, personale e affettivo, nella vicenda narrata, per la parte che li riguarda, ha indotto in Letizia e Roberto il risvegliarsi di traumi e dolori profondi, legati a quanto patito nel 1975 e negli anni successivi. Malgrado l’enorme sacrificio, umano ed emotivo, legato alla rievocazione vivida, visiva e sonora, di quanto accaduto alle rispettive sorelle, hanno, tuttavia, apprezzato la volontà di tramandare, anche in chiave di ammonimento per il futuro, la memoria della loro tragedia, soprattutto alle giovani generazioni. Hanno, pertanto, appreso con grande sorpresa della decisione del Ministero della Cultura di vietare la visione del film ai minori degli anni diciotto.” La notizia della censura su La scuola cattolica ha colto impreparato anche Francesco Rutelli, presidente dell'Anica che, secondo quanto riportato da Ciak, ha dichiarato: "Purtroppo gli annunci di abolizione della censura non hanno trovato riscontro in una procedura che – spero per poche settimane – è ancora in vigore. Mentre i nostri giovanissimi possono accedere attraverso il web a contenuti violenti e veramente indegni, opere dell’ingegno – in questo caso, un film importante tratto dal libro di Albinati che ha vinto il Premio Strega – vengono assoggettate a pareri occhiuti e fuori dal tempo. Qualcosa non funziona, se si pensa di far votare i sedicenni, ma gli si impedisce di vedere un film di qualità. Un film basato su fatti di cronaca, cui tutti hanno avuto liberamente accesso e che hanno profondamente interpellato la società italiana.”

Erika Pomella.  Nata a Roma, mi sono laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione di montaggio e da allora scrivo di Cinema e Spettacolo per numerose testate. Ho collaborato con l’Ambasciata Francese in Italia per l’organizzazione della prima edizione del festival del cinema francese a Roma. Parlo fluentemente francese e, quando non lavoro, passo il mio tempo a leggere montagne di romanzi e ad organizzare viaggi

Se la Procura vuole il bavaglio per la cronaca nera in tv. I magistrati di Marsala definiscono "morbosi" e dediti al depistaggio i programmi sul caso della bimba scomparsa. Ma la fuga di notizie viene da loro.. E c'è talk show e talk show... Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 04 ottobre 2021

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

C’è richiesta d’archiviazione e richiesta d’archiviazione. Con l’una si chiude un caso, con l’altra si può apre un mondo. La richiesta d’archiviazione della Procura di Marsala sull’eterno caso Denise Pipitone, per esempio, si affaccia su un mondo di strali e feroci polemiche, in cui la magistratura allaccia una cintura di tritolo alla tv della cronaca nera. Le toghe, a coté dell’archiviazione per Anna Corona e Giuseppe della Chiave, ribadendo un concetto già espresso la scorsa settimana, si producono in una vera e propria requisitoria scritta contro la “morbosità” con cui  i talk show televisivi hanno seguito la vicenda Pipitone, “generando una quantità di testimonianze e piste che poi si sono rivelate infondate”. L’ira funesta dei pubblici ministeri condanna l’essenza stessa dei talk show fatti di delitazzi, costruiti su lacrime e sangue: “L’influenza dei media è a tale punto che essi non si limitano a raccontare gli eventi piuttosto, spesso, in una gara a chi arriva prima tra diverse testate giornalistiche, a provocarli. E tali eventi hanno pure una sgradevole referenza sulle indagini in corso”. Si parla di circo mediatico che genera mostri. Nel rilievo esasperato dato alla sarabanda delle testimonianze di mitomani sta l’accusa principale: una volta c’è l’uomo che racconta di avere visitato anni addietro la casa dove abitava la madre della sorellastra di Denise, Anna Corona e intravede nel muro il rattoppo di un muro, come nel pertugio fosse schiacciato un piccolo cadavere. Un’altra si staglia la donna che invia la mail dove si vanta di avere visto Giuseppe Della Chiave insieme a Denise, a Pescara (quando, contemporaneamente erano a Marsala). Un’altra ancora si fa vivo il turista di passaggio, sicuro di aver riconosciuto Anna Corona nella hall di un albergo con solito spettro della bimba in braccio. E così via, in un crescendo tambureggiante di bufale, depistaggi, testi allucinati che più che Sherlock Holmes evocano Freud. I magistrati, nelle 58 e passa pagine del documento, articolano aguzzi j’accuse nei confronti di specifiche trasmissioni, Chi l’ha visto, Ore 14,  La vita in diretta,. “Sono osservazioni che non riguardano noi, chiedete agli altri talk show”, commenta tranchant Gianluigi Nuzzi, che col suo Quarto grado ha registrato gli scoop di Corona e Della Chiave indagati, non scivola nella polemica e –soprattutto, dicono i suoi- non si fa dettare la scaletta da Piera Maggio. E qui ritorna il concetto che alcuni dirigenti Mediaset fanno notare: dalle note documentali dei magistrati, la figura dell’avvocato Giacomo Frazzitta legale della madre di Denise riverbera nella narrazione come una sorta di burattinaio che danzerebbe sotto la luna delle investigazioni sbagliate e dei sospetti incrociati; e che muoverebbe le fila degli ospiti e dei copioni televisivi sui quali riluce la grande sceneggiatura di questo delitto imperfetto. Tra i più tirati in causa Milo Infante –che con il suo Ore 14 ha fatto riaprire il caso Pipitone- ribatte rigo per rigo, in diretta, alla Procura di Marsala: “Innanzitutto ci sono decine di programmi tv che hanno brillantemente riaperto e perfino risolto grandi casi che le Procure avevano frettolosamente archiviato. Poi, prima di parlare di cattivi giornalisti, parliamo di cattivi investigatori che riaprono inchieste solo per nuovi fatti scoperti dalle tv. E poi: da dove arrivano i documenti, le fughe di notizie e le violazioni del segreto istruttorio? Si dovrebbe indagare meglio sul ruolo ipocrita che certe istituzioni hanno con l’informazione. Ci accusano di fare il nostro mestiere. Ma dov’è il reato…?” . Viene anche fatto notare nota che molti dei suddetti depistaggi provengono da segnalazioni dell’ex pubblico ministero ora giudice del lavoro Maria Angioni, la donna più ossessionata al mondo dal caso Pipitone e non per nulla a processo per falsa testimonianza. Infante, tra l’altro, è l’unico in Rai che si svincola dall’omertà che stringe i conduttori di viale Mazzini (secondo le disposizioni dell’ ad Fuortes ogni dichiarazione deve essere autorizzata e protocollata ai piani alti, come tra i carabinieri, o i burocrati della Corea del nord…). Ma non è l’unico a notare che quasi tutti i programmi additati dai piemme sono targati Rai. Ma il punto è un altro. Può davvero la magistratura, al netto delle –molte, toppe- testimonianze tarocche che rischiano in un ciclo ipnotico d’inquinare l’inchiesta, permettersi di marchiare d’infamia interi programmi spesso costruiti su grandi professionalità? Meglio ancora: nei talk dove sta il confine tra servizio pubblico e cialtroneria? Probabilmente la risposta migliore l’ha data Monica Setta: ci sono talk di cronaca che grufolano su notizie già acquisite e talk che aggiungono ogni volta, senza commentare, nuovi tasselli all’architettura della verità processuale. Come per le archiviazioni, c’è talk e talk…

L'autocensura del David umilia l'arte. Giordano Bruno Guerri il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Se è vero che non è una censura l'esposizione a Dubai di una copia del David di Michelangelo, mostrata solo dalla vita in su, peggio mi sento, perché è un'autocensura. S e è vero che non è una censura l'esposizione a Dubai di una copia del David di Michelangelo, mostrata solo dalla vita in su, peggio mi sento, perché è un'autocensura. «Il David non è visto come sempre accade dal basso verso l'alto, ma accoglie i visitatori guardandoli in faccia», dice Davide Rampello, progettista e curatore del percorso espositivo del Padiglione Italia all'Expo, «di solito nessuno può guardarlo negli occhi». Già, ma di solito tutti possono guardarlo intero, genitali (peraltro modesti), cosce muscolose a grandi piedi compresi. Se davvero si fosse voluto ottenere l'effetto «a me gli occhi», mezzi economici e tecnici non sarebbero mancati, invece di affossare oltre metà della costosa riproduzione negli uffici, invisibile al pubblico. Autocensura, dunque, per non disturbare i pudici padroni di casa. Come avvenne cinque anni fa, quando ai Musei Capitolini qualcuno decise di coprire con pannelli bianchi le statue di corpi nudi durante la visita del presidente iraniano Hassan Rouhani. «Penso che ci sarebbero stati facilmente altri modi per non andare contro alla sensibilità di un ospite straniero così importante senza questa incomprensibile scelta di coprire le statue», dichiarò allora il ministro Dario Franceschini. Ma, a dispetto del buon senso, l'abbiamo fatto di nuovo. Rampello - uomo simpatico, intelligente e di grande fantasia si esibisce in un'arrampicata sugli specchi tanto spettacolare da valere un premio alla creatività italiana: il David sarebbe un testimonial della memoria, «Nel Rinascimento la memoria era la madre di tutte le Muse, Michelangelo sapeva che senza memoria non ci può essere né scienza né arte. Senza memoria l'uomo perde la capacità di raccontare il mondo. Ecco, questa è una copia del David per testimoniare la memoria». Non si capisce perché, in questo sforzo titanico di testimoniare la memoria, David debba rinunciare ai glutei rotondi e al pisello, cui con Michelangelo era certamente affezionato. La memoria, per noi, è il ricordo della nostra civiltà e della nostra cultura, che da più di mezzo millennio hanno quasi liberato l'arte e noi da censure infantili sulle pudenda. Se altre culture non ce l'hanno ancora fatta, rispettiamole: ma dichiarandolo, senza nasconderci dietro la furbizia, tradizionale vizio (e vezzo) nazionale. Giordano Bruno Guerri

Psi: Bobo Craxi, "Rai rinuncia a proiezione Hammamet, censura sovietica e franchista". Notizie.it l'1 ottobre 2021. "Raitre aveva annunciato la proiezione di 'Hammamet'. Il film-romanzo di Amelio. Hanno rinunciato alla proiezione. Paura persino di uno sceneggiato”. Lo scrive su Twitter Bobo Craxi. “Dottor Franco Di Mare -aggiunge il figlio del leader socialista- lei sa che la censura è una prassi da regime sovietico e franchista? Ci rivolgeremo alla commissione di Vigilanza Rai, per capire le ragioni di questa censura”.

La Rai blocca la messa in onda del film "Hammamet". Polemiche dei socialisti. Il Quotidiano del Sud il 2 ottobre 2021. Erano molti i socialisti e gli appassionati di Gianni Amelio e Pierfrancesco Favino che venerdì sera si pregustavano di vedere o rivedere il film “Hammamet” programmato in prima serata su Raitre. Ma senza preavviso, e all’ultimo secondo, la Rai ha deciso di trasmettere il film “Arrivano i prof” con Claudio Bisio. Si sono registrate polemiche sui social, soprattutto da parte di Bobo Craxi, che ha polemizzato con il direttore di RaiTre, scrivendo: “Di Mare, lei sa che la censura è una prassi da regime sovietico o franchista?”. Il senatore Nencini ha preannunciato un intervento in Commissione di vigilanza. La Rai solo oggi pomeriggio ha diramato una nota in cui si legge: “A proposito della messa in onda del film Hammamet, originariamente prevista venerdì scorso, Rai3 informa che nell’ambito di una normale attività di modulazione del palinsesto l’opera di Gianni Amelio verrà trasmessa il 26 novembre”. Bettino Craxi, anche da morto e personaggio cinematografico continua ad essere ingombrante e divisivo.

Vittorio Feltri, la Rai censura il film su Bettino Craxi? "Perché è una scelta ridicola. E paghiamo pure il canone..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 04 ottobre 2021. Conosciamo tutti le debolezze e le storture della Rai. Ma stavolta non parliamo dei milioni che sperpera prelevandoli poi dalle tasche degli abbonati, costretti addirittura a pagare il canone sulle bollette della luce. Certe polemiche ormai hanno rotto le scatole più dei programmi inflitti agli italiani da tempo immemorabile. Il problema che vorremmo segnalare stavolta riguarda una certa stupidità che influenza il palinsesto. Raitre ha un direttore, Franco Di Mare, piuttosto bravo a prescindere dalle sue idee politiche, ammesso che abbia una. Costui aveva deciso di mandare in onda in questi giorni un film importante e ben fatto dal titolo Hammamet, girato nel 2020 da Gianni Amelio che narra gli ultimi sei mesi della tribolata vita di Bettino Craxi. Niente di più normale vista la caratura del personaggio che, nel bene e nel male, ha inciso nella storia recente del nostro vituperato Paese. Ebbene il lungometraggio in questione è stato bloccato, sinonimo di censurato, perché potrebbe influenzare le elezioni amministrative in corso. Motivazione ridicola. Craxi è morto oltre 20 anni orsono, il suo partito è stato sepolto purtroppo con lui, eppure per l'emittente statale o quasi la sua figura incombe ancora, negativamente, sulla nostra assurda politica. Siccome ieri e oggi si va alle urne, di Bettino è meglio non parlare, anche perché suo figlio Bobo è candidato al Comune di Roma. Vi sembra normale che il vecchio segretario socialista debba fare paura ai grillini che menano il torrone anche se egli è defunto da un paio di decenni? Siamo alla follia. I nostri connazionali sono condannati a non vedere una pellicola interessante e ben costruita solo perché un dirigente Rai è intimorito da un grande uomo politico ormai sotto terra da un quarto di secolo. E ciò che è ancora più folle è che Bobo venga coinvolto come un ostacolo alla proiezione. Il povero Di Mare però deve ingoiare un rospo ulteriore. Fabio Fazio ieri sera ha ospitato nella sua trasmissione Fedez, colui che alla Rai aveva dichiarato guerra. A noi il cantante non dà alcun fastidio, ma che senso ha invitarlo dopo le recenti battaglie con viale Mazzini che lo aveva censurato? Mistero. 

Rai3 cancella Craxi dal palinsesto "Inopportuno alla vigilia del voto". Stefano Zurlo il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il film non va in onda. Bobo: "Di cosa hanno paura?" Divide ancora. Passano gli anni, ma il nome di Bettino Craxi è sempre una pietra d'inciampo della politica italiana. Imbarazzo, dunque, per un film che sparisce dai palinsesti di Rai3. Hammamet, che è tutto tranne un'agiografia, era atteso sugli schermi venerdì sera, ma è stato sostituito in corsa come un cavallo zoppo. Bobo, rampollo di Bettino, twitta con la sciabola ed evoca la censura. Questioni di opportunità, ribattono in Rai, alludendo proprio alla sua candidatura a Roma come numero uno in una lista apparentata con Roberto Gualtieri. Un incrocio pericoloso per la bilancia della Rai, una scelta insensata per la famiglia del leader socialista. Hammamet racconta la parabola dello scomparso segretario del Psi, ma Gianni Amelio, uno dei grandi nomi del cinema italiano, si concentra sugli anni drammatici dell'esilio. E uno strepitoso Pierfrancesco Favino dà corpo a questi tormenti, solo che i fantasmi sono anche altrove: in Rai fanno due più due, una pellicola in cui c'è Bobo a 48 ore dalle amministrative, e tirano giù la saracinesca. «Avevano paura di dedicargli una via a Milano qualche anno fa - afferma Stefania Craxi, sorella di Bobo - hanno ancora paura di mio padre adesso, anzi di un film su di lui». Bobo è ancora più tranchant: «Qual è il nesso fra la messa in onda di un film che romanza la vicenda storica di un uomo di Stato che hanno già visto più di un milione di italiani e la candidatura di un suo discendente? La Rai3 ha operato un'imbarazzante censura». Franco Di Mare, il direttore delle rete, tace. Ma in Rai rispondono con la categoria dell'opportunità. Il candidato Bobo Craxi sarebbe andato in onda alla vigilia del voto, provocando malumori e mal di pancia vari. Insomma, le ragioni dell'arte e della storia, al cospetto di uno dei big del Dopoguerra, al confronto con la scrivania da ragionieri dei dirigenti di viale Mazzini e di un'azienda che pure in questi anni non si è fatta mancare niente. Punti di vista. Una mentalità che quando incontra le urne è costretta ad applicare la par condicio pure agli artisti più acclamati del grande schermo. E poi, sotto sotto, c'è sempre lui, Bettino che anche da morto, laggiù in Tunisia, attraversa come una faglia la società italiana che è uscita dalla tempesta di Mani pulite, ma fino a un certo punto. Abbiamo girato pagina, ma non del tutto. Lo statista morto da latitante è una contraddizione che il Paese si porta sempre dietro e non c'è modo di ricomporla fino in fondo. Almeno ora. Forse, le prossime generazioni troveranno un punto di equilibrio che oggi non c'è, come è accaduto per altre epoche lacerate da contrapposizioni insanabili. Nessuno aveva notato quel cognome ingombrante ai nastri di partenza. Sfortuna o, forse, disattenzione, al momento di varare i palinsesti. Ora la Rai butta acqua sul fuoco: Hammamet andrà in onda il 26 novembre. Una data, si spera, meno impegnativa. Stefano Zurlo

Scontro sul film sulla storia di Bettino Craxi. La Rai cancella ‘Hammamet’, Bobo Craxi contro il “grillino” Di Mare: “Censura da regime”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Ottobre 2021. Bettino Craxi resta ancora un argomento tabù, almeno per la prima serata di Rai3. La terza rete pubblica e il suo direttore Franco Di Mare, già nella bufera per il ritorno di Mauro Corona a Cartabianca e il ritiro della querela al rapper Fedez, deve affrontare un nuovo caso. La bufera questa volta arriva dall’improvvisa cancellazione del film “Hammamet”, previsto nel prime time di venerdì 1 ottobre su Rai3, ampiamente annunciato nei giorni precedenti con gli spot a tutte le ore, ma sostituito all’ultimo momento dal film “Arrivano i prof”. Il film di Gianni Amelio, che racconta gli ultimi mesi di vita dell’ex presidente del Consiglio socialista in Tunisia, dopo esser stato travolto da Tangentopoli, non è dunque andato in onda.  Una pellicola di qualità e pluripremiata, con Pierfrancesco Favino ad interpretare Craxi che per quel ruolo ha vinto un Nastro d’Argento e il Premio Flaiano. Dunque, perché il ‘no’ improvviso? In una nota diffusa a polemiche ormai già furenti, la Rai ha spiegato che la messa in onda di ‘Hammamet’ è stata spostata “nell’ambito di una normale attività di modulazione del palinsesto” e che sarà trasmessa il 26 novembre prossimo. Ad evocare la “censura” è invece il figlio di Bettino Craxi, Bobo, candidato a Roma a sostegno di Roberto Gualtieri. E non a caso c’è chi evoca la vicinanza con le elezioni del 3-4 ottobre dietro lo stop ad “Hammamet”: una motivazione dubbia, dato che la data del voto è nota da mesi e che la Rai poteva tranquillamente mandare in onda il film dopo le elezioni. Sempre Bobo Craxi non risparmia accuse pesanti a Di Mare, definito su Twitter un “grillino” che “pensa di pensa di essere il Direttore dell’EIAR”, “voce” del fascismo per gran parte del ventennio. Per Bobo Craxi il presunto nesso con le elezioni non regge: “Qual è il nesso fra la messa in onda di un film che romanza una vicenda storica di un uomo di Stato che hanno già visto oltre un milione di italiani e la candidatura  di un suo discendente? Mi sfugge. Rai3 ha operato una imbarazzante censura”, denuncia il candidato socialista a Roma. Craxi che si rivolge quindi direttamente al direttore di rete, Franco Di Mare, denunciando la censura “da regime sovietico e franchista” e annunciando che si rivolgerà “alla commissione di vigilanza Rai per capire le ragioni di questa censura”. A sostenere le istanze di Craxi c’è anche Riccardo Nencini, senatore del Psi e presidente della commissione istruzione e cultura del senato: “Ci sta una bella interrogazione parlamentare oltre al coinvolgimento della Commissione di Vigilanza Rai. Semplice e diretta: perché? Elezioni alle porte? Si sapeva da mesi. A proposito: Fedez da Fazio domenica parlerà di Orietta Berti? Un Craxi candidato? Si sapeva da tempo. Film sovversivo? Ma per piacere. L’Italia rigurgita di saluti fascisti, inneggiano a Hitler, i moralisti della Bestia si scoprono peccatori e la Rai che fa? Censura un bel film”. E a proposito di vigilanza Rai, sul caso ‘Hammamet’ è intervenuto anche il segretario della commissione, Michele Anzaldi. Il deputato di Italia Viva parla della cancellazione del film dalla prima serata di Rai3 come “ennesimo caso di sciatteria da parte della Tv pubblica, in questo caso duplice visto che, a partire dalla scelta del canale su cui trasmetterlo, è anche controproducente economicamente”. Parlando al sito vigilanzatv Anzaldi ricorda che il film di Gianni Amelio “è uscito nelle sale il 9 gennaio 2020, due mesi prima del lockdown e ha incassato nel primo giorno di programmazione 194.890 euro chiudendo al secondo posto del botteghino. Alla fine della prima settimana aveva sfiorato i due milioni e mezzo di euro diventando il miglior incasso di sempre per il regista Gianni Amelio. In totale, malgrado la chiusura dei cinema per il Covid-19, si è classificato al 21º posto dei film più visti nella stagione italiana 2019/2020, superando i 6 milioni e mezzo di incasso, finora. E non solo la Pay Tv lo ha pagato 1.250.000 euro; nel mercato degli home video (che è in crisi) ha incassato 120.000 euro, e 1.200.000 persone, nonostante la pandemia, sono andate nelle sale a vederlo. E invece la Rai generalista lo svende così! Ancor più grave il fatto che la Rai è anche co-produttrice, quindi anziché pensare a rientrare delle spese di produzione, lo ‘svende’ su Rai3 invece di programmarlo su Rai1. La cosa grave è che alla Rai se ne siano accorti solo poche ore prima della messa in onda del film già annunciato da giorni, e con la data delle elezioni nota da molti mesi. Possibile che, con tutti i direttori, vicedirettori, capistruttura, e così via, pagati profumatamente dal canone, nessuno alla Rai abbia saputo controllare?”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Sequestro preventivo di un’inchiesta di Fanpage.it: il problema non sono Durigon e Zafarana, ma la Magistratura. Fabrizio Capecelatro il 24/09/2021 su Notizie.it. La Magistratura sequestra un'inchiesta giornalistica prima che sia stato dimostrato che essa è un falso e quindi un reato. Tutti sono perseguibili di falsa testimonianza se in tribunale raccontano il falso. Tranne, ovviamente, l’imputato. Un principio cardine della nostra legislazione che si basa sull’evidenza che chi ha commesso un reato, o è sospettato di averlo commesso, debba poter perseguire il proprio diritto di difendersi. È compito della Magistratura stabilire o ristabilire la giustizia, attraverso propria attività prima di indagine e poi di giudizio. Lo stesso vale per chi diventa oggetto di un’inchiesta giornalistica, che ne smaschera le presunte (tali sono se da quell’inchiesta giornalista non ne parte una giudiziaria, che poi arriva a sentenza) attività illecite. Così come l’inquisito dalla magistratura ha – di fatto – il diritto di raccontare il falso, anche l’inquisito da un’inchiesta giornalista ha il diritto di provare in tutti i modi, leciti, a difendersi e proteggersi dalle accuse pubbliche che gli sono mosse. Nulla di eccepibile, quindi, nei confronti del Generale Giuseppe Zafarana, dell’ex sottosegretario Claudio Durigon e di chiunque altro avesse sporto querela per il contenuto dell’inchiesta Follow The Money, realizzata dai colleghi di Fanpage.it nel luglio del 2021: rientra nel loro diritto ed è il gioco delle parti. Ed è lo stesso Direttore di Fanpage.it, Francesco Cancellato a dirlo: “Per quell’inchiesta abbiamo già ricevuto diverse diffide e querele, com’è legittimo che sia. Chiunque si ritenga offeso o diffamato dai nostri articoli ha diritto di far valere le sue ragioni in un Tribunale, e ci sono un giudice e tre gradi di giudizio per accertarlo”. Diverso è invece che la Magistratura disponga effettivamente, come ha fatto, il sequestro preventivo di quell’inchiesta. Preventivo rispetto a cosa? Rispetto a una sentenza che stabilisca, eventualmente, che quell’inchiesta è falsa, diffamatoria e architettata: cioè che costituisca essa stessa, e non quello che dimostra, un reato. E non è sufficiente che nell’inchiesta, quella giornalistica, siano coinvolti un ex sottosegretario di Stato, un Generale della Guardia di Finanza e la possibilità che quest’ultimo possa non indagare come dovrebbe su un furto fatto dal partito del primo (la Lega) perché la Magistratura possa decidere di andare contro la legge. Al contrario è ammissibile che i due “inquisiti” cerchino, con i parametri imposti dalla legge, di richiedere quello che la legge stessa non gli permetterebbe di ottenere: l’oscuramento dell’inchiesta prima di aver dimostrato che essa è un reato. Ed è bene ricordare allora un altro principio cardine della nostra legislazione: è chi accusa che deve dimostrare le prove della colpevolezza dell’accusato e non quest’ultimo quelle della sua innocenza. E allora, visto che questo provvedimento è stato disposto in seguito a una querela per diffamazione presentata dal generale Giuseppe Zafarana il 28 luglio, è questo che deve dimostrare l’eventuale colpevolezza dei colleghi di Fanpage.it e non viceversa. La domanda allora sorge spontanea: la Magistratura italiana conosce i principi alla base della nostra legge o si limita a una mera applicazione delle norme?

Francesco Cancellato per fanpage.it il 23 settembre 2021. Oggi è successa una cosa grave, nella redazione di Fanpage.it. Abbiamo ricevuto un decreto del Gip di Roma che dispone il sequestro, mediante oscuramento, dei video che contengono l’inchiesta Follow The Money su Claudio Durigon e i fondi della Lega. Ricordate? In quell’inchiesta avevamo mostrato un video in cui l’onorevole Claudio Durigon diceva a un suo interlocutore che non bisognava preoccuparsi dell’inchiesta della procura di Genova sui 49 milioni di Euro che la Lega avrebbe sottratto allo Stato italiano perché il generale della guardia di finanza “l’abbiamo messo noi”. Per quell’inchiesta abbiamo già ricevuto diverse diffide e querele, com’è legittimo che sia. Chiunque si ritenga offeso o diffamato dai nostri articoli ha diritto di far valere le sue ragioni in un Tribunale, e ci sono un giudice e tre gradi di giudizio per accertarlo. Quel che ci è stato notificato oggi è molto diverso. Quel che ci è stato notificato oggi, il sequestro e l’oscuramento preventivo di un contenuto giornalistico, rimanda a provvedimenti che non dovrebbero essere emessi in un Paese in cui vige la democrazia e la cui Costituzione, perciò, non lo consente. L’articolo 21, dice che non si può: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili”. Dunque il sequestro preventivo di un prodotto giornalistico, anche se pubblicato sulle pagine web di un sito informativo registrato, è consentito solo ove si ipotizzino reati, diversi dalla diffamazione. Non è il nostro caso. Non si può sequestrare e oscurare il contenuto giornalistico per il reato di diffamazione, come confermato da numerose sentenze della Corte di Cassazione. Non si può sequestrare e oscurare in via preventiva, prima che la verità sia accertata. Non si può sequestrare e oscurare perché non vi è più l'esigenza cautelare, in quanto il video e la notizia sono stati ripresi da più giornali, circolano in rete e sono quindi di dominio pubblico. E non si può procedere contro ignoti, come ha fatto il Pm, quando gli autori dei servizi sono noti come lo è il direttore e possono difendersi se indagati, ma non possono se non sono iscritti. Lo ripetiamo: un’inchiesta giornalistica sarà messa offline, quando il provvedimento verrà eseguito, senza alcuna condanna, alcun procedimento o accertamento e senza aver nemmeno sentito gli autori del servizio e il direttore della testata giornalistica, perché posti nell’impossibilità tecnica di farlo. Nei prossimi giorni non vedrete più quei contenuti di fanpage.it, per una decisione di un Tribunale che contestiamo con forza. Quella che stiamo subendo oggi noi di fanpage.it è, a nostro avviso, una grave violazione della libertà di stampa che la Costituzione non consente. E un precedente pericoloso e intimidatorio che ci riguarda tutti.

Come giornalisti. Come lettori. Come cittadini.

Per questo non possiamo stare in silenzio.

Per questo abbiamo bisogno anche di voi. 

Per capire la Guerra civile è molto meglio "l'usato". Alessandro Gnocchi l'8 Settembre 2021 su Il Giornale. I libri meno conformisti sulla nostra Storia non si pubblicano più. Tocca fare modernariato. Per un bibliofilo, ma anche per un lettore qualsiasi, la bancarella di libri usati è croce e delizia. Croce perché c'è bancarella e bancarella: quelle specializzate in rarità impilano tesori che talvolta l'appassionato non si può permettere e lasciano il rimpianto, una struggente nostalgia per il volume così vicino eppure inarrivabile. Delizia, quasi per lo stesso motivo: c'è sempre la speranza che, guardando bene, salti fuori l'inaspettato, il capolavoro misconosciuto in vendita a pochi euro. Inoltre, davanti a una bancarella rifornita, ci si può levare curiosità a lungo coltivate oppure nate lì per lì, davanti a una copertina o a un nome attraente. E si torna a casa con una pila di libri acquistati a poco prezzo. Ah, che bello comprare tutti gli Achille Campanile e Marcello Marchesi ed Ennio Flaiano e Antonio Delfini e Giuseppe Berto e Giovanni Comisso che capitano sottomano. Che bello comprare le vecchie edizioni dei Canti di Giacomo Leopardi, con il commento di Giuseppe e Domenico De Robertis. E poi Papini, Prezzolini, Longanesi... Che bello dare la caccia alle varie edizioni di Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, una diversa dall'altra, anche nel contenuto. Che miniera di intelligenza può essere una bancarella. C'è un altro aspetto interessante. Sempre più spesso, capita al bibliofilo di imbattersi in libri che oggi nessuno pubblicherebbe, per i motivi più disparati. Chi stamperebbe oggi una edizione anastatica del manoscritto del Canzoniere di Umberto Saba? Chi fonderebbe una casa editrice (Aria d'Italia) per portare sugli scaffali le opere di un solo autore (Curzio Malaparte)? Chi farebbe una plaquette con un pugno di poesie di Pier Paolo Pasolini (Dal diario, Edizioni Salvatore Sciascia, a cura di Leonado Sciascia)? Per non dire dei fuori catalogo: Bagatelle per un massacro, il pamphlet antisemita di Luis-Ferdinand Céline, tanto spregevole nel contenuto quanto prezioso nello stile, si trova unicamente sulle bancarelle. Ci sono casi che lasciano perplessi, perfino sbalorditi. A cinque-dieci euro ti porti a casa un libretto di poche pagine ma sufficienti per fare una riflessione su come è cambiato il nostro Paese. Nel 1975, il direttore di Storia Illustrata Carlo Castellaneta allegò al numero 215 della rivista una piccola antologia, dal titolo La guerra civile in Italia contenente «testi di scrittori che furono testimoni di quelle vicende dalle due parti della barricata»; testi che «vogliono essere di monito alle nuove generazioni a non ricadere negli orrori di una guerra fratricida, ma anche un esempio nei valori della Resistenza» . Il volume raccoglie scritti di Nuto Revelli, Davide Lajolo, Valdo Fusi, Elio Vittorini, Beppe Fenoglio, Piero Caleffi, Ubaldo Bertoli, Carlo Levi, Giose Rimanelli, Mario Gandini. Il volume era targato Mondadori, ed era in una collana di «testimonianze di prima mano». Era una raccolta «editorialmente corretta», che non metteva in discussione i capisaldi ideologici della Resistenza. Però dava la parola anche ai vinti, in particolare dava il giusto rilievo a un romanzo come Tiro al piccione di Giose Rimanelli, che raccontava con efficacia il punto di vista di un repubblichino anzi repubblicano: «È veramente buffo: noi di quaggiù, i repubblicani, diciamo di essere i veri figli d'Italia; quelli che stanno in montagna dicono che l'Italia appartiene a loro. Intanto ci spariamo a vicenda e non sappiamo chi è nel torto e chi nella ragione». Il romanzo, autobiografico, ebbe una vita editoriale travagliata. Fu preso da Einaudi ma l'editore torinese, quando il libro era già in bozze, fermò tutto nonostante questo parere di Cesare Pavese: un «giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un'idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad ascoltare altre voci». Alla fine fu pubblicato da un editore ancora più grande: Mondadori, nel 1953. Ma rientrò nel catalogo di Einaudi nel 1991, l'anno in cui lo storico Claudio Pavone, da sinistra, recuperava il concetto di «guerra civile». Nello stesso anno Einaudi ripubblicò anche Un banco di nebbia di Giorgio Soavi, un'altra testimonianza dall'altra parte della barricata, anche in questo caso scartata (con qualche dubbio di Italo Calvino) da Einaudi e approdata a Mondadori nel 1955. Altri libri si sono poi aggiunti, in particolare quelli di Carlo Mazzantini (A cercar la bella morte è in edicola allegato con il Giornale). La antologia curata da Carlo Castellaneta ci interroga fin dal titolo: quella «guerra civile» potrebbe incappare in qualche accusa di revisionismo. Il contenuto... Beh, come immaginate verrebbe presa una selezione che mette assieme, sullo stesso piano, Uomini e no di Elio Vittorini (manicheo fin dal titolo, proprio lui, Vittorini, che aveva tessuto l'elogio dello squadrismo nella prima edizione del Garofano rosso) e appunto Tiro al piccione di Rimanelli, che non ha certezze da esibire? La domanda è retorica: una antologia così finirebbe massacrata da qualche antifascista in assenza di fascismo, una specie intellettuale tornata in grande spolvero nell'Italia di oggi. Non è che, per caso, mentre eravamo distratti dalle guerricciole politiche, la cultura italiana ha fatto uno o due passi indietro al punto da apparire meno libera perfino rispetto ad anni di forti divisioni ideologiche dalle conseguenze tragiche? Non sarà, alla fine, un problema di analfabetismo di ritorno, forse anche di andata? Una o due generazioni di chierici sono convinte che i «fasci» (categoria che comprende chiunque abbia idee diverse da loro) devono tacere, e così negano, innanzi tutto a se stessi, la più umile e meno giudicante delle virtù: la conoscenza, che precede le nostre, personali idee per illustrarci la complessità del mondo. Ecco, proprio «complessità» è la parola ipocritamente sventolata dalle menti semplici, e irresponsabili, che vogliono rifarci combattere una guerra civile per fortuna terminata da un pezzo. Alessandro Gnocchi

Loggia Ungheria, Alessandro Sallusti: lo scandalo sbianchettato dai grandi giornali. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 19 settembre 2021. Chissà perché quando atti giudiziari sensibili riguardano gli amici e gli amici degli amici scatta una gigantesca operazione di autocensura. Ieri né il Corriere della Sera, né La Repubblica né La Stampa hanno pubblicato una sola riga sui verbali in cui il faccendiere Amara delinea l'esistenza di una loggia segreta, la Loggia Ungheria, e fa i nomi di magistrati, politici e importanti uomini dello Stato che ne farebbero parte. Premesso che nulla è accertato, per cui potrebbe trattarsi di una millanteria in tutto o in parte, la notizia c'è eccome visto che proprio su quelle carte imboscate per due anni sono stati indagati a vario titolo il capo della procura di Milano Francesco Greco e magistrati di calibro tra i quali Piercamillo Davigo. Strano davvero questo silenzio, per di più da parte di testate che non hanno mai lesinato a fare paginate di documenti giudiziari ben prima che la veridicità del loro contenuto venisse vagliata e confermata dalle autorità giudiziarie. Ricordo, per fare un esempio, la pubblicazione delle centinaia di intercettazioni del caso Ruby che riguardavano il presidente del Consiglio in carica Silvio Berlusconi (poi assolto, ma il fango ormai era girato), ricordo decine di articolesse su una presunta Loggia, la P3, subito spacciata per grande scandalo solo perché coinvolgeva Denis Verdini allora pezzo grosso di Forza Italia (ovviamente poi assolto). Insomma, con i nemici politici dell'informazione si può fare carne di porco, con gli amici potenti, soprattutto se magistrati, le notizie sono tali solo se confermate in terzo grado di giudizio. A me questa storia della Loggia Ungheria puzza assai, ma meglio andare a vederci chiaro che girarsi dall'altra parte. A maggior ragione se chi svicola sono quei giornali che negli ultimi anni sono stati megafoni acritici, e quindi complici, delle peggio schifezze commesse da quel sistema deviato magistrati-giornalisti che in nome della giustizia ha dirottato più e più volte il corso della democrazia. Se certi giornali tacciono è solo perché qualche cosa di vero in questa brutta storia c'è e si sta tentando di non farlo emergere. Ci vorrebbe un Gabibbo, solo che qui non siamo a "Striscia la notizia" ma a "Straccia la notizia", programma non sottotitolato per bensì realizzato da non udenti.

Il tonfo del procuratore in tv. Editto di Gratteri contro il Riformista: “Non leggete i giornali che mi criticano”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Settembre 2021. Piomba in mezzo alla campagna elettorale della Regione Calabria il primo vero tonfo mediatico del procuratore Gratteri. Forte e imprevisto. E ha come protagonista quel Mario Oliverio che lui voleva arrestare e che da pochi mesi è stato assolto al processo di primo grado “perché il fatto non sussiste”. C’è da arrossire di soddisfazione, a sentire il procuratore di Catanzaro accusare un giornalista di “leggere solo certi giornali”. Che si tratti del Riformista? Noi pensiamo di sì e ci fa piacere, inutile negarlo. Del resto quanti quotidiani non fanno da scendiletto e non esaltano le nobili gesta del procuratore più famoso d’Italia? Non capita spesso che Nicola Gratteri venga sconfitto in tv. In genere gli capita nei processi, e lui tira dritto. Ma alla sua immagine di “Falcone di Calabria” lui tiene di più che non alle scaramucce giuridiche, anche quando, come gli succede spesso, sono pesanti. Quando chiede arresti che non gli vengono concessi o quando la Cassazione gli imputa “pregiudizio accusatorio”. Così due sere fa lui si è decisamente innervosito quando a Di martedì l’inconsapevole Floris gli ha presentato un giornalista che ai suoi occhi avrebbe dovuto servirgli domande di tutto rispetto. Soprattutto perché attualmente si occupa di calcio e affini, essendo il condirettore del Corriere dello sport. Il procuratore di Catanzaro è rilassato e sorridente mentre aspetta la domanda di Alessandro Barbano. Il quale non bacia l’anello e va dritto al punto. «Lei nel 2018 ha indagato Mario Oliverio per corruzione e abuso d’ufficio. Ha chiesto gli arresti, non è riuscito a ottenerli, ottenendo invece il domicilio coatto per nove mesi. Oliverio ha dovuto dimettersi e fare lo sciopero della fame. La Cassazione ha però detto che c’era un pregiudizio accusatorio. Lei ha insistito, chiedendo la condanna a 4 anni e 8 mesi. Oliverio è stato assolto in primo grado perché il fatto non sussiste, ma ha dovuto dimettersi dalla sua carica di presidente della Regione. Lei che cosa prova pensando a Oliverio?». Una bomba. Peggio, uno schiaffo sulla faccia di un magistrato abituato a essere lusingato e idolatrato dalla stampa, e soprattutto dai giornalisti che conducono o che partecipano ai talk. Mai nessuno si era permesso, a parte appunto noi del Riformista e pochi altri. Oltre a tutto nelle parole di Barbano si sente la sua storia di giornalista che non si è occupato solo di sport nella vita. Basti qui citare la direzione del Mattino dal 2012 al 2018. La sintesi perfetta della sua domanda è quasi il punto della storia politica della Calabria e della sinistra calabrese degli ultimi tre anni. E anche di tutto quello che è venuto prima. Mario Oliverio era il presidente della Regione Calabria, eletto nel 2014 con il 61% dei voti, uomo forte del Pd nella sua terra, quando la sua vita incrociò quella di Nicola Gratteri. Il procuratore parte morbido, con un’informazione di garanzia per abuso d’ufficio, che presto diventa anche accusa di corruzione e richiesta di custodia cautelare. Come sempre l’alto magistrato si copre le spalle con un’attenta comunicazione, e cala l’asso con un’intervista a Rai Uno. Dice che «con quasi 17 milioni di euro la Regione ha contribuito a "ingrassare" alcune cosche grazie a lavori non eseguiti o eseguiti in minima parte». Il problema della giustizia nelle regioni del Sud, e in Calabria in particolare da qualche tempo, è che a qualsiasi ipotesi di reato viene sempre affiancata la parola “mafia”, quasi come se tutti i calabresi, anche quelli che al semaforo passano con il rosso, fossero affiliati alla ‘ndrangheta. In ogni caso, come succede spesso nelle inchieste avviate dal procuratore Gratteri, anche in quel caso il primo a distanziarsi da lui fu il gip che non concesse per Oliverio la custodia cautelare in carcere ma nemmeno al domicilio. Stabilì per lui una sorta di soggiorno obbligato al suo paese, dove lui si ritirò e iniziò uno sciopero della fame. E mentre i procuratori distrettuali antimafia infierivano su di lui anche con metodi particolari, addirittura presentandosi in tre ed esibendosi in tre distinte “arringhe” all’udienza delle indagini preliminari, la vera ferocia arrivò fuori dalle aule del palazzo di giustizia. Inutile dire che gli uomini del Pd si comportarono con quello stile che ormai non è più solo staliniano ma anche un po’ grillino, quello che davanti alle questioni di giustizia risale ai tempi del Pci, e poi del Pds e dei Ds, fino a oggi. Mentre Oliverio non era più presidente della Regione ed era al confino “come un mafioso”, gli incoraggiamenti più affettuosi dei suoi compagni di partito furono quelli di chi gli si diceva vicino “sul piano umano” (solo quello umano, non certo quello politico) e si augurava che lui riuscisse a dimostrare la propria innocenza. Beata ignoranza (o cinica ipocrisia)! Non dovrebbe essere il rappresentante dell’accusa a dimostrare la colpevolezza dell’imputato e a portare le eventuali prove? Ancora oggi, a tre anni di distanza, davanti a un giornalista che finalmente ha l’occasione di fissarlo negli occhi mentre gli chiede come si senta, guardandosi allo specchio, davanti a una vittima come Oliverio, Gratteri si smarca. Non molla, lui non sbaglia mai. Prima scarica sul gip, è lui che decide. Sì, gli viene obiettato, ma anche dopo che la Cassazione le ha contestato un certo pregiudizio accusatorio, lei al processo ha chiesto la condanna a quattro anni e otto mesi di carcere. Allora diventa quasi offensivo, accusa il giornalista di essere andato in trasmissione solo per mettersi contro di lui: lei è venuto mirato per attaccare me, lei è stato imbeccato, non mi conosce, gli dice con il suo linguaggio aristocratico. Poi, dopo avergli contestato che “legge solo certi giornali” (e di nuovo ci sentiamo arrossire), ricorda ad Alessandro Barbano che “finora si è occupato solo di sport”. E su questo non facciamo commenti. La storia di Calabria è andata avanti, e si può dire che almeno in parte, la politica ha lasciato che fossero le inchieste del dottor Gratteri a influenzare le urne, in una sorta di intreccio malato fino al dicembre del 2019, quando il procuratore Gratteri sarà incoronato dal suo blitz più famoso (e come gli altri da subito mortificato dai ritocchi dei giudici), quello denominato Rinascita Scott, il cui processo è ancora in corso nell’indifferenza generale. Perché si sa che le mafie vengono sconfitte dai primi ordini di cattura, poi chi se ne importa dei riscontri nel dibattimento. Poi nel gennaio del 2020 Jole Santelli ha vinto perché era brava, ma anche probabilmente perché di retata in retata anche Gratteri ci aveva messo del suo. Non perché volesse far vincere il centrodestra, sia chiaro. Ma perché chi vuole il potere cerca sempre di schiacciare quelli che ce l’hanno prima di lui. Così oggi Mario Oliverio si candida lontano dal suo partito di provenienza, come tutti quelli schiacciati dalla miopia politica, quella che vede oggi la candidata del Pd sostenuta anche dai Cinque stelle. È anche la storia di Bassolino, come lo fu di Penati e di tanti ex sindaci, presidenti di Regione o Provincia così come di parlamentari, trattati come parassiti nella criniera del cavallo di razza. La Calabria, con l’eventuale vittoria di Roberto Occhiuto, capogruppo di Forza Italia alla Camera, dato per vincente nei pronostici, ha decisamente svoltato. E probabilmente è giusto così.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

“Fr** e Ne**”. Pio e Amedeo, il monologo ai Seat Music Award è contro Fedez. E il rapper milanese risponde. Da Caffemagazine.it il 10/9/2021. Bufera pesante dopo l’intervento di Pio e Amedeo ai Seat Music Awards 2021. Sono saliti sul palco dell’Arena di Verona Pio e Amedeo, premiati per il successo ottenuto con “Felicissima sera”. Il duo comico si è presentato per ricevere i premi e, in pochi minuti di tempo, sono riusciti a ironizzare sulla sconfitta di Carlo Conti con il suo “Top ten” (battuto proprio dal loro programma) definita quasi “un’umiliazione, una macchia” nel suo curriculum. E, soprattutto, non è passata inosservata la frecciatina a Fedez. “Grazie alla Rai per non averci censurato!” hanno sottolineato, ridendo, facendo poi riferimento a Fedez e a quanto accaduto sul palco del Primo Maggio. In seguito, nel caos del discorso in diretta, non sono mancati riferimenti a polemiche nate in seguito proprio dal rapper dopo quanto accaduto al Concertone, citando successivi “smalti“ sponsorizzati sui social. Una parentesi breve ma accuratamente mirata con il discorso che si è chiuso con un’invocazione alla libertà: “Noi dedichiamo questo premio… alla libertà di opinione”. E ancora Pio e Amedeo: “Augurandoci che la libertà non passi per la decisione di qualche associazione, per l’oligarchia del gusto, viva la libertà”. Un intervento durato qualche minuto che, però non è passato inosservato al pubblico e anche al diretto interessato -Fedez- chiamato in causa proprio dai due. “Stavo andando a nanna e mi hanno scritto “Pio e Amadeo t hanno dissato“… Figo, una delle cose più fighe viste in Rai, una grande installazione artistica”. E ancora Fedez: “Nella rete in cui non vorrebbero che tu citassi i nomi dei politici perché non è presente il contraddittorio, ti ripulisci la coscienza ingaggiando due rivoluzionari anticonformisti, cercando di sputt@nare l’avversario senza contraddittorio. Bravi tutti. Mi è piaciuto. Bravi Pio e Amedeo. Spero di diventare un giorno un anticonformista, un antisistema come voi. Domani incomincerò uscendo per la strada dando del nero e del frcio a tutti per strappare un sacco di sorrisoni”. Poi conclude il rapper milanese: “Domani alle 10 apro il mio chioschetto di smalti senza il quale non riuscirei a dare da mangiare ai miei figli e mi inventerò qualche polemica per vendere i miei smaltini. Comunque sono un po’ deluso da Pio e Amedeo. Mi avete fatto questo atto rivoluzionario di sdoganare la parola nero e frcio… Ma siete in diretta sulla Rai e una bella bestemmia non me la tiri? I neri e i frci ti rispondono con un sorriso, i cristiani nemmeno, sono obbligati a perdonarti. Un po’ arrugginiti, state perdendo lo smalto, se volete ve ne presto un pochino”.

Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 10 settembre 2021. Pio e Amedeo contro Fedez. E viceversa. Succede di tutto durante i Seat Music Awards. I due comici foggiani arrivano sul palco dell'Arena di Verona e nel loro monologo sparano una cannonata contro il rapper, che lo scorso primo maggio si era reso protagonista di una grande polemica con la Rai per una presunta censura (di cui lui aveva parlato). “La Rai è libera. Ci avevano detto che censuravate e invece no. Dietro c’erano tutti i dirigenti e nessuno si è permesso di chiederci cosa avremmo detto. Se uno va in diretta dice quello che pensa. Anche un altro avrebbe potuto fare così, senza suscitare tante polemiche. Non è che arrivano i bodyguard a prenderti e a cacciarti dal palco, dai, Federico! Fa la polemica, per il traffico sui social e per vendere i prodotti. “E comprati lo smalto che ho fatto io, comprati la mia valigia”. Io farei un applauso alla Rai che non ci ha censurato”, dicono Pio e Amedeo. La replica del rapper non tarda ad arrivare. Sempre a colpi di commenti sui social. Comodamente dalla sua camera da letto il rapper registra un video in cui contrattacca Pio e Amedeo. “Stavo andando a nanna e mi hanno scritto Pio e Amedeo ti hanno dissato. Bello, una delle cose più belle viste in Rai, una grande installazione artistica. Nella rete in cui non vorrebbero che tu citassi i nomi dei politici perché non è presente il contraddittorio, ti ripulisci la coscienza ingaggiando due rivoluzionari anticonformisti, cercando di attaccare l’avversario senza contraddittorio. Bravi tutti. Mi è piaciuto. Bravi Pio e Amedeo. Spero di diventare un giorno un anticonformista, un antisistema come voi", straparla Fedez. "Domani incomincerò uscendo per la strada dando del ne**o e del fr***o a tutti per strappare un sacco di sorrisoni. Domani alle 10 apro il mio chioschetto di smalti senza il quale non riuscirei a dare da mangiare ai miei figli e mi inventerò qualche polemica per vendere i miei smaltini", tuona il rapper. E poi continua: "Comunque sono un po’ deluso da Pio e Amedeo. Mi avete fatto questo atto rivoluzionario di sdoganare la parola ne*ro e fr*cio…Ma siete in diretta sulla Rai e una bella bestemmia non me la tiri? I ne*ri e i fr*ci ti rispondono con un sorriso, i cristiani nemmeno, sono obbligati a perdonarti. Un po’ arrugginiti, state perdendo lo smalto, se volete ve ne presto un pochino”, conclude un nervosissimo Fedez.

Da liberoquotidiano.it il 3 settembre 2021. Ci pensa Vittorio Sgarbi a spezzare l'idillio tra Roberto Benigni e Nicoletta Braschi. Premiato a Venezia con il Leone d'oro alla carriera mercoledì scorso, l'attore e regista toscano si è commosso e ha emozionato l'intera platea dedicando il prestigioso riconoscimento alla moglie, con cui condivide vita e carriera da 40 anni. Parole dolcissime ma, accusa Sgarbi, copiate di sana pianta senza nemmeno citarne l'autore. "Un pensiero alla mia attrice prediletta, Nicoletta Braschi, alla quale non posso nemmeno dedicare questo premio perché è suo: è tuo, ti appartiene", ha solennemente annunciato dal palco della 78esima Mostra del cinema Benigni. "Abbiamo fatto tutto insieme per 40 anni – ha proseguito l'ormai ex Piccolo diavolo, diventato gloria del grande schermo italiano –. Produzioni, interpretazioni. Ma come si fa a misurare il tempo in film? Io conosco solo una maniera per misurare il tempo: con te o senza di te". Quindi, con la consueta ironia che fin dagli anni 80 lo ha reso uno dei volti (e delle lingue) più celebri del nostro cinema: "Ce lo possiamo dividere: io prendo la coda, il resto è tuo. Le ali, soprattutto, perché se qualcosa ha preso il volo nel lavoro che ho fatto è grazie a te". Gran finale, da San Valentino: "È stato proprio un amore a prima vista, anzi a ultima vista. O meglio, a eterna vista". C'è qualcosa che però stona nella dedica di Benigni alla moglie. L'entrata a gamba tesa è del professor Sgarbi, che su Twitter svela l'arcano: ""Stare con te o stare senza di te è l’unico modo che ho per misurare il tempo", ha detto Benigni alla moglie al Festival di Venezia. Ma se non citi la fonte (Jorge Luis Borges) e fai il "fenomeno", è plagio?". 

Dagotraduzione da Protocol il 2 settembre 2021. Nell'ultimo decennio, i governi di tutto il mondo hanno intenzionalmente spento Internet almeno 850 volte, e il 90% di questi blackout si sono verificati negli ultimi cinque anni. Cosa c'è dietro questa preoccupante tendenza? «Sempre più persone si collegano e ottengono l'accesso a Internet», ha detto Marianne Díaz Hernández, avvocato in Venezuela e membro dell'organizzazione no-profit Access Now. «I governi vedono questo come una minaccia, e iniziano a pensare che Internet sia qualcosa che devono controllare». Queste statistiche sbalorditive provengono da un nuovo rapporto pubblicato mercoledì da Access Now e Jigsaw, una divisione di Alphabet che si concentra sull'affrontare le minacce sociali con la tecnologia. Il rapporto documenta la storia delle chiusure di Internet nell'ultimo decennio, le chiusure dei pedaggi economici sui paesi che le impongono e ciò che i governi e la più ampia comunità imprenditoriale e della società civile possono fare per fermare quella che è diventata rapidamente una diffusa e grave violazione dei diritti umani. Felicia Anthonio guida la campagna #KeepItOn di Access Now, che documenta gli arresti di Internet dal 2016. «Gli arresti di Internet non garantiscono stabilità o risolvono le crisi che si stanno verificando», ha affermato Anthonio. «In realtà stanno mettendo in pericolo la vita delle persone». Il rapporto, pubblicato nel magazine di Jigsaw The Current, parla della recente chiusura di Internet in Egitto durata cinque giorni: anche se non ci sono dati con cui fare confronti «mai prima d'ora un intero paese, in cui più di un quarto della popolazione era connesso a Internet, si era separato dal web aperto» hanno scritto gli autori del rapporto. La chiusura dell'Egitto ha suscitato la condanna di alcuni paesi occidentali, scrivono gli autori, ma da allora il numero dei blackout di Internet è solo aumentato. Queste interruzioni sono spesso programmata durante le elezioni nei paesi di tutto il mondo, e costano miliardi di dollari alle economie di quei paesi. Una stima citata nello studio ha suggerito che il Myanmar, che ha avuto una serie di gravi chiusure, potrebbe aver perso il 2,5% del suo PIL. Si tratta de «la metà del danno perso nella Grande Recessione degli Stati Uniti in meno di un terzo del tempo», scrivono gli autori. Questo per non parlare dell'impatto sulle persone. Alcuni di loro hanno condiviso le loro storie con Access Now. Una donna ugandese ha raccontato la storia di essere andata in città per prelevare contanti da un bancomat senza riuscirci: né la banca né il resto del paese era connesso a Internet. «Tutto era giù e tutti sembravano confusi su ciò che stava accadendo e bloccati come me», ha scritto la donna. Una persona in Etiopia ha descritto l'interruzione avvenuta dopo un attacco del governo al Tigray, raccontando di non aver avuto modo di contattare il padre malato. «Qualcuno è passato di recente da Addis Abeba e mi ha detto che stavano bene, ma non posso esserne sicuro. Non ho ancora sentito la sua voce», ha scritto. Il blackout egiziano del 2011 e altre interruzioni hanno portato all’attenzione il ruolo svolto dai fornitori dei servizi internet in paesi in cui ne esistono pochissimi. «Nei mercati altamente sviluppati come gli Stati Uniti, dove ci sono migliaia di ISP, la vastità fornisce un certo grado di protezione. Ma in molti paesi, come in Egitto nel 2011, il web può subire un tremendo arresto con solo poche telefonate», scrivono gli autori. Access Now chiede agli ISP di quei paesi di resistere alle pressioni del governo per bloccare o limitare l'accesso a Internet e di segnalare le richieste che ricevono. Le aziende globali come Facebook e Google, nel frattempo, hanno un ruolo da svolgere nel tracciare le interruzioni di Internet e determinare se siano intenzionali o no, ha detto Anthonio. La collaborazione contribuisce anche alla presa di coscienza dello stato dei blackout: il loro numero è in aumento anche perché oggi ci sono persone che effettivamente ne tengono traccia e li contano. «na delle cose che abbiamo sviluppato è il rapporto sulla trasparenza di Google, che è uno strumento che in realtà è progettato per aiutare a esporre il tema delle chiusure di Internet monitorando le interruzioni del traffico». Anche i governi stanno prestando attenzione. Numerosi gruppi globali, comprese le Nazioni Unite, hanno condannato la chiusura di Internet come una violazione dei diritti umani fondamentali. Ma Anthonio insiste che è necessaria più pressione: «Più voci abbiamo che parlano la stessa lingua e si oppongono a questo particolare problema, più la questione diventa importante per le varie parti interessate che sono in grado di influenzare o porre fine a quel problema», ha detto.

Pannella vince da morto. La Corte Ue lo risarcisce per il "bavaglio" Rai. Massimo Malpica il 3 Settembre 2021 su Il Giornale. A cinque anni dalla sua scomparsa, Marco Pannella si leva il bavaglio. Il leader radicale ha infatti vinto il ricorso presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo nel 2013 per conto della lista che portava il suo nome. A cinque anni dalla sua scomparsa, Marco Pannella si leva il bavaglio. Il leader radicale ha infatti vinto il ricorso presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo nel 2013 per conto della lista che portava il suo nome, insieme all'allora segretario dei Radicali Mario Staderini, lamentando l'esclusione dai programmi politici della Rai tra il primo aprile e il 3 giugno del 2010 e chiedendo la condanna dell'Italia per la mancata trasmissione, dal 2008, delle tribune politiche in tv previste dalla legge in periodo non elettorale. La Cedu, il 31 agosto scorso, gli ha dato ragione. E ha stabilito che la Lista Pannella era stata «fortemente marginalizzata, se non esclusa dal dibattito politico mediatico», riconoscendo a titolo di danno morale una somma pari a 12mila euro che lo Stato dovrà versare entro tre mesi. Una vittoria postuma che farebbe piacere al vecchio leader radicale, che ha visto certificata la violazione del diritto a ricorrere di fronte all'inerzia della Commissione parlamentare di vigilanza Rai. E a quest'organo infatti che la legge in Italia affida la gestione diretta delle tribune politiche, ma la Commissione dal 2008 a oggi «non ha mai adottato l'atto di avvio», sottolineano in una nota i Radicali italiani. Il nostro ordinamento, però, non prevede ricorsi contro gli atti della Commissione. E la Corte ha riconosciuto una violazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo proprio in quel vuoto normativo. Certificando l'ultimo «bavaglio» a Pannella e condannando l'Italia a risarcirlo, oltre che a far sì che, se la Commissione di vigilanza adotti atti che toccano la libertà di espressione, vi sia la possibilità di impugnarli in giudizio. L'ultima sciabolata del vecchio leader radicale viene accolta con soddisfazione da segretario e tesoriera dei Radicali Italiani, Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, che plaudono a una sentenza con cui la Cedu «segna la strada per un primo rientro nella legalità dell'Italia sul fronte del diritto all'informazione» e mette fine alla «impunità della Commissione di vigilanza Rai, che per troppo tempo ha permesso ai partiti di decidere le regole del servizio pubblico in contrasto con leggi e Costituzione ma senza doverne rispondere nei tribunali». Massimo Malpica

Da “ANSA” il 10 dicembre 2021. L'Alta Corte di Londra ha ribaltato la sentenza di primo grado emessa lo scorso gennaio che negava l'estradizione di Julian Assange dalla Gran Bretagna agli Usa. E' stato così accolto il ricorso del team legale americano che si opponeva al no alla consegna dell'ex primula rossa sulla base di un asserito pericolo di suicidio legato - secondo una perizia - al prevedibile trattamento giudiziario e carcerario. E' quindi previsto che il caso venga rinviato al tribunale di grado inferiore per essere ascoltato nuovamente.

Alessandra Rizzo per “la Stampa” l'11 dicembre 2021. Julian Assange può essere estradato negli Stati Uniti per affrontare le accuse di spionaggio. La decisione dell'Alta Corte di Londra ribalta la sentenza di primo grado e infligge un duro colpo alla battaglia del fondatore di WikiLeaks per la libertà. «Un giudizio sbagliato e pericoloso», accusa la sua partner, che annuncia un ricorso alla Corte Suprema britannica «il prima possibile». Il verdetto di ieri accoglie il ricorso del team legale americano contro la decisione del gennaio scorso, che aveva negato l'estradizione dalla Gran Bretagna per il rischio di suicidio. Secondo l'Alta Corte, gli Usa hanno offerto assicurazioni sufficienti a proteggere la salute mentale di Assange. In particolare, hanno assicurato che potrà evitare il carcere di massima sicurezza in Colorado e che, se condannato, avrà diritto a scontare la sua pena in Australia. «Non c'è motivo per cui questa corte non debba prendere per buone le assicurazioni date» o «per presumere che gli Stati Uniti non siano in buona fede», si legge nella sentenza. Il caso viene rinviato al tribunale di grado inferiore, che passerà il dossier al ministro degli Interni, cui spetta la decisione nel merito dell'estradizione. La sentenza segna l'ultimo capitolo, per ora, di una saga che dura da oltre dieci anni, cioè da quando WikiLeaks ha pubblicato 70 mila documenti top-secret della difesa Americana sulle operazioni in Afghanistan. Assange, australiano, 50 anni, un passato da hacker con il nome latino di Mendax (bugiardo), nel frattempo è diventato un'icona globale, ma anche un personaggio controverso: a seconda delle opinioni, un campione della libera informazione che costringe i governi a rendere conto delle proprie azioni, o un criminale paranoico e pericoloso che mette a repentaglio la vita di soldati e informatori in zone di guerra. In America, Assange deve rispondere di 18 capi di accusa tra cui la diffusione di documenti segreti e atti di spionaggio, con una possibile condanna fino a 175 anni di carcere. Lui sostiene che i suoi guai giudiziari siano da sempre motivati da un desiderio di vendetta, un mero pretesto per portarlo negli Usa. «Come può essere giusto, come può essere possibile estradare Julian nel Paese che ha tramato per ucciderlo?», ha detto la compagna Stella Moris, circondata dalle telecamere e dai sostenitori di Assange, che si sono radunati fuori dalla corte al grido di «Assange libero» e «Il giornalismo non è un crimine». Assange è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh a Londra dal 2019. Prima di allora aveva passato sette anni nell'ambasciata ecuadoriana a Londra, dove si era rifugiato per sfuggire ad un mandato di cattura internazionale seguito ad accuse in Svezia per stupro e abusi sessuali (accuse da lui negate, con gli inquirenti che hanno poi sospeso l'indagine). Per le associazioni per i diritti umani e la libertà di stampa, Washington vuole semplicemente reprimere le voci critiche, e il verdetto mina il fondamentale compito di controllo dei giornalisti. «Crediamo fermamente che Julian Assange sia stato preso di mira per il suo contributo al giornalismo», ha detto Christophe Deloire, segretario generale di Reporters Sans Frontières. «È tempo di porre fine una volta per tutte a questa persecuzione che va avanti da più di un decennio. È tempo di liberare Assange». La giustizia britannica la pensa diversamente. Assange resterà in carcere, in attesa di sapere se sarà effettivamente estradato o se ci saranno invece ulteriori colpi di scena.

Durante l'apparizione all'Alta Corte. Julian Assange, ictus in carcere per il fondatore di WikiLeaks: “Colpa della pressione Usa per l’estradizione”. Gianni Emili su Il Riformista il 12 Dicembre 2021. Julian Assange ha avuto un ictus nella prigione di Belmarsh, ha rivelato la scorsa notte la sua fidanzata Stella Moris. Il padre di WikiLeaks, 50 anni, detenuto in custodia cautelare nel carcere di massima sicurezza mentre combatte contro l’estradizione negli Stati Uniti, dopo l’evento – riporta il Daily Mail – è rimasto con la palpebra dell’occhio destro cadente, problemi di memoria e segni di danni neurologici.

Assange crede che il mini-ictus sia stato innescato dallo stress dell’azione giudiziaria statunitense in corso contro di lui e da un generale declino della sua salute mentre affronta il suo terzo Natale dietro le sbarre. È successo durante un’apparizione all’Alta Corte tramite collegamento video da Belmarsh in ottobre. Un “attacco ischemico transitorio” – l’interruzione dell’afflusso di sangue al cervello – può essere un segnale di avvertimento di un ictus completo. Assange quindi si è sottoposto a una risonanza magnetica e ora sta assumendo farmaci per evitare il ripresentarsi dell’ictus.

La sua compagna Stella Moris, 38 anni, avvocato, ha dichiarato: “Julian sta lottando e temo che questo mini-ictus possa essere il precursore di un attacco più grave. Aumenta le nostre paure sulla sua capacità di sopravvivere più a lungo va avanti questa lunga battaglia legale. Deve risolversi urgentemente. Guarda gli animali intrappolati nelle gabbie di uno zoo. Gli accorcia la vita. È quello che sta succedendo a Julian. I casi giudiziari senza fine sono estremamente stressanti mentalmente”. Moris ha aggiunto che è stato tenuto nella sua cella per lunghi periodi ed era “a corto di aria fresca e luce solare, di una dieta adeguata e degli stimoli di cui ha bisogno”.

Gli avvocati di Assange sostenevano che nelle prigioni statunitensi sarebbe potuto essere detenuto in condizioni che avrebbero potuto portare a un serio rischio di suicidio. L’Alta Corte ha annullato la precedente sentenza dopo che il governo Usa ha offerto assicurazioni sulla sua potenziale reclusione.

Moris ha detto: “Credo che questa costante partita a scacchi, battaglia dopo battaglia, lo stress estremo, sia ciò che ha causato l’ictus di Julian il 27 ottobre. Si sentiva davvero male, troppo male per seguire l’udienza, ed è stato scusato dal giudice ma non ha potuto lasciare la sala video della prigione. Deve essere stato orribile ascoltare un appello dell’Alta Corte a cui non puoi partecipare, che parla della tua salute mentale e del tuo rischio di suicidio e in cui gli Stati Uniti sostengono che ti stai inventando tutto. Ha dovuto sopportare tutto questo. Era in uno stato davvero terribile. I suoi occhi erano fuori sincronia, la sua palpebra destra non si chiudeva, la sua memoria era sfocata”.

Assange è stato visitato da un medico, che ha riscontrato una risposta ritardata della pupilla quando una luce è stata illuminata in un occhio, un segno di un potenziale danno ai nervi.

La signora Moris e Assange hanno due figli, Gabriel, quattro, e Max, due, e sono fidanzati da cinque anni. Ha detto che si era “più o meno” ripreso, ma teme che l’attacco dimostri che la sua salute sta peggiorando. Ieri è andata a trovarlo per circa un’ora, portando i bambini a vederlo in una sala della prigione condivisa da decine di detenuti e dai loro cari. Ha detto che Assange era angosciato per essere stato tenuto lontano dalla sua famiglia, aggiungendo: “Trova difficile la prospettiva di un terzo Natale in prigione“.

Gli Stati Uniti vogliono che Assange affronti le accuse di cospirazione per ottenere e divulgare informazioni sulla difesa nazionale dopo che Wikileaks ha pubblicato centinaia di migliaia di documenti trapelati relativi alle guerre in Afghanistan e Iraq. Si è rifugiato presso l’ambasciata ecuadoriana a Londra nel 2012 perché temeva l’estradizione, rimanendo per sette anni fino a quando non è stato rimosso con la forza e inviato a Belmarsh nel 2019.

Ha tempo fino al 23 dicembre per presentare ricorso contro la sentenza della scorsa settimana e potrebbe dover affrontare molti mesi – potenzialmente anni – in attesa di giudizio nel Regno Unito.

La Moris ha dichiarato: “Rimane un oltraggio che qualcuno che non sta scontando una pena detentiva debba essere tenuto in prigione per anni e anni. Julian non è una minaccia per nessuno ed è un totale disprezzo per la sua libertà individuale e il nostro diritto a una vita familiare. Gli Stati Uniti giocano sporco: è una guerra di logoramento come si vede dal mini-ictus, questo sta avendo un impatto pericoloso su di lui”. Gianni Emili

Assange, l'ictus in cella e l'ossessione degli Usa per un sopravvissuto. Vittorio Macioce il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. La fissazione americana per l'uomo di Wikileaks rivela le contraddizioni del Paese. Julian Assange è l'ossessione che l'America non può accantonare. Non ci saranno vincitori in questa storia, tutti alla fine pagheranno un prezzo. L'uomo che ha scardinato gli archivi segreti statunitensi, minacciando la sicurezza nazionale, è un sopravvissuto. È da più di due anni rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh a Londra. L'Alta Corte britannica ha ribaltato il giudizio di gennaio, quando si sottolineava il rischio di suicidio in caso di estradizione. Il suo destino è tornato in bilico. Washington pretende giustizia. Stella Moris, la compagna, ha rivelato che Julian ha avuto, dopo la sentenza, un lieve ictus. Il suo grido sta rimbalzando nel mondo: liberatelo subito. L'Australia, patria di Assange, per ora se ne lava le mani e non risponde agli appelli di chi considera il fondatore di Wikileaks un martire.

La realtà è che tutti vorrebbero cancellare quello che è successo. Dimenticare, spazzare via, guardare ad Assange come a un cinquantenne malato e inoffensivo, che ha sfidato il cuore profondo del potere ma ormai si è arreso. È uno sguardo che renderebbe le cose più semplici anche agli Stati Uniti. Non bisogna avere paura della pietas. Perché accanirsi? Perché chiedere il corpo di chi ormai non può farti più male? Assange è il simbolo della trasparenza. È il diritto di sapere quello che viene nascosto. È un eroe della stampa libera. L'America, si dice, non è la Cina e non può avere paura della verità. Non guardate la spia, ma il profeta di un'umanità senza segreti. È un discorso che sta mettendo in difficoltà Washington. Non a caso sono arrivate mezze promesse di non andare giù pesanti con le condanne.

Assange rischia 175 anni di carcere, ma si fa passare l'idea che non saranno più di cinque o sei. Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, fa sapere che il presidente Biden è un sostenitore della libertà di parola e di stampa. Non ci sarebbe neppure bisogno di specificarlo. È la Costituzione. È il principio sacro e inviolabile del mondo libero. Ricordarlo è un'ammissione di colpa. Allora appare chiaro che Assange per l'America sta diventando una questione irrisolta, perché si mischia con la stagione fragile della civiltà occidentale, dove i limiti tra libertà e sicurezza sono diventati instabili e ci sono domande a cui davvero è difficile rispondere. Fino a che punto può essere aperta una società aperta? Dove finisce la tolleranza? Non è facile trovare una risposta. L'Assange di oggi spinge alla misericordia. È quello di ieri difficile da definire.

Wikileaks nel 2010 pubblica oltre 91mila documenti top secret sulla missione in Afghanistan. È quello che in guerra si chiama spionaggio. È dare al nemico informazioni rilevanti. Questo è il principio su cui Washington non può fare marcia indietro. È una questione di giustizia. La storia di Assange va oltre l'uomo. È un nemico dell'America. Va catturato e giudicato. Se lo si lascia andare si certifica la debolezza di una nazione. La clemenza ci può essere solo dopo, come è successo con Chelsea Manning, la fonte di Assange, l'analista dell'intelligence condannata a 35 anni di prigione e poi graziata da Obama. Il perdono viene dopo. Questa è la promessa degli Stati Uniti e crederci è un atto di fiducia. Di certo c'è che per l'America quest'uomo resta un malfattore e non può sfuggire al giudizio. È per la maggioranza degli statunitensi un principio inderogabile, se salta questo cardine viene giù tutto. Assange è però anche uno specchio. I documenti che ha pubblicato sono il diario di una disfatta annunciata. È il cuore di tenebra della guerra in Afghanistan. È il racconto di come tutto stesse già andando in malora. Le truppe governative afghane erano un «esercito di carta». Le scelte strategiche avrebbero trasformato quel territorio nel solito pantano da cui si esce a pezzi. In quelle carte c'era l'ombra del ritiro firmato proprio da Biden dieci anni dopo. Assange è la voce di un fallimento e comunque vada a finire questa storia, l'America ne uscirà sconfitta. Vittorio Macioce 

Paolo Mastrolilli per "la Stampa" il 28 settembre 2021. Rapire Julian Assange, o anche ucciderlo, per punirlo di aver rivelato "Vault 7", cioè gli strumenti usati dalla Cia nelle attività di hackeraggio. Sono i piani considerati nel 2017 da Langley, che si era spinta a valutare l'ipotesi di una sparatoria nelle strade di Londra, pur di impedire la sua fuga in Russia. A rivelarli è un'inchiesta di Yahoo News, condotta da Zach Dorfman, Sean Naylor e Michael Isikoff, giornalista che aveva scoperto il caso Lewinsky. L'operazione non era mai scattata perché illegale. La sua premessa, che il fondatore di WikiLeaks fosse un agente al servizio dell'intelligence di una potenza ostile, resta la questione centrale. Assange aveva attirato l'attenzione nel 2010, quando aveva pubblicato gli oltre 250.000 dispacci diplomatici sottratti dall'ex soldato Chelsea Manning. L'amministrazione Obama era stata colpita, ma aveva deciso di riconoscere a WikiLeaks il diritto alla libera espressione garantito dal Primo Emendamento della Costituzione. La situazione si era complicata nel 2013, quando i collaboratori di Assange avevano aiutato Edward Snowden a fuggire in Russia, dopo che aveva rivelato le tecniche di spionaggio più sofisticate della National Security Agency. Nell'estate del 2016, poi, WikiLeaks aveva pubblicato le mail di Hillary e del Partito democratico, che secondo i servizi americani erano state rubate dall'intelligence militare russa GRU. Assange aveva negato di averle ricevute da Mosca, ma la Nsa aveva intercettato scambi di comunicazioni tra i suoi uomini e Guccifer 2.0, considerato un agente del Cremlino. Trump, impegnato nella campagna presidenziale contro Clinton, aveva approfittato delle mail, esprimendo ammirazione per Julian: «Amo WikiLeaks». L'amministrazione Obama a quel punto si era svegliata, ma troppo tardi per salvare Hillary. Trump era diventato presidente sotto l'ombra di essere manovrato da Mosca, poi all'origine del Russiagate. L'indagine non aveva confermato un rapporto organico col Cremlino, ma neanche aveva sciolto tutti i dubbi. All'interno della nuova amministrazione, però, c'erano membri assai più duri di Donald nei confronti di Putin, a partire dal capo della Cia Pompeo. Proprio lui aveva rotto gli argini, quando il 13 aprile 2017 aveva definito WikiLeaks «un servizio di intelligence ostile non statale, spesso agevolato da attori statali come la Russia». Con quelle parole aveva dichiarato guerra, ponendo le basi legali per azioni dure contro Assange. In quello stesso periodo il suo sito aveva pubblicato "Vault 7", e quindi Pompeo e la vice Gina Haspel avevano deciso di vendicarsi. Avevano chiesto piani per rapirlo dall'ambasciata dell'Ecuador a Londra, dove si era rifugiato dopo le accuse di stupro dalla Svezia, o anche ucciderlo. Nel dicembre del 2017, poi, l'intelligence Usa aveva scoperto che i rivali russi pianificavano di far scappare Julian a Mosca, la notte di Natale. Gli ecuadoregni li avrebbero informati di averlo lasciato in strada, o avrebbero "scordato" la porta dell'ambasciata aperta. La Cia quindi si era preparata a tutto per fermarlo, inclusa una sparatoria nelle strade di Londra, o contro le ruote dell'aereo con cui sarebbe decollato. Nulla di tutto questo era accaduto. Aveva prevalso il segretario alla Giustizia Session, che era contro Julian, ma voleva incriminarlo per chiederne l'arresto e l'estradizione, tuttora in discussione. Trump ha smentito: «È falso. Anzi, io penso che Assange sia stato trattato male». Sulle sue dichiarazioni però pesa il velo dei rapporti irrisolti con Putin, che poi sono anche al centro del giudizio storico sul fondatore di WikiLeaks. I suoi sostenitori lo considerano un eroe della libertà di informazione, ma se è un agente di Mosca tutto cambia.

La compagna di Julian Assange: «Così la Cia voleva ucciderlo, abbiamo le prove». Roberto Saviano Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2021. Intervista a Stella Moris, compagna del fondatore di WikiLeaks. «I legami con la Russia? Inesistenti, tirati fuori per distruggere la sua figura pubblica». L’ultima volta che ho incontrato Julian Assange è stato a Londra nell’ambasciata dove era rinchiuso, nel 2013; l’avevo trovato pieno di energie. Parlammo a lungo, parlammo dell’unica cosa di cui valeva la pena parlare, ossia della luce. Di come accendere la luce sui meccanismi del potere e come da sempre, da prima che Gutenberg inventasse i caratteri mobili della stampa, la luce sia l’unica possibilità che ci è data per controllarlo quel potere. Strapparne i meccanismi dal cono d’ombra, dall’angolo in cui talvolta si rifugia, per spingerlo sotto i riflettori così che tutti possano comprendere. È sempre questo stato il compito dei cercatori di libertà, dei filosofi d’ingaggio, dei dissidenti, dei ribelli, dei cronisti liberi. Raccontare il potere perché diffidano di qualsiasi potere. In quell’occasione, nell’ambasciata dell’Ecuador, c’era una fotografa, Nicol Vizioli, che ci scattava delle foto. Tutto sembrava dovesse svolgersi meccanicamente; la nostra conversazione, le foto di noi due da pubblicare a testimonianza dell’avvenuto incontro, quando Julian mi ferma il braccio, come a dire: aspetta: «Perché siamo così seri e tristi? Basta! Ridiamo». E così nasce questa foto che ci ritrae insieme, con Julian che mi abbraccia e noi due che ridiamo, felici. Io però risposi, perché ridere? Perché dobbiamo sorridere all’obiettivo? «Essere fieri delle scelte che abbiamo fatto», fu la sua risposta. «Sei davvero contento della tua scelta?», gli chiesi. Assange non mi rispose come mi aspettavo, con un imperativo sì. Articolò una risposta più rara: «Bisogna essere felici di avere vite straordinarie». Oggi Assange è in carcere. Parlo di Julian con la sua compagna Stella Moris, che sarà in Italia al Salone del Libro di Torino (sabato 16 ottobre, ore 15, Sala Rossa Padiglione 1) in occasione dell’uscita del libro di Stefania Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks. Insieme a Stella Moris e Stefania Maurizi ci sarà Riccardo Iacona. 

Come sta Julian Assange in questo momento? Dove è rinchiuso?

«È nel carcere più duro del Regno Unito: la prigione di Belmarsh. Quello di Julian è un caso particolarmente pericoloso, perché è la trasformazione in caso giudiziario di un conflitto politico, ma è rinviato a giudizio per avere pubblicato documenti e aver comunicato con fonti giornalistiche. Julian è stato incriminato per aver ricevuto e pubblicato dal suolo europeo documenti segreti del governo americano che il governo degli Stati Uniti non vuole vedere pubblicati. Se riconosciuto colpevole, rischia 175 anni di prigione. I documenti hanno permesso di rivelare, tra le altre cose, l’uccisione di due giornalisti della Reuters e di altri civili innocenti a Baghdad, la detenzione illegale dei detenuti di Guantanamo, le carneficine causate dalle guerre in Afghanistan e in Iraq, e documenti come i cablo della diplomazia americana. Questi documenti hanno un grande valore dal punto di vista politico, storico e legale e contengono, per esempio, prove di crimini di guerra. Gli Stati Uniti hanno ammesso sotto giuramento di non avere prove che una qualsiasi persona sia stata danneggiata da queste pubblicazioni. È la prima volta che gli Stati Uniti cercano di imprigionare un editore per il suo lavoro».

Perché Julian è in prigione oggi?

«Julian è in prigione perché le nazioni [implicate nel suo caso, ndr] hanno tradito i loro valori fondanti. WikiLeaks ha preso quei valori e li ha messi in pratica, testandoli. Nils Melzer, ha detto che il suo caso è, per molti versi, più grande dell’affaire Dreyfus. La persecuzione di Julian è anche la persecuzione di ciò che rappresenta la democrazia nella sua forma più autentica».

Cosa dovrebbe accadere perché possa tornare libero?

«Il Paese che sta cercando di estradarlo [gli Stati Uniti, ndr] ha pianificato di ucciderlo in modo stragiudiziale. La chiave per arrivare alla liberazione di Julian è piuttosto semplice: le leggi che esistono dovrebbero essere rispettate, invece che essere sovvertite. Seconda cosa: il governo americano dovrebbe difendere la libertà di stampa a livello globale, invece che approvare la persecuzione e l’incarcerazione di giornalisti, dissidenti e intellettuali pubblici. Ma non basta liberare Julian. Bisogna incriminare i responsabili delle azioni illegali della Cia contro Julian, contro lo staff di WikiLeaks e lo staff legale, condotte anche sul suolo europeo. Deve essere aperta un’inchiesta per andare a fondo della questione di quanto il tentativo di ammazzare Julian si è spinto lontano: cosa sapevano le autorità inglesi dei piani della Cia e fino a che punto erano disposte ad assecondarli? Quanto sapevano l’Australia e l’Ecuador? Chi altro volevano uccidere?».

Yahoo! News lo scorso settembre ha pubblicato un’articolata inchiesta firmata da Zach Dorfman, Sean D. Naylor e Michael Isikoff in cui rivela che nel 2017 la Cia, sfruttando gli uomini di una società che lavorava per la sicurezza dell’ambasciata dell’Ecuador, voleva rapire o assassinare Assange che, a quel tempo, viveva protetto come rifugiato proprio dentro l’ambasciata. Quali informazioni avete al riguardo?

«Dopo che Julian è stato arrestato nel 2019, alcuni informatori si sono fatti avanti per denunciare come l’azienda di security (la Uc Global), che doveva proteggere l’ambasciata e Julian, aveva ricevuto pagamenti dal principale finanziatore di Trump e di Pompeo, Sheldon Adelson (ormai scomparso) e che questa azienda faceva quello che diceva la Cia, all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador. El Pais ha pubblicato alcuni dettagli della vicenda, basati sulle testimonianze degli informatori. Le testimonianze davanti alla corte hanno rivelato che la Uc Global aveva discusso dei piani per avvelenarlo o rapire Julian nell’ambasciata. E ora, questa grande inchiesta di un team di giornalisti [di Yahoo! News, ndr], che hanno parlato con ex o attuali funzionari dell’intelligence americana, è riuscita a confermare che la Cia stava davvero cercando di lavorare a come ammazzare Julian nell’ambasciata. Hanno confermato che Mike Pompeo, che a quel tempo era il capo della Cia, aveva dato istruzioni alla sua agenzia di preparare “piani” o “opzioni” su come uccidere Julian. Quindi abbiamo conferme da entrambe le sponde dell’Atlantico che questo era stato seriamente pianificato. Essere stati in grado di confermare che la Cia, allora guidata da Mike Pompeo, aveva pianificato di uccidere un giornalista a Londra, è stato un grande scoop».

Mi rivolgo a Stefania Maurizi che è l’unica giornalista italiana a cui Julian Assange ha consegnato i database segreti di WikiLeaks, le chiedo il suo parere sul caso giornalistico e giudiziario di Julian Assange, soprattutto le domando cosa ne pensa delle campagne di delegittimazione che Assange avrebbe subito negli anni, prima tra tutte la percezione che fosse vicino a Putin, insomma un uomo che parlava di democrazia ma che poi si alleava ai suoi peggiori nemici.

«Quello che tu chiami “percezione” è, in realtà, il frutto di una lunga campagna di demonizzazione contro Julian Assange e WikiLeaks. Nel corso dell’ultimo decennio, ce ne sono state molte di queste campagne di delegittimazione: la prima in assoluto è stata quella delle “mani sporche di sangue”. Nel luglio del 2010, quando WikiLeaks iniziò a rivelare i documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, il Pentagono accusò immediatamente lui e la sua organizzazione di avere le mani sporche di sangue, perché la loro pubblicazione avrebbe messo a rischio i traduttori e gli informatori afghani, che collaboravano con le truppe americane e della coalizione occidentale. Il Pentagono e la Cia crearono subito delle grandi task force di analisti dell’intelligence per passare al setaccio ogni singolo nome uscito da quei documenti e per cercare di scoprire se qualcuno di loro fosse stato ucciso o ferito o imprigionato a causa dell’uscita di quei nomi. La task force del Pentagono poteva contare su ben 100 esperti di intelligence. Sono passati 11 anni, non si è scoperto un solo esempio di persona uccisa, ferita o imprigionata. Subito dopo, nel 2010, prese il via anche quella contro l’Assange stupratore: 9 anni di supplizio che si sono chiusi in modo sconcertante, con i magistrati svedesi che hanno archiviato una volta per tutte l’indagine senza neppure andare a interrogarlo. Ad oggi, l’accusa di stupro gli rimane incollata addosso, sebbene non sia mai stato non dico condannato, ma neppure rinviato a giudizio».

La delegittimazione ossia l’omicidio civile di una persona, morale e non fisico, è la pratica preferita di democrazie, partiti, aziende, regimi. Ci dici qualcosa di più sull’accusa di stupro? Vogliamo, una volta per tutte chiarire come sono andate le cose?

«Per 9 anni Julian Assange è rimasto al centro di un caso di stupro in Svezia senza che mai le autorità svedesi si decidessero a incriminarlo — ovvero rinviarlo a giudizio per stupro e mandarlo a processo — oppure a scagionarlo una volta per tutte. Questo pantano giudiziario ha avuto un ruolo cruciale nella prolungata e costante demonizzazione di Julian Assange, nel privarlo dell’empatia dell’opinione pubblica mondiale, specie di quella fetta più sensibile alle rivelazioni dei documenti del governo americano sui crimini di guerra e sulle torture, perché, spesso, quella fetta coincide con quella più attenta ai diritti delle donne. Nel 2015, quando ormai Julian Assange aveva perso la libertà da 5 anni e il caso svedese rimaneva in uno stato di paralisi giudiziaria, mi sono resa conto che nessuno, tra le centinaia di giornalisti internazionali e locali che avevano scritto di Assange, aveva mai provato a chiedere i documenti sul caso per ricostruire i fatti in modo rigoroso. A quel punto ho chiesto la documentazione e le corrispondenze diplomatiche sul caso alle autorità di Svezia, Regno Unito, Stati Uniti e Australia. L’ho fatto completamente da sola: nessun giornale o media internazionale o locale era interessato a fare questo lavoro di duro giornalismo investigativo. Sono passati 6 anni da quando ho iniziato questa battaglia: sono ancora in tribunale a Londra, Stoccolma, New York, e in Australia. Sono rappresentata da 7 avvocati su 4 giurisdizioni. Quattro governi da ben 6 anni usano ogni risorsa legale per negare a una giornalista, completamente sola e con pochissime risorse, i documenti di questo caso: vuol dire che contengono cose importanti, come confermano i documenti che ho ottenuto finora e che hanno permesso di rivelare il ruolo delle autorità inglesi nel creare la paralisi giudiziaria-diplomatica che ha intrappolato Julian Assange».

Ma torniamo alla presunta vicinanza a Putin…

«Nel 2012 è partita la campagna contro Julian Assange “utile idiota del Cremlino”. Ricordo come fosse ieri come prese il via. Il fondatore di WikiLeaks aveva prodotto uno show chiamato The World Tomorrow, prodotto da una piccola azienda di documentari inglese. Nello show venivano intervistati personaggi che andavano: dall’attivista egiziano Alaa Abdel Fattah, che purtroppo oggi è detenuto nelle carceri del dittatore egiziano Sisi in condizioni terribili, fino all’allora presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, e al leader di Hezbollah, Nasrallah. La televisione del Cremlino, Russia Today, acquistò la licenza per trasmettere lo show di Julian Assange, come anche l’acquistò il gruppo Espresso. Il Guardian usò parole di fuoco contro Julian Assange, accusandolo di essere l’utile idiota del Cremlino. Inutile spiegare che Russia Today aveva acquistato la licenza. E poco importa che, sulla Russia, WikiLeaks abbia pubblicato documenti come i cablo della diplomazia americana, che non raccontano solo la corruzione della Russia sotto Putin, ma vanno oltre: dipingono il Paese come uno Stato-mafia, in cui la criminalità organizzata è controllata dai servizi segreti russi, e fa quello che lo Stato non può fare in modo presentabile. È chiaro che potenze come Russia e Cina apprezzano e applaudono WikiLeaks, quando questa rivela i segreti dei loro avversari o li imbarazza davanti al mondo intero e si fregano le mani anche quando vedono come «l’Occidente libero» tratta Julian Assange, un giornalista che, dopo aver rivelato crimini di guerre e torture, non ha più conosciuto la libertà. Nessun governo ama veder rivelati i suoi sporchi segreti, e infatti nessuno ha mosso un dito per aiutare Julian Assange».

La stessa domanda pongo alla compagna di Assange. Stella, le chiedo direttamente, in questi anni Assange è sembrato vicino a Putin, poi ai governi populisti. Da un iniziale consenso che le sinistre (compresi i giornali) gli avevano dato ora (salvo eccezioni) sembra non avere più sostegno dalle stesse parti. Dove ha sbagliato secondo te Julian?

«Non ritengo che sia corretto suggerire che WikiLeaks piacesse solo a certi gruppi o a persone con un certo credo politico. Piace a diversi gruppi per ragioni diverse: agli storici e agli accademici, perché apprezzano gli archivi di documenti; agli avvocati e alle vittime, perché fornisce documenti a supporto delle loro cause; ai giornalisti perché rivela informazioni censurate, e così via. È più interessante riflettere su chi non ama WikiLeaks e perché. La risposta è, in parte, contenuta nelle rivelazioni di Yahoo! News. Per farla franca con l’assassinio di qualcuno, devi prima uccidere la sua figura pubblica. L’inchiesta di Yahoo! News rivela un attacco su più fronti messo in atto dalla Cia per “tirar giù” Wikileaks, e una parte importante di questo attacco era la disinformazione. Una delle parti più importanti dell’inchiesta di Yahoo! News è la rivelazione che, nei primi mesi del 2017, la Cia aveva concluso che WikiLeaks non aveva legami con la Russia. Ha dovuto inventarsi una nuova designazione per poter colpire WikiLeaks: la designazione “agenzia di intelligence ostile non statale”, proprio perché aveva concluso che WikiLeaks non aveva legami con nessuno Stato».

Nel 2020 Assange e sua moglie decidono di rendere pubblico non solo il loro legame ma anche l’esistenza di due bambini. Dopo anni di segretezza come mai avete deciso di rendere pubblica la vostra vita privata?

«Il clima all’interno dell’ambasciata era incredibilmente minaccioso, soprattutto verso la fine. A dicembre 2017, una delle guardie della security mi disse che non era più sicuro per il nostro bambino stare nell’ambasciata: gli era stato chiesto di rubare il pannolino del bambino ed era venuto da me perché moralmente disgustato dalle istruzioni che aveva ricevuto. Io temevo per la vita di Julian e anche per la mia, in quegli ultimi mesi. Dopo l’arresto di Julian, io avevo ancora molta paura per la nostra sicurezza, ma fu superata da una preoccupazione ancora più seria, quando è esploso il Covid. Julian era a grave rischio di contrarre il Covid in prigione, e così abbiamo fatto un appello urgente alla corte per chiedere che venisse rilasciato agli arresti domiciliari, e io mi sono appellata al giudice, chiedendo che permettesse a Julian di tornare a casa dai nostri bambini. Avevo chiesto che fosse mantenuto il mio anonimato, ma la corte rigettò la mia richiesta, e così sono stata costretta a diventare un personaggio pubblico».

Immagino sia difficilissimo crescere i vostri due bambini, Gabriel e Max, in queste condizioni. Guardando indietro, rimpiangete di avere messo in piedi una famiglia in condizioni tanto difficili? I vostri due bambini, Gabriel e Max, riescono a vedere il padre? E lei riesce a incontrare Julian?

«Il governo americano ha agito dietro le quinte per tenere Julian in una condizione prolungata in cui era un ostaggio dentro l’ambasciata. C’era una roccia solida al centro dei nostri mondi e quella roccia era il nostro amore reciproco, brillava per quanto era vero, puro e certo in un mare di fango. Non ho rimpianti, perché abbiamo creato una famiglia bellissima. E tutte le persone che si sono unite per aiutare a liberare Julian mi danno la forza e la convinzione che è solo questione di tempo, prima che staremo di nuovo insieme. È stato molto difficile durante il Covid, per tutti noi, ma a partire dall’estate, ci vediamo di nuovo frequentemente (ogni settimana)».

In una vita impossibile, in cui siete stati continuamente spiati e controllati, si può davvero avere anche solo una giornata di vita senza ansia e pressione?

«No, non è possibile. Rimangono sempre con me. È qualcosa che io devo gestire costantemente, ma ci riesco meglio quando sento che quello che sto facendo aiuta concretamente a riportare Julian a casa».

Lei ha seguito dal punto di vista legale il caso svedese delle accuse per stupro: che idea si è fatta di quella vicenda?

«È stato un vergognoso abuso del procedimento giudiziario. Julian non è mai stato rinviato giudizio, e i magistrati svedesi alla fine hanno chiuso il procedimento una volta che era servito allo scopo: attaccare la sua reputazione, negargli la possibilità di difendersi, mantenerlo privato della sua libertà per anni fino a quando gli Stati Uniti hanno desecretato il loro atto di incriminazione. Le Nazioni Unite hanno già stabilito, nel 2015, che il Regno Unito e la Svezia hanno agito in violazione delle leggi internazionali e che Julian era detenuto arbitrariamente nell’ambasciata».

L’Europa non ha fatto la sua parte. Cosa avrebbe potuto fare e cosa potrebbe ancora fare?

«L’Europa non è uno spettatore passivo. L’Europa è parte in causa sia come beneficiaria delle pubblicazioni di Julian sia come giurisdizione che ha l’obbligo di proteggere i diritti civili e politici di tutti gli individui. L’Europa ha beneficiato delle pubblicazioni di WikiLeaks, che hanno rivelato lo spionaggio dei leader europei e anche lo spionaggio economico contro la Banca centrale europea, la penetrazione dei partiti politici da parte della Cia, il sovvertimento dei procedimenti giudiziari in Germania, Spagna, Olanda, Danimarca, Svezia. WikiLeaks ha rivelato anche le intercettazioni del primo ministro italiano e dei suoi consiglieri. La Germania si è fatta sentire in modo forte con politici di varia estrazione che hanno formato un gruppo parlamentare che chiede la liberazione di Julian, così come Inghilterra e Francia. Anche le associazioni europee della stampa si sono schierate a suo favore. Poi ci sono iniziative al Consiglio d’Europa per chiedere la liberazione di Julian. C’è un forte supporto all’interno del Parlamento europeo, ma nell’insieme l’Unione Europea potrebbe fare di meglio, specialmente considerando che è una parte interessata e che il caso contro Julian è un attacco alla libertà di stampa e, più in generale, alla sovranità dell’Europa».

Perché Assange fa ancora paura?

«Alcune persone corrotte e potenti ce l’hanno con lui perché rappresenta ciò che loro temono della stampa. I potenti amano pensare di poter controllare la stampa. Julian ha sempre detto che quello che viene fatto a lui non riguarda davvero la sua persona, ma mira piuttosto a creare dei precedenti che servano a produrre una stampa servile e un’opinione pubblica ignorante e senza potere».

Quanti anni è rimasto rinchiuso in ambasciata? Quanti in prigione?

«Si trova incarcerato nella prigione di Belmarsh da oltre due anni e mezzo e rischia 175 anni di prigione, se estradato. È stato confinato nell’ambasciata da giugno 2012 fino all’11 aprile 2019, ma la gente dimentica che aveva perso la libertà prima: il 7 dicembre 2010, quando era stato arrestato e imprigionato a Wandsworth, la prigione dove era stato rinchiuso Oscar Wilde. Dopo 10 giorni, fu mandato ai domiciliari, sotto strette restrizioni, per un anno e mezzo, prima che si rifugiasse nell’ ambasciata. Nel suo provvedimento del dicembre 2015, il Working Group delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha stabilito che la sua detenzione arbitraria ha avuto inizio con il suo arresto il 7 dicembre 2010. La Svezia non l’ha mai rinviato a giudizio per nessun reato».

Cosa potrebbe accadere ad Assange se dovesse venire estradato?

«Se intende cosa vogliono fare gli Stati Uniti a Julian, la risposta è che vogliono seppellirlo vivo per il resto della sua vita, e non permettergli di parlare più o di essere visto in pubblico. La corte britannica ha già sentenziato [in primo grado, ndr] che la sua situazione è così seria e che è stato trattato già così male che se le corti inglesi dovessero ordinare la sua estradizione, questo porterebbe alla sua morte». 

Stella Moris, compagna di Julian Assange e madre dei suoi due figli, sarà in Italia ospite del Salone del Libro di Torino oggi alle ore 15 (Sala Rossa, Padiglione 1). Moris discuterà con Riccardo Iacona e Stefania Maurizi, autrice del libro «Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks» (Chiarelettere). Maurizi è la giornalista che in Italia ha diffuso i documenti di Wikileaks e partecipa come testimone al processo in corso a Londra

Il progetto svelato da Yahoo News. “La Cia voleva rapire e assassinare Assange”, il (presunto) piano contro il fondatore di Wikileaks. Redazione su Il Riformista il 27 Settembre 2021. La Cia voleva rapire ed eventualmente assassinare Julian Assange, il fondatore di Wikileaks. Il piano ‘datato’ 2017 è stato denunciato in una inchiesta pubblicata da Yahoo News e ripresa dai principali media internazionali. L’intenzione della Cia era di rapire Assange, giornalista e attivista australiano, dall’ambasciata dell’Ecuador a Londra dove si era rifugiato nel 2012 chiedendo asilo politico in quanto perseguitato. Rapimento che era stato preso in considerazione dopo i report di intelligence che evidenziano il rischio di un tentativo di fuga dall’ambasciata  di Assange, col contributo dei servizi russi. Ad intestarsi la lotta contro Assange era in particolare Mike Pompeo, all’epoca segretario di Stato dell’amministrazione Trump. Ex capo della Cia, Pompeo a causa di Wikileaks aveva sofferto la più grave perdita di dati della sua storia. L’inchiesta di Yahoo News, citando conversazioni con oltre 30 ex funzionari dell’intelligence e della sicurezza degli Stati Uniti, sottolinea che erano stati richiesti “piani” e “opzioni” su come eseguire un’operazione di omicidio. Un pressing diventato più forte dopo la fuga di dati riguardanti gli strumenti di hackeraggio utilizzati dalla CIA, il rilascio di dati da parte di Wikileaks noto come ‘Vault 7‘, e i retroscena sull’inchiesta della mail del Partito Democratico statunitense durante la campagna elettorale del 2016, che avevano favorito la vittoria di Donald Trump. Pur trovandosi ancora rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador, tale circostanza non avrebbe scoraggiato Pompeo e i suoi funzionari. L’idea era quella di rapire Assange nella sede diplomatica ecuadoriana e portarlo negli Stati Uniti attraverso un paese terzo, la cosiddetta ‘rendition’. Un ex funzionario dell’intellige Usa sentito da Yahoo News ha descritto il piano come “irrompere nell’ambasciata, trascinare fuori Assange e portarlo dove volevano”. L’ex presidente Usa ha negato di aver mai preso in considerazione l’idea di uccidere il fondatore di Wikileaks: “È totalmente falso, non è mai successo”. Attualmente Assange è recluso nel carcere di massima sicurezza HM Prison Belmarsh di Londra. Nel gennaio 2021 il tribunale distrettuale britannico aveva negato la richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti a causa delle condizioni mentali del fondatore di Wikileaks: il regime di isolamento al quale sarebbe sottoposto negli Stati Uniti potrebbe portarlo al suicidio visto la sua depressione clinica. CHI E’ ASSANGE – Il nome di Assange, giornalista e attivista australiano, è ovviamente legato alla sua ‘creatura’, quella Wikileaks dove dal 2007 ad oggi sono stati pubblicati dietro la garanzia della massima protezione, milioni di file segreti di governi e apparati militari di mezzo mondo. Sul sito verranno caricati documenti riguardanti casi come la repressione cinese della rivolta tibetana, la repressione dell’opposizione in Turchia, la corruzione nei Paesi arabi e le esecuzioni sommarie della polizia in Kenya. Ma a far detonare il ‘caso Wikileaks’ sono, nel 2010, centinaia di migliaia di documenti sulle operazioni della coalizione internazionale in Afghanistan e in Iraq e in particolare dall’esercito statunitense, autore di violenze indiscriminate anche su civili. Materiale messo a disposizione dall’ex militare statunitense Chelsea Manning, imprigionata e poi scarcerata nel maggio 2017, presentato in una conferenza stampa dallo stesso Assange e poi messo a disposizione di diverse testate internazionali. Alla fine del 2010 la magistratura svedese lancia un mandato di cattura per le denunce di stupro da parte di due donne svedesi. Assange replica di aver avuto solo rapporti consenzienti e si consegna alla polizia britannica. Dopo i domiciliari e la libertà vigilata il programmatore si rifugia presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. È il 2012: Assange teme di essere estradato in Svezia e da lì negli Stati Uniti dove lo attende un processo per spionaggio. Assange resterà rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador fino al 2019, quando il presidente Lenin Moreno revoca la cittadinanza che gli aveva conferito il suo predecessore Rafael Correa. L’Ecuador consente quindi ad agenti della polizia metropolitana di Londra di entrare nell’ambasciata e prelevare Assange contro la sua volontà, senza rispettare il fatto che era in possesso della cittadinanza di quello Stato. Mentre il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti il 23 maggio 2019 aggiunge 17 capi di accusa – per 175 anni di carcere – a quello di pirateria informatica, Assange viene condannato da un tribunale di Londra a 50 settimane per la violazione della libertà vigilata quando Assange si è rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana. Il processo svedese invece si conclude il 19 novembre 2020: la magistratura scandinava abbandona l’indagine per violenza sessuale per mancanza di prove e il 4 gennaio 2021 la giudice Vanessa Baraitser, della corte penale londinese di Old Bailey, nega l’estradizione in quanto le “condizioni mentali di Julian Assange sono tali che sarebbe inappropriato estradarlo negli Stati Uniti” e potrebbero portarlo al suicidio. Ad oggi è detenuto esclusivamente a scopo preventivo, per garantire la sua presenza durante il processo di estradizione negli Stati Uniti in corso, un procedimento che potrebbe durare diversi anni.

Quel piano della Cia per rapire e assassinare Julian Assange. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 28 settembre 2021. Un clamoroso e spregiudicato piano – mai attuato – maturato ai tempi dall’amministrazione Trump per rapire e magari assassinare il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange. È quanto emerge da un’inchiesta pubblicata su Yahoo News da tre giornalisti investigativi di grande fama, Zach Dorfman, Sean D. Naylor e Michael Isikoff. Nel corso del 2017, prima che – nell’aprile 2019 – il giornalista australiano venisse arrestato e poi incarcerato alla Her Majesty Prison Blemarsh e sulla sua testa pendessero fino a 175 anni di carcere per accuse di spionaggio e pirateria informatica, stava iniziando il suo quinto rinchiuso nell’ambasciata dell’Ecuador, a Londra.

Donald Trump era stato eletto da pochi mesi e i funzionari della sua amministrazioni, si legge nell’inchiesta, erano impegnati in una lunga diatriba sulla legittimità e legalità di un’operazione che prevedeva il rapimento del fondatore di WikiLeaks. Alcuni funzionari della Cia e della Casa Bianca presero persino in considerazione l’idea di assassinare Julian Assange, al punto di richiedere una serie di “opzioni” su come farlo fuori. Il dibattito su questo piano segreto si è svolto “ai più alti livelli” dell’amministrazione Trump, spiega un ex funzionario che ha parlato con i tre giornalisti autori dell’inchiesta. Tali conversazioni, ha spiegato la fonte, facevano parte di una campagna senza precedenti della Cia contro WikiLeaks e il suo fondatore. I piani dell’agenzia includevano anche un’ampia attività di spionaggio sui soci di WikiLeaks, inclusa l’idea di seminare discordia tra i membri del gruppo e rubare i loro dispositivi elettronici.

La vendetta della Cia. All’inizio del 2017 WikiLeaks aveva cominciato a pubblicare migliaia di file segreti riguardanti l’agenzia (Vault 7). L’allora direttore della Cia fresco di nomina, Mike Pompeo – poi Segretario di Stato – voleva vendicare l’agenzia rispetto a quella che riteneva una figuraccia epocale e una fuga di notizie intollerabile. Fu proprio Pompeo uno dei promotori di questo piano mai messo in pratica dall’amministrazione Trump. “È tempo di chiamare WikiLeaks per quello che è veramente: un servizio di intelligence ostile non statale, spesso aiutato da attori statali come la Russia”, spiegò Pompeo dinanzi alla platea del Center for Strategic and International Studies di Washington, nel 2017. A quel punto gli 007 americani incaricati dal direttore della Cia stavano monitorando le comunicazioni e i movimenti di numerosi membri del personale di WikiLeaks, inclusa la sorveglianza audio e visiva dello stesso Assange, secondo quanto riferito da alcuni ex funzionari. L’America stava segretamente spiando Assange, in attesa delle sue mosse. Mentre si vociferava di un possibile soccorso russo e di una fuga a Mosca del giornalista australiano, la Cia e la Casa Bianca iniziarono a prepararsi a una serie di possibili scenari che, come in un classico film d’azione Hollywodiano, includevano rocamboleschi inseguimenti in auto e potenziali scontri a fuoco con agenti del Cremlino per le strade di Londra. La convinzione degli americani è che Assange stesse per fuggire dall’ambasciata con l’aiuto di Mosca, a breve. Ed è lì, fuori dall’ambasciata, che lo avrebbero preso e intercettato. “Avevamo tutti i tipi di motivi per credere che stesse pensando di andarsene da lì”, ha spiegato un ex alto funzionario dell’amministrazione Trump. Lo stesso presidente americano fu informato dall’agenzia che un eventuale cattura di Assange avrebbe avuto risvolti politici internazionali potenzialmente anche molto gravi. Il piano, tuttavia, non andò mai in porto. 

Dall’ambasciata dell’Ecuador al carcere. Julian Assange ottenne asilo politico e protezione sotto la presidenza di Rafael Correa. Come già evidenziato da InsideOver, tutto cambiò con l’elezione del suo successore Lenin Moreno, il quale accusò ben presto Assange di aver “ripetutamente violato” i termini dell’asilo nell’ambasciata dell’Ecuador dove era rinchiuso dal 2012. Una settimana dopo le dichiarazioni di Mike Pompeo su WikiLeaks, l’allora procuratore generale Jeff Sessions annunciò che arrestare Julian Assange era una “priorità”. Secondo quanto riferito dal New York Times, il dipartimento di Giustizia stava lavorando a un memorandum che conteneva possibili accuse contro Wikileaks e Assange. Il 20 ottobre 2017, Mike Pompeo paragonava Wikileaks ad al-Qaida e allo Stato Islamico (Isis). L’amministrazione Trump prese poi una posizione sempre più aggressiva nei confronti di Assange e del governo Moreno. Il Sottosegretario agli Affari Politici Thomas A. Shannon Jr. visitò l’Ecuador a febbraio 2018, e fu seguito a marzo dal vice comandante del Comando Sud degli Stati Uniti, il generale Joseph DiSalvo, il cui compito era discutere la cooperazione di sicurezza con il leadership militare ecuadoriana. Il giorno dopo la visita di Di Salvo, il governo di Quito prendeva la sua prima azione importante per ridurre la libertà di Assange presso l’ambasciata di Londra. Secondo l’Ecuador, Assange aveva violato un impegno scritto, sottoscritto nel dicembre 2017, di non “emettere messaggi che implicavano interferenze nei confronti di altri stati”. La conseguenza fu che i funzionari ecuadoriani interruppero il suo accesso a Internet e vietarono ogni visita. La dichiarazione del governo alludeva all’incontro di Assange con due leader del movimento indipendentista catalano. Gli Usa, consci della difficile economica dell’Ecuador, soprattutto dopo la visita nel Paese dei funzionari del Fondo Monetario Internazionale, nell’estate 2018 fecero ulteriori pressioni sul governo di Lenin Moreno, sino a quando no fu ritirato l’asilo politico che lo aveva tutelato per anni. Oggi Assange è detenuto in un carcere di massima sicurezza inglese, per via di una sua possibile – quanto improbabile – fuga, in attesa che Washington prepari l’appello contro la sentenza che lo scorso 4 gennaio ne ha vietato l’estradizione.

 

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'1 settembre 2021. Riccardo Iacona ha sposato in tutto e per tutto la tesi di chi sostiene che Julian Assange, fondatore della piattaforma WikiLeaks, sia un eroe, che il processo contro di lui sia il più grande scandalo giudiziario della storia, paragonabile solo al caso Dreyfus, che il giornalista australiano si sia immolato nel nome della libertà di stampa: «Presadiretta», Rai3, lunedì. Nessuna voce a sollevare qualche dubbio, anzi in qualche momento ho avuto l'impressione della totale identificazione fra Assange e Iacona (qualcosa del genere era già successo con Ale Di Battista). Come fossimo ancora ai tempi dei leak del dipartimento di stato, quelli di Chelsea Manning, quando Assange appariva un paladino della libertà di stampa agli occhi di chi era contrario alla guerra in Iraq e di chi credeva nell'idea della trasparenza assoluta. Non che gli Usa non abbiano combinato guai nelle loro azioni in risposta all'attacco delle Torri Gemelle, ma Iacona ha evitato qualsiasi accenno alla forte simpatia di Assange per i governi autoritari, dalla Russia ai regimi latinoamericani, al ruolo di Wikileaks nella campagna di disinformazione della Russia nei confronti di Hillary Clinton. Va bene ascoltare la giornalista Stefania Maurizi o la moglie di Assange, ma forse Iacona avrebbe potuto fare lo sforzo di leggere qualche pagina del libro di Andrew O' Hagan, «La vita segreta», 2017, per farsi venire qualche dubbio. Assange è descritto come un piccolo despota, incoerente, bugiardo, viziato, paranoico, una sorta di rovescio grottesco delle istituzioni che attacca. Gli Usa hanno emesso una richiesta di estradizione per cospirazione nella violazione di un sistema informatico del governo americano: l'accusa è riferita al 2010, quando Chelsea Manning chiese aiuto ad Assange per violare la password di un computer del dipartimento della Difesa. L'hackeraggio è grande giornalismo?

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2021. Per aver messo in discussione la puntata di «Presadiretta» (Rai3) dedicata a Julian Assange, ho ricevuto alcuni rilievi da Adriano Sofri e da Peter Gomez. Per loro, diversamente da quello che avevo sostenuto, quello di Assange è buon giornalismo. La mia critica si fondava su due punti essenziali. Il primo: il servizio di Riccardo Iacona era tutto in difesa di Assange, senza una sola voce contraria (il che non mi pare buon giornalismo). Il secondo: a differenza di Iacona, non sono convinto che Assange vada celebrato come un eroe dell'informazione libera e diretta, scevra dai filtri manipolatori dei media tradizionali e dei governi. Alla mia domanda se l'hackeraggio sia grande giornalismo, sia Sofri che Gomez rispondono di sì, a patto che il fine giustifichi i mezzi (alla machiavellica ragion di Stato si sostituisce una nuova, fantomatica ragion di Verità). Ma è giornalismo quello di Assange? Come hanno scritto Eugenio Cau e Paola Peduzzi, «Assange non ha mai fatto giornalismo d'inchiesta. Il metodo Wikileaks consisteva nel riversare masse di documenti segreti o riservati online, senza vaglio e senza contesto. È il contrario del giornalismo, e a causa di questo metodo Edward Snowden, il leaker della Nsa, ha avuto non poche discussioni con Assange. A chi oggi definisce Assange come «giornalista», andrebbe ricordato che lui stesso ha sempre preferito farsi definire come attivista (lo disse a Brian Stelter nel documentario «Page One», per esempio), e in quanto tale Assange ha sempre perseguito un'agenda politica» ( Il Foglio , 13 apr 2019). Con i documenti riservati provenienti dalla Russia, Assange è stato molto più cauto e selettivo, senza mai invocare la libertà di stampa. Ha usato la «trasparenza» a fasi alterne come, per esempio, nella campagna contro Hillary Clinton, non priva di conseguenze. Insomma, mi pareva ci fossero buoni motivi per non santificarlo su una rete del servizio pubblico italiano. Tutto qui.

Adriano Sofri per “il Foglio” l'8 settembre 2021. Ho un supplemento alla Piccola Posta sul programma di Iacona (ed Elena Marzano, Elisabetta Camilleri e Massimiliano Torchia) dedicato ad Assange, dopo aver letto l’autorevole recensione di Aldo Grasso per il Corriere. (…) Ho un’obiezione: l’eventuale parzialità o faziosità o peggio di Assange può essergli addebitata se si sia tradotta nel silenzio o nella reticenza sulle malefatte russe o di altre cattive compagnie, ma non riduce di un millimetro l’interesse dei chilometri di rivelazioni sulle malefatte degli Usa (e di altri numerosi stati e dei loro Servizi), se risultino veridiche. (...) L’hackeraggio che mette a disposizione del pubblico mondiale documenti autentici del modo di azione illegale e sleale degli stati, tanto più di quelli che si vogliono democratici, e dei loro servizi segreti, è una fonte formidabile di giornalismo, come mostra l’uso che ne hanno fatto il New York Times, il Guardian, lo Spiegel, il Monde e il Pais, e tanti altri. Wikileaks ha replicato all’argomento dei rischi cui le rivelazioni esporrebbero informatori e militari sul campo, che non c’è stato un solo caso in cui si siano realizzati. Infine, vorrei richiamare un dettaglio che a Grasso dovrebbe piacere, affascinante come un dilemma di filosofi sofisti: come si considererà l’hackeraggio che permette di svelare la registrazione permanente, segreta e illegale, dei movimenti e delle parole di Assange e dei suoi interlocutori nel ripostiglio dell’ambasciata ecuadoregna, lungo anni (e infine pubblicata dal Pais)? Chi ha spiato chi? Somiglia un po’ al paradosso del mentitore, no? Potremmo forse concordare che, simpatia o antipatia di Assange, c’è un uomo in una galera inglese minacciato di una galera senza scampo americana contro il quale sta la potenza accanita degli Stati Uniti e della loro influenza, fatta pesare platealmente. Non i soli Stati Uniti, ma mezzo mondo contro Julian Assange: sembra una buona ragione per mettere il proprio peso di piume sul suo piatto della bilancia.

Estratto dell'articolo di Peter Gomez per ilfattoquotidiano.it l'8 settembre 2021. (...) Grasso è un critico televisivo. E per noi la critica è sacra. Anche la sua. Se la trasmissione non gli è piaciuta, ha tutto il diritto di scriverlo. Noi non condividiamo, ma registriamo il punto di vista. Facciamo però qui notare che le eventuali, e tutte da dimostrare, pecche umane di un giornalista come Assange non possono essere il metro di valutazione del suo lavoro, a meno che non si voglia dare ragione al filosofo francese Paul Valéry secondo cui “Quando non si può attaccare un ragionamento, si attacca il ragionatore”. Il motivo per cui Fatti Chiari ha deciso di occuparsi della critica di Grasso è però un altro. Il suo articolo, dopo aver ricordato che Assange è accusato negli Usa di “cospirazione nella violazione di un sistema informatico” (i famosi documenti segreti sulla “guerra al terrore”), si conclude con una domanda: “L’hackeraggio è grande giornalismo?”. L’interrogativo merita risposta: sì, è grande giornalismo se, come in questo caso, i documenti smascherano le bugie di chi è al potere. È grande giornalismo se, come in questo caso, i documenti hanno un interesse pubblico perché dimostrano quanto chi era al potere abbia mentito sull’Afghanistan e l’Iraq. Assange è privato della libertà dal 2010 ed è detenuto in un carcere di massima sicurezza dal 2019. Cittadini e giornalisti di tutto il mondo, non necessariamente pacifisti come scrive Grasso, riconoscono che quelli di WikiLeaks sono stati tra i più grandi scoop della storia. E la pensano così pure tanti colleghi americani convinti che anche per Assange valga la celebre sentenza della Corte Suprema, che non sanzionò il New York Times per aver pubblicato nel 1971 i Pentagon Papers, un rapporto segreto sull’inizio della guerra del Vietnam, scatenata, al pari di quella in Iraq, sulla base di una bugia. Una sentenza in cui si legge: “Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l’inganno del governo. E di primaria importanza tra le responsabilità di una stampa libera è il dovere di impedire a qualsiasi parte del governo di ingannare le persone”. Fatti Chiari non è una rubrica pacifista. Chi scrive, dopo l’attentato alle Due Torri, era contrario alla guerra in Iraq, ma era favorevole (sbagliandosi) a quella in Afghanistan, perché quel Paese nascondeva Bin Laden. Fatti Chiari però ricorda i Pentagon Papers e pensa che Assange sia un paladino della libertà di stampa. Il fatto che Grasso, come altri, sospetti un ruolo dei russi nella successiva pubblicazione da parte di WikiLeaks delle email di Hillary Clinton, che contribuirono alla vittoria di Donald Trump nelle elezioni del 2016, non sposta di una virgola questo giudizio. Perché quelle email erano autentiche e dimostravano il supporto all’Isis, sotto lo sguardo Usa, da parte di Arabia Saudita e Qatar. Erano una notizia vera che gli elettori avevano il diritto di conoscere. #freeassange

Il programmatore e giornalista australiano. Chi è Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks che gli USA vogliono estradare per spionaggio. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Agosto 2021. Julian Assange è incarcerato alla Her Majesty Prison Blemarsh di massima sicurezza a Londra e sulla sua testa pendono fino a 175 anni di carcere per accuse di spionaggio e pirateria informatica. È un giornalista, programmatore e attivista australiano, cofondatore e caporedattore di WikiLeaks. È diventato un personaggio emblematico e rappresentativo degli anni ’10: per alcuni un impostore, per altri un potenziale Premio Nobel per la Pace per la sua attività di informazione e trasparenza. Questa (a grandissime linee) la storia di un personaggio simbolico e controverso di questi anni – e dal finale ancora aperto – che concentra paradossi e sfide e interrogativi di questa epoca: sulla politica, la Giustizia e il giornalismo.

L’uragano WikiLeaks. Il nome di Assange è indissolubilmente legato a quello di WikiLeaks: sulla piattaforma, dove ha garantito alle fonti la massima protezione informatica, ha pubblicato fino a dieci milioni di “leak” tra informazioni riservate e documenti segreti di governi e apparati militari. I documenti hanno riguardato tra gli altri casi la repressione cinese della rivolta tibetana, la repressione dell’opposizione in Turchia, la corruzione nei Paesi arabi e le esecuzioni sommarie della polizia in Kenya. L’obiettivo principale però sono sempre stati gli Stati Uniti. WikiLeaks viene registrato nel 2006 e nel 2007 pubblica il manuale per le guardie carcerarie di Guantanamo. Al 2010 risale il cablegate: grazie alla fuga di notizie messa in atto dall’ex militare statunitense Chelsea Manning – imprigionata e poi scarcerata nel maggio 2017 – e alla collaborazione con diverse testate internazionali vengono pubblicati centinaia di migliaia di documenti sulle operazioni della coalizione internazionale in Afghanistan e in Iraq – e quindi di violenze indiscriminate anche su civili. Il materiale viene presentato in una conferenza stampa dallo stesso Assange. È a questo punto che il programmatore australiano diventa un personaggio ma anche un esempio e un bersaglio.

L’ambasciata dell’Ecuador. Alla fine del 2010 la magistratura svedese lancia un mandato di cattura per le denunce di stupro da parte di due donne svedesi. Assange replica di aver avuto solo rapporti consenzienti e si consegna alla polizia britannica. Dopo i domiciliari e la libertà vigilata il programmatore si rifugia presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. È il 2012: Assange teme di essere estradato in Svezia e da lì negli USA. Il quotidiano spagnolo El Pais, su quei giorni, pubblicherà un’inchiesta scoop sullo spionaggio americano, tramite la società di sorveglianza UC Global, ai danni del programmatore. La cittadinanza ecuadoriana gli viene concessa dal Presidente Rafael Correa e revocata dal neo-eletto Lenin Moreno. L’11 aprile 2019 la polizia britannica entra nell’ambasciata e preleva Assange. Stella Morris, legale e compagna di Assange, assicura a Stoccolma che il programmatore è disposto a collaborare a condizione che venga scongiurata l’estradizione negli Stati Uniti. Intanto arriva una condanna di un tribunale di Londra, a 50 settimane, per la violazione della libertà vigilata quando Assange si è rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana mentre il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti il 23 maggio 2019 aggiunge 17 capi di accusa – per 175 anni di carcere – a quello di pirateria informatica. Il sospetto agitato dagli statunitensi è che il fondatore di WikiLeaks sia un collaboratore della Russia – anche perché nel 2013 consiglia al whistleblower dell’Nsa americana Edward Snowden di rifugiarsi a Mosca.

L’estradizione. Ancora lontana una resa dei conti, tuttavia: il 19 novembre 2020 la magistratura svedese, per mancanza di prove, abbandona l’indagine per violenza sessuale e il 4 gennaio 2021 la giudice Vanessa Baraitser, della corte penale londinese di Old Bailey, nega l’estradizione in quanto le “condizioni mentali di Julian Assange sono tali che sarebbe inappropriato estradarlo negli Stati Uniti” e potrebbero portarlo al suicidio. Baraitser ha citato i diversi rapporti psichiatrici che hanno diagnosticato ad Assange la sindone di Asperger e una “grave depressione” causata dalla reclusione. Durante le udienze che si erano svolte nel mese di ottobre 2020 tra gli effetti personali del fondatore di WikiLeaks era stata trovata e confiscata una “mezza lama di rasoio”. Washington ha annuncia subito ricorso. Il relatore delle Nazioni Unite sulla tortura, Nils Melzer, a novembre 2020, aveva rinnovato l’appello per l’immediata liberazione di Assange e per il trasferimento ai domiciliari evidenziando “tutti i sintomi tipici di un’esposizione prolungata alla tortura psicologica”. “Non è una vittoria della libertà di stampa. Al contrario, il giudice ha detto chiaramente di credere che ci siano motivi per perseguire Assange per la pubblicazione dei documenti”, ha osservato su Twitter l’avvocato e giornalista statunitense Glenn Greenwald, fondatore di The Intercept che ha pubblicato una serie di articoli sul Guardian sui programmi segreti di intelligence a partire dalle rivelazioni di Snowden. “Julian non vede i suoi figli da ottobre – ha detto Stella Morris a Riccardo Iacona, conduttore e autore di Presa Diretta, tramissione di Rai3, per la puntata Julian Assange – Processo al giornalismo – da quando la prigione è stata chiusa per il Covid. Io non dico ai bambini che il loro padre è in prigione. Perché quando gli insegnerò che cos’è una prigione, gli dirò che è un posto dove finiscono i criminali, persone cattive che fanno cose cattive, non gli uomini buoni che hanno fatto cose buone. È in una cella di nove metri quadrati. Ed e lì da due anni e mezzo. Ed ora siamo arrivati al punto che ci sono solo due strade: o Julian riacquista la libertà o muore. E se muore, non è perché si è suicidato, è perché lo hanno ucciso”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 14 settembre 2021. «Per alcuni membri selezionati della nostra comunità, non applichiamo le nostre politiche e i nostri standard. A differenza del resto della nostra comunità, queste persone possono violare i nostri standard senza conseguenze». Facebook ha concesso a 5,8 milioni di utenti vip in tutto il mondo – persone di spicco nella politica, nell’industria, nello sport, nello spettacolo – di violare sistematicamente le regole che la piattaforma si è data (e tanto ha reclamizzato) per limitare l’odio, il revenge porn, le discriminazioni, di genere e religiose. In sostanza, vip e potenti hanno potuto fare, negli anni precedenti al 2019, quello che gli pareva sulla piattaforma – comprese cose che ad altri sarebbero costate immediata censura, o chiusura dell’account nei casi più gravi. Lo dimostrano una serie di documenti interni che sono stati leakati da un whistleblower e pubblicati in parte dal Wall Street Journal. Nei documenti – che abbiamo in parte potuto consultare – si leggono ammissioni inquietanti, all’interno dell’azienda: «Nella realtà non stiamo facendo ciò che diciamo di fare pubblicamente», «è la prassi che Facebook faccia eccezioni per i soggetti potenti», «questo problema è pervasivo e tocca quasi ogni area dell'azienda». C’è anche una lista, chiamata “X-Check”, di persone e account Vip esenti da pratiche di moderazione dei contenuti standard, e dalle linee guida sui termini di servizio. Stando a quando risulta a La Stampa, al di sopra delle regole c’erano anche politici europei e italiani, di cui non conosciamo però l’identità. Più i soggetti erano capaci di influenzare e rappresentare «un rischo di pubbliche relazioni» per l’azienda, più venivano favoriti i loro comportamenti anche scorretti, o pericolosi, o che potevano polarizzare e istigare alla violenza. Si tratta di una delle rivelazioni più importanti sulle pratiche da correggere dentro Facebook, che potrebbero aver riguardato anche processi elettorali e politici in Italia. Tra i vip inseriti totalmente esentati da controlli figurano personaggi politici come l'ex presidente americano Donald Trump e suo figlio Don jr, Candace Owens, la senatrice radical Elizabeth Warren, calciatori come  l’asso brasiliano Neymar, e lo stesso Mark Zuckerberg. A Neymar, per fare solo un esempio, fu concesso di pubblicare revenge porn (foto di lei nuda) sulla donna che lo aveva accusato di stupro. Il post fu lasciato un giorno intero sulla piattaforma, i moderatori dei contenuti furono bloccati e fu impedita la rimozione, e quando alla fine il post fu rimosso, era stato già visto da 56 milioni di persone. Una modalità classica anche per episodi di grave disinformazione politica, o di violenze etniche e razziali. L’infame post di Trump inneggiante alla violenza di alcuni degli agenti di polizia americani («when the looting starts, the shooting starts», «quando iniziano i saccheggi, si inizia a sparare») è stato uno dei casi più gravi. Un manager di Facebook segnalò immediatamente che il post raggiungeva 90 punti su 100 nella classifica di quelli considerati violenti, «cosa che indicava un’alta probabilità che violasse le regole della piattaforma». Ma non fu rimosso. Secondo un audit disposto proprio da Menlo Park nel 2019, il problema era «pervasivo, riguardante quasi ogni area dell’azienda», e tale da «porre numerosi rischi legali, di conformità e di legittimità». L’Oversight Board di Facebook – l’organismo di controllo che riunisce professori, giuristi ed esperti, ma è stato nominato proprio, paradosso, dall’azienda – ha emesso una dichiarazione che appare piuttosto debole: «Abbiamo espresso in più occasioni preoccupazione per la mancanza di trasparenza nei processi di moderazione dei contenuti di Facebook, in particolare in relazione alla gestione incoerente degli account di alto profilo da parte dell'azienda. Il Board ha ripetutamente raccomandato a Facebook di essere molto più trasparente in generale, inclusa la gestione di account di alto profilo, garantendo al contempo che le sue politiche trattino tutti gli utenti in modo equo». Nulla più che l’ennesima, generica raccomandazione. Andy Stone, portavoce di Facebook, risponde che proprio «i documenti di Facebook citati indicano la necessità di cambiamenti che sono in realtà già in corso nella nostra azienda. Abbiamo nuovi team, nuove risorse e una revisione del processo che è un flusso di lavoro esistente in Facebook». Segno che però negli anni bui del populismo trionfante nel mondo, ai politici è stato concesso di fare qualunque cosa – compreso probabilmente l’uso di cordinazione inautentica nel network. In Italia, ne sappiamo qualcosa.

Giovanni Sofia per tag43.it il 30 agosto 2021. Twitter, Facebook e più in generale i social network. Ci stanno provando i talebani a trasferire attraverso il web un messaggio diverso rispetto a quello diffuso dalla narrazione internazionale. Un tentativo tanto insolito, quanto complicato, data la decisione diverse piattaforme di vietare la diffusione di messaggi ai nuovi governatori dell’Afghanistan. Emerge comunque nitida l’inversione di tendenza rispetto al passato, quando l’uso della Rete tra gli studenti di Dio era opzione non contemplata. Un atteggiamento evidente anche nella critica rivolta a Mark Zuckerberg dal portavoce del gruppo Zabihullah Mujahid, durante la prima conferenza pubblica del nuovo governo. In quell’occasione, i talebani non hanno lesinato accuse all’Occidente, colpevole di farsi garante della libertà di parola, ma di smentirla nei fatti. Tali sarebbero valutate le chiusure dei profili, da Facebook e WhatsApp. C’è di più, perché se i talebani non vogliono gli americani nel Paese è pur vero che ne attingono a piene mani la tecnologia. A testimoniarlo, su tutti, gli account Twitter, non verificati, di numerosi esponenti di punta del gruppo. Tra loro, Mujahid e Suhail Shaheen, bacini da oltre 300 mila follower. «Le varie piattaforme di social media e le applicazioni di messaggistica hanno avuto un ruolo cruciale nella strategia mediatica dei talebani», ha affermato alla Cnn Weeda Mehran, docente ed esperto di Afghanistan presso l’Università di Exeter, nel Regno Unito, che si concentra sulla propaganda dei gruppi estremisti. Finora, infatti, gran parte dell’attenzione del gruppo è stata rivolta alla creazione di un’immagine più sana, meno brutale se paragonata al primo governo. «In questo senso Facebook e Twitter diventano e fondamentali, sia in ambito interno che nelle relazioni di politica estera», ribadisce Safiya Ghori-Ahmad, direttore della società di consulenza politica McLarty Associates ed ex consigliere del Dipartimento di Stato per l’Afghanistan. «Un ribaltamento dovuto al gran numero di smartphone oggi presenti nel Paese e alla conseguente proliferazione di app e social». L’attuale “simpatia” dei talebani verso media e tecnologia, come accennato, è in netto contrasto con quanto accadeva a cavallo fra gli Anni 90 e 2000. Allora vigeva il divieto non solo di utilizzare la televisione, ma anche il neonato web. Una decisione drastica, giustificata dalla volontà di contrastare apertamente «cose sbagliate, oscene, immorali e contro l’Islam». Eppure da lì a poco sarebbe cominciata la rivoluzione tech. Secondo Mehran, i talebani cominciarono ad avvicinarsi alla Rete proprio dal 2001, con l’estromissione dal potere. In quegli anni pubblicavano video e condividevano i primi messaggi online. Successivamente, la naturale evoluzione è stata quindi la scoperta di piattaforme come Facebook, Twitter, WhatsApp e Telegram. Una svolta impossibile senza la capillare diffusione di internet, concretizzatasi progressivamente in tutto l’Afghanistan. Nel 2019, il Paese contava quasi 10 milioni di persone in grado di navigare sul web, oltre il doppio (23 milioni) possedeva un cellulare. L’89 per cento degli afghani, poi, poteva già accedere ai servizi di telecomunicazione. Sono gli ultimi dati disponibili del ministero delle Comunicazioni e dell’informatica del Paese che conta, secondo alcune stime, 3 milioni di account Facebook. Numeri importanti che spiegano anche perché piuttosto che vietarli, i talebani stiano cercando delle soluzioni per aggirare la censura da social. Non esattamente un’impresa semplice dato il controllo stringente di Facebook, Instagram e WhatsApp, che proprio di recente ha chiuso oltre a molti account anche una linea di assistenza talebana. D’altronde, afferma la società di Menlo Park: «I talebani sono sanzionati come organizzazione terroristica secondo la legge degli Stati Uniti e li abbiamo banditi dai nostri servizi conformemente alle politiche sulla Dangerous Organization». Lo stesso vale per WhatsApp: «Abbiamo il dovere di omologarci alle norme americane sulle sanzioni, che includono il divieto per account che riconducono talebani». Anche YouTube ha ribadito che continuerà a chiudere gli account gestiti dai talebani. Rimane Twitter che non ha bandito gli account talebani, ma ha come priorità assoluta proteggere la sicurezza degli utenti «per cui rimaniamo vigili». Stagliate simili premesse «appare improbabile che i talebani spingano per una dismissione di internet dall’Afghanistan», ha aggiunto Ghori-Ahmad. In un tira e molla del genere, uno spartiacque decisivo potrebbe essere rappresentato dal riconoscimento del nuovo governo afgano da parte della comunità internazionale: «Se ciò accadesse, sarebbe difficile per Facebook e YouTube giustificare l’esclusione del gruppo militante dalla piattaforma», spiega Mehran. Il vero problema per i talebani, tuttavia, potrebbe non essere ciò che dice il gruppo, ma la libertà che ne deriverebbe per la popolazione. Il dissenso negli ultimi giorni ha viaggiato veloce online, con video delle proteste per le strade di Kabul che hanno raccolto grande solidarietà nel mondo. Non è da escludere che per frenarla i talebani limitino l’accesso a Internet nel Paese. «Guardando al futuro, vorranno certamente usare la tecnologia per i propri scopi di propaganda e pubbliche relazioni», ha affermato Madiha Afzal, membro del programma di politica estera della Brookings Institution. «Ma ora che hanno preso il controllo dell‘Afghanistan, con ogni probabilità vorranno contemporaneamente limitare l’accesso ai social media alla popolazione. Piattaforme come Twitter e WhatsApp dovranno capire come affrontare la propaganda dei talebani, cercando comunque garantire l’utilizzo degli strumenti alla gente comune». Che nell’idea degli studenti di Dio, dovrebbe essere comunque conforme alla legge islamica. Le app, dal canto loro ci stanno provando. Twitter è concentrata sulla rimozione dei contenuti più vecchi e sulla sospensione temporanea degli account, nel caso in cui gli utenti afghani non siano in grado di accedervi. Si tratta di post che potrebbero, infatti, prestare il fianco alle ritorsioni dei talebani. LinkedIn «ha preso alcune misure temporanee, come limitare la visibilità delle connessioni e aiutare i membri nel Paese a nascondere i propri profili». Precauzioni fondamentali, perché sebbene il nuovo governo tenda a proiettare un’immagine di sé più moderata, non ci sono garanzie che l’atteggiamento duri nel tempo.

"Portavoce dei talebani fa propaganda su Twitter. Trump bannato a vita". Francesca Galici il 16 Agosto 2021 su Il Giornale. Il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid fa propaganda su Twitter mentre Trump è stato bannato: è polemica per il metro di valutazione. Il caos in Afghanistan avrà conseguenze sull'Occidente già nel medio periodo. Il Paese è piombato in una delle sue notti più nere e le immagini che arrivano da Kabul sono inquietanti. La classe dirigente ha già lasciato il Paese mentre per i civili non ci sono voli commerciali per uscire dall'Afghanistan. Gli unici aerei autorizzati al decollo sono quelli militari e talmente è grande la paura che qualcuno ha addirittura pensato di aggrapparsi alla fusoliera dei velivoli in decollo. Immagini scioccanti che fanno da contraltare alle dichiarazioni social di Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, libero di effettuare la sua propaganda su Twitter. Mentre Zabihullah Mujahid può spiegare via Twitter che "tutti dovrebbero restare a Kabul con piena fiducia" nonostante chiunque sia a conoscenza di cosa significhi l'insediamento dei talebani in Afghanistan, all'ex presidente degli Stati Uniti d'America è stato vietato in modo permanente di crearsi un account social. Una sostanziale differenza di trattamento sulla quale ora in tanti lamentano una discriminazione ingiustificabile. Anche Giorgia Meloni in queste ore ha voluto mettere l'accento su questo aspetto attraverso un post condiviso su Twitter: "Il profilo Twitter del portavoce dei talebani è attivo e funzionante, svolge le sue funzioni di propaganda e agisce da megafono per gli integralisti islamici in Afghanistan. Donald Trump (ex Presidente degli Stati Uniti) invece è stato bannato a vita da Twitter. Pazzesco". Un pensiero condiviso da molti, che accusano i social network di avere "stabilito chi sono i buoni e chi i cattivi". Giorgia Meloni sulla questione afgana ha le idee molto chiare e guarda la situazione in ottica futura con una forte critica all'operato del democratico Biden: "Disastrosa gestione del dossier Afghanistan da parte dell'amministrazione democratica Biden. I talebani riprendono con estrema facilità Kabul e l'intera nazione afgana, entrando anche in possesso di armi e mezzi occidentali. Gli alleati locali dell'Occidente abbandonati al loro destino. Una figuraccia per tutto l'Occidente che fomenterà gli integralisti e che avrà gravi ripercussioni anche per la nostra sicurezza. Peggio di così non era proprio possibile fare. Diamo il ben tornato alla cinica dottrina Obama - Clinton - Biden: 'Se non puoi vincere, crea caos'".

Quindi, tramite Facebook, Giorgia Meloni ha dichiarato: "20 anni di diritti e di conquiste cancellati in un batter d'occhio. Un futuro costruito con enormi sacrifici, che non esiste più. È un fallimento dell'intero occidente causato dalla disastrosa gestione del disimpegno dall'Afghanistan maldestramente completato dall'amministrazione Biden. Il tutto nel quasi totale silenzio dei sedicenti paladini delle libertà".

Paradosso Instagram, vuole colpire i talebani ma censura i reporter sul campo. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 2 settembre 2021. La multinazionale americana Facebook, che controlla anche il social delle immagini, elimina i post dei fotografi in Afghanistan perché ritraggono i combattenti che hanno conquistato il paese. «Ma dove è finita la libertà di stampa?» «Instagram vuole rimuovere il mio account e ha già eliminato altre mie foto solo perché sono immagini di talebani in Afghanistan. Ma io sto facendo il mio lavoro di fotoreporter. La maggior parte delle fotografie era già uscita sui giornali: dov’è la libertà di stampa?». È questa la denuncia della fotogiornalista francese Veronique de Viguerie, che aggiorna il suo profilo Instagram da Kabul. Il social di proprietà di Facebook giovedì mattina ha eliminato alcune sue fotografie che ritraevano i combattenti talebani. Lo stesso ha fatto con Jim Huylebroek, che con le sue immagini per The New York Times sta raccontando al mondo che cosa succede nel paese in mano agli studenti coranici. Stessa disavventura per Alexandre Meneghini, fotoreporter freelance che vive a Cuba e lavora per Associated Press: «Già un paio di mesi fa Instagram ha rimosso le mie foto – spiega all’Espresso - non sono più riuscito a pubblicarle. Altre immagini, invece, come il ritratto di Pepsi, talebano fotografato in Pakistan, sono rimaste sul mio profilo senza causare problemi». Facebook, dopo che lo scorso 15 agosto i talebani sono entrati a Kabul, ha modificato la propria policy in Afghanistan: permette agli utenti di nascondere con un click il proprio account a chi non fa parte della lista degli amici e censura i talebani. «Sono sanzionati come organizzazione terroristica dalla legge degli Stati Uniti e sono banditi dai nostri servizi in quanto pericolose. Questo significa che rimuoviamo gli account gestiti da o per conto dei talebani e vietiamo lodi, supporto e rappresentanza» ha dichiarato alla BBC un portavoce della multinazionale americana che gestisce Facebook, Instagram e WhatsApp. Il gigante dei social ha detto di avere un team di esperti afgani, che conosce le lingue locali e il contesto del paese, dedicato al monitoraggio dei contenuti pubblicati dai combattenti che sono entrati nel palazzo presidenziale di Kabul dopo la fuga dell’ex presidente Ashraf Ghani. La decisione di Facebook ha riaperto il dibattito che aveva già acceso l’opinione pubblica quando erano stati bloccati gli account dell’ex presidente statunitense Donald Trump. Ora, però, ad essere rimossi non sono solo i post a supporto dei talebani, ma anche le fotografie dei reporter che sono ancora sul campo. Per Emanuele Satolli, fotoreporter dell’agenzia Contrasto che ha documentato l’avanzata talebana, si tratta di un bug, un cortocircuito del sistema. «Quanto succede ci invita a riflettere: quelle che dovrebbero essere piattaforme per favorire la libertà di espressione degli individui finiscono per zittire chi fa informazione». Secondo Reporters Without Borders, l’ong internazionale che si batte per la tutela della libertà di stampa, è sempre più difficile per i reporter lavorare in Afghanistan, soprattutto se sono donne. Sono rimaste solo 100 delle 700 giornaliste che erano a Kabul prima dell’arrivo dei talebani e sono ancora meno quelle che continuano a lavorare dalle altre province. Nonostante le rassicurazioni dei nuovi governanti, sta emergendo un panorama da cui mancano i media liberi. Con l’aeroporto Hamid Karzai della capitale ancora chiuso dopo il ritiro delle truppe occidentali, il paese rischia sempre di più di rimanere isolato dal resto del mondo. «Trovo contraddittorio che vengano censurate le fotografie che raffigurano i talebani, sono diffuse da sempre» dichiara Lorenzo Tugnoli, fotoreporter che ha vinto il Premio Pulitzer con le immagini della crisi umanitaria in Yemen e nel 2020 il World Press Photo con il reportage The longest war, proprio sui talebani in Afghanistan per The Washington Post. «Una loro delegazione ha negoziato la pace con gli americani che hanno appena portato a termine il ritiro delle truppe rispettando gli accordi presi. Ormai i talebani sono un soggetto politico che ha ricevuto legittimazione internazionale».  Per Tiziana Faraoni, photoeditor del nostro settimanale, la censura di Instagram è inaccettabile. «Attraverso i profili social i reporter raccontano al mondo, in diretta, come l’Afghanistan stia cambiando da quanto sono tornati i talebani. Impedire la pubblicazione delle fotografie è un limite alla libertà di espressione e anche un modo per non voler vedere la verità».

Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” il 17 agosto 2021. I social network e le follie del politicamente corretto non smettono di produrre paradossi al limite del ridicolo. Neppure nei momenti più drammatici e delicati della storia. Così, mentre i talebani si stavano riprendendo l'Afghanistan, il loro portavoce, Zabihullah Mujahid, poteva cinguettare tranquillamente, alla faccia di Donald Trump che è bannato a vita da Twitter. Ovvio, no? L'ex presidente degli Stati Uniti è censurato per sempre, mentre l'addetto stampa del sedicente Emirato Islamico può dire quello che gli pare e piace, grazie alle reti sociali del suo principale nemico: gli Stati Uniti. La notizia ha fatto rapidamente il giro dei siti - anche grazie al rilancio sul web di Giorgia Meloni e Matteo Salvini -, tuttavia ci deve stupire il giusto. Donald Trump è stato zittito secondo una prassi ben codificata: mandare al confino virtuale chi non va a genio ai proprietari delle grandi autostrade della comunicazione. Che, solitamente, è chi osa varcare il confine del politicamente corretto, chi - come nel caso di The Donald - rompe le uova nel paniere a una certa sinistra radical chic e perbenino. Ma i neo censori sono miopi, non allontanano lo sguardo dall'orticello di casa. Così, mentre tappano la bocca a quello che - nel bene e nel male - è stato un inquilino della Casa Bianca, lasciano la libertà di berciare su Twitter al ben più pericoloso Mujahid. È l'Occidente masochista che taglia il ramo sul quale è seduto. È l'Occidente che tende la mano al proprio nemico.

Carlo Nicolato per “Libero quotidiano” il 17 agosto 2021. Gli ultimi messaggi su Twitter di Suhail Shaheen, portavoce dei talebani, sono rassicuranti, sembra davvero che gli studenti islamici vogliano la pace e la prosperità del loro Paese. «Assicuriamo tutti i diplomatici, ambasciate, consolati e operatori di beneficenza, siano essi internazionali o nazionali che non solo non verrà creato alcun problema per loro da parte dell'AIE, ma verrà fornito loro un ambiente sicuro, Inshallah» ha scritto ieri pomeriggio e solo qualche ora prima aveva invece twittato che l'Emirato islamico non autorizzava nessuno a entrare in casa di chicchesia senza permesso e che la proprietà né l'onore di alcuno debba essere danneggiato. Belle parole, ma possiamo davvero fidarci del portavoce di un movimento politico-militare-religioso che teorizza la più totale sottomissione della donna nella società, la cancellazione di ogni traccia di democrazia e giustizia che non sia quella dettata dall'applicazione più stretta della sharia? Che fino a qualche giorno fa, a dispetto delle parole di Shaheen passava casa per casa per regolare i conti con coloro che ritengono collaboratori dei nemici, compreso con un comico reo di averli semplicemente presi in giro, il cui corpo è stato esposto per strada decapitato? Di certo no, questa si chiama propaganda, bassa propaganda. Sarebbe come fidarsi di Goebbels che cercasse con i suoi twitter, se mai la piattaforma fosse esistita all'epoca, di offrire al mondo un'idea idilliaca del nazismo. Eppure Shaheen parla liberamente sulle piattaforme social che gli danno parola, le stesse piattaforme che qualche tempo fa hanno espulso il presidente della prima democrazia al mondo. Giustificando la misura punitiva contro Donald Trump, Twitter chiariva che «nessun account è al di sopra delle regole e nessun account può usare il social per incitare alla violenza». Questione di regole dunque, basta seguirle limitatamente all'uso del social e chiunque lo può usare. Anche i Goebbels e gli Hitler di turno, anche Suhail Shaheen per l'appunto che nel frattempo, mentre migliaia di afghani cercano disperatamente di scappare da Kabul e alcuni di loro perdono tragicamente la vita cadendo dagli aerei ai quali si sono aggrappati, ha rilasciato un'intervista alla Bbc per spiegare la pacifica transizione al potere. Anche il partito comunista cinese che attraverso l'account dell'organo di partito «People's Daily, China», giustifica la repressione degli Uiguri e riscrive la storia del Covid. Anche il dittatore venezuelano Maduro che su Twitter spara balle colossali esaltando i successi della sua politica mentre il suo Paese è alla fame. Anche l'ayatollah Ali Khamenei che promette vendetta contro gli Usa e la distruzione di Israele.

La fatwa del presidente Antimafia. Il Riformista rompe i coglioni, attacco di Travaglio e Morra: “Nessuno vi legge”, ma i dati dicono altro…Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Agosto 2021. Mi segnalano che Nicola Morra, senatore e presidente della Commissione antimafia, ha lanciato su twitter delle dichiarazioni contro questo giornale. Propone di chiuderci perché secondo lui siamo inutili. Di solito i presidenti delle varie commissioni Antimafia che si sono succeduti in questi circa 60 anni nel Parlamento italiano non hanno mai chiesto la chiusura dei giornali fastidiosi. Non lo hanno mai fatto finora (ai tempi del fascismo la commissione antimafia non esisteva…). L’antimafia ha avuto presidenti buoni e meno buoni, colti e meno colti, intelligenti e un po’ meno, democristiani, comunisti e socialisti, però non gli era mai capitato di avere un Presidente come questo Nicola Morra. Per capirci, Morra è quello che ha combinato un casino del diavolo in una Asl calabrese, facendo irruzione insieme alla sua scorta armata, perché in quella Asl non si decidevano a vaccinare non si sa bene quale persona a cui lui teneva (corrente Scanzi…). È quello che se la prese con Jole Santelli, perché era morta, e quindi aveva compiuto una grave scorrettezza, sei mesi prima, presentandosi alle elezioni regionali. È quello che se l’è presa anche col presidente Mattarella, perché si fece uccidere il fratello dalla mafia. È quello che, messo al corrente da Davigo dello scandalo sulla Loggia segreta denominata “Ungheria” (la potentissima Loggia denunciata al Pm Storari dall’avvocato Amara) si tenne per sé la notizia (come del resto fece anche Davigo) spiegandoci finalmente con l’agire concreto cos’è la famosa trasparenza. Beh, Morra – mi dicono – si sarebbe scandalizzato leggendo un articolo pubblicato giorni fa sul giornaletto di Travaglio (dico giornaletto senza nessuna intenzione sprezzante, ma semplicemente per distinguere bene il Fatto dai “giornaloni”, come li chiama sempre sdegnosamente lo stesso Travaglio) nel quale si spiegava che il Riformista vende solo poche centinaia di copie, e dunque ha pochi lettori, quindi un bilancio in rosso, e di conseguenza il suo editore, Romeo, per far pareggiare i conti deve investire dei soldi nell’informazione, e questo vuol dire che è un mascalzone. Morra ne ha tratto le conseguenze: meglio chiuderlo. Spesso il Fatto pubblica articoli (specialmente di Marco Lillo, che da quando qualche Pm amico è stato messo sotto controllo è rimasto a corto di scoop) contro Romeo. In genere lo fa a sostegno delle tesi dei Pm (“in genere” è un eufemismo). Lo fece con molto ardore qualche anno fa, poi quando Romeo fu prosciolto e minacciò querele, il Fatto si precipitò a offrirgli due pagine di giornale per un’intervista rispettosissima, quasi omaggiante, raccolta e scritta molto disciplinatamente dal suo stesso direttore, cioè Marco Travaglio (rispettosa e omaggiante quasi quanto le interviste che di solito Marco fa a Piercamillo Davigo…). Ora però gli argomenti contro Romeo si stanno assottigliando, anzi sono scomparsi del tutto. Il povero Lillo, recentemente, aveva concordato una intervista graffiante con Romeo, ma poi disse che non gli erano piaciute le risposte, troppo convincenti, e non la pubblicò. Allora è spuntato il nuovo capo d’accusa. Romeo investe i suoi soldi sull’editoria? Beh – dicono al Fatto – chiaramente è una mascalzonata. Se pubblicando un giornale non porta a casa profitti vuol dire che c’è qualcosa sotto, e lui è un farabutto. Avete presente gli anni di lotta dei giornalisti e dei sindacati per chiedere agli editori di non guardare solo al portafoglio, perché un giornale non è una saponetta e se lo fai devi farlo per dare informazione, idee, cultura, non per lucro? Beh, tutto cancellato. I giornali deve farli il mercato, pensano i nostri compagni del Fatto. Chi investe soldi suoi per l’informazione, deve essere spazzato via. Specialmente se il giornale che pubblica è su posizioni liberali, socialiste, garantiste, cioè “quanto di peggio prodotto dalla vecchia politica democratica e corrotta”: roba che la crociata giustizialista deve spazzare via al più presto. Il Fatto Quotidiano, insieme ai 5 Stelle, da tempo si era dato questo obiettivo: cancellare ogni idea garantista dal dibattito pubblico. Negli anni dieci di questo secolo aveva avuto dei successi straordinari. Poi, proprio alla fine del decennio, è spuntato questo rompicoglioni di Riformista, che ha messo in difficoltà il partito dei Pm, che ha tirato frustate contro i 5 Stelle (pensate solo all’affare Philip Morris) , che ha iniziato a denunciare giorno dopo giorno la malagiustizia, e poi magistratopoli, e il Palamaragate, iniziando a tirarsi appresso via via qualche settore della stampa e della Tv. Questa cosa è sembrata imperdonabile agli occhi dei nostri amici. I quali concepiscono il pluralismo come qualcosa di legittimo, certo, purché dentro un recinto disegnato dall’ovale delle manette. E allora scatta l’attacco al Riformista. Su cosa? Su qualche notizia falsa? Impossibile, non ne abbiamo data neppure una in quasi due anni di vita. Su qualche imbroglio? Non ce ne sono. Sul finanziamento pubblico? Niente, non prendiamo una sola lira dallo Stato e neppure lo Stato garantisce prestiti cospicui a nostro favore, come fa con il Fatto quotidiano. Dunque? L’accusa è atroce: “Vendete poco in edicola”. Voi avete mai visto un giornale che prende di mira un concorrente perché vende poco? E perché ha scelto di distribuire l’edizione cartacea solo in tre città? Vi dico solo una cosa: il Mondo di Pannunzio, forse il più importante punto di riferimento, ancora oggi, per il giornalismo italiano serio, vendeva nemmeno 2000 copie. In quegli anni i grandi settimanali popolari vendevano un milione o un milione e mezzo di copie. Pannunzio non si è mai sentito in concorrenza con loro, si sentiva, giustamente, su un altro livello. Pannunzio ha scritto la storia del giornalismo, i settimanali popolari da un milione di copie no. Dopodiché va anche detto che i conti di Travaglio (l’articolo, al solito, lo ha firmato Marco Lillo) sono tutti sbagliati. Il Riformista è letto tutti i giorni da circa 150 mila persone (contatti unici), non da 150. Diciamo che l’errore è appena appena di tre zeri (naturalmente queste cifre sono certificate). L’edizione largamente più letta è quella sul Web. Il sito del Riformista è tra i 30 più forti d’Italia ed è in corso una crescita che non ha eguali. Il piano economico ed editoriale prevede il pareggio di bilancio al termine del quarto anno. L’ipotesi che i 5 Stelle prendano il potere, e trasformino l’Italia in quello che il nostro ministro degli Esteri definiva il Venezuela di Pinochet, è ormai molto remota. E quindi, restando aperta l’ipotesi che nel nostro paese resista la democrazia, le possibilità che Morra la spunti e chiuda il nostro giornale sono zero. P.S. Il Riformista è probabilmente il maggior successo editoriale degli ultimi anni. Però si occupa solo di informazione, non ha tra i suoi obiettivi quello di introdursi nei gangli del potere. Su questo terreno il Fatto Quotidiano è molto superiore. È riuscito, a conclusione di una campagna giornalistica mirata, a sistemare un membro del suo consiglio di amministrazione alla Presidenza dell’Eni e nei giorni scorsi ha candidato un’altra sua esponente a sindaco di Milano. Gliene diamo volentieri atto. Piero Sansonetti

Caro Marco Travaglio, con i nostri numeri potremmo eleggere il leader del Movimento 5 Stelle. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Agosto 2021. Marco ha una specie di ossessione per il Riformista. Dico Marco Travaglio, il mio amico Travaglio. Non c’è giorno che non ci tiri una frecciata. Ora si è messo in testa che vendiamo poco e abbiamo pochi lettori. Ci ha lanciato contro il povero Marco Lillo, che da qualche mese non ha più veline e non sa che scrivere. Lillo, diligente, ha fatto il suo lavoro, ma ha sbagliato un po’ di conti. Senza l’aiuto di un Pm Lillo fa dei gran pasticci. Noi francamente avremmo ignorato questa ragazzata, anche perché Marco lo conosciamo da tanti anni, conosciamo le sue fissazioni e proprio per questo gli vogliamo bene. Però è successo che prendendo spunto dalla “Lillata”, il presidente dell’Antimafia ha chiesto che il Riformista sia chiuso. E allora siamo stati costretti a far polemica, vista la clamorosità dell’aggressione (aggressione alla libertà di stampa). Allora Marco è tornato alla carica, spiegandoci ben bene che 150 mila lettori certificati sono pochi, perché lui ne ha molti di più.

Ok. Però 150 mila lettori sono più del doppio di 60 mila, giusto? E sessantamila sono le persone che hanno schiacciato un pulsantino per votare l’avvocato Conte come capo del partito di maggioranza relativa. E il Fatto ha definito plebiscitario quel risultato. Ma se quello è un plebiscito, il nostro cos’è? È un plebiscito quasi triplo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

«Perché lo Stato vuole censurare il libro di Palamara sulle toghe?». L’interrogazione di 14 europarlamentari italiani: «La libertà di stampa e di espressione sono contrastate da un organo statale, a rischio i diritti di tutti». Simona Musco su Il Dubbio il 14 agosto 2021. «Un attacco alla libertà di espressione». E, di conseguenza, allo Stato di diritto. Rappresenterebbe questo, secondo 14 europarlamentari italiani, la richiesta di risarcimento di un milione di euro avanzata dall’Avvocatura dello Stato a carico di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm. Una richiesta formalizzata nel corso dell’udienza preliminare conclusasi nelle scorse settimane con il rinvio a giudizio dell’ex pm romano, durante la quale l’Avvocato dello Stato ha sottolineato il «danno per le Istituzioni» legato al libro scritto dall’ex magistrato e dal giornalista Alessandro Sallusti, dal titolo “Il Sistema”, «presentato anche sulle spiagge». Un libro che, di fatto, racconta una realtà ancora incontestata, spiegando il meccanismo delle correnti e la gestione delle nomine nelle procure più importanti d’Italia, un vero e proprio scandalo che l’indagine su Palamara aveva soltanto lasciato intravedere. La richiesta dell’Avvocatura era arrivata un anno dopo la pubblicazione di quel libro, ormai campione di vendite e conosciuto a menadito dagli addetti ai lavori. Una sorta di “manuale” che lo Stato non ha però gradito, puntando sulla censura per far recuperare credibilità alla magistratura. La scelta non è però piaciuta agli europarlamentari Sabrina Pignedoli (Ni), Antonio Tajani (Ppe), Salvatore De Meo (Ppe), Chiara Gemma (Ni), Carlo Fidanza (Ecr), Nicola Procaccini (Ecr), Raffaele Fitto (Ecr), Giuliano Pisapia (S& D), Dino Giarrusso (Ni), Alessandro Panza (Id), Raffaele Stancanelli (Ecr), Nicola Danti (Renew), Sergio Berlato (Ecr) e Massimiliano Salini (Ppe), che hanno presentato un’interrogazione bipartisan alla Commissione con richiesta di risposta scritta, partendo dalla risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2020 sul rafforzamento della libertà dei media. I parlamentari hanno dunque evidenziato come «questo Parlamento ha condannato “l’uso delle azioni legali strategiche tese a bloccare la partecipazione pubblica al fine di mettere a tacere o intimidire i giornalisti e i mezzi di informazione e di creare un clima di paura in merito alle notizie riguardanti determinati temi”», sottolineando anche come «i problemi della magistratura italiana sono molto sentiti dall’opinione pubblica e che per la prima volta l’Avvocatura dello Stato agisce contro la pubblicazione di un libro». Da qui la richiesta di chiarire se la Commissione «non ritiene che l’azione dell’Avvocatura dello Stato si possa configurare come una azione temeraria “utilizzata per spaventare i giornalisti affinché interrompano le indagini sulla corruzione e su altre questioni di interesse pubblico”, come afferma la risoluzione del Parlamento» e se «la libertà di stampa e di espressione in Italia siano contrastate da un organo dello Stato, che dovrebbe tutelare questi diritti, configurandosi come un rischio per lo Stato di diritto». «È inaccettabile creare un clima di paura intorno a notizie che riguardano certi temi – ha commentato Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia e vicepresidente del Partito Popolare -. Ci auguriamo che l’Avvocatura dello Stato ripensi alle sue azioni contro la pubblicazione di un libro che rivela informazioni sulla magistratura e quindi sulla giustizia. Temi molto cari a tutti i cittadini. La storia e i valori di Forza Italia ci impongono di sostenere a pieno questa battaglia in favore della verità». La notizia era stata accolta con non poco stupore dai due autori. Per Sallusti si tratterebbe di «un tentativo di estorsione dello Stato nei miei confronti e di Palamara», mentre l’ex consigliere del Csm si è detto «turbato dalla richiesta di censura del libro da parte dei rappresentanti dell’Avvocatura dello stato: vogliono forse silenziarmi?». Contro la richiesta dell’Avvocatura – che ha anche invocato il sequestro del libro – si è ribellato anche il Codacons. «Si tratta di un gravissimo attentato alla libertà di espressione e di una azione del tutto paradossale – aveva evidenziato in una nota -. Il libro riporta infatti gli scandali del sistema giudiziario italiano che lo Stato non ha saputo impedire, e porta i cittadini a conoscere cosa accade nel settore della giustizia attraverso un lavoro di ricostruzione dei fatti. Se è vero che lo Stato chiede soldi a due scrittori liberi di esprimersi, gli stessi Sallusti e Palamara devono ora agire contro lo Stato in via riconvenzionale chiedendo 10 milioni di euro di danni per non aver saputo prevenire ed impedire la guerra tra bande nella magistratura italiana – proseguiva l’associazione -. In tal senso il Codacons offre il proprio staff legale per sostenere i due autori del libro contestato e difenderli in questo vergognoso giudizio».

Ecco perchè i poveri del Mezzogiorno restano poveri e il Nord si arricchisce. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. LA “NUOVA frontiera” della questione meridionale sono i Lep – e i Fab, e la Sose. A questo punto, per non scoraggiare il lettore, andiamo a districare la matassa di questa “nuova frontiera” partendo dalla zuppa di acronimi.

I Lep sono i “Livelli essenziali di prestazioni”, cioè quegli ammontari di servizi che devono essere disponibili per ogni cittadino: asili nido, spazi verdi, scuole, ospedali, connessioni, strade, raccolta rifiuti… il tutto in relazione all’area e alla popolazione.

I Fab sono i “Fabbisogni standard” che, come spiegheremo meglio in seguito, si potrebbero definire come i "parenti poveri" dei Lep.

La Sose (Soluzioni per il Sistema Economico Spa) è una società per azioni creata dal Ministero dell’economia e delle finanze e dalla Banca d’Italia per l’elaborazione degli ISA -Indici Sintetici di Affidabilità fiscale (strumento che ha sostituito gli studi di settore) nonché per determinare i fabbisogni standard di cui sopra.

E torniamo ai Lep. Il lignaggio è illustre. Come si legge nel box, la Costituzione prescrive, all’Articolo 117 che lo Stato determini i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». “L’uomo propone, Dio dispone”, dice un vecchio proverbio. Audacemente sostituendo a Dio il Governo della Repubblica italiana, si potrebbe speranzosamente parafrasare il detto in: “La Costituzione propone, il Governo dispone”. Il problema è che il Governo non dispone: a tre quarti di secolo di distanza dalla prescrizione costituzionale, questi Lep non sono mai stati determinati. Lo scopo dei Lep, ovviamente, era quello di rispondere a un altro pressante invito della Costituzione, che all’Articolo 2 statuisce che la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Ci fu qualche tentativo di rimediare alla colpevole omissione della messa in campo dei Lep. Più di dieci anni fa (Legge 42/2009) il Governo legiferò che i detti Lep dovevano essere introdotti – un altro “propone” – cui però non seguì mai un “dispone”. Ma non c’è il “Fondo perequativo” disposto (vedi Box) all’Articolo 119 della Costituzione? Sì, c’è, ma non perequa veramente. “Il diavolo è nei dettagli”, afferma un altro vecchio detto. E una più che meritoria ricerca della Fondazione Openpolis è andata ad annusare nei dettagli. Rispondendo a una richiesta del Comune di Catanzaro, la ricerca si è chinata sul perché e sul percome dei fondi ricevuti da quel Comune a valere sul Fondo perequativo.

Per spiegare i meccanismi del Fondo perequativo partiamo da due concetti: fabbisogni standard (Fab) e capacità fiscale. I primi sono determinati dalla Sose valendosi di una serie di indicatori che si basano in massima parte sulla spesa sostenuta per una serie di servizi (che dovrebbero mimare i famosi ‘livelli essenziali di prestazioni’). La seconda si riferisce alle entrate proprie dei Comuni. Orbene, i Comuni italiani contribuiscono al Fondo quando la loro capacità fiscale (entrate proprie) è superiore alla spesa per i Fab; e ricevono dal Fondo quando i Fab sono superiori alla spesa. In teoria questo meccanismo dovrebbe portare alla riduzione delle diseguaglianze territoriali: dato che i Comuni con ridotta capacità fiscale sono i più poveri, questi finirebbero per ricevere, riducendo quindi le distanze dai Comuni più ricchi. Ma questo non avviene per una semplice ragione, legata al modo con cui vengono calcolati i Fab: essendo questi calcolati sulla spesa per i servizi, i Comuni del Nord, che offrono più servizi, avranno Fab più alti. Mentre i Comuni che offrono meno servizi spendono meno e di conseguenza si vedono riconosciuti fabbisogni più bassi. Il lettore avvertito riconoscerà in questo modo di procedere la stessa stortura sulla quale questo giornale si è scagliato dal giorno della fondazione: il criterio della spesa storica. I soldi che lo Stato spende nelle diverse Regioni italiane sono erogati sulla base della spesa dell’anno prima, talché chi riceveva di più continua a ricevere di più. Il meccanismo del Fondo perequativo è simile, conclude giustamente la ricerca di Openpolis: “genera un circolo vizioso: anziché abbattere le disparità, penalizza nella ripartizione proprio i territori con meno servizi, allargando in prospettiva il divario tra le aree del Paese”. La soluzione a questo stato di cose non è difficile: si tratta di definire i Fab, innalzandoli, dal rango di parenti poveri dei Lep, a dei veri Lep, con indicatori fisici, quantitativi, anziché di spesa: per esempio, per gli asili-nido, stabilire che devono essere tot per ogni 1000 abitanti in quella fascia di età.

Il Governo Draghi sta facendo dei passi in questa direzione. Sia la ministra Mara Carfagna che la vice-ministra al Mef Laura Castelli spingono per una definizione di Lep efficaci ed efficienti. La conferenza Stato-città, riunitasi il 22 giugno 2021, ha adottato lo schema di decreto per le spese sociali del Presidente del consiglio dei ministri, con una particolare attenzione agli asili-nido. Ma per passare dal “propone” al “dispone” i compiti non sono solo del governo centrale. Le amministrazioni locali, che devono fornire alla Sose le materie prime per il calcolo dei Fab, sono spesso latenti. La ricerca di Openpolis ne ha dato una grafica distribuzione nel caso di Catanzaro. Come si vede dalla tabella, che si riferisce ad alcuni dati Sose 2017 per Catanzaro, succede che le informazioni siano assenti o carenti. Risulta poco verosimile, si chiede giustamente Openpolis, “che in un comune di questo tipo, in un anno non siano state effettuate potature di piante, né riconosciuti permessi per sosta disabili e accesso ZTL, né stipulati contratti da parte del comune”. Nell’ottica einaudiana di "conoscere per deliberare", le amministrazioni comunali devono essere in grado di fornire a Sose dati e informazioni corrette. È “fondamentale che i comuni, specialmente i più grandi, siano dotati di un ufficio statistico che si occupi della raccolta sistematica dei dati relativi ai servizi, alle strutture, alle attività del territorio”, e li collochi in piattaforme accessibili “opendata che permettano a tutti (cittadini, giornalisti, società civile) di accedere ai dati, di scaricarli ed elaborarli in articoli, report, campagne, con finalità informative o di attivismo civico”. La definizione dei Lep, il superamento dell’iniquo criterio della spesa storica, sono la chiave per chiudere finalmente i divari fra Centro-Nord e Mezzogiorno nella cruciale fornitura di servizi pubblici, e per avviare a compimento quell’Unità d’Italia che esiste sulla carta e che vogliamo esista nei fatti. Ma per questo, tutti devono fare la loro parte, in tutti i punti cardinali della Penisola.

L'ingiusta ripartizione delle risorse statali che affossa il futuro dei cittadini meridionali. Massimo Clausi su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. QUALCOSA si muove nei Comuni calabresi. E verrebbe da scrivere: finalmente. I sindaci, a partire da quello di Catanzaro, Sergio Abramo, si sono accorti della grande balla, narrata da anni, del Sud sprecone che rappresenta la palla al piede per il Paese e hanno capito che in realtà, dietro le difficoltà economiche dei municipi, grandi e piccoli, meridionali c’è l’ingiusta ripartizione delle risorse da parte dello Stato. Il Comune di Catanzaro che nel solo 2021, a fronte di un fabbisogno di 11,4 milioni, ne riceve meno di 4 è un dato che grida vendetta.

PRIVAZIONE SCIENTIFICA. Una privazione quasi scientifica, come in splendida solitudine ha dimostrato questo giornale con numeri e dati, che ha prodotto un risultato esplosivo. Se guardiamo alla Calabria troviamo 46 Comuni in dissesto, fra cui capoluoghi di provincia come Cosenza, Reggio Calabria, Vibo, e 35 in pre-dissesto fra cui città importanti come Rende e Lamezia Terme. A questo dobbiamo aggiungere un’evasione fiscale importante dovuta da un lato alla debolezza del tessuto sociale calabrese, dall’altro dalla difficoltà dei Comuni a effettuare la riscossione. Il risultato finale è un mix micidiale, visto che i sindaci devono comunque garantire i servizi minimi essenziali come acqua, rifiuti, trasporti che troppo spesso i cittadini calabresi si vedono negati. Prendiamo ad esempio il bubbone della sanità. La Ragioneria generale dello Stato lo scorso anno ha indicato chiaramente i soldi distribuiti per la sanità per ogni cittadino italiano. La media è 1.920 euro, mentre i calabresi ne percepiscono 1.760: la differenza è quasi 200 euro pro-capite, il che significa, per una regione come la Calabria, 400 milioni di euro. «Ricordo – ha detto il sindaco Abramo ieri in conferenza – che la Calabria è commissariata per uno sforamento del bilancio di 300 milioni, e di questi 200 milioni 140 li pagano i calabresi con l’addizionale Irpef, 60 lo Stato. Se la Calabria riuscisse ad avere quello che ha la Lombardia, la nostra sanità avrebbe 400 milioni in più: con 200, quindi, pareggeremmo il bilancio, gli altri 200 li potremmo investire. Questa differenza non è giusta».

I FONDI EUROPEI. Su questo sfondo si inserisce poi il tema dei fondi europei che troppo spesso, anziché essere aggiuntivi rispetto alle risorse statali, di fatto sono stati troppo a lungo sostitutivi. Anche su questo punto, però, è nato il luogo comune di un Sud incapace di spendere le risorse generosamente concesse dall’Europa. Certo, i numeri assoluti sembrano parlar chiaro, con un monte di risorse che tornano indietro e, a furia di rimodularle, diventano quasi virtuali. Il punto, però, è che molti Comuni sono nell’incapacità di spendere questi stanziamenti per il famoso blocco del turn over che ha reso la burocrazia del Meridione scarsa nell’organico, avanti negli anni, decisamente poco tecnologica. Un esempio paradigmatico, visto che siamo in estate, in Calabria è la depurazione. Nei cassetti della Regione da anni ci sono i quattrini (parliamo di milioni di euro) per l’ammodernamento o il riefficentamento dei depuratori. Il problema è che i sindaci non hanno il personale adatto per la progettazione o per bandire le gare europee e quei soldi rimangono sempre lì, mentre l’Unione europea continua a comminarci sanzioni su sanzioni a causa delle infrazioni legate alla depurazione. Un tema, questo, che torna di grande attualità con il Pnrr, come pure è emerso nel corso dell’incontro di Catanzaro. Anche qui siamo di fronte a una sfida che il Meridione rischia di perdere se non si metteranno in sicurezza i Comuni sotto il profilo finanziario e della dotazione organica. Allora fanno bene i sindaci a tenere alta la guardia e pretendere un’inversione di rotta netta rispetto al passato.

Lo scandalo di una tv pubblica pagata da tutti ma che promuove solamente il Centronord. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. AMADEUS sarà il conduttore del prossimo festival di Sanremo. Mancano “appena” sei mesi all’evento e già la tv pubblica strombazza la notizia, che evidentemente interessa molti italiani. Il festival è un evento ormai conosciuto in tutto il mondo, con ascolti da capogiro e tradizione importante. Bene ha fatto la Rai a farne uno dei programmi di punta della propria programmazione.

LO SQUILIBRIO STORICO. Il servizio pubblico spesso sponsorizza eventi importanti del Paese che vengono così conosciuti e apprezzati, oltre che in Italia, in tutto il mondo. La Scala è al centro della programmazione dell’Opera lirica. Rai 5 vive trasmettendo le opere, sempre con un cast di primissimo piano, che La Scala propone. Così come tutto quello che accade all’Arena di Verona costituisce evento nazionale. E il festival del cinema di Venezia ha sempre grande spazio, come è giusto, nella programmazione televisiva pubblica. La domanda che ci si pone, però, è se un servizio pubblico possa concentrarsi solo sugli eventi di una parte del Paese, anche se questi dovessero essere migliori rispetto a quelli che si svolgono in altre parti. Se una televisione pubblica, pagata con i canoni di tutti gli italiani, peraltro non in proporzione al loro reddito tranne che per poche fasce esentate, si possa consentire di concentrarsi solo su una parte. Se, per esempio, non si possa e non si debba puntare anche sugli eventi, per esempio, del teatro greco di Siracusa, rappresentazioni uniche al mondo, o sulla Sagra del mandorlo in fiore di Agrigento, che si svolge in una Valle fiorita di mandorli che è un must da vedere, o se non si possa spingere eventi che si svolgono a Ravello o a Taormina, piuttosto che a Segesta o a Ercolano, a Pompei, a Napoli. In realtà l’esigenza che il Sud abbia media nazionali che facciano da megafono rispetto non solo agli spettacoli, ma alle istanze, alle problematiche di questi territori diventa sempre più importante.  

DISINFORMAZIONE SISTEMATICA. E invece si assiste alla progressiva chiusura di testate (l’ultima è quella della Gazzetta del Mezzogiorno) che in ogni caso non sono state mai nazionali, ma che hanno rappresentato voci di queste terre. E anche nell’informazione il Sud diventa area colonizzata, nella quale arriva quello che la classe dirigente nazionale, prevalentemente centrosettentrionale, vuole che arrivi. Per cui è necessario che arrivi un nuovo quotidiano, il nostro, per quella Operazione verità che una stampa attenta e non di parte, né parziale, avrebbe potuto svolgere. Nella quale passa soltanto l’informazione canonica che difficilmente dà spazio a visioni eretiche o a punti di vista meno maggioritari. L’informazione, per esempio, sul ponte di Messina è esemplare rispetto al modo in cui le problematiche economiche e sociali del Sud vengono trattate. Disinformazione, ampliamento delle posizioni critiche, fino a stravolgimento della realtà. Mentre al momento opportuno si ha l’invio di giornalisti, che raccolgono informazioni spesso dai tassisti per poi dare un’immagine del Sud molto pittoresca, ma spesso non veritiera. È chiaro che tutto questo non giova al Paese, perché la mancata conoscenza della realtà porta a decisioni del governo nazionale totalmente distanti dalle esigenze reali. Mentre interessi di parte, spesso proprietari di media nazionali, fanno il loro mestiere per difendere interessi consolidati o per accreditare verità parziali. L’informazione recente diffusa nel Paese a proposito della pandemia dà una visione della realtà che conduce al discorso fatto fino adesso.

AL DI SOTTO DI ROMA È TUTTA SERIE B. Quando vi è da intervistare un virologo, un medico, non si capisce perché debba essere sempre di Bologna o Padova, come se i ricercatori e i medici del Mezzogiorno fossero assolutamente di livello inferiore. Questo avviene anche quando si parla di economia, per cui le università meridionali sono sempre sottorappresentate. Si capisce che questo poteva avvenire quando le trasmissioni venivano realizzate con la presenza fisica, e allora era più facile utilizzare professionalità più vicine. Ma adesso che tutto avviene via web non si capisce questa discriminazione. Se non con un preconcetto di fondo, sempre presente, che le professionalità sotto Roma siano di serie B. Peraltro anche i direttori di giornali che vengono chiamati sono sempre di una parte, anche se magari dirigono testate assolutamente con diffusione limitata, come la Nazione, ma che hanno grande spazio, e tutto ciò avviene anche nella televisione pubblica. Sindrome da vittimismo, la mia, o reale fenomeno da denunciare? Certamente è un argomento sul quale riflettere.

BARAGHINI VUOL DIRE CENSURA. Marco Castoro su Il Quotidiano del Sud il 6 agosto 2021. Cari Lettori del Quotidiano del Sud, parenti e amici nonché telespettatori di SkyTg24, vi vorremmo rassicurare: il nostro e vostro quotidiano è vivo, è in edicola, è su internet e sui social. Non fatevi condizionare dalla rassegna stampa notturna di Skytg24 che quando è condotta da Francesca Baraghini ignora il nostro e vostro quotidiano. In rassegna ci sono più di 20 prime pagine diverse ma del Quotidiano del Sud neanche l’ombra. Per fortuna questo tipo di censura avviene soltanto quando c’è la Baraghini. Aspettiamo tutti con ansia il cambio turno.

NON SE NE PUO' PIU' DELL'INFORMAZIONE CHE SFUGGE ALLA SUA FUNZIONE PUBBLICA! Michele Eugenio Di Carlo il 17.03.2020 su Movimento24agosto.it. Siamo profondamente convinti che di fronte alle regole coronavirus siamo tutti uguali al sud, al centro, al nord. Ma l' informazione a livello nazionale tende ancora una volta a farci passare per esseri inferiori, indisciplinati, refrattari a qualsiasi regola. Ieri sera Del Debbio indicava chiaramente Napoli come esempio di non rispetto delle regole e dal servizio nemmeno si evidenziava più di tanto se non per le forzature dell'inviata. Questa mattina dal Corriere della Sera si evince che specie al Sud non si rispettano le regole, infatti vengono citate Bari, Lecce, Secondigliano,Caltanissetta. Poi dalla piccola stampa locale del nord emerge che siamo tutti uguali davanti alle regole. La nostra reazione contro un'informazione a senso unico, e che ripropone il solito cliché di un'Italia divisa, viene fatta passare come immotivata quando non addirittura razzista. E la cosa più grave è che spesso sono i cittadini meridionali, totalmente manipolati da quell'informazione, a dichiarare che quei media che ci disprezzano hanno ragione. L'invito è ad opporsi a quell'informazione con dati statistici e documenti, rivendicando il nostro diritto ad essere considerati cittadini alla pari. Alimentare pregiudizi e luoghi comuni contro il Mezzogiorno d'Italia, in un momento critico come l'attuale, non è degno di un'informazione che dovrebbero sempre rinsaldare quanto ci unisce e non evidenziare falsi e mistificatori miti.

Dagospia il 7 agosto 2021. Riceviamo e pubblichiamo: “L’arte resa muta dall’autorità” scriveva Shakespeare nel sonetto 66. Parole che oggi, nell’era di internet e della democrazia digitale, potrebbero sembrare distanti anni luce dall’era del Bardo. Eppure un subdolo, sinistro e agguerrito atto di censura è avvenuto proprio su Wikipedia, la “madre” della libera informazione, enciclopedia democratica, sulla quale, invece, gravano ombre Orwelliane. Insomma Wikipedia non è più quella di una volta, signora mia! Lo scorso giugno infatti, una schiera di amministratori Inglesi, ha cancellato e censurato una pagina dedicata alla connessione tra Shakespeare e l’umanista, traduttore e lessicografo Anglo-Italiano John Florio. La questione della paternità delle opere di Shakespeare va avanti da diversi secoli. Queste teorie sono approfondite in una pagina Wikipedia: Shakespeare Authorship Question, che il giorno 20 Giugno 2021 ha avuto un nuovo candidato: il grande umanista Anglo-Italiano John Florio, contemporaneo di Shakespeare, creativo linguista, inventore di proverbi e composti, attivo nel teatro e straordinario traduttore. Ci si è sempre domandati: come faceva il Bardo a conoscere così bene la lingua Italiana, i luoghi Italiani citati nelle sue opere e gli autori Italiani dai quali ha preso in prestito le trame (lette in Italiano) per le sue opere? Gli studiosi dicevano che John Florio fungeva da amico, tutore, traduttore e costante aiuto di Shakespeare. Ma questo può bastare per spiegare le tante, troppe connessioni che vi sono tra i due autori? Perché i due scrivevano anche allo stesso modo, creavano le stesse parole, gli stessi proverbi e composti Inglesi. Ma la pagina Wikipedia di John Florio ha avuto brevissima vita: dopo averlo definito “The Monster”, amministratori e redattori Inglesi in poche ore hanno completamente cancellato tutti i paragrafi che spiegavano le tantissime similitudini e connessioni tra Shakespeare e John Florio, parola dopo parola, fino a lanciare la richiesta di eliminazione totale della pagina. I motivi? “Informazioni poco rilevanti”, “Fonti vecchie”: queste sono state le banalissime e imbarazzanti scuse utilizzate per cancellare, indisturbati, oltre ventimila parole e dodici paragrafi, terrorizzati che le informazioni potessero essere lette pubblicamente dal mondo intero e girare indisturbate sull’enciclopedia “democratica”. Ma non è finita qui, perché la pagina originale è stata successivamente sostituita da un’altra che contiene informazioni non solo poco veritiere, ma che mirano soprattutto a distorcere e a minimizzare l’enorme importanza di Florio nelle opere del Bardo. Un esempio è la oramai famosa infondata bufala che gira su vari siti internet, e che rimane invece indisturbata (chissà perché), su Wikipedia: la “Crollalanza”, basata su tesi false, inesistenti, che ha cancellato così, in pochi minuti, centinaia di fonti a testi accademici e pubblicazioni dei più noti studiosi Shakespeariani. E qui si evince tutta l’ipocrisia degli amministratori Inglesi, che spalleggiati dai sostenitori degli altri candidati, hanno trattato John Florio diversamente dagli altri “puro sangue” Inglesi: mentre nelle altre pagine dei candidati è stato permesso di inserire studi comparativi sulle similarità stilistiche di altri autori con lo stile di Shakespeare, per la pagina di John Florio non è stato concesso di inserire i numerosi proverbi coniati da Florio nelle sue opere e poi utilizzati successivamente nelle opere di William Shakespeare. Perché questa censura a senso unico, con il chiaro intento di inserire nella pagina Wikipedia solo una grande bufala basata su notizie infondate, e riducendo la pagina di John Florio ad un articolo clickbait di seconda mano per meri sfuggenti e non informati appassionati di teorie cospirazioniste? In un sito che si prefigge di diffondere l’informazione libera e, soprattutto, che deve necessariamente contenere fonti solide e tesi valide? Wikipedia ha completamente offuscato e coperto tutti i dettagli che riguardano la vera relazione tra i due autori. Da questa censura e l’impossibilità di avere alcun dibattito o replica dagli amministratori Inglesi, si evince l’enorme potenziale di Wikipedia e l’inquietante pericolo derivante da un uso distorto del sito, nel quale sono coinvolti agenti che indirizzano l’informazione a proprio piacimento e a discapito della libera informazione. La grande similitudine in termini di stile, parole, proverbi che c’è tra John Florio e Shakespeare è impressionante, ma i lettori di Wikipedia questo non lo sanno, e non possono saperlo. Eppure hanno il diritto di poter leggere queste informazioni liberamente e di giudicare da sé chi è il candidato più attendibile alle opere Shakespeariane, non avere delle informazioni distorte, censurate da amministratori che non vogliono far trapelare la verità. Perché John Florio deve essere reso muto dall’autorità? La risposta forse c’è: sono e l’enorme mole di informazioni e similitudini tra i due autori che lo porterebbe ad essere considerato un candidato più pericoloso rispetto ad altri, e le sue origini straniere danneggerebbero il simbolo universale dell’identità Inglese. Con questa censura, Wikipedia e la questione della paternità delle opere Shakespeariane è stata definitivamente smascherata: vanno bene tutti, purché non ci sia “The Monster.” La grande istituzione culturale globale non è più attendibile!

DAGOREPORT il 20 ottobre 2021. Shakespeare visse tra il 1564 e il 1616, quando l’Inghilterra era in piena lotta tra Protestantesimo e Cattolicesimo. Nel 1587 Maria Stuarda venne decapitata e dal 1603, dopo la morte di Elisabetta I, Giacomo I di Inghilterra espanse il proprio regno, nel senso che inglobò all’Inghilterra anche la Scozia! In questo periodo l’Inghilterra restò estranea alle contese internazionali e solo nel 1607, Shakespeare ormai moribondo, una comunità inglese si insediò a Jamestown, nel Nord America. Il successore, Carlo I, ebbe ben altri problemi con il Parlamento e con Oliver Cromwell. Come faccia Shakespeare ad essere colonialista, dunque, lo sanno solo gli americani e il “Corriere della Sera”. Nell’America settentrionale le guerre contro gli Indiani precedettero quelle con le colonie. Dopo la fondazione di Nuova Amsterdam, furono però gli olandesi che istigarono gli Irochesi contro i Moicani. Gli Uroni furono trucidati dagli Irochesi con l’auto delle truppe inglesi, è vero: ma siamo nel XVII secolo. Di colonialismo in America si può parlare da dopo il Trattato di Parigi del 1763. Ma nelle università americane questo non lo sanno perché l’ideologia impone che si studino ormai solo i Post colonial studies. Fu durante il governo conservatore di Benjamin Disraeli (1874- 1880) che l’Inghilterra iniziò l’espansione in Africa, occupando l’Egitto nel 1882.  Poi l’Inghilterra prese territori lungo la valle del Niger costituendo nel 1888 il protettorato sul territorio Bechuanaland, l’odierno Botswana ed estendendo il proprio domino sulla regione della Rhodesia, ora Zimbabwe e Zambia: e qui basterebbe leggere “Orientalismo” dell’ideologico padre delle tesi post-colonialiste, l’arabo-americano Edward Said. L’Australia non fu colonizzata fino al 1770, quando fu raggiunta dal capitano  J. Cook e sottomessa alla corona britannica: e qui bisognerebbe leggere “La riva fatale” dello scomparso critico d’arte Robert Huges. Quanto al commercio delle spezie in India, fu solo la vittoria dell’Inghilterra sulla Francia nel 1757 ad assicurare il controllo del Bengala e del Deccan alla compagnia delle Indie Orientali. Ma Shakespeare riposava da un secolo e mezzo. Nel 1876 il governo britannico, avallando la proposta di Disraeli, proclamò la regina Vittoria imperatrice dell’India, tre secoli dopo la morte di Shakespeare.

"Razzista e colonialista": pure Shakespeare attaccato dalla cancel culture. Roberto Vivaldelli il 20 ottobre 2021 su Il Giornale. Da alcuni anni a questa parte persino William Shakespeare è finito nel tritacarne della cancel culture, frutto avvelenato dell'ideologia del politicamente corretto. Come accade con ogni fondamentalismo, si pretende di giudicare il celebre drammaturgo morto nel 1616 con gli standard morali di oggi, o meglio, con i canoni stabiliti dalla religione laica della correttezza politica. E così, mancando completamente il senso della storia, Shakespeare viene irrimediabilmente etichettato come "razzista", "sessista" e "colonialista" e le sue meraviglisoe opere boicottate, rivisitate, decontestualizzate. Nelle ultime settimane, il celebre Globe Theatre di Londra - il teatro londinese ricostruito nel 1997 dove recitò la compagnia di William Shakespeare - ha organizzato una serie di "seminari antirazzisti" per sviscerare e riflettere sulle opere del Bardo. Nel mirino c'è soprattutto La Tempesta, opera che appartiene all'ultima fase della produzione del drammaturgo inglese, bollata già da tempo nel mondo anglosassone come "razzista" e "colonialista".

La cancel culture contro Shakespeare

Come spiega il Telegraph, l'opera teatrale del XVII secolo, racconta una storia di magia e romanticismo, ma è radicata in un "sistema colonialista", secondo gli accademici coinvolti nel programma antirazzista di Shakespeare ospitato dal Globe Theatre a Londra, ora chiamato Shakespeare's Globe. La storia è nota: Prospero, il duca di Milano in esilio, si rifugia con la figlia Miranda su un'isola incantata dopo il naufragio della sua barca. Soggioga immediatamente Calibano, l'unico abitante umano. Prospero lo bolla come "schiavo bugiardo", vicenda che secondo gli studiosi antirazzisti ha "implicazioni coloniali violente". Lucy Cuthbertson, uno dei direttori del teatro, racconta in un'intervista il motivo per il quale ha voluto organizzare questi corsi antirazzisti sul poeta. "Non vogliamo mettere tutto Shakespeare su un piedistallo. È importante consentire ai giovani di discutere su ciò che è razzista e ciò che non lo è. Abbiamo anche messo su un nuovo corso, Shakespeare and Women, in cui guardiamo le donne nelle opere teatrali attraverso una lente femminista. Chiediamo agli insegnanti di esaminare quei personaggi e considerare la loro rappresentazione" racconta. Ma vedere il mondo secondo gli standard dell'antirazzismo radical chic può essere questo così, decisamente problematico.

I pericoli del politicamente corretto

Nulla di male nell'esaminare le opere e riflettere, perché è ciò che bisognerebbe fare con ogni grande artista: ma il punto che Cuthbertson ignora, è che decontestualizzando in maniera così superficiale l'opera del Bardo si rischia seriamente di rendere il tutto talmente "problematico" da non far sopravvivere l'autore alle accuse fuori tempo massimo che questi sedicenti "studiosi antirazzisti" muovono nei confronti del drammaturgo. Così, come altri autori, Shakespeare potrebbe risultare talmente indigesto ai nuovi crociati del politicamente corretto e all'ideologia dominante da stimolare petizioni e quant'altro per eliminare lo studio delle sue opere dai programmi scolastici. Perché se dobbiamo decontestualizzare tutto e giudicare poeti, filosofi, e quant'altro con gli occhiali della contemporaneità e secondo i dogmi della correttezza politica, allora rischiamo di non rimanere più con nulla. E la vita senza Shakespeare è davvero molto povera.

Matteo Persivale per il "Corriere della Sera" il 20 ottobre 2021. George Orwell, in 1984 , prevede che entro il 2050 ma forse anche prima, «tutta la letteratura del passato sarà stata distrutta: Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron trasformati in qualcosa di opposto a ciò che erano prima. Il pensiero non esisterà più... Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare». È un avvertimento terrificante, e per fortuna nei Paesi democratici la grande letteratura non è apertamente a rischio censura, ma di sicuro i grandi autori del canone occidentale vivono anni complicati: ultimamente tocca a Shakespeare, uno dei «dead white men», «uomini bianchi morti» tacciati da parte dell'accademia di una serie di crimini tra i quali razzismo, colonialismo, sessismo. Sono isolati (per ora) quelli che sostengono che Shakespeare, obsoleto, possa essere rimosso dai programmi di studio, ma il punto è che perfino il Globe Theatre londinese - sorge sulle ceneri di quello originale shakespeariano, gioiello architettonico a pochi passi dalla magnifica Tate Modern - organizza ora «seminari antirazzisti» per «decolonizzare» il corpus delle opere del Bardo. Quelli del Globe, almeno, sono seminari, ma di sicuro ci sono opere apertamente bollate ormai, nel mondo anglosassone, come «problematiche» - La tempesta per la riduzione in schiavitù di Calibano, La bisbetica domata per misoginia, nel Sogno di una notte di mezza estate sono stati rintracciati stereotipi perniciosi, e così via. In questo clima non sereno possono anche traballare cattedre prestigiose: visto che la Storia ha un crudele senso dello humour, è appena finito sospeso dall'insegnamento - dalla cattedra di composizione musicale intitolata a Leonard Bernstein dall'ottima Università del Michigan - Bright Sheng, compositore cinese nato nel '55 al quale da bambino la rivoluzione culturale sequestrò immediatamente il pianoforte. La colpa di Sheng: sicuramente l'imprudenza, se per introdurre l'Otello verdiano agli studenti ha avuto la (obiettivamente pessima) idea di mostrare agli studenti proprio l'Otello shakespeariano del 1965 con Laurence Olivier. Il sommo attore inglese fece la scelta - peraltro già foriera di polemiche sui giornali a quei tempi, non solo nel 2021 - di interpretare Otello con parrucca riccia, impressionante tintura nero pece sul viso, labbra ritoccate di rosso per farle più carnose. Documento d'epoca: adesso Otello si recita senza parrucca e senza make-up o tutt' al più con un filo di fondotinta. Immediata la rivolta degli studenti, inevitabile la lettera di scuse del compositore e la sospensione dall'insegnamento. Come interpretare Otello è un tema vivo, nel mondo del teatro: se l'attore non è nero, il pesante trucco che si usava una volta è stato archiviato - difficile che non evochi, nel pubblico di colore specialmente in America, l'eredità dolorosa del «blackface», gli spettacoli di musicisti bianchi truccati da neri con lucido da scarpe in faccia, grotteschi labbroni bianchi, accento caricaturale. Shakespeare, nella sua grandezza, va oltre il colore della pelle e il genere: attualmente nel West End trionfa un Amleto donna e nera, la bravissima Cush Jumbo (in Italia abbiamo visto Elisabetta Pozzi nei panni del principe di Danimarca). Prudenza richiederebbe, nel caso del Michigan, visto il clima attuale, almeno di avvertire prima gli studenti che si sta per vedere il documento di un tempo diverso dal nostro - cosa ovvia per i più maturi, ma nel 2021 dove molti concepiscono l'arte come uno specchio, repetita iuvant (la Disney mette spesso un'avvertenza prima dei suoi cartoni più datati). Otello , peraltro, da secoli è un campo di battaglia filosofico: gli americani che lo mettevano in scena in età schiavista risolvevano l'impasse considerando il nobile Moro un bianco, non un nero. Paul Robeson, che lo interpretò nel 1943, riteneva invece la tragedia un atto d'accusa verso il razzismo dei bianchi. Difficile «cancellare» Shakespeare, tradotto in più di cento lingue, rappresentato in tutto il mondo, due miliardi di copie vendute ( Il mercante di Venezia , obiettivamente antisemita, ha comunque resistito per meriti artistici), ma ci vuole attenzione. Nelle sue memorie Nelson Mandela - lettore appassionato di Shakespeare e dei classici greci - racconta la storia di una riunione clandestina negli anni 50: sentendo citare Cesare e Bruto, qualcuno chiede perplesso: «Chi sono? Sono morti?». Sì, conclude Mandela, ma la realtà del tradimento è quanto mai viva. Come Shakespeare.

Chi sono i sensitivity readers, i lettori che censurano i libri per difendere le minoranze. Daniele Dell'Orco su Inside Over il 30 luglio 2021. Nello sconvolgente e ancorché attuale romanzo di fantascienza Fahrenheit 451, Ray Bradbury, avvicinandosi all’epilogo, utilizza il personaggio del Capitano Beatty per ripercorrere le vicende che hanno portato alla messa al bando dei libri, identificando nelle ragioni profonde alla base dell’oppressione del presente con l’instaurazione di una sorta di “dittatura delle minoranze” capace di ammutolire progressivamente artisti, intellettuali e singoli cittadini, all’insegna dell’omologazione delle parole e delle opinioni. “Devi ricordarti – dice Beatty – che la nostra civiltà è così vasta che non possiamo permettere alle nostre minoranze di essere in uno stato di turbamento e agitazione”. Ma il passaggio talmente reale dall’essere sconvolgente è quello immediatamente successivo. Dice Beatty: “La gente di colore non ama Little Black Sambo? Diamolo alle fiamme. Qualcuno ha scritto un libro sul tabacco e il cancro ai polmoni? I fabbricanti e i fumatori di sigarette piangono? Alle fiamme il libro! […] I funerali sono dolorosi e pagani? Annulliamo anche i riti funebri”. A dispetto di quanto possa sembrare ad una prima lettura, Bradbury non sta cercando di mettere in guardia contro la tirannia governativa e la censura, o sul tentativo dei poteri forti di controllare ciò che le persone possono o non possono leggere. No, in realtà Fahrenheit 451 parla di ciò che succede quando i singoli cercano di censurare se stessi, diventando eccessivamente protettivi nei confronti dei sentimenti di tutti gli altri. Che lo volesse o no, quella di Bradbury si è rivelata una profezia: 70 anni dopo la pubblicazione del suo visionario libro, sono nati i “sensitivity readers”. Molto in voga già da un paio d’anni negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone in generale, questi editor freelance vengono in sostanza ingaggiati dagli editori per cancellare dai libri in fase di pubblicazione qualsiasi cosa potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno. Senza che abbiano alcuna competenza in particolare se non l’appartenenza a una singola minoranza (etnica, religiosa o di orientamento sessuale) i “sensitivity readers” leggono libri che presentano argomenti, dialoghi, conversazioni o ambientazioni che sono al di fuori dell’esperienza vissuta dall’autore. Ad esempio, se la protagonista di un romanzo scritto da un maschio, bianco, etero è una donna, magari afroamericana, magari omosessuale, l’editore sceglie il “sensivity reader” che rispecchia più fedelmente possibile la minoranza a cui appartiene la protagonista, per correggere lo stile di scrittura attraverso il prisma di ciò che sostiene essere la propria esperienza di vita, per guidare l’autore (e quindi anche il lettore) verso una rappresentazione più autentica. Il dilemma di dover applicare questa sorta di fact-checking anche ai libri, è iniziato a derivare da lunghi dibattiti andati in scena negli Stati Uniti riguardo le categorie Young Adult. Tutti quei libri, in sostanza, rivolti agli adolescenti con protagonisti gli adolescenti e basati sui problemi “comuni” degli adolescenti. Ma è proprio questo il punto: cos’è “comune”? In un momento in cui, per dire, si fatica ad attribuire ai giovani persino una precisa identità sessuale, com’è possibile ritrarre un teenager senza il rischio di offenderne altri? Così, per evitare spiacevoli sorprese, come dover cestinare dei lavori in fase di pubblicazione o addirittura dover rispondere in tribunale di qualsiasi tipo di accusa, gli editori (ma anche gli stessi autori) hanno iniziato ad affidarsi ai “sensitivity readers” per soddisfare da una parte la sempre maggiore richiesta di rappresentare personaggi che appartengono a minoranze, e dall’altra evitare di cadere nei cliché prodotti dall’immaginario considerato “troppo antico” degli autori bianchi (che secondo una stima del New York Times rappresentano oltre l’80% degli autori delle major statunitensi). La questione alla base sembra uscita da un dramma bradburyano. I “sensitivity readers” sono la fanteria della cultura politicamente corretta. Creature di una società che le considera “svantaggiate” e che vuole redimersi affidando loro la possibilità di “censurare” tutto ciò che potrebbe urtare non tanto la sensibilità della loro minoranza, ma essenzialmente quella della loro persona. Perché un “sensivity reader” è prima di tutto un singolo, con il suo storico, il suo background, i suoi traumi e le sue inclinazioni, non certo ascrivibili a quelle di una intera minoranza, e per di più è a sua volta figlio di un paradosso “di classe”: viene pagato 1 cent a parola per leggere e correggere un lavoro, permettendo ai redattori delle grandi case editrici (quasi sempre bianchi) di concentrarsi su altri tipi di lavoro. Insomma, il politicamente corretto nel settore culturale, per ripulirsi la coscienza, sta creando dei “rider” della lettura, sottopagati e scarsamente tutelati, affidando loro l’arduo compito di parlare a nome di intere minoranze (se non è questo uno stereotipo poco ci manca) e di giudicare cosa potrebbe o non potrebbe essere considerato gradevole da leggere. Inutile dire che secondo questo meccanismo puramente relativo, se un libro con un protagonista di colore, diciamo La capanna dello Zio Tom scritto da un’autrice bianca, Harriet Elizabeth Beecher Stowe, fosse dovuto passare sotto l’occhio vigile di ogni “sensitivity readers” d’origine afroamericana presente negli Stati Uniti, sarebbe rimasto vittima di un mastodontico gioco del telefono in base al quale ogni sensibilità di ogni lettore avrebbe dovuto e potuto interferire con la caratterizzazione di tutti i personaggi di colore ritratti nel testo. Come lo Zio Tom appunto. È questo il futuro a cui è destinata la letteratura: l’autocensura oltranzista.

Luigi Ippolito per corriere.it il 17 giugno 2021. Acque agitate nel mondo della televisione britannica. Lo scorso weekend ha debuttato GB News, un nuovo canale di notizie di destra che ha l’obiettivo dichiarato di sfidare il politicamente corretto imperante e il monopolio della Bbc: ma, sotto la pressione degli attivisti online, molte grandi aziende, da Vodafone a Ikea a Nivea, hanno già ritirato la pubblicità, in quello che appare come un vero e proprio boicottaggio. La polemica infuria. È intervenuto il ministro della Cultura, Oliver Dowden, secondo il quale «uno dei pilastri delle nostre libertà sono i nostri media robusti, liberi e diversificati: e GB News è un’aggiunta benvenuta a quella diversità. I marchi possono fare pubblicità dove vogliono, ma sarebbe preoccupante se soccombessero ai gruppi di pressione». E il Times in un editoriale di stamattina ha bollato come «sinistro e stupido» il boicottaggio pubblicitario. Il lancio di GbNews è avvenuto tra grandi fanfare: e al debutto ha attirato più spettatori di Bbc News (parliamo del canale di notizie dell’emittente pubblica, non dei canali generalisti). L’arrivo della nuova tv è stato letto come il segno di una «americanizzazione» dei media britannici, ossia come una tendenza a dividersi su linee politiche partigiane, tanto che il nuovo canale è stato paragonato a Fox News, la tv di destra Usa che ha agito come il megafono di Trump. GB News vuole essere un’alternativa a una Bbc «troppo metropolitana e privilegiata»: la tv pubblica infatti viene spesso accusata di essere dominata da una intellighenzia liberal lontana dal Paese reale, di essere stata ostile alla Brexit e di perseguire un’agenda troppo politicamente corretta. E per questo negli ultimi tempi la Bbc si è trovata sotto attacco da parte del governo di Boris Johnson, che la percepisce come ostile. Ora la sfida arriva anche dall’etere. GB News è guidata da transfughi della Bbc, che non trovavano modo di esprimere le loro idee conservatrici sulla tv pubblica: ma intanto la nuova rete si è già attirata centinaia di reclami presso l’Organismo di Vigilanza, dopo che uno dei conduttori si è lanciato in un lungo monologo anti-lockdown. Quindi è partita la campagna online di «Stop Funding Hate» (Basta finanziare l’odio), un gruppo di attivisti di sinistra che ha convinto i grandi inserzionisti a tenersi alla larga da GB News. «Questo è il peggior tipo di cancel culture (cultura della cancellazione) — ha reagito il presidente conservatore della Commissione Media e Cultura del Parlamento, Julian Knight —. GB News sta portando una prospettiva di cui c’è molto bisogno nel nostro panorama dei media. I marchi che stanno ritirando la pubblicità sono francamente codardi e devono capire che la Gran Bretagna è un Paese conservatore e rimarrà così per il prevedibile futuro». Questo scontro è l’ultimo capitolo delle cosiddette «guerre culturali» che stanno squassando la Gran Bretagna: una battaglia che si combatte sui temi del razzismo, dell’eredità del passato coloniale e sulle identità di genere e che vede in campo una sinistra fatta di giovani attivisti online cui si contrappone un governo conservatore ben felice di ingaggiare il confronto. Johnson e i suoi sfruttano, quando non aizzano, la polemica perché sanno bene che la maggioranza dell’opinione pubblica trova aliene le istanze più estreme del politicamente corretto, mentre i laburisti sono in difficoltà a contenere le frange più militanti. Ora l’arrivo di GBNews getta un altro tizzone nel braciere.

Gb News, la tv di destra mollata dagli sponsor (perché fa troppi ascolti). Tony Damascelli il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. Il nuovo canale, presto pure radio, batte Sky. La rivolta dei marchi politicamente corretti. Forse ha ragione lady Meghan, c'è del marcio in Inghilterra, una sottile forma di razzismo ma stavolta non c'entra il colore della pelle e nemmeno le voci volgari dei cortigiani di Buckingham o altre dimore nobiliari. Stavolta c'è di mezzo la libertà di pensiero, politico innanzitutto. È nata una nuova emittente televisiva, tra poco anche radiofonica, la testata riassume il programma: GB News. Il 13 giugno scorso, alle otto di sera, Andrew Neil, imprenditore giornalista scozzese presidente del network, ha dato inizio all'avventura: «Siamo orgogliosi di essere britannici, l'indizio è nella nostra insegna». Gran Bretagna, dunque, con tutti gli annessi che i cittadini e/o sudditi dell'isola si portano appresso. Ma i centoventi giornalisti, raccolti soprattutto dal gruppo Murdoch e da Bbc, assunti in mesi due per lanciare l'emittente, devono fare i conti con il boicottaggio allestito dai gentiluomini di Stop Funding Hate (tradotto sarebbe Smettila di finanziare l'odio), un raffinato social di sinistra che ha chiesto a varie aziende di interrompere la pubblicità sul nuovo canale perché questo è indirizzato su obiettivi contrari al comune sentire, sul famoso politically correct, anzi punta a dividere il Paese, a contestare il governo. In breve la colpa di GB News è di essere fuori registro, di non rispettare i nuovi comandamenti, di non stare bene a chi la pensa in modo diverso, riassunto: quelli di Stop Funding Hate professano l'undicesimo comandamento: evitate il loro odio, scegliete il nostro che è molto più elegante, democratico e intelligente. E così molte ditte, da Vodafone a Ikea, da Nivea a Pinterest, da Kapparsberg Brewery a Specsavers, impaurite da un ritorno di immagine negativo, si sono ritirate annunciando la cancellazione dei contratti, non tutti sottoscritti, ma alcuni raggiunti con accordo verbale. I capi di GB News si sono svegliati con la scrivania piena di denunce per la trasmissione Tonight Live, condotta da Dan Wootton che ha attaccato il governo per le politiche sul Covid-19. Per la cronaca, l'emittente ha subito battuto, in ascolti, Bbc e Sky e questo ha fatto sbandare i benpensanti (di che cosa non si sa). Per fortuna il ministro della cultura, Oliver Dowden, ha reagito contro il tentativo di censura: «Uno dei pilastri delle nostre libertà sono i nostri media robusti, liberi e diversificati: e GB News è un'aggiunta benvenuta a quella diversità. I marchi possono fare pubblicità dove vogliono, ma sarebbe preoccupante se soccombessero ai gruppi di pressione». A proposito di marchi, Ikea si è giustificata sostenendo che i propri valori umanistici non sono in linea con quelli dell'emittente e il Times ha ricordato all'azienda svedese la multa di 860mila sterline ricevuta dalla succursale francese accusata di spionaggio del personale. Rispetto alle iene nostrane, sull'isola di Elisabetta II siamo alle formiche che si incazzano. Informo distratti e superficiali che Stop Funding Hate ha buoni compagni, nel senso vero, perché si allinea a Cctv, la televisione di stato cinese, che ha invitato al boicottaggio il popolo comunista degli articoli di H&M «non comprate», sconsigli per gli acquisti. Per ossimoro trattasi di democrazia dittatoriale, secondo usi e costumi di chi parla di libertà ma non rispetta quella degli altri. I geni di SFH non hanno capito che la loro agitazione è stata la migliore pubblicità per GB News. In onda. Tony Damascelli

Mauro Del Corno per ilfattoquotidiano.it l'8 giugno 2021. Per Emma Marcegaglia è stato chiesto il rinvio a giudizio per una presunta evasione fiscale Iva da 800mila euro. Ma non si dice. La notizia è comparsa sabato scorso su La Gazzetta di Mantova, poi è calato il silenzio, o quasi. Le fatture si riferirebbero a lavori di pulizia e depurazione eseguiti sull’isola di Albarella (dove il gruppo dell’imprenditrice possiede un complesso immobiliare) da stessa Alba Tech nel 2007, una società che – secondo le accuse – mancherebbe di attrezzature, capitali e beni strumentali. L’accusa della Procura si basa su un’indagine della Guardia di Finanza che ha riguardato le dichiarazioni dei redditi dell’imprenditrice dal 2015 al 2018. Non è ovviamente una condanna e la difesa dell’imprenditrice si dice certa di poter dimostrare che tutto è in regola. Sta di fatto che secondo i magistrati qualcosa da chiarire c’è. Marcegaglia era e rimane una delle donne più potenti di Italia. E’ stata prima alla guida dei giovani imprenditori di Confindustria e poi, dal 2008 al 2012, alla presidenza della Confindustria vera. E’ ancora molto influente negli equilibri della galassia confindustriale e protagonista di alleanze e fazioni che hanno portato alla nomina dei suoi successori, Giorgio Squinzi, Vincenzo Boccia, Carlo Bonomi. E’ stata presidente dell’Eni, società controllata al 30% dalla Stato, dal al 2014 al 2020. Oggi è a capo del G20 Business Summit ed è vicepresidente dell’impero industriale di famiglia, focalizzato sulla siderurgia e con un giro d’affari di 5,5 miliardi di euro l’anno. La notizia del rinvio una qualche rilevanza dunque ce l’ha. Ma in più di una redazione diventa subito una patata non bollente ma incandescente. Il più in difficoltà è giocoforza il Sole 24 Ore, dove la questione è “politicamente” delicatissima. Non solo perché il quotidiano appartiene a Confindustria ma anche perché, Emma Marcegaglia potrebbe presto sostituire Edoardo Garrone alla presidenza del gruppo editoriale degli industriali. E così la notizia rimane nel cassetto. Non ce n’è traccia sul numero in edicola domenica e neppure sul sito dove pure il flusso delle news è costante. L’ultima notizia su IlSole24Ore.com relativa a Marcegaglia risale al 2 giugno 2021 ed è la ripresa di un’intervista in cui l’imprenditrice siderurgica afferma che l’acciaio diventerà 100% green (soprattutto grazie ai soldi stanziati dallo Stato con il Recovery plan, ndr) L’attuale presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha affermato nei mesi scorsi: “L’agenzia delle entrate stima la maggiore evasione su Iva e Irpef, non su Ires e Irap delle imprese e indica i settori e le parti d’Italia su cui intervenire” e ancora “Se il governo deciderà di imboccare seriamente la strada della lotta all’evasione ci avrà dalla sua parte”. Appunto. Ancora più incomprensibile il fatto che la notizia sparisca completamente anche dalle pagine cartacee e dal sito de la Repubblica, quotidiano controllato dalla famiglia Agnelli. Anche sul sito di Repubblica l’ultima notizia attinente ad Emma Marcegaglia riguarda la conversione verde della produzione di acciaio. Diversa la scelta dell’altro quotidiano della dinastia torinese: La Stampa pubblica infatti la notizia del rinvio a giudizio nelle pagine economiche dell’ edizione di domenica e sul sito Lastampa.it. Nel mezzo sta il Corriere della Sera di Urbano Cairo. Neppure una goccia di inchiostro sull’edizione di domenica ma la notizia è presente sul sito del quotidiano.

Dagotraduzione dal The Guardian il 7 giugno 2021. Negli anni 60 il cofondatore di Simon & Schuster, Max Schuster, si trovò di fronte a un dilemma. Albert Speer, architetto personale e ministro degli armamenti di Hitler, aveva scritto un libro di memorie che forniva nuove intuizioni sul funzionamento della leadership nazista. Schuster sapeva che sarebbe stato un enorme successo. «C’è solo un problema, ed è questo: non voglio vedere il mio nome e quello di Albert Speer sullo stesso libro». Nell’industria liberale dell’editoria, la tensione che esiste tra profitto e moralità non è nuova, che si tratti di Schuster che rifiuta Speer (il libro è stato poi pubblicato da Macmillan) o del governo inglese che introduce una legge per impedire ai criminali di arricchirsi scrivendo libri sui loro crimini. Ma il dibattito su cosa pubblicare e cosa no ha raggiunto il culmine. Gli addetti ai lavori dell’editoria che si sentono a disagio con certi titoli parlano sempre più spesso e a voce più alta, scrivendo lettere aperte o pubblicando le loro critiche sui social media. Ad aprile negli Stati Uniti più di 200 dipendenti di S&S hanno chiesto al loro datore di lavoro di rescindere un contratto a sette cifre con l’ex vicepresidente Mike Pence. Gli autori ritirano i loro titoli quando il loro editore ingaggia colleghi con cui non sono d’accordo. Quando S&S ha deciso di pubblicare il provocatorio Milo Yiannopoulos, Roxane Gay ha rinunciato al suo contratto. Lo stesso ha fatto Ronan Farrow con Hachette, colpevole di aver annunciato un libro di memorie del padre Woody Allen. Pankaj Mishra ha recentemente chiesto al suo editore, Penguin Random House India, di riconsiderare la ristampa di un libro del primo ministro Narendra Modi durante la crisi di Covid del paese. A volte la pressione funziona: S&S ha lasciato stare Yiannopoulos, Hachette ha annullato il libro di Allen dopo uno sciopero del personale. A volte non funziona: Il presidente di S&S Jonathan Karp ha detto al personale che protestava contro Pence che tutti loro andavano «a lavorare ogni giorno per pubblicare, non per cancellare, che è la decisione più estrema che un editore possa prendere». Gli editori di oggi sono in bilico su una corda tesa. Quale strada seguire? Quella che trova il consenso del proprio staff o quella che interessa al proprio pubblico? Fino a che punto deve spingersi un autore prima che le sue opinioni siano ritenute non pubblicabili? E quando le opinioni personali di un'autrice, dice JK Rowling, vengono condannate e lo staff si oppone al lavoro sul suo prossimo libro per bambini? Dove tracciare una linea? È un "momento spartiacque", ha detto l'agente letterario Clare Alexander a una commissione della Camera dei Lord che indagava sulla libertà di parola online il mese scorso, evidenziando il divario che ha visto tra "management più vecchio" e "più giovani rifiutati". L'amministratore delegato di Hachette, David Shelley, ha aggiunto che al nuovo personale doveva essere detto che "potrebbe aver bisogno di lavorare su libri con cui non sono d'accordo ... Penso che forse in passato, non avendo visto arrivare questo, forse non siamo stati abbastanza chiari con persone su che tipo di organizzazione siamo, che cos'è". «Tutti sono molto cauti su questo argomento e inclini a parlare con una cura incredibile», afferma un responsabile delle pubbliche relazioni. «Di questi tempi è fin troppo facile guadagnarsi l'etichetta incrollabile di 'bigotto'. Inoltre, troppe aree di discussione sembrano essere diventate off limits, il contrario di quello che dovrebbe succedere in un'industria che diffonde idee». Da una parte, se un libro ha mercato, dovrebbe essere pubblicato, indipendentemente dal fatto che sia in linea con le opinioni del personale. Nel 2017, il libro di Sam Jordison “Enemies of the People” - su Brexit e Trump, e a favore di nessuno dei due - è stato pubblicato da HarperCollins, nonostante un certo numero di dipendenti (incluso il proprietario, Rupert Murdoch) non fosse d'accordo con il suo punto di vista. «Anche se non c'era grande entusiasmo per il libro all'interno dell'azienda, tutti hanno comunque stretto i denti e l'hanno pubblicato. Cosa sarebbe successo se fosse passata l’idea che il personale potesse pilotare i libri che li mettono a disagio?» dice Jordison. «Anch'io sarei stato messo a tacere. Se gli editori hanno paura di pubblicare cose che le persone potrebbero trovare discutibili, siamo in un guaio serio». Parlando all'udienza della Camera dei Lord, Shelley ha spiegato che Hachette prende le sue decisioni in base alla fattibilità commerciale e alla legalità: «abbiamo rifiutato libri, abbiamo deciso di non pubblicarli, perché in un certo senso, riteniamo che contravvengano la legge , perché diffamatori o per incitazioni all'odio». A dicembre Hachette si è appellata proprio a questa sua filosofia quando ha annullato un contratto con Julie Burchill, autrice di “Welcome to the Woke Trials”, accusando la scrittrice di aver «oltrepassato il limite» per via di alcuni tweet islamofobici da lei inviati al giornalista Ash Sarkar. Burchill ha poi dovuto risarcire Sarkar per diffamazione. Un amministratore delegato dei Big Five, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto di aver visto «una strana contraddizione» nel suo posto di lavoro in cui tutti erano positivi sulla diversità, ma dove alcuni vogliono anche «scegliere e scegliere il tipo di diversità che vogliamo». «Se vogliamo essere un editore e un datore di lavoro per tutti, la nostra pubblicazione deve riflettere questo. E diventa una necessaria inevitabilità pubblicare libri e autori con punti di vista su cui il nostro staff non è d’accordo. Questa tensione non è del tutto nuova, ma per qualche ragione, sembra che ora stia traboccando. È complicato, ma anche, credo, piuttosto stimolante». Presso l'editore politico Biteback, il direttore editoriale Olivia Beattie trova frustrante che il dibattito sia «così spesso inquadrato come editori più giovani ipersensibili, piuttosto che riconoscere che ciò che gli editori senior scelgono di pubblicare ha un impatto sui termini del dibattito pubblico». «Qualsiasi redattore junior semidecente impara molto rapidamente come separare le proprie posizioni ideologiche personali dal materiale che sta modificando, perché questa è una parte cruciale del lavoro», dice Olivia Beattie, direttore editoriale dell’editore politico Biteback. «Credo che l'industria editoriale sia più di sinistra rispetto al pubblico degli acquirenti di libri, rendendo inevitabile che il personale lavori su libri con cui non è d'accordo». «Ma le persone non stanno conflitti su semplici differenze di opinione politica, come si potrebbe supporre ascoltando il dibattito», dice. «Nessuno si rifiuta di lavorare su un libro perché non si adatta alla propria fede politica: la questione riguarda l’incitamento al pregiudizio contro minoranze già emarginate e oppresse. È un'area di dibattito assolutamente valida. Inoltre, non è sempre così chiaro: alcune persone saranno assordate da un fischio di cane che altri non possono sentire». «Mi sembra che l’editoria debba stare nell'intersezione tra le forze del mercato e le forze culturali», afferma un editore junior. «Stiamo facendo libri, stiamo facendo un prodotto culturale. Ma le nostre decisioni su ciò che pubblichiamo sono legate alla nostra percezione di ciò che vuole il mercato. Il personale più anziano, quello con più potere, sta prendendo decisioni consapevoli su come bilanciare queste due cose. Il più delle volte, sembra che diano la priorità al denaro rispetto all'integrità editoriale». Il personale junior, nel frattempo, oberato di lavoro e sottopagato, è «costretto a fare la maggior parte del lavoro sui titoli con cui ha seri problemi, con pochissima scelta e pochissimo supporto», afferma. «Gli editori hanno il privilegio di lavorare principalmente sui libri che hanno scelto – se stanno facendo il loro lavoro correttamente, dovrebbero sentirsi sicuri della loro acquisizione. I vicedirettori e gli assistenti editoriali non hanno spesso questo privilegio», afferma. «C'è differenza tra lavorare su un libro che pensi sia un po' spazzatura e lavorare su un libro che trovi ripugnante, che ti fa arrabbiare o che ti sconvolge sinceramente. Questa inquadratura de "i giovani dovrebbero lavorare sui libri che odiano" mi sembra così stupida e riduttiva. Dobbiamo solo aspettare che tutte le persone che prendono decisioni editoriali dubbie senza integrità vadano in pensione?». Un altro dipendente junior si è detto «leggermente perplesso dal fatto che la libertà di parola sia così spesso equiparata al diritto a un contratto editoriale», aggiungendo: «Coloro che occupano posizioni di rilievo stanno dimenticando che c'è sicuramente un obbligo di diligenza nei confronti del loro personale: questo deve essere considerato quando si chiede loro di lavorare su libri di autori con visioni che potrebbero potenzialmente contrastare direttamente la loro identità ed esistenza». La verità è che gli editori hanno sempre camminato sul filo del rasoio. «Gli editori, pur sapendo che la controversia fa vendere, hanno sempre esercitato il diritto di rifiutare i libri problematici», afferma Rupert Heath di Dean Street Press, indicando «innumerevoli casi di editori che si sono rifiutati di pubblicare un libro, da Schuster con Sheer, a HarperCollins che annullava il contratto di Patten per il libro anti-Cina nel 1998, in un momento in cui Murdoch stava cercando un accordo in Cina. «La grande differenza che vediamo ora è nel personale editoriale, in molti casi personale relativamente giovane, che cerca di dettare la politica aziendale, usando la propria influenza per bloccare la pubblicazione di libri già commissionati dalle proprie aziende – questo è qualcosa, per quanto come so, senza precedenti a lungo termine nella storia dell'editoria». Il libro di memorie di Pence, secondo Heath, «sarà un importante banco di prova: se verrà ritirato, potrebbe aprire le porte a un'azione simile. E sulla scia di BLM, #MeToo e di altri recenti movimenti sociali, i dirigenti dell'editoria potrebbero ritenere sempre più opportuno che si conformino ai desideri del loro staff». Il caporedattore di Schuster, Korda, ha ricordato uno sconvolgimento simile negli anni '60. «Finora gli editori di libri si erano considerati una sorta di obbligo autoimposto di pubblicare entrambi i lati della maggior parte dei problemi in modo più o meno imparziale, piuttosto che prendere il sopravvento morale», scrive in Another Life. Ma un «dibattito sempre più acceso e di parte» ha visto «la dirigenza accartocciata contro gli editori e viceversa».

Dagospia il 20 maggio 2021. Comunicato Stampa. Apprendiamo e segnaliamo un episodio che riguarda il nuovo libro-inchiesta di Fabrizio Gatti, L’infinito errore. La storia segreta di una pandemia che si doveva evitare, da qualche settimana in libreria e nella classifica dei libri più venduti. A quanto ci risulta, a seguito di un’intervista rilasciata da Gatti al podcast di interviste di Daniele Rielli visibile su Youtube, dopo vari infruttuosi tentativi è risultato impossibile da parte del proprietario del podcast poter procedere alla “sponsorizzazione pubblicitaria” del video in questione. Google ha giustificato questo diniego con un messaggio agli autori del podcast: “La informiamo che, a seguito del ricorso eseguito dal nostro staff, il dipartimento conferma la disapprovazione del video della campagna “pdr Gatti” per eventi sensibili collegato a Covid-19 (può trovare l'informativa della policy)”. L’informativa stabilisce che “gli inserzionisti devono rispettare le norme Google Ads quando pubblicano contenuti riguardanti il coronavirus (Covid-19), in particolare quelle relative agli eventi sensibili. Tali norme vietano qualsiasi contenuto che mostri intenti speculativi o manchi di ragionevole sensibilità nei confronti di questa crisi sanitaria globale”. Una motivazione generica, ma lo staff di Google non aggiunge altro. Sarebbe dunque impossibile poter fare pubblicità su siti, blog, podcast e negli spazi di proprietà di Google, per le idee contenute ed espresse dall’autore nel suo libro. A questo proposito, Elisabetta Sgarbi, direttore generale e editoriale della casa editrice, dichiara: “Fabrizio Gatti, scrittore e giornalista investigativo e inviato del settimanale L’Espresso, ha documentato le responsabilità del regime cinese, dei governi alleati e dell’Oms nella ritardata risposta alla pandemia di Covid-19 che, come spiega il sottotitolo del libro, Cina, governi e Oms avrebbero dovuto evitare. Mi auguro che Google - proprio per la sua posizione di primo piano - possa contribuire a favorire la riflessione e la discussione sulla catastrofe sanitaria e umana che ha colpito il mondo. C’è una grande differenza tra l’offesa gratuita e il diritto di critica, soprattutto quando questa critica, come dimostra Fabrizio Gatti con il suo libro-inchiesta L’infinito errore, è ampiamente documentata”. Questo invece il commento di Fabrizio Gatti: “Esprimo la mia piena solidarietà ai colleghi che sono stati o saranno danneggiati economicamente, soltanto per aver dato spazio a L’infinito errore e alla mia ricerca. Mi auguro che Google riveda al più presto la sua posizione. Già dobbiamo sopportare il regime cinese e le conseguenze del suo mancato contenimento del nuovo coronavirus. Ritenere offensiva la mia documentata indagine su quello che è accaduto e ostacolarne in qualche modo una sua più ampia diffusione, come ha deciso Google, è l’ennesimo sintomo di una deriva molto preoccupante. Una volta superata con i vaccini l’infezione, come scrivo nel mio libro, dovremo difendere le nostre democrazie dal totalitarismo e dal monopolio digitale”. Il presentatore del podcast, Daniele Rielli, dice: "Trovo molto preoccupante che si censuri il giornalismo d'inchiesta equiparandolo di fatto ai contenuti "offensivi". Questa vicenda ci fa riflettere sull'influenza che la dittatura cinese esercita anche nel dibattito pubblico italiano". L’infinito errore rivela la storia segreta della pandemia. Grazie a testimonianze e informazioni inedite – tra cui l’analisi di oltre diecimila documenti e l’accesso alle banche dati che registrano l’identità genetica dei virus – il libro-inchiesta di Gatti ripercorre l’intero viaggio compiuto dal coronavirus: dalle grotte infestate di pipistrelli ai laboratori civili e militari cinesi dove i nuovi agenti patogeni sono stati studiati in collaborazione con i centri di ricerca americani, australiani e francesi, fino alle nostre città, ai nostri ospedali, alle nostre case. Uscito in libreria il 15 aprile, da un mese L’infinito errore è ai vertici delle classifiche.

 Luca Ricolfi sul caso di Saman Abbas: "Se ne parla poco? La sinistra ha sempre un occhio di riguardo per l'islam. Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Non sembra sollecitare troppo interesse la triste storia di Saman Abbas, la ragazza sparita a Novellara, a una ventina di chilometri da Reggio Emilia. Il silenzio della sinistra e delle associazioni che si occupano dei diritti delle donne si fa sempre più assordante, ma qual è il motivo di questo silenzio? C'è "una ragione buona e una cattiva" suppone il sociologo Luca Ricolfi, intervistato da Il Giorno. "La ragione buona è che, al momento, non si sa come siano andate effettivamente le cose, e neppure se la ragazza pachistana sia viva o morta. La ragione cattiva è che la sinistra ha un occhio di riguardo per l'Islam, e teme che i lati più imbarazzanti di quella cultura, e in particolare il suo modo di trattare la donna, compromettano il progetto politico di diventare i rappresentanti elettorali di quel mondo, grazie all'allargamento del diritto di voto agli immigrati". "Temo che anche se vi fosse la certezza che Saman è stata uccisa dai familiari, un velo pietoso verrebbe steso sulla vicenda, meno interessante di quella di qualche aspirante attrice molestata da registi o produttori". Il sociologo spiega poi il ruolo del "politicamente corretto" all'interno della questione: "È paradossale, ma il politicamente corretto - nato per combattere le discriminazioni - sta diventando, oggi, uno dei meccanismi attraverso cui passano nuove e meno visibili forme di discriminazione". "Concedendo una protezione speciale a una serie di presunte minoranze (l'Islam è solo una di esse)" spiega l'accademico "si finisce per attenuare le garanzie e indebolire le tutele nei confronti di quanti hanno la sola colpa di non far parte di alcuna categoria protetta". "Non solo" sottolinea Ricolfi "ma si viene a instaurare una sorta di presunzione di innocenza, o di responsabilità attenuata, per chiunque commetta reati ma abbia il vantaggio di far parte di una categoria protetta. Con tanti saluti al principio per cui dovremmo essere giudicati per quel che facciamo, non per quello che siamo". L'integrazione dovrebbe contemplare l'obbligo di rispettare i diritti umani. "Altrimenti non è integrazione, ma mera concessione (agli stranieri) di spazi di impunità cui nessuna comunità nazionale può aspirare (salvo forse alcune sette religiose semi-clandestine). Bisogna ammettere però, che da oltre mezzo secolo (più o meno dall'era delle decolonizzazioni), questo è un nodo irrisolto della cultura occidentale, e di quella europea in particolare" sostiene Ricolfi. "Se da bravo antropologo, aperto e non eurocentrico, dici che ogni cultura va giudicata con i suoi metri e non con quelli di un'altra, se continui a proclamare che 'loro' non sono primitivi ma solo diversi da noi, e che ogni usanza, rito o costume ha la sua dignità e la sua ragion d'essere, esercizio in cui la civiltà occidentale si è prodigata per decenni e decenni, se fai tutto questo, beh, allora è un po' difficilino pretendere che loro rispettino i diritti umani, che in fondo non sono verità rivelate, ma un costrutto contingente e "storicamente determinato" (così avrebbe detto Marx) della nostra civiltà occidentale" spiega il sociologo. E per quanto riguarda alcune tradizioni islamiche, come l'infibulazione delle ragazze e l'obbligo di sposare giovani scelti dalle famiglie? "Il problema è che noi non abbiamo il coraggio di dirgli la verità, ovvero quel che davvero la maggior parte di noi pensa: e cioè che, per noi, certi loro costumi sono barbari. E che se vogliono vivere con noi possono mangiare quel che vogliono, pregare il Dio che gli pare, vestirsi come gli aggrada, ma non può esserci alcun comportamento che sia proibito a un italiano e permesso a loro" conclude Luca Ricolfi. 

"La sinistra tace sull'Islam...". Ora nel Pd è tutti contro tutti. Alessandro Imperiali il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Finalmente il silenzio della sinistra sulla scomparsa di Saman Abbas si interrompe. Parla Marwa Mahmoud, consigliere Pd a Reggio Emilia, e conferma la teoria del sociologo Luca Ricolfi. La sinistra resta colpevolmente in silenzio di fronte alla scomparsa di Saman Abbas. Un'interrogazione in commissione esteri al ministro Luigi Di Maio riguardo "quali urgenti iniziative politiche intende assumere" e nulla più. O quasi. L'unica ad uscire pubblicamente sulla questione e squarciare il silenzio nelle fila dem è Marwa Mahmoud, donna musulmana, nata ad Alessandria d'Egitto e trasferitasi da molto piccola prima a Modena e poi a Reggio Emilia. Dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana, è stata eletta come consigliere comunale tra le fila del Partito Democratico a Reggio Emilia, la provincia dove, tra l'altro, da più di un mese è ricercata Saman, la giovane pachistana. È proprio Marwa a parlare di quest'ultima questione, su La Nazione. Quando le viene chiesto il perché la sinistra tacesse sui diritti negati alle donne islamiche, risponde: "Da parte nostra c'è timore a intervenire su questi temi. Negli ultimi vent'anni c'è stata sottovalutazione. Parliamone. Mettiamoci la faccia. Io, da musulmana e da consigliera Pd, per prima". Sostanzialmente conferma la teoria del sociologo Luca Ricolfi il quale sostiene: "La sinistra teme che i lati più imbarazzanti di quella cultura, e in particolare il suo modo di trattare la donna, compromettano il progetto politico di diventare i rappresentanti elettorali di quel mondo, grazie all'allargamento del diritto di voto agli immigrati". Così facendo, sempre secondo Ricolfi, in nome del politicamente corretto "si viene a instaurare una sorta di presunzione di innocenza, o di responsabilità attenuata, per chiunque commetta reati ma abbia il vantaggio di far parte di una categoria "protetta"". Un "occhio di riguardo" sulla questione che imbarazza e non poco proprio Marwa: "Sono temi delicati e complessi se non si hanno basi antropologiche solide. C'è paura di essere strumentalizzati e additati come razzisti. Si è tergiversato troppo preferendo agire con paternalismo, assistenzialismo e accoglienza. Che, sia chiaro, va bene. Ma non basta. Tutto il resto è diventato tabù, come la mutilazione ai genitali femminili per esempio". Marwa è molto critica anche sui matrimoni forzati che fanno parte di "un mondo sommerso che va scardinato". L'unico modo per poterlo fare è appellarsi "ai diritti umani". Dal suo punto di vista: "In Italia il tema non è mai stato trattato in modo sistemico, ma solo a livello politico ideologico come nel caso di Hina Saleem. Non è sufficiente aver inserito il reato nel codice penale". E aggiunge: "Occorre una risposta integrata che passa dall'educazione ai servizi territoriali, alle forze dell'ordine. Non si risolve tutto allontanando la vittima in una comunità protetta. E il caso Saman insegna: è tornata a casa. I figli cercano sempre di recuperare i rapporti con la famiglia". È necessario, dunque, "andare nelle comunità e nei luoghi di culto, spiegando che nessuno può essere costretto a sposarsi e che non deve essere visto come un disonore ricevere un "no"". L'unica soluzione possibile, quindi, secondo lei, è "muoversi entro la cornice dei diritti umani e della Costituzione".

Alessandro Imperiali. Nato il 27 gennaio 2001, romano di nascita e di sangue. Studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza e ho preso la maturità classica al Liceo Massimiliano Massimo. Sono vicepresidente dell'Associazione Ex Alunni Istituto Massimo e responsabile di ciò che riguarda il terzo settore. Collaboro con ilGiornale.it da gennaio 2021 e con Rivista Contrasti. Ho tre credo nella vita: Dio, l’Italia e la… 

Censura Rai, sei casi di cui non si parla. Altro che il rapper. Rec News il 7 Maggio 2021.  Quando si affronteranno anche i problemi che affliggono l’informazione di una tv pubblica completamente appiattita sulle posizioni del governo? La Rai – che conta su un elevato numero di professionisti e di corrispondenti regionali – tra il 2020 e il 2021 ha censurato:

1. Le notizie sulle cure contro il covid, tra farmaci generici e farmaci specifici;

2. Gli studi sui falsi positivi, che da soli sono in grado di riscrivere le proporzioni della cosiddetta pandemia;

3. Il numero di malati oncologici e di soggetti affetti da patologie (realmente) gravi che sono deceduti perché tenuti fuori dagli ospedali;

4. I protocolli letali inventati dal ministero della Salute;

5. Lo scandalo sulle autopsie;

6. Le denunce sporte presso il Tribunale dell’Aja contro i governi che hanno adottato e stanno adottando provvedimenti incostituzionali, e molto altro. Non sarebbe più opportuno parlare di censura per le notizie e le questioni realmente gravi, che riguardano tutti, anziché stracciarsi le vesti per un cantante? Quando si parlerà anche dei problemi che affiggono l’informazione di una tv pubblica completamente appiattita sulle posizioni del governo?

Mentana difende la libertà d’espressione: “Deve valere per tutti”. E la sinistra va fuori di testa. Guido Liberati sabato 22 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. «In questo paese c’è la libertà di parola».  Esordisce così Enrico Mentana, nel post su Facebook che ha mandato fuori di testa parecchi esponenti, anche di spicco della sinistra. Il direttore de La7, ha scritto un concetto di una banalità imbarazzante. Eppure, ha toccato nervi sensibili delle vestali del politicamente corretto. «Non esiste – prosegue il post di Mentana – che si metta alla gogna chi ha un parere diverso, e allo stesso modo è inconcepibile che si sottoponga alla gogna mediatica, o peggio si proponga l’ostracismo per chi fa satira sui temi sensibili. Sei anni fa eravamo tutti Charlie: ma non esiste che si difenda chi fa satira sui simboli religiosi e si attacchi chi la fa sulle scelte di genere. La libertà è una sola, permette di prendere in giro i leghisti e gli ebrei, i gay e i magistrati, i machisti e i navigator, i giornalisti e le femministe, e così via, nessuno escluso. E non perché “Se no fai il gioco della destra” come mi è toccato leggere, ma perché la libertà è precisamente questa, piaccia o no. Si legge nell’articolo 21 della costituzione, che ribaltò le proibizioni del fascismo (da non dimenticare mai): “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Sante parole».

Johnatan Bazzi contro Enrico Mentana. Su Facebook, tra i primi ad attaccare Mentana è intervenuto lo scrittore Johnatan Bazzi, già redattore di Gay.it “Direttore, io credo lei abbia gli strumenti, la posizione e l’esperienza per fare meglio di così”. Il riferimento non detto di Mentana era ovviamente anche a Pio e Amedeo per le sue battute sugli omosessuali. E quindi il mondo che caldeggia il Ddl Zan ora non può condividere una ovvietà prevista dalla Costituzione.

E anche il deputato Fiano fa la sua lezioncina. Anche il deputato dem Emanuele Fiano spara la sua cannonata contro il giornalista. “Condivido che Mentana dica che la satira debba essere libera ma non è vero che è permessa qualsiasi manifestazione di idee in questo paese, non è permessa l’apologia di terrorismo per esempio, non è permessa un’idea discriminatoria, non è permessa un’idea fascista che presupponga la riorganizzazione del Partito fascista, non è permessa un’idea calunniosa o diffamatoria nei confronti di qualcuno. Perché dobbiamo raccontare che non ci sono limiti alla libertà di espressione nel nostro ordinamento se ci sono?”. Libertà di satira, il precedente di Michela Giraud. Il riferimento di Mentana era ovviamente anche a Michela Giraud, la comica assurta a notorietà nazionale con Lol, costretta a togliere una battuta politicamente scorretta dal suo profilo social. E qualcuno osserva sulla pagina Fb di Mentana.  “La Giraud non l’ha censurata proprio nessuno. Ha fatto una battuta e le sono piovute addosso critiche, legittime anche quelle. Ha poi ritenuto di eliminare la battuta. Punto”. E alle tante vestali del “cancel culture”, replica un utente sulla pagina Instagram del Direttore, in un post che sintetizza al meglio la questione. “Non la capiscono. difendono la libertà di espressione fino a quando concordano”.

Mentana contro il politicamente corretto: "I gay si possono prendere in giro". Francesca Galici il 22 Maggio 2021 su Il Giornale. Enrico Mentana si schiera contro le limitazioni alla libertà di parola e ricorda i capisaldi della nostra democrazia, tra i quali l'articolo 21 della Costituzione. In Italia si può prendere in giro la religione cattolica in ogni modo, si può ironizzare sul Cristo in croce ma non sui gay e sulla comunità Lgbt. In quest'ultimo caso si viene tacciati di omofobia, si viene insultati e si invoca il bavaglio. Una pratica ormai comune e basta vedere quel che è accaduto all'attrice comica Michela Giraud per capire la direzione che sta prendendo la democrazia del nostro Paese. Una deriva contro la quale si è espresso anche Enrico Mentana, che in un post su Facebook, ovviamente criticatissimo da chi esalta esclusivamente il pensiero unico, ha difeso la libertà di parola in ogni sua forma. Un pensiero appoggiato anche da Matteo Salvini tramite il suo profilo Twitter. "In questo Paese c'è la libertà di parola. Non esiste che si metta alla gogna chi ha un parere diverso, e allo stesso modo è inconcepibile che si sottoponga alla gogna mediatica, o peggio si proponga l'ostracismo per chi fa satira sui temi sensibili", ha scritto Enrico Mentana. Il caso di Michela Giraud, solo l'ultimo di una lunga serie, è emblematico. Con una battuta, l'attrice ha commentato il coming out di Demi Lovato, che sui social ha dichiarato di non riconoscersi in un genere binario, chiedendo pertanto che a lei ci si rivolgesse con il pronome "they/them" e non più con "she/her". La traduzione italiana di "they" è "loro" ma il politicamente corretto in lingua inglese ne ha assunto l'utilizzo anche come singolare neutro. Tuttavia, guai a scherzare su questa singolare richiesta, come ha fatto Michela Giraud: "Demi Lovato vuole che le sia dato del 'loro' come il Mago Otelma". Immediata la raffica di insulti e improperi contro l'attrice, costretta a cancellare il tweet e quasi a scusarsi per aver fatto il suo lavoro, ossia ironia. È proprio contro questo integralismo che vuole limitare la libertà di parola che Enrico Mentana ha sbottato sul suo profilo Facebook: "Sei anni fa eravamo tutti Charlie: ma non esiste che si difenda chi fa satira sui simboli religiosi e si attacchi chi la fa sulle scelte di genere. La libertà è una sola, permette di prendere in giro i leghisti e gli ebrei, i gay e i magistrati, i machisti e i navigator, i giornalisti e le femministe, e così via, nessuno escluso". Matteo Salvini si è complimentato con il direttore del Tg La7 dal suo profilo Twitter: "Condivido le parole di Enrico Mentana, che naturalmente viene già messo in croce per l’opinione espressa. Sempre e comunque dalla parte della Libertà!". Enrico Mentana, quindi, ha ricordato a tutti l'articolo 21 della Costituzione: "La libertà è precisamente questa, piaccia o no. Si legge nell'articolo 21 della costituzione, che ribaltò le proibizioni del fascismo (da non dimenticare mai): 'Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione'. Sante parole". Eppure nei commenti lasciati sotto il suo post il concetto non sembra essere stato recepito e così ecco che "non si deve fare ironia sulle minoranze ma solo sui poteri forti". È questo il futuro che ci aspetta?

Se l'ossessione del gender fa riscrivere le battute ai comici. Alessandro Gnocchi il 22 Maggio 2021 su Il Giornale. Prepariamoci a vivere in un mondo dove sarà molto difficile strappare una risata senza incorrere nella censura, nella riprovazione e prima o poi nella condanna per legge. Prepariamoci a vivere in un mondo dove sarà molto difficile strappare una risata senza incorrere nella censura, nella riprovazione e prima o poi nella condanna per legge. La cultura del riconoscimento delle minoranze, giusta in partenza, ha avuto un approdo tragico. Le lotte di emancipazione hanno generato i cerotti sulla bocca e la cancellazione della Storia. I libertari sono ormai guardiani dell'ortodossia politicamente corretta ridotta a un manuale su cosa si può dire e come imporre il silenzio a chi dissente. Non passa giorno senza reazioni isteriche davanti a parole comuni e innocue. Ieri, la gogna è toccato alla comica Michela Giraud, nota soprattutto per la trasmissione LOL. Giraud ha scritto un tweet sulla bizzarra richiesta della cantante Demi Lovato: «Sono di genere non binario. Rivolgetevi a me col pronome loro». D'accordo. Loro (Demi Lovato) sostengono di contenere moltitudini di orientamento sessuale fluido e di non identificarsi in una identità strettamente maschile o femminile. La prima reazione, lo ammettiamo, è un gigantesco ma chi se ne frega, loro (Demi Lovato) si identifichino come preferiscono e sotto le coperte loro (Demi Lovato) facciano quello che vogliono, a chi importa? A nessuno, semmai sarebbe lecito obiettare sul tentativo di piegare perfino la grammatica (e dunque la logica) all'ideologia. Torniamo ai fatti. Michela Giraud azzarda la battuta, in fondo è il suo mestiere: «Demi Lovato vuole le sia dato del loro come Otelma». Niente di che, fa a stento ridere il riferimento al mago, star della televisione grazie allo sberleffo della Gialappa's Band. Avete presente? Era quel signore che si vestiva da divinità egiziana, leggeva il futuro e parlava di se stesso alla terza persona plurale. Chi potrebbe offendersi per una simile sciocchezza? Si sorride e si passa oltre. Invece il tweet è accolto da un mare di critiche, al punto che la comica ha deciso di eliminarlo, aggiungendo la frase più intelligente di tutta la vicenda: «Mai mi sarebbe passato per la mente di doverlo fare». In effetti, a nessuno sarebbe passato per la mente di assistere alla fine dell'ironia, per giunta bonaria, come quella in questione. Siamo passati da «vietato vietare» a «vietato non vietare».

Da "ilfattoquotidiano.it" il 20 aprile 2021. Scoppia il “caso” Gaetano Pedullà a Dritto e Rovescio. Il direttore de La Notizia è stato negli scorsi mesi un ospite fisso della trasmissione di Rete 4 condotta da Paolo Del Debbio ma, da qualche settimana, non si è più visto. Il motivo? Secondo quanto lo stesso Pedullà ha scritto sui social, ci sarebbe stata una “censura” nei suoi confronti dopo l’ultima lite con Maurizio Belpietro, degenerata e conclusasi con il gesto dell’ombrello da lui fatto in direzione di quest’ultimo. Gaetano Pedullà manca infatti a Dritto e Rovescio proprio dalla puntata del 1 aprile, in cui fu protagonista di un focoso botta e risposta con Belpietro: un’escalation che, evidentemente, non è stata apprezzata da Mediaset. “Quando parli del mio giornale sciacquati la bocca, dici bugie“, aveva urlato quella sera Pedullà e, di fronte alle proteste del collega (“Non accetto che questo signore alzi la voce e non mi faccia finire”) si era alzato esplodendo in un gesto di rabbia: “Vuoi che me ne vada? Vuoi che me ne vada? Tiè, te ne vai tu“. E aveva quindi fatto il gesto dell'”ombrello” di fronte al padrone di casa Paolo Del Debbio che, dopo aver alzato la voce per zittirlo, aveva assistito impotente alla scena. “Mi hanno epurato – è tuonato ora Pedullà sui social rispondendo ad un suo follower -. In quella trasmissione Paragone può mandarmi liberamente a fanc***, Cruciani come altri ospiti prendermi in giro, Belpietro diffamare addirittura il mio giornale, ma se io rispondo per le rime dopo essere stato attaccato sul piano personale e con argomenti che non c’entrano niente con la discussione, cacciano me. D’altra parte per silenziare noi pochi giornalisti non allineati ogni scusa è buona. Pazienza, tanto so che tante persone ragionano con la propria testa e non con quella di chi fa o decide nelle televisioni”, ha concluso.

Così è crollato il potere rosso. Augusto Minzolini il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. Una volta Antonio Gramsci le definiva le "casematte del Potere", dalla giustizia all'informazione, cioè gli strumenti per raggiungere e conservare il governo di un Paese. Una volta Antonio Gramsci le definiva le «casematte del Potere», dalla giustizia all'informazione, cioè gli strumenti per raggiungere e conservare il governo di un Paese. Uno schema che da noi ha funzionato per decenni e decenni. Per cui colpisce quanto repentinamente con la crisi della sinistra, quegli «apparati della società» (per usare il verbo gramsciano) stiano venendo giù. L'ultima settimana è stata esiziale per quei mondi. Prima sui verbali dell'avvocato Amara è scoppiato il pianeta giustizialista, quello in cui, in una sorta di Entente cordiale, convivevano gli eredi delle toghe rosse e i seguaci del rito propugnato dall'ex mostro sacro (l'iconografia a sinistra è sempre strumentale al risultato), Piercamillo Davigo. Poi il terremoto ha raggiunto Raitre, cioè il tempio dell'informazione di sinistra: Enrico Letta e Giuseppe Conte hanno scomunicato i vertici dell'azienda di viale Mazzini, messi alla berlina da Fedez, che dal palco della diretta del concerto del Primo maggio ha denunciato un tentativo di censura dei dirigenti del servizio pubblico sul suo intervento contro la Lega e in favore del ddl Zan contro l'omotransfobia (parola oscura e complicata); rimuovendo in un battibaleno il dato, quantomai ovvio e acclarato, che nelle caselle della nomenklatura di quel pezzo di Rai quei nomi li avevano scritti loro. A cominciare dalla principale imputata, quell'Ilaria Capitani, ex portavoce di Veltroni, che guidata dal pilota automatico incorporato dei dipendenti dell'azienda che entra in funzione quando si passa da un governo all'altro (in questo caso dal governo giallorosso al Draghi di unità nazionale), aveva pensato innanzitutto al suo futuro e si era preoccupata, fin troppo, della possibile reazione di Matteo Salvini alle parole di Fedez. Infine, ieri c'è stato un corpo a corpo tra Matteo Renzi, ex segretario del Pd, e una delle trasmissioni cult di Raitre, Report, che riportando la foto di un incontro tra l'ex premier e un dirigente dei servizi segreti, Marco Mancini, ha alimentato la tesi che la fine del governo Conte sia stata figlia di un complotto. Sono volati piatti e scodelle: un renziano doc, come Luciano Nobili, in un'interrogazione al ministro dell'Economia, ha chiesto lumi su presunte email tra i responsabili della trasmissione e l'ex portavoce di Conte, Rocco Casalino, e su una possibile fattura di 45mila euro ad una società lussemburghese in favore di un testimone, il tutto «per confezionare servizi per danneggiare l'immagine di Renzi»; tutti gli interessati hanno smentito, da Casalino al responsabile di Report, Ranucci. Quest'ultimo ha dichiarato su facebook che la trasmissione «non fa mai servizi contro» e lamentato che «la libertà di espressione non è una maglietta che sfili quando ti fa comodo». Ma, lasciando da parte email e fatture, a proposito di «magliette» e «servizi contro» ieri, nella stessa puntata di Report, si è ipotizzato un complotto di Renzi contro Conte e un altro di Berlusconi contro il giudice che lo ha condannato in Cassazione. Dello scandalo in Csm, invece, nada de nada: «la libertà di espressione da quelle parti è sinonimo di fissazioni». E a proposito di «magliette» il primo a parlare di complotto internazionale contro Conte, fu il consigliere dell'ex segretario del Pd Zingaretti, seguito solo da una piccola frotta di orfani dell'ex premier guidati dal Fatto di Travaglio: insomma, «una cagata pazzesca» per usare una battuta dell'indimenticabile Fantozzi a proposito della Corazzata Potëmkin (esempio, visti i protagonisti, sul piano culturale alquanto calzante). Corbellerie per coprire una realtà molto più semplice: il Conte due è caduto perché era un «assembramento» di incapaci. Ma torniamo al punto: il crollo delle «casematte del Potere». «È una cosa enorme quella che sta avvenendo», confida Matteo Renzi, che da quando ha fatto cadere l'esecutivo giallorosso è diventato uno dei bersagli preferiti di quei mondi. «Una cosa enorme» da preoccupare addirittura il Quirinale. «Con tutto il rispetto per il personaggio - twitta Pierluigi Castagnetti, ex segretario del Ppi e ospite fisso sul Colle - ma a voi pare che in questo momento difficilissimo l'intero sistema politico debba ruotare attorno alla telefonata di Fedez?». Eh sì, perché quello che colpisce di più è che la mitraglia non è rivolta solo verso il nemico esterno, ma si sentono spari anche all'interno delle casematte della sinistra. Il motivo è semplice: per restare al governo il Pd ha messo insieme anime che non dovrebbero stare insieme; anzi, ha dato addirittura il respiro di un'alleanza strategica al rapporto con i grillini e i loro mondi. Una vera scommessa. Solo che non puoi mettere insieme magistrati come Salvi o Spataro con un khomeinista come Davigo. I primi, che militano nelle «casematte» da un sacco di tempo hanno una sensibilità politica, se vedono il nome di Conte su un verbale ci riflettono su, il giustizialista per antonomasia, invece, no, va avanti come un carroarmato. Stesso discorso vale per Raitre: da quelle parti sono abituati alla «lottizzazione», conoscono a menadito la filosofia dell'azienda, sanno quanto possono osare specie nei cambi di stagione; «un supporter dei 5stelle» come Fedez (la definizione è dell'onorevole grillino Battelli), invece, no. Come fa un funambolo del pensiero, uno che fino a dieci anni fa componeva brani che massacravano Tiziano Ferro per la sua omosessualità e ora dice l'esatto opposto, a restare nei limiti. Non può e non vuole, perché il suo investimento è tutt'altro. Addirittura la fidanzata di Franco Di Mare, un direttore di Raitre centauro - metà 5stelle, metà Pd - esprime per intero il concetto che è nella mente del compagno: «Fedez è una nullità, un Cetto Laqualunque, sostenuto da qualche paraculo occulto». In queste condizioni, con questi guai, volente o nolente, la sinistra deve cambiare politica. E la fa a suo modo: così dopo aver lottizzato fino a ieri con le correnti dei magistrati le stanze del Palazzo di via del Maresciallo e il grattacielo pigmeo di viale Mazzini, Violante per il Csm e il tandem Letta per la Rai, non trovano di meglio che gridare oggi a gran voce «fuori i politici». Proposito giusto, lodevole, non c'è dubbio. Solo che almeno a corredo dovrebbero parlare di riformare il Csm, di bloccare «le porte girevoli» tra magistratura e politica, e, ancora, di privatizzare la Rai. Così, quei discorsi sembrano più dettati dalla contingenza, che non animati dalle intenzioni. «Al netto dell'ipocrisia - sgama l'azzurra Gabriella Giammanco - la Rai è sempre stata condizionata dalla politica. Come la Sanità. Fedez non ha detto nulla di nuovo. Si parla di riforma ma non si farà mai». O, magari, questa volta sì, ci puntano davvero, ma sempre per una logica politica. «Ma perché - si chiede Enrico Costa, la mefistofelica ombra di Carlo Calenda - anche se questi casini sono stati provocati solo da interni, siano toghe o dirigenti Rai, Violante e Letta se la prendono con i politici e vogliono cacciarli dal Csm e dalla Rai? Forse hanno capito che alle prossime elezioni saranno spianati e ora vogliono riforme che gli consentano di mantenere un'influenza in quegli strumenti di Potere anche dall'opposizione. Magari, per tenere insieme le due cose, manderanno Fedez alla Procura di Milano. Scherzo». La verità è che finito il governo Conte, esaurito il collante del Potere, le prime scosse del terremoto in corso stanno mettendo a dura prova quei mondi. E, magari, la corsa per il Colle, dove per la prima volta il Pd non sarà il king maker, farà il resto. «Qui non regge niente - ammette sconsolato il capogruppo di Leu Federico Fornaro -, a novembre ci sarà il redde rationem. Anche perché se Draghi va al Quirinale poi si va diritti alle elezioni che la stragrande maggioranza dei parlamentari non vuole. Dite che potrebbe sostituirlo la Cartabia a Palazzo Chigi se lui va sul Colle? È più facile che succeda il contrario».

C'era una volta la stampa indipendente...Fedez si prende la scena, giornali e Tv si scatenano dimenticando la loggia Ungheria. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Domenica pomeriggio si sono finalmente aperte le gabbie dove era rinchiusa la rabbia della sinistra – insieme a quella dei qualunquisti dei 5 stelle – ed è tornata la bella polemica politica di una volta. Mi ricordo che in passato ci furono battaglie epiche sulla riforma della Costituzione, sui salari degli operai, sui diritti a una riduzione dell’orario di lavoro, sul divorzio e l’aborto, sulla guerra, sul modo nel quale combattere la lotta armata e l’attacco mafioso. Su questi temi destra e sinistra spesso si divisero in modo anche molto aspro. Ieri, dopo lungo silenzio, la sinistra finalmente è tornata a dar battaglia. Su Fedez, stavolta. Sì: su Fedez. Fedez è un cantante, ma anche un influencer (per la verità non so benissimo cosa voglia dire questa parola, ma su Wikipedia si trovano diverse spiegazioni) e da qualche settimana, credo, un combattente per i diritti civili. Uomo puro, giovane, non avvezzo alle mediazioni. Le mediazioni, voi lo sapete bene, sono quelle cose orribili che in genere travolgono e immiseriscono la politica. Il compromesso storico, l’articolo 7 della Costituzione, il governo Draghi… Fedez ha deciso di battersi per i diritti degli omosessuali, e io penso che sia una causa nobilissima. Da secoli gli omosessuali sono discriminati e offesi. Fedez lotta con passione, anche sfruttando, giustamente, la posizione di forza che gli viene dall’essere un personaggio famoso nel mondo dello spettacolo e dei social media: mena fendenti e non si risparmia. Il primo maggio, per dare più forza al suo impegno a favore della legge Zan (la legge che disciplina i reati di offesa agli omosessuali, modifica la legge Mancino contro i reati di opinione fascista o razzista, e la amplia, e rifonda l’idea di identità di genere), ha scatenato una protesta furiosa contro la Rai. La protesta, si è scoperto poi, era infondata, perché Fedez sosteneva che la Rai aveva tentato di censurarlo, e per dimostrare questa accusa ha messo in rete un video della sua telefonata con una dirigente Rai che però era tagliato, mentre dal video integrale si capisce che la malcapitata dirigente Rai tutto aveva fatto meno che censurare). Però la polemica è rimasta in piedi. Un po’ perché comunque sul tema della difesa dei diritti degli omosessuali il mondo politico e l’opinione pubblica si dividono. C’è una maggioranza che difende questi diritti ma c’è anche una minoranza omofobica, in modo palese o occulto. E quindi la rivolta di Fedez contro la presunta omofobia della Rai ha sobillato gli animi politici e ha permesso, dopo tanti anni, anche alla sinistra di gettarsi nell’arena e picchiare duro. Letta è sceso in campo e si è fatto spalleggiare anche da Conte. Conte si è scagliato contro la lottizzazione della Rai (che oggi è in mano a leghisti e grillini) che lui stesso aveva realizzato in modo sistematico negli anni scorsi. (Probabilmente Conte non sempre viene informato delle cose che fa, e alle volte, giustamente, queste cose, quando viene a saperle, lo indignano…). La polemica, come succede in questi casi, è stata largamente guidata dai giornali, nei loro siti e nell’edizione cartacea. Soprattutto dai grandi giornali. In particolare dal Corriere della Sera, da Repubblica e dalla Stampa. Questi tre incrociatori dell’informazione italiana, tutti e tre, ieri, dedicavano titoli di scatola, in apertura di prima pagina, a Fedez. “Ciclone Fedez sulla Rai”, titolava Repubblica con una grafica modificata rispetto al solito per dare più rilievo all’avvenimento clamoroso. Anche il Corriere ha modificato la sua grafica e ha titolato: “Il caso Fedez agita i partiti. Rai sotto accusa”. La Stampa a seguire: “Fedez: questa Rai è vergognosa”. Tutti gli altri argomenti sono passati in secondo piano. Tutti? Sì, soprattutto uno: Magistratopoli. Vi abbiamo parlato di questo scandalo sull’ultimo numero del Riformista. Credo che lo conosciate. In sintesi, è successo che un magistrato milanese, interrogando un avvocato che negli ultimi tempi è spesso stato considerato molto attendibile dai Pm – tanto da avere lui, con le sue accuse, scatenato il processo a Palamara – ha messo a verbale notizie molto scottanti e clamorose. Che riguardavano l’avvocato Conte e soprattutto una presunta Loggia segreta, situata a Roma a piazza Ungheria, che – pare – teneva in pugno il governo della magistratura italiana. Nomine, equilibri, designazione di procuratori, vice, aggiunti, presidenti dei tribunali e tutto il resto. Loggia segreta e illegale, ovviamente. E se le accuse di questo avvocato, che si chiama Piero Amara, fossero veritiere, ci sarebbe da tirar giù in quattro e quattr’otto tutto l’establishment e il gruppo di potere della magistratura, e da cancellare lo stesso Csm, incapace di fare il suo lavoro. Il problema è che questo magistrato che aveva raccolto le rivelazioni del pentito Amara aveva provato ad andare avanti nell’inchiesta, ma era stato bloccato dal suo superiore. E allora era corso a Roma e – illegalmente – aveva consegnato tutto a Piercamillo Davigo, membro del Csm, che – illegalmente – aveva ricevuto il malloppo e l’aveva – illegalmente – tenuto segreto per molti mesi. O forse – peggio ancora – ne aveva parlato, più o meno sommariamente – al vicepresidente del Csm, Ermini, e addirittura al presidente della Repubblica. Se fosse vero, sarebbe uno scandalo di proporzioni mai viste. Se invece non fosse vero che il presidente della Repubblica sia stato informato, resta sempre forse lo scandalo più clamoroso del dopoguerra, perché rende evidente che gran parte della struttura dirigente della magistratura italiana, nella sostanza, è illegale e priva di qualunque credibilità. E che anche le inchieste e le sentenze, di conseguenza, sono in gran parte illegali e – di fatto – corrotte. Ma lo scandalo non finisce qui. In ottobre Davigo lascia il Csm per ragioni di età e miracolosamente il malloppo insabbiato ricompare nelle redazioni di due giornali: Repubblica e il Fatto. Cioè i due giornali che, insieme al Corriere, sono sempre stati alla testa del partito delle procure. Chi li ha dati ai giornalisti? La segretaria di Davigo. Cosa fanno i giornalisti, abituati a pubblicare qualunque intercettazione o documento segreto o velina gli venga passato da una Procura? Stavolta insabbiano tutto. Pensano: non è il caso di mettere in cattiva luce i magistrati. Mica son politici! Mica son Renzi o Berlusconi! E così oggi succede che i nomi dei partecipanti a questa misteriosa Loggia, se esiste, li conoscono alcuni magistrati, pochi, alcuni giornalisti e basta. E li usano a loro piacimento. Voi, a questo punto, vi stupite se i grandi giornali non hanno nessuna voglia di occuparsi di magistratopoli, dentro la quale sono infognati anche loro fino al collo? Già, neanche voi vi stupite. Però stavolta – diciamolo – è grossa grossa: come si fa a tacere? Fedez. Ecco che, in modo del tutto involontario, Fedez corre in soccorso. E apriti cielo. Per oggi lasciamo stare lo scandalo, dicono i grandi giornali, perché Fedez picchia alla porta. Al Fatto Quotidiano, però, sta storia di Fedez non piace. Anche perché al suo direttore piace la canzone italiana, ma solo Renato Zero, credo, che spesso imita quando gioca a fare il karaoke e lo ha fatto anche sulla Rai, stonando solo un po’. Il rap di Fedez invece non lo entusiasma affatto. E allora trova un altro scoop che gli permette di sfuggire alla questione magistratopoli. Indovinate? Sì, lui: Renzi. Lo scoop glielo offre su un piatto d’argento il programma Rai Report. Travaglio lo sbatte in prima pagina, come gli capita non di rado, stavolta perché Renzi è stato beccato a chiacchierare in un autogrill con un certo dottor Mancini che è uno 007. È proibito parlare con Mancini? No, però… ma chi è Mancini? È l’uomo che Conte – l’unico premier amato da Travaglio – voleva alla guida dei servizi segreti. Poi non se ne fece niente perché cadde il governo. È molto grave incontrare il candidato alla guida dei servizi segreti? Pare di sì. Parola di un direttore che una volta, a sua insaputa, se ne andò in vacanza con un poliziotto che poi fu condannato per favoreggiamento di un imprenditore a sua volta condannato per mafia…. Ciliegina sulla torta di questa inaudita commedia è il documento della corrente della magistratura guidata da Davigo, cioè dall’uomo che è al centro dello scandalo. Il comunicato giunge a paragonare Davigo a Falcone. Dico sul serio, eh. Uno come può commentare un delirio così? Infermieraaaa!!!!

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Marine Le Pen fa paura e scatta la censura: nessun editore vuole pubblicare il suo libro. Adriana De Conto martedì 25 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. La censura in Francia si abbatte su Marine Le Pen, la favorita – un anno dalle elezioni presidenziali francesi – in tutti i sondaggi. Nessun editore vuole pubblicare il suo libro-manifesto. Un ostracismo rivelato dall’Express, all’interno della rubrica Les indiscrets. «Le Pen senza editori», è il titolo del settimanale parigino, che riporta il malessere della candidata leader di leader del Rassemblement national (Rn) alle presidenziali del 2022 per le barricate che il mondo dell’editoria ha innalzato contro di lei.

Gli editori fanno muro contro la Le Pen. Porte in faccia alla Pen. «C’è un terrorismo intellettuale nelle nostre società. L’editore che pubblica Marine Le Pen è fottuto», ha dichiarato all’Express l’eurodeputato e consigliere speciale della leader sovranista Philippe Olivier. Il quotidiano Libero ha riportato la notizia e lo sfogo di Olivier. Che illustra la situazione di una censura ideologica spaventosa. “Nessuna casa editrice di prima fascia, ma nemmeno quelle di seconda e di terza, vogliono accostare il loro nome al cognome Le Pen- leggiamo su Libero – considerato “radioattivo” e nefasto per l’immagine della maison. Non è la prima volta che la Le Pen si trova a combattere contro le chiusure nei suoi confronti. Anche nel 2016 all’epoca delle presidenziali che portarono al successo Macron, l’allora presidente Front national voleva sulla pratica del potere. «È troppo rischioso per la marca, potrebbe far fuggire alcuni autori. C’è soprattutto il timore di un flop in libreria. La sua immagine è ancora troppo sulfurea», commentò in forma anonima a Rtl un importante editore.

Marine Le Pen vola nei sondaggi e scatta l’ostracismo. Marine Le Pen fa paura. Vola nei sondaggi. L’ultima rilevazione, curata dall’istituto Harris Interactive, la accredita tra il 27% e il 29% al primo turno, davanti all’inquilino dell’Eliseo Emmanuel Macron, contro cui andrebbe a giocarsela al ballottaggio. La sua popolarità è in ascesa: gli elettori delusi dei Républicains, il partito della destra gollista che fu di Nicolas Sarkozy, guardano a lei e al suo programma, convinti dalla sua opera di “dédiabolisation”, ossia di ammorbidimento delle posizioni più estreme. E quindi a lei è proibito quel che in realtà è nelal tradizione di tutti gli sfidanti presidenti in pectore: pubblicare una sorta di libro-manifesto con cui mettere nero su bianco idee e programma politico.

Tutti i candidati all’Eliseo hanno potuto pubblicare. Lo fece Sarkozy nel 2006 con Témoignage, Hollande nel 2012 con “Changer de destin”, e Macron nel 2016 con Révolution. Ebbene solo con Marine Le Pen questa tradizione si dovrebbe interrpmpere, perché nessun editore è disposto a vpublbicare il suo libro. Il che è una sorpresa per lei. La sua immagine sembrava “sdoganata” e più “rassicurante” dopo avere delineato un programma più soft. Invece, ad oggi, il suo  Pour que vive la France non riverdrà la luce.  L’editore, le Éditions Grancher, una piccola casa editrice fondata nel 1952, nel 2006 aveva già pubblicato À contre-flots, autobiografia di Marine Le Pen. Ma- ricostruisce Libero- le cose sono cambiate. Nel settembre 2013, Grancher è entrato nella società editoriale Piktos e da allora sono stati “gentilmente” restituiti alla leader di Rn i diritti di pubblicazione. I nuovi proprietari non hanno la minima intenzione di avventurarsi nella pubblicazione del volume. Con toni netti: “mai più” un libro della Le Pen, per non “insozzare” nuovamente la reputazione di Grancher.

“Pubblicare la Le Pen è come pubblicare un serial killer”. Inaccettabile. Anche in Francia i “democratici” sono messi male a libertà e a censura. Il mondo intellettuale si trincera dietro l’ostracismo quando perde contatto con il Paese profondo. Alle forze governative non va giù l’accreditarsi della le Pen e il conseguente allontanamento dalla politica di Macron, che ha molto deluso. La gauche e gli editori di riferimento le tentano tutte per oscurarla. Qualche tempo fa il responsabile della saggistica di una casa editrice parigina se ne uscì così, leggiamo sempre sul quotidiano di Sallusti: «Pubblicare Marine Le Pen è come pubblicare un serial killer o un assassino di bambini: lo scandalo è assicurato a prescindere dai contenuti del libro. Dunque, non lo pubblichiamo». Sono passati anni ma il clima peggiora. Bruttissimo segnale. Se e quando troverà un editore coraggioso, le auguriamo quel che sta avvenendo con il libro di Giorgia Meloni: 5 edizioni, 100mila copie in poche settimane.

La libreria che boicotta la Meloni? Finanziata dalla Regione di Zingaretti. Alessandra Benignetti l'11 Maggio 2021 su Il Giornale. La libreria indipendente di Alessandra Laterza risulta tra quelle beneficiarie del contributo economico della Regione Lazio per i "progetti di promozione e diffusione della lettura". Peccato che le iniziative siano tutte orientate a sinistra...Qualcuno la difende, altri gridano alla censura. Quello della libraia di Tor Bella Monaca che ha annunciato che in nome della "resistenza" non venderà il libro autobiografico di Giorgia Meloni è diventato un vero e proprio caso politico. Tanto che ieri ai microfoni di Radio Uno, persino il segretario del Pd, Enrico Letta, per gettare acqua sul fuoco delle polemiche, si è precipitato ad annunciare che acquisterà il volume. "Voglio e mi interessa leggerlo, sono sincero", ha detto il leader Dem, dando una lezione di tolleranza. "No pasaran", resta invece il motto di Alessandra Laterza, che ha deciso di mettere l’autobiografia della Meloni nell’Index librorum. "Io questo libro non lo vendo", ha scritto chiaro e tondo sul suo profilo Facebook la proprietaria di Booklet Le Torri, piccola libreria di quartiere che ha aperto i battenti nel 2018 in questo fazzoletto di periferia romana. "So scelte, - rivendica - mejo pane e cipolla, che alimentare questo tipo di editoria…alla lotta e al lavoro, il mio è indipendente". "Aprire una libreria a Tor Bella Monaca non risponde all'esigenza di vendere solo libri ma anche di raccontare una forma di resistenza civile", ha spiegato Laterza all’Adnkronos. Nel negozio di Laterza, però, la politica, è stata protagonista in più di un’occasione. Qui ha ospitato i Dem Walter Veltroni e Roberto Morassut, e tra una decina di giorni accoglierà Alessandro Zan, primo firmatario del discusso ddl contro l’omotransfobia, per la presentazione del libro della scrittrice e attivista per i diritti Lgbt, Cristiana Alicata. Dibattiti perlopiù a senso unico, con buona pace dell'indipendenza. Del resto, è la stessa piccola imprenditrice romana a non farne mistero. "Sono più vicina alla sinistra e e la propaganda della destra su certi temi non mi interessa", ha detto alla stessa agenzia di stampa. Peccato che nel 2020 la sua attività, che come altre librerie indipendenti romane ha risentito della crisi prodotta dalla pandemia, sia stata beneficiaria di un contributo a fondo perduto erogato dalla Regione Lazio. Si tratta, in particolare, di un bando di Lazio Crea, società in house creata dalla giunta Zingaretti, finanziato con 500mila euro dalla Regione, che un anno fa ha sovvenzionato fino ad un massimo di 5mila euro i "progetti di promozione e diffusione della lettura per grandi e piccoli". Tra questi, secondo le carte visionate dal Giornale.it, anche quelli dichiaratamente schierati a sinistra di Alessandra Laterza, che nel 2016 è stata pure candidata del Pd nel VI Municipio. Nel febbraio del 2020 ad arrivare in soccorso della libraia, che già prima del Covid lamentava di essere a rischio chiusura, secondo quanto riportava l’agenzia Dire, erano scese in campo anche la presidente Dem del I municipio di Roma, Sabrina Alfonsi, e l’allora vice ministro dell’Istruzione in quota Pd, Anna Ascani, che aveva "visitato la libreria". La libreria "presidio culturale" – viene da aggiungere, della sinistra – è poi risultata beneficiaria del contributo in denaro - pubblico - messo a disposizione dalla regione per le librerie indipendenti.

Non solo. La libreria di Alessandra Laterza ha collaborato con Lazio Crea anche per l’organizzazione della rassegna cinematografica "R-Estate a Torbella", andata in scena dal 13 al 26 luglio dello scorso anno nella periferia romana. "La sedicente partigiana del terzo millennio si scopre essere una storica militante del Pd che guarda caso ha preso fondi da una società della giunta Zingaretti", è il commento di Chiara Colosimo, consigliere regionale di Fratelli d’Italia. "Onestamente dopo lo scandalo Concorsopoli non ci stupiamo più di niente, ma almeno abbiano la compiacenza di lasciare in pace Giorgia Meloni anche se ci rendiamo conto che la sua coerenza e il suo successo danno molto fastidio". "Boicottare il suo libro e spacciarlo come gesto di resistenza è quindi solo una ridicola pantomima. – accusa Colosimo - La verità è infatti che la libraia si rifiuta di vendere il libro della Meloni e anche altri, solo perché l'incasso, probabilmente, l'ha già fatto grazie ai fondi regionali messi gentilmente a disposizione dai suoi compagni di partito".

Dritto e rovescio Michela Murgia contro Paolo Del Debbio: "Meloni censurata? Assolutamente no". Libero Quotidiano il 21 maggio 2021. "Io sono Giorgia", il libro della leader di Fratelli d'Italia, sta avendo un grande successo nelle vendite; tuttavia tra alcuni librai e intellettuali - soprattutto di sinistra - c'è chi ha iniziato una campagna contro l'autobiografia di Giorgia Meloni e chi addirittura rivendica il diritto di non esporla in vetrina e metterla in vendita. Il libro starebbe suscitando diversi malumori nonostante non si tratti affatto di un manifesto politico. La scrittrice Michela Murgia si è schierata con chi decide di non dare spazio a "Io sono Giorgia". Raggiunta al telefono dall'inviato di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio su Rete 4, la scrittrice sarda ha spiegato: "In Italia escono 170 libri al giorno. Nessun libraio vende tutti quei 170 libri, li compra e li espone. Ciascuno sceglie quello che corrisponde alla sua clientela. Se io sono un panettiere che ha solamente clienti celiaci è inutile che io venda pane con glutine". Un paragone improprio, come le ha fatto notare il conduttore. Che poi ha sottolineato come una libreria debba essere considerata sempre un simbolo di libertà del pensiero. La Murgia però ha controbattuto: "No, la biblioteca è il simbolo dello scambio di idee e della cultura. Infatti il libro di Giorgia Meloni è in tutte le biblioteche". Quando Del Debbio ha fatto notare alla scrittrice che la scelta di alcuni librai di non esporre il libro della Meloni potrebbe essere vista come una censura, la Murgia al telefono non ha voluto sentire ragioni: "Assolutamente no. Un libraio può anche decidere di fare scelte politiche. È legittimo o non è legittimo in democrazia fare delle scelte sulla merce che si vuole esporre?".

Murgia attacca la Meloni: "Come vendere pane col glutine..." Francesca Galici il 21 Maggio 2021 su Il Giornale. Michela Murgia si appella alla democrazia per difendere la libraia che non vende il libro di Giorgia Meloni, un concetto a senso unico. Il libro di Giorgia Meloni sta suscitando qualche malumore di troppo a sinistra. Il motivo? In apparenza nessuno giustificato, dato che si tratta di un'autobiografia e non di un manifesto politico. Ma, se anche fosse, l'Italia è uscita da un pezzo dalla censura editoriale, pertanto non ci sarebbero comunque ragioni per boicottare un libro. Eppure, gli intellò di sinistra e alcuni librai particolarmente sensibili hanno iniziato una campagna contro Io sono Giorgia, che sta riscuotendo un grande successo di vendita. La trasmissione Dritto e Rovescio condotta da Paolo Del Debbio e in onda il giovedì in prima serata su Rete4 ha raggiunto telefonicamente Michela Murgia, che ha avvallato le idee di chi ne ostacola la vendita. "In Italia escono 170 libri al giorno. Nessun libraio vende tutti quei 170 libri, li compra e li espone. Ciascuno sceglie quello che corrisponde alla sua clientela. Se io sono un panettiere che ha solamente clienti celiaci è inutile che io venda pane con glutine", ha affermato Michela Murgia. Alla giusta obiezione del giornalista, che ha replicato l'inconsistenza del paragone tra una panetteria e una libreria, che è un simbolo di libertà di pensiero e di scambio di cultura la scrittrice ha ribattuto: "No, la biblioteca è il simbolo dello scambio di idee e della cultura. Infatti il libro di Giorgia Meloni è in tutte le biblioteche". Il giornalista al telefono con Michela Murgia, quindi, ha incalzato la scrittrice sarda sull'idea che la non vendita del libro del leader di Fratelli d'Italia possa essere visto come una censura alla cultura di una corrente di pensiero non allineata. Ma la Murgia non ci sta: "Assolutamente no. Un libraio può anche decidere di fare scelte politiche. È legittimo o non è legittimo in democrazia fare delle scelte sulla merce che si vuole esporre?". Sarebbe tuttavia interessante capire come avrebbe reagito Michela Murgia, così come chiunque altro schierato a sinistra, se a essere messo al bando in alcune librerie fosse stato un suo libro o un altro di un personaggio a lei affine. E non è difficile capirlo. Infine, al giornalista che fa notare il passato da candidata nel Partito democratico della prima libraia che ha orgogliosamente dichiarato di non vendere il libro di Giorgia Meloni, Michela Murgia ha risposto: "C'è una legge che vieta a una libraia che è schierata politicamente di non vendere dei libri di cui si sente antagonista? Ci mancherebbe pure che la libraia dovesse, per garantire la sua democraticità, esporre libri contrari alle sue idee".

Alessandro Sallusti: "Non tocca alla Meloni, ma a Veltroni e compagni", chi si deve scusare per il proprio passato. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. «Io sono Giorgia», l'autobiografia edita da Rizzoli di Giorgia Meloni, è appena uscita e già è in testa alle classifiche di vendita. Tanto per cambiare, il successo di pubblico non coincide con quello di critica. Sui giornali si parla del libro per stroncarlo a prescindere: c'è la spocchia del critico letterario che scambia una biografia per un romanzo, cosa che non è, e c'è chi l'ha spulciato a caccia di anomalie nel racconto, manco fossimo in tribunale. E poi c'è chi - come ha fatto anche ieri Gad Lerner sul Fatto Quotidiano - contesta alla Meloni «amnesie e buchi neri» rispetto al fascismo. Premesso che non sono l'avvocato difensore di Giorgia Meloni, mi chiedo come in una sua autobiografia avrebbe potuto trovare spazio il fascismo, essendo la signora nata nel 1977, anno in cui Gad Lerner di anni ne aveva 23 e già faceva politica nel quotidiano Lotta Continua, l'organo della sinistra extraparlamentare il cui vertice fu condannato per l'omicidio del commissario Calabresi. Intendo dire che ci risiamo con il solito vizio della sinistra radical chic, quello di non voler fare i conti con il proprio passato ma pretendere che lo facciano gli avversari, anche quando questi sono totalmente estranei ai fatti che gli vengono rinfacciati. Se un politico, solo perché di destra, può essere tranquillamente inchiodato al fascismo, che dire dei politici che hanno militato nel partito che incarnava l'ideologia che ha provocato la più grande tragedia del Novecento, cioè quella comunista? Gad Lerner è stato convintamente comunista e non mi risulta, per esempio, che abbia mai rinfacciato a Napolitano di essere non erede ma entusiasta sostenitore di alcuni dei crimini del regime sovietico. Gad Lerner e i suoi emuli, all'uscita di uno dei tanti libri di Veltroni o di D'Alema, non hanno mai scritto: sì, però non dici che sei stato comunista, cioè parente contemporaneo di chi ha prodotto i gulag, la privazione di libertà fondamentali e tanta povertà. No, si sono tutti genuflessi per tessere elogi, peraltro immeritati, alle capacità narrative dei compagni. Caro Gad, fattene una ragione. Giorgia Meloni non ha nulla a che fare con il fascismo, e se qualche nostalgico le si accoda in scia non è colpa sua. Se uno come Napolitano ha potuto indisturbato rimuovere il proprio passato e salire al Colle, significa che ognuno ha le sue amnesie. E quelle della sinistra sono grandi come una casa.

Vittorio Sabadin per “Specchio – La Stampa” il 23 maggio 2021. Benjamin Disraeli fu primo ministro della Gran Bretagna per due volte nella seconda metà dell'800, ed è ricordato anche per avere conseguito il più grande travaso di voti da sinistra a destra della storia del Regno Unito. Disraeli era convinto che dentro a ogni operaio e a ogni proletario ci fosse un conservatore: il compito di un politico tory era di tirarlo fuori, come faceva Michelangelo con le statue prigioniere dei blocchi di marmo. Un sondaggio commissionato dal Mail on Sunday sembra dargli ragione: gli elettori laburisti (e a maggior ragione anche gli altri) sono convinti che il partito appoggi senza riserve molte delle iniziative del politicamente corretto: abbattere le statue dei grandi uomini, come Churchill, che so no stati razzisti; scendere in piazza anche con manifestazioni violente in difesa dell'ambiente; permettere ai maschi di cambiare sesso e di accedere ai servizi delle donne; bloccare la pubertà dei bambini in attesa che decidano quale sesso avere; ribattezzare l'allattamento al seno "allattamento al petto"; ridurre le pene ai criminali. Il partito di Keir Stanner non appoggia tutte queste campagne, ad esempio è contro l'abbattimento delle statue. Ma gli elettori hanno un'altra impressione, e in maggioranza si dissociano da queste questioni, che considerano importate dall'America e contrarie al senso comune. Il Mail o n Sunday è un giornale di destra, ma ha toccato un tasto dolente per la sinistra: i laburisti hanno perso il contatto con i lavoratori e vincono ormai solo a Londra, tra i radical-chic di Islington. I loro simpatizzanti storici non condividono invece più l'adesione quasi automatica a ogni iniziativa che abbia l'apparenza di essere risarcito-ria e progressista. Boris Johnson lo ha capito e, come Disraeli, punta a tirare fuori il conservatore che si nasconde in ogni proletario. Sa che cosa dicono gli operai nei pub quando si parla di cambiamento di sesso e di condanne ai criminali, ella già annunciato di voler fermare la furia iconoclasta che dilaga nelle università, con gli studenti che vogliono abbattere le statue dei fondatori e sostituire lo studio della musica di Mozart e Beethoven con il reggae. Il premier britannico sogna di ottenere un secondo mandato, ma per averlo non può fidarsi del suo partito, nel quale ha troppi nemici. Come fanno con successo i populisti in ogni paese, cerca voti dovunque interpretando il senso comune del-la gente, quello che i laburisti e molti partiti di sinistra sembrano aver dimenticato.

Franco Stefanoni per corriere.it il 21 maggio 2021. Diventa un caso il libro di Giorgia Meloni, Io sono Giorgia, che il 25 maggio doveva essere presentato all’Istituto economico statale Antonio Maria Jaci di Messina. La leader di Fratelli d’Italia avrebbe dovuto partecipare con un collegamento online, così come la parlamentare Ella Bucalo, responsabile scuola di FdI, ma alcuni genitori non hanno gradito la «obbligatorietà» della partecipazione all’evento e, dopo aver sollevato la questione, Fratelli d’Italia ha smentito che Meloni avesse concordato una sua presenza in collegamento web.

L’accusa dei genitori. Secondo una prima ricostruzione, i ragazzi erano stati avvertiti tramite una circolare in cui si invitava «l’intera comunità scolastica» a partecipare. Gli assenti non avrebbero avuto i crediti formativi previsti. Nella circolare era scritto: «I docenti vigileranno sugli alunni in presenza, provvederanno a mantenere il collegamento all’incontro per tutta la sua durata; avranno cura di rilevare le presenze degli alunni, valide come Pcto», cioè i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento «di riferirle successivamente ai tutor di competenza». Dinah Caminiti, madre affidataria di un ragazzo egiziano di 17 anni, via social aveva parlato di «campagna elettorale travestita da presentazione di un libro. È gravissimo. Mio figlio, 17 anni, egiziano, musulmano, arrivato sulla costa siciliana con il barcone, in affido da 6 anni ad una famiglia non tradizionale (io e il mio compagno non siamo sposati), ha l’obbligo da parte della scuola superiore cittadina, che frequenta con ottimi risultati, di partecipare alla presentazione del libro della signora Meloni, pena assenza da giustificare. All’incontro non è previsto un dibattito libero con gli alunni, ma già organizzato. La signora Meloni chiede la libertà di educazione e a casa mia sfonda una porta aperta. Abbiamo insegnato ai nostri figli, l’importanza e il rispetto delle persone e delle parole. Penso anche ai tanti studenti della comunità Lgbt. Io non rimango a guardare. Che si attivi immediatamente la scuola ad organizzare un contraddittorio e/ o ad invitare altrettanti scrittori di appartenenza politica opposta a quella dell’onorevole Meloni. Conto sul vostro appoggio».

La replica di FdI. Ma poi sono arrivate le precisazioni. Ella Bucalo, sentita da Adnkronos, ha infatti raccontato: «È una vicenda assurda, non ne so nulla. Sono stata contattata dalla scuola, ma non avevo alcun accordo definitivo per partecipare alla lezione online. Con me c’era stata solo la proposta di pensare a un incontro, nulla di definito, tra l’altro, la vicepreside che ho contattato questa mattina mi ha assicurato che si tratta di una iniziativa extra-curriculare, senza obbligo di frequenza e senza crediti». Secondo Bucalo «mi avevano detto che si trattava di incontri con gli autori di libri che fanno normalmente, di un’attività di routine, io della circolare che parla della mia presenza e di quella della Meloni non ne so nulla». Anche Meloni, via ufficio stampa, ha smentito la partecipazione all’evento. Aggiungendo: «Si precisa, inoltre, che il presidente Meloni non ha mai neanche ricevuto un invito a questa iniziativa e non avrebbe in ogni caso accettato, ritenendo da sempre che la presenza degli esponenti politici nelle scuole non possa essere in alcun modo imposta agli studenti».

Sinistra italiana: «Presenteremo un’interrogazione parlamentare». Nel frattempo, la vicenda ha sollevato immediate polemiche. «Fanno bene gli studenti e le famiglie a protestare. Si sospenda l’iniziativa», ha detto il segretario nazionale di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, «il ministro Bianchi attivi a questo punto l’Ufficio scolastico regionale della Sicilia, faccia chiarezza fino in fondo e siano presi i provvedimenti necessari nei confronti della dirigente scolastica, che non può permettere che una scuola diventi sede di un comizio di FdI e soprattutto che gli venga data dignità formativa. Sulla vicenda sarà presentata un’interrogazione parlamentare».

L'Anpi: «Fatto grave e sconcertante». Anche Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) ha reagito: «Non può sfuggire la gravità e la sconcertante singolarità del fatto: è inammissibile che la leader nazionale di un partito, nonché parlamentare in carica, sia protagonista di un incontro con studenti e insegnanti; ciò produrrebbe un precedente didattico che va bloccato. Non esiste e non deve esistere alcun nesso tra la funzione formativa pubblica e l’esposizione di ragioni politiche e partitiche, ancorché dietro la copertura della presentazione di un’autobiografia, peraltro tutta politica. L’Anpi fa un appello forte alle autorità competenti affinché l’iniziativa venga immediatamente sospesa».

Censura, alla Feltrinelli non c’è spazio per il libro di Mantovano sul ddl Zan: la denuncia dell’editore. Eleonora Guerra venerdì 14 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Uscito da due mesi, richiesto dai clienti e, ciononostante, non reperibile nelle librerie Feltrinelli. È la sorte subita dal libro Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo, a cura di Alfredo Mantovano, secondo quanto denunciato dalla casa editrice Cantagalli. Che, parlando di «grave disservizio», ha rimarcato come il caso del libro contro il ddl Zan sembri «assumere i connotati di una vera e propria censura o “ostruzionismo commerciale”».

La denuncia della casa editrice Cantagalli. «Siamo purtroppo costretti a comunicare un grave disservizio a danno del volume stampato per i nostri tipi», si legge in una nota della Cantagalli. «Con amarezza, infatti – vi si legge – anche per un dovere di tutela dell’opera in questione e degli autori, dobbiamo costatare che, nonostante il libro sia stato distribuito in libreria dal 18 marzo 2021, dopo ripetute segnalazioni di clienti che desideravano acquistare il saggio presso la catena di librerie Feltrinelli, il volume a tutt’oggi non è presente in tale catena (è presente invece e disponibile su Librerie Feltrinelli on-line). E che i clienti interessati al libro non hanno la possibilità ancora oggi di acquistarlo, neppure ordinandolo, presso tale catena».

La richiesta di chiarimento e le scuse della Feltrinelli. L’editrice Cantagalli ha fatto sapere anche di aver chiesto conto alla Feltrinelli di queste segnalazioni e di aver ricevuto delle scuse. «Su nostra sollecitazione – è spiegato nel comunicato – il nostro distributore, Messaggerie Libri spa, oggi ha chiesto chiarimenti ufficiali alla direzione della suddetta catena, ricevendo in risposta una mail dove, tra le varie cose, si chiede scusa, dichiarando il proprio dispiacere per l’accaduto e promettendo di ordinare il libro».

Cantagalli: «Librerie libere, ma rifiutare ordini è altro». Cantagalli, quindi, ha chiarito la propria convinzione del fatto che «la libreria o la catena di librerie ha tutta la libertà di scegliere se ordinare, esporre e vendere un libro, compiendo valutazioni di carattere commerciale o valutandone il contenuto. Quindi, essa può rifiutare di accogliere un libro nei propri scaffali, se non ritiene di poterlo vendere o se ritiene che il libro non abbia contenuti interessanti o adeguati». «Tuttavia – ha però puntualizzato la casa editrice – la libreria o la catena di librerie non ha diritto di rifiutare un ordine di una persona che è interessata al libro e intenda ivi acquistarlo. Tanto meno la libreria può addurre scuse al cliente che vuole acquistare il libro affermando che Cantagalli non è distribuita da Messaggerie Libri spa o che il libro è fuori catalogo ed è reperibile solo nelle bancarelle dei libri usati».

Il ddl Zan miete la prima vittima: le librerie Feltrinelli "censurano" il volume di Alfredo Mantovano. Libero Quotidiano il 14 maggio 2021. Non è ancora stato nemmeno approvato e già, quello che per ora è ancora soltanto un disegno di legge, sta iniziando a mietere le prime vittime. In una nota diffusa dalla casa editrice Edizione Cantagalli, vengono infatti sottolineati gli ostacoli incontrati con le librerie Feltrinelli nella vendita di un volume curato dal Centro Studi Rosario Livatino, in libro che commenta articolo per articolo il ddl Zan. L'obiettivo della legge è quindi già stato raggiunto prima ancora che questa sia entrate in vigore: censurare ogni tipo di pensiero e riflessione che pone semplici perplessità nei confronti di una ideologia che vuole essere imposta. "Siamo purtroppo costretti a comunicare un grave disservizio a danno di un volume stampato per i nostri tipi e intitolato Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo, a cura di Alfredo Mantovano" si legge nella nota (qui l'intervista del vicedirettore di Libero, Fausto Carioti, all'autore del saggio). "Nonostante il libro sia stato distribuito in libreria dal 18 marzo 2021, dopo ripetute segnalazioni di clienti che desideravano acquistare il saggio presso la catena di librerie Feltrinelli, il volume tutt'oggi non è presente in tale catena (è presente invece e disponibile su Librerie Feltrinelli on line) e che i clienti interessati al libro non hanno la possibilità ancora oggi di acquistarlo, neppure ordinandolo, presso tale catena". La Catena Librerie Feltrinelli ha quindi mandato una email di scuse alla Cantagalli, per aver improvvisamente rimosso il libro dai propri scaffali e dal catalogo online. "Accogliendo con piacere le scuse della Catena Librerie Feltrinelli" prosegue la nota "Ci preme tuttavia rimarcare il fatto che il comportamento sopra descritto sembra assumere i connotati di una vera e propria censura o “ostruzionismo commerciale”, che certamente non si confà ad un paese democratico come il nostro che all’art 21 della Costituzione riconosce la libertà di pensiero tramite la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".  

"Non lo vendono, è censura": il libro anti ddl Zan sparisce dagli scaffali. Luca Sablone il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. La denuncia della casa editrice Cantagalli: "Una libreria non ha il diritto di rifiutare un ordine di una persona che è interessata al libro, è ostruzionismo commerciale". La casa editrice Cantagalli ha comunicato un grave disservizio ai danni del volume intitolato "Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo" a cura di Alfredo Mantovano. L'ex sottosegretario al ministero dell'Interno, che ha destrutturato punto per punto le ragioni della legge contro l'omotransfobia, ritiene che il dibattito sia puramente ideologico e che il fine riguarderebbe non soltanto gli aspetti giuridici ma anche un complesso disegno culturale. Nel testo curato dall'attuale vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino vengono elencati infatti diversi problemi che potrebbero riguardare la sfera delle opinioni personali e i presunti rischi che correrrebbe la libertà d'insegnamento.

"La legge Zan non va". La casa editrice Cantagalli attraverso una nota ha fatto sapere che, nonostante il libro sia stato distribuito in libreria dal 18 marzo 2021, "dopo ripetute segnalazioni di clienti che desideravano acquistare il saggio presso la catena di librerie Feltrinelli, il volume a tutt'oggi non è presente in tale catena (è presente invece e disponibile su Librerie Feltrinelli on-line) e che i clienti interessati al libro non hanno la possibilità ancora oggi di acquistarlo, neppure ordinandolo, presso tale catena". Dall'ufficio stampa di Cantagalli fanno sapere che il loro distributore, Messaggerie Libri spa, ha chiesto chiarimenti ufficiali alla direzione della catena in questione. Via mail è poi arrivata una risposta in cui, tra le altre cose, "si chiede scusa dichiarando il proprio dispiacere per l'accaduto e promettendo di ordinare il libro".

"Ostruzionismo commerciale". Cantagalli da una parte sottolinea che comunque la libreria o la catena di librerie ha tutta la libertà di scegliere se ordinare, esporre e vendere un libro dopo aver compiuto valutazioni di carattere commerciale o aver valutato il contenuto: "Quindi essa può rifiutare di accogliere un libro nei propri scaffali se non ritiene di poterlo vendere o se ritiene che il libro non abbia contenuti interessanti o adeguati". Ma dall'altra sottolinea che la libreria o la catena di librerie "non ha diritto di rifiutare un ordine di una persona che è interessata al libro e intenda ivi acquistarlo". Accogliendo le scuse arrivate dalla Catena Librerie Feltrinelli, la casa editrice Cantagalli ha rimarcato l'attenzione sul comportamento adottato nei confronti del volume sul ddl Zan: "Sembra assumere i connotati di una vera e propria censura o 'ostruzionismo commerciale', che certamente non si confà ad un paese democratico". Senza dimenticare infatti che l'articolo 21 della nostra Costituzione riconosce la libertà di pensiero tramite la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La nota conclude: "Tuttavia siamo convinti che i tempi in cui i libri venivano bruciati nella pubblica piazza siano ormai lontani ricordi di un passato che ci auguriamo vivamente non ritorni mai più".

"È stato promesso che avrebbero ovviato al tutto, ma al momento non ho avuto riscontri. Le richieste dei clienti non sono state assecondate: chi va da Feltrinelli a ordinare il libro non lo trova e gli viene detto che verrà eventualmente consegnato dopo 15-20 giorni", ha dichiarato a ilGiornale.it​ il direttore della casa editrice Cantagalli.

Il silenzio della stampa. In Italia ci sono quasi sei milioni di poveri, ma per nessuno sono un’emergenza.

Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Giugno 2021. Li avete letti i dati sulla povertà diffusi dall’Istat? Ieri, su questo giornale, ne ha parlato ampiamente monsignor Paglia. Ricordando gli insegnamenti di Primo Mazzolari, un prete del novecento che teorizzava la Chiesa dei poveri già ai tempi di Pio XII, camminando controvento e precorrendo Roncalli e Bergoglio. Le cifre sono da paura: il numero dei poveri è aumentato per la prima volta dal 2005, ed è aumentato in misura spaventosa: un milione di poveri in più. In un solo anno. Nel 2019 erano quattro milioni e seicentomila, ora sono cinque milioni e seicentomila. Quasi un decimo dell’intera popolazione italiana. Mi ha colpito il fatto che la notizia non sia stata considerata da prima pagina da molti dei grandi giornali. Il Corriere, Il Fatto, la Stampa, il Messaggero. Tra quelli che Travaglio chiama sempre i “giornaloni” (compreso il suo). l’unico che le ha dato risalto è stato il Giornale. Che è un quotidiano di destra poco avvezzo a occuparsi di argomenti classicamente di sinistra. Probabilmente lo ha fatto per la semplice ragione che il giornale è pieno di giornalisti, a partire dal nuovo direttore, e che quindi quando vedono una notizia tendono a pubblicarla. Magari a valorizzarla. Poi ognuno può interpretarla come vuole, ma questa è un’altra questione. Ora, lasciando stare il disinteresse di gran parte del nostro sistema informativo per le notizie (basta ripensare a come ha del tutto ignorato “magistratopoli”, forse lo scandalo politico più clamoroso del dopoguerra), parliamo un attimo della politica. So bene che ha tante emergenze delle quali occuparsi. Non le sottovaluto. Negli ultimi anni, col passaggio al governo dei verdi, dei gialli e anche dei rosa, abbiamo scoperto che c’era un’emergenza spaventosa: il traffico di influenze. E poi un’altra emergenza: il respingimento in mare dei naufraghi. E poi un’altra ancora: il diritto da assicurare ai cittadini di sparare ai ladri e ucciderli senza commettere reato. Poi c’è l’urgenza di impedire ai carcerati di uscire dal carcere se sono malati, magari a pochi mesi dall’estinzione della pena. L’urgenza di arginare l’offensiva stragista mafiosa, anche se i dati ci dicono che gli omicidi di mafia sono circa 10 volte meno delle ’uccisioni di donne da parte dei partner, e infine c’è l’urgenza delle urgenze: quella di processare Berlusconi. Benissimo. E un milione di poveri in più? E comunque un numero di poveri che supera la misura dell’intera popolazione di Roma, Milano e Torino mese insieme, ed è superiore anche all’intera popolazione della Croazia? Pare che questa non sia un’emergenza. Ci dicono gli esperti che l’aumento della povertà è solo una conseguenza della pandemia e della crisi economica prodotta dalla pandemia. Già: ci ero arrivato da solo. In gran parte è frutto del lavoro nero che è sparito in tantissime aziende ed esercizi commerciali, senza lasciare tracce visibili, né casse integrazione, né assegni di disoccupazione: solo fantasmi. Ma fantasmi precipitati sotto la linea della povertà, cioè della dignità umana. È o non è questo, prima di tutti gli altri problemi, il problema essenziale del dopo-pandemia? Nel Recovery Plan ce ne siamo occupati? I partiti politici hanno presente questa circostanza della storia? Intendono occuparsene, preparare delle contromisure? Oppure ci limiteremo a star tranquilli, a dar retta a Di Maio che pensa di avere risolto il problema con una legge sul reddito di cittadinanza che è la più scombiccherata di tutte le leggi scombiccherate di riforma dello Stato sociale? Lyndon Johnson, che magari molti di voi non ricordano più, ma che è stato un importante presidente americano, nel 1964 preparò un piano sociale, molto serio, per sradicare la povertà. Voleva davvero abolirla. La cosa non gli riuscì perché si impantanò nella demenziale guerra del Vietnam. Però il piano era una cosa molto seria. Prevedeva un reddito universale, che è una cosa molto più saggia e concreta, meno propagandistica e illusoria del reddito di cittadinanza. Perché non si basa sul clientelismo ma sui diritti universali. Costa? Certo, non lo puoi fare con la flat tax. Ma dal 1964 sono passati quasi sessant’anni, la guerra del Vietnam è finita da 50: vogliamo rimetterci mano a quel progetto?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il terremoto della magistratura. Loggia Ungheria, i media complici restano tutti zitti sperando di farla franca…Angela Azzaro su Il Riformista l'8 Maggio 2021. Corrado Formigli, durante la puntata di giovedì di Piazza Pulita, incalza Luca Palamara sul Sistema ma quando si parla del ruolo dell’informazione fa finta di nulla. I giornalisti, secondo lui, devono per forza di cose pubblicare le carte che arrivano dalle procure, la fuga di notizie riguarda esclusivamente i pm. A parte che questa volta ci devono spiegare bene perché il Fatto quotidiano e Repubblica hanno deciso di non dare notizia delle carte spedite dal Csm, il problema ancora maggiore è capire come – dopo anni e anni di circo mediatico giudiziario – nessuno sia capace di fare un minimo di autocritica. Non si tratta di una questione moralistica, ma democratica. Se anche l’informazione non si mette in discussione, il terremoto che sta scuotendo la magistratura italiana non serve proprio a nulla. Zero. Eppure il Sistema dell’informazione non viene toccato. Osserva le liti tra magistrati con estremo gusto e legge il bestseller di Palamara come se parlasse di qualcosa che non lo riguarda. Ma se la questione giustizia è diventata un’emergenza di questo Paese è perché giornali e tv sono stati complici. Certo, per Formigli c’è in gioco la libertà d’espressione, un valore indiscutibile. Ma che cosa c’entra la libertà d’espressione quando le carte passate dalle procure alle redazioni violando il segreto istruttorio contengono i nomi di indagati che neanche sanno di esserlo? E cosa c’entra con la libertà d’espressione il fatto che questi nomi vengano sbattuti in prima pagina a caratteri cubitali? E cosa c’entra con il fatto che quelle persone e spesso i loro cari vengano marchiati con il fuoco della colpa, ancora prima del rinvio a giudizio o comunque della condanna definitiva? La risposta è facile, la soluzione lontana. Perché il Sistema dell’informazione continua a far finta di nulla. Ieri ha goduto della caduta di Palamara, come oggi gode della caduta del suo (ex) mito Davigo. Continua nella stessa direzione di marcia pensando di farla franca, di potere continuare come se niente fosse. Ma la sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia dovrebbe far venire qualche dubbio, far capire che prendere per buone le notizie che arrivano dalle procure senza fare verifiche, senza ricordarsi il valore della presunzione di innocenza ha minato anche la credibilità dei giornali. L’intreccio tra questi due mondi è sempre più visibile. Prendiamo un altro caso che in questi giorni sta occupando le pagine dei giornali: il presunto scoop di Report contro Renzi, beccato nell’autogrill di Fiano Romano da una fantomatica signora, la cui versione traballa ogni ora di più. Un servizio montato ad arte per incutere dubbi, ma senza nessun dato che possa avvalorare alcunché, men che mai che dietro la caduta del governo Conte ci sia l’ennesimo complotto. Quale credibilità può avere un’informazione che si fa lotta politica e che pensa di screditare l’avversario usando questi metodi? Se l’obiettivo è gettare fango, ogni mezzo è lecito. Come quello usato da Report quando realizza lunghe interviste e le taglia stravolgendole completamente. È un metodo collaudato. Si fa credere all’intervistato che la sua versione possa essere usata in maniera da non distorcerne il pensiero, poi si prendono alcune frasi qua e là e si montano a piacimento. Lo scorso lunedì è stato fatto sia con Renzi che con il direttore di questo giornale. Si chiama spazzatura, non certo giornalismo. Ma anche in questo caso nessuno dice niente. O meglio qualcuno prova a dirlo. Ha fatto bene Davide Faraone di Italia Viva a ricordare al direttore di Raitre Franco Di Mare che qualora viale Mazzini querelasse Fedez per avere tagliato (e secondo loro stravolto) la telefonata in cui gli si facevano pressioni per non usare il testo a favore della legge Zan sul palco del Primo Maggio, allora dovrebbe allo stesso tempo procedere contro la trasmissione di Report che ha fatto anche di peggio con altri intervistati. Se il valore è la libertà di espressione, esiste anche quella dei cittadini, non solo dei giornalisti di fare come accidenti pare a loro. Tagliare le frasi, montarle liberamente è un metodo violento, autoritario, che niente ha a che fare con la democrazia e che fa il paio con chi in questi anni ha alimentato l’onda populista e complottista. La campana suona per la magistratura, ma anche per noi.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

È scoppiata la guerriglia. La magistratura ha perso tutto (anche l’onore), ma non il suo potere sulla stampa. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Proviamo a fare un riassunto delle ultime giornate, così, per semplicità di ragionamento.

1) Il dottor Davigo – raggiunto da un avviso di garanzia per aver inguattato il verbale con le dichiarazioni dell’avvocato Pietro Amara, che rivelava l’esistenza di una potentissima Loggia Ungheria – si difende vuotando il sacco e chiamando a correi, nell’ordine: Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione (cioè in pratica numero 1 della magistratura); David Ermini, vicepresidente del Csm; i Cinquestelle Fulvio Gigliotti e Nicola Morra, rispettivamente capo dei 5 Stelle in Csm e presidente dell’antimafia; Giuseppe Cascini, capo di fatto di Magistratura democratica; e infine il Procuratore di Milano Greco, il suo aggiunto e vari altri magistrati e politici di peso. Un terremoto.

2) Giovanni Salvi, chiamato in causa da Davigo, replica chiedendo che sia rimosso dal suo incarico (e forse inibito a fare mai più iil Pm), il sostituto milanese Paolo Storari, e cioè l’uomo che ha scoperto la Loggia Ungheria ma non ha potuto indagare perché bloccato dal procuratore. Salvi dice: puniamo lui, non chi l’ha bloccato.

3) Una commissione del Csm – con il voto determinante proprio di Gigliotti, insieme a due consiglieri “casciniani” di stretta osservanza, e a Sebastiano Ardita (che è uno dei magistrati accusati da Amara di far parte della Loggia Ungheria) – vota una mozione di censura della riforma Cartabia, e chiede che il plenum del Csm approvi questa censura. La censura, per ora, viene bloccata da un intervento secco del Presidente della Repubblica.

5) La Procura di Milano scende in campo compattissima contro Roma, contro il Csm, contro Salvi e – di passaggio – anche contro il procuratore Greco, e sottoscrive un documento molto aspro a difesa del Pm Storari. Violando, probabilmente, qualche regola, e rivendicando la propria autonomia da tutto e il proprio potere, ma sbattendo sul tavolo l’evidente ingiustizia verso Storari e la chiarissima volontà di insabbiamento da parte di Roma, del Csm, e del procuratore generale della Cassazione. Il documento è firmato non solo dalla stragrande maggioranza dei sostituti e degli aggiunti, ma anche da un gran numero di Gip e di giudici. Una rivolta in piena regola. Senza precedenti nella storia della repubblica.

Ce n’è abbastanza? Gli stati maggiori della magistratura sono travolti da un terremoto, in gran parte autoprodotto, e ora stanno vivendo uno stato di guerriglia permanente, con scambio di fendenti e accuse davvero sanguinose. I cittadini guardano, e alcuni di loro si chiedono: ma è questa gente qui che poi dovrà giudicare i nostri eventuali misfatti?

Cerchiamo di dare un filo a tutti questi avvenimenti. Il filo è abbastanza semplice: un sostituto procuratore di Milano, Paolo Storari, interrogando il famoso avvocato Amara (che parecchi altri magistrati avevano già interrogato ma forse senza andare molto a fondo) scopre che probabilmente esiste una loggia segreta, chiamata Loggia Ungheria – più o meno massonica – la quale raduna magistrati, avvocati, dirigenti delle forze dell’ordine, giornalisti e politici, e che in vari modi è in grado di dirigere o comunque di condizionare il funzionamento della magistratura. Sia nella fase delle nomine, e dunque dell’organizzarsi del potere, sia nel momento degli avvisi di garanzia ai politici e delle sentenze, o almeno delle sentenze importanti. Questa rivelazione è una bomba atomica. Il Pm Storari viene invitato dai suoi superiori a lasciar perdere. Lui si rivolge a Piercamillo Davigo, il savonarola della magistratura del ventunesimo secolo, e denuncia il fatto. Davigo, a quanto sembra, ne parla un po’ con tutti, ma nessuno ne vuole sapere. Alla fine è una talpa, forse la segretaria di Davigo, che manda il plico ad alcuni giornali (tra i quali Il Fatto). Ma anche i giornali ignorano. L’omertà raggiunge livelli inauditi e dà la sensazione netta di una Spectre protetta da lamiere invalicabili.

Alla fine le carte finiscono in mano al magistrato Nino Di Matteo, e a Di Matteo tutto puoi dire (e noi glielo diciamo spesso) meno che accusarlo di essere un dipendente del potere. E infatti lui grida che il re è nudo, come fece il bambino della favola, e rende noto il dossier Storari.

Voi dite: a quel punto il gioco si spezza? Macché! I magistrati continuano a fare come pare a loro, le gerarchie restano quelle, nessuno si dimette, ai giornali viene imposto di mettere la sordina a questa Loggia Ungheria, tutto finisce nel silenzio tanto da dare a Giovanni Salvi la sensazione di potere, senza provocare contraccolpi, chiedere la rimozione del magistrato colpevole di avere parlato di questa Loggia.

E invece scoppia la rivolta. E parte da Milano, che è una Procura che non ha mai sopportato il potere romano. E così si arriva a questo documento dei 54 magistrati milanesi, che poi diventano cento e in serata 150, cioè della stragrande maggioranza dei magistrati, che sparano a palle incatenate. Obiettivo, un po’ dichiarato e un pop’ sottinteso, il Csm e la Procura generale.

E ora? Il partito dei Pm stavolta è del tutto impreparato. Si sentiva ancora forte, aveva lanciato l’offensiva contro il governo. Ora però sbanda. Potrà ignorare la sberla ricevuta da Milano?

E la politica potrà continuare a far finta di nulla? Quello che più colpisce in questo marasma è proprio la politica. Guarda, magari sorride, tace. Può pensare che tutto quello che sta succedendo non la riguardi?

Il paese si trova in mano a una magistratura del tutto delegittimata nei suoi vertici. Si sta allargando l’area di quelli che ora capiscono che quel gruppo degenerato di potere che si è impossessato della giustizia italiana, ha gettato nel fango ogni idea di giustizia, che i processi non sono affidabili, che le riforme ballano sotto il ricatto di gruppi sovversivi di magistrati e giornalisti. La politica tace? Subisce il ricatto dei ragazzi di Conte e Travaglio? Si nasconde dietro l’idea che la giustizia è cosa che riguarda solo la magistratura? Oppure nelle prossime ore assisteremo finalmente all’emergere di qualche barlume di coraggio? Si sono mossi persino i magistrati milanesi, diobuono, possiamo sperare in un sobbalzo di coscienza di qualche politico?

P.S. Quale può essere il sobbalzo? Semplicissimo: chiedere che si sciolga il Csm. Come si può pensare di lasciare la Giustizia italiana nelle mani di un Csm che ormai ha perso ogni credibilità e anche ogni dignità. Composto in parte non piccolissima da elementi chiamati in causa nel caso Palamara e nel caso Storari, eletti grazie alle pressioni delle lobby, delle correnti, dei gruppetti di potere, in un gioco diabolico di pressioni e di ricatti? E forse alla mercé di questa famosa Loggia Ungheria, che se esiste è una pericolosissima associazione a delinquere.

Ogni minuto che il Csm resta al suo posto è una nuova offesa all’idea stessa di giustizia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Giustizia da commedia. Così giornali e magistratura stanno affossando l’inchiesta sulla loggia Ungheria. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Diciamo la verità: se non fosse stato per Nino Di Matteo che ha rotto il gioco, tutta questa vicenda delle logge segrete, dei pasticci dentro la magistratura, dei veleni, degli imbrogli, e parallelamente le storie strane dell’ex premier Conte, tutto queste cose qui non le avremmo mai sapute. I migliori campioni della Magistratura Intransigente, e i grandi giornalisti, e i grandi giornali di inchiesta, avevano seppellito tutto sotto la sabbia. Shhh, avevano sibilato. Shhh: omertà. Non è così? Figuratevi se a me, che di Di Matteo ho sempre parlato, scritto e pensato tutto il male possibile, non costa molto questa ammissione: però è il vero. Non cancello neanche una frazione delle critiche che da anni rivolgo a Di Matteo, e tuttavia bisogna riconoscergli che ha dimostrato di essere una persona onesta e che rispetta la legge e che non guarda in faccia a nessuno. È strano? Non dovrebbe essere strano. Nel senso che magari una persona normale dai magistrati si aspetta sempre un comportamento come quello di Di Matteo. Ma chi invece conosce un po’ di cose della magistratura, e ha visto come si comporta di solito il partito dei Pm, sa che non è così, lo sa già da prima di aver letto il libro di Palamara. Di Matteo è un’eccezione, e forse nessuno si aspettava che potessero finire nelle sue mani i verbali degli interrogatori segreti dell’avvocato Amara e che quindi tutta questa storia loschissima potesse diventare cosa pubblica. È andata così. Con rabbia, penso, da parte di molti. Innanzitutto di Davigo (ex pm, ex capo dell’Anm, ex magistrato di Cassazione, ex membro del Csm, attualmente editorialista del Fatto Quotidiano) che pare sia furioso; ma poi anche da parte del procuratore di Milano Greco e di vari altri magistrati dei quali al momento non conosciamo i nomi, e di un bel numero di giornalisti del Fatto Quotidiano e della Repubblica che hanno fatto parte del gruppetto che ha tenute segrete le accuse di Amara, dopo aver pubblicato, negli anni, chilometri di documenti segreti e illegali e sputtanato la vita pubblica e privata di centinaia di persone. Ora però restano alcune domande che sono molto inquietanti. La prima è questa. Come mai ieri Piercamillo Davigo è stato ascoltato dal procuratore di Roma come teste e non come persona iscritta nel registro degli indagati? Seconda domanda: cosa si sono detti Prestipino e Davigo? Terza domanda: perché si è avviata un’indagine ipotizzando il reato di associazione segreta e non associazione a delinquere? Provo a rispondere, seguendo la logica formale. La prima domanda può avere solo una risposta: Davigo non è ancora indagato perché Davigo non è una persona normale: è un esponente, seppure in pensione, della Grande Casta. E quindi ha diritto a grandi privilegi. Chiunque altro, nella sua condizione, sarebbe stato inquisito per almeno tre reati: favoreggiamento, per aver “favoreggiato” il Pm milanese che gli diede i verbali. Falso per occultamento, per aver occultato i verbali. Omessa denuncia, per non aver denunciato il reato del quale era a conoscenza. Mi sono tenuto stretto stretto, perché sono un garantista. Certo che se qualcosa di appena somigliante a quello che ha fatto Davigo l’avesse fatto un esponente della politica, magari senza immunità parlamentare, finiva dritto dritto in gattabuia. Alla seconda domanda si può rispondere con un po’ di fantasia. Prestipino, procuratore di Roma la cui nomina è stata dichiarata illegittima dal Tar, avrà innanzitutto ringraziato il dottor Davigo visto che il suo voto a favore in Csm (che contraddisse tutte le dichiarazioni contro Prestipino dei mesi precedenti e costituì una svolta improvvisa e mai spiegata del davighismo) fu quello che permise la nomina di Prestipino sebbene i suoi titoli fossero decisamente inferiori a quelli degli altri concorrenti all’incarico. Chissà se dopo averlo ringraziato gli avrà poi rivolto domande imbarazzanti. Tutto è possibile, naturalmente, però, siamo sinceri: se davvero l’indagine su Davigo la dovesse svolgere la Procura di Roma la credibilità dell’inchiesta sarebbe parecchio sotto lo zero. Per fortuna sembra che, per ragioni formali, l’inchiesta si sposterà a Brescia. La terza domanda è la più drammatica. Noi naturalmente non sappiamo se questa Loggia di piazza Ungheria esistesse, o esista, oppure se sia una invenzione. Tantomeno conosciamo i nomi dei partecipanti, se c’erano dei partecipanti. Però sappiamo una cosa: se questa Loggia esisteva ed era quello che l’avvocato Amara sostiene, il reato da ipotizzare non è quello di associazione segreta -come hanno stabilito i magistrati che indagano- ma è quello di associazione a delinquere finalizzata a corruzione di atti giudiziari, corruzione, traffico di influenze, turbativa d’asta. Perché invece si è scelto il reato di associazione segreta? Provo a indovinare. Il reato di associazione segreta prevede una pena massima di tre anni. E quindi esclude la possibilità di indagare con le intercettazioni. E anche, ora, con l’esame dei tabulati telefonici. Siccome chiunque conosca un po’ i fatti della magistratura sa che da molti anni le indagini si fondano esclusivamente sulle intercettazioni telefoniche e sui pentiti, e siccome la parola dei pentiti può essere usata a completa discrezionalità del Pm, che la giudica credibile o non credibile senza dover renderne conto a nessuno, e siccome non sarà difficile giudicare non credibili le accuse di Amara, in questo modo l’indagine sulla Loggia è già affossata. Cioè, non ci sarà. Finirà sotto la sabbia, come volevano Greco e Davigo. Se invece si indagasse per associazione a delinquere si potrebbero usare i tabulati, si potrebbe intercettare e tutto sarebbe più pericoloso. Ipotesi subito scartata. Pagherà solo il povero Storari, che certo di sciocchezze ne ha fatte parecchie, però, è chiaro, era mosso dalla volontà di scoprire la verità. Oggi, ai vertici della magistratura, chi vuole scoprire la verità non è visto di buon occhio. Va stroncato. Così come è stato stroncato il Pm Fava, che aveva commesso la somma sciocchezza di entrare in conflitto con Ielo e Pignatone.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Gli scandali all’interno della magistratura. Errori giudiziari e logge sono intollerabili, ma ancor di più lo è il silenzio delle toghe. Eduardo Savarese su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Nel libro dell’Antico Testamento intitolato Siracide, il capitolo 4 contiene alcuni versetti illuminanti per una riflessione su giustizia e magistratura: «Non arrossire di confessare i tuoi peccati, non opporti alla corrente di un fiume (26). Non sottometterti a un uomo stolto, e non essere parziale a favore di un potente (27). Lotta sino alla morte per la verità e il Signore Dio combatterà per te (28)». La magistratura si trova effettivamente dentro la corrente di un fiume, che è il fiume della Storia, la quale impietosamente, com’è suo costume, va portando alla luce il profondo inquinamento politico che attanaglia i gangli costituzionali dell’ordine giudiziario. Inquinamento che si è avvalso delle correnti dell’associazionismo giudiziario, ma che pare andare ben oltre le manifestazioni patologiche di esso. La magistratura può riacquistare credibilità solo a partire dalla confessione franca e coraggiosa dei suoi “peccati”. Non deve arrossire nel cessare di tacere. Ma se continua a tacere, non può non arrossire. L’espressione istituzionale e associativa della magistratura oggi tende invece a trincerarsi dietro diverse sfumature di ciò che resta in sostanza un silenzio per me insopportabile. Ho già scritto su queste pagine che il libro, opinabile quanto si voglia, a firma di Luca Palamara e Alessandro Sallusti costituisce uno spartiacque rispetto alla comunicazione pubblica dell’immagine dell’organismo giudiziario in Italia, e che su quel libro doveva aprirsi un confronto totalmente aperto con la società civile. Il confronto, invece, non si è aperto neppure dentro la magistratura, e oggi andiamo apprendendo scenari angoscianti sulle modalità di raccolta delle intercettazioni poste a base dell’espulsione di Palamara dall’ordine giudiziario. E non si tratta evidentemente di far dettare l’agenda della vita della magistratura da un espulso: questa è una obiezione tanto debole quanto arrogante. Ora che si è aperta la nuova slavina della loggia Ungheria, assistiamo a nuove forme di sostanziale silenzio (al netto dell’avvio delle doverose attività di indagine penale). A mio avviso appartiene a questo atteggiamento di incapacità di raccontarsi, e dire alla società civile la verità, anche il rifiuto sdegnosamente dogmatico della sola idea (quindi a prescindere dalle sue possibili, e molteplici, concretizzazioni) di una Commissione parlamentare d’inchiesta. Noi abbiamo bisogno di ricostruire la storia recente della magistratura italiana secondo canoni di rigore che, se non devono soggiacere alle strumentalizzazioni politiche, neppure possono chinare il capo alle formule note dell’associazionismo, inidonee a un discorso di verità. Ma il libro del Siracide prosegue, facendo divieto di sottomettersi a un uomo stolto e di essere parziale col potente. La magistratura deve sollevare la testa – una testa che, oggi come non mai, dovrebbe coincidere col corpo sano di essa, nella riappropriazione della parola capace di contestare, comunicare e anche pretendere – e smetterla di affidare la propria rappresentanza a formule vetuste che hanno compiuto, nel bene e purtroppo più di recente nel male, la loro missione. Deve chiedere la modifica strutturale dell’ordinamento giudiziario in modo che non si favorisca nessun potente di turno, fuori e dentro l’ordine giudiziario. E deve anche vigilare a che, in questo processo di confessione senza rossori e di progetto di un nuovo ordinamento giudiziario, non si assoggetti alla “stoltezza” di nuovi poteri esterni. La magistratura, insomma, deve affrontare la presenza inquinante del Potere al suo interno e trovare i modi, forse non di debellarlo, ché sarebbe illusorio, ma di arginarlo. Il tema del sorteggio dei componenti del Csm attiene evidentemente a questo profilo. Ma sono la gerarchizzazione e la riduzione burocratica del ruolo del magistrato che vanno del pari combattute e contro le quali va ridisegnato l’ordinamento giudiziario. L’ultimo versetto del Siracide invita a lottare fino alla morte per la verità. E tantissimi magistrati, nella storia di questo Paese, hanno inverato questo precetto e hanno inteso la loro vita nella magistratura come servizio. Questo attiene alle virtù morali degli individui e della società, e forse oggi queste virtù sono ridotte o smarrite. Ma dare la vita non significa solo morire per la verità. Significa improntare le azioni e i pensieri a un modus vivendi il più possibile trasparente e funzionale a esercitare in modo imparziale la funzione giudiziaria. Nel dibattito mosso dall’indignazione per le logge e le spartizioni di potere, non vedo all’orizzonte un discorso di verità sullo stato della giustizia. È vero che, come Il Riformista evidenzia, molti sono gli errori giudiziari, molte le ingiuste detenzioni, sempre troppo lunghe le durate dei processi civili e penali, e che a fronte di ciò le valutazioni di professionalità dei magistrati, quasi tutte sempre positive, sembrano un’offesa all’intelligenza. Tuttavia, il nodo drammatico dell’eccesso di domanda di giustizia, e la totale assenza di analisi sulle ragioni di questa domanda, continuerà a consentirci di eludere i problemi strutturali, a illuderci che la produttività sia tutto, a rassicurarci che un ritocco meritocratico aiuti il sistema. Si tratta di falsificazioni perfettamente compiute. Soltanto una magistratura che sappia confessare i propri peccati senza arrossire, che non si assoggetti allo stolto e non insegua il potente, potrà dettare l’agenda delle vere riforme necessarie. Quelle che il 99% dei magistrati attende, con frustrazione e disillusione crescenti che tanto la politica, quanto le proprie rappresentanze potranno realizzare quelle riforme. Di certo, due passi concreti e immediati potrebbero essere intrapresi: delineare un meccanismo di voto per il Csm in tempi rapidissimi quanto più vicino possibile al meccanismo del sorteggio e sciogliere quanto prima l’attuale Csm. Eduardo Savarese

Operaio ArcelorMittal licenziato a Taranto dopo post Facebook sulla fiction con Sabrina Ferilli. La Repubblica l'8 aprile 2021. Dopo la sanzione disciplinare è arrivato il provvedimento a carico di uno dei due dipendenti ex Ilva sospesi: avevano condiviso uno screenshot in cui invitavano a guardare la mini serie perché raccontava un dramma simile a quello di Taranto, con una bambina in coma per l'inquinamento causato da una fabbrica. "Così come aveva preannunciato, ArcelorMittal ha licenziato per quella che ritiene essere una "giusta causa", uno dei due dipendenti che pochi giorni fa ha condiviso sul social lo screenshot con invito a vedere la fiction "Svegliati Amore Mio". Non è altro che un gravissimo attacco alla democrazia ed in particolare alla libertà di espressione e opinione". Lo afferma il coordinatore provinciale dell'Usb, Francesco Rizzo, riferendosi al provvedimento notificato oggi dall'azienda a un lavoratore dopo una contestazione disciplinare e una sospensione per cinque giorni. ArcelorMittal ha precisato nei giorni scorsi di aver ritenuto denigratorio e altamente lesivo della propria immagine il contenuto del post e non il semplice invito alla visione della fiction (che evidenzia, attraverso la storia di una donna che lotta per la figlia che si è ammalata di leucemia, i rischi derivanti dalle emissioni di un'acciaieria chiamata Ghisal). ArcelorMittal ha precisato nei giorni scorsi di aver ritenuto denigratorio e altamente lesivo della propria immagine il contenuto del post e non il semplice invito alla visione della fiction (che evidenzia, attraverso la storia di una donna che lotta per la figlia che si è ammalata di leucemia, i rischi derivanti dalle emissioni di un'acciaieria chiamata Ghisal). "Questo - osserva Rizzo - è l'ennesimo schiaffo, come se non bastasse quanto fatto in precedenza. Stigmatizziamo tutto questo e preannunciamo una durissima mobilitazione. Forme e tempi verranno comunicati nelle prossime ore".

Michelangelo Borrillo per corriere.it il 10 aprile 2021. Riccardo Cristello, 45 anni, di Taranto, è il dipendente di ArcelorMittal licenziato dopo aver condiviso un post con commenti sulla fiction «Svegliati amore mio», con protagonista principale Sabrina Ferilli. Un post che invitava a vedere la fiction, secondo Riccardo, ma con «affermazioni di carattere lesivo e minaccioso» secondo ArcelorMittal. «Non dico di essere un impiegato modello — spiega Riccardo — ma ho sempre dato di tutto e di più. Anzi ero considerato un aziendalista non essendo iscritto al sindacato. Oggi mi trovo fuori dall’azienda con una famiglia, una moglie, due figli e un mutuo da pagare, così, solo perché qualcuno ha immaginato che io abbia potuto solo pensare che quella fiction fosse riferita ai miei datori di lavoro. Nel mio post non ci vedevo nulla di male, ogni giorno condividiamo un sacco di post magari manco leggendoli, come una catena di Sant’Antonio. Ora mi sento un macigno addosso, è una situazione che non auguro a nessuno di vivere per non aver fatto nulla».

"Io, licenziato da ArcelorMittal per un post sulla fiction con Ferilli condiviso mentre ero sul divano". Gino Martina su La Repubblica il 9 aprile 2021. Riccardo Cristello è il tecnico di controllo costi licenziato dall'acciaieria ex Ilva: è stato prima sospeso e poi licenziato per aver invitato a guardare la serie richiamando l'attenzione sul dramma di Taranto: "Sono stato trattato come un numero, colpirne uno per educarne cento. E pensare che si tratta di una cosa scritta sul mio profilo privato e condiviso con mia moglie, che possono leggere solo i nostri 400 amici". Riccardo Cristello lo ripete più volte. "Non ho scritto nulla di offensivo nei confronti di ArcelorMittal, non ho fatto alcun commento, non ho mai citato l'azienda, eppure dopo 20 anni vengo trattato come un semplice numero: non me lo merito". Impiegato, con due figli a carico, dopo il post condiviso sulla propria bacheca Facebook col quale il 24 marzo invitava a vedere la fiction Mediaset 'Svegliati amore mio', il lavoratore dell'ex acciaieria Ilva di Taranto, ora ArcelorMittal, è stato licenziato per giusta causa. A differenza dell'altro lavoratore che aveva ricevuto il provvedimento disciplinare di sospensione per aver condiviso un altro post sulla mini serie, non tornerà a varcare i cancelli della fabbrica. Per l'azienda quei messaggi avevano contenuti denigratori e offensivi, nonché minacciosi nei confronti della dirigenza. Anche per difenderlo il sindacato Usb ha proclamato uno sciopero e un sit-in permanente davanti ai cancelli della fabbrica il 14 aprile. 

Qual è l'amarezza maggiore in questo momento? 

"Quella di essere stato trattato così, senza neanche una telefonata, dopo aver dato tanto a quello stabilimento, oltre venti anni della mia vita. Sono stato sempre a disposizione dell'azienda, ho fatto sempre ciò che mi è stato chiesto. Anzi, di più. Da quando ero operaio del magazzino agli ultimi mesi come tecnico di controllo costi dell'acciaieria, dopo esser stato chiamato anche ad aiutare l'amministrazione con le fatture, ho sempre dato tanto. Con la gestione della famiglia Riva sarei stato sicuramente convocato in direzione e mi avrebbero rinfacciato tutto ciò che reputavano avessi sbagliato, ma dubito che mi avrebbero licenziato". 

Ci racconti di quel post condiviso. Non era scritto da lei. 

"Eravamo in casa io e mia moglie e ci è arrivato questo messaggio, come a centinaia di tarantini e lavoratori di Mittal. Quel profilo è chiuso, non è pubblico, ed è condiviso con mia moglie. Anzi, i dati sono i suoi, io lo uso raramente ed è in contatto con meno di 400 persone. Solo i miei amici possono vedere quello che pubblico. Abbiamo fatto un copia e incolla di questa lettera che chiedeva di vedere la fiction perché parlava del siderurgico, dei danni che ha provocato e delle soluzioni a questi danni. Il messaggio dava addosso a chi prima gestiva lo stabilimento in quel modo, non a Mittal. Lo abbiamo fatto così, di sera, seduti sul divano, senza pensare che potesse offendere l'immagine dell'azienda e provocare ciò che è successo. Non ci sono nomi, non c'è niente, è contro la siderurgia in generale, mi avrebbero dovuto denunciare tutti a questo punto". 

Ci sono parole come 'assassini' e il riferimento della fiction alla vertenza di Taranto: come si è giustificato con la dirigenza? 

"Ho cercato di spiegare che non era mia intenzione ledere l'immagine dell'azienda, non immaginavo affatto potesse generare questi problemi. Il post era generico e voleva solo sensibilizzare le persone, per il dramma della nostra città, per far vedere cosa accadeva anni fa prima che si iniziassero ad adottare i primi interventi Aia per abbattere le emissioni inquinanti. Ognuno di noi piange un parente per questa situazione, non a caso c'è un processo in corso, Ambiente Svenduto. Noi a Taranto lo sappiamo cosa è accaduto. L'inquinamento c'è comunque, un impianto siderurgico può inquinare meno, però è come una macchina, se l'accendi inquina. Ma non ho accusato di questo Mittal e non era mia intenzione farlo, non c'era nessun nome del resto". 

Cosa l'ha delusa di più? 

"Come sono stato trattato, dopo anni di rapporti umani vissuti nella fabbrica, mi hanno chiamato la domenica delle Palme dicendomi che c'era un problema di numero e che dovevo rimanere in cassa integrazione per una settimana. In verità mi stavano sospendendo per poi licenziarmi, senza nessun avvertimento, nessuna telefonata, se non la raccomandata col provvedimento". 

Qual è la sua speranza adesso? 

"La speranza è che si risolva al meglio per tutti, non solo per me, perché a condividere quel post sono stati in tanti nella città di Taranto e quindi molti colleghi dello stabilimento. Anche se ho l'impressione di essere il capro espiatorio. Lo spirito sembra sia quello di punirne uno per educarne cento. Non possiamo più parlare, non possiamo più commentare, dobbiamo stare zitti e basta. Anche se, lo ripeto, non ho commentato, il post non l'ho scritto io, non ho fatto nulla e sono stato trattato in questo modo. Figuriamoci se davvero avessi fatto qualcosa, sarei stato messo alla gogna".

Chiara Campo per “il Giornale” l'11 aprile 2021. Vietato criticare l'amministrazione sui social o sui forum, la sorveglianza scatterà pure sui commenti pubblicati fuori dall'orario di lavoro sui profili Facebook personali. Il centrodestra ha definito il nuovo Codice di comportamento per i dipendenti del Comune di Milano «degno del soviet supremo». Beppe Sala sta incassando accese proteste da lavoratori e sindacalisti, l'Rsu si è già rivolta a un avvocato per un giudizio legale. Il regolamento nel mirino è stato approvato lo scorso febbraio ma non è ancora entrato in vigore perché per legge va sottoposto prima a consultazione. E la giunta doveva sentirsi particolarmente tranquilla visto che giorni fa lo ha pubblicato on line aprendo la partecipazione «non solo ai dipendenti ma a tutta comunità milanese». Sotto processo l'articolo 16 che regola i «rapporti con mezzi di informazione e l'utilizzo dei social network». Qualche passaggio? Il dipendente «si astiene dal diffondere con qualunque mezzo, compreso il web o i social network, i blog o i forum, commenti o informazioni compresi foto, video, audio che possano ledere l'immagine del Comune e dei suoi rappresentanti o suscitare riprovazione, polemiche, strumentalizzazioni». Il lavoratore «si impegna a mantenere un comportamento ineccepibile anche nella partecipazione a discussioni su chat o forum on line, mantenendo cautela nell'esprimere opinioni, valutazioni, critiche su fatti o argomenti che interessano l'opinione pubblica o che possano coinvolgere la propria attività all'interno del Comune» e il codice andrà rispettato «anche al di fuori dell'orario di lavoro». Il consigliere comunale di Forza Italia Alessandro De Chirico sintetizza il punto: «Sala vuol mettere il bavaglio ai dipendenti. Forse hanno dato fastidio le tante denunce pubbliche per i disservizi legati al Covid sia in merito alla salute dei lavoratori che ai servizi erogati ai cittadini», vedi gli assembramenti davanti alle (poche) sedi anagrafiche lasciate aperte. Insomma, «guai a dissentire, il regolamento blocca il diritto di critica, spero che i sindacati si facciano sentire con uno sciopero». Un delegato sindacale Rsu - almeno per ora - non si fa problemi a bollare il nuovo codice di comportamento come «un attacco alla libera espressione, alla comunicazione sindacale e al diritto di informazione libera». Se il Comune non farà dietrofront il sindacato passerà alle vie legali. Un conto sono ingiurie o insulti, ma «il diritto di opinione espresso fuori dall'orario di lavoro non può essere punito con il licenziamento e tanto meno può essere spiato il profilo social di un dipendente per controllarne il contenuto». Il confine tra ciò che è lecito o punito con provvedimenti disciplinari o licenziamento rischia di assottigliarsi parecchio, i sindacalisti abituati a mantenere rapporti con la stampa sono preoccupati. Avverte il codice che «il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e politici non consente al dipendente di rilasciare dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell'amministrazione».

Covid, europarlamentare Lega lascia Facebook: "Troppe censure". Nel mirino di Facebook sono finiti due post dell'europarlamentare Francesca Donato dedicati al Covid. L’esponente leghista porterà il caso a Bruxelles. Gabriele Laganà - Sab, 10/04/2021 - su Il Giornale. Negli ultimi tempi diversi social, al fine di combattere violenze e discriminazioni di ogni genere, hanno intensificato i controlli sui contenuti pubblicati dagli utenti sulle proprie piattaforme. Si ricorderà, in particolare, lo scontro tra Facebook e l'ex presidente Usa, Donald Trump, con l’azienda di Palo Alto che è arrivata a mettere in atto la clamorosa sospensione dell'account del tycoon. Questa vicenda, come del resto molte altre accadute nei mesi scorsi, ha suscitato un dibattito tra chi vede in queste azioni una sorta di censura e altri che, invece, appoggiano le decisioni delle varie piattaforme. A volte capita che sui social si leggano cose orribili. Vero. Ma ci si domanda se sia gisuto che un social oscuri delle opinioni personali. In Italia l’ultimo caso in ordine cronologico finito al centro dell’attenzione mediatica riguarda il quotidiano online sovranista il Primato Nazionale che si era vista chiudere momentaneamente la propria pagina Facebook senza alcun preavviso né motivazione. Ma questo non è l’unico esempio. Perché nel mirino della "sorveglianza" di Facebook è finita anche l'europarlamentare della Lega Francesca Donato. Quest’ultima, però, utilizzando lo stesso social non solo ha denunciato quanto le è accaduto ma ha anche annunciato di essere pronta ad una "battaglia" contro la piattaforma in nome della libertà. "Vista la situazione, ho deciso di interrompere l'uso di questo canale per la mia comunicazione e di denunciare il problema al Parlamento Europeo", è l’inizio del post molto duro della Donato contro il social network di Mark Zuckerberg che nei giorni scorsi ha minacciato di sospensione il deputato europeo del Carroccio e limitato la distribuzione dei post della sua pagina. "I contenuti che ho pubblicato - spiega ancora l’esponente leghista - secondo i controllori del network, hanno 'violato ripetutamente gli standard della community', cioè dato elementi di riflessione di disturbo per la propaganda pervasiva in cui ci hanno immersi". Nel mirino di Facebook sono finiti due post dell'europarlamentare leghista dedicati al Covid con interventi del biologo molecolare Enrico Galmozzi e del medico e ricercatore siciliano Bruno Cacopardo. La Donato spiega che un eurodeputato eletto dai cittadini non può subire "censure ideologiche arbitrarie da nessun privato, soprattutto per ragioni squisitamente politiche, e una piattaforma social non può improvvisamente e inopinatamente cambiare le proprie politiche in maniera di penalizzare così fortemente la libera informazione, specie dopo che molti soggetti hanno investito per anni in quello strumento". L’europarlamentare così ha deciso di salutare i sui oltre cinquantamila "seguaci" su Facebook a favore del suo blog, e degli altri canali social. Ma la vicenda non terminerà con l’abbandono del social. Perché la stessa Donato ha già annunciato battaglia a Bruxelles: "Intendo rivendicare il mio diritto alla libertà di espressione e di pensiero, con ogni mezzo democratico e trasparente".

Se Google cancella un'inchiesta giornalistica. Alessandro Longo su La Repubblica il 7 aprile 2021. Oscurato un canale di una testata giornalistica registrata, YOU-ng, e deindicizzata l’inchiesta giornalistica. Google parla di errore, dopo la segnalazione di Repubblica. Ma è solo l’ultimo tassello in un crescendo di episodi che riguardano anche Twitter e Facebook. Google ha cancellato un canale di una testata giornalistica registrata, YOU-ng, e de-indicizzato un'inchiesta giornalistica, che quindi ora è molto più difficile raggiungere. L'ha denunciato il direttore responsabile, Germano Milite, e il motivo risulta una segnalazione fatta a Google dal protagonista di quella stessa inchiesta, Matteo Pittaluga. Google ha ripristinato ieri sera il canale dopo la segnalazione fatta da Repubblica, parlando di "errore". Stamattina, per un'altra segnalazione analoga (da un socio di Pittaluga), Google ha però cancellato di nuovo il canale, anche se ha rimesso l'inchiesta sul motore di ricerca. Probabilmente Google rimedierà anche a questo errore, dato che tutto è avvenuto con le stesse modalità. Anche a gennaio il gigante di Mountain View ha ammesso un errore simile, per la sospensione dell'app del Manifesto sul Google Store. Nel caso di Young, Pittaluga ha presentato a Google richiesta di rimozione per violazione di copyright, a quanto risulta agli atti. YOU-ng ha fatto numerose inchieste su profili come quello di Pittaluga, che vendono corsi e consulenze per fare soldi (con facilità, dicono) con il digitale. Milite ha indagato su questo business che definisce sospetto e ingannevole per i potenziali clienti. "Con il pretesto infondato di violazione del copyright, Pittaluga ha ottenuto la censura della nostra inchiesta", dice. Google conferma a Repubblica: "Rivediamo periodicamente tutte le contro notifiche per violazione di copyright per identificare segnali di possibili abusi. Il canale di YOU-ng era stato chiuso nel corso di questo processo. Dopo un'ulteriore revisione, abbiamo rilevato che si è trattato di un errore e abbiamo prontamente ripristinato il canale. Ci scusiamo per l'inconveniente". Nel caso del Manifesto, a gennaio, Google aveva tolto l'app perché non si fidava che il Manifesto fosse un giornale (lo è da mezzo secolo) e in attesa di informazioni dal giornale che erano però presenti, come previsto dalla legge italiana (ad esempio su editore, collaboratori). In quegli stessi giorni, Twitter aveva sospeso l'account di Libero per 14 ore, per "attività sospetta", senza dare a tutt'oggi spiegazioni (a quanto fanno sapere da Libero). È recente invece un'interrogazione parlamentare del senatore Gianluigi Paragone (Gruppo Misto, ex M5S) contro quella che definisce censura del canale Youtube di Byoblu (testata giornalistica di contro informazione). 

Motivazione: "YouTube non tollera contenuti che diffondano disinformazione in ambito medico, in contraddizione con le informazioni fornite sul COVID-19 dalle autorità sanitarie locali o dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)". Paragone ha fatto anche un ricorso all'Agcom (del 25 febbraio). Il tema è caldo anche negli Usa; soprattutto dopo che a ottobre 2020, Twitter aveva bloccato la diffusione di un'inchiesta del giornale filo-conservatore New York Post sul figlio di Joe Biden (attuale presidente Usa), prima di fare dietrofront. Secondo molti giuristi, la questione è ampia e tocca i diritti fondamentali. "Non c'è bilanciamento di poteri se è un solo soggetto, per giunta privato, a stabilire gli equilibri tra libertà di espressione e altri diritti", come affermato dall'avvocato Guido Scorza (al Garante della Privacy).  Un maggiore bilanciamento è necessario, secondo il Congresso Usa, che sta valutando da mesi nuove proposte normative; e lo è per la Commissione europea, che per casi come questo ha proposto il Digital Services Act. "Se il pacchetto del Digital Services Act diventerà legge, potremo sporgere reclamo più facilmente contro le decisioni delle piattaforme; sapere perché la piattaforma le ha prese e opporvisi", spiega Rocco Panetta, avvocato esperto di Privacy. Un'attività ora molto complicata e spesso costosa per gli utenti. Un'altra misura pensata per ridare agli utenti un maggiore controllo sugli algoritmi (e sui signori degli stessi). "Oggi i diritti fondamentali dei cittadini europei non sono adeguatamente tutelati online. Le piattaforme possono ad esempio decidere di cancellare i contenuti degli utenti, senza informare l'utente o fornire una possibilità di ricorso. Ciò ha forti implicazioni per la libertà di parola degli utenti", ha scritto la Commissione nel presentare l'Act.

Abolita la censura cinematografica: istituita commissione di 49 esperti. Valentina Mericio su Notizie.it il 05/04/2021. Con il nuovo decreto del Ministro della cultura Dario Franceschini, è stata abolita definitivamente la censura cinematografica. Niente più censure e tagli al cinema. A deciderlo il Ministro della Cultura Dario Franceschini che con un decreto ha messo fine ad un’epoca. Sono ben lontani i tempi in cui la Chiesa Cattolica metteva all’indice i libri proibiti, pratica durata fino al secondo dopoguerra. A sostituire la censura cinematografica un’apposita commissione che sarà composta da 49 esperti che si occuperanno della classificazione delle opere cinematografiche. “La Commissione verifica la corretta classificazione, proposta dagli operatori nel settore cinematografico”, ha spiegato ad ANSA Nicola Borrelli a capo della Direzione generale cinema e audiovisivo. La commissione sarà presieduta dal Presidente emerito del consiglio di Stato Alessandro Pajno.

Cinema, abolita la censura cinematografica. Lo ha fatto sapere il Ministro della Cultura Dario Franeschini. La censura cinematografica è stata abolita, una mossa importante che supererebbe “Definitivamente quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti”. Si chiude quindi un’era: basta tagli e censure prima dell’uscita al cinema. Al fine di superare questo sistema è stata istituita una commissione presieduta da Alessandro Pajno e 49 esperti che avranno il compito di verificare che gli operatori classifichino correttamente le opere cinematografiche. “Si mette in essere una sorta di autoregolamentazione, saranno i produttori o i distributori ad autoclassificare l’opera cinematografica, alla commissione il compito di validare la congruità” – precisato Nicola Borrelli all’ANSA.

Valentina Mericio. Classe 1989, laureata in Lingue per il turismo e il commercio internazionale, gestisce il blog musicale "432 hertz" e collabora con diversi magazine.

Fine della censura al cinema. Ma c'è un'altra commissione. Non sarà più possibile negare la proiezione di un film. Franceschini: "Rispetto della libertà". Ecco i "tagli" storici. Pedro Armocida - Mar, 06/04/2021 - su Il Giornale. «Abolita la censura cinematografica, definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti». Queste le parole del Ministro della cultura, Dario Franceschini, che lavora anche a Pasquetta. D'altro canto la notizia è importante perché attesa dal 2016 quando la sua importante Legge Cinema annunciava proprio queste misure. Ma cosa cambia in sostanza? Nulla e tutto, e viceversa. Da oggi la classificazione dei film è responsabilità degli operatori che daranno uno di questi 4 bollini (è prevista una sintesi grafica): opere per tutti; opere non adatte ai minori di anni 6; opere vietate ai minori di anni 14; opere vietate ai minori di anni 18. A parte l'indicazione per i 6 anni, il resto è uguale a prima. Ma la novità è che ora un dodicenne accompagnato da un genitore potrà vedere un film vietato ai 14 e un sedicenne uno vietato ai 18. Messa così è finalmente una legge di stampo liberale che lascia la libertà, appunto, ai distributori di dare le indicazioni al pubblico e responsabilizza i genitori chiamati a esercitare l'educazione anche di fronte a un film. Però, c'è sempre un però. Lo Stato non si fida, o forse i distributori temevano guai giudiziari, e dunque ecco spuntare la Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche guidata dal Presidente emerito del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno. Quindi gattopardescamente, esattamente come accade oggi, vengono nominati quarantanove componenti che verificheranno le decisioni prese dai distributori. Ma, rispetto al passato, avranno un'arma in meno: non è più possibile negare il nulla osta per la proiezione in pubblico di un film. Esistono due preziosi archivi in rete che raccontano i casi più eclatanti del ricatto che consentiva alle commissioni di chiedere i famigerati tagli ai film: cinecensura.com e italiataglia.it (il primo, ideato da Pier Luigi Raffaelli e Tatti Sanguineti, è in continuo aggiornamento grazie al prezioso lavoro della Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia che ha un nuovo conservatore, Alberto Anile, e una nuova presidente Marta Donzelli). Il film simbolo è Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci che nel 1972, dopo essersi opposto, accetta, su consiglio del produttore Alberto Grimaldi, un taglio di pellicola di metri 3,80 («Riduzione del primo amplesso consumato dai due protagonisti all'improvviso in piedi»), uno di metri 6 («Riduzione della durata della scena in cui il protagonista violenta a posteriori la ragazza») e infine la modifica della frase «Mettimi le dita nel culo» sostituita da «Non farmelo ripetere». Il film riceve il nulla osta con un divieto ai minori di 18 anni. Poi ci furono i sequestri e i penosi strascichi giudiziari con autore, produttore e attori condannati nonostante l'appoggio di intellettuali, anche di Montanelli in una famosa prima pagina sul Corriere della Sera. Vabbè, direte voi, è Ultimo tango, c'è il burro, eccetera. Ma, senza andare molto lontano, già nel 1950 il candido Luci del varietà, firmato a quattro mani da Lattuada con l'esordiente Fellini, ebbe il massimo divieto vigente all'epoca, ai minori di 16 anni. Nel 1955 addirittura Totò e Carolina ottenne ben 32 tagli tra cui quello di Bandiera rossa cantata da un gruppo di comizianti, che obbligò il regista Monicelli «a rifare la musica e inserire un'altra canzone qualunque ignota». Le forbici della censura si sono mosse sempre veloci, attente a limitare il sesso e la violenza ma anche a proteggere la politica e la religione. Ne sa qualcosa Pier Paolo Pasolini i cui guai iniziano già con Accattone, il suo film d'esordio. Nel 1961 ottiene il nulla osta ma divieto ai minori di 18 anni, «limite di età ancora non previsto dalla nuova Legge sulla Revisione Cinematografica». Sempre in quell'annus horribilis, Luciano Emmer si vede tagliare un'intera sequenza del suo La ragazza in vetrina che gli fece passare «la voglia di continuare a fare cinema» visto che per trent'anni non ha più girato un film. Più fantasiosa la censura nel 1969 su Brucia ragazzo brucia di Fernando Di Leo che, in una sequenza erotica comunque tagliata di 212 metri di pellicola, vede l'apposizione di una incredibile ragnatela che fece restare di sale il regista: «Una cosa mai vista nella storia del cinema e nella storia della censura». A passo spedito si arriva al 1998 e a Totò che visse due volte di Daniele Ciprì e Franco Maresco, penultimo film della storia del cinema italiano a cui non è stato dato il nulla osta alla proiezione in pubblico. L'ultimo in assoluto, nel 2011, è stato l'horror Morituris di Raffaele Picchio che però non ha avuto la fortuna di essere vietato «solo» ai minori di 18 anni come è successo in appello a Ciprì e Maresco. Ma in fatto di tagli il record forse ce l'ha The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, vietato ai minori di 14 anni, che, nel 2014, viene derubricato a «per tutti» per andare in prima serata in tv. La commissione di revisione cinematografica indica ben 51 «alleggerimenti» che fanno scomparire 18 minuti di pellicola, tra cui i 62 secondi del «dialogo in ufficio sul lancio del nano». Addio dunque alla censura, pure politicamente corretta. Non ci mancherai.

Gl. S. per "il Messaggero" il 6 aprile 2021. «Meglio tardi che mai». Così Marco Bellocchio commenta l' abolizione della censura cinematografica dopo 61 anni di divieti, tagli, imposizioni. Il maestro, 81 anni, è attualmente nella fase di pre-produzione del film La confessione sul rapimento del bambino ebreo Edgardo Mortara strappato alla famiglia e convertito al cristianesimo, un progetto che era caro anche a Steven Spielberg. Ma non dimentica i tempi in cui la censura era lo spauracchio di registi e produttori: sotto le forche caudine dei guardiani del comune senso del pudore ci è passato anche lui.

Fu la sua opera prima I pugni in tasca a finire nel mirino della censura?

«Non proprio. Nel 1965 quel mio film fu vietato ai minori di 18 anni. E una volta in sala fu denunciato da una spettatrice per oltraggio alla famiglia, ma la magistratura archiviò tutto. Con la censura avrei avuto a che fare negli anni successivi».

Quando, e per quali film?

«Nel 1980 per Salto nel vuoto e nel 1986 per Diavolo in corpo. Quando presentai il primo film alla commissione, venni chiamato e, in cambio del nulla osta per tutti, mi chiesero di togliere la scena in cui il giudice interpretato da Michel Piccoli invita una prostituta in casa e la fa spogliare. D' accordo con il produttore Silvio Clementelli, accettammo il taglio per avere più spettatori possibili. Ripristineremo quella sequenza nella copia restaurata».

E che destino ebbe Diavolo in corpo?

«Nel film c' è una scena in cui la protagonista Maruschka Detmers pratica una fellatio al giovane attore Federico Pitzalis. Per non essere costretti a tagliarla, escogitammo un trucco: nella copia destinata alla censura la oscurammo. La commissione vide solo un rettangolo nero, il film passò ma nelle sale la sequenza venne ripristinata».

E nessuno vi accusò di aver imbrogliato?

«Ma no, questa è l' Italia... alla fine si aggiusta tutto».

C'erano altri espedienti per aggirare la censura negli anni in cui le forbici impazzavano?

«Un film passato in commissione, una volta arrivato in sala rischiava comunque il sequestro: bastava la denuncia di un cittadino. E a decidere era il magistrato della città in cui c' era stata la prima uscita. Si sceglieva così di debuttare dove c' erano giudici di larghe vedute».

Che effetto le fa sapere che la censura è stata abolita?

«Sono contento, ma andava deciso 30 anni fa. Adesso si è soppressa un' istituzione già morta nei fatti, è stato ufficializzato il cambiamento del costume. Aver abolito la censura non è stato un atto particolarmente coraggioso: lo sarebbe di più approvare lo ius soli e la liberalizzazione della cannabis».

Mario Fabbroni per leggo.it il 6 aprile 2021.

Renzo Arbore, l’abolizione della censura è una soddisfazione?

«Capita a fagiolo. Proprio in questi giorni stiamo portando a nuova vita il Pap’occhio, scritto da me e Luciano De Crescenzo».

Cosa accadde 40 anni fa?

«Per il Pap’occhio subimmo un processo, fu censurato il copione e ritirato dalle sale. Eppure era stato il primo film prodotto da Rai Cinema. Di certo non offendemmo la Chiesa, lo capì anche il giudice».

Era una satira sul Vaticano...

«Forse scherzammo con i santi. E con il catechismo. Ma nessuna ingiuria né simboli religiosi messi indecorosamente alla berlina».

Nonostante tutto, fu un successo.

«Biglietto d’oro, risultò tra i primi 5 incassi dell’epoca. Ma il danno fu fatto lo stesso, potevamo essere anche primi al botteghino».

Ora rivedremo il film integrale?

«Si, spero di editarlo di nuovo con una diversa casa di produzione. Vorrei fosse un simbolo anti censura. Merita di essere visto da tutti».

Fulvia Caprara per "la Stampa" il 6 aprile 2021. Nessuno potrà più mandare al rogo un film come Ultimo tango a Parigi. Nessuno potrà più decidere che quella certa opera arrivi in sala solo se tagliata o modificata. Nessuno potrà più bloccare la distribuzione di una pellicola, giudicata, come accadde a Totò che visse due volte, «degradante per la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell' umanità». La lunga storia della censura made in Italy, punteggiata da sviste madornali e picchi grotteschi, è finita ieri, nel momento in cui il Ministro della Cultura Dario Franceschini ha firmato il decreto che istituisce la Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche presso la Direzione Generale Cinema con l' obiettivo di cancellare per sempre «quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti». Capitanata dal Presidente emerito del Consiglio di Stato Alessandro Pajno e composta da 49 persone, la Commissione, in carica per 3 anni, rappresenta l' ultimo passo verso l' abolizione totale della censura: «In pratica - spiega Nicola Borrelli alla guida della Direzione generale Cinema - si mette in atto una sorta di autoregolamentazione, saranno i produttori o i distributori ad autoclassificare l' opera e alla Commissione andrà il compito di validare la congruità delle scelte». L' annuncio riecheggia nel silenzio dei cinema chiusi, quando la necessità di tutelare i minori dalla visione di contenuti non adatti è ormai problema impellente nel campo dei social, mentre per lo streaming vale il metodo del «parental control», con la responsabilità affidata ai genitori. Nel novembre 2016 la legge 220, promossa dal Ministro Franceschini, stabiliva che il governo mettesse a punto decreti legislativi che riformassero «le procedure attualmente previste dall' ordinamento in materia di tutela dei minori nella visione di opere cinematografiche e audiovisive». All' unico organismo dotato della possibilità di stabilire il destino di un film, si sostituiva la responsabilità dei produttori, chiamati a individuare le porzioni di pubblico destinate alle varie pellicole. L' istituzione di quattro fasce d' età (opere per tutti, non adatte ai minori di anni 6, vietate ai minori di anni 14, salvo la presenza, a 12 anni compiuti, di un genitore, e vietate ai minori di 18, con deroga per i sedicenni accompagnati da un genitore) avrebbe facilitato il compito, ma restava aperta la questione dell' opinabilità dei pareri. Il decreto di ieri, a quattro anni e mezzo dall' avvio della riforma, scioglie questo nodo dando il via al lavoro di persone selezionate in base alle specifiche competenze. Si va dai professori di diritto, avvocati o magistrati assegnati ai tribunali dei minori, agli esperti pedagogico-educativi, dai sociologi della comunicazione ai rappresentanti delle associazioni dei genitori, dai professori di psicologia, psichiatria o pedagogia, ai membri di associazioni per la protezione degli animali e, naturalmente, a critici, studiosi, autori. Nell' arco di 20 giorni la Commissione esaminerà il giudizio dei produttori e il film potrà avere il via libera. Per rendere ancora più esplicite le classificazioni, i materiali pubblicitari saranno contrassegnati da icone che indicheranno la presenza di contenuti sensibili per la tutela dei minori, violenza, sesso, uso di armi, turpiloquio. Nella mostra virtuale permanente Cinecensura, promossa dal Mibact per i 100 anni di « tagli», il critico e studioso Tatti Sanguineti, massimo esperto del settore, ripercorre i casi eclatanti, individuando i tabù più radicati. Oltre alle vittime illustri della mannaia censoria, come Totò e Carolina di Monicelli, Rocco e i suoi fratelli di Visconti e tantissime altre, Sanguineti cita i simboli chiave di tutto ciò che, a suo tempo, scatenò furie moralizzatrici. Le gambe delle donne, i preti blasfemi, i denigratori della politica asservita alla logica dei panni sporchi da lavare in casa. Un' altra Italia che, oggi, in tempi di «haters» e «revenge porn», fa quasi tenerezza.

Marco Giusti per Dagospia il 6 aprile 2021. Grazie Franceschini! Ma grazie de che!? Che ce ne facciamo ora di un cinema senza censura quando la vera sofferenza del cinema è da anni l'autocensura. Un'autocensura imposta dalle committenze, Rai e Mediaset, e ora soprattutto dalle piattaforme. Siamo tutti coscienti, così, che oggi non si potrebbero più ne' ideare né girare gran parte dei film che abbiamo amato e che ancora oggi vediamo in tv o in dvd. In copie tagliate o restaurate, poco importa, perché anche i tagli, le omissioni fanno parte della storia di un film e di un paese. Tagli e censure che uniscono la grande stagione di Pasolini, di Bertolucci, di Ferreri, ma anche quella più di o de-genere dei film della Fenech e di Gloria Guida, i decameroni, i pornonazi, per non spingerci a Tinto Brass e molto più in là ai porno. Chi girerebbe oggi un pornonazi? E per quale committenza? O una commediaccia scorreggiona omofoba e maschilista? O Ultimo tango a Parigi o Salò Sade? Perché la costante che unisce molto cinema alto e bassissimo degli anni 60 e 70 è la trasgressione. Ve la ricordate la trasgressione? Una cosa che non esiste più né al cinema né in TV ai tempi dei lundini e dei comici moderni. E la trasgressione si fa quando ci sono degli ostacoli, delle asticelle da abbattere e superare. Per Pasolini nel Decameron l'asticella, il tabù era il primo piano di un cazzo in erezione. Ovvio che lo fece apposta e aveva un significato politico. Anche per Bertolucci la scena della sodomizzazione col burro di Maria Schneider aveva un senso politico, perché contemporaneamente Marlon Brando parlava della sua educazione cattolica. Vallo a spiegare oggi a chi vede, anche giustamente, in quella scena l'orrore della violenza maschile sulla donna. Perché, certo, il ragionamento filava, ma il sedere era quella della Schneider, e Bertolucci non solo se lo poteva risparmiare, ma poteva non essere così realistico. Ma nessuno oggi si azzarderebbe più a costruire una scena del genere, e magari è un bene, per ragionare sulla violenza della famiglia cattolica. E questo è un male. Ma questi erano in fondo incidenti di percorso di un viaggio compatto del nostro cinema migliore verso una liberazione, nata dalla trasgressione,  dal conformismo e dalla cultura borghese cattolica. E oggi proprio il conformismo e la cultura borghese cattolica alla Avati sembrano, ahimè, il meglio che il nostro cinema franceschinizzato possa darci. No. Meglio censura e libertà di sfidarla anche con i pornonazi, allora. Pasolini si accorse in un celebre convegno di Bologna che le sue trasgressioni sul sesso avevano aperto il cinema italiano a una massa di film per guardoni e pipparoli. Verissimo. Ma anche quei film per guardoni e pipparoli, che giocavano al gatto e al topo coi censori, hanno un po' contribuito a liberarci da conformismo e cultura cattolica, che erano le piaghe di un cinema fatto da borghesi per un pubblico borghese. Oggi le piaghe di chi cerca di esprimersi col cinema sono l'autocensura già a livello di sceneggiatura legata alla committenza, cioè alle piattaforme. E l'autocensura legata al politicamente corretto rispetto praticamente a tutto. Che libertà abbiamo allora?

 Tra i titoli presi di mira “L’Ultimo tango a Parigi”. Storia dei film tagliati o proibiti, addio alla legge Andreotti sulla censura. David Romoli su Il Riformista il 7 Aprile 2021. L’ultimo caso è recente, più di quanto non ci immaginerebbe: Morituris, di Raffaele Picchio, sarebbe dovuto approdare nelle sale cinematografiche il 19 novembre 2012. Non ci arrivò mai. La Commissione di revisione cinematografica, istituita con la legge del 1962, considerò la pellicola «un saggio di perversità e sadismo gratuiti» e ne vietò la diffusione. Da ieri, grazie al decreto del ministro Franceschini, non potrebbe più succedere. Negli ultimi decenni non era in effetti capitato quasi mai che fosse proibita la diffusione di un film nei cinema o in tv. Ma l’eventualità era possibile, come il caso del film di Picchio dimostra, e la decisione di Franceschini mantiene un certo valore simbolico, anche se interviene su una realtà già spenta, lontana anni luce dall’antico splendore della censura italiana in materia di cinema. La sforbiciata, più o meno drastica, è antica quanto il cinematografo o quasi. A introdurla ufficialmente fu un Regio decreto del 1920, il fascismo ereditò e rimpinguò. La Repubblica garantì nella Carta, all’art. 21, il diritto alla libertà d’espressione ma considerò le buie sale cinematografiche territorio franco. Non solo lasciò in vigore le regole precedenti ma le rimpinguò con l’aggiunta, invocata dalla Chiesa, del divieto di «manifestazioni contrarie al buoncostume». Gli interventi con le forbici, nella storia repubblicana, si contano a centinaia, forse a migliaia, non tanto con il divieto assoluto di uscita nelle sale e/o sul piccolo schermo quanto con i “tagli parziali”, tesi ad emendare le pellicole dai passaggi più scabrosi. Come il passaggio di una copia dell’Unità dalle mani empie di un sindaco comunista a quelle santificate di un sacerdote, per tacere dei i costumi succinti, in La spiaggia di Lattuada nel 1954. O come il leggendario Totò e Carolina di Monicelli, che da solo è un’esaustiva enciclopedia delle maniacali idiosincrasie dell’epoca. I censori, e prima di loro il presidente del consiglio Mario Scelba, saltarono sula sedia quando videro un camion pieno di operai che cantavano Bandiera rossa (rimpiazzata con un patriottico Di qua e di là dal Piave), ma anche quando dovettero subìre i continui riferimenti alla immorale condizione della protagonista, una ragazza madre, gli offensivi riferimenti satirici alle forze dell’ordine, interpretando Totò appunto un agente di polizia, persino un’allusione al suicidio. I tagli furono da altissima macelleria: 31 scene, 200 metri di pellicola. Andò peggio a Le avventure di Giacomo Casanova, veneziano, di Steno. Preso di mira con foga degna di Bernardo Gui dal sottosegretario con delega allo Spettacolo e futuro presidente della Repubblica Scalfaro, il vero “grande inquisitore” italiano, fu ritirato dalle sale nel 1954 e “rilasciato” solo dopo essere stato mondato di ben 500 metri di pellicola e con l’aggiunta di sei sequenze edificanti. Il ritiro totale di un film dalle sale è scattato solo in una quindicina di occasioni e il primo a essere colpito tanto duramente non fu un regista italiano sospetto di mire sovversive o di impudiche allusioni ma il Maestro Alfred Hitchcock, nel 1949, per Nodo alla gola. Quell’omicidio per gioco commesso da due studenti affetti da malinteso superomismo, oltretutto facilmente identificabili come omosessuali, sembrò un esempio pericoloso ai sorveglianti italiani. Negarono il nulla osta, salvo concederlo 7 anni dopo ma a patto che il doppiaggio stravolgesse il senso stesso del film, rendendolo oltre tutto quasi incomprensibile. Di quelle 15 pellicole maledette quasi tutte sono poi arrivate o tornate in un modo o nell’altro sugli schermi o sui teleschermi, anche la più maledetta di tutte, quell’Ultimo tango a Parigi di Bertolucci nonostante la Cassazione, dopo 3 anni di tira e molla giudiziari, avesse ordinato la distruzione totale dei negativi. Qualche copia, inclusa quella in possesso del regista condannato a 4 mesi di detenzione e 5 anni di sospensione dai diritti politici, sopravvisse al rogo. Quando, 11 anni dopo, il capolavoro di Bertolucci fu riabilitato poté così ricomparire in forma integrale. Il Tango di Marlon e Maria Schneider non era la prima pellicola condannata a bruciare in infernale fiammata. Nel 1963 la stessa sorte era stata decretata per il documentario di Giuliano Montaldo, Elio Petri e Giulio Questi, con lo pseudonimo collettivo “Elio Montesti”, Nudi per vivere. Non lo ha visto quasi nessuno ma una copia è stata ritrovata fortunosamente negli archivi della Cineteca nazionale. Persino il massacratissimo Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, del 1980, alla fine è uscito in versione integrale dvd dopo essere stato fatto a pezzi prima che fosse concesso il nulla osta dopo un tempestivo ritiro. Va detto che il film un po’ estremo lo è davvero: censurato in 50 Paesi detiene il record mondiale in materia. Nulla o quasi da fare, invece, per un kolossal che di scabroso o efferato non ha niente, Il leone del deserto, la produzione più ambiziosa e costosa mai realizzata in Libia. Solo che lì la parte dei cattivi la facevano gli italiani invasori e l’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti fu irremovibile: «Danneggia l’onore dell’esercito italiano». Mai proiettato, è stato trasmesso una sola volta, da Sky, in occasione della visita di Gheddafi a Roma. Nella storia della censura repubblicana Andreotti occupa una postazione centralissima. Fu lui, giovane sottosegretario con delega allo Spettacolo, a ideare la formula che avrebbe permesso di prevenire invece che reprimere. La sua legge, che di fatto introduceva una sorta di censura preventiva, non fu affatto solo esecrabile. Pensata per sostenere il cinema italiano schiacciato da Hollywood garantiva massicci e preziosi, anzi indispensabili sostegni pubblici. Però solo alle sceneggiature approvate dalla Commissione ministeriale. A quelle bocciate veniva inoltre negata la licenza di esportazione. Gli interventi sui copioni furono numerosissimi. Le aree critiche erano sei: buon costume, moralità, ordine pubblico, violenza, rapporti internazionali e il più importante di tutti, quello sul quale la vigilanza era più maniacale, la «reputazione nazionale». Andreotti, padre della legge, andò giù pesante ma non troppo. Il successore, Scalfaro, ci mise ben altra foga. L’estate della censura iniziò a declinare con la legge del 1962 che di fatto abolì la censura preventiva, concentrò gli strali sul “buon costume” e delegò la magistratura a intervenire non più in fase di produzione ma con lo strumento del sequestro della pellicola. Anche in questo caso qualche inquisitore si distinse, più occhiuto e baldanzoso dei colleghi. La palma se la conquistò il procuratore di Roma Carmelo Spagnuolo, che peraltro si era già messo in sinistra luce sin dal 1960, con la vera e propria crociata contro Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Fatti salvi gli ultimi fuochi, come il sequestro di Morituris, l’epopea drammatica e grottesca della censura italiana era già finita da un pezzo, conclusa come in un pirotecnico fuoco d’artificio finale dall’assurdo ritiro dalla circolazione per una ventina d’anni di W la foca, dovuto solo alle allusioni indotte dal titolo. Dario Franceschini si è limitato a calare la censura cinematografica nella fossa, sovrastata dalla lapide dove campeggerà la frase storica pronunciata dal Divo Giulio all’atto di giustificare i suoi tagli e i suoi divieti: «I panni sporchi si lavano in famiglia».

Maurizio Porro per corriere.it il 7 aprile 2021. La notizia che il ministro Franceschini ha abolito la censura cinematografica ribadisce un decreto già nella legge sul cinema del 2016 ed annuncia una commissione per la classificazione delle opere: si tratta non solo di cinema, ma di teatro, arte e letteratura. In realtà non cambia nulla. Luigi di Majo, un avvocato che ha difeso il miglior cinema italiano negli anni 60 e 70, cui si deve la salvezza di Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e Salò di Pasolini, dice: «La censura non è finita, perché il massacro di un certo cinema italiano non è stato opera della censura ministeriale ma della magistratura repressiva che operava sequestri nazionali partendo dal luogo dove il film era uscito in prima. Tutto ciò rimane valido ed è ovviamente a discrezione completa del magistrato e di un comune senso del pudore che, com’è noto, è soggettivo e mutevole. Su questo elemento vincemmo la causa di Ultimo tango nell’87 dopo 12 anni in cui il film fu mandato al rogo e Bertolucci privato dei diritti civili». Ci furono casi clamorosi, molti partiti proprio da Milano, in cui furono colpiti i migliori registi italiani, da Visconti a Pasolini, da Bertolucci (Novecento atto I) ad Antonioni, da Petri alla Cavani, poi Rosi, Ferreri, Monicelli, sfiorando anche il Casanova di Fellini, assolto senza processo. Trombi e Spagnuolo erano a Milano i due magistrati di cui si aveva più timore, tanto che i produttori facevano uscire i film giudicati in odor di «scandalo» nelle città dove potevano contare su magistrature più aperte, come Bolzano. A Milano si prendevano di mira capolavori come Rocco e i suoi fratelli, la cui prima fu alla Mostra di Venezia (proprio il magistrato e non un censore propose a Lombardo e a Visconti i tagli nella scena finale), si sequestrava L’avventura per una sequenza che oggi è ridicolo solo pensare scabrosa, La giornata balorda di Bolognini e si mettevano a tacere anche spettacoli scomodi come L’Arialda di Testori e la Santa Rita di Paolo Poli a teatro. Pasolini non ha avuto un film passato indenne, compreso il Decameron che ebbe guai al Sud. «Il tema — dice Di Majo — è la persistenza dell’articolo 528-29 del codice penale sugli spettacoli osceni, ribadito che bisogna sempre tutelare i minori, perché un’opera giudicata oscena può essere vista dagli adulti ma proibita ai minori. Senza censura ufficiale, c’è il rischio oggi che la magistratura intervenga pure maggiormente, che l’organo giudiziario superi l’amministrativo». Speriamo che sia un capitolo chiuso. Afferma Di Majo: «L’anomalia è che erano i magistrati a proporre i tagli sostituendosi così alla censura e si trattava spesso anche di giovani democratici, ma era un periodo in cui i magistrati si sentivano tutori del costume nazionale, tanto che Salò fu denunciato, processato e assolto due volte». Tra i 274 titoli della storia del cinema italiano bersagliati (sempre scelti non a caso), «Rocco», il capolavoro di Visconti, è stato assai chiacchierato. «Una cosa che non si sa è che il nome della famiglia che viene dal Sud era Pafundi ma fu cambiato all’ultimo in Parondi per la protesta un magistrato che si chiamava davvero Rocco Pafundi».

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 5 aprile 2021. Vi ricordate di Francesco Maria De Vito Piscicelli? Se il nome non vi dice nulla vi rinfresco la memoria. Il signore in questione è un imprenditore che nel febbraio di 11 anni fa venne arrestato per gli appalti della ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo. Non fu però per le accuse di corruzione che il suo nome finì sui giornali, ma per la pubblicazione della trascrizione di una conversazione tra lui e il cognato. Al telefono, mentre gli italiani seguivano con dolore le operazioni di soccorso nelle zone stravolte dal sisma, i due se la ridevano. Il congiunto di Piscicelli raccomandava di partire subito in quarta, cioè di darsi da fare con gli appalti: «Perché non c'è un terremoto al giorno». Nel senso che una «fortuna» del genere non capita spesso. E l'altro rispondeva: «Io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro il letto». In pratica, la tragedia aveva messo allegria a Piscicelli. Il cinismo dei due imprenditori felici per una calamità in cui perirono oltre 300 persone suscitò un'indignazione collettiva e non ci fu giornale che non avesse messo in prima pagina la notizia dei due avvoltoi che si felicitano fra loro per la catastrofe. Vi chiedete perché tirare fuori ora questa vecchia storia? Perché ho la sensazione che l'indignazione proceda a singhiozzo: se c'è di mezzo uno sconosciuto come Piscicelli, ci si può sdegnare per il disprezzo della vita umana, se invece si parla di qualcun altro, magari della famiglia Benetton, si procede con cautela, moderando le parole. Anzi: cancellandole. Già avevamo notato l'atteggiamento prudente della grande stampa due anni e mezzo or sono, quando venne giù il ponte Morandi. Per far spuntare in prima pagina il nome degli imprenditori di Ponzano c'erano voluti giorni: tranne La Verità e forse un altro quotidiano, raccontando la strage in cui morirono 43 persone i giornaloni riuscirono a non citare i padroni di Autostrade, quasi che la società fosse una specie di public company, cioè di azienda con tanti piccoli azionisti. In realtà, come tutti sanno, il socio di riferimento era uno solo, ossia la holding dell'impero dei maglioni che per anni, grazie alla riduzione degli investimenti in manutenzione, aveva incassato dividendi miliardari. Ma se alla fine, dopo un disastro in cui 556 persone persero la casa, con molta timidezza il nome dei Benetton fu fatto, adesso si procede con cura, cercando di non mettere troppo in imbarazzo i signori di Ponzano, evitando cioè di disturbare la vendita di Autostrade a Cassa depositi e prestiti, operazione che, guarda caso, si sta concludendo proprio ora. Vi chiedete che cosa ci sia di nuovo da aggiungere a una vicenda che già è stata scandagliata anche da una raffica di indagini? Beh, di nuovo c'è quel che abbiamo raccontato l'altro giorno e di certo è una novità. Il settimanale Panorama, scartabellando fra le carte dell'inchiesta della Procura di Genova, ha pubblicato le conversazioni tra i vertici del gruppo, ovvero tra l'amministratore della holding di famiglia e gli amministratori di Atlantia. È il 31 dicembre del 2019 e Gianni Mion parla con Carlo Bertazzo e Fabio Cerchiai, rispettivamente amministratore delegato e presidente della società che controlla Autostrade. Poche ore prima, sull'autostrada dei trafori che porta a Genova, dal soffitto di una galleria, è crollato un enorme blocco di cemento e solo per un soffio non ci sono stati morti. Dopo il disastro del ponte Morandi, ci si aspetterebbe che i tre dimostrino preoccupazione per la sicurezza degli automobilisti. Invece, a quanto pare, i manager del gruppo sono preoccupati solo delle loro vacanze. Riporto direttamente il brano di Panorama, che molti lettori già conoscono perché La Verità lo ha scritto due giorni fa. «Cerchiai è pensieroso: "per andare giù devo fare tutte le gallerie". Risate. Bertazzo fa riferimento a un censimento del Mit sui tunnel non a norma: "Mi son preso paura quando m' ha detto 200 gallerie su 270 in Italia". Irrompe Mion: "Devi andare in aereo, devi andare in aereo". Cerchiai sta al gioco: "Vado in aereo, difatti, sì". Altra ilarità. Chiude Mion: "Eh sì, però, se vai in galleria puoi fare tu il monitoraggio". Nuove risate». Tutto ciò, ribadisco, dopo il crollo del ponte Morandi con 43 vittime. E dopo la strage del bus caduto dal viadotto dell'autostrada Napoli-Canosa in cui, anche per scarsa manutenzione, morirono 40 persone e otto rimasero ferite. Certo, il cinismo di Piscicelli era insopportabile: un insulto ai morti del terremoto. Ma anche quello dei manager di casa Benetton è un insulto alle vittime della mancata manutenzione. E tuttavia, l'indignazione della grande stampa per quelle risate non c'è stata. I tre scherzano perché un pezzo di galleria è caduto e dicono di non voler viaggiare in autostrada per paura, ma sono gli stessi che sulle autostrade incassano fior di pedaggi, mandando altri sotto le gallerie. Non so voi, ma a me è parsa subito una notizia da prima pagina. Ai giornaloni no, tanto che hanno evitato di pubblicarla. Zitti zitti, perché una delle famiglie più ricche d'Italia non può certo essere trattata come un Piscicelli qualunque. E poi, come la mettiamo con la bella pubblicità multirazziale e multimilionaria fatta dai Benetton?

Ashley Gold per axios.com l'11 marzo 2021. YouTube ha rimosso più di 30.000 video che contenevano affermazioni fuorvianti o false sui vaccini anti Covid-19 negli ultimi sei mesi, come ha rivelato la portavoce della società Elena Hernandez. Del resto diversi sondaggi mostrano che circa il 30% degli americani è esitante o sospettoso nei confronti dei vaccini e molti di questi dubbi sono stati alimentati da falsità online e teorie del complotto. Tutto ciò mentre la campagna vaccinale negli Stati Uniti procede spedita. Le piattaforme, tra cui Facebook e Twitter, hanno quindi deciso di impegnarsi di più per ridurre la diffusione e la portata di questi contenuti, ma si tratta di una sfida continua. A ottobre del 2020 YouTube ha iniziato a includere il capitolo della "disinformazione sulla vaccinazione" nella sua politica contro le fake news sul Covid-19. Da febbraio 2020 l'azienda ha già rimosso più di 800.000 video con informazioni errate sul coronavirus in generale, non soltanto sulle iniezioni. I filmati "incriminati" vengono prima contrassegnati dai sistemi di intelligenza artificiale o da controllori umani, poi ricevono un altro livello di revisione. I video che violano la politica sui vaccini, secondo le regole di YouTube, sono quelli che contraddicono il parere degli esperti, quello delle autorità sanitarie o dell'Organizzazione mondiale della sanità. Gli account che infrangono le regole sono soggetti a un sistema di "avvertimento", che può comportare anche l'esclusione permanente dei profili.

Giuseppe D'Amato per "Il Messaggero" l'11 marzo 2021. La risposta russa alla fine è arrivata. L'Autorità per le comunicazioni federale (Roskomnadzor) ha disposto ieri il «rallentamento» di Twitter. È la prima volta che viene attuata una misura del genere. Secondo Mosca la compagnia americana non ha rimosso circa 3 mila post, vietati in Russia, riguardanti suicidi, droga e pornografia. A nulla, è stato spiegato, erano valse finora precedenti minacce e multe. La vicenda giudiziaria si trascina dal 2017. «Non abbiamo il desiderio di bloccare qualcuno - ha spiegato il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov -, ma è ragionevole prendere misure per forzare queste compagnie a tenere conto delle nostre leggi». Roskomnadzor ha ora dato tempo a Twitter per adempiere alle proprie richieste, altrimenti seguiranno relativi provvedimenti. Mosca mostra così i muscoli, utilizzando nuove tecnologie nel quadro del progetto Internet sovrano, chiamato da altri Internet russo, approvato in Parlamento nel 2019. Qualcuno è anche arrivato ad ipotizzare la volontà politica di staccare il ramo russo dal web internazionale. La Russia starebbe iniziando lo stesso percorso seguito dalla Cina, che impedisce l'accesso a numerosi siti occidentali. In precedenza, tra il 2018 ed il 2020, Mosca aveva tentato invano di bloccare sul territorio nazionale il sistema di messaggistica Telegram, andando incontro a figuracce inattese e provocando disservizi in serie. Adesso viene utilizzata un'altra strategia, con l'uso dei DPI (installati presso i provider) e non più degli account IP. Ma anche ieri, come nel caso di Telegram, l'intero sistema ne ha risentito del rallentamento. Numerosi siti ufficiali, anche governativi - tra cui quello del Cremlino, della Duma e di vari ministeri - hanno avuto problemi tecnici, rimediati solo nella tarda giornata. Quanto successo (ossia gli effetti collaterali), ha commentato Stanislav Selezniov, capo di una Ong, «dimostra l'impreparazione tecnica da parte di chi ha attuato tale provvedimento». Stando ad Andrej Soldatov, esperto di sicurezza cibernetica, quanto accaduto è soltanto una prova, un messaggio di fare attenzione da parte delle autorità recapitato ai social media. Secondo gli specialisti del settore oltre a Twitter in futuro altre piattaforme occidentali verranno presto soggette ad analoghe misure. «Questo è solo l'inizio - prevede Michail Klimariov, direttore della Società di protezione di Internet - Facebook e Google saranno i prossimi. Stanno mandando un segnale forte». A breve in aprile sono in agenda presso un tribunale moscovita nuove udienze contro Twitter, Facebook, Google, TikTok e Telegram per non aver rimosso messaggi collegati con le manifestazioni di protesta contro l'arresto del blogger e politico, Aleksej Navalnyj, ora detenuto in carcere, manifestazioni registratesi in tutto il Paese a cavallo tra gennaio e febbraio. I social media sono utilizzati tantissimo dalle opposizioni anti-Cremlino e hanno ormai un'efficacia e influenza paragonabili a quelle delle televisioni, completamente controllate dal potere. Il caso Navalnyj, una sfida considerata serissima, va inquadrato anche in questo scenario di scontro mediatico. Le giovani generazioni, fino ai quarantenni compresi, si informano solo su queste piattaforme, contro le quali il potere fino ad oggi si è mostrato inerme, subendone del tutto il peso. I social media sono poi considerati nelle stanze del potere moscovita un mezzo utilizzato dall'Occidente per interferire in questioni interne. Quest'anno a settembre sono programmate le elezioni parlamentari. Ecco un'altra ragione della stretta. Al Forum economico di Davos il presidente russo Vladimir Putin ha accusato i giganti del web di «controllare la società», di «competere contro gli Stati» e di «restringere il diritto di esprimere liberamente i propri punti di vista». In gennaio la Russia aveva anche criticato Twitter per aver annullato l'account dell'ex presidente Usa Donald Trump e qualche giorno fa Facebook per aver censurato articoli della stampa pro-Cremlino. Mosca afferma di avere proprie opinioni e di avere il diritto di sostenerle. L'Occidente, invece, controbatte e le definisce «mistificazioni, falsificazioni e propaganda».

La predica e la risposta del giornalista. Saviano scivola sulla lezione di giornalismo: “USA poco raccontati”, la replica di Francesco Costa. Vito Califano su Il Riformista il 24 Marzo 2021. Roberto Saviano spara nel mucchio: se non capiamo gli Stati Uniti è perché non sono raccontati, e quindi del giornalismo, a suo modo di vedere non in grado o non attento a narrare la realtà degli Stati Uniti. Che non sono New York, Los Angeles, le luci di Las Vegas, ma anche tanta altra provincia decentralizzata e retrograda. E grazie: come se gli USA fossero una cosa o l’altra. A ispirare il post dello scrittore esploso con il best seller Gomorra la strage di ieri a Boulder, appena fuori Denver, dove un 21enne ha ucciso 10 persone, tra cui un poliziotto; e quella di Atlanta il 16 marzo: 8 morti. Se non capiamo, non comprendiamo, non cogliamo certe realtà è perché “l’America è poco raccontata”, ha scritto in un post condiviso su Instagram. Dimenticando centinaia di film, romanzi, racconti, graphic novel, e perfino articoli, sissignore: giornalismo, che lo racconta quotidianamente. Perfino in Italia. A replicare al caustico e cinico e senza via d’uscita commento di Saviano è arrivato Francesco Costa. Giornalista, esperto degli Stati Uniti e di cose americane, vicedirettore del giornale online de Il Post. Costa, tra l’altro ha scritto due libri, per Mondadori; Questa è l’America sugli Stati Uniti di oggi e di ieri – quelli dell’ex Presidente Donald Trump – e Una storia americana. Joe Biden, Kamala Harris e una nazione da ricostruire su quelli di oggi e di domani – protagonisti il presidente Joe Biden e Kamala Harris – e ha tradotto per NR Edizioni Papà, fammi una promessa. Un anno di speranza, sofferenza e determinazione, autobiografia di Joe Biden; è infine autore di una newsletter e podcast Da Costa a Costa, sempre sugli Stati Uniti. Costa insomma è ormai un punto di riferimento per chi si informa su quello che succede negli Stati Uniti. In un lungo post pubblicato sul suo profilo su Instagram, Costa ha risposto a Saviano, riportando i numeri sulla società, sugli aeroporti, sull’America Interna e quella delle grandi metropoli sulle coste, sulle stragi e sul traffico di armi. Un invito, insomma, educato, senza dissing o trash-talking, a riprendere la realtà nella sua complessità. “Nel nostro Paese di editorialisti ottuagenari e opinionisti tuttologi in servizio permanente, non sono tanti gli intellettuali della nostra generazione che abbiano la tua influenza, la tua posizione e la tua autorevolezza. Per favore, non perdere il gusto per la complessità delle cose. Ci servi in forma”. Touché.

Incredibile in Francia, censurato il nome di Samuel Paty. Colpa del filoislamismo di sinistra. Annalisa Terranova sabato 20 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Samuel Paty, il professore decapitato da un fanatico per avere mostrato delle vignette su Maometto, non avrà il ricordo che merita in Patria. Incredibile ma vero nella Francia sempre più preda di deliri filoislamici e politicamente corretti. Gli studenti del primo anno della prestigiosa scuola di studi politici Sciences Po, a Strasburgo, avevano indicato quello di Paty come nome da promuovere  per i prossimi quattro anni. Ebbene la direzione dell’Istituto ha stabilito di scartare i nomi maschili in omaggio alla parità di genere. La cosa ha scatenato un dibattito acceso con gli studenti che hanno accusato la sinistra di calpestare la memoria di un martire della libertà. Il saggista palestinese Waleed Al Husseini, su Twitter, ha denunciato “l’islamogauchismo all’università”. Scontato ricordare, a questo punto, le allarmanti profezie del romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq. L’istituto Sciences Po, tra l’altro, è lo stesso dove due docenti hanno ricevuto la scorta della polizia per le minacce ricevute in quanto “fascisti” e “islamofobi”. La ministra francese dell’Istruzione superiore, Frédérique Vidal, ha chiesto al Cnrs (Centro nazionale della ricerca scientifica) un’indagine sullo stato delle università e ha lanciato l’accusa: «L’Islam-sinistra affligge la società e le università». Una frase che ha scatenato la sinistra, la quale pretendeva le dimissioni della Vidal. Ma lei è andata giù pesante: “Quello che osserviamo nelle università – ha dichiarato in un’intervista – è che c’è gente che può utilizzare i propri titoli e il proprio nome, ma sono una minoranza, per diffondere idee radicali o idee militanti”. Samuel Paty ha ricevuto analogo trattamento, cioè l’oblio, nella città di Ollioules (Var). Il sindaco – riferisce Giulio Meotti nella sua newsletter –  voleva rinominare una scuola media in omaggio a Samuel Paty. “Si era prima premurato di condurre prima un’indagine fra docenti, studenti e genitori: il 100 per cento degli insegnanti ha votato contro la proposta, come il 90 per cento dei genitori e il 69 per cento degli studenti. Il sindaco ha commentato: “È la pusillanimità che regna oggi ed è preoccupante”. Un atteggiamento che regna anche nei talk show, Ne è prova quanto accaduto allo scrittore e giornalista Eric Zemmour, autore di un saggio, Il suicidio francese, diventato un best seller e un caso letterario. Nel libro Zemmour  attaccava la disintegrazione della memoria collettiva della Francia. Ebbene parlando dell’attacco davanti alla ex redazione di Charlie Hebdo, compiuto da un ragazzino pakistano, Eric Zemmour su  CNews a proposito dei rifugiati minorenni diceva che si tratta di soggetti violenti, che non vanno accolti e che vanno rispediti a casa loro. Ebbene, il Consiglio Superiore dell’Audiovisivo ha multato la tv – 200mila euro – che aveva ospitato Zemmour  per “incitamento all’odio”. Un fatto senza precedenti. Nel frattempo il processo di islamizzazione della società va avanti. Soprattutto nei Municipi ad alto tasso di popolazione immigrata. Ancora Giulio Meotti, attentissimo a quanto accade in Francia, riferisce di un’offerta di lavoro pubblicata sulla pagina Facebook dei “Musulmani di Perpignan e dintorni” per l’apertura di un supermercato halal. Vi si specificava che nessuna donna era accettata. I dipendenti devono essere musulmani e maschi. Il sindaco di Perpignan ha chiesto al primo ministro Jean Castex e al ministro dell’Interno Gerald Darmanin di intervenire. Un episodio che fa venire in mente quanto denunciò due anni fa il poeta algerino Kamel Bencheikh, che vive a Parigi. La figlia non aveva potuto salire su un autobus perché aveva la minigonna. Il fatto avvenne nel XIX arrondissement parigino: “Intono alle 23 mia figlia Elise aspettava l’autobus della linea 60 con un’amica, alla fermata Botzaris, vicino al parco delle Buttes Chaumont. Quando è arrivato l’autista si è fermato, le ha guardate ed è ripartito senza aprire le porte”. Poco dopo il bus si è dovuto fermare per un semaforo rosso. Le due ragazze lo hanno allora raggiunto chiedendo spiegazioni all’autista il quale prima di ripartire ha risposto così alla figlia di Bencheikh: ‘Pensa a vestirti come si deve’. L’uomo, secondo quanto raccontato dalla ragazza, aveva l’aspetto maghrebino. La vicenda, scrisse all’epoca il corrispondente da Parigi del Corriere, Stefano Montefiori, è considerata “l’ennesimo caso di intimidazione nei confronti delle donne da parte dei musulmani radicali che abitano nella parte nordorientale di Parigi e in periferia, in particolare nel dipartimento 93 della Seine-Saint Denis”. Che la radicalizzazione islamica nei servizi pubblici fosse un problema lo aveva del resto certificato anche un rapporto che aveva sconvolto, sempre due anni fa, i francesi. Il rapporto concludeva che non era affatto aggiornato il file sulla prevenzione della radicalizzazione nei servizi “sensibili”, compreso quello sanitario.

 (Adnkronos il 19 marzo 2021) "La transizione MiTe impone un diverso approccio, etico e riguardoso della persona e della sua immagine anche negli spazi televisivi dedicati alla politica ed ai suoi approfondimenti. Il cittadino ha diritto di essere informato sui contenuti. Non è più tollerabile che il dibattito sui temi che interessano ai cittadini venga svilito da una sorta di competizione al ribasso dove vince chi urla più forte. Non è più accettabile che le immagini dei servizi e degli ospiti in studio vengano svilite con inquadrature spezzettate e artatamente indirizzate. Non è più ammissibile che l'ospite in trasmissioni televisive (rappresentante politico, esperto, opinionista, ecc) venga continuamente interrotto quando da altri ospiti, quando dal conduttore, quando dalla pubblicità, che determina il livello del programma fomentando la litigiosità ed immolando il rispetto della persona sull'altare dell'audience". Lo scrive Beppe Grillo sul suo blog. "Questo modo di fare televisione -aggiunge- non serve a informare, ma a propinare le posizioni degli editori o dei conduttori di turno e queste non interessano ai cittadini. Questa non è informazione, ma intrattenimento di bassa lega che sfocia in propaganda da quattro soldi. D'ora in poi, per rispetto dell'informazione e dei cittadini che seguono da casa, chiediamo che i nostri portavoce, ospiti in trasmissioni televisive, siano messi in condizione di poter esprimere i propri concetti senza interruzioni di sorta per il tempo che il conduttore vorrà loro concedere, e con uguali regole per il diritto di replica, che dovrà sempre essere accordato". "Chiediamo, inoltre, che i nostri portavoce siano inquadrati in modalità singola, senza stacchi sugli altri ospiti presenti o sulle calzature indossate, affinché l'attenzione possa giustamente focalizzarsi sui concetti da loro espressi. Poche regole, di buon senso oltre che di buona educazione, che se osservate -conclude- consentiranno ai portavoce del M5S di presenziare a trasmissioni televisive con la giusta considerazione e il dovuto rispetto nei confronti dei telespettatori".

“Chi canta la mafia commette reato”. L’ultima idea dei grillini. Al bando canzoni che strizzano l'occhio alla criminalità organizzata. Il De Andrè di "Don Raffaè" avrebbe rischiato l'ergastolo. Il Dubbio il 20 marzo 2021. «La mafia vive di messaggi e certi messaggi vanno fermati. Qualsiasi sia il canale di cui si servono». Stefania Ascari, deputata M5s e componente della commissione Antimafia, è prima firmataria di una proposta di legge che prevede di introdurre nel nostro ordinamento l’aggravante dell’istigazione o dell’apologia del delitto di associazione di tipo mafioso. «È intollerabile che certi boss o certi stili di vita vengano lodati o addirittura proposti a modello», spiega Ascari, ricordando casi eclatanti come le esequie di Vittorio Casamonica o le processioni religiose con soste davanti alla casa del padrino di turno: «Una deriva inaccettabile, che negli ultimi tempi ha trovato nuova linfa nei social network e in alcune canzoni». Chissà che fine farebbe il povero Fabrizio De Andrè che con la sua (splendida) don Raffaè, visto che osò addirittura cantare le “gesta” del boss della camorra Cutolo.  Probabilmente sarebbe finito all’ergastolo. L’ultimo caso in ordine di tempo, spiega la deputata pentastellata, è quello del video rap di solidarietà ai fratelli Travali di Latina, uno dei quali ritenuto numero due del clan Di Silvio: nella clip, rimasta per diverse ore su YouTube, si vedevano giovani con il volto coperto da passamontagna e si inneggiava con parole e gesti alla violenza e ai “soldi facili”. Dell’argomento si era già discusso qualche tempo fa, quando in Calabria era esploso il caso dell’artista Teresa Merante, messa alla gogna e bollata come “cantante della malavita” per le sue strofe dedicate ai detenuti. «Di esempi come questo – stigmatizza Ascari – cominciano ad essercene tanti, troppi, è ora di intervenire». L’istigazione a delinquere nel nostro codice è prevista dall’articolo 414 del codice penale: «C’è una aggravante se l’istigazione o l’apologia riguarda delitti di terrorismo ma noi (gli altri firmatari sono i deputati De Carlo, Mariani, Martinciglio, Romaniello, Spadoni, Termini e Villani) crediamo che sia il caso di prevedere un’aggravante specifica, proprio per chi istiga alla mafia: è il caso di tenere separati i due piani, soprattutto per il valore simbolico che tutto questo può assumere». L’articolo 1 (la proposta di legge si articola su due) stabilisce che la pena è aumentata fino a due terzi «se il fatto è commesso durante o mediante spettacoli, manifestazioni o trasmissioni pubbliche o aperte al pubblico ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici». E che «non possono essere invocate, a esimente, ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume». «Non ha senso parlare di censura – obietta però Ascari – La libertà d’espressione è sacra e nessuno si sogna di metterla in discussione: ma dire, come ha fatto qualcuno, che era giusto far saltare in aria Falcone e Borsellino con la libertà d’espressione non c’entra davvero niente. È solo una forma di istigazione. E come tale va punita. Anche tenuto conto del fatto che messaggi come quelli veicolati, ad esempio, dal rap o dalla canzone neomelodica entrano non solo nelle periferie ma anche nelle carceri. Dove, non lo dimentichiamo, sono tanti i giovani al 41 bis». L’articolo 2 prevede invece che quando il reato viene commesso «mediante l’utilizzo di social network ovvero mediante emittenti radio o televisive o per mezzo della stampa, il soggetto responsabile della divulgazione del contenuto non conforme al divieto di apologia previsto dal medesimo comma è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro e con l’obbligo di rettifica». «L’obiettivo – conclude la parlamentare M5s – è quello di responsabilizzare tutti gli operatori della comunicazione, nessuno escluso. Perché ancora oggi il fenomeno mafioso non viene preso con la dovuta serietà nemmeno a livello di istituzioni e di enti locali. Almeno in certe aree, più che di infiltrazioni, parlerei di radicamento. E il contrasto parte anche dal linguaggio».

LA CANCELLAZIONE DI UN PROFILO FACEBOOK VA RISARCITA. Daniela Guastamacchia su Il Corriere del Giorno il 18 Marzo 2021. Riconosciuto il grave danno alla vita di relazione e alla espressione del pensiero. Sanzionata FACEBOOK per la rimozione senza giustificazioni di un account personale e pagine commerciali, accusata per la propria difesa svolta che “non soltanto è stata del tutto priva di fondamento, con manifesta funzione dilatoria, ma è anche venuta meno a elementari regole di correttezza processuale”. Il Tribunale di Bologna con ordinanza del 10 marzo ha stabilito che “Facebook non è solo una occasione ludica, di intrattenimento, ma anche un luogo, seppure virtuale, di proiezione della propria identità, di intessitura di rapporti personali, di espressione e comunicazione del proprio pensiero” e quindi la rimozione del proprio profilo senza alcuna legittima motivazione da parte della società deve essere risarcita. Facebook Ireland Limited , la società europea del colosso americano è stata condannata a risarcire i danni subiti dall’ avvocato Vincenzo de Gaetano, il quale era titolare di una pagina che aveva il proprio nome e cognome, al quale erano collegate 2 pagine di collezionismo e storia militare, una chiamata “Collezionismo, militaria e legge”, l’altra “Libri e riviste storia militare” con moltissimi contatti in tutto il mondo, al quale poco più di un anno fa all’improvviso erano state rimosse le sue pagine dal social network senza alcuna giustificazione. L’ avvocato de Gaetano è stato assistito dagli avvocati Claudia Pedicini, Valeria Damiani e Giulia Panizza. Facebook ha sostenuto in Tribunale di avere distrutto tutta la documentazione relativa al contratto, e quindi di non essere più nelle condizioni di poter verificare i motivi della rimozione e quindi neanche di ripristinare l’account, giustificandosi per l’eliminazione definitiva delle varie pagine, addebitandole in realtà alla negligenza del professionista che aveva aspettato 7 mesi per iniziare il procedimento. Ma su questo punto il giudice parla di giustificazione “palesemente insincera” considerato che il gestore già nella e-mail del 3 gennaio 2020, cioè il giorno dopo il suo recesso unilaterale, scriveva all’utente de Gaetano che “l’account era stato disattivato in modo permanente a causa della violazione degli ‘Standard della Community di Facebook’ e che, purtroppo, non sarebbero stati in grado di riattivarlo in ogni caso“. I legali di Facebook hanno sostenuto inoltre che la causa doveva essere radicata in un tribunale dell’Irlanda e non a Bologna, ma il giudice ha fatto valere la legislazione a difesa del consumatore e ha proceduto al vaglio della vicenda. Nell’udienza gli avvocati di Facebook hanno ribadito nel merito, come si legge dal provvedimento, “l’indeterminatezza della domanda arrivata dal ricorrente”, attaccandosi alla mancanza degli indirizzi Url (l’identità di ogni pagina o profilo) delle pagine , ma, gli stessi contestualmente hanno indicato l’esistenza di un precedente  account collegabile all’indirizzo email di Vincenzo de Gaetano che in virtù del lungo tempo trascorso era stato definitivamente cancellato e i dati a esso associati non sarebbero potuti più essere ripristinati. Un teorema difensiva quella di Facebook che è stata rigettata dalla 2a sezione civile del Tribunale di Bologna, poichè la cancellazione non era dovuta da alcuna esigenza oggettiva, trattandosi di dati immateriali, facilmente conservabili, almeno per un certo periodo. L’ordinanza del Tribunale, sottolinea invece la distruzione documentale, è la prova testimoniale di una condotta contrattuale scorretta, perché non permette di ricostruire l’andamento del rapporto, adottando “un comportamento negoziale palesemente contrario ai doveri di buona fede e correttezza”. “La difesa svolta non soltanto è stata del tutto priva di fondamento, con manifesta funzione dilatoria, ma è anche venuta meno a elementari regole di correttezza processuale” in quanto “la rimozione di contenuti e la sospensione o cancellazione di account è prevista soltanto per le giuste cause indicate nel regolamento contrattuale, con obbligazione per il gestore di informare l’utente delle ragioni della rimozione”. L’ordinanza del Tribunale di Bologna evidenzia sulla rilevanza del danno, che l’esclusione dal social network, con la distruzione della rete di relazioni frutto di un lavoro di costruzione durato, in questo caso, 10 anni “è suscettibile dunque di cagionare un danno grave, anche irreparabile, alla vita di relazione, alla possibilità di continuare a manifestare il proprio pensiero utilizzando la rete di contatti sociali costruita sulla piattaforma e, in ultima analisi, persino alla stessa identità personale dell’utente, la quale come noto viene oggi costruita e rinforzata anche sulle reti sociali“. Un danno che non si può certo rimediare creando un nuovo profilo personale e nuove pagine, visto che resta evidente la perdita della rete di relazioni, “la quale viene costruita dagli utenti del social network con una attività di lungo periodo e non semplice” il cui risarcimento è stato quantificato dal Tribunale di Bologna in 10.000 euro per il profilo e in 2.000 euro per ciascuna delle 2 pagine cancellate.

Maneskin, Instagram censura la foto scattata alla finale di Sanremo. La popolare piattaforma di immagini ha cancellato una foto scattata dal gruppo nei camerini poco prima della vittoria del Festival per "atti sessuali espliciti". Novella Toloni - Lun, 08/03/2021 - su Il Giornale.  L'irriverenza dei Maneskin è piaciuta al pubblico del festival di Sanremo, ma non a Instagram. La popolare piattaforma dedicata alle foto, infatti, ha censurato uno scatto condiviso dalla band sui social network durante la serata finale della kermesse. Un episodio che aveva già visto protagonista la band lo scorso novembre e che si è ripetuto per colpa dell'outfit scelto dai quattro ragazzi e dal gesto del leader Damiano immortalato nella foto. I Maneskin hanno vinto la 71esima edizione del festival di Sanremo e hanno dominato i social network, conquistando lo scettro virtuale di band più citata e commentata della finalissima della kermesse. Uno scatto audace li ha però fatti finire nel mirino della censura di Instagram. Intorno alla mezzanotte di sabato sera, quando la gara era ancora nel vivo, il gruppo ha pubblicato su Instagram e Twitter una foto di gruppo dai camerini per chiedere ai fan di sostenerli al televoto. Nello scatto i Maneskin indossano i loro abiti di scena color carne con i quali si sono esibiti sul palco del teatro Ariston nel corso della finale. Abiti che, a colpo d'occhio, fanno sembrare i componenti della band seminudi. In realtà la mannaia della censura di Instagram si è abbattuta sui Maneskin non tanto per gli abiti quanto per il gesto compiuto dal leader della band, Damiano, che si tocca le parti intime in tono provocatorio. Un'immagine che per gli amministratori della popolare piattaforma fotografica non corrisponde agli standard regolamentari e che violava le linee guida del famoso social "in materia di nudi e atti sessuali". La segnalazione ha così provocato l'immediata rimozione della foto da Instagram, ma non da Twitter che evidentemente porta avanti una differente politica in materia di contenuti vietati. Era già successo lo scorso novembre quando i Maneskin hanno pubblicato il loro singolo "Vent’anni", accompagnato dalla provocante campagna ideata da Oliviero Toscani. Anche in quell'occasione Instagram aveva riscontrato violazioni nelle linee guida in tema di nudo e atti sessuali - visto che nello scatto la band appariva completamente nuda - e aveva provveduto a cancellare il post incriminato. Ma i Maneskin si erano difesi motivando la loro scelta: "Quello che volevamo rappresentare tramite questo scatto era proprio questo concetto di un amore universale puro e privo di qualsiasi pregiudizio".

La decisione. Twitter blocca Forza Nuova e Roberto Fiore, neofascisti sospesi per “violazione delle regole”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Stop all’account di Forza Nuova su Twitter. Il social network ha infatti sospeso il partito neofascista guidato dal segretario Roberto Fiore, bloccando anche il profilo dello stesso Fiore e del vicesegretario nazionale Giuseppe Provenzale. La ragione, secondo quanto anticipato da Paolo Berizzi di Repubblica, sarebbe dovuta a una generica “violazione delle regole”. Da ieri sera dunque i circa 19mila followers della pagina nazionale del partito, i 19mila di Fiore e i poco meno di 2mila di Provenzale non possono più visualizzare i tweet. Non è la prima volta che i social prendono di mira la galassia dell’estrema destra italiana: nel settembre 2019 Facebook e Instagram oscurarono Forza Nuova e CasaPound, movimento ‘gemello’ nell’ideologia neofascista. In quell’occasione CasaPound fece ricorso contro la scelta delle piattaforme social, parlando di “attacco discriminatorio da parte dei colossi del web” nato perché le "tartarughe nere" facevano opposizione “in piazza contro il governo”. CasaPound in quell’occasione vinse il ricorso: i giudici ordinarono infatti a Facebook di riattivare la pagina social, condannando Mark Zuckerberg non solo al pagamento delle spese legali, circa 15mila euro, ma anche ad un risarcimento di 800 euro per ogni giorno di mancata riattivazione della pagina. Lo scorso dicembre Forza Nuova si era ufficialmente sciolta per confluire all’interno di un nuovo movimento, Italia Libera, un contenitore politico che racchiude al suo interno estrema destra, gilet arancioni e movimenti no mask. “Forza nuova è il movimento della rivoluzione – dichiarava Fiore – Oggi lascia spazio alla più grande e variegata Italia Libera perché capisce che da sola non può vincere l’ostacolo della dittatura sanitaria: è necessario allearsi con tutte forze per la difesa delle libertà concrete”.

Estratto dell'articolo di Claudio Messora per byoblu.com il 24 febbraio 2021. […] Dopo due settimane di sospensione assolutamente illegittime, da parte di Youtube, oggi all’improvviso anche a Byoblu è stata revocata la possibilità di fare pubblicità, e le migliaia di abbonati maturati nel tempo sono stati tutti sospesi unilateralmente. Cosa ci può essere di più illiberale, di più dispotico e di più tirannico di un potere privato, invisibile, che toglie i soldi ai cittadini per bene, rei di non pensarla come il sovrano? Una volta, quando una forma di democrazia ancora esisteva, ti facevano fuori. Nell’era del controllo globale, nell’era della democrazia esibita ma ormai svuotata dall’interno, ti portano via il raccolto e ti lasciano morire di fame. Da quanto Byoblu esiste, ho sviluppato quasi duecento milioni di visualizzazioni video solo su Youtube. Byoblu è una forza della natura. La forza del diritto di farsi le domande giuste. La forza del dovere di non accettare qualsiasi cosa a scatola chiusa. La forza dei cittadini, che tutti insieme spostano le montagne. In guerra si bruciano i depositi di grano, per affamare il nemico. Le multinazionali ti affamano allo stesso modo: togliendoti da mangiare. Byoblu è cresciuta tanto nell’ultimo anno. Per questo fa paura. E da Youtube raccoglievamo legittimamente oltre 20 mila euro al mese. Un quarto di quello che ci serve per continuare a trasmettere ogni mese. […] Ci abbiamo messo un anno a mettere insieme 14 mila abbonati ai piani di sostegno mensili. In un giorno sono stati dimezzati. Quale è la nostra colpa? […] Youtube, dice che diffondiamo contenuti incentrati su argomenti controversi e dannosi per gli spettatori. Il mondo che vogliono loro è un mondo dove i contenuti sono invece tutti schiacciati su posizioni non controverse, cioè un mondo nel quale sono tutti d’accordo sulla versione unica autorizzata (da chi?). Pensare è dannoso. E infatti, leggendo le politiche da loro stessi indicate, non si capisce che cosa avremmo violato. Non si capisce perché non lo possono scrivere. Non lo possono scrivere perché i nostri contenuti sono dannosi solo per loro. […] Byoblu ha oltre mezzo milione di iscritti su Youtube e altre centinaia di migiliaia che ogni giorno lo guardano sui social, sulle App che abbiamo creato […] Ecco perché siamo dannosi, perché a fronte di 4 mila ore di visualizzazione pubbliche richieste da Youtube per essere “monetizzabili”, noi ne sviluppiamo periodicamente quasi 11 milioni. Siamo dannosi perché siamo troppo bravi per loro. E si sa, che la libertà te la danno ma solo se non sei capace ad usarla. […]

Fabio Dragoni per "La Verità" l'1 aprile 2021. Essere un editore oppure un social media? Non è «un dubbio esistenziale di troppo» grazie al quale, se associato soprattutto a «un congiuntivo usato correttamente, venivi subito bollato come finocchio». Questo almeno accadeva nella ruggente Livorno degli anni Settanta e Ottanta splendidamente raccontata dal regista Paolo Virzì nel film Ovosodo. Non è neppure una questione di lana caprina. Il tema è dirimente. Se sei un editore fai informazione attraverso un prodotto. Che sia carta, televisione o Web poco importa. Scegli i contenuti e li valorizzi. Diranno i tuoi fedeli lettori che qualcosa per te spendono. Oppure li manipoli e li strumentalizzi. Diranno coloro che non ti leggono e se dipendesse da loro non esisteresti neppure. Poco importa. Hai una tua linea editoriale. Può piacere o meno. Un direttore che dirige la baracca. Una macchina operativa che produce i contenuti. E di tutto questo ne rispondi. Prima di tutto ai tuoi lettori, che se numerosi o pochi, decreteranno il tuo successo, oppure il fallimento. Ma anche, eventualmente, di fronte a un giudice. Chi dirige un giornale sa che la busta verde di notifica degli atti giudiziari è una compagna di viaggio irrinunciabile. Qualcuno che si risentirà di ciò che scrivi lo troverai sempre. Avere dei buoni avvocati e conoscere soprattutto il mestiere sono anticorpi indispensabili contro il morbo delle querele facili. Se invece sei un social network, niente di tutto questo. Hai una piattaforma di cui tutti si servono. Chi più e chi meno responsabilmente. Se Tizio si sente offeso o diffamato o calunniato da ciò che di lui ha scritto Caio è proprio quest'ultimo che dovrà essere trascinato in tribunale. Non il social network che come tale è un semplice vettore. «Ambasciator non porta pena», recita il proverbio. Questo almeno in teoria. Perché poi succede che i social media si fanno prendere la mano. Cresce il fatturato. Crescono gli utenti e cresce il loro potere. Cambiano i termini e le condizioni di uso. Quelle che uno clicca e non legge mai ogni volta che scarica un software dal Web. E qualche social network (tipo Facebook, Twitter e fra poco vedremo Youtube) si mette a giocare all'editore. Comincia a selezionare i contenuti. A cancellare i post. Ad avvisare gli utenti con messaggi di avvertimento. Poi arrivano le sospensioni. Chi vi scrive o la brava Silvana De Mari non sono che due esempi. Infine, arriva la chiusura definitiva ed «irreversibile tipo l'euro». Ne ha fatto le spese prima di tutti il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Che oltre ad aver per tempo investito e vinto la guerra dei vaccini, aveva ben compreso lo strapotere dei social media. Ancora in carica a maggio 2020, aveva firmato l'ordine esecutivo per promuovere l'iter di legge con cui delegare le competenti autorità di modificare la sezione 230 del Communications decency act. È una legge del 1996 che prevede la non responsabilità del social network rispetto ai contenuti pubblicati da terze parti. Il social non è cioè considerato editore. La proposta di Trump si basava invece sulla loro equiparazione alla figura di editore, con tutte le responsabilità connesse. Ivi inclusa la possibilità di essere trascinati in tribunale. Il decreto fu firmato dopo lo scontro con Twitter che aveva segnalato due post del presidente come «potenzialmente fuorvianti». Da settembre a gennaio prima di chiudere definitivamente l'account, Twitter segnalerà almeno un centinaio dei cinguettii di Trump con questa etichetta. Se ne ha fatto le spese Trump ancora in carica, figuriamoci il bravo Claudio Messora, che si è visto brutalmente chiudere - dopo varie ammonizioni e sospensioni - il suo canale Youtube. «Che si tratti di austerity, di "ce lo chiede l'Europa" o di Covid, emerge sempre lo stesso pattern», mi dice al telefono Claudio. «Una élite minoritaria dispone di ingenti mezzi. Uniforma il dibattito pubblico. Lo allinea al pensiero unico». Una dittatura orwelliana che però stavolta potrebbe infrangersi contro una resistenza gagliarda. «I cittadini sanno benissimo come tutelare il loro diritto di espressione e conoscono bene l'importanza del pluralismo delle fonti di informazione; il pilastro della democrazia». Messora diventa tonico. «Lo dimostra la reazione perentoria alla chiusura da parte di Youtube, del canale Byoblu; testata giornalistica regolarmente registrata in tribunale con una linea editoriale più vicina ai cittadini, come voi della Verità. Vogliamo che Byoblu acquisti un canale del digitale terrestre. Servivano 150.000 euro: in sole 24 ore abbiamo raccolto già ben oltre 160.000 euro e tante altre donazioni stanno continuando ad arrivare». E sul finale prima di lasciarci quasi raggiante: «Nasce oggi l'editoria condivisa, finanziata dai cittadini che scelgono liberamente chi sostenere». La questione intanto approda al senato con due interventi rispettivamente di Gianluigi Paragone (Italexit) e di Alberto Bagnai (Lega Salvini premier). Quest'ultimo lancia una proposta concreta esortando il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, a incardinare un dibattito parlamentare cui dovrà seguire il progetto di un disegno di legge che si ponga un obiettivo minimo: impedire che i canali di testate regolarmente registrate in tribunale - come appunto Byoblu - possano essere chiusi dalle stesse piattaforme a seguito di una valanga di segnalazioni organizzate ad arte dalle «squadracce di odiatori digitali», che si servono di questa strategia per intasare un accondiscendente e complice algoritmo di censura. Le leggi, più corte sono, più sono efficaci. Aspettiamo e speriamo nella fioritura.

"Ecco perché siamo stati rimossi da YouTube..." Claudio Messora è il fondatore di ByoBlu, un canale che YouTube ha deciso di rimuovere dalla sua piattaforma: "Questa è una persecuzione". Claudio Rinaldi - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. “Ci hanno chiuso perché non ci pieghiamo all’informazione mainstream. La pandemia ha messo in secondo piano tutti i diritti, compreso quello costituzionalmente garantito alla libertà di manifestazione del pensiero”. Claudio Messora è il fondatore di ByoBlu, un canale da 525 mila iscritti che YouTube ha deciso di rimuovere dalla sua piattaforma perché - come si legge dalla mail inviata a Messora - “sono state rilevate violazioni gravi o ripetute delle Norme della community”. ByoBlu è sul web da 14 anni, conta migliaia di video che hanno ottenuto nel tempo più di 200 milioni di visualizzazioni, ma è anche una testata giornalistica, registrata al Tribunale di Milano. Nell’ultimo anno ha dato voce a tutte le posizioni sul Covid, anche quelle contrarie ai lockdown e ai vaccini. E questo sembra essere stata la causa della rimozione da YouTube.

Messora, ci spieghi cosa è successo…

“Da dicembre ad oggi abbiamo ricevuto prima un avviso e poi tre avvertimenti, l’ultimo ha portato alla definitiva chiusura del canale”.

Ma cosa avreste fatto di sbagliato per YouTube?

“Disinformazione in ambito medico, semplicemente perché abbiamo raccontato manifestazioni di piazza e dato spazio anche a chi ha un pensiero diverso sulla pandemia”.

Ci faccia degli esempi... cosa vi hanno contestato?

“Il primo avviso era su una manifestazione di piazza contro il lockdown avvenuta a Cesena il 18 dicembre. Avevamo caricato sul canale un video, ma non era ancora online. Stavamo valutando se e come pubblicarlo, tanto è vero che il titolo era ‘Non pubblicare’. Nessuna poteva vederlo”.

Quindi YouTube è intervenuto ancora prima della pubblicazione?

“Esatto, in questo caso sì. Mentre a gennaio hanno rimosso un’edizione del nostro tg perché c’era un servizio nel quale raccontavamo una tesi contraria ai vaccini di un editorialista di punta del British Medical Journal”.

Ma non è finita qui?

“No. Poi hanno rimosso un’intervista realizzata cinque mesi prima a un Senior Scientist dell’Università di Siena, solo perché parlava della Vitamina C. Poi hanno rimosso un altro video di una manifestazione di piazza a Milano. E anche questa volta non c’era ancora stata la pubblicazione…”.

Qual è la stata la sanzione in questi casi?

“La sospensione prima di una e poi di due settimane”.

E alla definitiva rimozione come si è arrivati?

“Alla fine non trovando di meglio a cui attaccarsi, hanno rimosso un video del settembre del 2020, realizzato nel corso di un’altra manifestazione di piazza, in cui parlava l’attivista panafricano Mohamed Konare”.

Di che video si tratta?

“Un video con delle posizioni contrarie alla pandemia, ma il titolo non lasciava presagire neanche il contenuto. Ciò significa che sono andati apposta a cercarlo. Era lì da sette mesi, a chi poteva dare fastidio? Avevano semplicemente bisogno di un pretesto per tapparci la bocca. Questa sa come si chiama?”.

Come?

“Persecuzione, tra l’altro verso una testata regolarmente registrata in tribunale, che fa diritto di cronaca, rea di non seguire la linea editoriale dettata da altri».

YouTube però ha delle regole da seguire…

“YouTube dovrebbe essere un fornitore di servizi. Non dovrebbe mettere becco sui contenuti. Così facendo si sta comportando invece come un editore qualunque, ma in un regime di monopolio. È un problema democratico enorme”.

Perché?

“Perché non rispetta la nostra Costituzione, la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto di cronaca… è una multinazionale straniera che decide arbitrariamente di distorcere il dibattito pubblico. In Germania alcuni tribunali hanno dato ragione ai censurati. Perché di censura si tratta”.

E voi farete ricorso?

“Certo. Abbiamo già fatto ricorso sia all’Agcom che al Tribunale di Milano. Ma è la politica che deve intervenire con regole chiare, garantendo la pluralità dell’informazione”.

Siamo però in una pandemia. È giusto pubblicare alcune notizie, per esempio contro i vaccini?

“L’informazione non deve essere pedagogica. Non può decidere a priori cosa è giusto e cosa è sbagliato. Non è una valutazione che spetta ai giornalisti e i cittadini non devono essere trattati come dei bambini da educare. Le notizie vanno verificate, certo. Ma poi pubblicate…tutte, anche quelle che non fanno comodo al pensiero dominante soprattutto in questo momento”.

La salute non viene prima di tutto?

“Non si può usare la salute come scusa per derogare a tutti gli altri diritti. Il lockdown, per esempio, è una scelta politica. Alcuni Stati non l’hanno adottato eppure hanno avuto meno morti di noi. Non si possono terrorizzare i cittadini per poi tappargli la bocca”.

Oltre al ricorso, cosa farete?

“Stiamo raccogliendo dei soldi per aprire un canale sul digitale terrestre nazionale. Siamo già presenti in 5 regioni, ma vogliamo raggiungere tutta Italia. In 24 ore abbiamo raccolto oltre 140 mila euro. Questo significa che la gente ha voglia di un’informazione libera e indipendente”.

Non ha paura di avere problemi anche sulla televisione?

“No, perché quello è un mondo regolamentato dove viene tutelato il pluralismo dell’informazione. Spero che lo stesso avvenga presto anche sul web”.

Bari, giornali gratis su Telegram: sequestrati 10 siti pirata. Procura: «Danno da 250 milioni». Le indagini della Guardia di Finanza hanno portato a individuare anche 329 canali/gruppi tramite i quali è stata operata la diffusione illecita di giornali, riviste ed e-book in violazione della normativa sul diritto di autore. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Febbraio 2021. La Guardia di Finanza di Bari ha eseguito il sequestro preventivo di urgenza, emesso dalla Procura, di 10 siti web pirata, che sono stati oscurati, tramite i quali sarebbero stati diffusi giornali, riviste e ebook, permettendo a chiunque di scaricare illecitamente e gratuitamente le relative copie digitali, attraverso link di collegamento a risorse web gestite su server esteri. L'operazione, chiamata '#cheguaio!', è lo sviluppo dell’inchiesta avviata nell’aprile del 2020 dopo la denuncia della Fieg sulla diffusione dei file pirata sulla piattaforma Telegram, che fino ad oggi ha portato alla chiusura di 329 canali e gruppi di utenti. Nel corso delle indagini sono stati identificati i responsabili della distribuzione illecita di migliaia di copie digitali di quotidiani, 9 dei quali indagati per violazione della legge sul diritto d’autore, mentre gli amministratori dei siti internet restano al momento ignoti. Nell’agosto scorso alcuni degli indagati sono stati destinatari di perquisizioni domiciliari in Puglia, Campania, Marche e Lazio. «Ci chiuderanno tutto» per cui «l'unica cosa che posso fare è svelarvi dove scarico i giornali e ognuno per la propria strada prima che finiamo tutti in merda» è uno dei messaggi intercettati dagli investigatori durante gli accertamenti, dopo l’oscuramento dei primi canali Telegram. Dalla analisi dei dispositivi informatici sequestrati è emerso che i responsabili della gestione dei siti, non identificati, non percepiscono dagli utenti alcun corrispettivo per l’accesso ai relativi contenuti, traendo, invece, profitto dalla pubblicità inserita nelle relative pagine sotto forma di banner e pop-up. Si ipotizza, a carico degli amministratori dei siti al momento ignoti, i reati di violazione della normativa sul diritto di autore, riciclaggio, ricettazione, accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico e furto. Il «danno e la gravità del reato" relativa alla illecita diffusione in rete di quotidiani e riviste, secondo uno studio della Fieg che un anno fa ha chiesto l'intervento dell’Agcom, «si quantificherebbero in circa 670 mila euro al giorno, corrispondenti a circa 250 milioni di euro all’anno». Lo dice la Procura di Bari nel provvedimento di sequestro d’urgenza di dieci siti web, tramite i quali venivano diffuse copie pirata di giornali, riviste e ebook. «Non vi è dubbio - si legge nel decreto - che un fenomeno delle dimensioni di centinaia di milioni di euro di danno, presenta poi una gravità particolare perché incide sulla tutela costituzionale della libertà di pensiero, base di ogni democrazia». "Il mercato della pirateria editoriale - evidenziano gli inquirenti - rappresenta un business illecito molto fiorente, in grado di coinvolgere una vastissima platea di utenti che lo alimentano, spesso inconsapevoli delle conseguenze, anche di natura penale, cui si espongono e degli ingenti danni economici che tale pratica arreca sia ai titolari dei diritti di autore, sia all’economia nazionale».

La scure della censura, tra pirateria e legittima divulgazione. Anna Cortelazzo il 22 giugno 2020 su ilbolive.unipd.it. La notizia ha fatto il giro del web: in Italia è stato oscurato Progetto Gutenberg, un sito che era una sorta di biblioteca digitale in cui venivano raccolti tutti quei libri che non erano protetti dal diritto d'autore, perché non lo erano mai stati o perché questo diritto era decaduto. Ora il sito è sotto sequestro preventivo, tra lo sdegno degli utenti e l'apprezzamento di AIE (Associazione Italiana Editori). Le motivazioni dell'oscuramento non sono ancora chiarissime, tanto che su twitter il CEO stesso esprime perplessità. Secondo TheSubmarine, il PG è finito nel fuoco incrociato tra la Guardia di Finanza e i gruppi Telegram che condividevano illegalmente interi quotidiani. In questi gruppi venivano menzionati siti dove trovare prodotti editoriali gratuiti, la maggior parte illegali, e molti facevano quindi riferimento a PG, che però non sarebbe dovuto entrare nel calderone, visto che non diffondeva ebook protetti da copyright. La motivazione ufficiale del sequestro non è stata chiarita nel decreto cui si fa riferimento, ma oltre all'ipotesi di un errore grossolano (lo linkano su Telegram -> ci sono libri -> il materiale è illegale) esiste anche la possibilità che sia stata pubblicata qualche opera in pubblico dominio in USA (dove ha sede PG), ma non ancora in Italia (secondo la ricostruzione di Maurizio Codogno, sarebbero i libri di Sibilla Aleramo e Massimo Bontempelli). La stessa cosa è già successa in Germania, perché le regole americane per i libri pubblicati prima del 1978 sono diverse da quelle europee. In questo caso, però, si concretizzerebbe un'ipotesi che l'Osservatorio sulla censura dell’AIB (Associazione Italiana Biblioteche) aveva già paventato: la rigida osservanza delle norme sul copyright rischia di andare a ledere le libertà del singolo (in questo caso quella di accedere a contenuti di valore culturale perfettamente legali). In aggiunta, c'è da dire che, se il problema erano alcuni testi specifici, tecnicamente era possibile oscurare solo quella parte del sito. Sicuramente è mancata la volontà di dialogo tra le autorità e i volontari di PG (ricordiamo infatti che parliamo di un'organizzazione no profit), e questo può sicuramente giustificare l'ira degli utenti, tanto più visto che la finalità del progetto è quella di "incoraggiare la creazione e distribuzione degli ebook, aiutare ad abbattere la gabbia dell'ignoranza e dell'analfabetismo, distribuendo quanti più ebook a quante più persone possibile". La questione, comunque, è molto più ampia: esiste, in questo e in altri casi, un conflitto tra diritto d'autore e libertà di accesso alla conoscenza? Nel caso di PG è evidente quanto il primo abbia avuto il sopravvento sul secondo, ma parliamo anche dei siti che diffondevano illegalmente quotidiani, e il cui sequestro è naturalmente giustificato. Claudio Riva, sociologo dei media e presidente della triennale in scienze sociologiche a Padova, non è ottimista sull'efficacia dell'oscuramento: "La centralità dei giornali è stata resa visibile dall’affaireTelegram. Il paradosso è che, con l’avvento del digitale, da un lato si assiste alla diminuzione (crollo?) delle vendite e alla chiusura delle edicole e a un tempo di lettura dei quotidiani eroso dalle continue richieste di attenzione che vengono dagli altri contenuti digitali di intrattenimento. Dall’altro, il flusso di informazioni cui possiamo accedere tramite smartphone è enorme e l’attenzione alla qualità delle informazioni è crescente. La risposta ai gruppi Telegram, attualmente, è di tipo repressivo e i canali vengono da qualche tempo bloccati, ma è lecito chiedersi se esista un'alternativa." E di un'alternativa ci sarebbe davvero bisogno, visto che per un gruppo che viene chiuso dalle autorità ne aprono altri due: " A me piacerebbe - continua Riva - che si pensasse a una sorta di Netflix dei quotidiani, una piattaforma che permetta agli utenti di accedere a un’ampia offerta di giornali e riviste attraverso il pagamento di un canone fisso mensile con una formula stile all you can read. Il pubblico sarebbe più ampio di quello ora coinvolto dagli abbonati alle edizioni digitali di ciascun quotidiano o rivista. Ovviamente bisognerebbe analizzare attentamente la questione economica, per evitare che i giornali compensino la mancanza di introiti dovuti alla percentuale da lasciare alla piattaforma con l'ulteriore abbassamento del compenso dei giornalisti, spesso già sotto i limiti della decenza, in particolare per le figure più giovani e precarie. Al centro, vi sarebbe evidentemente una diversa gestione dei finanziamenti pubblici ai media e degli spazi pubblicitari, con gli inserzionisti che si andrebbero a legare meno ai singoli prodotti/testate e, invece, di più al valore complessivo dell’offerta giornalistica e del brand della piattaforma. Ricordiamo però che il modello attuale vede fatturato e pubblicità delle testate tradizionali da anni in drastico calo". In un'ottica del genere, diventa ancora più importante mantenere la qualità dell'informazione: "Dove per qualità - continua Riva - dovremmo intendere non solo la quantità e varietà di newsmedia disponibili, ma anche l’efficienza del servizio, in modo che i contenuti siano messi a disposizione di una user experience che sia anch’essa di qualità. Come hanno dimostrato le piattaforme per film e serie tv, sono proprio le possibilità di guadagno alternative offerte dalla distribuzione online e dalle sinergie con le piattaforme ad aver innalzato la qualità complessiva dell’offerta televisiva, poiché permettono di correre maggiori rischi con la sperimentazione narrativa e stilistica. C’è la sensazione che vi sia bisogno di un nuovo modello di distribuzione dell’informazione e, come accaduto per la musica, i film e le serie tv, le piattaforme potrebbero essere un’opzione". 

Condividi bufale sui vaccini? E Twitter ti cancella. Twitter introduce regole più rigide per evitare la diffusione di bufale sui vaccini anti-Covid: gli account coinvolti nella distribuzione di fake news verranno cancellati. Marco Rizza - Mar, 02/03/2021 - su Il Giornale. Twitter usa il pugno duro contro la disinformazione sui temi legati all’emergenza Covid-19, in particolar modo sulla questione vaccini. La società ha infatti annunciato la decisione di cancellare gli account che condividono bufale. Dopo le richieste di rimozione dei tweet più fuorvianti partite lo scorso dicembre, il social network fondato da Jack Dorsey rafforza ulteriormente la sua policy interna sulla moderazione dei contenuti inerenti alla pandemia. D’ora in poi sotto la lente d’ingrandimento finiranno anche i post che si riferiscono alle campagne di immunizzazione che, in queste settimane, stanno entrando nel vivo in molti Paesi. Lo ha annunciato la stessa società sul suo blog ufficiale. L’obiettivo è frenare fake news, teorie cospirative e messaggi allarmistici che potrebbero diffondere sfiducia verso i sistemi sanitari e, tra le varie cose, spingere le persone a rifiutare il vaccino. Per dare il proprio contributo in questa direzione, Twitter lancerà lo "strike system", un meccanismo graduale di sospensioni provvisorie degli account che pubblicano o condividono notizie non attendibili e che non coincidono con le informazioni diffuse dalle autorità pubbliche. Ma se l’utente si rivela recidivo, lo stop può diventare definitivo. A questo provvedimento più drastico si arriva in cinque step: al primo strike, la piattaforma si limita solo a registrare la violazione; al secondo e al terzo, l’account viene bloccato per 12 ore; in occasione della quarta segnalazione, il blocco viene esteso a sette giorni per poi diventare permanente in caso di quinta violazione. In parallelo, saranno applicate sui tweet che riportano informazioni fuorvianti anche delle etichette identificative. A decidere quali contenuti dovranno essere bollati come inaffidabili, o comunque non verificati, saranno inizialmente dei moderatori in carne e ossa del social network. Mano a mano che il sistema entrerà a regime, saranno affiancati da strumenti basati su machine learning e sistemi di automatici di elaborazione del linguaggio. Questo monitoraggio partirà dai post in inglese per poi essere esteso al resto dei cinguettii. “Grazie al nostro strike system, speriamo di educare le persone sul perché determinati contenuti violano le nostre regole, in modo che abbiano l’opportunità di valutare il loro comportamento e riflettere sul loro impatto nel dibattito pubblico”, spiega Twitter sul proprio blog. “Le persone saranno avvisate direttamente quando un tweet etichettato o su cui pende una richiesta di rimozione rientra tra quelli che violano le nuove misure a livello di account”.

«Siamo pagati una manciata di euro e passiamo la vita a ripulire Facebook dall’orrore». Non basta un algoritmo per giudicare se i contenuti segnalati dagli utenti meritano davvero di essere eliminati. A farlo è un esercito di moderatori sparsi per il pianeta. Un lavoro essenziale, segreto e stressante, tra fake news, revenge porn e video raccapriccianti. Maurizio Di Fazio su L'Espresso l'1 marzo 2021. «Senza il nostro lavoro, Facebook sarebbe inutilizzabile. Il suo impero collasserebbe. I vostri algoritmi non sono in grado di distinguere tra giornalismo e disinformazione, violenza e satira. Solo noi possiamo»: queste parole si leggono in una lettera inviata l’anno scorso a Mark Zuckerberg e firmata da oltre duecento persone. Persone che lavorano per il colosso di Menlo Park, ma anche per le altre principali piattaforme digitali di massa: da Instagram a Twitter, da TikTok a YouTube. Sono i moderatori dei contenuti dei social media, i guardiani clandestini degli avanposti della rete contemporanea: una professione poco conosciuta, ma nevralgica. «Credo che l’aspetto più difficile sia la condizione di totale invisibilità in cui sono costretti a operare: per motivi di sicurezza, ma anche per minimizzare l’importanza del lavoro umano», spiega all’Espresso Jacopo Franchi, autore del libro “Obsoleti. Il lavoro impossibile dei moderatori di contenuti” (AgenziaX). «Oggi è impossibile stabilire con certezza se una decisione di moderazione dipenda dall’intervento di un uomo o di una macchina. I moderatori sono le vittime sacrificali di un mondo che rincorre l’illusione della completa automazione editoriale». Perché serve ancora come l’ossigeno qualcuno, in carne e ossa, che si prenda la briga di nascondere la spazzatura sotto il tappeto agli occhi dei miliardi di iscritti (e inserzionisti) connessi in quel preciso istante. Un attimo prima che infesti i nostri monitor e smartphone, o che faccia comunque troppi danni in giro. E anche certe sfumature di senso la tecnologia non riesce a coglierle e chissà se le capirà mai. I moderatori digitali sono uomini e donne senza competenze o specializzazioni specifiche, e di qualsiasi etnia ed estrazione: una manodopera assolutamente intercambiabile. Per essere assunti, basta essere subito disponibili e “loggabili”, avere una connessione stabile e pelo sullo stomaco. Il loro compito consiste, infatti, nel filtrare ed eventualmente cancellare l’oggetto dei milioni di quotidiane segnalazioni anonime che arrivano (a volte per fini opachi) dagli stessi utenti. Incentrate su post e stories, foto e video ributtanti. Immagini e clip pedopornografiche, messaggi d’odio e razzismo, account fake, bufale, revenge porn, cyberbullismo, torture, stupri, omicidi e suicidi, guerre locali e stragi in diretta. Fiumi di fango che sfuggono alla diga fallibile degli algoritmi, e che possono finire per rendere virale, inconsapevolmente, l’indicibile. Gli errori di selezione della macchina li risolvono gli uomini: dal di fuori tutto deve però sembrare una proiezione uniforme e indistinta dell’intelligenza artificiale. Un lavoro essenziale e misconosciuto per un trattamento barbaro. «Ero pagato dieci centesimi a contenuto. Per questa cifra ho dovuto catalogare il video di un ragazzo a cui era stato dato fuoco, pubblicato dall’Isis», scrive Tarleton Gillespie nel suo “Custodians Of The Internet”. I “custodians” lavorano a ritmi forsennati, cestinando fino a 1500 contenuti pro-capite a turno. Uno alla volta, seguendo le linee guida fornite dalle aziende, i mutevoli  CommunityStandards (soprannominati, tra gli addetti ai lavori, la Bibbia). Se non conoscono la lingua interessata si affidano a un traduttore online. L’importante è correre: una manciata di secondi per stabilire cosa deve essere tolto di mezzo dai nostri newsfeed e timeline. Non c’è spazio per riflettere: un clic, elimina e avanti col prossimo. Un’ex moderatrice, Valera Zaicev, tra le maggiori attiviste della battaglia per i diritti di questa categoria che è ancora alle primissime fasi, ha raccontato che Facebook conta persino i loro minuti di pausa in bagno. Lavorano giorno e notte, i moderatori digitali. «Il nostro team di revisione è strutturato in modo tale da fornire una copertura 24/7 in tutto il pianeta», ha dichiarato a The Atlantic Monika Bickert, responsabile globale delle policy di Facebook. Nessuno sa niente del loro mandato, obbligati come sono al silenzio da marziali accordi di riservatezza. Pure la loro qualifica ufficiale è camaleontica: community manager, contractor, legal removals associate... «Quello del moderatore di contenuti è un esempio, forse il più estremo, delle nuove forme di lavoro precario generato ed eterodiretto dagli algoritmi», aggiunge Franchi. «Nessuno può dirci con precisione quanti siano: si parla di 100-150 mila moderatori, ma non è stato mai chiarito quanti di questi siano assunti a tempo pieno dalle aziende, quanti siano ingaggiati con contratti interinali da agenzie che lavorano in subappalto e quanti invece retribuiti a cottimo sulle piattaforme di “gig working”, per “taggare” i contenuti segnalati dagli utenti e indirizzarli così verso le code di revisione dei moderatori “professionisti”». Restando a Facebook, si oscilla così dai moderatori più tutelati e con un contratto stabile negli Usa (15 dollari circa all’ora di salario) ai 1600 occupati dall’appaltatore Genpact negli uffici della città indiana di Hyderabad, che avrebbero una paga di 6 dollari al giorno stando a quanto rivelato, tra gli altri, dalla Reuters. Un esercito neo-industriale di riserva che si collega alla bisogna grazie a compagnie di outsourcing come TaskUs, persone in smart-work permanente da qualche angolo imprecisato del globo, per un pugno di spiccioli a chiamata. Il loro capo più autoritario e immediato, in ogni caso, è sempre l’algoritmo. Un’entità matematico-metafisica che non dorme, non si arresta mai. Una forza bruta ma asettica, tirannica e prevedibile, fronteggiata dall’immensa fatica del corpo e della mente. «È un algoritmo a selezionarli su LinkedIn o Indeed attraverso offerte di lavoro volutamente generiche», ci dice ancora Iacopo Franchi, «è un algoritmo a organizzare i contenuti dei social che possono essere segnalati dagli utenti, è un algoritmo a pianificare le code di revisione ed è spesso un algoritmo a determinare il loro punteggio sulla base degli “errori” commessi e a decidere della loro eventuale disconnessione, cioè il licenziamento». Già: se sbagliano in più del 5 per cento dei casi, se esorbitano da quei “livelli di accuratezza” monitorati a campione, può scattare per loro il cartellino rosso, l’espulsione. Per chi riesce a rimanere al proprio posto, è essenziale rigenerarsi nel tempo libero. Staccare completamente, cercare di recuperare un po’ di serenità dopo avere introiettato tante nefandezze. «Ci sono migliaia di moderatori nell’Unione Europea e tutti stanno lavorando in condizioni critiche per la loro salute mentale», ha asserito Cori Crider, direttore di Foxglove, un gruppo di pressione che li assiste nelle cause legali. Sta di fatto che nel 2020 Facebook ha pagato 50 milioni di dollari a migliaia di moderatori che avevano sviluppato problemi psicologici a causa del loro lavoro. È uno dei new jobs più logoranti. Pochi resistono più di qualche mese, prima di essere defenestrati per performance deludenti o andarsene con le proprie gambe per una sopravvenuta incapacità di osservare il male sotterraneo del mondo senza poter fare nulla oltre che occultarlo dalla superficie visibile dei social. Gli strascichi sono pesanti. Il contraccolpo a lungo andare è micidiale, insopportabile. L’accumulo di visioni cruente traccia un solco profondo. Quale altra persona si sarà mai immersa così a fondo negli abissi della natura umana? «L’esposizione a contenuti complessi e potenzialmente traumatici, oltre che al sovraccarico informativo, è certamente un aspetto rilevante della loro esperienza professionale quotidiana, ma non bisogna dimenticare anche l’alta ripetitività delle mansioni», spiega all’Espresso Massimiliano Barattucci, psicologo del lavoro e docente di psicologia delle organizzazioni. «A differenza di un altro lavoro del futuro come quello dei rider, più che ai rischi e ai pericoli per l’incolumità fisica, i content moderator sono esposti a tutte le fonti di techno-stress delle professioni digitali. E questo ci consente di comprendere il loro elevato tasso di turnover e di burnout, e la loro generale insoddisfazione lavorativa». L’alienazione, l’assuefazione emotiva al raccapriccio sono dietro l’angolo. «Può nascere un progressivo cinismo, una forma di abitudine che consente di mantenere il distacco dagli eventi scioccanti attinenti al loro lavoro», conclude Barattucci. «D’altro canto possono esserci ripercussioni e disturbi come l’insonnia, gli incubi notturni, i pensieri o i ricordi intrusivi, le reazioni di ansia e diversi casi riconosciuti di disturbo post-traumatico da stress (PTSD)». Nella roccaforte Facebook di Phoenix, in Arizona, un giorno, ha raccontato un’ex moderatrice di contenuti al sito a stelle e strisce di informazione The Verge, l’attenzione di tutti è stata catturata da un uomo che minacciava di lanciarsi dal tetto di un edificio vicino. Alla fine hanno scoperto che era un loro collega: si era allontanato durante una delle due sole pause giornaliere concesse. Voleva mettersi così offline dall’orrore.

Mario Draghi, "da chi ha copiato il discorso in aula". Scoop censurato, una bomba su Repubblica. Libero Quotidiano il 21 febbraio 2021. Il discorso di Mario Draghi in aula per la fiducia? "Copiato". Caso imbarazzante a Palazzo Chigi e nella redazione di Repubblica. Il giornalista economico Carlo Clericetti, autore di un blog per il sito del quotidiano diretto da Maurizio Molinari, ha notato come la parte sul fisco e il taglio delle tasse del discorso programmatico del neo-premier alle Camere sia stato di fatto quasi un copia-incolla di un articolo di Francesco Giavazzi, stimatissimo professore della Bocconi e firma del Corriere della Sera, pubblicato sullo stesso quotidiano lo scorso 30 giugno e intitolato "I passaggi necessari sul fisco". Caso abbastanza spinoso dal punto di vista mediatico, che assume altre sfumature perché, come suggerisce il Fatto quotidiano, Repubblica pare aver ignorato il piccolo scoop del proprio giornalista. Forse perché il clima nei "giornaloni", oggi, prevede solo peana ed elogi per il SuperMario dei miracoli. Qualche esempio del discorso copiato? "Questa osservazione ha due conseguenze. Innanzitutto non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta", scriveva Giavazzi. "Non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all'altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta", dice Draghi. "La seconda lezione è che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, persone che conoscono bene che cosa può accadere se si cambia un'imposta". "Inoltre, le esperienze di altri Paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un'imposta", dice Draghi. E così via, con molti altri passaggi praticamente sovrapponibili non solo nel concetto, ma pure nelle parole. Nulla di grave, forse, ma di significativo sì. Sarebbe bastato a Draghi citare le fonti d'ispirazione (rispettabilissime e autorevoli, peraltro). E a Repubblica avere il coraggio di dire che il Re non è nudo, ma in mutande sì. Ma di questi tempi sarebbe reato di lesa maestà.

Vergognoso attacco alla Meloni, Fazzolari: «Per “Il Domani” Giorgia è come Hitler». L’articolo delirante. Guglielmo Federici mercoledì 4 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia.  “Noi di destra siamo abituati alle farneticazioni e alle menzogne targate mainstream. Ma questa volta il quotidiano ‘Il Domani’, con la recensione fatta da tal Emanuele Felice del libro ‘Io sono Giorgia‘, ha superato ogni limite di decenza”. Il senatore di Fratelli d’Italia Giovan Battista Fazzolari non tollera oltre e in questa lunga dichiarazione stigmatizza i deliri messi nero su bianco sul quotidiano. “Il giornale di De Benedetti scrive a proposito di Giorgia Meloni che: ‘Leader estremisti di questa foggia in passato hanno arrecato danni irreparabili alla nostra Italia, all’Europa e all’umanità. Per come è messo il mondo oggi, possono fare altrettanto danno. Non vanno sottovalutati'”. Siamo alla follia pura. L’articolo si intitola “L’estremismo mascherato di Giorgia Meloni”. “La Meloni come Hitler e Mussolini, insomma”, sottolinea Fazzolari l’analisi delirante che “Il Domani” ha veicolato ai suoi lettori. “Un pericolo che deve essere fermato- prosegue Fazzolari- . E magari qualche esaltato potrebbe prendere sul serio le idiozie scritte da questi spregiudicati seminatori di odio; e decidere di fare la propria parte per il bene dell’umanità; mettendo a tacere la Meloni e gli esponenti di Fratelli d’Italia. Magari con capi d’accusa costruiti a tavolino o con menzogne scritte sui giornali; o negando i diritti dell’opposizione, o magari sparando agli esponenti di FdI”. Le parole hanno un peso devastante e chi le ha scritte non può non averne coscienza. “Perché se c’è da fermare il nuovo Hitler tutto è lecito. Solidarietà a Giorgia Meloni per questo ennesimo attacco vigliacco. La crescita di Fratelli d’Italia fa sempre più paura ai difensori dello status quo e fa perdere loro lucidità e decoro”. Fazzolari ha sintetizzato come meglio non si potrebbe il succo di questo articolo vergognoso. Citiamo fior da fiore altre “perle” dall’articolo del Domani: “La patria che ha in mente la Meloni è un patriottismo acritico e cieco che sarebbe più corretto definire sciovinismo: quello che ci ha condotto dritti dritti alle peggiori tragedie del 900“. L’estensore dell’articolo vuole dare lezioni alla Meloni, scrivendo che “non ha imparato nulla dalla storia”. Scrive tali assurdità riferendosi alle pagine dedicate dalla presidente di FdI alla Grande Guerra. “Per Giorgia Meloni la Prima Guerra Mondiale ha reso possibile ‘l’ingresso della Nazione tra le più grandi potenze del mondo”. Il Domani” si stupisce per un giudizio geopolitico che nulla ha a che vedere con i dolori per le immani tragedie che ogni guerra reca con sé. Eppure “tal Emanuele Felice” si scandalizza, dipingendo la Meloni per una potenziale guerrafondaia. Per cui l’articolo prosegue: “Il nostro interesse nazionale si difende stando in Europa. La Meloni sembra credere il contrario”. Peggio: “Chi ama davvero la Patria dovrebbe guardarsi dalle idee della Meloni”. E fa uno spericolato quanto assurdo sillogismo: “Il sovranismo della Meloni non fa gli interessi dell’Italia, ma li danneggia. Proprio come avvenuto durante il fascismo”. Ancora fiele: “Tra parentesi, la Meloni evita di parlare del fascismo e quando lo fa è alquanto equivoca”, sostiene l’articolista, che inizia un excursus storico arrivando all’Impero ottomano, a Carlo Martello e quant’altro per farle un’interrogazione di storia. Il che è abbastanza patetico. Poi, passando ai programmi su immigrazione, gender e diritti arriva a scrivere che le posizioni della Meloni “arrecano sofferenza” alle persone.

L’attacco, iniziato per recensire “Io sono Giorgia”, si conclude così: “Non bisogna farsi ingannare dal suo citazionismio eclettico e dalla sua vicenda di donna determinata e madre sensibile”. Perché per il quotidiano di De Benedetti “Giorgia Meloni è la leader più estremista che abbia mai guidato un partito a due cifre in italia…E il suo libro così ben costruito cerca di rendere accettabili le idee della destra radicale e una visione culturale che sono figlie dirette del fascismo”. Ha ragione Fazzolari. La misura è stracolma. Il 20 per cento di FdI, primo partito, ha fatto perdere il senno, l’equilibrio, l’onestà intellettuale.

"Io come Hitler?". L'attacco choc contro la Meloni. Francesco Boezi il 4 Agosto 2021 su Il Giornale. Fratelli d'Italia reagisce ad un articolo pubblicato da Il Domani in cui si dà dell'estremista a Giorgia Meloni. Fdi sul leader: "Non deve dimostrare nulla". Botta e risposta relativo ad un articolo pubblicato questa mattina da Il Domani. Per Fratelli d'Italia, che ha replicato a quanto letto sul giornale diretto da Stefano Feltri, si è trattato di un "attacco strumentale" rivolto a Giorgia Meloni, così come dichiarato dall'onorevole Wanda Ferro secondo quanto ripercorso dall'Adnkronos. La Ferro ha quindi preso immediate difese del leader partitico della destra italiana. Ma non è l'unica voce ad aver affrontato il "caso". Nel pezzo della fonte sopracitata, dopo una disamina complessa ed articolata, il vertice politico di Fdi viene etichettato come "la leader più estremista che abbia mai guidato un partito a due cifre in Italia, da quando esiste la Repubblica". Le "due cifre" si riferiscono alle statistiche elettorali assegnate dai sondaggi ormai da mesi. L' "estremismo", invece, viene correlato pure alle istanze. L'approfondimento de Il Domani arriva a questa conclusione - quella sull'estremismo - , dopo aver elencato tutta una serie di posizioni prese o non prese dalla Meloni all'interno della sua autobiografia, quindi della sua storia politica. Non solo: il quotidiano, al termine del ragionamento presentato, cita una canzone del cantautore Francesco De Gregori (uno dei cantautori che la Meloni tiene presente nel suo testo, che è denso di riferimenti culturali ed artistici) che riguarda le "fascinazioni neofasciste", associandola a rischi che l'Italia ben conosce per averne già scontato le conseguenze. Insomma, quello de Il Domani appare anche come un avvertimento teso ad evitare "danni irreparabili: alla nostra Italia, all'Europa e all'umanità intera". Ma Fratelli d'Italia non ci sta e rivendica con forza la propria assoluta legittimità politica. La stessa Giorgia Meloni è intervenuta sul suo profilo Facebook: "Capito, sì? - ha premesso, dopo aver citato un passaggio dell'articolo de Il Domani - . Io e Fratelli d'Italia - ha aggiunto - saremmo un rischio per l'umanità, come Hitler. Ma quanto fa paura la nostra crescita a certo mainstream se pur di attaccarci sono costretti a scrivere simili idiozie?". Tra i primi esponenti a respingere l'attacco, come premesso, c'è Wanda Ferro:"Agitando ancora una volta il solito spettro del passato - ha specificato la Ferro, che è parlamentare dal 2018 - , da sinistra si prova a smontare l'avversario politico e l'unica opposizione in Parlamento. Giorgia Meloni - ha aggiunto l'onorevole di Fdi - non deve dimostrare nulla a chi fa della menzogna il suo pane quotidiano". La "ghettizzazione" per mezzo di argomentazioni in cui Fratelli d'Italia non si riconosce, in sintesi, viene respinta senza tentennamenti dagli esponenti che hanno contribuito, con la fondazione della formazione politica nata nel 2012, a rimettere in piedi la destra italiana, dopo le giravolte di Gianfranco Fini e il successivo ridimensionamento politico-elettorale. Anche il senatore Giovanbattista Fazzolari ha voluto commentare i contenuti dell'articolo, dichiarando, come ripercorso dall'Adnkronos, che "Noi di destra siamo abituati alle farneticazioni e alle menzogne targate mainstream, ma questa volta il quotidiano 'Il Domanì, con la recensione fatta da tal Emanuele Felice del libro 'Io sono Giorgià, ha superato ogni limite di decenza". Fazzolari ha anche voluto esprimere la sua solidarietà alla Meloni. Il partito si compatta attorno al suo leader. L'onorevole Augusta Montaruli, interpellata nel merito della polemica da IlGiornale.it, pensa che quello de Il Domani sia stato "un attacco gratuito" messo in atto da "persone che non sanno come giustificare il fatto che questo libro è piaciuto persino a loro". Sarebbe un atteggiamento tipico di chi "cova un senso di superiorità con arroganza", con il fine di "rievocare lo spauracchio del fascismo non avendo argomentazioni valide". Tuttavia, gli stessi numeri fatti registrare dalle vendite del libro sarebbero in grado di certificare come gli italiani siano "stanchi di queste accuse patetiche", ha chiosato il deputato torinese. Ma ulteriori prese di posizione in difesa della Meloni sono arrivate pure da chi di Fdi non è. Gianfranco Rotondi, parlamentare di Forza Italia, ha detto la sua in merito:"Dispiace - ha esordito l'ex ministro - che 'il Domanì definisca Giorgia Meloni 'estremistà, provando a spingere fuori dell'arco democratico quella che è la sola opposizione parlamentare a un governo di unità nazionale". Per Rotondi si tratta "fuoco preventivo, ma grave e sbagliato". La storia della Meloni, questo il senso delle dichiarazioni di Rotondi, risiede pienamente all'interno della democrazia.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuor 

Il vergognoso silenzio dei "giornaloni" sull'attacco alla Meloni. I grandi giornali, sempre pronti a denunciare le frasi sessiste, si girano dall'altra parte quando ad essere offesa è Giorgia Meloni. Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto - Gio, 18/02/2021 - su Il Giornale. Se sei donna non puoi (giustamente) essere offesa. Se sei donna e di sinistra non si può nemmeno fare satira su di te. Ma se sei donna e pure di destra allora puoi beccarti della "zoccola" senza che nessuno dica niente. Ma andiamo con ordine. L'altro giorno, su Internet, è spuntato un vecchio commento Facebook di Eric Gobetti - autore di un libro che minimizza la tragedia delle foibe - in cui dava della poco di buono a Giorgia Meloni. ilGiornale, prima con un articolo sul sito e poi con uno sulla carta, è stato tra i pochi a parlarne. Nessuno degli altri quotidiani - dal Corriere a Repubblica, passando per La Stampa - ne ha parlato. Nemmeno una breve o una fotonotizia per denunciare le offese sessiste rivolte a uno dei più importanti leader politici in Italia. Perché? Forse perché le redazioni erano impegnate a seguire l'insediamento del governo Draghi. O forse perché quelle stesse redazioni, nei giorni precedenti la commemorazione dei martiri delle foibe, erano impegnate a diffondere il verbo di Gobetti. Del resto, la stessa Meloni ha commentato così la "performance" dello storico: "Questo sarebbe l'imparziale storico che la sinistra tanto osanna e che porta in giro per l'Italia per spiegare - e sminuire - il dramma delle foibe? Un fine intellettuale assolutamente non di parte, non c'è che dire". Un autore per nulla di parte, come testimoniano le sue foto con il pugno chiuso e la bandiera titina, e che nel suo ultimo libro scrive: "Le uccisioni commesse sul confine orientale nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 non possono essere in alcun modo considerate un tentivo di genocidio e le vittime non sono individuate in quanto appartententi ad uno specifico popolo". Peccato che questa tesi sia stata smentita dalle parole del presidente della Repubblica (ed ex comunista) Giorgio Napolitano: "Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una 'pulizia etnica'". Si dirà: ma un presidente della Repubblica non è uno storico. Vero. Allora uno storico dovrebbe far parlare i protagonisti e i documenti. Come Giovanni Battista Padoan, nome di battaglia "Vanni", partigiano della divisione Garibaldi-Natisone, il quale ammette che le foibe "furono un sistema di pulizia politica perpetrata dai partigiani di Tito contro chiunque, compresi convinti democratici e antifascisti, si opponesse all'annessione alla futura Jugoslavia". Ma questo Gobetti non lo dice. Minimizza godendo dell'ampio spazio dei giornali bene e, soprattutto, dei loro silenzi. Perché a sinistra si può far tutto. Perfino insultare.

Piero Sansonetti per ilriformista.it il 22 marzo 2021. Dopo magistratopoli ora scoppia giornalistopoli. Ma se i giornali sono stati molto silenziosi sullo scandalo Csm (e restano per abitudine silenziosissimi su qualsiasi scandalo che riguardi i magistrati), ora diventano veramente muti su giornalistopoli. Muti al 100 per cento. È un ordine di scuderia. Non ci sarebbe niente di male. Le intercettazioni che toccano i più importanti giornalisti dei più importanti giornali italiani, messe a disposizione degli stessi giornali dalla Procura di Perugia che indaga sul caso Palamara, sono pure e semplici intercettazioni e non dimostrano che esista alcun reato da parte dei giornalisti. Sono intercettazioni infami, come sempre lo sono le intercettazioni. Dunque, a rigor di logica, perché bisognerebbe pubblicarle? Per una sola, piccolissima, ragione. Perché i giornalisti che stavolta sono stati intercettati sono esattamente gli stessi che di solito pubblicano paginate intere di intercettazioni, generalmente ai politici o ai loro amici o familiari, sebbene queste intercettazioni non contengano nessuna notizia di reato. Spesso, anzi, pubblicano intercettazioni che sono ancora segrete, e che qualche Pm ha deciso di far filtrare per mettere in difficoltà gli indiziati, o per ottenere qualche aiuto nell’inchiesta o, più semplicemente, per iniziare a punire non essendo sicuri di poter poi ottenere la condanna, visto che le prove latitano. Le intercettazioni, e la loro pubblicazione, hanno un effetto fondamentale e incontrollato e immediato: sputtanano. Comunque, chiunque. Nella pubblicazione generalmente non c’è mai un’opera di mediazione o di ragionamento. Mai un elemento a difesa o una proposta di attenuanti. C’è un solo ragionamento, evidentemente, che viene fatto nelle redazioni dei giornali: quali conviene pubblicare, quali è meglio censurare. Se il giornalismo italiano non fosse quasi interamente sottomesso alla logica delle Procure e delle intercettazioni, non ci sarebbe nessun motivo per stupirsi del fatto che restino segrete le intercettazioni che riguardano le principali firme di giudiziaria (e non solo di giudiziaria) del Corriere della Sera e di Repubblica e della Stampa e di svariati altri giornali. Sono tutte intercettazioni che son state prese con i trojan sul cellulare dell’ex procuratore aggiunto di Roma Luca Palamara. Esattamente uguali a quelle che furono ampiamente pubblicate perché riguardavano uomini politici. Luca Lotti, considerato all’epoca vicino a Renzi, è stato praticamente vivisezionato. Sebbene la legge proibisse le intercettazioni dei suoi discorsi privati: è vietato intercettare i parlamentari, e Lotti è un parlamentare. È vietato anche perché è previsto dal buonsenso, e dalla Costituzione, che un dirigente politico debba avere una parte della sua attività che resti riservata. Può essere una attività di diplomazia, di compromessi, di trattative, di accordi. Senza queste cose la politica non esiste. La politica non è solo retorica. È anche governo. E il governo non si fa gridando slogan e basta. E invece sui politici nessuna indulgenza, anzi, nessun rispetto della legalità. L’ordine di servizio, in questo caso è: sputtaniamoli. Anche se non hanno fatto niente di male.  Tutto cambia se invece le vittime del trojan diventano i magistrati e i giornalisti. Cioè la casta. Sarà forse giunto il momento di dirlo: la casta, la vera casta, è quella; la corporazione potentissima che raduna la parte più aggressiva e politicizzata della magistratura e del giornalismo. Diciamo, più semplicemente, il partito dei Pm. Il cui leader massimo, non a caso, non è un Pm ma un giornalista. È Marco Travaglio. Noi abbiamo dato solo uno sguardo a queste intercettazioni. Cosa ci dicono? Che i giornalisti più importanti dei grandi giornali parlavano con Palamara e partecipavano alle operazioni politiche in corso per determinare i nuovi equilibri nella magistratura. C’è una giornalista che dice a Palamara che se l’avesse saputo prima (non ha importanza cosa) l’articolo lo avrebbe scritto lei e in un altro modo. Viene avanzata, da parte di Palamara, l’ipotesi che un altro importante giornalista sia legato ai servizi segreti. Che certo non è un delitto, però dal punto di vista dell’etica giornalistica, se fosse vero, sarebbe una gran brutta cosa. Perché, per dire, magari preferirei essere informato da persone che non hanno da rispondere ai servizi segreti, non vi pare? Poi c’è addirittura un lungo colloquio tra Palamara e il vicepresidente del Csm dell’epoca nel quale si discute di come sia possibile influenzare Repubblica, se è meglio farlo attraverso pressioni sulla cronista di giudiziaria o sul caporedattore, e il vicepresidente del Csm si offre per parlare con Repubblica ad alto livello, e si discute della necessità di una “azione di orientamento” e si dice quale linea deve passare all’interno di quel giornale. Non ho fatto nomi. Non mi interessano i nomi. Quello che è bene che si sappia è la sostanza: oggi il giornalismo politico, in Italia, è del tutto subalterno al giornalismo giudiziario. Questo grazie alle grandi campagne moralizzatrici condotte dai giornali negli anni scorsi. Cioè le campagne che hanno demolito la reputazione della politica e messo in discussione persino la necessità della democrazia, dipinta come un sistema sostanzialmente corrotto. Queste campagne sono state guidate dalla magistratura (e dalla sua rappresentanza parlamentare, cioè i 5 Stelle), e forse dai servizi segreti. In questo modo è stato distrutto il giornalismo politico ed è stato reso un sottoprodotto del giornalismo giudiziario. Il giornalismo giudiziario – non tutto, certo, ma quasi tutto – è assolutamente eterodiretto. E, per definizione, privo di indipendenza. E dunque non è più giornalismo. La gigantesca opera di reticenza di questi giorni dimostra che le cose stanno esattamente così. Che il giornalismo in Italia non esiste più. Che giornalistopoli esiste, è forte, e non ha nemici. Dunque non sarà stroncata. E magistratopoli regge e non si sgretola proprio perché è sostenuta da giornalistopoli. Se poi vi aspettate che qualche giornale o qualche Tv vi racconti queste cose, siete proprio ingenui. L’informazione, quasi tutta, ormai è agli ordini del Fatto.

E la politica sbianca. Il Palamaragate è stato seppellito: le Procure tacciono, i giornali censurano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Silenzio, signori. L’ordine di scuderia è quello lì: silenzio assoluto, si fa finta che non sia successo niente. “Non rispondete alle provocazioni, compagni”: mi ricordo che una volta si diceva così. La scuderia di cui parliamo è quella della premiata ditta Pm&giornali. Che più che una scuderia è un robusto partito politico e qui da noi in Italia fa il bello e il cattivo tempo. Dispone di armi di offesa molto affilate e di armi di difesa efficientissime. Le armi di difesa consistono nel seppellire qualunque magagna. C’è qualcuno che dice che sia un sistema sostanzialmente molto simile alla vecchia “omertà”. Un po’ più di un mese fa l’ex Pm Luca Palamara (che per anni è stato il capo del partito dei Pm) ha pubblicato un libro nel quale ha raccontato decine di episodi dai quali si deduce che i vertici della magistratura italiana non sono liberi ma vengono scelti e costruiti sulla base di puri e semplici giochi di potere, sono scelti dalle correnti al di fuori di ogni criterio di indipendenza, e si è scoperto che questi giochi di potere producono clamorose deviazioni nella giurisdizione, condizionano indagini, sentenze, uso del carcere. Uno scandalo che non ha precedenti, direi dai tempi del delitto Matteotti. È quella l’ultima volta che il potere ha dichiarato formalmente la sua intoccabilità: “ Se il fascismo è una associazione a delinquere – disse Mussolini – io ne sono il capo”. Nei giorni scorsi questo giornale ha denunciato altri due episodi clamorosi delle vicende di magistratopoli. Uno è stato raccontato anche in Tv, e riguarda il più importante giornalista giudiziario italiano (Bianconi, del Corriere della Sera) che – senza neppure scriverlo sul giornale – avvisò riservatamente Luca Palamara che a Perugia era in corso una inchiesta giudiziaria su di lui. Palamara non ne sapeva niente. Fuga di notizie. Reato. Colpevoli presunti i Pm di Perugia dell’epoca. Indagini? A noi non risulta. Risalto sui giornali? Zero. Proprio zero virgola zero. Il secondo episodio l’abbiamo denunciato due giorni fa con un articolo di Paolo Comi. Ci era stato detto che per un errore (o forse per una maliziosa intenzionalità) il trojan di Palamara si era spento proprio la sera del suo incontro a cena con Giuseppe Pignatone, nel quale si parlò della nomina del nuovo procuratore di Roma e di altre scelte di potere. Era una cosa molto grave. Ma abbiamo scoperto una cosa più grave ancora: non è vero che si era spento. Il trojan ha funzionato. Il file con l’intercettazione esiste, però è sparito. Chi l’ha fatto sparire? Dove è finito? Perché ci hanno mentito e su ordine di chi? Queste denunce sono cadute nel nulla. Sono fatti clamorosi ma i giornali non ne hanno neanche parlato. Perché? Ordini superiori? Del partito dei Pm, evidentemente, al quale i giornali aderiscono. Le cose, nel campo dell’informazione giudiziaria, da noi funzionano più o meno come a Cuba. Forse però la censura è anche più efficiente, da quando è morto Castro. L’unico che non è scappato via di fronte alla notizie, lo dico con stupore, è stato Massimo Giletti. E le procure? Le Procure tacciono. E i politici? Si sono nascosti sotto i tavolini dei loro banchi alla Camera, credo. Non se ne trova nessuno che abbia voglia di occuparsi del Palamaragate. Scotta. Per quel che ne so l’unica parlamentare che si è esposta e ha denunciato lo scandalo del trojan sparito è una parlamentare europea che si chiama Sabrina Pignedoli. Di che partito è? Dei 5 Stelle. E qui il mio stupore ha superato lo stupore per Giletti. È proprio così, spesso in politica succede quello che mai prevederesti. Grazie, onorevole Pignedoli, ci fai sentire un po’ meno soli. Noi comunque non ci adeguiamo all’ordine del silenzio. Continueremo a bussare alla porta delle Procure e a quella dell’opinione pubblica: C’è nessuno? Chissà, prima o poi magari qualcuno ci risponderà…

Parla l’ex pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. “Palamara è un ciclone, ma stampa e politica fanno finta di nulla”, parla Luigi Bobbio. Viviana Lanza su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. «La questione non può restare isolata nella sua dirompente evidenza, anche se la stragrande maggioranza degli organi di informazione sembra aver steso un sudario su questa storia. Questa questione non può essere lasciata a qualcosa di estraneo e di esterno al tema generale di un’indifferibile e ormai urgentissima riforma non solo della magistratura, ma del sistema giustizia in generale». Luigi Bobbio è magistrato, ex senatore ed ex sindaco. Dopo la lunga esperienza come pm nel pool della Direzione distrettuale antimafia di Napoli è entrato in politica. «Dalla parte “sbagliata” – sottolinea tra virgolette -, cioè con la destra». Una scelta di campo per la quale ritiene di essere stato vittima «non dico di una volontà di colpirmi, ma della pesante suggestione negativa che la mia appartenenza politica poteva aver ispirato su alcuni magistrati», afferma ricordando i processi per corruzione e abuso d’ufficio dai quali è stato assolto con formula piena in Appello. «Non mi posso sottrarre a questa suggestione, a questa preoccupazione», aggiunge ripensando alla sua storia. E la preoccupazione di possibili finalità politiche sottese a una qualsivoglia indagine, un processo o sentenza torna a farsi strada adesso alla luce delle rivelazioni sul sistema di strapotere denunciato da Luca Palamara e descritto nel libro Il Sistema che l’ex esponente della magistratura ha scritto con il giornalista Alessandro Sallusti. «È un sospetto legittimo, un aspetto ulteriore della questione e certo non secondario», ribadisce Bobbio intervenendo al dibattito sollevato dal Riformista sul silenzio calato attorno ai retroscena  rivelati da Palamara. Gran parte della stampa tace, la politica non interviene. «Mi sarei aspettato che tutti i vertici degli uffici giudiziari nominati da questo Csm e da quello precedente rassegnassero le dimissioni per consentire di sgomberare il campo da qualsivoglia dubbio o sospetto circa la legittimità delle loro nomine, invece non è accaduto. Solo qualcuno ha fatto ricorso e sarà interessante sapere come sono andati a finire questi ricorsi», dice Bobbio. Palamara ha scoperchiato il vaso di Pandora facendo rivelazioni su nomine e retroscena che hanno riguardato le Procure di tutta Italia – Roma, Milano e Napoli comprese – e spingendo la magistratura in una crisi di credibilità dinanzi all’opinione pubblica. «Ora ci vuole una commissione d’inchiesta, sono stato tra i primi a dirlo – spiega Bobbio – Una commissione modellata sul tipo di quella bicamerale Antimafia, quindi con poteri inquirenti pieni, totali, assoluti, che possa acquisire gli atti, le intercettazioni e tutto il materiale che non è stato valutato. Ma chissà se c’è intenzione di valutarlo», aggiunge riflettendo sull’urgenza di una riforma. «Va attuato pienamente l’articolo 107 della Costituzione – osserva il giudice – Bisogna arrivare non solo alla separazione delle carriere ma andare oltre, fare in modo che dell’ordine giudiziario facciano parte solo i giudici mentre il pm deve diventare un organo amministrativo». Confinare la pubblica accusa in un ambito non più giurisdizionale comporterebbe una responsabilità automatica dei pm. Inoltre, secondo Bobbio, sono maturi i tempi anche per ragionare su una responsabilità diretta dei magistrati e su sanzioni per limitare il potere di interpretazione delle norme. «Ci vorrebbero un Parlamento e un Governo non legati alla difesa dell’establishment giudiziario, che non ne siano vittime o sudditi – ragiona Bobbio – E bisogna spezzare i legami con l’informazione che vive di Procure e con le Procure. Quella della normalizzazione del sistema giustizia è la madre di tutte le battaglie: nessun governo, anche con una maggioranza che ha ottenuto il cento per cento dei voti, potrà fare leggi senza che prima o poi una di queste passi per l’imbuto giudiziario rischiando di essere cancellata se non gradita a un certo tipo di magistratura». E sulla questione morale delle toghe? «Il magistrato deve uscire da questa dimensione corale e collettiva, deve tornare a essere solo con il fascicolo e applicare la legge al fatto concreto. Basta con questa visione organicistica della magistratura. Per difendere ruolo e potere si finisce per perdere considerazione e credibilità».

I giornali vengono scritti in Procura...Italia senza libertà di stampa: Corriere, Repubblica e Messaggero censurano caduta Prestipino. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Se in Venezuela succede che una qualche autorità giudiziaria destituisce il Procuratore di Caracas, potete stare sicuri che il giorno dopo la notizia esce in prima pagina su tutti i giornali. Anche in Turchia è così. Perché? Perché in Venezuela e in Turchia esistono dei regimi illiberali, che tuttavia accettano un minimo di libertà di stampa. E se in un paese esiste almeno un piccolo spiraglio di libertà di stampa, nessun giornale rinuncia a dare in prima pagina una notizia clamorosa come la destituzione di uno degli uomini più importanti del paese. Perché, allora, in Italia, non succede così? Ieri la notizia del giorno era senza ombra di dubbio la destituzione di Michele Prestipino, capo della Procura di Roma, decisa dal Tar. La destituzione di Prestipino – giusta o ingiusta che sia – avrà delle conseguenze clamorose, e ancora difficilmente calcolabili, sugli assetti di potere nella magistratura italiana. E dunque sulla sua azione. Quasi tutti i giornali in passato hanno scritto questa semplice verità: il capo della Procura di Roma è una persona molto più importante e più potente di un ministro potente e importante. Voi immaginate cosa succederebbe se qualche autorità giudiziaria stabilisse la decadenza – per esempio – del ministro dell’Interno, o degli esteri, o della salute. Potete pensare che qualche giornale si risparmierebbe un titolo a tutta pagina, in prima? Non potete pensarlo. Volete sapere come i principali giornali italiani, ieri, hanno offerto ai loro lettori la notizia della destituzione di Michele Prestipino? Repubblica: non ha dato la notizia. Il Messaggero edizione nazionale: non ha dato la notizia, l’ha relegata in cronaca di Roma, con un articoletto. Il Corriere della Sera: un articoletto di poche righe a pagina 21, non in testa alla pagina, ma in fondo in fondo. Capisco che voi non ci crediate. Che pensiate che sia una mia trovata polemica. No, amici, è una cosa tristissima quella che sto scrivendo, ma è la pura e semplicissima verità. Come è possibile? Provo a spiegarlo: la libertà di stampa in Italia non esiste. Non c’è neppure quel piccolo spiraglio di libertà ammesso in regimi come quello venezuelano o quello turco. Per trovare paesi dove è possibile nascondere una notizia così grande, credo, bisogna spostarsi in Corea del Nord. Naturalmente la limitazione, anzi la soppressione della libertà di stampa, non riguarda tutto il campo dell’informazione. Per esempio – a differenza della Turchia e del Venezuela – l’Italia dispone della piena libertà di informazione sulla politica. Di una libertà quasi piena e comunque accettabile sull’economia, sullo sport, sulla cronaca nera. È sulla giudiziaria che la libertà è zero. Zero. Almeno nei grandi giornali e in gran parte delle testate televisive. Una notizia che riguardi la magistratura può essere pubblicata solo con il consenso della magistratura e secondo la versione della magistratura. La destituzione di Prestipino è una notizia molto complicata, che rischia di infastidire in ogni caso alcune correnti della magistratura. Quindi sparisce. Quando le notizie riguardano la magistratura, i giornali non si scrivono più in redazione: si scrivono in Procura. C’è da indignarsi? Forse. Comunque c’è da avere molta paura.

La polemica. Cantone contro il Riformista, criticato dai colleghi: “Non si mette il bavaglio alla stampa”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. C’è chi parla della libertà di stampa come «valore da difendere sempre e comunque» e chi stigmatizza iniziative che restituiscono «l’immagine di una magistratura intoccabile». Certo è che l’ultima mossa di Perugia Raffaele Cantone ha suscitato più di qualche perplessità tra le toghe napoletane. I fatti sono noti. L’ex presidente dell’Anac e attuale procuratore di Perugia ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela dei magistrati della sua città. Una pratica a tutela dei pm dal nostro giornale che, nelle scorse settimane, ha denunciato alcuni aspetti della vicenda di Luca Palamara, al centro delle “trattative” tra le diverse correnti della magistratura per le nomine negli uffici giudiziari: il fatto che le chat estratte dal suo telefono a giugno 2019 siano state trasmesse al Csm con 11 mesi di ritardo e che il trojan inoculato nel suo cellulare sia stato disattivato in concomitanza della cena con l’ex procuratore romano Giuseppe Pignatone. Tanto è bastato perché Cantone, capo della Procura che indaga su Palamara, attivasse la procedura finalizzata a ottenere una manifestazione di solidarietà pubblica dall’organo di autogoverno della magistratura. L’iniziativa, però, non è condivisa da tutti i giudici. Perplesso è Raffaele Marino, già procuratore di Torre Annunziata e oggi sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Napoli: «Le pratiche a tutela si sono diffuse all’epoca di Craxi prima e Berlusconi poi, quando si avvertì l’esigenza di tutelare i titolari di inchieste scottanti dagli attacchi della politica. Oggi, davanti ai presunti attacchi della stampa e in un momento in cui il prestigio della magistratura vive una fase di appannamento dovuta a pratiche non commendevoli, invocare l’apertura di una pratica a tutela rischia di essere inopportuno o addirittura controproducente perché afferma l’idea di una magistratura intoccabile». Insomma, l’idea che tutti i cittadini possano essere criticati eccezion fatta per i magistrati va respinta. Di qui il discorso si sposta sulla libertà di stampa che, a giudicare dall’iniziativa assunta da Cantone, qualcuno vorrebbe limitare. «È un valore che va riaffermato e difeso – prosegue Marino – D’altro canto, delle chat di Palamara si è saputo poco attraverso gli atti del procedimento disciplinare e della vicenda penale. Il resto non si conosce se non attraverso il servizio reso dalla stampa. E, in questa fase, è bene che tutti, cittadini comuni e magistrati, conoscano certe dinamiche che caratterizzano il potere giudiziario». Il parere di Marino è ancora più significativo se si pensa che il sostituto procuratore generale di Napoli è tra i circa 50 magistrati che hanno chiesto a Palamara di rendere noto il contenuto di messaggi sui quali vige ancora il massimo riserbo. Segno che, in alcuni settori della magistratura, l’esigenza di trasparenza è avvertita con particolare forza. Sulla vicenda interviene anche Tullio Morello, magistrato in forza alla sezione penale del Tribunale di Napoli che per anni ha ricoperto il ruolo di giudice per le indagini preliminari: «Libertà di stampa ed esigenza di riservatezza delle indagini sono valori che non di rado confliggono, ma tra i quali bisogna trovare un equilibrio all’interno di quel percorso spesso tortuoso e complesso come le indagini». Ciò significa che il lavoro dei giornalisti non può e non deve ostacolare quello dei magistrati e viceversa. «La libertà di stampa è un valore importante – conclude Morello – Certo, non deve in alcun modo pregiudicare le indagini, ma ciò non esclude che un giornalista possa e debba svolgere il proprio lavoro in modo efficace ed esaustivo, magari cercando il classico scoop, o rivolgere critiche a pm e giudici».

Cosa è successo a Perugia nell’estate del 2019? Cantone vuole censurare il Riformista: “La libertà di stampa ha un limite”.

Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. Il Procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, ha chiesto al Csm di aprire una “pratica a tutela” dei magistrati della sua città. Perché e contro di chi? Contro il Riformista che nei giorni scorsi ha riferito, sul celebre Palamaragate, notizie che non piacciono a Cantone. E cioè ha raccontato come le chat estratte dal telefono di Luca Palamara ai primi di giugno del 2019 furono mandate al Csm con 11 mesi di ritardo. Solo dopo che il Csm, senza conoscere le chat e i nomi dei magistrati implicati, aveva deciso un bel giro di nuove nomine nelle Procure e nei tribunali. E poi il Riformista ha anche spiegato come e perché fu silenziato il trojan di Palamara in occasione della cena che lui ebbe con l’ex procuratore di Roma Pignatone e con altri alti magistrati, cena il cui piatto forte, molto probabilmente, fu la nomina del nuovo procuratore di Roma. (Il trojan è quel marchingegno che permette di trasformare un cellulare in un telefono spia che trasmette tutto ciò che avviene attorno a lui). E infine il Riformista ha chiesto conto anche degli Sms che stavano nel telefono di Palamara (e anche quelli furono estratti dal Gico della Guardia di Finanza) e che pare non siano stati inseriti nel fascicolo a carico di Palamara. Cantone sostiene invece che gli Sms furono tutti consegnati e inseriti, però non ci ha detto (ne lo ha detto a Palamara) dove siano. Siccome noi abbiamo scritto queste notizie, e siccome non risulta che su questi fatti sia stata aperta nessuna inchiesta giudiziaria, Cantone ha chiesto al Csm questa famosa pratica a tutela. Cosa sia una pratica a tutela non si sa bene. Potrebbe essere una semplice dichiarazione di “intoccabilità” che vada ad arricchire il curriculum dei magistrati ritenuti responsabili delle mancanze investigative che noi abbiamo segnalato, oppure forse di qualche iniziativa più forte che possa ottenere il risultato di silenziare i giornali indisciplinati, cioè il Riformista. Naturalmente si tratta di un attacco violento e diretto alla libertà di stampa, e dunque anche alla Costituzione, che non credo abbia molti precedenti. E io immagino che l’Ordine dei Giornalisti vorrà intervenire a difesa del principio costituzionale e a difesa del diritto ad informare nostro o di altri giornali ai quali venisse voglia di ficcare il naso sul Palamaragate (senza scottarsi). Se passasse l’idea che in Italia è persino formalmente proibito ai giornali di criticare la magistratura, e addirittura è vietato dare notizie relative al lavoro dei Pm, diventerebbe molto difficile parlare del nostro paese come di un grande paese a democrazia liberale. Capisco l’obiezione: in realtà è già così. Si contano sulla punta di una mano i giornali che si sono occupati del “palamaragate”, dal momento in cui si è capito che era uno scandalo che coinvolge centinaia, o forse anche migliaia di magistrati, e che getta un’ombra di fango molto larga sull’istituzione magistratura. Ma questa non è un’obiezione seria. Il fatto che in Italia quasi tutti i giornali abbiano accettato una sudditanza e giurato obbedienza alle Procure (non alla magistratura: alle Procure) non ci autorizza ad accettare che il divieto di critica alle Procure diventi un divieto formale sancito dalla giurisprudenza. In Italia, nell’ultimo secolo e mezzo, almeno, solo il fascismo ha imposto la censura ai giornali, cioè quella che viene chiesta oggi nei nostri confronti. Nei giorni scorsi vi ho elencato i nomi dei magistrati o ex magistrati, che mi hanno querelato, o hanno querelato il mio editore, perché innervositi dalle critiche ricevute. Tutti nomi altisonanti: l’ultimo è stato Gian Carlo Caselli (col quale, oltretutto, avevo avuto in passato un rapporto quasi di amicizia) prima di lui Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Gratteri, Davigo, Esposito (2: padre e figlio) e qualcun altro che ora non mi viene in mente (e mi scuso per l’eventuale omissione). Adesso si aggiunge Cantone. Dei nomi di grido mi mancano – a occhio – solo Ingroia, Greco, Prestipino e Melillo. Credo che l’iniziativa di Cantone vada interpretata nello stesso modo nel quale ho interpretato le querele: un sistema per intimidire il giornalista, metterlo in guardia, spingerlo a mollare la presa. Il problema per me è complicato: personalmente sono molto favorevole all’idea di lasciarmi intimidire e mollare la presa. Sempre. Io tendo a privilegiare il primum vivere a valori francamente molto vaghi ed effimeri, e inutili forse, come il coraggio. Il coraggio a me pare estetica. Il problema è che essendo il Riformista l’unico quotidiano cartaceo (radio radicale è una radio) che si occupa costantemente e criticamente delle vicende della magistratura, e che non concede mai nessuno sconto al partito dei Pm ( e alla loro rappresentanza parlamentare, che in questa fase è il dominus del governo) non possiamo permetterci il lusso di lasciarci intimidire. Se sparissimo anche noi, cosa resterebbe della libertà di stampa? Per finire vorrei fare due domande a Cantone e ai suoi colleghi. Noi abbiamo denunciato dei fatti gravi. Compreso il silenziamento intenzionale del trojan di Luca Palamara (un atto evidente di intralcio alle indagini). Quantomeno su questo fatto e sul ritardo nella consegna degli whatsapp di Palamara non abbiamo ricevuto nessuna smentita. Qualcuno, nelle Procure, ha aperto un’inchiesta, magari piccola piccola, magari ben strutturata allo scopo di farsi archiviare al più presto, ma almeno una inchiestuccia? A me non risulta. E invece risulta che nel corpo della magistratura ci sono molti malumori. Migliaia di magistrati, che lavorano sodo e correttamente, sono un po’ indignati per il modo nel quale il Palamaragate viene messo sotto il tappeto. Qualche giorno fa una cinquantina di magistrati hanno scritto a Palamara per chiedergli di renderli noti lui gli Sms, visto che la magistratura non li rende noti. E’ abbastanza grave, no? Gli stessi magistrati non si fidano più della magistratura e cercano le verità per vie private. Gli piace questa cosa a Raffaele Cantone? Seconda domanda, questa rivolta alla procura di Firenze, che è quella designata a indagare sulla procura di Perugia. Capisco che il vostro organico, al momento, è impegnato nella caccia a Renzi e che è una caccia difficilissima perché non si trova uno straccio di indizio per nessun reato. E oltretutto Renzi rema contro. Però almeno un sostituto – magari il più giovane – non potrebbe essere distaccato, anche solo per una settimana, per cercare di capire che è successo a Perugia nell’estate del 2019?

Il nuovo tipo di giornalismo. Il Fatto censura intervista di Marco Lillo ad Alfredo Romeo sul caso Consip. Redazione su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti in un video pubblicato sui suoi canali social racconta la storia dell’intervista di Marco Lillo ad Alfredo Romeo censurata. “Vi devo raccontare una storia fantastica di giornalismo moderno. La storia di un’intervista. Solitamente il giornalista fa le domande, l’intervistato risponde. Al Fatto Quotidiano hanno inventato una nuova forma di interviste. Il giornalista fa le domande e l’intervistato deve rispondere come vuole l’intervistatore“. “Marco Lillo – prosegue Sansonetti – un investigatore ed è vice direttore del Fatto Quotidiano ha chiesto una intervista a Romeo sul caso Consip. Romeo ha accettato qualsiasi domanda e chiesto solo di farla per iscritto. Marco Lillo dopo un po’ di tempo gli ha inviato diecimila battute di domande, quasi da Pm, non da giornalista. Romeo ha risposto a tutte le domande e ha compilato diecimila battute anche lui. A quel punto Lillo ha detto che era troppo lunga… Fa così una sintesi di settemila battute cambiando domande e risposte. A quel punto Romeo ha detto che è un atto di censura. Lillo quindi ha chiesto a Romeo di rispondere alle nuove domande e di non superare in totale (con le domande), le 10mila battute totali“. “Nell’intervista c’è un po’ tutto – sottolinea Sansonetti –, dall’accanimento dei Pm alla lotta tra le procure di Roma e Napoli e il fatto che ci va sempre in mezzo Romeo. Romeo racconta tutto, racconta le cose, critica i Pm, il gip Sturzo che l’ha arrestato e tenuto sei mesi in prigione. Lillo legge l’intervista e poi dice: “Io non la posso pubblicare”. Ma come non la può pubblicare? E Lillo dice che le risposte possono essere offensive e ingiuriose nei confronti dei magistrati…“. “Lillo quindi alla fine ha deciso di non pubblicare l’intervista a Romeo. Questo apre una riflessione: sul tipo di giornalismo che si sta affermando in Italia. E’ attività dei Pm e delle procure che ha la sua espressione cartacea in alcuni giornali che escono nelle edicole, ma ci dice molte cose sulla vicenda Consip… una brutta storia. L’intervista a Romeo – conclude Sansonetti – è il primo caso di giornalista che si censura da solo“.

Il “livello superiore”: incontri giornalisti-giudici, raccomandazioni per i figli e le inchieste politiche. Palamara racconta. Da zonedombratv.it il 27 gennaio 2021. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e ex membro del Csm, Luca Palamara, torna a raccontare quel mondo giudiziario di cui ha fatto parte fino a poco tempo fa. Il “livello superiore”. Fino a quando non è stato radiato dall’ordine giudiziario per la prima volta nella storia della magistratura. Palamara torna sulla vicenda e racconta ad Alessandro Sallusti, nel libro “Il Sistema – Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana” cosa sia il ‘Sistema’ che ha pesantemente influenzato la politica italiana.

“Quando ho toccato il cielo, il Sistema ha deciso che dovevo andare all’inferno”. Una carriera brillante avviata con la presidenza dell’Associazione nazionale magistrati a trentanove anni. Palamara a quarantacinque viene eletto nel Consiglio superiore della magistratura e, alla guida della corrente di centro, Unità per la Costituzione, contribuisce a determinare le decisioni dell’organo di autogoverno dei giudici. A fine maggio 2019, accusato di rapporti indebiti con imprenditori e politici e di aver lavorato illecitamente per orientare incarichi e nomine, diventa l’emblema del malcostume giudiziario. “La sinistra orienta i giudici e la stampa non è libera”: parola di Luca Palamara. “Tutti quelli – colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni molti dei quali tuttora al loro posto – che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo”, sostiene Palamara. Il “Sistema” di cui si parla nel libro “è il potere della magistratura, che non può essere scalfito: tutti coloro che ci hanno provato vengono abbattuti a colpi di sentenze, o magari attraverso un abile cecchino che, alla vigilia di una nomina, fa uscire notizie o intercettazioni sulla vita privata o i legami pericolosi di un magistrato. È quello che succede anche a Palamara: nel momento del suo massimo trionfo (l’elezione dei suoi candidati alle due più alte cariche della Corte di Cassazione), comincia la sua caduta”. “Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano”, dice l’ex presidente dell’Anm. E i segreti sono tutti in questo libro.

Il modello Firenze. “In questa corsa senza freni provo il colpo della vita: applicare il modello Firenze per conquistare il vertice della magistratura italiana”, racconta Palamara. “Siamo nel 2017, ci sono da eleggere i nuovi procuratore generale e primo presidente della Cassazione, fondamentali non solo per il destino delle vicende processuali ma anche perché siedono di diritto nel plenum del Csm, dove si decide tutto, dalle nomine alle sanzioni”. Era “un azzardo – riconosce Palamara -, perché nel frattempo è iniziata la parabola discendente di Renzi”.

Complicità di pm e giudici. Tra pm e giornalisti c’è “complicità professionale”, “si usano a vicenda”, sostiene Palamara. “Prendiamo l’informazione, che nella vicenda Berlusconi di quegli anni ha avuto un ruolo fondamentale. Tra di noi girava la battuta: ‘La vera separazione delle carriere non dovrebbe essere quella tra giudici e pm ma tra magistrati e giornalisti’. Magistrati e giornalisti – lo dico anche per esperienza personale – si usano a vicenda, all’interno di rapporti che si costruiscono e consolidano negli anni. Il giornalista vive di notizie, ogni testata ha una sua linea politica dettata dall’editore, che ha precisi interessi da difendere. Il pm li conosce bene, e sa che senza quella cassa di risonanza la sua inchiesta non decollerà, verrebbe a mancare il clamore mediatico che fa da sponda con la politica. È inevitabile che una frequentazione assidua porti a una complicità professionale, a volte anche a un’intimità personale più o meno clandestina che crea qualche imbarazzo tra i colleghi”. E, aggiunge Palamara, “c’è anche un livello superiore: io stesso ho avuto modo di partecipare a incontri riservati tra importanti direttori e procuratori impegnati su inchieste molto delicate…”.

“Non rinnego il passato”. “Non rinnego ciò che ho fatto, dico solo che tutti quelli – colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni, molti dei quali tuttora al loro posto – che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo. Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano”, racconta l’ex pm.

Le chat. “Il contenuto di quelle trascrizioni, come pure le chat e i messaggi estratti dal cellulare, è ormai noto, i giornali ne hanno pubblicati centinaia. C’è di tutto, ma non c’è tutto” e Luca Palamara fa un elenco di nomi.

Il patto tra i pm e Fini. “Quando nel dicembre del 2010 si parla di un possibile patto tra la magistratura e Gianfranco Fini, ben visto dal Colle, non si va lontano dalla verità”, racconta ancora nel libro intervista. “Con lui, in quel momento presidente della Camera, troviamo un’inaspettata sponda in campo avverso, quello del centrodestra di cui lui è il numero due dopo Silvio Berlusconi – spiega l’ex pm – Abbiamo più di un incontro, ci rassicura che con lui a dirigere la Camera non varerà nulla di sgradito ai magistrati. Tra noi certamente c’è un buon feeling che diventa collaborazione attiva nel fornirgli pareri e spunti per emendare leggi che, direttamente o indirettamente, riguardano il nostro mondo”.

Nomine e patteggiamenti. “La verità è che dietro ogni nomina c’è un patteggiamento che coinvolge le correnti della magistratura, i membri laici del Csm e, direttamente o indirettamente, i loro referenti politici, e ciò è ampiamente documentabile”, racconta Palamara. “Normalmente funziona che se le correnti si accordano su un nome può candidarsi anche Calamandrei, padre del diritto, ma non avrà alcuna possibilità di essere preso in considerazione”, aggiunge l’ex pm.

Legnini e l’umiliazione. “Dopo la votazione al Csm che incorona Fuzio raggiungo il vicepresidente Legnini a Chieti per partecipare a un convegno. Mi insulta, si sfoga: ‘Tu mi hai umiliato agli occhi del Quirinale, penseranno che io non conto nulla, non finirà qui'”, racconta ancora nel libro.

Le raccomandazioni. “Io ho soddisfatto tante richieste in tal senso e soprattutto sono stato contattato più volte da magistrati, anche autorevoli, che chiedevano raccomandazioni per gli esami orali dei figli”, afferma l’ex pm.

Il caso De Magistris. Quando il Csm apre un fascicolo che di lì a pochi mesi porterà al trasferimento di Luigi de Magistris, spiega ancora Palamara, “io mi consulto sia con i miei sia con il Quirinale. E succede che, per la prima volta nella sua storia, almeno recente, l’Anm prende le distanze dall’operato di un pubblico ministero. Il comunicato lo feci io insieme a Giuseppe Cascini, fu un atto sofferto ma di coraggio, rompeva il dogma secondo cui un pm va difeso sempre e comunque. E su questo ebbi la spinta di Cascini, cioè dell’ala sinistra della magistratura, una spinta che mi lasciò molto stupito”.

Le cene con Ferri e Lotti. Il 25 settembre “c’è una cena a casa di Giuseppe Fanfani, membro del Csm in quota renziana. Siamo invitati io, Ferri ed Ermini per chiudere il cerchio. Io e Ferri chiediamo all’ultimo al padrone di casa se può venire anche Lotti, lui non obietta né tantomeno obietta il vicepresidente in pectore Ermini”, racconta Palamara. E sottolinea, “il futuro, oggi in carica, vicepresidente del Csm è a tavola con un politico indagato, Luca Lotti, con un magistrato del Csm, il sottoscritto – che lui ben sapeva essere indagato, perché, anche se la notizia non era ancora stata pubblicata dai giornali, nel nostro mondo era stranota –, e con un fresco onorevole del Pd, Cosimo Ferri”.

Il potere di Magistratura democratica. “Magistratura democratica è l’embrione del sistema”, precisa ancora Palamara nel libro. L’ex pm spiega anche il suo ingresso in Md: “Noto una cosa: la maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura”. A un certo punto “capisco che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica. Ecco, in quel momento, anche se ancora non ne ho piena coscienza, varco la porta ed entro nel ‘Sistema’”. Poi, compreso che Md è una “corrente ideologica e non scalabile con la mia storia”, matura la scelta di passare a Unicost.

Palamara: «Le mie cene segrete? Sì, con pm e direttori di giornale». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 gennaio 2021. Il titolo del libro dice tutto: “Il Sistema”. L’ex capo Anm lo ha pubblicato ieri, sotto forma di intervista ad Alessandro Sallusti. È una definitiva delegittimazione della magistratura italiana. «Pm e giornalisti si usano a vicenda…». È uscito ieri. Ed è già un caso, ovviamente. “Il Sistema”, il libro-intervista di Luca Palamara con Alessandro Sallusti edito da Rizzoli, si fa notare già per il “promettente” sottotitolo: “Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana”. Si tratta di un evento editoriale atteso da tempo da parte di molti “addetti ai lavori” del mondo della giustizia: toghe, politici, uomini delle istituzioni. Da un lato la naturale curiosità, dall’altro il timore di essere stati tirati in ballo dall’ex presidente della Anm, recentemente radiato dalla magistratura.

Verso la definitiva delegittimazione delle toghe. Il volume ripercorre dieci anni di storia del Paese. Ciò che emerge già dalla lettura delle prime pagine non è molto edificante e, probabilmente, contribuirà ad accelerare il processo di delegittimazione, già in atto da tempo, della magistratura italiana. Delegittimazione del potere giudiziario che d’altronde non può essere considerata una colpa di Palamara. Il quale ha solo avuto il “merito”, se così si può dire, di raccontare per primo episodi e circostanze di cui molti avevano avuto da tempo il sentore. Molto spazio è dedicato alle nomine “pilotate” di cui in questi mesi si è avuta contezza con la lettura delle chat fra Palamara e centinaia di magistrati. “Normalmente funziona che se le correnti si accordano su un nome, può candidarsi anche Calamandrei, padre del diritto, ma non avrà alcuna possibilità di essere preso in considerazione”, precisa serafico l’ex pm della Procura di Roma.

Pm-giornali, vero blocco di potere. La magistratura, nella ricostruzione di Palamara (e Sallusti), è riuscita a influenzare in maniera determinante la politica italiana, dando vita appunto a un “Sistema”, come da titolo del libro, che non ammette defezioni. Chi prova a cambiarlo viene “abbattuto” con vari metodi: dossieraggi su giornali compiacenti, procedimenti penali, pratiche disciplinari al Csm. Tanti gli episodi raccontati nelle circa 300 pagine. Un capitolo, che merita di essere letto con attenzione, riguarda i rapporti fra i magistrati e informazione. “La vera separazione delle carriere non dovrebbe essere quella tra giudici e pm ma tra magistrati e giornalisti”, esordisce Palamara. “Magistrati e giornalisti – lo dico anche per esperienza personale – si usano a vicenda, all’interno di rapporti che si costruiscono e consolidano negli anni. Il giornalista vive di notizie, ogni testata ha una sua linea politica dettata dall’editore, che ha precisi interessi da difendere. Il pm li conosce bene, e sa che senza quella cassa di risonanza la sua inchiesta non decollerà, verrebbe a mancare il clamore mediatico che fa da sponda con la politica”.

Le vere cene segrete di Palamara. “È inevitabile”, si legge ancora nel libro-intervista, “che una frequentazione assidua porti a una complicità professionale, a volte anche a un’intimità personale più o meno clandestina che crea qualche imbarazzo tra i colleghi”. Un’analisi impietosa sulla qualità del giornalismo giudiziario del Paese, che vede troppo spesso il racconto dei fatti sostituito dalla trascrizione delle veline delle Procure. Ma, aggiunge poi sibillino Palamara, “c’è anche un livello superiore: io stesso ho avuto modo di partecipare a incontri riservati tra importanti direttori e procuratori impegnati su inchieste molto delicate”. Solo che l’ex numero uno dell’Associazione nazionale magistrati non fa i nomi.

Il circo mediatico-giudiziario che ha stritolato pure l’ex capo Anm. Il magistrato a cui il Csm ha inflitto la radiazione, ma che discuterà ora il ricorso dinanzi alle Sezioni unite della Cassazione, è rimasto vittima per primo, va detto, di quel “meccanismo” di reciproca utilità fra magistrati e giornalisti. Il 29 maggio del 2019 tre importanti quotidiani nazionali aprirono la loro prima pagina proprio sull’inchiesta di Perugia avviata nei suoi confronti. Gli articoli erano sostanzialmente identici, ad iniziare dai titoli: “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”, “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”. Le indagini a Perugia a quel tempo non si erano concluse, e la fuga di notizie, su cui nessuno ha mai indagato, ebbe come conseguenza quella di far saltare la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma.

«Mi iscrissi a Md perché comandava». Nel libro sono riportati anche dettagli sul passato giovanile “progressista” di Palamara. Il motivo è semplice: “La maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura”. A un certo punto, ricorda l’ex pm di Roma, “capisco che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica. Ecco, in quel momento, anche se ancora non ne ho piena coscienza, varco la porta ed entro nel Sistema”. Poi, compreso che Md è una “corrente ideologica e non scalabile con la mia storia”, maturerà la scelta di passare a Unicost di cui diventerà il leader incontrastato per un decennio.

Il vergognoso silenzio dei "giornaloni" sull'attacco alla Meloni. I grandi giornali, sempre pronti a denunciare le frasi sessiste, si girano dall'altra parte quando ad essere offesa è Giorgia Meloni. Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto, Giovedì 18/02/2021 su Il Giornale. Se sei donna non puoi (giustamente) essere offesa. Se sei donna e di sinistra non si può nemmeno fare satira su di te. Ma se sei donna e pure di destra allora puoi beccarti della "zoocola" senza che nessuno dica niente. Ma andiamo con ordine. L'altro giorno, su Internet, è spuntato un vecchio commento Facebook di Eric Gobetti - autore di un libro che minimizza la tragedia delle foibe - in cui dava della poco di buono a Giorgia Meloni. ilGiornale, prima con un articolo sul sito e poi con uno sulla carta, è stato tra i pochi a parlarne. Nessuno degli altri quotidiani - dal Corriere a Repubblica, passando per La Stampa - ne ha parlato. Nemmeno una breve o una fotonotizia per denunciare le offese sessiste rivolte a uno dei più importanti leader politici in Italia. Perché? Forse perché le redazioni erano impegnate a seguire l'insediamento del governo Draghi. O forse perché quelle stesse redazioni, nei giorni precedenti la commemorazione dei martiri delle foibe, erano impegnate a diffondere il verbo di Gobetti. Del resto, la stessa Meloni ha commentato così la "performance" dello storico: "Questo sarebbe l'imparziale storico che la sinistra tanto osanna e che porta in giro per l'Italia per spiegare - e sminuire - il dramma delle foibe? Un fine intellettuale assolutamente non di parte, non c'è che dire". Un autore per nulla di parte, come testimoniano le sue foto con il pugno chiuso e la bandiera titina, e che nel suo ultimo libro scrive: "Le uccisioni commesse sul confine orientale nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 non possono essere in alcun modo considerate un tentivo di genocidio e le vittime non sono individuate in quanto appartenenti ad uno specifico popolo". Peccato che questa tesi sia stata smentita dalle parole del presidente della Repubblica (ed ex comunista) Giorgio Napolitano: "Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una 'pulizia etnica'". Si dirà: ma un presidente della Repubblica non è uno storico. Vero. Allora uno storico dovrebbe far parlare i protagonisti e i documenti. Come Giovanni Battista Padoan, nome di battaglia "Vanni", partigiano della divisione Garibaldi-Natisone, il quale ammette che le foibe "furono un sistema di pulizia politica perpetrata dai partigiani di Tito contro chiunque, compresi convinti democratici e antifascisti, si opponesse all'annessione alla futura Jugoslavia". Ma questo Gobetti non lo dice. Minimizza godendo dell'ampio spazio dei giornali bene e, soprattutto, dei loro silenzi. Perché a sinistra si può far tutto. Perfino insultare.

Il caso del profilo satirico. “Io, professione mitomane”, perché è stata chiusa la pagina Facebook che prendeva in giro i giornalisti. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Sparita la pagina Io, professione mitomane sui social network. Chiusa sia su Facebook che su Twitter. La pagina  satirica aveva raggiunto un ampio numero di follower. Gli admin hanno fatto sapere: “Nessuna censura nessuna segnalazione. Abbiamo chiuso la pagina e basta perché era diventato faticoso seguirla”. Il caso ha suscitato un vivace dibattito sui social network e tra i giornalisti. La pagina era nata per stigmatizzare e mettere in ridicolo la mitomania nel settore dei media, del giornalismo, dell’editoria anche. E quindi una condanna e una parodia dello storytellyng e del narcisismo dilagante nelle categorie menzionate. Un intento sicuramente centrato e anche giusto. Il suo manifesto: “Salviamo il giornalismo dalla mitomania dei giornalisti e il mondo della comunicazione dalla mitomania dei comunicatori. È un lavoro sporco, ma qualcuno dovrà pur farlo [pagina satirica]”. Deus ex-machina della pagina il giornalista de Il Fatto Quotidiano Andrea Scanzi. La partecipazione – i post venivano segnalati da follower e utenti – era diventata così rilevante che il collettivo aveva persino dato vita a dei contest, sempre satirici, come la coppa Scanzi, appunto, vinta dal giornalista e scrittore Lorenzo Tosa. Quel primo proposito era però degenerato dopo qualche tempo. La pagina era diventata a tratti anche un coacervo di frustrazione, avvilimento, attacchi spesso esagerati e anche gratuiti. Spesso e volentieri è stato definito come un luogo di mediocrità e avvilimento concentrati in un esercizio di discredito se non proprio di gogna pubblica. La pagina effettivamente ha preso qualche granchio. Qualcuno anche di non poco rilievo. E infatti è nata da questa anche una pagina satirica della pagina satirica: Io, professione “io, professione mitomane”. Che dopo la notizia della sospensione ha osservato ironicamente: “No. Non abbiamo fatto chiudere noi IPM. E che siamo, la Polizia dell’internet?” Le ragioni della chiusura in un testo dello stesso collettivo. “Uno dei problemi principali è stata la gestione dei commenti – hanno scritto – Puntualmente nei post senza il nome degli autori della ‘mitomanata’ […] si scatenava la ricerca dell’autore. ‘Diteci il nome’, ‘chi è?’, erano richieste molto gettonate. Il punto non era scovare il colpevole e colpire i singoli, ma renderci conto che i mitomani siamo noi, siamo tutti, nessuno è al riparto proprio a causa degli istinti naturali su cui fanno leva i social, ci cascano il grande scrittore come il giornalista precario di provincia. ‘Io, professione mitomane’ in fondo era uno specchio, doveva essere uno specchio, un’autocritica”. Il post, molto lungo, è stato pubblicato dalla pagina L’Intellettuale Dissidente, offre diversi spunti di riflessione sia sui social network che sul mestiere di giornalista, e continua: “Ironia e autoironia sono merce rara, ma anche quando qualcuno mostrava di averla avuta – è il caso ad esempio di Bazzi – si scatenava comunque una canea. In pratica era impossibile uscirne con onore. E non ci sentivamo più di portare avanti questa responsabilità. Le segnalazioni di egoriferiti che ci arrivavano erano decine al giorno. Il tema della “mitomania” quindi c’era tutto, ma alla lunga questa esibizione di sé e il volerla rilanciare per metterla alla berlina (l’esibizione, non la persona!) provoca un senso di nausea e sopraffazione. Si ride una volta, dieci, cento, poi si sprofonda nella tristezza”. E quindi un ultimo passaggio: “Siamo convinti di aver lanciato un sasso nello stagno rispetto ai meccanismi autorefenziali dei social, del giornalismo e anche della politica. Deformano la qualità delle relazioni umane, la natura e il ruolo fondamentale del giornalismo e la forza più profonda dei propri ideali. Pensiamo di esser riusciti a fare spesso una satira non banale e contemporaneamente non incattivita. Clic”.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 22 febbraio 2021. Da qualche giorno ha chiuso la pagina Facebook “Io professione mitomane”, lasciando molti fan orfani della loro dose di mitomania quotidiana. E regalando un definitivo sollievo ai bersagli preferiti della pagina, alcuni dei quali-va detto- si impegnavano parecchio per finirci dentro. Bersagli che, per chi non ha seguito la “missione” di “Io professione mitomane”, erano giornalisti/scrittori/influencer convinti di cambiare le sorti del mondo a colpi di post o di essere gli eredi naturali di Hemingway. La pagina Fb  “L’intellettuale dissidente”  ha chiesto agli (anonimi) gestori della pagina il perché della sparizione, visto che molti avevano insinuato l’ipotesi “ban” a seguito di segnalazioni: “Nessuna censura nessuna segnalazione. Abbiamo chiuso la pagina e basta perché era diventato faticoso seguirla. Crediamo che il messaggio che volevamo mandare è comunque arrivato ed era inutile continuare all’infinito, diventando noi stessi protagonisti di un’arena (i social e il loro funzionamento) che ci toglie tempo, tempo di vita e capacità critiche. Uno dei problemi principali è stata la gestione dei commenti. Finché erano venti o trenta per post era possibile controllarli tutti con una relativa facilità, diventati centinaia le possibilità di lasciare insulti, offese, contenuti di natura sessista, razzista o comunque non in linea con il rispetto che abbiamo sempre chiesto, erano altissime”. Insomma, il giocattolo si era rotto. Ed è un peccato, perché era un bel giocattolo. Che però qualche ingranaggio cominciasse ad andare per conto suo e ad animare il giocattolo di un ghigno malevolo ben oltre le intenzioni iniziali, era diventato purtroppo evidente. “Io professione mitomane” è stata, per lungo tempo, una pagina geniale ed esilarante. Lo smascheramento costante di slanci di vanità dello scrittore piacione, dell’influencer mitomane, dell’economista sfigato, del politico finto-visionario, dei giornalisti boriosi, era un capolavoro di ironia. Lo svelamento dei vanagloriosi che, senza traccia di senso del ridicolo, inventavano di essere braccati per strada dai fan (col titolo di coda “Quentin Inventino”) o, al contrario, si raccontavano come dei geni assoluti ma incompresi, è stato uno spettacolo di raro divertimento. Rimarranno nella storia il thread “Cathyrider”, ovvero il post dell’avvocato Cathy La Torre che il 12 settembre 2018 racconta di essere stata lodata dal fattorino che le portava la pizza e poi, un anno dopo, racconta lo stesso aneddoto, cambiando giusto qualche virgola. O i post empatici, di partecipazione emotiva ad immancabili tragedie umane seguiti dall’ormai mitica scritta “Clicca qui per comprare il mio libro” dei vari Tosa e Scanzi. O i celebri sfottò a Lorenzo Crea, uno che ha la missione nel cognome: crea pagine a suo nome che condividono pagine a suo nome che mettono like a pagine a suo nome in una sorta di esilarante (ed innocua) matrioska di mitomania. Indimenticabili i post sulle improbabili classifiche dei giornalisti più seguiti del web con messaggi di ringraziamento ai fan che nemmeno Biden durante insediamento alla Casa Bianca o il contest “Coppa Scanzi”, in cui si poteva decidere il mitomane dell’anno. O i deliri narcisistico-aggressivi di Fabrizio Delprete. Una volta, durante la pandemia, finii pure io nella pagina, per via di una storiella: un ragazzo denunciò un pranzo tra amici durante la quarantena, arrivarono i carabinieri che presero un po’ la cosa sottogamba e lui li minacciò: “Allora lo dico la Lucarelli”. Mi raccontò l’aneddoto e io lo riportai. Fui sfottuta, ci risi su. E di cose che mi hanno fatto ridere in quella pagina ce ne sono state tante, perché la mitomania è un tema affascinante. Ci cadono persone incredibilmente intelligenti e ti chiedi perché. Perché. Perché. Alcuni, poi, sono seriali e non ti chiedi neppure più il perché: narcisismo patologico. Che voglio dire, non ha mai ucciso nessuno, almeno finché non te lo sposi, un narcisista (maligno). Poi la pagina ha preso una piega sempre meno divertente, sempre più “disagiante”, direbbe mio figlio. E il problema era, soprattutto, nel tenore dei commenti (alcuni dei quali erano geniali). Seguita da un target abbastanza alto, con molti aspiranti scrittori/giornalisti tra i follower, ad un certo punto il clima generale della pagina da giocoso è diventato livoroso. Un livore feroce, ben lontano dall’atmosfera intelligente seppur canzonatoria degli inizi. Un livore che puzzava di invidia e di successo frustrato camuffati da superiorità intellettuale. Un livore che talvolta puzzava di politica. Di bullismo ben agghindato. Un bullismo di livello, quindi pure più malvagio, perché lì non c’erano i “puttana”, ma le lame affilate di chi ti odia con gli strumenti intellettuali per partorire commenti sarcastici e cattivissimi, che insieme ad altri commenti sarcastici e cattivissimi diventavano veleno. E in fondo la colpa qual era? La mitomania nella propria pagina fb. Poca cosa, per ritrovarsi contro un bulldozer d’odio. Ad un certo punto, poi, anche i post sono sembrati a tratti pretestuosi. Troppo lievi per essere tacciati di mitomania. Ormai un giornalista poteva finire sbeffeggiato anche solo per aver annunciato un suo corso di scrittura, come è capitato a Simonetta Sciandivasci. La sensazione, insomma, è che alla fine la pagina sia stata disintegrata dalla stessa materia da cui era composta: la mitomania. In fondo, molti degli stessi commentatori erano dei mitomani che non ce l’hanno fatta. L’imbarbarimento è nato da qui, dall’idea che l’influencer mitomane potesse essere sabotato dalla pagina sui mitomani. Alla fine, i commentatori livorosi gareggiavano sul piano dello stesso Tosa: lui alza l’asticella del buonismo facile, noi quello del cattivismo sofisticato, e intanto diventiamo influenti anche noi. Non era più chiaro se fossero infastiditi dai mitomani o dal consenso che raccoglievano alcuni mitomani. Una deriva che piano piano ha fatto disamorare anche i fan più accaniti della pagina. “Siamo convinti di aver lanciato un sasso nello stagno rispetto ai meccanismi autoreferenziali dei social, del giornalismo e anche della politica. Deformano la qualità delle relazioni umane, la natura e il ruolo fondamentale del giornalismo e la forza più profonda dei propri ideali”, ha dichiarato “il collettivo” di “Io professione mitomane”, spiegando l’addio. E a ben vedere sì, forse c’è un po’ di verità. Però diciamolo: questa frase sarebbe stato un bellissimo post di “Io professione mitomane”.  Perché prendersi sul serio è il primo gradino verso la mitomania, sempre.

Dagospia il 17 febbraio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: L’11 ottobre 2011 fu Ferruccio De Bortoli, allora direttore del “Corriere della Sera”, a scrivere una lettera invitando i suoi giornalisti a non scrivere più libri: “De Bortoli mette il bavaglio ai suoi giornalisti” fu il titolo del “Giornale” del 12 ottobre 2011. Anni dopo seguirono inviti ai giornalisti per smetterla di fare siti personali. L’altro giorno il direttore della “Stampa”, Massimo Giannini, ha scritto ai suoi giornalisti dicendo che “dopo le ultime performance di diversi nostri colleghi sui social, mi vedo costretto a intervenire, e a richiamarvi all’ordine” (il “richiamo all’ordine” non era di destra?) e che “c’è un limite” (già, quale?). Morale, la libertà di espressione è un diritto Costituzionale, ma vuoi vedere che coloro che sono gli addetti alla circolazione delle informazioni e delle idee sono gli unici ai quali è vietato esprimersi? Perché – a parte la compagnia di giro dei soliti noti che imperversa su giornali e tv discettando di tutto lo scibile a loro ignoto – al resto dei giornalisti, cronisti, critici, collaboratori che lavorano per un quotidiano è vietato tutto: il loro quotidiano, spesso, non li fa scrivere e tantomeno commentare notizie; è vietato loro di firmare per altre testate concorrenti; il quotidiano non pubblica i loro pareri anche se in forma di lettera… se ora impedisce loro di scrivere libri e vieta i social siamo alla mordacchia. Perché tutti, dipendenti pubblici, privati, commercianti, disoccupati possono scrivere la loro pisciatina tranne i giornalisti che lavorano per un quotidiano o una televisione? Solo ai direttori o agli amici dei direttori è permesso scrivere e discettare? Lettera firmata

Da startmag.it il 17 febbraio 2021. LA LETTERA DI MASSIMO GIANNINI, DIRETTORE DEL QUOTIDIANO LA STAMPA, AI GIORNALISTI: Care amiche e cari amici, dopo le ultime performance di diversi nostri colleghi sui social, mi vedo costretto a intervenire, e a richiamarvi all’ordine. Nessuno può vietare a un privato cittadino di esprimersi come vuole nell’agorà digitale, ormai purtroppo infestata di haters e spesso trasformata in tavola calda per antropofagi. Dunque non sarò io a vietare alcunché, né a conculcare diritti di libertà di espressione del proprio pensiero garantiti persino dalla Costituzione. Non sarebbe giusto e non avrebbe alcun senso. Ma c’è un limite. Vi ricordo che il profilo di ciascuno di voi in rete nasce prima di tutto dalla vostra “appartenenza” a “La Stampa”, grazie alla quale ciò che scrivete assume un rilievo ben diverso da quello che avrebbe un tweet o un post di un internauta qualsiasi. Di recente, come gruppo Gedi, abbiamo diffuso un apposito Codice Aziendale, etico e pratico, ad uso dei giornalisti del gruppo. Tra i tanti altri punti che tratta, ce n’è uno che riguarda proprio l’utilizzo dei social. Avete l’obbligo di rispettarne i dettami. Quando scrivete su quelle piattaforme dovete rammentare comunque che siete giornalisti di questo giornale. E che i giudizi che date, di qualunque “segno” essi siano, finiscono sempre per riguardare l’intera nostra comunità. Quindi vi rinnovo l’invito a mantenere un profilo alto e rispettoso del ruolo e della funzione che abbiamo. Ad essere equilibrati e a non tranciare giudizi un tanto al chilo, specialmente se quei giudizi non riflettono quello che voi scrivete sul giornale o quello che il giornale adotta come “linea”. Ad evitare soprattutto di ingaggiare indecorosi “corpo a corpo” con gli interlocutori e/o gli odiatori occasionali e/o istituzionali, che quasi sempre finiscono per sconfinare nella triviale deriva politico-culturale di certi tipici anfratti del Web. Un dibattito serio, anche in Rete, fa ricchezza. Dunque siate seri. E ricordatevi ciò che dovete a La Stampa: se quello che twittate o postate ottiene risposte e riscontri, in definitiva, questo dipende molto dal brand che avete alle spalle. E che per questo dal vostro attivismo digitale può subire conseguenze dirette e indirette. Tenetene conto. Un caro saluto e buon lavoro a tutti. Il Direttore Massimo Giannini

Mirella Serri per “La Stampa” il 5 febbraio 2021. Scendono in campo l'un contro l'altro armati storici e legislatori. E non se le mandano certo a dire. L'ultimo fendente contro i politici che confezionano leggi che limitano l'indipendenza della ricerca l'ha vibrato lo storico Franco Cardini. Notissimo medievista, Cardini firma il saggio introduttivo al libro di Pierre Nora e Françoise Chandernagor che sta per uscire in Italia, Libertà per la storia. Inquisizioni postmoderne e altre aberrazioni (Medusa edizioni). Nel suo excursus il professore fiorentino spara a pallettoni contro i moderni legislatori i quali, con la serie dei provvedimenti penali contro chi nega la Shoah, hanno finito per sabotare la libertà degli studiosi. Il libro di Nora e Chandernagor è apparso nel 2008 in Francia ma rappresenta ancora oggi la risposta dell'associazione Liberté pour l'histoire alle «leggi memoriali», alle leggi che in Francia, dal 1990, colpiscono chi contesta l'esistenza dei novecenteschi crimini contro l'umanità, rinverdendo il «reato d'opinione». Cardini, sposando nell'introduzione le proteste dell'associazione francese, riapre così un dibattito che dal 2007 in Italia non si è mai sopito. Da quando l'allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, propose un disegno di legge che prevedeva la condanna e la reclusione per chi negasse l'Olocausto. Contro questo progetto vi fu la clamorosa levata di scudi della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (Sissco) tramite un comunicato sottoscritto da 28 accademici e a cui aderirono 100 storici. In tutta Europa, comunque, sempre più di frequente si levano voci di protesta contro la mannaia del legislatore. Così, per esempio, lo studioso Olivier Petré-Grenouilleau, in Francia è stato denunciato per negazionismo a causa della sua opera, La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale (il Mulino): sosteneva che lo schiavismo non poteva essere considerato un genocidio, dal momento che il mercante era interessato alla sopravvivenza della sua «merce» e non al suo sterminio. Metteva in evidenza anche le responsabilità africane e musulmane (e non solo quelle occidentali, come nella tradizione) nel traffico degli schiavi. Fu riammesso all'insegnamento universitario solo dopo l'insurrezione dei colleghi. Ugualmente assolto dall'accusa di negazionismo, è solo un altro esempio, è stato il tedesco, Heinz Richter. Nel suo lavoro Griechenland im Zweiten Weltkrieg 1939-1941 (La Grecia nella Seconda Guerra Mondiale 1939-1941) aveva affermato che la terribile rappresaglia della Wermacht compiuta a Creta fosse stata motivata dai crimini contro l'umanità compiuti dai resistenti greci. Il processo terminato nel 2016 gli ha dato ragione. Il legislatore però non si arrende: l'ultimo «attentato» all'indipendenza degli esperti, è considerato dagli storici la legge presentata nel 2017 dal deputato del Pd Emanuele Fiano. «Un agguato fortunatamente sventato», sostiene Cardini. Passato alla Camera dei deputati, il disegno di legge di Fiano, infatti, non ha fatto in tempo a ottenere l'approvazione da parte del secondo ramo del Parlamento a causa della fine della legislatura. Fiano era intenzionato a far condannare come reato l'apologia e la propaganda fascista fatta anche sul web oppure tramite oggetti simbolo della dittatura. Una normativa questa che, per Cardini, ancora una volta impone uno stop alla circolazione delle idee. «Fiano parla di propaganda fascista che avviene tramite saluti romani o la vendita di materiali che evocano i regimi totalitari», osserva il medievista. «Ma se faccio riprodurre un ritratto di Mussolini dipinto da un'artista, per Fiano è esaltazione del fascismo? Oppure da cosa evinco che un braccio teso sia un saluto romano che rinvia al dittatore? Anche gli indiani Cheyenne erano soliti salutare così. Lo stesso ragionamento vale per gli storici: se come ricercatore curo e faccio pubblicare un testo che tesse le lodi di Mussolini, un giurista orientato dalla legge Fiano potrebbe considerare il mio lavoro apologia del fascismo». La questione, insomma, è più che mai aperta e la singolar tenzone continua a far scintille.

Franco Montini Per "la Repubblica" il 26 gennaio 2021. Un montaggio di scene proibite, che mostrano baci ritenuti troppo appassionati; abbracci vibranti come quello di Marcello Mastroianni a Jeanne Moreau ne "La notte"; approcci troppo virili, come quello di Massimo Girotti in "Desiderio"; particolari anatomici, schiena, fondoschiena ma, a volte, anche semplicemente una caviglia considerata oscena; dialoghi contenenti vocaboli impronunciabili, come nel caso di "Umberto D.", che nell'omonimo film di Vittorio De Sica definisce "puttana" la sua padrona di casa. Sono le sequenze tagliate dalla censura nei film italiani realizzati nel periodo compreso fra il 1946 e il 1969, che compongono "Cinecensura", un filmato di trenta minuti curato da Maria Assunta Pimpini che, nell'ambito delle iniziative del Centro Sperimentale di Cinematografia, sarà visibile in rete da domani a partire dalle 11 sui canali social della Casa del Cinema. Col montaggio di Stefano Landini, "Cinecensura" raccoglie una ventina di tagli tratti da altrettanti film, che comprendono sia titoli d'autore, come "Accattone" di Pasolini, "I vinti" di Antonioni, "Rocco e i suoi fratelli" di Visconti; sia successi popolari come " Arrangiatevi" con Tòtò, " Alvaro piuttosto corsaro" con Rascel, "Il buono, il brutto, il cattivo", terzo capitolo della cosiddetta trilogia del dollaro di Sergio Leone. E il western all'italiana in particolare è stato uno dei generi più colpiti in quanto ricco di scene di violenza, tortura e sadismo. "Cinecensura" è solo un assaggio del frenetico lavoro svolto nel nostro paese dai censori, che hanno colpito oltre 3000 titoli imponendo l'eliminazione di una o più inquadrature, o addirittura arrivando a negare il nulla osta per la distribuzione, come nel caso di "Totò e Carolina" di Mario Monicelli, bloccato per due anni e uscito dopo aver subito un'ottantina di tagli, fino al caso clamoroso di "Ultimo tango a Parigi" di Bernardo Bertolucci, condannato al rogo, ovvero alla distruzione del negativo, fortunatamente mai attuata. «Con gli occhi di oggi - commenta Alfredo Baldi, autore di un dettagliato volume Schermi proibiti: la censura in Italia, 1947-1988 - l'istituzione appare assolutamente ridicola: il compito di impedire la diffusione di atti osceni, impressionanti o contrari alla decenza e al prestigio delle istituzioni è stato svolto con una severità ottusa. L'ossessione dei censori ha riguardato principalmente la sfera sessuale: circa due terzi dei tagli imposti si riferivano a scene amorose, con interventi a volte incomprensibili. La verità è che la censura è stata costantemente in ritardo rispetto all'evoluzione dei costumi e del comune senso del pudore. Basti ricordare che il seno femminile ha avuto libera circolazione al cinema solo alla fine degli anni Sessanta, quando sulle spiagge e non solo le donne si mostravano senza suscitare alcuno scandalo».

Marisa Sarnoff per "mediaite.com" il 26 gennaio 2021. Secondo Rupert Murdoch le testate giornalistiche stanno affrontando una diffusa "censura" che cerca di "impedire agli individui e alle società di realizzare il loro potenziale". Il fondatore di Fox News lo ha detto nel suo discorso di accettazione del premio alla carriera della Fondazione Australia Day, come riporta il New York Times. Murdoch nel video ha parlato del "conformismo rigidamente imposto, aiutato e sostenuto dai cosiddetti social media" come una "camicia di forza sulla sensibilità". "Per noi dei media", dice Murdoch nel video, "c'è una vera sfida da affrontare: un'ondata di censura che cerca di mettere a tacere la conversazione, di soffocare il dibattito, di impedire infine agli individui e alle società di realizzare il loro potenziale. Questa conformità rigidamente imposta, aiutata e sostenuta dai cosiddetti social media, è una camicia di forza sulla sensibilità. Troppe persone hanno combattuto troppo duramente in troppi posti per la libertà di parola per essere soppresse da questa terribile ortodossia". Un giorno dopo la pubblicazione del video sul sito web del giornale australiano Herald Sun, di proprietà di Murdoch, il New York Post, un altro tabloid di proprietà di Murdoch, ha pubblicato un articolo del senatore conservatore Josh Hawley, tra i fautori del ribaltamento dei risultati delle elezioni presidenziali del 2020, visto da alcuni come l'incoraggiatore della folla che ha attaccato il Campidoglio degli Stati Uniti il 6 gennaio. Nel suo saggio, Hawley, come Murdoch, allo stesso modo si è lamentato della cosiddetta "cultura della cancellazione" e di essere costretto a "sostenere le idee giuste" e "conformarsi".

Da corriere.it il 19 gennaio 2021. È stata rimossa da Facebook «Le più belle frasi di Osho», una delle pagine satiriche italiane più conosciute, con migliaia di fan. «Me faccio vivo io»: così il fondatore Federico Palmaroli ha commentato sul suo profilo privato ciò che sta accadendo. Da Facebook per ora non arriva nessuna comunicazione ufficiale, ma sono in corso verifiche. L’oscuramento di pagine e profili sulla piattaforma social è frutto di una decisione presa da un team internazionale dedicato al controllo dei contenuti. Ancora non è chiara la ragione — l’ipotesi è che a presentare la richiesta sia stata un’associazione privata — che ha portato all’oscuramento del profilo di Osho, famoso per quel modo scanzonato di riflettere sui temi più svariati con termini attinti dal romanesco. Già si levano voci in difesa del sito, fra le tante quella del responsabile nazionale Innovazione di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone : «Solidarietà a Federico Palmaroli sempre autore di satire intelligenti. È stata disattivata una pagina da più di un milione di follower che non ha mai fatto uso commerciale delle immagini. Facebook rispetti l’ordinamento italiano: non può chiudere pagine e rimuovere contenuti in maniera arbitraria. Chiediamo il ripristino immediato e urgente degli account. La sovranità digitale italiana va tutelata». E lancia un’interrogazione al governo per chiedere «quali iniziative si intenda adottare per garantire i diritti fondamentali di manifestazione del pensiero, di libertà di stampa e di libertà di satira. Investiremo anche il presidente dell’Agcom per garantire l’immediato ripristino».

Da huffingtonpost.it il 19 gennaio 2021. “Intanto ringrazio tutti per la solidarietà. Siete la mia artiglieria”. Così Federico Palmaroli, in arte "Osho", si rivolge su Facebook ai suoi follower dopo l’improvviso e momentaneo oscuramento della sua pagina "Le più belle frasi di Osho". “Quanto ai motivi della chiusura temporanea della pagina, pur comprendendo coloro che hanno pensato che fosse dovuta a motivazioni legate ai contenuti da me pubblicati, vi informo che non è stata provocata da quelli, anche perché la mia satira non è mai stata né violenta né offensiva. Semplicemente m’ero scordato de pagà ’na bolletta”, scrive scherzando. E ancora: “Scherzi a parte, c’è stata una segnalazione relativa al soprannome con cui ormai tutti mi conoscete e un conseguente errore di valutazione da parte di Facebook, riconosciuto dopo il mio reclamo. Tutto a posto”. Intanto, un portavoce di Facebook ha fatto sapere: “Abbiamo rimosso questa Pagina dopo aver ricevuto una segnalazione di violazione della proprietà intellettuale. La Pagina è stata rimossa per errore ed è stata ripristinata”.

Gianluca Veneziani per "Libero quotidiano" il 20 gennaio 2021. Pare si siano già allertati il blog Spinoza e la casa che produce biscotti Leibniz, temendo di subire anche loro una censura per aver osato riesumare sul web i nomi di grandi pensatori. Poco importa che siano già belli e morti: se usi la loro identità, per omaggio, per satira o per pura coincidenza, rischi di essere cancellato. E non ti resta che prenderla con filosofia. Come l' ha presa l' inarrivabile vignettista satirico Federico Palmaroli, per tutti Osho (tributo-parodia al pensatore indiano scomparso 30 anni fa), la cui pagina Facebook ieri è stata temporaneamente oscurata e poi riattivata dopo qualche ora dal social. All' avvenuto blocco de "Le più belle frasi di Osho", dove ogni giorno l' autore romano ci diletta con le sue perle sui personaggi della politica, molti utenti e fan avevano legittimamente pensato a un' azione di censura. C' era chi evocava il caso Trump: se non sei allineato col Pensiero Unico o ti azzardi a sbertucciare chi a sinistra ha preso il potere, vieni fatto fuori, almeno virtualmente. C' era poi chi temeva il bavaglio per la pubblicazione di contenuti scomodi: ma, e chiunque guardi la pagina può rendersene conto, Osho non si rivolge mai alla pancia o al basso ventre, gioca piuttosto in modo sottile con l' intelligenza, esercitandosi a suon di ironia e dialetto romanesco, a mo' di un novello Trilussa. Niente becerume, solo colpi di classe e di genio.

La querelle. C'era infine chi sospettava un effetto collaterale dello scazzo con Scanzi: a settembre Palmaroli e il guitto de Il Fatto quotidiano, il primo che vuole far ridere e ci riesce, l' altro che fa ridere suo malgrado, se l' erano date di santa ragione, con Scanzi che aveva accusato Osho di essere un «Fasho», un «fiancheggiatore della destra» perché presente ad alcuni eventi elettorali di Fratelli d' Italia; e con Palmaroli che lo aveva asfaltato, definendo l' altro un «povero buffone di regime» che dovrebbe informarsi «prima di sparare cazzate», dal momento che lui, Palmaroli, aveva partecipato ad appuntamenti di tutti gli schieramenti, Pd e 5 Stelle compresi. Ebbene, tutti questi sospetti sulle possibili ragioni del blocco social sono stati fugati ieri dallo stesso "Osho" non appena la pagina è stata ripristinata. Niente censura dovuta ai «contenuti da me pubblicati», ha avvertito Palmaroli, perché «la mia satira non è mai stata né violenta né offensiva. Semplicemente c' è stata una segnalazione relativa al soprannome con cui ormai tutti mi conoscete». E cioè «è stato un discorso di trademark per il marchio di Osho, che da me ormai viene utilizzato senza neanche più legami con la sua figura. Facebook ha chiuso la pagina, ma è stato un errore di valutazione». Lo sbaglio è stato riconosciuto dallo stesso social network: «Abbiamo rimosso questa pagina dopo aver ricevuto una segnalazione di violazione della proprietà intellettuale. La pagina è stata rimossa per errore ed è stata ripristinata», ha fatto sapere un portavoce di Facebook. Storia a lieto fine, dunque. «A Mark», direbbe Osho rivolgendosi a Zuckerberg, «famose du tarallucci e 'n fiasco de vino». Tuttavia è doveroso interrogarsi su cosa possa succedere ai nostri profili social, ogni volta che qualcuno si mette in testa di segnalarli. Davvero basta l' allarme di un utente, che trovi il nostro account inappropriato o lo consideri un fake o un' imitazione, perché la nostra identità virtuale venga immediatamente bandita? E davvero il sistema della libertà di espressione deve essere condizionato dall' odio, dallo scrupolo assurdo o magari dall' ignoranza di chi pensa che Osho sia ancora vivo e che Palmaroli gli abbia fregato il profilo e si spacci per lui? E veramente i cosiddetti moderatori di Facebook, pagati per supervisionare i contenuti pubblicati sulla piattaforma, non riescono a discernere le segnalazioni e a ignorare quelle fasulle? In generale, non vorremmo che il mondo dei social si trasformasse in un porto franco per delatori e compilatori di liste di proscrizione, in cui chiunque può essere segnalato e nominato a propria insaputa e cancellato all' improvviso, come nelle peggiori distopie. Ne sappiamo qualcosa noi di Libero: alcuni giorni fa siamo incappati in un' incomprensibile sospensione del nostro profilo Twitter per mai chiarite «attività sospette»: non vorremmo che qualche buontempone o odiatore si sia preso la briga di segnalarci. Nel caso di Osho è preoccupante che ciò sia avvenuto nei confronti di un facitore sano di satira: perché è tipico dei regimi mettere il bavaglio anche per impedire alla gente di ridere, dal momento che il riso è corrosivo del potere. Ma ci consola sapere che, di tutta questa vicenda, il vero Osho si sarebbe fatto 'na risata.

DAGONOTA il 17 gennaio 2021. Il 12 gennaio “Domani”, il quotidiano diretto da Stefano Feltri, ha pubblicato un'intervista di Marta De Vivo al “Cerbero Podcast”, uno dei collettivi e delle realtà più criticate - e seguite - di Twitch Italia. L'Internet femminista è insorto. Il motivo? A un certo punto, nell'intervista viene detto "femminismo tossico". Attilio Palmieri, Eugenia Fattori e altri influencer/giornalisti (per mancanza di giornali) hanno immediatamente accusato il quotidiano di De Benedetti di aver pubblicato un pezzo su un gruppo di fascisti, che inneggiano a Mussolini e fanno il saluto romano. Forse, però, non l'hanno letto. Perché nell'intervista non si parla minimamente di fascismo o Mussolini. La De Vivo è stata massacrata sui social, Domani non ha cancellato il pezzo ma l’ha “nascosto” dalla home page, aggiungendo una nota del direttore Feltri (14 gennaio) che si cosparge il capo di cenere per aver pubblicato l’intervista. Cerbero ha minacciato querela. Perché, dicono, certe cose sono state decontestualizzate e loro sono stati diffamati. Attilio Palmieri e Eugenia Fattori hanno bloccato i loro account Instagram, dove hanno più di 10mila follower a testa, perché non volevano ricevere messaggi da sconosciuti. Ora Domani ha annunciato che pubblicherà un nuovo articolo. Scritto da, indovina un po', uno di quelli che si sono lamentati.

LA PRECISAZIONE DI STEFANO FELTRI DOPO L’INTERVISTA AI CONDUTTORI DI CERBERO PODCAST, PUBBLICATA DA editorialedomani.it il 17 gennaio 2021. In questi giorni su Domani abbiamo avviato una discussione approfondita sullo strapotere delle piattaforme digitali e sulla discrezionalità che esercitano nel decidere cosa può o non può essere pubblicato. E continueremo ad approfondire questo tema. Tra gli articoli che abbiamo pubblicato sull'argomento c'è anche una intervista di una collaboratrice agli autori di un programma su Twitch, Cerbero podcast, cui è capitato di essere oscurati per alcuni contenuti dei loro show. L’intervista riporta però alcune loro idee con espressioni che non devono avere cittadinanza sul nostro giornale, come la locuzione “femminismo tossico” o un certo relativismo sulla gravità degli attacchi al Congresso americano oppure la rivendicazione di fare un po’ di simpatico bodyshaming, per ridere un po’. Noi siamo per la libertà di espressione di tutti, anche di chi dice cose che non ci piacciono, ma non per l’equidistanza. I toni e i contenuti espressi dagli intervistati non ci piacciono per niente. È mancato un sufficiente controllo di editing preventivo del pezzo, senza dubbio, dovuto alla nostra scarsa familiarità con Twitch e con lo show in questione. Di questo ci scusiamo con i lettori. Approfondiremo la questione, sia quella dello strapotere delle piattaforme, sia sui contenuti dello show e sulla denuncia che gli autori fanno di essere stati ingiustamente oscurati. Ma i nostri valori, le nostre priorità e anche i nostri toni restano molto diversi da quelli che ho sentito usare da Cerbero podcast, anche a proposito della discussione innescata dal nostro articolo.

CERBERO, IL PODCAST DELLE POLEMICHE OSCURATO DA TWITCH. Marta De Vivo per editorialedomani.it il 17 gennaio 2021. Sono giovani e hanno una comunità enorme di ragazzi che ogni giorno li segue. E lo fa su Twitch, la piattaforma di live streaming di proprietà di Amazon. Nelle loro dirette streaming, Cerbero Podcast parlano di tutto: dall’attualità alla vita di tutti i giorni. Ma lo fanno in una maniera tale che li ha suscitato molte critiche e più volte il ban da Twitch. Il Cerbero Podcast è stato creato da Davide Marra, Simone Santoro e Mr Flame, poi si è aggiunto anche David Rubino. Per loro Twitch è un lavoro a tempo pieno, anche se molti non lo capiscono ancora. «Lavorare su questa piattaforma è entusiasmante quanto impegnativo – spiegano – necessita di un processo creativo costante. È un modo nuovo di fare intrattenimento».

Per voi però è un lavoro a tutti gli effetti. Il grande pubblico lo capisce?

«È un mare di squali e c’è molta competizione sul web. Bisogna sempre tenersi aggiornati, pensare a nuovi format da proporre… è tutt’altro che un passatempo. Molti non ci prendono ancora sul serio. Eppure noi paghiamo le tasse, il nostro lavoro vale come quello di chiunque altro. Abbiamo da poco aperto una srl proprio per farci prendere più seriamente da quelli più anziani, che ci snobbavano per una mancanza di “ufficialità”».

Come vivete la libertà d’espressione? Siete molto schietti, sarcastici e provocatori. È il vostro punto di forza ma anche quello che vi rende facilmente attaccabili.

«Noi la libertà d’espressione la viviamo in un modo tutto nostro, siamo provocatori, non abbiamo paura di dire la nostra. E per questo spesso siamo stati bannati, talvolta anche ingiustamente. Twitch è una piattaforma americana, negli Stati Uniti dicono tanto sulla libertà d’espressione, ma alla fine non sono così liberi e si può essere bannati per delle piccolezze».

Questo argomento è diventato di grande attualità. Trump è stato bannato da Facebook e Twitter, mentre altri politici conservatori no. È giusto che sia un colosso tech a decidere chi mettere a tacere?

«No, secondo noi è pericoloso. Oggi lo fanno con Trump, domani lo possono fare con qualcun altro. Serve un regolamento preciso, detto e considerato che l’incitazione all’odio è sempre e comunque sbagliato».

Intendete un regolamento per il web?

«Sì, non può rimanere tutto così ancora a lungo, i social non possono restare una giungla per sempre. Sono inoltre necessari dei diritti che vengano riconosciuti a chi lavora sul web. Noi siamo dei lavoratori come tutti gli altri, non è possibile che improvvisamente ci blocchino senza un motivo, com’è successo qualche tempo fa. È il nostro lavoro e meritiamo di essere tutelati come tutti gli altri.

Credete che sui social ci sia una semplificazione esagerata dei concetti?

«Noi parliamo spesso di questi argomenti, la semplificazione ormai ha preso una deriva incredibile, pensiamo al femminismo tossico o ad altre estremizzazioni. Noi pensiamo che sia giusto trovare un equilibrio, non è tutto bianco o nero. Alcuni illustri intellettuali nei loro commenti sul recente assalto a Capitol Hill, hanno preso delle posizioni a nostro avviso troppo semplificate, la realtà è più complessa di così: non mi puoi venire a dire che «se fossero stati neri avrebbero sparato subito». È più difficile di così, la realtà va analizzata».

Come convivete con l’odio sui social e in generale online?

«Come tutti i lavori, anche il nostro ha vantaggi e svantaggi. Abbiamo alcuni comfort e altri aspetti negativi: l’odio è fra questi. Noi pensiamo solo a fare bene quello che facciamo. A volte, quando si tratta della nostra community e non di qualcosa che viene dall’esterno, invitiamo anche all’educazione, anche se ormai abbiamo imparato a conviverci senza l’angoscia che magari potevamo provare all’inizio».

Cosa vedete nel vostro futuro?

«Puntiamo a migliorarci sempre di più e a coinvolgere un’utenza sempre maggiore e il più variegata possibile. Sogniamo di essere il più grande show di Twitch. Quando hai sviluppato delle competenze, le hai per sempre: non escludiamo in futuro di provare a condurre qualche show in tv o in radio. Alla fine, però, potrebbe anche succedere che il web superi del tutto la televisione e che per noi sia sufficiente restare su Twitch. Intanto, cerchiamo di concentrarci sul presente, il futuro è in costruzione».

CERBERO PODCAST, ECCO TUTTA LA STORIA DEL GRUPPO DI AMICI PIÙ CHIACCHIERATO DI TWITCH ITALIA! Daniele Parasiliti per webboh.it il 17 gennaio 2021. La loro alchimia ha conquistato i cuori dei fan più accaniti, il Cerbero Podcast è ad oggi il miglior gruppo di streaming su Twitch Italia. Caratteri differenti e vedute spesso molto distanti rendono le loro dirette un salotto di discussione maturo e con tanta ironia. Ecco chi sono i quattro protagonisti del podcast, che si sono iscritti su Twitch il 28 ottobre 2018: Davide Marra, Simone Santoro, Mr Flame e Davide Rubino.

Davide Marra (che tanti conosceranno come Mr. Marra) è un personal trainer appassionato di cinema che nel 2017 ha intrapreso la carriera “youtubica” pubblicando monografie sui registi e attori e recensioni di pellicole. Davide ha una vera e propria attrazione verso tutto ciò che è artistico: musica, disegno, pittura. Si è dedicato anche alla registrazione di alcuni filmati a luci rosse (anche uno “particolare” con l’attrice professionista Malena), sotto lo pseudonimo di Mr. Casanova. Recentemente, insieme alla fidanzata Alex Mucci, ha annunciato di aspettare un figlio, il cui sesso non è ancora noto. Davide apporta al gruppo nozioni culturali, cinematografiche ed è senza dubbio il più pacato tra i quattro.

Simone, aka Youtube Fa Cagare, nasce sul web nell’agosto del 2016, data di creazione del suo attuale canale. Fra i pionieri della critica sulla e della piattaforma Google (e questo gli ha causato non pochi grattacapi!), inizialmente la sua crescita è stata esponenziale, nonostante la sua identità non fosse nota. Infatti si pensava che dietro a quel canale ci fossero personaggi già noti al mondo del web, tra cui Synergo e Yotobi. È appassionato di musica ed è il frontman dei Futuryo, gruppo musicale fondato con amici. Simone è l’anima musicale del gruppo, rappresenta una dose di pazzia e spontaneità.

Mr. Flame e David Rubino, ecco chi sono i due membri del Cerbero! Mr. Flame è uno youtuber romano, distintosi sul web per le critiche alla falsità dei video prank. Indossa la maschera per distinguere la vita privata da quella online. In pochi sanno che il ragazzo sarebbe il cugino della nota Alisha Griffanti, aka LaDivaDelTubo. Molto noti sono stati i suoi scontri con LaSabrigamer, con la quale ha avuto una querelle molto dura, in cui non si sono risparmiati critiche e polemiche. Il padre Canepazzo è di tanto in tanto protagonista dei video e delle dirette dei ragazzi. Flame porta al gruppo genuinità e simpatia, riuscendo a scherzare e a criticare gli ospiti senza peli sulla lingua. David Rubino è il nuovo membro del Cerbero Podcast e sostituisce i ragazzi durante i loro giorni di riposo. Nasce su Youtube nel periodo di Mr. Flame e i suoi format sono stati analoghi a quelli del collega. La critica ha caratterizzato i temi del suo canale, oltre al commento delle notizie giornaliere. La sua bonarietà e l’ironia hanno senza dubbio portato nuova linfa vitale al progetto. Chi è il membro del gruppo più affine a voi? Chi preferite? Fatecelo sapere!

Biografia di Alessia Andrea Mucci. Dal sito alexmucci.com 16 luglio 2019. Alessia Andra Mucci, aka Alexis M, è nata nel centro Italia – a Pescara – nel 1988, dove ha vissuto fino all’età di 19 anni. Poi si è spostata al nord – Torino e Milano – dove ha frequentato l’università e ha preso una laurea magistrale in ingegneria aerospaziale. A quel punto ha deciso di trasferirsi in Australia, a Sidney, dove ha vissuto fino al 2016, lavorando sia come pasticciera e barista in un famoso ristorante italiano. In realtà, Alexis ha lavorato come bartender dall’età di 16 anni. Una volta tornata in Italia, Alexis ha iniziato a dedicarsi alla carriera di modella e web influencer…

Grande Fratello e Barbara D'Urso, l'indiscrezione bomba: la sexy star Alexis Mucci tra i concorrenti "non famosi". Da liberoquotidiano.it 16 luglio 2019.

Una concorrente molto famosa nel Grande Fratello classico, quello dei "non famosi". È Gabriele Parpiglia, nel programma Ultime dall'Isola, a lanciare la bomba sull'edizione 2018 del reality di Mediaset che quest'anno vedrà il grande ritorno alla conduzione di Barbara D'Urso. Il toto-concorrenti è già scattato e secondo il giornalista di "NIP" (not important person) quest'anno ci sarà ben poco. Nella casa dovrebbe entrare "una celebre fashion blogger seguita da milioni di utenti su Instagram e desiderata da molte case di moda", sottolinea il sito specializzato in gossip tv Trashitaliano.it. La fashion blogger, svela Parpiglia, è "tatuatissima del nord Italia, famosa nel suo settore. Un po' come è successo a Chiara Nasti all'Isola". E sul web è già partita la voce: la fashion blogger tatuatissima sarebbe Alexis Mucci, una sexy star al limite delle luci rosse. La temperatura è già bollente.

Alex Mucci, l'ingegnere aerospaziale con il fisico da pin up (12/04/2018) Da popcorntv.it. Vitino da vespa, forme generose e labbra sensuali: ecco chi è Alex Mucci popolarissima su Instagram e su Facebook, dove vanta un seguito di migliaia di fan che la seguono in tutto il mondo. Ma non fatevi ingannare da quegli occhioni celesti e da quel fisico da pin up, perchè Alex Mucci ha dalla sua anche il possedere un grande cervello, dal momento che è un ingegnere aerospaziale.  Chi è Alex Mucci Il suo vero nome è Alessia ma tutti la conoscono come Alex Mucci, classe 1988 è originaria di Pescara dov'è nata il 17 gennaio. Fin da piccola ha sempre avuto la  vocazione da un lato per lo studio e dall'altro per il mondo della moda e dello spettacolo. Subito dopo l'esame di maturità, infatti, la Mucci ha deciso di iscriversi a ingegneria aerospaziale arrivando a conseguire la laurea anche se questo l'ha portata a lasciare la sua città natale all'età di 19 anni per trasferirsi dapprima a Torino, successivamente a Milano e in seguito a Sydney, in Australia.

Alex Mucci: su Instagram è una star. Una volta lasciata l'Italia, Alex Mucci ha vissuto per un periodo in Australia dove ha iniziato a lavorare sia come bartender che come manager di un ristorante italiano. Una volta rientrata a Milano, inoltre, Alex Mucci ha frequentato anche la scuola Flair Academy, una scuola di barman, dov'è stata sia una studentessa che un'insegnante. A far impazzire i suoi fan, inoltre, è stato un contest che Alex Mucci ha lanciato sul proprio profilo Instagram, interamente dedicato al calcio, in cui ha messo in palio una maglietta della Serie A e un video con un saluto. I vincitori dovevano indovinare il risultato esatto del match Milan Lazio.

Curiosità su Alex Mucci. Alex Mucci è una patita del fitness, e il suo fisico ne è una testimonianza. La influencer pratica nuoto, pilates e tacfit

Seno&Coseno presenta Alex Mucci. Da senoecoseno.it (30 marzo 2016). Si chiama Alex Mucci, ha 28 anni ed è nata a Pescara il 17 gennaio del 1988; ci racconta che ha vissuto nella sua città natale fino ai 19 anni, dopo la maturità infatti si è trasferita nel nord Italia, dove ha vissuto  per tre anni a Torino e poi altri tre a Milano, insomma Alex è una ragazza che non si ferma mai! Al politecnico di Torino ha conseguito la laurea in Ingegneria Aerospaziale; subito dopo la laurea è partita per l’Australia, dove ha vissuto a Sydney per due anni fino al dicembre 2015 dove ha lavorato come bartender professionista ma anche come manager di un noto ristorante italiano nel centro città; Alex ci racconta infatti che sin da piccola ha ricercato una certa indipendenza! Successivamente ha frequentato corsi di bartendering presso alcune delle più prestigiose scuole italiane come Planet One e la Flair Academy di Milano; successivamente lei stessa ha insegnato nella stessa Flair Academy. Come se non bastasse Alex è anche una pasticcera, amante infatti dei dolci ha dato libero sfogo a questa passione anche in ambito lavorativo. Oltre hai suoi hobby in cucina Alex ci racconta di essere una vera appassionata di sport tra cui il nuoto e attività come il pilates e il tacfit. A settembre riprenderà gli studi a Milano per conseguirà il dottorato in Ingegneria, per il quale noi non possiamo che  augurarle buona fortuna! Alex ci ha davvero conquistati e noi ve la presentiamo con una gallery davvero speciale, voi non dimenticate di seguirla sul suo profilo Instagram ufficiale!

DAGONOTA il 15 gennaio 2021. Domani mattina, 16 gennaio, i vertici della comunicazione vaticana Paolo Ruffini e Andrea Tornielli sono stati convocati dal Papa. Probabilmente non succederà, almeno non subito, ma tra gli addetti ai lavori (e ai livori con la tonaca) quasi tutti sperano che questa sia la volta buona perché i due, facendo appello a un minimo di dignità, approfittino della probabile sfuriata papale per togliere il disturbo. Bergoglio non ha gradito la censura che i media vaticani attuano continuamente ogni volta che decide di concedere un'intervista oppure di partecipare a qualche evento comunicativo come prefare qualche libro, registrare un video messaggio o altro. La goccia che ha fatto tracimare il vaso è stata l’ennesima protervia operata dai media vaticani (il fatto è stato da loro totalmente ignorato) sull'intervista data da Papa Francesco a ‘’Sportweek’’, di inizio anno. La rivista ha anche distribuito un libro con i pensieri finora espressi dal Papa sul calcio e dintorni. Alcuni estratti dell'intervista del settimanale erano stati anticipati sulla Gazzetta dello Sport il 2 gennaio. Quanto invece all'apparizione del Papa sulle reti del Biscione, la richiesta giaceva nei cassetti del Dicastero della Comunicazione da molti anni, dai tempi di don Dario Viganò e lì sarebbe restata se dopo l'ennesima censura subita, al Papa argentino sono girati i bergoglioni. E' stato lui a far prendere contatto diretto con Fabio Marchesi Ragona, il bravo vaticanista che ha de-ciellinizzato l'informazione religiosa del Biscione, e a mettersi d'accordo sui tempi e modi di realizzazione. La vera esclusiva mondiale il Papa l'aveva data al Tg1 il 3 aprile, quando al Tg delle 20 aveva consegnato il messaggio per le famiglie del mondo ripreso dai network dell'intero pianeta. E quindi nessuno in Vaticano si è meravigliato se venerdì 8 gennaio siano state fonti del Tg1 (che lo avevano certamente appreso da fonte diretta) ad avvertire la sala stampa vaticana, all'oscuro come sempre di tutto, dell'avvenuta registrazione e dell'imminente messa in onda del Papa sulle reti della concorrenza. Mediaset, che si è ben guardata dal far uscire la sua "esclusiva mondiale" il sabato per non disturbare la De Filippi, ha usato l'artiglieria pesante bombardando le sue reti di spot e raccogliendo, tutto sommato, anche abbastanza poco. Il clou della serata è stata ovviamente l'intervista di Bergoglio che ha superato il 19 di share mentre i programmi Amadeus e Elena Sofia Ricci, in onda nella stessa fascia oraria, non perdevano nulla dei loro ascolti, attestandosi come di consueto oltre il 17 e il 22 per cento. La serata Mediaset comprendeva anche un film e un dibattito che non hanno avuto alcun tipo di exploit, attestandosi sotto i risultati domenicali di Canale 5. L'aspetto positivo per la Rai è l'apertura di una prima, e seria riflessione, sui suoi vaticanisti, mammasantissimi (e mammasantissime) intoccabili perché presunti garantiti da questo e quello, tutti sicuri di avere contatti potenti e alti, con almeno un'intervista al Papa nel cassetto, tutti rivelatisi invece come degli scappati di casa, appartenenti alla categoria “cattolici di professione” autoreferenziati, miracolati da chissà chi, certamente non dal Papa o dal Vaticano. Il quale, dopo la stagione d'oro della vaticanistica Rai terminata nella seconda decade del 2000, è fortemente tentata di togliere la trasmissione degli eventi papali alla nostra radio televisione di stato. Cosa che, tutto sommato, andrebbe anche a vantaggio della Rai che per il Vaticano spende generosamente ricavandone solo dispute e pettegolezzi dai soliti tre o quattro cortigiani di turno. E che si vede costretta a sopportare, da anni, che tutti i membri dell'ufficio comunicazioni sociali della Cei abbiano il contratto di autori della trasmissione "A sua immagine" (una macchinetta mangiasoldi ormai vecchia di quasi 40 anni) e che alcuni di loro abbiano anche contratti nella fascia di Uno Mattino gestita da Rai Uno.

Lorenzo Bertocchi per “la Verità” il 17 gennaio 2021. Le chiacchiere intorno a Borgo Pio resistono anche al lockdown e da un po' di tempo si sussurrava che le azioni del direttore editoriale dei media vaticani, Andrea Tornielli, fossero in ribasso tra le sacre stanze, caduto in disgrazia agli occhi del supremo editore, papa Francesco. Nessuno però sembrava dar peso alla cosa, ma proprio venerdì Dagospia, sempre rapido ed efficace, aveva anticipato una riunione che poi effettivamente ha avuto luogo ieri mattina: «Non fate girare i bergoglioni al Papa», titolava Dago, «i vertici della comunicazione vaticana Paolo Ruffini e Andrea Tornielli sono stati convocati dal Pontefice che non ha gradito la censura che attuano ogni volta che decide di concedere un'intervista». In effetti anche La Verità è in grado di confermare che nel caso di domenica scorsa, quando Francesco ha occupato il prime time di Canale 5 rispondendo alle domande del vaticanista Fabio Marchese Ragona, tra la sala stampa e Vatican news si cadeva un po' dalle nubi. Il Papa, infatti, ha agito di sua sponte dicendo sì alla richiesta che da tempo giaceva nei cassetti per un' intervista con le reti Mediaset. La catena di montaggio ufficiale dei media vaticani è stata più o meno all' oscuro di tutto e si è trovata il piatto con l' intervista già cucinato. Pare che non sia la prima volta che capiti e non sempre i comunicatori vaticani riescono a maneggiare con cura le chiacchierate che il Papa ama concedersi con giornalisti e media di vario tipo. Ieri mattina quindi la conferma dell' udienza con i vertici dei media vaticani. La sala stampa, infatti, ha diramato la lista delle udienze papali e tra i convocati figurava «il dottor Paolo Ruffini, prefetto del dicastero per la Comunicazione». Non c' era il nome di Tornielli, ma normalmente se non si è vescovi o prefetti il nome non compare nella tabella. Resta il fatto che le chiacchiere sui malumori papali per alcune scelte dei suoi fidati comunicatori sono confermate. Tra le altre cose non è andato giù al Papa il silenzio che è stato fatto calare dai media di casa sulla sua intervista «sportiva», quella concessa a Sportweek e anticipata dalla Gazzetta dello Sport il 2 gennaio scorso. Il copione non è nuovo. Francesco in questi anni ha abituato la Curia a saltare i passaggi tradizionali, se sente una cosa, o gliela suggerisce un suo fidato, procede senza ascoltare chi per ufficio dovrebbe coadiuvarlo. È stato il caso persino di documenti del magistero, come ad esempio l' enciclica Laudato si' o l' esortazione apostolica Amoris laetitia. Rimanendo dalle parti del mondo della comunicazione vaticana, uno dei settori di Curia più riformati, molti ricorderanno la defenestrazione da parte del Papa dell' allora dominus don Dario Edoardo Viganò, per la questione antipatica della lettera del Papa emerito manipolata artatamente per arruolare Benedetto XVI a sostegno di alcuni libretti a favore della teologia di papa Francesco. Era il marzo 2018, poi venne il tempo di far fuori l' allora direttore dell' Osservatore romano, Giovanni Maria Vian, «promosso» al rango di emerito e sostituito da Andrea Monda, professore e scrittore. Il nome di Monda pare essere stato proprio caldeggiato al Papa da Tornielli e dal super consigliere padre Antonio Spadaro. Peccato che fino alla sera prima del defenestramento l'ex direttore dell' Osservatore Romano non ne sapesse assolutamente nulla. Un fulmine a ciel sereno, come quello che ha squarciato un tranquillo pomeriggio dello scorso settembre del cardinale Angelo Becciu, il quale si è visto convocato dal Papa per essere, per dire così, «scardinalato» e allontanato dai suoi incarichi. Un gesto, ha commentato il 25 settembre Luis Badilla, direttore del sito paravaticano Il Sismografo, che «assomiglia a una "esecuzione": sei accusato di ma non puoi difenderti (tranne che tramite la stampa)». Il Papa, chiosava ancora Badilla, «nonostante i suoi poteri, non è un giudice né un tribunale». Però dalle parti di Santa Marta tutti sanno che quando qualche collaboratore del Papa cade in disgrazia ai suoi occhi, Francesco non si fa troppi problemi a dargli il benservito. Qualcuno allora parla di possibili dimissioni anche per i vertici della comunicazione vaticana, ma al momento tutto tace. Fidatissimo (ex?) consigliere del Papa contro gli antibergogliani, nel 2016 Andrea Tornielli da coordinatore di Vatican insider per La Stampa forniva una mappa dei nemici: è forse passato nella lista nera? Difficile pensarlo, capace com' è di sapersi muovere molto bene. Già noto per essere il principe dei vaticanisti italiani, Andrea Tornielli è stato direttore del portale plurilingue della Stampa, Vatican Insider, autore di un bestseller con papa Francesco, saggista, già vaticanista del Giornale. Ciellino d'origine, biografo dei Papi, ha una grande capacità di adattamento alle situazioni, ma con Francesco non è semplice. Il Papa ha detto più volte di riconoscere per sé la virtù della «santa furbizia», e anche se Tornielli ama dilettarsi con il mentalismo speriamo per lui che non incappi in qualche somma ramanzina.

Lorenzo Bertocchi per “la Verità” il 18 gennaio 2021. Lo smarrimento dalle parti dei media vaticani che la Verità aveva segnalato ieri è confermato. Anzi, probabilmente si comprende il perché di quelle antipatiche chiacchiere sul malcontento del Papa rispetto ai vertici del dicastero, con il direttore editoriale, Andrea Tornielli, in testa. Francesco, lo scrivevamo ieri, è scontento della copertura mediatica che Vatican news e tutti i satelliti della comunicazione della Santa sede hanno dato all'intervista che il Pontefice ha concesso a Canale 5 e a Sportweek. La Verità è venuta in possesso di un messaggio di posta elettronica circolato sabato 9 gennaio tra i redattori, un giorno prima della messa in onda dell'intervista che Francesco ha concesso al vaticanista di Mediaset Fabio Marchese Ragona.Il messaggio nell'oggetto riporta chiaramente che si tratta di «indicazioni» sull'intervista «Papa-Canale 5» e lo invia un coordinatore di Vatican news, Alessandro De Carolis, ai collaboratori. Il riferimento è per l'«anticipazione» della video intervista del Papa che circolava già da sabato 9 gennaio, e l'indicazione che viene data «su questo argomento» lascia a bocca aperta: queste notizie «non vanno socializzate». In effetti la consegna, che probabilmente il coordinatore ha ricevuto dalla cabina di regia editoriale, è stata rispettata, perché sui social ufficiali di Vatican news non c'è nulla sull'intervista di Francesco a Canale 5 fino a domenica 10 gennaio alle 23:09, 8 minuti dopo che una sintesi, non firmata, dell'intervista era stata pubblicata sul portale della Santa Sede. Peraltro risulta alla Verità che i media vaticani si fossero trovati l'intervista del Papa un po' tra capo e collo, in zona Cesarini, senza aver ricevuto alcuna informazione precedente, anche perché sembra che il Papa avesse attivato il contatto con Mediaset senza coadiuvarsi con i capi della sua comunicazione. Appare quindi del tutto evidente che per ragioni a noi oscure qualcuno nei media vaticani, cioè quelli che dovrebbero fare da grancassa alle parole del Papa, giusto per rammentarlo, aveva deciso che alle parole del Papa a Canale 5 era meglio dare poca importanza. Anzi, nella mail di De Carolis si invitano addirittura le redazioni a «continuare a seguire la vicenda del Boing precipitato poco dopo il decollo a Giacarta». Con tutto il rispetto per la tragedia aerea consumata il 9 gennaio scorso, fa comunque impressione questa «indicazione» che odora ancor più di censura casalinga all'intervista del Papa; tutti ne stavano parlando, ma a Vatican news, invece, bisognava «non socializzare». A questo punto c'è da scommettere che la convocazione di sabato scorso in udienza dal Papa dei vertici del dicastero della comunicazione deve essere stata un po' antipatica. Tutto lascia pensare che una bella ramanzina papale, nella prospettiva della parresia, sia andata in onda, e Paolo Ruffini e Andrea Tornielli forse avranno dovuto spiegare scelte editoriali che l'editore sommo potrebbe non aver compreso. Tutte le sedie tremano perché tutti in Vaticano sanno che anche per i fedelissimi Francesco non si fa problemi, qualora lo ritenga, ad accompagnarli verso la porta.Il Papa della «Chiesa in uscita» difficilmente può comprendere le motivazioni per cui una sua intervista, data per una prima serata in Tv, debba essere «non socializzata». Forse la decisione editoriale di non dare importanza alle parole del Papa a Canale 5 sarà stata dovuta a possibili brutti commenti social che talora appaiono in uscite papali come questa, come peraltro conferma anche la pubblicazione sul Facebook di Vatican news delle 23:09 del 10 gennaio. Oppure, si è deciso di stare fermi per evitare fraintendimenti, visto che il Papa si era mosso da solo e i capi dei media vaticani navigavano al buio. Comunque la si voglia interpretare la faccenda puzza di bruciato, come minimo evidenzia una fase del papato di Francesco in un crescendo di caos anche tra i suoi uomini più fidati. Quando l'ex direttore della Sala stampa vaticana, l'americano Greg Burke, e la sua vice, la spagnola Paloma Ovejero, se ne andarono sbattendo un po' la porta, il 1° gennaio 2019, molti gettarono acqua sul fuoco. Ma in realtà la motivazione di quel gesto inaspettato era chiara: non ci stavano a lavorare, da seri professionisti quali sono, alle nuove condizioni. E tra le nuove condizioni c'era proprio la riformata catena di montaggio dell'informazione vaticana in cui il direttore editoriale Andrea Tornielli, allora da poco nominato, veniva ad assumere un ruolo fondamentale e di conseguenza quello del direttore della Sala stampa decisamente minimizzato, quasi al rango di passacarte. Greg Burke e la Ovejero ritenevano probabilmente di non poter svolgere bene il loro lavoro e se ne andarono. Perché seguire un Papa pirotecnico come Francesco non è facile per un giornalista, a maggior ragione con una struttura riformata come quella attuale che ha sollevato diversi malumori tra le sacre stanze. È probabile che ora di questo si stiano accorgendo anche gli attuali vertici delle comunicazioni vaticane, ma quella di «non socializzare» un'intervista del Papa è davvero una scelta notevole che, per quanto «furba», potrebbe non esserlo abbastanza per la «santa furbizia» di Francesco.

Il delirio di Toninelli: basta fondi ai giornali che parlano male di lui. Il grillino offeso per i nostri articoli sulla sua testimonianza al processo su Open Arms. Paolo Bracalini, Martedì 12/01/2021 su Il Giornale. Il concetto di libertà di stampa secondo Danilo Toninelli: se i giornali riportano le notizie che lo riguardano in un modo che secondo lui è scorretto, allora «ben vengano i tagli all'editoria» dice in un video sui social l'ex ministro (a sua insaputa) delle Infrastrutture, che poi annuncia non meglio precisate «nuove disposizioni per restituire ai cittadini il sacrosanto diritto di essere informati da una stampa libera e non soggetta a condizionanti interessi di parte». Toninelli, già campione di gaffe e figuracce, ha sempre avuto un rapporto difficile con i giornalisti, peraltro un marchio di fabbrica dei Cinque Stelle che considerano attendibili soltanto i giornalisti schierati dalla loro parte o i direttori da loro piazzati in Rai, non quelli che non eseguono gli ordini di Rocco Casalino. Nel caso specifico all'ex ministro grillino non è piaciuto come i giornali hanno raccontato la sua surreale testimonianza al Tribunale di Catania per il caso Gregoretti, in cui è imputato Salvini per il presunto sequestro di persona degli immigrati a bordo della nave. Toninelli è stato chiamato a rispondere alle domande del giudice e dell'avvocato del leader leghista (collega di governo di Toninelli nel Conte 1), al fine di inquadrare il contesto in cui venivano prese le decisioni sugli sbarchi delle navi Ong cariche di clandestini. In quella testimonianza di due ore, trascritta integralmente, si contano la bellezza di 42 tra «non ricordo», «non so», «non posso ricordare», «sono passati due anni», formule da smemorato seriale dietro a cui Toninelli si è parato durante la sua testimonianza in Tribunale. Ebbene, questi «non ricordo» contati nella trascrizione integrale della sua deposizione sarebbero però una «fake news», accusa il grillino, perchè invece in ben due risposte, sventolate da lui nel video, Toninelli dice «sì, ricordo». E le altre 42 in cui invece non ricorda nulla? Non importano, e comunque non è su quelle che i giornali dovrebbero titolare, spiega Toninelli, nei panni immaginari di ministro dell'Informazione. Fosse per lui la stampa non allineata andrebbe punita, e infatti a quello pensa quando esulta per i «tagli all'editoria» (che tra l'altro non riguardano la stragrande maggioranza di quotidiani nazionali come il Giornale che non ricevono alcun finanziamento pubblico, a differenza di Toninelli che invece da otto anni riceve un lauto stipendio pagato dai contribuenti italiani). Non c'è solo l'astio personale nei confronti di Salvini, a cui lui deve la fine dell'esperienza da ministro delle Infrastrutture, ma anche verso i media che lo dipingono come uno che non ricorda cosa faceva da ministro, a neppure due anni di distanza, solo perchè in una testimonianza dice per 42 volte «non ricordo». Ecco, per Toninelli si tratta di «un caso emblematico di pessima (e scorretta) informazione», un «sovversione della realtà» e un «inganno dell'opinione pubblica in danno delle vere vittime del serio problema degli sbarchi clandestini», perciò «occorre al più presto introdurre nuove disposizioni per restituire ai cittadini il sacrosanto diritto di essere informati da una stampa libera» dice Toninelli, che lamenta anche di essere vittima di insulti e minacce sui social. Sicuramente moltissimi sono quelli, nei commenti, che gli rinfacciano la poca memoria sugli atti da ministro della Repubblica. Amarezze che, confidiamo, dimenticherà presto.

DAGONEWS l'11 gennaio 2021. Luigino Di Maio incontra MBS, ma la Farnesina, chissà perché, non lo dice. Ieri sera il ministro degli Esteri è stato ricevuto dal Principe ereditario ed "uomo forte" saudita ad Al Ula, la città dove nei giorni scorsi è stato firmato lo storico accordo che ha posto fine all'embargo dei Paesi del Golfo sul Qatar. L'agenzia di stampa ufficiale saudita, la STA, pubblica nella notte sul suo sito una foto dell'incontro spiegando che "Sua Altezza Reale il principe Mohammed bin Salman bin Abdulaziz, Principe ereditario, vicepremier e ministro della Difesa, ha incontrato il ministro italiano degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Luigi Di Maio. Durante l'incontro sono stati esaminati aspetti delle relazioni Italo-saudite e prospettive di loro incremento in diversi campi. La discussione si è anche incentrata su diversi temi di interesse regionale ed internazionale. Ma dell'incontro con MBS nulla sulla stampa italiana, nè sull'account twitter della Farnesina, dove invece abbondano foto e tweet sugli incontri di Di Maio in Giordania, sempre domenica. Si trova solo un tweet, ripreso dalle agenzie di stampa italiana ad ora di cena, in cui si da conto dell'incontro di Di Maio con la sua controparte saudita, con cui è stato firmato un memorandum di intenti. Il tweet dice che "Il colloquio del Min @luigidimaio con il Ministro degli Esteri(Saudita) @FaisalbinFarhan si è concluso con la firma del Memorandum of Understanding per l’avvio del dialogo strategico bilaterale". Niente altro. E niente sull'incontro con MBS. Chissà perché...

Come è andata la visita di Luigi Di Maio in Arabia Saudita. Mauro Indelicato su Inside Over il 12 gennaio 2021. Al termine di una due giorni che lo ha visto protagonista in Giordania, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è volato in Arabia Saudita. Una visita importante quest’ultima: Riad è padrona di casa uscente del G-20, con il testimone passato peraltro proprio all’Italia. Negli ultimi giorni in territorio saudita è stato siglato un accordo che ha messo fine all’embargo con il Qatar, molti movimenti dunque hanno interessato di recente il regno dei Saud. Gli incontri tenuti da Di Maio non sono stati nemmeno di secondo piano, visto che tra gli altri il ministro degli Esteri si è visto all’interno di una tenda con il principe ereditario Mohammad Bin Salman, uomo forte del Paese mediorientale. Eppure il clamore della visita lampo in Arabia Saudita è stato in qualche modo ridimensionato. Fino a domenica sera a dare notizia dell’incontro tra Di Maio e Bin Salman era stata soltanto l’agenzia di stampa saudita, Spa. Dalla Farnesina invece bocche cucite: su Twitter l’unico riferimento alla presenza del titolare del dicastero degli Esteri nel regno dei Saud è all’incontro con il suo omologo, Faisal bin Farhan. Soltanto nella mattinata di lunedì è apparso un comunicato dove emergeva il colloquio con il principe ereditario.

Accordo per un memorandum con l’Arabia Saudita. Il Paese arabo è il principale produttore di petrolio. Da sempre Riad ha trainato politicamente ed economicamente l’Opec, il cartello cioè che racchiude alcuni dei principali esportatori di oro nero. E da qualche anno sauditi e russi dialogano, seppur a fasi alterne, nell’ambito del cosiddetto “Opec Plus“. Nel 2019, prima quindi della pandemia che ha drasticamente ridotto i consumi, l’Arabia Saudita era il quinto Paese fornitore di petrolio dell’Italia, con una quota dell’8.4%. Cifre che testimoniano un rapporto molto stretto tra il regno mediorientale e Roma. Anche perché il nostro Paese è il nono partner commerciale dell’Arabia Saudita, con esportazioni verso la penisola arabica in grado di ammontare a 3.279 miliardi di Euro nel 2019. Ecco quindi che le relazioni tra italiani e sauditi hanno storicamente assunto un’importanza cruciale. Per di più il governo di Riad è impegnato nella realizzazione del cosiddetto programma “Vision 2030“, ideato da Bin Salman per diversificare l’economia e renderla meno dipendente dal petrolio. In quest’ottica il mercato saudita anche per l’Italia appare molto ghiotto. Si calcola, come sottolineato da AgenziaNova, che almeno settanta aziende italiane lavorano in Arabia Saudita. Su questa scia, Luigi Di Maio con l’omologo Faisal bin Farhan ha firmato un memorandum volto ad avviare ulteriori progetti tra le parti. L’accordo è stato siglato nella cittadina di Al Ula, la stessa dove pochi giorni fa è stata sancita la fine delle dispute politiche con il Qatar: “A conclusione dell’incontro con il suo omologo saudita – si legge nel comunicato della Farnesina – i due Ministri hanno firmato un Memorandum of Understanding per l’avvio del dialogo strategico bilaterale Italia-Arabia Saudita”. Circostanza confermata anche dal quotidiano saudita Arab News, il quale ha riferito anche della soddisfazione di Di Maio per la fine dell’embargo nei confronti di Doha.

Una visita scomoda? Tuttavia dagli stessi organi di informazione del nostro ministero degli Esteri non è stata data molta rilevanza agli incontri in Arabia Saudita. Alle 20:01 di domenica sul canale Twitter della Farnesina sono spuntate due foto che ritraevano Di Maio e bin Farhan: “Il colloquio – si legge nel post – si è concluso con la firma del Memorandum of Understanding per l’avvio del dialogo strategico bilaterale”. Nessun cenno all’incontro con Mohammad Bin Salman. In compenso, scorrendo la pagina del canale Twitter del ministero degli Esteri, ampio spazio mediatico è stato dato alla visita di Di Maio in Giordania, prima tappa del tour mediorientale dell’ex leader del Movimento Cinque Stelle. Perché, viene da chiedersi, una simile differenza nella narrazione delle due visite? Le foto di Di Maio seduto all’interno di una tenda del deserto con il principe ereditario sono state diffuse soltanto da parte saudita in tarda serata. La risposta risiede forse nella circostanza di aver considerato scomodo, da parte di Di Maio, farsi ritrarre con Mohammad Bin Salman. Quest’ultimo non è considerato certo un “campione” in fatto di diritti umani. Sono tanti i dossier scottanti che lo riguardano: dall’omicidio Kashoggi, il giornalista contrario alla sua politica fatto a pezzi il 2 ottobre 2018 all’interno del consolato saudita di Istanbul, alla guerra nello Yemen, passando per le persecuzioni contro gli sciiti nella regione del Qatif. Elementi che hanno messo profondamente in discussione l’immagine di Bin Salman quale giovane “riformatore”. Farsi vedere in sua compagnia, per Di Maio avrebbe potuto significare creare imbarazzi soprattutto all’interno del Movimento Cinque Stelle, in cui le discussioni sui diritti umani sono molto forti. Basti pensare alla pressione sul governo attuata dal presidente della Camera Roberto Fico, esponente grillino, in relazione al caso Regeni in Egitto. L’ex numero uno dei Cinque Stelle ha provato il più possibile a “nascondere” quindi il colloquio cordiale avuto con il principe ereditario saudita. Ma il dado è tratto: da ministro degli Esteri Di Maio altro non ha potuto fare, ancora una volta, se non rendersi conto che quando si è seduti al governo difficilmente le ragioni della realpolitk possono andare in secondo piano.

Gogna Hollywood : Trump non mi piace e quindi lo cancello. Daniele Zaccaria Il Dubbio il 17 gennaio 2021. Soppresso il cameo di Donald Trump in “Mamma ho riperso l’aereo” Presto la sua immagine potrebbe sparire da decine di pellicole? Dice Chris Columbus, regista di Mamma ho riperso l’aereo, che all’epoca Donald Trump fece il «bullo», che pretese di apparire nel film in cambio dell’autorizzazione a girare una scena nella hall dell’hotel Plaza di New York, all’epoca di sua proprietà. Non avrebbe mai creduto, The Donald, che quel cameo sarebbe un giorno stato cancellato in seguito a una “petizione online” sottoscritta peraltro anche dal protagonista Macaulay Culkin che si è detto «entisasta» dell’iniziativa. Dopo essere stato bandito da ogni social network del pianeta il presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump rischia ora di sparire anche da decine di pellicole, tra film e serie tv, in cui appare quasi sempre nella parte di se stesso. Una lista impressionante di comparsate e cameo, dal Principe di Bel Air con un giovanissimo Will Smith a Sex in city, da Zoolander a Celebrity di Woody Allen, passando per la sitcom La Tata e la commedia Two weeks notice con Hugh Grant e Sandra Bullock giusto per citare i lavori più noti. Prima di approdare alla Casa Bianca squadernando la vita politica americana e planetaria, Donald Trump non era solo un ricco e famoso imprenditore newyorkese ma una vera e propria icona pop, citato dalle pubblicità, evocato dai più seguiti presentatori tv, invitato nei reality show, protagonista di barzellette e modi di dire, testimonial di concerti, serate di gala, incontri di boxe e di wrestling, un’icona un po’ trash e pacchiana ma in fondo accettata dagli americani come una parte della cultura popolare del Paese. In appena quattro anni quell’ingombrante imprenditore si è trasformato in un “mostro”, nel nemico pubblico numero uno, una specie di supercattivo dei fumetti Marvel, un Lex Luthor della quinta strada o un Joker miliardario, specialmente adesso che è naufragato nel basso impero di una presidenza fatta a pezzi dal suo smisurato ego e dalla determinazione degli oppositori. La doppia procedura di impeachment che aleggia sulla testa di Donald Trump, le accuse di eversione e incitamento all’insurrezione, lo spirito di rappresaglia dei suoi tanti avversari, la frustrazione accumulata durante il suo mandato, oltre naturalmente ai modi intrattabili dello stesso tycoon, sono tutti elementi che hanno contribuito alla sua demolizione che ora si affina nella sistematica opera di dannatio memoriae. Un po’ come accadeva alle effigi dei faraoni deceduti che nellantico Egitto venivano fatte distruggere dai loro successori perché credenza voleva che le vestigia degli antichi sovrani contenessero «una forza spirituale che doveva essere disattivata con la distruzione» per citare le parole dell’archeologo americano Edward Bleiberg. Deve averne moltissima di “forza spirituale” Donald Trump che non viene semplicemente contrastato dal punto di vista politico, perché non basta averlo sconfitto alle elezioni e probabilmente interrotto per sempre i suoi sogni di potere, Donald Trump deve sparire. Con un colpo di gomma o di photoshop, fatto fuori dal ritocco digitale inghiottito dallo sfondo dello schermo come un incubo da quale ci si è svegliati e che si dissolvono al mattino. Lui e soprattutto la sua immagine, Neanche Adolf Hitler o Osama bin Laden hanno subito un simile trattamento, la cancel culture che dilaga oltreoceano sembra averli risparmiati per concentrarsi sulla cattiva coscienza della nazione, in un bizzarro esercizio di psicanalisi collettiva che passa per il tritacarne del metoo, per l’abbattimento delle statue degli antichi colonizzatori come Cristoforo Colombo fino alla crociata iconoclasta di Hollywood, l’America è impegnata in un bellicoso regolamento di conti con se stessa, in un corpo a corpo con la sua storia e i suoi demoni. E lo fa con l’ irruenza puerile tipica della sua cultura, intrecciando vendetta e politically correct, nell’illusione che tenere “lontano dagli occhi” i fantasmi del suo passato lontano e recente possa servire alla sua evoluzione sociale e culturale, come i bambini che si tappano le orecchie per non ascoltare un rimprovero, o cacciano via il “male” mettendo la testa sotto il cuscino. La distruzione dei simboli non è un prurito postmoderno, ma una pratica che ci accompagna dall’alba delle civiltà, tratto distintivo delle società complesse, che provenga dal “basso” o che sia promossa dalle élite. Ma in pochi potevano pensare che sarebbe diventata uno strumento ordinario di eliminazione di un avversario politico che, per quanto sgradevole e divisivo, non è certo un satrapo o un sadico colonnello di una giunta militare sudamericana. Nella mente scorrono ancora le immagini dell’abbattimento dei monumenti dei dittatori come quello di Saddam Hussein a Baghdad o delle statue di Stalin dopo l’implosione del socialismo reale. Momenti emblematici del cambiamento violento che si abbatteva su quelle società al di là della strumentalizzazione politica e mediatica. Oggi basta il capriccio di un produttore di Hollywood, il fastidio di un attore in disgrazia. una sciatta petizione promossa dal popolo di internet o la pressione di qualche intellettuale annoiato per assegnare la condanna dell’oblio.

(ANSA il 14 gennaio 2021) Via Trump da “Mamma, ho riperso l'aereo: mi sono smarrito a New York” (Home Alone 2: Lost in New York)', il film del 1992 sequel di “Mamma, ho perso l'aereo”. La petizione per rimuovere la scena in cui appare brevemente il magnate ha cominciato a girare sui social media ed è stata sottoscritta anche dal protagonista Macaulay Culkin, nel film con il ruolo del protagonista Kevin McCallister. "Petizione - si legge in un tweet - per sostituire Trump in Home Alone 2 con il 40enne Macaulay Culkin". "Affare fatto", ha risposto l'attore. L'attuale presidente compare nella scena all'interno del Plaza Hotel, di cui all'epoca era proprietario, ed indica a Kevin come raggiungere la reception. In un'intervista lo scorso dicembre il regista Chris Columbus dichiarò che Trump aveva insistito per avere la parte in cambio dell'autorizzazione a filmare nel suo hotel.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 17 gennaio 2021. Joe Biden lo ha battuto e presto lo caccerà dalla Casa Bianca, i politici del congresso vogliono esautorarlo ancora prima della scadenza del mandato, a mezzogiorno di mercoledì, e il sito Shopify ha rimosso dal catalogo online ogni articolo che porta il suo nome. Ora contro Donald Trump si accanisce perfino l' industria di celluloide. Sul web sta montando una campagna per cancellare il presidente uscente dal cameo più noto tra quelli che ha effettuato in passato: il breve istante nel quale incontra nella lobby della Plaza Hotel il bambino che ha perso i genitori in Mamma, ho riperso l' aereo, sequel del 1992 del fortunato film uscito due anni prima. La protesta è esplosa dopo l' attacco al Campidoglio da parte dei sostenitori del presidente undici giorni fa. I fan del classico film chiedevano fuori dai denti un atto di cesura che rimuovesse l' immagine bonaria del proprietario del palazzo, così come hanno già fatto le reti social nel web. Alcuni dei cibernauti più burloni hanno già provveduto in proprio e hanno sostituito la silouette di Trump nell' iconica sequenza con quella più rassicurante della regina della country music Dolly Parton o quella dissacrante di Darth Vader di Guerre Stellari. Il regista del film Chris Columbus racconta oggi che Trump al tempo forzò il suo ingresso nella scena con un ricatto. La produzione aveva già negoziato il compenso per l' utilizzo dello stabile nelle riprese, ma all' ultimo minuto l' immobiliarista, che quattro anni prima aveva acquistato per la favolosa cifra di 400 milioni lo storico albergo all' angolo di Central Park, lanciò un ultimatum: la sequenza si poteva girare solo se gli fosse stata concessa la possibilità di apparire a fianco del giovanissimo attore Macaulay Culkin, che interpretava la parte di Kevin McCallister. Trump a quel tempo era già un uomo ricchissimo e conosciuto in ogni angolo del mondo, ma non perdeva mai l' occasione di collezionare un' altra copertina di giornale o di presenziare ad un evento di alta visibilità. Home Alone (titolo del film in inglese) era al tempo uno dei marchi più popolari al mondo e in effetti quella associazione breve e insignificante sul set ha accompagnato Trump nel resto della sua carriera. «Nella squadra di produzione molti chiedevano che la sequenza fosse tagliata in montaggio racconta Columbus ma ad una delle prime proiezioni sperimentali che ancora la conteneva, la sala scoppiò in un applauso dopo averla vista. Per questo decisi di lasciarla nella versione finale». Il regista difendeva ancora la sua scelta un anno fa, quando la televisione canadese mandò in onda per Natale il film con la scena tagliata. Seguì un botta e risposta tra Trump e il premier canadese Trudeau, con il primo che definiva la decisione «patetica» e addebitava la censura alla guerra commerciale in atto tra i due paesi e il secondo che si difendeva dicendo che la versione esportata oltre frontiera non aveva mai incorporato la sequenza. Solo negli ultimi giorni Columbus ha cambiato idea, e si è associato alla campagna. Lo stesso Macaulay Culkin è a favore della rimozione e della proposta che l' immagine del severo gigante vestito come sempre con un lungo cappotto nero, sia sostituita da lui stesso, nella versione odierna di un attempato quarantenne. Questa volta invece il presidente uscente è rimasto atipicamente muto di fronte alla minaccia. Cancellazioni ben più gravi del suo nome sono in atto al momento, come quelle dell' associazione del golf professionista che sta cercando di recidere ogni rapporto con lui e con le sue proprietà. La cittadina di West Palm Beach in Florida ha annunciato ieri che annullerà il contratto che assegna a Trump la gestione del locale club golfistico e decine delle maggiori aziende nazionali hanno già interrotto il flusso di finanziamenti nelle casse della fondazione politica che amministra le sue campagne elettorali. L' amore per la propria immagine ha portato Trump ad apparire in ben ventisei film, senza mai aver preso una lezione di recitazione, e senza d' altronde aver mai rappresentato null' altro che sé stesso. Il suo carnet parte alla fine degli anni '80, e al tempo delle riprese di Home Alone II, nel 1992, vanta già tre altre presenze. Gli spettatori lo ricordano anche il Bel Air e in Zoolander, oltre che nell' inevitabile apparizione in Sex and the City, come una delle presenze iconiche della città di New York.

 (ANSA il 7 gennaio 2021) Le restrizioni di Facebook su Donald Trump saranno estese. Gli account del presidente saranno bloccati "indefinitamente e per almeno le prossime due settimane fino a quando una pacifica transizione di potere non sarà completata", afferma Mark Zuckerberg. (ANSA).

Laura Della Pasqua per “La Verità” il 18 gennaio 2021. Per capire come è stato possibile che il patron di Facebook, Mark Zuckerberg, abbia potuto oscurare l'account di Donald Trump, bisogna risalire a quella che è ancora l'unica norma che regola il mercato di Internet. Più che una legge sono 26 parole. Le parole di un comma inserito nella Sezione 230 del Communications Decency Act del 1996, che recita così: «Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi». Su questa frase, i padroni delle reti sociali hanno costruito la loro fortuna e i loro business miliardari. La Sezione 230, oltre a sancire che le piattaforme non sono responsabili per ciò che viene pubblicato, dà anche ampia libertà alle società che le gestiscono di moderare i post e i contenuti in generale. Quindi, se un utente dice qualcosa di diffamatorio su una piattaforma, questa non è responsabile e non sarà perseguibile, ma può rimuovere il contenuto o filtrarlo perché in base alla legge ha la facoltà di gestire il servizio come vuole. Quando Zuckerberg dice che si sente responsabile per quello che accade sulla sua piattaforma, dice qualcosa di non vero, perché la legge dispone diversamente, ma può intervenire a gestire la piattaforma come più gli piace. Il patron di Facebook in uno degli ultimi interventi pubblici ha ammesso che i social network sono in un terreno ancora da regolamentare, a metà strada tra una società editrice e una di telecomunicazioni. Vivono in una zona franca in cui ciò che conta è solo il denaro; più il proprietario è potente e già può condizionare il mercato e ora, la politica, in modo spregiudicato. Nel 2016, durante la campagna per le presidenziali Usa, quando si affacciò l'ipotesi che interferenze russe sui social fossero in grado di condizionare le elezioni, sia i senatori democratici sia quelli repubblicani avevano sollevato il problema di riformare la Sezione 230. Non se ne è fatto nulla. L'assenza di regole, da una parte è condannata, ma dall'altra è ampiamente sfruttata dalla politica che ha sempre più affidato al Web la costruzione del consenso e del successo. Il presidente Barack Obama è stato il primo a usare i social in modo massiccio, il che lo ha fatto apparire nuovo, moderno, in sintonia con i tempi e con un elettorato iperconnesso. Poi è arrivato Donald Trump che ha attivato una campagna infuocata, mai vista prima, a colpi di tweet e post su Facebook a ripetizione. È stato lo stesso organizzatore della sua campagna elettorale, Steve Bannon, a rivelare che il segreto del successo virale sui social è nell'uso di toni forti con un crescendo che crea una sorta di dipendenza negli utenti. La grammatica esplosiva usata da Trump dello scontro estremo con gli avversari ha prodotto anche il risultato di costringere i media tradizionali, che pure gli erano ostili, a stargli dietro offrendogli spazi, altrimenti impensabili. Perché allora, nella sua ascesa, Facebook non ha fermato Trump? Proprio in virtù della legge 230, che solleva il proprietario da qualsiasi responsabilità, ma soprattutto perché il climax dello scontro politico aveva concentrato l'attenzione sui social. E più tempo gli utenti passano sulle piattaforme, maggiore è la raccolta pubblicitaria, quindi il business. La rivista Fortune ha riportato la testimonianza di un ex direttore di Facebook, Tim Kendall, che ha illustrato la strategia usata dal social per creare la dipendenza ai suoi utenti. Una strategia ispirata dalle multinazionali del tabacco che sembra anticipare quello che è successo a Washington. «Permettere a disinformazione, teorie cospirazioniste e fake news di fiorire», sostiene Kendall, «era come i broncodilatatori delle Big Tobacco, che permettono al fumo delle sigarette di coprire maggior superficie dei polmoni. Ma i contenuti incendiari non erano abbastanza. Per continuare a crescere il numero di utenti, e soprattutto il tempo e l'attenzione data a Facebook, si fece di più. Le aziende di tabacco aggiunsero ammoniaca alle sigarette per aumentare la velocità con cui la nicotina arrivava al cervello. Contenuti estremi, incendiari, immagini scioccanti, video, e titolazione che incitavano indignazione, seminavano tribalismi e divisione. Queste scelte di contenuti risultarono un ingaggio e profitto senza precedenti». Google deve il suo successo alla libertà concessa agli utenti di scrivere qualsiasi cosa anche falsa e violenta, indicizzata dal motore di ricerca senza che Google possa essere considerato responsabile. Ora però Facebook e Twitter hanno fatto un altro passo in avanti, si sono comportati come se fossero garanti, responsabili giuridicamente dei contenuti. Sospendere a tempo indeterminato l'account del presidente degli Stati Uniti è la rivendicazione di un potere illimitato e incontrastato. La Sezione 230 è stata al centro di una serrata offensiva di Trump che ha minacciato di abolirla scagliandosi contro le piattaforme, colpevoli, a suo dire, di avere un pregiudizio contro i politici repubblicani. Un'altra azione dura messa in campo in questi giorni è stata quella di Amazon che ha rimosso il social Parler, punto di riferimento del pensiero conservatore, dal suo cloud, con la motivazione di voler ostacolare i discorsi aggressivi veicolati. Parler è stato privato dello spazio per archiviare i dati, e di fatto è stato spento dal colosso di Jeff Bezos. Si è messo in moto un meccanismo a catena. A ruota Apple e Google hanno confermato la rimozione di Parler dai loro store mentre anche Twitch e Snapchat hanno disattivato l'account di Trump. Tutto questo mentre su Youtube, di proprietà di Google, e sul social Reddit continuano a circolare voci di violenza. Un social «punito» dai big del Web potrà comunque rivolgersi a un tribunale e far valere le proprie ragioni: ma nel frattempo è stato silenziato il che equivale, per il popolo del Web, a una condanna a morte. Quando si dice che Zuckerberg ha il monopolio della Rete, è perché le alternative sono marginali. Gli utenti mensili attivi di Facebook sono 2,6 miliardi. Ogni giorno si collegano a questo social 1,73 miliardi di persone e vi trascorrono in media 58,5 minuti. In Italia lo usano circa 1 italiano su 2. È la piattaforma più popolare con il 60,6% degli utenti Internet. Nonostante diversi forti competitor, come Instagram, Snapchat o Twitter, Facebook resta in testa alle preferenze degli utenti. Nel primo quadrimestre del 2020 ha generato 17,44 miliardi di dollari grazie alle inserzioni. Uno scossone allo strapotere di Zuckerberg è arrivato negli ultimi giorni quando il magnate ha obbligato gli utenti di Whatsapp a cedere i dati a Facebook contraddicendo quanto aveva assicurato nel momento di acquisire l'applicazione di messaggistica. Chi non accetta le nuove regole della privacy non potrà più usare l'app: inizialmente la scadenza era l'8 febbraio, poi slittata di 3 mesi sotto la pressione delle polemiche. L'operazione consente una maggiore integrazione tra il servizio di messaggistica e la casa madre, con una crescita importante di influenza e di business. Ma per l'utente significa consegnare, per di più gratuitamente, i propri dati a qualcuno che può farne ciò che vuole. Ed esporsi alla possibilità di essere condizionato da chi ha profilato i dati passando ai raggi X abitudini, consumi, salute e orientamento politico. Di fronte a questa ennesima prova di forza, molti utenti hanno lasciato Whatsapp scoprendo chat come Telegram e Signal. In 72 ore, Telegram ha registrato 25 milioni di nuovi iscritti e Signal 7,5 milioni. E la politica, davanti all'avanzata dei nuovi padroni della democrazia e del dibattito pubblico, che fa? Tace.

Censura a Trump, Cacciari: “Non può essere Zuckerberg a decidere chi può parlare e chi no”. Stefania Campitelli venerdì 8 Gennaio 2021 su Il Secolo d'Italia. “C’è un problema di fondo, che è al di là e al di fuori di Trump”. Massimo Cacciari polemizza con il bavaglio messo all’ex presidente Usa dai "padroni" del web. Il filosofo ed ex sindaco di Venezia interviene sulle polemiche non ancora esaurite sul caso Trump. All’ormai ex presidente inquilino della Casa Bianca, infatti, Twitter ha eliminato alcuni post, giudicati out. Mentre Facebook, Instagram e altri giganti del web hanno addirittura eliminato l’account. Cacciari spiega: “Dovrebbe esserci una forma di autorità politica che decide. Esattamente così come c’è l’Autorità per concorrenza, per la privacy. Che decide ‘questi messaggi in rete sono razzisti, sono sessisti, incitano alla violenza’ e cosi via. E tu, Zuckerberg, li devi cancellare“. Insomma dovrebbe accadere il contrario di quanto è accaduto all’ex inquilino della Casa Bianca. E non solo a lui. “Cioè – conclude il filosofo – deve essere l’autorità che dice a Zuckerberg cosa cancellare, invece qui è lui che decide. E’ una cosa dell’altro mondo“. “Che sia l’imprenditore a farlo, che è il padrone di queste reti, è una cosa semplicemente pazzesca”, conclude Cacciari. “E’ uno dei sintomi più inauditi del crollo delle nostre democrazie. Non c’è dubbio alcuno. Perché come oggi è Trump, domani potrebbe essere chiunque altro. E’ una cosa semplicemente pazzesca”.  

Grave la censura a Trump. Orlando Sacchelli l'8 gennaio 2021 su Il Giornale. Chi segue questo blog sa che non ho mai nutrito grande simpatia per Trump. Ma non posso che essere amareggiato e preoccupato per la censura che egli ha subito sui social network. Un conto è la segnalazione, fatta agli utenti, dei contenuti ritenuti “controversi”, altra cosa eliminarlo, tappargli la bocca. È una cosa a mio parere gravissima. Mi soffermo ora su alcune dichiarazioni raccolte dall’agenzia Adnkronos.  “Dovevano farlo prima (censurare Trump, ndr) – ha detto Gad Lerner -. Si sarebbe evitata la convocazione di un esercito sedizioso, profondamente plasmato dalle menzogne diffuse da Trump. Se lo facessero anche in Italia con alcuni non sarebbe male. Da sempre penso che i social hanno dei proprietari e degli editori che devono avere una responsabilità culturale, i social come colpa hanno quella di aver troppo poco filtrato le menzogne e le denigrazioni che ci sono state in questi anni perciò arrivano molto in ritardo”. Anche Corrado Formigli (Piazzapulita) è d’accordo con Lerner: “La situazione è delicata, il discrimine è sottile, ma io penso che Facebook ormai non possa sottrarsi alla responsabilità che avrebbe un grande editore su quello che pubblica. Non ci vedo nulla di particolarmente scandaloso nel fatto di aver sospeso Trump: è anzi una scelta di responsabilità”. Il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, osserva che “se Trump pubblica qualcosa che è palesemente falso o che addirittura incita alla sovversione del sistema democratico, un intervento urgente, in una situazione come quella creatasi a Washington, è lecito” censurarlo. “Sono sempre per la libera circolazione delle opinioni – prosegue – ma i grandi social network come Twitter e Facebook sono strumenti che influenzano l’opinione pubblica al pari di tutti gli altri mass media ed è normale che debbano assolutamente avere delle regole in tal senso come le hanno tutti i media”. Di diverso avviso Marcello Veneziani: “Credo che ogni censura sia inaccettabile e tanto più se riguarda una persona che ha un seguito corrispondente a mezza America. Mi sembra veramente un segnale inquietante del ruolo sempre più ideologico e al tempo stesso censorio che hanno i grandi mezzi di comunicazione compresi i social. A me è sembrata una cosa assolutamente assurda perché se i mezzi espressivi devono essere in qualche modo esaminati da commissioni di censura siamo in un regime e non più in libertà”. Enrico Mentana, direttore del tg di La7:  “Ovviamente la questione pone un intreccio di contraddizioni. È chiaro che nel fatto che dei mezzi di comunicazione che hanno sede negli Stati Uniti si trovino a silenziare il presidente in carica degli Stati Uniti c’è un elemento di contraddizione, di sfida. È però anche vero che l’uso da parte di Trump dei social è stato sicuramente fuori misura. Il primo riflesso liberale è di dire "non si può chiudere", però è anche vero che ormai tutti invochiamo un po’ lo stop nei confronti di propalatori di fake news. È come se ora noi dicessimo che imporre il lockdown è pericoloso perché un domani uno chiude tutto anche se non c’è la pandemia oppure, per fare un altro esempio, quando c’è in corso una situazione di attacco terroristico, o una questione di sicurezza, le autorità possono chiudere nella zona i social network per non dare punti di riferimento a chi magari si è trincerato in un luogo”. “La censura fa schifo – dice Vittorio Feltri – ma se qui da noi le prime censure vengono fatte già a livello di servizio pubblico televisivo, poi non possiamo stupirci del fatto che Twitter o Facebook, che sono aziende private, mandano a fare in c…. anche Trump. Non sono un esperto di social, però ho visto che fanno quello che vogliono. Anche Twitter ad esempio, ci sono momenti in cui ti censura, ti blocca, non ti fa salire i followers. Quindi non è una novità: essendo delle aziende private purtroppo fanno quello che vogliono, e censurano quello che vogliono, e non da adesso”. Feltri però non vuol sentir parlare di attacco alla democrazia:  è “un’espressione che ha un’enfasi retorica che mi appartiene. Basta che uno parli ad un microfono e dice quello che vuole, non esistono solo i social. Ci sono i giornali, la televisione, la radio. Credo che si possa fare anche a meno dei social. Sicuramente siamo vissuti anche senza, e magari non stavamo meglio, ma nemmeno peggio”. A mio parere ricorrere alla censura nei confronti di un politico è ingiusto e sbagliato, a meno che questi non si macchi di reati gravissimi. Soprattutto per un motivo: chi è il “giudice” che decide che un leader abbia diritto di parlare oppure no? Il ceo di un’azienda? E sulla base di cosa? Chi può intervenire per correggere gli “errori” o gli eventuali abusi di questo arbitro? La censura, oltre che profondamente illiberale, è estremamente pericolosa, e colpisce che la soluzione arrivi da chi si è sempre professato simbolo, e strumento, della libertà di tutti noi.

Trump bannato dai social, giusto o no? Rispondono gli esperti. Giuseppe Mauro su Il Riformista l'8 Gennaio 2021. Gli eventi di Capitol Hill hanno attirato gli occhi del mondo intero sull’invasione dei sostenitori di Trump nel centro della democrazia statunitense. Il tutto grazie all’attenzione riservata dai media e dagli internauti. Mai come mai, i social si sono scatenati sia a favore che contro la scelta dei Big Tech, Facebook e Twitter, di applicare restrizioni ai profili social dell’attuale presidente degli USA Donald Trump. Una decisione che ha dapprima dato grande soddisfazione ai detrattori del linguaggio comunicativo del presidente sconfitto, ma ancora in carica fino al 20 gennaio, per poi aprire una riflessione sull’essenza di questo provvedimento e se sia pertinente con i principi della più grande democrazia al mondo. “Una scelta che dovrebbe essere inquadrata nel contesto degli ultimi mesi” dichiara al Riformista Livio Varriale, data journalist che da anni sensibilizza l’opinione pubblica sullo strapotere sempre più crescente della tecnocrazia americana nel mondo. “Trump ha avuto sempre una comunicazione aggressiva che gli è costata l’antipatia istantanea di Twitter, impegnata in prima linea in una battaglia più politica, che di merito, molto vicina ai Dem”. E Facebook? “Mark Zuckerberg ha giocato di fino, invece, perché ha prima resistito alle pressioni dei suoi dipendenti ed al un calo pubblicitario nei mesi di campagna elettorale perché i suoi grandi investitori pubblicitari non volevano figurare su una piattaforma dove Trump avesse visibilità. Il titolare di Facebook – continua Varriale – ha compensato le perdite con il massiccio investimento pubblicitario elettorale dei Repubblicani, per poi finalmente dare il benservito a Trump. La stessa Facebook si trova in crisi di identità per via di voci, sempre più frequenti, che vorrebbero lottizzarla politicamente, proprio come avviene per la Rai in Italia, ed è inoltre sotto pressione per delle cause intentate dal Governo nei suoi confronti”.

E’ stata giusta la scelta di escludere Trump dai social network? Secondo Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Institute, bisogna affrontare il discorso analizzando gli aspetti “di metodo e di merito. Nel merito potrebbe essere facile dare ragione a Zuckerberg, anche in funzione del fatto che l’incitamento alla rivolta non è qualcosa che è avvenuto esplicitamente, in un singolo messaggio (che sarebbe stato censurabile), ma ha riguardato in qualche modo un messaggio trasversale inviato nelle ultime settimane. È facile dare ragione a Facebook ed è facile prendersela con Trump, semplicemente perché in questo momento Trump è “il cattivo”. O almeno, lo è nella rappresentazione di quelli che si ritengono buoni, ma il problema resta soprattutto di metodo. Il punto è capire se un’azienda, in virtù del fatto che ha fatto firmare un accordo di servizio, possa esercitare delle scelte in linea con questo accordo anche se è un’azienda che influenza le decisioni di miliardi di persone. Non basta dire che Facebook è un privato e di conseguenza all’interno della sua piattaforma il suo proprietario può fare quello che vuole. Perché se questo privato influenza le decisioni di miliardi di persone il suo comportamento va regolamentato e d’altro canto questo punto è proprio quello che sostiene Trump quando chiede che venga rivista la famosa sezione 230, secondo la quale i social network sono equiparati a operatori di rete e non ad editori. Zuckerberg in questo caso si è comportato da editore e come tale, seppur molto particolare, dovrebbe sottostare a regole che sono ancora da disegnare e che riguardano le modalità con le quali la piattaforma può moderare meno i contenuti prodotti dai suoi utenti, a maggior ragione quando è coinvolto il presidente degli Stati Uniti d’America, ma è altrettanto importante per tutti coloro che quotidianamente e non hanno la visibilità per dare voce alla censura che avviene ai propri contenuti. Questo fa porre un interrogativo anche sul controllo della rete. Con il Digital Transformation Institute abbiamo proposto un manifesto contro le fake news che può essere facilmente declinato anche in questo contesto. La strada è tutta da disegnare, ma mai dovrà passare per meccanismi censori, in funzione del fatto che sono convinto del fatto che sia infinitamente maggiore il danno che si può fare oscurando un contenuto che non dovrebbe essere oscurato rispetto a quello che si evita oscurando giustamente un contenuto censurabile”.

“Facebook e Twitter hanno legittimamente limitato la presenza di Trump dai social” afferma Tommaso Ederoclite, esperto di politiche per la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione. “I social network sono società private che hanno delle loro policy e Trump le ha violate, più di una volta da ricevere già in passato diversi provvedimenti per incitamento all’odio, secondo anche quanto è stato riconosciuto dai maggiori leader mondiali.” Nonostante la fondatezza delle azioni intraprese dai due giganti del web “c’è bisogno di regolamentare non tanto le policy, ma capire come vengono trattati i nostri dati personali, che amo ricordare essere un bene pubblico di ogni singolo stato, e pretendere maggiore trasparenza unitamente alla consapevolezza che questi non siano uno strumento utile all’orientamento dell’opinione pubblica su tematiche inerenti le decisioni commerciali, e forse anche politiche, della massa”. Secondo Ederoclite il mondo dei social “non sarà per sempre cristallizzato sull’attuale composizione dove gli USA detengono il primato di mercato nel mondo occidentale e paesi con modalità di governo differenti come Cina e Russia nascondono i propri dati al resto del mondo. Questo potrebbe portare alla nascita di nuove realtà nel campo dei social media sul suolo Europeo, che diano maggiore considerazione alla territorialità delle relazioni tra gli utenti, ma i social, conclude l’esperto, non sono né buoni e né cattivi, ma nemmeno neutrali”.

Censura Facebook, Casaleggio difende Trump: “Forse social Zuckerberg è una società editoriale”. Redazione su Il Riformista l'8 Gennaio 2021. “Non essere d’accordo con qualcuno è il miglior punto di partenza per non essere d’accordo sulla sua censura. Ieri si è verificato un fatto emblematico: la piattaforma social media più partecipata negli Stati Uniti ha censurato preventivamente il Presidente degli Stati Uniti per le prossime due settimane in attesa dell’insediamento del nuovo Presidente. Le ragioni possono anche essere comprese dopo l’assalto al Parlamento statunitense durante la conferma del nuovo Presidente incaricato, scaturito proprio a seguito di un invito da Presidente uscente a protestare davanti alle porte di Capitol Hill. Ma a far riflettere dovrebbe essere il fatto che oggi esistono tutele democratiche affinché tutti possano parlare e dire anche cose non ritenute corrette da alcuni, o anche da molti”. E’ quanto scrive il presidente dell’Associazione Rousseau, Davide Casaleggio, in un post sul Blog delle stelle. “La libertà di parola è anche la libertà di dire ciò che non si vuole sentire, anche se dovesse configurarsi un reato di opinione. Salvo poi essere sanzionato se viene commesso – aggiunge -. Negare la possibilità ad una persona di poter parlare è prerogativa del potere democratico costituito”. “Fino ad oggi Facebook, come molti altri social network, si è qualificata come piattaforma software indipendente, ma oggi forse dovrebbero qualificarsi come società editoriale prendendosi quindi la responsabilità di tutto quello che viene reso pubblico e specificando in ogni occasione perché un post è tollerato e un altro no. Se Putin o Xi Jinping dovessero fare dichiarazioni contro gli interessi statunitensi o quelli del social media, sarà Zuckerberg a decidere se è il caso di censurarli?”, aggiunge Casaleggio. “Si può non essere d’accordo con qualcuno e persino temerne le opinioni. Tuttavia la censura porta con sé conseguenze se erogata al di fuori del contesto democratico, in particolar modo se legata a milioni di persone che legittimamente scelgono di seguire una persona, soprattutto e ancora di più se fatta su uno strumento diventato centrale per il confronto delle idee”. “La prima conseguenza è che i social network diventeranno di parte e le persone inizieranno a utilizzare i social network che meglio rappresentano le loro opinioni. E come sempre questa polarizzazione a priori non faciliterà il confronto sulle idee, ma cristallizzerà ancora di più qualunque tifoseria politica. Non è un caso il successo del nuovo social media Parler all’interno del quale stanno convogliando gli statunitensi esclusi dal dibattito su Twitter e Facebook e in generale milioni di sostenitori di Trump. Un social media divide”, continua nella sua riflessione Casaleggio. “Questa divisione rischia di diventare anche una divisione tra Stati. Cosa sarebbe successo se a censurare un presidente statunitense fosse stato TikTok, il social media cinese? I meccanismi di censura sono già in piedi, ma applicati solo a contesti politici domestici cinesi. Il problema in realtà è che già oggi Facebook e Twitter applicano censure politiche in altri Paesi fuori dagli Stati Uniti, creando non solo un cortocircuito tra politica e aziende private, ma anche diplomatico. Come è successo dopo le proteste di Hong Kong dove Twitter ha identificato e sospeso 200 mila account cinesi e YouTube sospeso oltre 200 account accusati di propaganda contro l’autonomia di Hong Kong. Il fenomeno è comunque globale e continuo se si pensa che Facebook chiude dai 3 ai 5 miliardi di account. Probabilmente in gran parte è giusto che vengano chiusi, ma se anche un solo account fosse stato chiuso senza motivazioni valide gli si sarà tolta la possibilità di parola su Facebook o su Twitter da parte di un’azienda. Twitter ha censurato anche tweet di capi di Stato come quello di Bolsonaro quando scelse di affrontare il Coronavirus con l’immunità di gregge e non con il lockdown descrivendone a suo avviso l’inutilità, ma non ha riservato lo stesso trattamento al premier inglese quando aveva le stesse posizioni”. E ancora: “Le commissioni di garanzia terze istituite dagli stessi social media, ad esempio l’Oversight Board di Facebook, finiscono per essere solo specchietti per le allodole se a decidere e a dichiarare la censura è il proprietario del social media di turno, come in questo caso Zuckerberg, poi rettificato dopo poche ore da una comunicazione aziendale che ridimensionava a 24h il blocco dell’account”, sottolinea il presidente dell’Associazione Rousseau. “Senza contare che la censura preventiva sembra più simile a dinamiche di giustizia preventiva in stile Minority Report che non all’applicazione di regole certe e uguali per tutti. In realtà il problema della falsa informazione non è ancora stato risolto neanche nei media tradizionali. Se penso a quale sia stata la più grande fake news degli ultimi trent’anni penso alle bombe nucleari possedute da Saddam Hussein, una notizia falsa che ha avuto un impatto devastante anche dal punto di vista delle conseguenze che ha determinato e che è stata proposta e rilanciata dai media tradizionali”. “In questi giorni c’è molto dibattito sul Bitcoin che sta acquisendo valore in seguito alla svalutazione generale delle valute di Stato. La realtà è che la tecnologia blockchain, sulla quale si basano i Bitcoin, sta portando alla creazione di nuove realtà auto-organizzate e distribuite dove non esiste un controllo centrale e all’interno della quali le persone possono agire all’interno di regole stabilite all’inizio e soprattutto verificabili da tutti. La verificabilità delle decisioni e la distribuzione delle decisioni si sta ponendo come modello contrapposto a quello centralizzato basato su scelte arbitrarie non condivise. Forse a breve nascerà anche un social media basato su questi principi che potrebbe risolvere l’eterno dilemma tra verità e libertà di parola”, conclude Casaleggio.

Trump pericoloso ma l’ufficio censura di Facebook (forse) lo è anche di più. Davide Varì su Il Dubbio il 9 gennaio 2021. Davvero un’azienda privata può decidere di interrompere la comunicazione di un presidente della Repubblica eletto da decine di milioni di cittadini? “Troppo grandi i rischi se permettiamo al Presidente di continuare a usare il nostro servizio”. E’ la frase, lapidaria, con cui il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg ha annunciato il blocco della pagina del presidente americano Donald Trump. “I nostri Servizi”, ha detto Zuckerberg. “Servizi”, proprio così: quasi fosse un funzionarietto dell’Acea o di chissà quale altra municipalizzata di luce, acqua o gas. Ma non si rende conto, il buon Zuckerberg – o finge di non rendersene conto – di essere a capo del più potente, diffuso e capillare strumento di comunicazione del mondo. Un colosso che controlla le vite di quasi 3 miliardi di persone influenzandone comportamenti, costumi, consumi e scelte politiche. Ora, iniziamo col dire che i tweet e i post che Trump ha lanciato nelle ore drammatiche dell’assalto a Capitol Hill rasentano la follia e l’irresponsabilità. Ma ci chiediamo: davvero un’azienda privata può decidere di interrompere la comunicazione di un presidente della Repubblica eletto da decine di milioni di cittadini? Davvero Zuckerberg pensa che il diritto alla comunicazione del presidente degli Stati Uniti debba passare all’esame degli algoritmi di Facebook? Ed è accettabile che  nel giro di poche ore , forse poche decine di minuti – “l’ufficio censura” di Zuckerberg abbia istituito un “processo” ed emesso una “sentenza” che è stata eseguita seduta stante? Certo, qualcuno potrebbe obiettare che le regole di Facebook sono chiare e valgono per tutti. E qui siamo al secondo delicatissimo  tema. I cittadini sono tutti uguali, ci mancherebbe, ma chi è investito da un mandato popolare attraverso libere elezioni deve per forza di cose poter contare su un grado di protezione delle proprie idee quasi assoluto. Insomma, chi afferma che Trump – il presidente Trump – deve poter essere bannato in qualsiasi momento compie la stessa semplificazione di chi, in questi anni, ha predicato e ottenuto la rimozione delle immunità parlamentari. Ma noi ci permettiamo di obiettare: chi varca la soglia delle istituzioni democratiche deve poter essere protetto dall’arbitrio giudiziario così come dalla censura mediatica. Chi sostiene il contrario, temiamo, confonde democrazia con demagogia e plebiscitarismo.

Tutte le ipocrisie dei censori di Trump. Andrea Amata, 9 gennaio 2021 su Nicolaporro.it. L’editore Simon & Schuster ha annullato la pubblicazione del libro del senatore repubblicano Josh Hawley – The Tyranny of Big Tech – reo di aver salutato, in segno di solidarietà, i sostenitori di Trump che si accalcavano nell’area antistante Capitol Hill e di essersi opposto ai risultati delle elezioni presidenziali del 3 novembre. Nel comunicato stampa della casa editrice si dichiara che «sarà sempre la nostra missione amplificare una varietà di voci e punti di vista: allo stesso tempo prendiamo sul serio la nostra responsabilità pubblica verso i cittadini e non possiamo sostenere il senatore Hawley dopo il suo ruolo in quella che è diventata una pericolosa minaccia per la nostra democrazia e libertà». La prima flagrante contraddizione, che si desume dalla decisione censoria dell’editore, sta nell’ostracismo di una voce in nome della difesa della libertà. Chi si proclama paladino della democrazia non può contemporaneamente negare l’espressione del pluralismo che ne rappresenta la sostanza. Non è credibile un editore che si richiama alla difesa della democrazia per esercitare una sorta di apartheid culturale verso un senatore, dissacrando la liturgia democratica che ha nel suo dna la libertà di opinione. Il bavaglio non è un simbolo celebrativo di quei valori democratici in nome dei quali si autorizza, fraudolentemente, il boicottaggio dei rappresentanti di una corrente di pensiero. In tale incoerenza logica si insinua il rischio che la democrazia possa precipitare su un pericoloso crinale, finendo sabotata da chi agisce in suo nome usurpandone l’autenticità. Sta prendendo sempre più piede una doppia morale per cui viene revocato il profilo di Facebook del presidente in carica degli Stati Uniti, Donald Trump, che si è sempre sottoposto ad uno schema democratico, e si tollera la permanenza sui canali social dei prevaricatori dei canoni liberali che in modo plateale sfidano i contenuti democratici come il dittatore venezuelano Maduro, il satrapo turco Erdogan, l’ayatollah Ali Khamenei e gli account del radicalismo islamico. La cancellazione di Trump da Fb e il ritiro della disponibilità a pubblicare il libro del senatore Hawley sono segnali preoccupanti che introducono una nuova fase: il discriminatorio processo alle idee ammantato, per giunta, dall’aureola della virtù democratica che in realtà è arbitrio. Occorre trovare un punto di equilibrio fra l’orgia della disintermediazione, che riconosce l’accesso incondizionato delle singole soggettività alla disputa pubblica, e l’enorme influenza in mano ai monopolisti delle società tecnologiche che concentrano un potere senza precedenti nel settore della comunicazione. Andrea Amata, 9 gennaio 2021

Giordano Bruno Guerri per il Giornale il 10 gennaio 2021. Oltre che vasto, il problema è nuovo, come nuove sono le tecnologie che consentono di comunicare direttamente con milioni di persone in tutto il mondo. Inedito è anche che a controllarle siano due società private quotate in Borsa, che si sono assunte la responsabilità di censurare prima, espellere poi, un capo di Stato. Oggi si parla di Trump, ma il problema riguarda la libertà di tutti, e da questo punto di vista deve essere considerato. Il controllo, naturalmente, è sempre esistito anche con altri mezzi. Per esempio, nessuno contesta a un direttore di giornale di pubblicare quello che vuole: può dire a qualsiasi collaboratore «il tuo articolo non mi piace», e buttarlo nel cestino. Anche una televisione può fare un' intervista e poi decidere di non mandarla in onda. Sono regole nemmeno discusse. (Ma mai si era visto un telegiornale troncare a metà la diffusione del discorso del proprio capo di Stato). In teoria, non ci sarebbe da discutere neanche la decisione di Twitter e Facebook. Iscrivendosi, l'utente accetta con un clic le regole di chi gli mette a disposizione lo spazio, quindi è tenuto a osservarle, pena l' espulsione senza diritto di protesta, chiunque sia. Però la faccenda in questo caso è più complicata, con la premessa da parte mia che ritengo sbagliato e grave quanto sta facendo Trump, che non vedo l' ora della sua uscita dalla Casa Bianca. Trump evidentemente ha un suo disegno politico personale non difficile da individuare: spacciandosi come vittima e chiamando a raccolta i suoi, punta a rafforzare un consenso personale che probabilmente gli permetterà, presto, di fondare un suo partito. Progetto più che lecito, in un sistema democratico, se realizzato in modo rispettoso delle leggi. Possono, i proprietari di due società private quotate in Borsa, decidere se lo fa in modo rispettoso delle leggi? Non valgono le osservazioni di quanti, proprio su Twitter e Facebook, polemizzano dicendo che gli ayatollah possono scrivere che Israele deve essere distrutta, o che non si censura Erdogan perché nessuno capisce il turco. Serve piuttosto osservare che a milioni, su quelle pagine, scrivono sciocchezze non verificate, frasi ingiuriose verso chiunque, diffondono teorie assurde. Le pagine internet dovrebbero essere vigilate all' origine, semplicemente verificando che un iscritto abbia un nome e un cognome rintracciabile, per assumersi la responsabilità di quanto scrive. Occorre anche, nei casi più gravi, che ci sia uno strumento di giudizio pubblico sulla liceità dei testi. Certo, noi abbiamo la polizia postale, impegnata soprattutto e giustamente a combattere la pedopornografia in rete, ma se quel che accade negli Stati Uniti accadesse da noi? Abbiamo sistemi di controllo e una magistratura in grado di intervenire con la rapidità e l' obiettività necessarie? Direi di no, e occorre dotarsi di questi due strumenti legislativi. Ritengo eticamente sbagliato avere espulso Trump dai social, perché più che una punizione per lui lo è per le sue decine di milioni di seguaci, che comunque hanno diritto a seguirlo. Se davvero è un pericolo, meglio sarebbe stato espellerlo dalla Casa Bianca: proprio in nome della libertà, che continua a essere il valore più importante. Giordano Bruno Guerri

VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 10 gennaio 2021. Ha suscitato scandalo la censura inflitta a Donald Trump da Twitter che lo ha tolto dal social network accusando l' ex presidente degli Usa di fomentare con i suoi cinguettii la violenza. Non voglio entrare nel merito della polemica scaturita da questo episodio. Ciascuno la pensa come crede. Il discorso è un altro. Certi mezzi di comunicazione elettronica sono privati e quindi, essendo simili a un club, agiscono senza controlli, ritenendosi padroni di accettare o respingere questo o quell' abbonato. Essi giudicano a loro piacimento chi è gradito o sgradito, e in determinati casi bocciano i messaggi di questo o quel personaggio senza fornire spiegazioni. Trump sta sulle scatole a Twitter, il quale evidentemente simpatizza per il partito democratico, ed è stato scacciato quale ospite indesiderato. La sua bocciatura non la condivido, essendo convinto che ciascuno è abilitato a esprimere qualsiasi idea, eppure non posso sostenere che essa sia illegale poiché i social, ripeto, sono paragonabili al Rotary (o a un altro club), dominus in casa sua. Però c' è un però che non va sottovalutato. Twitter ha avuto successo poiché ormai la gente, pure la più sprovveduta, ama sfogarsi, scrivendo qualsiasi sciocchezza senza freni. Peccato che i controllori della baracca, quelli che decidono i pensieri da veicolare e quelli da cestinare, spesso non capiscano ciò che leggono e pertanto fraintendano, forse sono ignoranti e incapaci di valutare il significato delle parole, quindi combinano disastri. Eliminano frasi corrette perché non ne afferrano il senso e sospettano che siano impubblicabili. La stupidità spesso è addirittura comica ma invincibile. Un esempio che mi riguarda. Un paio di giorni fa, quando Greta ha compiuto 18 anni, ho vergato questo tweet: "Ora la ragazza è maggiorenne e può andare a scopare il mare, pieno di schifezze umane". Ebbene, i soloni del social hanno concluso che scopare il mare sia una espressione sessista, mentre è un detto lombardo simile a "va a ciappà i rat". Di conseguenza, mi hanno sospeso e minacciato. Questo è il loro livello culturale. Rasoterra. Non sono arrabbiato, bensì divertito davanti allo spettacolo dell' insipienza.

Twitter oscura “Libero”, Feltri: “Una banda di ignoranti, stupidità senza freni”. Gabriele Alberti martedì 12 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. Brutto clima. Increscioso episodio. Twitter limita l’attività l’account del quotidiano Libero. “Noi siamo come Trump” commenta amaro all’Adnkronos il direttore editoriale Vittorio Feltri.  La segnalazione  suona così: “Attenzione: questo account è temporaneamente limitato”: è l’alert che appare sul profilo ufficiale del quotidiano ospitato dal canale social. Poi la spiegazione, molto vaga: “L’avviso qui presente ti viene mostrato poiché l’account in questione ha eseguito delle attività sospette. Vuoi davvero proseguire?”. “Attività sospette non meglio specificate. Brutti tempi per l’informazione che non si accoda al pensiero mainstream. Dove si arriverà di questo passo? E così, dopo la mannaia sui social caduta su Trump, la censura si abbatte sul quotidiano diretto da Pietro Senaldi, proprio dopo che in questi giorni molte voci autorevoli del giornalismo e del mondo intellettuale italiani avevano biasimato la deriva Usa. La reazione di Feltri è tipica del suo modo di essere, diretto e senza perifrasi: ”Non me ne frega un caz…” ha detto all’Adnkronos.  “Noi siamo come Trump, va bene. Io ritengo che Twitter sia guidato da una banda di poveri ignoranti che non capiscono le parole”. “Penso possano avere interpretato male alcuni interventi- tenta di interpretare il gesto censorio – . Mi fa anche piacere sottolineare la loro ignoranza. Sono cose incredibili! Ma penso anche che twitter abbia tutto il diritto di censurare: è un privato e i privati fanno quello che vogliono. C’è una ignoranza dominante e una stupidità senza freni che comanda. Libero come Trump!”, ripete Feltri.  ” La censura si allarga velocemente ai giornali che non si assoggettano al pensiero unico. Democrazia è pluralismo di voci, non intolleranza nei confronti delle voci avverse. Non stanno colpendo Libero, stanno minando le fondamenta della democrazia” . E’ il commento di Azzurra Barbuto, una delle firme più note della testata, al Riformista. Solidarietà a Libero è subito arrivata dal Responsabile Nazionale Innovazione di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone. “Twitter è come il Ministero della Verità di 1984, ormai decide cosa è giusto e cosa è sbagliato. La cancellazione arbitraria di contenuti giornalistici è una chiara violazione della libertà di stampa e di espressione, tutelate costituzionalmente. Chiediamo che intervengano immediatamente l’Agcom e l’Ordine dei giornalisti a tutela delle libertà garantite”. Attualmente  l’account del quotidiano diretto da Senaldi non è visibile, ma è comunque possibile per gli utenti visualizzare la sua timeline cliccando sul tasto di accettazione che prevede l’opzione di mostrare il profilo. “Assolve”, in qualche modo, il gesto di Twitter la Stampa. “Potrebbe trattarsi di una quantità anomala di segnalazioni, che hanno fatto scattare in automatico il provvedimento: magari perché a San Francisco, dove Twitter ha la sede, non sanno che Libero è  un organo di informazione e non di un privato cittadino”. Sarebbe grave lo stesso. 

Twitter oscura Libero. Ed è bufera su WhatsApp. Dall'8 febbraio i dati della App condivisi con Facebook. E Twitter sospende "Libero". Giuseppe Marino, Martedì 12/01/2021 su Il Giornale. Le rassicurazioni del portavoce di Whatsapp non cancellano i dubbi degli utenti. E nemmeno quelli dei Garanti della privacy europei. L'authority dell'Irlanda, dove ha sede legale il gruppo che comprende Facebook e Whatsapp, sta svolgendo accertamenti in coordinamento con le omologhe autorità del continente, si apprende dagli uffici del Garante della privacy italiano. I timori si sono diffusi alla velocità di un messaggio da quando, lo scorso 7 gennaio, ha cominciato a comparire un'informativa sulla privacy che si è costretti ad accettare pena la rimozione di Whatsapp dal telefonino. L'avviso menziona la condivisione con Facebook dei dati raccolti con Whatsapp. Ovvero proprio ciò che Mark Zuckerberg aveva giurato che non sarebbe mai accaduto al momento in cui Facebook acquisì Whatsapp. Del resto, si erano subito chiesti gli osservatori delle cose della Rete, per quale motivi spendere 19 miliardi di dollari quando Facebook ha già un servizio di messaggeria istantanea molto simile? «Chiaramente -spiega Federico Fuga, ingegnere del software e osservatore delle questioni della Rete- a Facebook interessava la base utenti di Whatsapp». Il pacchetto di dati che verrebbe condiviso tra le due aziende è estremamente penetrante: il numero di telefono, i dati sulle transazioni, le informazioni sulle interazioni con altri utenti o aziende, dettagli sull'apparecchio e l'indirizzo ip che identifica ciascun utente nel momento in cui si collega in Rete. Una nota diffusa da Whatsapp ha subito cercato di sminuire i timori spiegando che la condivisione dei dati con Facebook è limitata e non riguarda gli utenti dell'area europea. I Garanti hanno deciso di muoversi comunque per chiarire la situazione. «Non bisogna demonizzare le aziende e del resto i servizi in qualche modo vanno ripagati -spiega Fuga- però è vero che i potenziali sviluppi del trattamento di massa dei dati con gli strumenti dell'intelligenza artificiale possono creare effetti potenzialmente dannosi per gli utenti. Una macchina che mette in relazione tanti dati diversi potrebbe ad esempio incasellare l'utente automaticamente tra persone a rischio solvibilità per un prestito o a rischio salute per un'assicurazione, con modalità automatiche che nemmeno gli scienziati del settore controllano». A questo scenario distopico si è aggiunto da pochi giorni un elemento politico: i grandi social network come Facebook e Twitter hanno messo al bando il presidente degli Stati Uniti dopo l'assalto a Capitol Hill. Al di là delle considerazioni politiche, se aziende private si sono arrogate il diritto di decidere in totale autonomia delle comunicazioni di Donald Trump, figurarsi quali chance di controllo delle proprie informazioni ha il cittadino comune. Molti osservatori, tra cui incredibilmente anche giornalisti, non hanno colto le implicazioni generali, accecati dall'anti-trumpismo e difficilmente le coglieranno dopo che ieri Twitter ha fatto il bis oscurando temporaneamente l'account del quotidiano Libero con lo strano avviso di «attività sospette». Eppure nelle ultime ore pure i leader di Francia e Germania, hanno capito i rischi per la libertà che vanno ben oltre il caso Trump. Rischi confermati dalla sostanziale cancellazione di Parler, un piccolo social newtwork alternativo su cui si erano buttati i seguaci di Trump dopo la sua messa al bando da Twitter. Le aziende che gestiscono i server gli hanno staccato la spina, mentre Google e Apple hanno tolto l'app dai loro store. «Il problema -dice Fuga- è che certi estremismi sono anti-fragili: sotto attacco si rafforzano». Ieri un altro social alternativo usato dagli anti trumpiani, Gab, è cresciuto di 600mila iscritti in una notte. La censura ai tempi del web ha vita dura. Per fortuna.

L'ultima follia della sinistra: "I social di destra sono un pericolo". Progressisti e commentatori di sinistra non si accontentano di censurare il presidente Usa Donald Trump e i conservatori. Vorrebbero mettere al bando i social alternativi a Big Tech come Parler. Roberto Vivaldelli, Mercoledì 20/01/2021 su Il Giornale. "I social sono piattaforme private e possono fare ciò che vogliono". Così i progressisti hanno giustificato la censura dei social media ai danni del presidente Usa Donald Trump dopo i fatti di Capitol Hill dello scorso 6 gennaio, spiegando che le aziende Big Tech della Silicon Valley, in quanto società private, possono fare ciò che credono. E già qui possiamo osservare la prima, incredibile, contraddizione di quest'argomentazione: quando i social andavano regolamentati per metterli al riparo dagli hacker russi e dalle ingerenze straniere, erano diventati dei fondamentali strumenti di comunicazione e le fake news una minaccia alla democrazia: ora, invece che censurano i conservatori sono delle società private che possono fare ciò che credono. Ma i progressisti non si limitano a giustificare la vergognosa censura che non ha colpito solo Trump ma moltissimi conservatori in tutto il mondo (compreso il mite e libertariano senatore Ron Paul): ora temono che nascano piattaforme alternative che tutelano il free speech e che possano fare concorrenza a Facebook, Twitter, Instagram, Youtube. Pensiero che emerge chiaramente nell'intervista rilasciata da Ethan Zuckerman a La Repubblica. Ex direttore del Mit Center for Civic Media fino a maggio 2020, ora passato alla University of Massachusetts, Zuckerman è un fervente anti-trumpiano che collabora con la Cnn. Per comprendere il suo pensiero, basta leggere un articolo pubblicato sul sito della Cnn lo scorso 12 gennaio nel quale Zuckerman plaude alle azioni di Twitter e Facebook contro il tycoon spiegando che si tratta di un "cambiamento importante" perché i social media "hanno tollerato troppo a lungo gli estremisti di destra", come se tutti i conservatori o repubblicani fossero dei estremisti e a sinistra non esistessero componenti radicali e pericolose (come gli Antifa). Nell'intervista concessa a Repubblica, l'esperto di comunicazione va oltre e spiega che "quello che non farei oggi è sottovalutare i social di estrema destra, perché presto potremmo avere un web fatto di piattaforme che si dividono in fazioni contrapposte come i media tradizionali". La vera questione che bisognerebbe porsi, prosegue, "è se sia giusto che dibattiti pubblici avvengano sui social network privati", spiega da Boston. "Ma vedo che a destra si continua a parlare di censura, mentre a sinistra la critica è quella di essere intervenuti troppo tardi. Queste piattaforme sono di aziende private e possono decidere liberamente le norme che regnano al loro interno. Lo scontro era inevitabile e comunque la mossa di Twitter non è stata un fulmine a ciel sereno". Il vero pericolo per Zuckerman è che nascano dei social media alternativi a quelli controllati da Big Tech: "Le piattaforme alt-tech (alternative technology, siti e social network alternativi ai più noti, ndr ) come Parler, Gab, MeWee, Rumble, diverranno tutt' altro che marginali. Stanno nascendo strutture digitali nella nuova destra estrema che rischiano di diventare una vera alternativa a Twitter e Facebook, con un trasferimento dell'odio in Rete in spazi non regolati che si fanno scudo della libertà totale di espressione". Al di là del solito stucchevole discorso sull'odio (come se gli "odiatori fossero solo da una parte), Zuckerman da un lato sostiene che le piattaforme social sono private e possono agire liberamente, dall'altra plaude alla censura e alla stretta verso i conservatori che i magnati della Silicon Valley stanno mettendo in atto. Non una parola, da parte dell'esperto liberal, rispetto alla grave azione coordinata dei giganti Big Tech contro Parler che abbiamo evidenziato sulle colonne di InsideOver. Come spiega il pluripremiato giornalista Glenn Greenwald, se si cercassero prove per dimostrare che questi colossi tecnologici sono, in effetti, monopoli che si impegnano in comportamenti anticoncorrenziali in violazione delle leggi antitrust, cancellando qualsiasi tentativo di competere con loro sul mercato, "sarebbe difficile immaginare qualcosa di più avvincente di come hanno appena usato il loro potere illimitato per distruggere completamente un concorrente in ascesa". Una vicenda (gravissima) che sembra non essere un problema per un mondo progressista sempre più ossessionato dalla censura. 

Libero bloccato su Twitter, la solidarietà di Salvini e Meloni: "No alla censura", "Questa è la sinistra italiana". Libero Quotidiano il 12 gennaio 2021. "Solidarietà a Libero contro ogni tipo di censura". Matteo Salvini guida la carica di chi protesta e si indigna per lo stop al profilo ufficiale di Libero su Twitter. Una decisione ancora incomprensibile: al momento, infatti, dai responsabili dei social media non è arrivata motivazione su quella formula, "attività sospette", che da lunedì sera campeggia sulla nostra pagina Twitter impedendo di fatto la comparsa dei "lanci" delle nostre notizie sui feed dei lettori. Due le ipotesi: errore tecnico, un banale anche se dannoso inconveniente, oppure quella molto più inquietante di un "ban" sia pure temporaneo, sul modello di quello clamoroso stabilito contro il presidente americano uscente Donald Trump. Se molti utenti stoltamente festeggiano, sbeffeggiando Libero e i suoi giornalisti (una delle formule più usate è "2021 anno della speranza": auguri), non manca fortunatamente chi vede in quanto sta accadendo un pericolosissimo precedente che mette a rischio la libertà di stampa e di  pensiero. "Voltaire reinterpretato dalla sinistra dei giorni nostri - scrive Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia: "Non sono d'accordo con quello che dici e combatterò fino a farti sparire perché tu non possa dirlo".  "La libertà di manifestare il proprio pensiero e la libertà di stampa sono valori non negoziabili e che mai, in uno stato democratico e di diritto, possono essere messi in discussione", sottolinea il governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana. "A quegli idioti che brinderanno alle limitazioni social al quotidiano Libero, ricordo che un secolo fa il fascismo iniziò proprio dal controllo della stampa", scrive Giorgio La Porta. La leghista Susanna Ceccardi fa un ragionamento analogo: "Abbiamo riposto nei social grande fiducia, affidando a loro pensieri, amicizie, lavoro. Ora c'è il girone di ritorno. Ed è in pericolo cioò che di più sacro abbiamo: la nostra libertà". Per il consigliere lombardo Gian Marco Senna siamo di fronte a una "infamata di regime, per il direttore del Corriere dell'Umbria Davide Vecchi "è grottesco, spaventoso e sconcertante assistere persino all'assegnazione del diritto alla libertà di esprimersi a seconda delle simpatie. I democratici antifascisti sono i nuovi fascisti". Giusi Fasano del Corriere della Sera pone l'eterna questione ai commentatori di sinistra: "Decidetevi, Se Charlie Ebdo va bene perché è satira e la satira deve essere libera poi non potete gioire se Twitter sospende Libero". Chiude il cerchio mirabilmente Guido Crosetto: "Fate finta che non sia Libero ma il vostro quotidiano preferito. È un quotidiano e anche un'azienda. Un'azienda per cui la rete è business e sopravvivenza. Un'azienda con diritti inviolabili". Chiaro ora?

Portavoce Merkel, "problematico" blocco account Trump. (ANSA l'11 gennaio 2021) "La cancelliera Angela Merkel ritiene problematico che sia stato bloccato in modo completo l'account Twitter di Donald Trump". Lo ha detto il protavoce Steffen Seibert, in conferenza stampa a Berlino, rispondendo a una domanda specifica sull'argomento. (ANSA).

La Francia deplora l'esclusione di Trump da Twitter. (ANSA l'11 gennaio 2021) La Francia deplora la decisione di Twitter di escludere il presidente uscente degli Stati Uniti, Donald Trump, sottolineando che regolamentare la rete non spetta ai colossi del web. "Ciò che mi sciocca è che sia Twitter a decidere di chiudere" il profilo di Trump, ha dichiarato il ministro francese dell'Economia, Bruno Le Maire, intervistato ai microfoni di radio France Inter. "La regolamentazione dei colossi del web - ha avvertito - non può avvenire attraverso la stessa oligarchia digitale". Una decisione che ha già suscitato numerose reazioni ai quattro angoli del pianeta, incluso nella classe politica francese. (ANSA).

La Cancelliera contro la censura di Twitter: «I limiti li stabilisca il legislatore». Il Dubbio il 12 gennaio 2021. Anche il commissario europeo Thierry Breton ha espresso la sua «perplessità» per la decisione delle piattaforme di bandire Donald Trump dai social network «senza controllo legittimo e democratico» e ha rilanciato i progetti europei per regolamentare i giganti del web. La cancelliera tedesca Angela Merkel ritiene «problematica» la chiusura da parte di diversi social network, tra cui Twitter, degli account del presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump: lo ha riferito il suo portavoce. «È possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore, e non per decisione di un management aziendale», ha spiegato in conferenza stampa Steffen Seibert. «Questo è il motivo -ha aggiunto- per cui il Cancelliere ritiene problematico che gli account del presidente americano sui social network siano stati chiusi in maniera definitiva». Anche il commissario europeo per il Mercato interno, Thierry Breton, ha espresso la sua «perplessità» per la decisione delle piattaforme di bandire il presidente americano, Donald Trump, dai social network «senza controllo legittimo e democratico» e ha rilanciato i progetti europei per regolamentare i giganti del web. «Il fatto che un Ceo possa staccare la spina dell’altoparlante del presidente degli Stati Uniti senza alcun controllo e bilanciamento è sconcertante. Non è solo una conferma del potere di queste piattaforme, ma mostra anche profonde debolezze nel modo in cui la nostra società è organizzata nello spazio digitale», ha affermato il commissario Ue in un editoriale pubblicato su Politico e su Le Figaro. Breton sottolinea che le piattaforme «non saranno più in grado di sottrarsi alla (loro) responsabilità» per il loro contenuto. «Proprio come l’11 settembre ha segnato un cambio di paradigma per gli Stati Uniti, se non il mondo, ci saranno, quando si parla di piattaforme digitali nella nostra democrazia, un prima e un dopo l’8 gennaio 2021», data in cui Twitter ha sospeso definitivamente l’account di Donald Trump, due giorni dopo l’assalto da parte dei suoi sostenitori al Campidoglio, ha confermato l’ex ministro francese dell’Economia.

Censura web per Trump, Meloni ironica: “Francia e Germania protestano, ora l’Italia si sveglierà”. Eugenio Battisti lunedì 11 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. A pensar male si fa peccato, ma qualche volta ci si indovina. E’ un po’ malizioso ma probabilmente veritiero l’ultimo post che Giorgia Meloni dedica al caso della censura dei social media a Donald Trump. E’ una scommessa quella della leader di Fratelli d’Italia. Che ha nel mirino la sinistra italiana. E il suo scarso coraggio. “Scommettiamo che ora che anche Francia e Germania hanno condannato Twitter e i social per aver cancellato le pagine di Trump, la sinistra nostrana e il governo usciranno dal loro silenzio vigliacco e prenderanno le distanze anche loro dalla deriva liberticida dei giganti del web?”. Forse accadrà. Di sicuro dal giorno del bavaglio all’ex presidente Usa da parte dei giganti del web (fa, Twitter, Instagram) la maggioranza giallorossa e la sinistra italiana si sono ben guardate dal commentare la cancellazione delle pagine social di Trump. Non una parola di condanna nei confronti dell’operazione bavaglio da parte di privati che decidono unilateralmente chi può esprimere le proprie idee e chi no. Chi può utilizzare la rete e chi non è degno. Una mossa così ardita che persino Frau Merkel e monsieur Macron, che pure non posso essere tacciati di simpatie per the Donald, non hanno potuto ignorare. La cancelliera tedesca ha parlato di faccenda problematica. A proposito del blocco dell’account Twitter del presidente Usa. “Gli operatori dei social network – ha dichiarato Steffen Seibert, portavoce dell’esecutivo tedesco – hanno la responsabilità di garantire che la comunicazione politica non sia avvelenata dall’odio e dall’istigazione alla violenza. La libertà di espressione, in quanto diritto fondamentale di significato basilare, può tuttavia essere limitata solo dal legislatore“.

In Francia, è stato il ministro dell’Economia Bruno Le Maire a commentare. Senza giri di parole. “Ciò che mi sciocca è che sia Twitter a decidere di chiudere il profilo di Trump. La regolamentazione dei colossi del web non può avvenire attraverso la stessa oligarchia digitale”.

Dagospia l'11 gennaio 2021. Traduzione dell’articolo del “Wall street journal” - Dalla rassegna stampa di ''Epr Comunicazione''. Il sentimento populista di destra può essere bandito dalla vita americana dalla forza bruta della censura dei social media? Stiamo per scoprirlo. Dopo l'invasione del Campidoglio da parte della folla di mercoledì che ha interrotto il conteggio dei voti elettorali, le grandi aziende tecnologiche si sono mosse, aggressivamente e all'unisono, contro Donald Trump e i suoi sostenitori. Le aziende dicono di voler emarginare la frangia violenta, ma la loro censura invece la farà crescere – scrive il WSJ nel suo editoriale. Giovedì e venerdì sono arrivati i divieti di Facebook e Twitter a Donald Trump. Date le circostanze straordinarie, alcuni commentatori che normalmente si oppongono alla censura del web sono rimasti tranquilli. Un'eccezione che merita di essere ascoltata è Alexei Navalny, il sostenitore della democrazia russa e flagello di Vladimir Putin, avvelenato l'anno scorso. Egli ha sottolineato che, a differenza del processo elettorale aperto che ha spodestato Trump, le decisioni dei social-media di "de-piattaformare" i funzionari eletti sono inspiegabili e arbitrarie. “Non ditemi che è stato bandito per aver violato le regole di Twitter. Ricevo minacce di morte qui ogni giorno per molti anni e Twitter non vieta nessuno", ha twittato Navalny. Ha aggiunto che mentre Twitter è un'azienda privata, "abbiamo visto molti esempi in Russia e in Cina di tali aziende private che sono diventate le migliori amiche dello stato  quando si tratta di censura". Poi i giganti della tecnologia si sono mossi contro Parler, il concorrente di Twitter che è un paradiso per i sostenitori di Trump e per le figure più estreme. Google e Apple hanno tolto a tempo indeterminato Parler dai loro app store durante il fine settimana, paralizzando la sua vitalità sui telefoni cellulari. Poi Amazon ha dato il colpo di grazia, annunciando che domenica avrebbe ritirato il servizio cloud su cui Parler si basa per archiviare i dati. I giganti della tecnologia in fuga dicono che Parler ospita materiale che incoraggia la violenza. Anche se Parler ha una politica contro l'incitamento, Apple ha indicato i recenti post violenti che il sito non ha eliminato. Non è come se i contenuti violenti non fossero stati pubblicati sulle piattaforme più grandi. La più lassista moderazione dei contenuti di Parler assomiglia all'approccio adottato dalle società di social-media all'inizio e a metà degli anni '20, prima che la Silicon Valley si inasprisse sulle sue precedenti teorie su un internet aperto che promuove la democrazia. Il Journal ha riferito sabato che "nei giorni scorsi, Parler ha raddoppiato il suo team di moderatori volontari chiamati "giurati", fino a più di mille" e ha proposto ulteriori misure di applicazione. Ma Parler è ora un obiettivo politico, e non sarà l'ultimo. I sociologi hanno documentato come le tribù politiche americane fanno sempre più acquisti in negozi diversi, vivono in luoghi diversi e hanno gusti diversi. Questo divario culturale ha contribuito all'ascesa di Donald Trump, e la segregazione politica di Internet lo amplierà. I conservatori di ogni tipo hanno visto Twitter e Facebook adottare misure straordinarie per oscurare i legittimi resoconti su Hunter Biden nel periodo precedente le elezioni. Ora una confederazione informale di guardiani del web sta metodicamente distruggendo un concorrente che è stato creato per assecondare le loro opinioni. Le opinioni dissenzienti non svaniranno perché gli amministratori delegati del settore tech lo vietano. I punti di vista andranno in clandestinità, forse si radicalizzeranno nella frustrazione, e alla fine esploderanno per le strade. Gli abusi politici percepiti dalle aziende tecnologiche stanno diventando uno dei principali motori del populismo nel XXI secolo, e le mosse delle aziende su Parler forniranno un'infusione di carburante. Tanto più che la Silicon Valley si sta avviando verso i progressisti che presto domineranno Washington. I democratici applaudono le nuove liste nere della tecnologia, e per mesi hanno minacciato Mark Zuckerberg su Facebook se non avesse censurato i contenuti politici a loro sgraditi. Le grandi aziende tecnologiche possono essere private, ma la loro censura su richiesta dei potenti del governo solleva questioni morali e legali. Nel caso Marsh contro Alabama (1946), la Corte Suprema ha stabilito che una città di proprietà privata non può limitare la distribuzione di materiale religioso perché la società è un governo di fatto. Anche le aziende tecnologiche che dominano il flusso di informazioni negli Stati Uniti e che censurano per volere dei potenti democratici meritano il controllo del Primo Emendamento. La messa al bando della Parler da parte delle aziende tecnologiche può anche violare le leggi antitrust. Joe Biden ha detto venerdì che l'America ha bisogno di un partito di opposizione "di principio e forte". Qualunque sia il futuro del GOP, e nonostante la diffusa repulsione per le azioni del Presidente della scorsa settimana, decine di milioni di suoi sostenitori saranno la base di questo partito di opposizione. I nuovi e aggressivi usi del potere aziendale, politicamente approvato, per mettere a tacere ampie fasce della destra, saranno distruttivi in un modo che tutti gli americani potrebbero rimpiangere.

Massimo Gaggi per il Corriere della Sera il 10 gennaio 2021. Dopo l' assalto al Congresso l' incendio della democrazia americana raggiunge il mondo della comunicazione digitale con una decisione forse dettata da preoccupazioni immediate di ulteriore escalation delle violenze, ma tardiva e sconcertante per le sue possibili implicazioni di lungo periodo: i giganti di big tech che hanno difeso per anni non solo la totale libertà del web ma anche l' irresponsabilità delle reti sociali per i contenuti diffusi (aprendo, così, un' autostrada davanti a Donald Trump), ora tolgono il megafono al presidente a 240 ore dalla sua uscita dalla Casa Bianca. Nei giorni scorsi Twitter e Facebook avevano censurato e provvisoriamente sospeso gli account di un leader responsabile di aver diffuso messaggi che si sono risolti in un' incitazione alla violenza. L'altra notte Twitter è andata oltre: ha cancellato il profilo di Trump chiudendo il canale principale usato dal presidente per comunicare col suo popolo: 88 milioni di follower. Il presidente-tycoon si è trasferito su Parler, la Rete senza vincoli nè controlli dove si sono già accasati i suoi figli insieme a molti esponenti della destra radicale, decisi a sottrarsi a ogni sorveglianza. Ma nelle stesse ore Google e Apple hanno cominciato a mettere al bando questa Rete (già eliminata da alcune piattaforme mentre altre le hanno dato un ultimatum di 24 ore). Per i dirigenti di Parler è in atto un vero tentativo di strangolamento: dicono che anche i loro server, gestiti da Amazon, stanno avendo problemi. Preoccuparsi dei gravi danni che Trump può ancora provocare nei giorni di presidenza che gli rimangono è legittimo anche se, come detto, l' intervento è tardivo e di dubbia efficacia: Trump ha scatenato l' assalto al Congresso con un comizio di piazza nel quale ha invitato i suoi seguaci a marciare su Capitol Hill. Le falangi di attivisti paramilitari che hanno invaso il Parlamento avevano preparato per settimane, indisturbati, il loro assalto con messaggi su queste stesse reti sociali. I tempi e i modi di questo intervento suscitano, comunque, diverse perplessità: in primo luogo è difficile da accettare l' idea che a stabilire cosa è lecito dire e cosa no sia una società privata. Che non solo non ha la legittimazione politica di un organismo pubblico, ma non è nemmeno tenuta a spiegare come è arrivata alle sue decisioni nè a offrire a chi viene punito la possibilità di un ricorso in appello. Sarebbe ancora peggio se dovesse emergere che c' è stata una concertazione sotterranea fra tre o quattro giganti che in alcune aree si configurano come veri monopoli digitali. Oggi può essere necessario spegnere il megafono di Trump nel timore di nuovi gesti insurrezionali in questi giorni difficilissimi, ma quando Twitter analizza post come quello nel quale il presidente conferma che non sarà presente all' inaugurazione del suo successore e giudica che, nel contesto attuale, contengono messaggi minacciosi, crea un pericoloso precedente. Inevitabile il sospetto di opportunismo politico: Trump messo al bando solo quando sta per perdere il potere mentre si tenta di riconquistare la fiducia (perduta negli anni scorsi) di un partito democratico deciso a regolamentare il web, che tra pochi giorni controllerà Casa Bianca, Camera e Senato.

(ANSA l'11 gennaio 2021) - Il social network conservatore Parler è stato messo offline, stando a quanto indica un sito specializzato di monitoraggio del web, all'indomani del monito di Amazon, Apple e Google con l'annuncio che non avrebbero più ospitato il social network sulle loro piattaforme.

Da tgcom24.mediaset.it il 10 gennaio 2021. Dopo Google anche Apple rimuove Parler, il Twitter della destra, dal suo App Store. La decisione è legata al fatto che Parler non ha preso le misure necessarie affrontare i discorsi di odio e violenza. "Abbiamo sostenuto che i diversi punti di vista dovessero essere rappresentati sull'App Store, ma non c'è spazio sulla nostra piattaforma per violenza e illegalità". "Parler non ha preso le misure adeguate per affrontare il proliferare di queste minacce". "Parler non ha preso le misure adeguate per affrontare il proliferare di queste minacce sulla sicurezza della gente"., recita una nota ufficiale di Apple. Scacciato da Facebook e censurato d Twitter, Donald Trump si era rifugiato su Parler, aveva riferito l'anchor "amico" della Fox, Sean Hannity. "Ho visto che il presidente ha un account. Almeno c'è un posto per lui. Ed è un bene perché altrove lo stanno censurando", aveva detto Hannity, riferendosi all'alternativa senza censure a Twitter su cui si sono spostati molti seguaci del presidente uscente e la stessa figlia Ivanka.

L'odio trumpiano emigra su Parler. E le piattaforme si allarmano. Raffaella Menichini su La Repubblica il 9/1/2021. Dopo il bando del presidente da Twitter i suoi seguaci (e forse anche lui) si spostano sul nuovo social, già bloccato da Google e minacciato da Apple. E proprio dalle immagini sui social ora si cerca di ricostruire piani e responsabili dell'assalto a Capitol Hill. Gli eventi di Capitol Hill hanno provocato una deflagrazione nel mondo dei social network, con l'ultimo e clamoroso atto della cancellazione dell'account di Donald Trump su Twitter. Nelle ultime 24 ore sui social si discute ormai quasi solo del se e quanto la scelta sia stata tardiva o controproducente, illiberale o inevitabile, principio di una nuova era di "censura" o fine di un'epoca di strumentalizzazione delle piazze digitali pubbliche da parte di personalità potenti e apparentemente intoccabili. Il primo esito concreto, però, è stata la corsa di adesioni, e di allarme, verso un piccolo e fino a pochi mesi fa oscuro social che si candida a dare voce al radicalismo americano, e non solo. Parler è diventato fin da prima delle elezioni la voce dei trumpisti duri e puri che Twitter cominciava discretamente a silenziare e Facebook ad attenzionare: il social-fotocopia di Twitter (senza la moderazione su linguaggio razzista, sessista, incitamento all'odio e alla violenza), semplice e adatto a chi non si voleva addentrare nei più criptici ambienti di Telegram, 4Chan e Reddit dove pure continua a fiorire la comunicazione dell'estrema destra e del suprematismo bianco. Non si sa se anche Donald Trump sia emigrato sul social fondato nel 2018 da due informatici, John Matze e Jared Thomson, compagni di scuola in Colorado. La presenza di un account del presidente è stata segnalata proprio su Parler dal suo fedelissimo consigliere-ombra, l'anchor di Fox News Sean Hannity. Nel frattempo Trump ha cercato di twittare dall'account ufficiale della presidenza, @potus, proprio protestando contro la "censura" del social, e dopo pochi minuti Twitter ha cancellato i post perché aggiravano le regole del bando che impediscono agli individui bloccati di usare altri account. Twitter ha continuato a rincorrere l'irato presidente quando ha provato a usare @teamtrump: post cancellati e account bloccato. Una vera caccia all'uomo. Se Trump decidesse di cominciare a "parler" dal nuovo social, potrebbe ritrovare i suoi fedelissimi ma un social già nei guai. In questo caso il "deplatforming" (ovvero la cancellazione dalla piattaforma) sta avvenendo a monte: sono le stesse Google e Apple, da dove le app dei social network vengono scaricate, che ora non vogliono la responsabilità di far circolare il discorso d'odio che ha incendiato Washington il 6 gennaio. E così Google ha eliminato Parler dal suo "negozio" di app Play, e Apple ha dato a Parler 24 ore di tempo per garantire l'intervento di una moderazione sui post. Circolano già tutorial per aggirare il blocco, ma di certo il giovane social del Colorado è ora sotto la lente d'ingrandimento e l'Fbi lo sta spulciando a caccia di immagini che aiutino a individuare i responsabili del saccheggio di Capitol Hill. Perché i social sono una vera miniera di autodenunce (spesso involontarie e pure goffe), con gente che si riprende mentre distrugge le finestre, ruba il podio della presidenza (ricercato), mette tronfio i piedi sulla scrivania di Nancy Pelosi e le sottrae la posta (arrestato). Con una mossa abbastanza inedita la polizia metropolitana di Washington DC ha diffuso 26 pagine di foto segnaletiche digitali tratte dalle immagini postate sui social per aiutare a rintracciare i vandali. Siti di investigazione come Bellingcat e gruppi specializzati su Reddit stanno facendo un grosso lavoro di raccolta di informazioni con tanto di fogli di excel aperti alle segnalazioni. Nella furia della rimozione, però, alcune piattaforme come Facebook e Youtube potrebbero rendere difficile proprio questo lavoro di ricostruzione e per le forze dell'ordine occorrerà seguire la procedura di richiesta di apertura degli archivi digitali per recuperare le prove, rinunciando a tutto il lavoro di citizen journalism che si sta svolgendo in queste ore in loro aiuto. Così come non è chiaro che fine faranno, come e quando saranno accessibili i tweet di Trump: anch'essi, soprattutto nelle ultime settimane, possibili prove di un crimine. L'ultima teoria del complotto che circola in queste ore su Parler è che la polizia del Congresso - sotto accusa per non essere intervenuta contro gli assalitori e anzi averli fatti passare tranquillamente - dipendendo da una sindaca democratica abbia pianificato di "attirare" i manifestanti all'interno per poi addossargli la colpa del saccheggio. Peccato che le prove dell'esistenza di un piano di attacco violento a Capitol Hill fossero presenti sulle chat della destra già da giorni e a tutt'oggi circolano e si moltiplicano appelli alla mobilitazione per il 20 gennaio (già a partire dal 19), giorno del giuramento di Joe Biden e Kamala Harris. Ma continuano a circolare indisturbati anche attacchi violenti ormai non più solo ai democratici ("doveva finire così", titola un meme su Parler con l'immagine di Biden e Pelosi in ginocchio bendati davanti a un uomo che gli punta addosso un fucile), ma anche ai repubblicani "rei" di aver tradito Trump e i suoi reclami infondati sulle "elezioni rubate". Sotto accusa il vice presidente Mike Pence, il capo della maggioranza al Senato Mitch McConnell, persino un fedelissimo come Lindsey Graham che infatti in aeroporto ha rischiato il linciaggio: come gli altri, condannato pubblicamente alla gogna dallo stesso Trump che di lui aveva appena twittato "Tutte chiacchiere quando non serve, che truffatore". La spirale d'odio sembra infinita, e la storia delle piattaforme tech insegna che l'odio è il motore più potente di espansione dei contenuti, e dunque dei profitti. Tutti se ne sono avvantaggiati finora e adesso non stupisce che lo faccia Parler: "Io non mi sento responsabile per nulla di tutto questo - dice ora il Ceo John Matze, intervistato da Kara Swisher del New York Times - e neanche la piattaforma lo è, visto che siamo una piazza neutrale che obbedisce alla legge. Se la gente organizza qualcosa, vuol dire che è arrabbiata. Si sentono traditi. Hanno bisogno di leader che fermino questo odio di parte. Hanno bisogno di riunirsi e discutere, in un posto come Parler".

Viviana Mazza per corriere.it il 9 gennaio 2021. «Ha appena detto che i patrioti che hanno preso il Campidoglio la pagheranno. Smettetela di pensare che tutto dipenda lui. Dipende da TE, da me, da tutti noi in questo Paese e con le nostre libertà. Non fate le pecore. Pensate con la vostra testa. Trump ha appiccato il fuoco e poi se n’è andato, lasciandoci a gestire i resti carbonizzati». Sono passate poche ore dal video in cui Donald Trump si dice «indignato per la violenza, l’illegalità e il caos» dell’assalto al Congresso. Sul social che ha accolto l’estrema destra, Parler, il leader dei Proud Boys Enrique Tarrio dà voce alla delusione di molti: Trump li ha abbandonati nel mezzo di una battaglia che lui stesso li aveva incitati a combattere. «Non potrei essere più d’accordo. Quando la situazione si è fatta seria, ci ha mandati a casa. Non ha declassificato documenti, appena ha vinto ha rinunciato ad arrestare Hillary Clinton. Salviamo Dio e il Paese!», gli fa eco l’utente PatriotParty24. Anche sul forum 4chan, tanti si sentono traditi: «Wow, è un pugno nello stomaco»; «Sono sotto shock. Mi sento svuotato». Dove c’è rabbia c’è rissa. Uno se la prende con Tarrio perché non ha partecipato di persona all’assalto, essendo stato arrestato lunedì scorso e poi bandito da Washington: «Vaffanculo, hai fatto in modo di farti arrestare per una sciocchezza così da avere una scusa per non essere con noi a fare il tuo dovere patriottico. Sei scappato con la coda tra le gambe! Nessun ordine del tribunale avrebbe impedito a me di esserci. Non sei un patriota, sei un codardo». C’è poi chi è ancora al primo stadio del lutto: il diniego. Circola la teoria che il video del pentimento di Trump sia un falso oppure che abbia solo preso tempo. «Ti sbagli, non è finita per Trump, Qualcosa di grosso sta per accadere. Il male non prevarrà». Siti della destra come Breitbart e Daily Caller scelgono una copertura cauta, forse condizionati dalla fetta del partito che ora incolpa Trump non solo per l’assalto al Congresso ma anche per la sconfitta elettorale. C’è poi la linea del deputato della Florida Matt Gaetz o dell’ex candidata alla vicepresidenza Sarah Palin: ripetere che l’assalto sarebbe stato in realtà compiuto da attivisti di Antifa travestiti. Ma queste tesi fanno infuriare alcuni dei veri rivoltosi che sono orgogliosi e convinti di aver condotto un’impresa eroica: «Fa male vedere gente dare ad Antifa la gloria». Arriva il tweet del senatore texano Ted Cruz: fino a poche ore prima ha osteggiato la conferma della vittoria di Joe Biden, dopo la morte del poliziotto ferito nella sommossa parla di «attacco terroristico». Su Parler questa «indignazione ipocrita» viene accolta con disprezzo: «Non abbiamo fatto niente di peggio rispetto a Black Lives Matter», commenta il collettivo che gestisce il profilo Murder the Media (uccidi i media). Il loro mondo si è capovolto. La destra è quella che risponde «Blue Lives Matter» (blu come le divise degli agenti) agli slogan di Black Lives Matter. «Una cosa che ho capito durante l’assalto al Congresso —racconta su Twitter Elijah Shaffer, reporter conservatore diThe Blaze che era sul posto — è che c’è una crescita esponenziale del risentimento verso la polizia nella destra conservatrice, dovuta anche al fatto che in questi mesi gli agenti hanno applicato i lockdown anti-Covid. Strano vedere le cose capovolgersi». Ricercati dalle autorità, timorosi di essere inseriti in una no-fly list, licenziati o sospesi al lavoro (sta succedendo anche questo), ora i rivoltosi rischiano 10 anni di carcere per vandalismo o distruzione di monumenti e statue, a causa di un ordine esecutivo approvato in estate proprio dal loro presidente durante le manifestazioni di Black Lives Matter.

Kamala Harris: cortocircuito liberal sulla copertina di Vogue. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 12 gennaio 2021. Cortocircuito nel politicamente corretto. Nel mirino dei liberal questa volta c’è la rivista Vogue, accusata di “razzismo” per aver mancato di rispetto alla vicepresidente degli usa Kamala Harris pubblicando due foto dal look eccessivamente “casual” della senatrice americana, facendola sembrare la pelle “sbiancata” e ritraendola con delle normali converse sneakers ai piedi. Come riporta l’Huffpost, Vogue, secondo la ricostruzione, ha deciso senza avvisare lo staff di Harris, di usare un ritratto più istituzionale per la copertina digitale e di riservare la foto contestata e “casual” per la copertina cartacea. Di lì a poco, infatti, “Vogue” ha pubblicato un’altra immagine meno casual della senatrice: Kamala Harris in tailleur pantaloni Michael Kors azzurro polvere e la didascalia “Mrs. America”.

Liberal infuriati con Vogue. Troppo tardi, per la polemica era già entrata nel vivo. Scegliendo quest’ultima foto, ha scritto il critico senior del Washington Post Robin Givha , la rivista non ha dato a Harris il “dovuto rispetto”. “Che disastro”, ha scritto Wajahat Ali, collaboratore di sinistra del New York Times. “[Il direttore di Vogue] Anna Wintour non deve davvero avere amici e colleghi neri”. Peccato che, come ha confermato il corrispondente della Cbs Vladimir Duthiers, sia il fotografo, sia il giornalista che si è occupato dell’articolo siano di colore. Il fotografo, infatti, è Tyler Mitchell, che è diventato il primo fotografo nero a scattare per una copertina di Vogue America quando ha fotografato Beyoncé per il numero di settembre 2018 della rivista. Mitchell ha pubblicato solo una delle copertine su Instagram, quella di Harris in abito blu.

Il cortocircuito del politicamente corretto. Ai liberal non basta che Kamala Harris sia finita sulla copertine di Vogue, storico periodico mensile fondato nel 1892 a New York da Arthur Baldwin Turnure: no, ci deve andare con un look che i fan del politicamente corretto ritengono consono. Le converse? No, non abbastanza alla moda per i palati fini della critica liberal. Che per la loro beniamina volevano ben altro. Come ricorda Fox News, Vogue, una rivista non certo filo-trumpiana o conservatrice, non voleva ferire o danneggiare l’immagine di Harris. “Al contrario – sottolinea l’emittente Usa –  ha confessato agli organi di stampa di aver usato l’immagine di Harris con le scarpe da ginnastica perché ha catturato la sua natura autentica e accessibile, che riteniamo sia uno dei tratti distintivi dell’amministrazione Biden-Harris”. Vogue, dunque, voleva catturare un’immagine di Kamala Harris accessibile e “popolare” ma i liberal hanno ritenuto quest’atteggiamento offensivo e “razzista”. Incredibile? No, per come ci ha abituato il politically correct, con il suo moralismo puritano e quel snobismo figlio dei salotti più chic. Se a Kamala Harris le copertine sono piaciute, non è dato saperlo. Nel frattempo, la vicepresidente, riporta l’agenzia Agi, è intervenuta nel dibattito politico accusando il governo di aver usato due pesi e due misure nella risposta alle mobilitazioni di Black Lives Matter da una parte e all’assalto dei supporter di Donald Trump al Campidoglio. “Abbiamo visto due sistemi di giustizia, in uno dei quali gli estremisti sono stati lasciati prendere d’assalto il Campidoglio e un altro che ha gettato gas lacrimogeni sui manifestanti pacifici la scorsa estate”, ha detto Harris durante la presentazione delle nomine al Dipartimento di Giustizia, “sappiamo che questo è inaccettabile. Sappiamo di dover essere meglio di così?”.

Da "rainews.it" il 12 gennaio 2021. Kamala Harris sulla copertina di Vogue di febbraio era destinata a far discutere ma probabilmente il mensile di moda più influente non si aspettava la pioggia di critiche rimbalzate sui social subito dopo la diffusione di due anticipazioni. Sul banco degli imputati, il volto più chiaro del solito e lo stile troppo casual.  In particolare, in uno degli scatti, la prima vice presidente donna e afroamericana degli Stati Uniti indossa le amate sneaker Converse, sfoggiate in più occasioni in campagna elettorale, un completo sportivo e ha sullo sfondo due grandi drappi verde e rosa, i colori dell'associazione studentesca Alpha Kappa di cui faceva parte quando studiava alla Howard University. Il volto è "sbiancato" e lo sguardo ricorda Jennifer Beals nel ruolo di Alex in “Flashdance”, si legge su Twitter. Un altro utente definisce la foto "un pasticcio slavato". "Kamala Harris ha la pelle del colore delle donne nere e Vogue ha comunque sbagliato le luci", scrive. Insomma alla fine ne è quasi scoppiato un caso politico mentre dallo staff di Kamala Harris non nascondono la sorpresa: "Non era quella la foto su cui ci eravamo accordati". Il magazine ha divulgato anche un altro scatto, più glamour e istituzionale. La Harris indossa una giacca azzurra, bandierina americana sul rever, braccia incrociate e sfondo dorato, "per rispondere alla serietà del momento storico e al ruolo che è chiamata a giocare nel guidare il nostro paese". La foto istituzionale sarà la cover della versione digital della rivista e sarà comunque tra quelle inserite all'interno del numero di febbraio. Le critiche hanno investito direttamente Anna Wintour, direttrice del giornale. "La Wintour se ne deve andare", ha commentato una fan paragonando la copertina di "Vogue" con quella dedicata alla Harris da "Elle" in novembre e rincarando la dose sulle critiche di insensibilità alle questioni della razza rivolte negli ultimi mesi alla "regina della moda". "Che pasticcio" ha scritto la collaboratrice del NY Times Wajahat Ali. "Anna Wintour non deve avere amici e colleghi neri. Scatterei foto gratis di Kamal Harris con il mio Samsung e sono certa che sarebbero migliori della copertina di Vogue". La rivista ha smentito di aver schiarito la pelle di Harris dopo la seduta fotografica, ma non è bastato a fermare le critiche. "La foto in sé non è tremenda. Ma è molto inferiore agli standard di Vogue. Non ci hanno pensato, come un compito finito la mattina stessa della consegna" ha twittato l'attivista LGBTQ Charlotte Clymer. Anche il Washington Post è intervenuto contro la "Bibbia della moda" per la cover che giudica "troppo familiare, troppo facile", paragonando la foto all'editoriale del Wall Street Journal che aveva dato alla prossima first lady, Jill Biden, della "ragazzina", chiedendole di rinunciare a farsi chiamare "dottore". "La copertina non è sufficientemente rispettosa di Kamala Harris", scrive Robin Givahan del Wp, "come se le desse del tu senza permesso". Il servizio fotografico è stato affidato a Tyler Mitchell, balzato alla fama a 23 anni nel 2018 con una foto di Beyoncé e in sua difesa si è mossa Anna Wintour in persona: "Non era assolutamente nostra intenzione sminuire in alcun modo l'importanza dell'incredibile vittoria della vice presidente eletta", dice. "Alla redazione di Vogue - continua - sono piaciuti gli scatti di Tyler Mitchell e ha creduto che un'immagine più informale catturava la natura autentica e cordiale della vicepresidente eletta Harris, la quale è anche il tratto distintivo dell'amministrazione Biden/Harris". Se la Harris è rimasta davvero scontenta, non lo ha fatto ancora sapere. Quella che invece potrebbe esserci rimasta male è Melania Trump: in quattro anni di Casa Bianca la terza moglie di Donald Trump non ha ottenuto nessuna cover story sui magazine di moda pur avendo un look e un passato da modella. Cosa di cui il marito si era lamentato a fine dicembre attaccando il "fashion system" per aver snobbato "la First Lady più elegante di tutta la storia americana". 

Tutti contro The Donald. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 12 gennaio 2021. Non bastava l’ingiustificabile e gravissima censura dei magnati della Silicon Valley e degli oligarchi dei social, l’esclusione della piattaforma Parler da Google e da tutti gli store, la “purga” a cui sono stati sottoposti  gli “influencer” e opinionisti conservatori di tutto il mondo: la dittatura del politicamente corretto si abbatte su tutto ciò che ha a che fare con Donald Trump. Dopo l’assalto al Campidoglio dei sostenitori del tycoon dello scorso 6 gennaio, che ha portato alla morte di cinque persone, e che ha in qualche modo sancito l’ingloriosa uscita di scena di The Donald, una nube di conformismo si addensa su chiunque abbia manifestato simpatie per il tycoon o che sia riconducibile in qualche modo al Presidente Usa.

Anche il Golf scarica The Donald. Nulla rimane escluso, a cominciare al golf. Come riporta l’agenzia LaPresse, la Pga of America ha deciso di tagliare i legami con il presidente uscente degli Stati Uniti votando a favore di una proposta di privare dell’organizzazione del Pga Championship 2022 il Trump National Golf Club di Bedminster, in New Jersey. È la seconda volta in pochi anni. Il presidente della Pga Jim Richerson ha annunciato che il Consiglio ha votato per esercitare il suo diritto di “terminare l’accordo” con il Trump National. “Ci troviamo in una situazione politica non di nostra creazione”, ha detto in un’intervista telefonica ad AP Seth Waugh, Ceo della Pga of America. “Siamo fiduciari per i nostri membri, per il gioco, per la nostra missione e per il nostro marchio. Il danno avrebbe potuto essere irreparabile. L’unico vero modo di agire era andarsene”, ha aggiunto. E sempre nel mondo dello sport, nel mirino della sinistra dem è finito anche il quarterback della Washington Football Team, Taylor Heinicke, colpevole, dicono i detrattori, di essere un sostenitore del Presidente Usa. Ma non finisce qui. Nei giorni scorsi anche Shopify, la piattaforma dell’e-commerce con oltre 800.000 esercenti in tutto il mondo, ha deciso di scaricare Donald Trump mettendo offline i siti gestiti dalla campagna del presidente e dalla Trump Organization in risposta alle violenze in Campidoglio. La società ha spiegato che le sue politiche vietano alla piattaforma di sostenere le organizzazioni che promuovono la violenza. Guai anche per l’avvocato del tycoon Rudolph Giuliani: l’Ordine degli Avvocati di Manhattan ha avviato un’indagine per rimuovere l’ex sindaco di New York dai suoi membri.

La caccia alle streghe dei “trumpiani” in Italia. La caccia alle streghe degli anti-trumpiani dell’ultim’ora si avverte anche in Italia. Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano, scrive: “Vorrei che Salvini, Meloni, la Maglie, insieme allo show permanente del Covid governo ladro continuassero a funzionare come promemoria. A ricordarci che i sovversivi se ne sono andati, ma che continuando a guardare da un’altra parte quel Trump, o un altro Trump, potrebbe presto ritornare e sarebbe molto, molto peggio”. “Salvini e Meloni non se la possono cavare solo invocando la fine della violenza a #CapitolHill. Serve una condanna netta, una presa di distanza senza ambiguità da #Trump, che ha la responsabilità politica di un attacco gravissimo contro la democrazia americana” scrive ancora Twitter il vice ministro all’Economia Antonio Misiani, del Pd. Grillini e Pd dimenticano però che se c’è un “trumpiano” vero, che ricevette persino la benedizione con un famoso tweet del tycoon (“Giuseppi”) quello è il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, colui che spalancò le porte all’ex attorney general William Barr e a John Durham facendogli incontrare con i vertici dei nostri servizi segreti nell’estate 2019.

La lunga lista delle pattaforme online che hanno cacciato Donald Trump. Prima Facebook e Twitter, poi la "chiusura" di Parler. E adesso Snapchat e TikTok e tanti altri. Ecco l'elenco di tutti i siti che in queste ore hanno sbarrato le porte al repubblicano. Giulia Egizi su  L'Espresso l'11 gennaio 2021. Nelle ore successive all'assalto a Capitol Hill da parte di gruppi di manifestanti pro Trump, Facebook e Twitter hanno deciso di muoversi per bloccare gli account del quasi ex Presidente degli Stati Uniti, accusato di aver più volte incitato alla violenza attraverso i suoi messaggi (e silenzi). Una decisione che ha diviso gli osservatori: da una parte chi ha definito l'intervento dei due social come una vera “svolta epocale” nel “momento più buio della storia americana”, e chi invece lo ha definito tardivo, inutile o addirittura un grave attacco alla libertà di stampa. Facebook e Twitter non sono tuttavia le uniche piattaforme digitali che hanno deciso di staccare la spina alla comunicazione del tycoon con l'intento di arrestare, o quantomeno tamponare, “l'effetto Trump”. Il sito statunitense Axios ha stilato una lista delle piattaforme , ancora in aggiornamento, che hanno bannato Donald Trump o gli account legati al suo staff della comunicazione. Un elenco che nelle ultime ore si è ingrossato non poco. Già la scorsa estate, la piattaforma di live streaming Twitch, di proprietà di Amazon, aveva temporaneamente disattivato il Trump Twitch Channel, in seguito alle proteste del Black Lives Matter. Trump infatti utilizzava il portale, specializzato nella trasmissione di partite con i videogiochi, per divulgare in tempo reale le proprie campagne elettorali e conferenze stampa. Oggi Twich, come spiega un portavoce dell'azienda, ha compiuto “il passo necessario”, chiudendo definitivamente il canale riservato all'ex inquilino della Casa Bianca, al fine di “proteggere la comunità ed evitare che la piattaforma sia utilizzata con il solo scopo di inneggiare alla violenza”. Drastica è stata anche la posizione assunta da Shopify, piattaforma canadese di e-commerce. La piattaforma, che consente la creazione di negozi online, ha disposto la chiusura di due negozi affiliati a Trump per “la violazione delle sue politiche in tema di violenza”. Nella lista redatta da Axios compare anche Google che ha ritirato dal suo store Parler, un'app lanciata nel 2018 come piattaforma di microblogging all'insegna della totale libertà di parola e definita dai fondatori John Matze e Jared Thomson “un luogo pubblico senza schieramenti”. Le regole di moderazione ultraflessibili adottate da Parler hanno reso la stessa applicazione uno spazio in cui abbondano commenti violenti e talvolta discriminatori. La decisione di Google è andata ben oltre quella precedente di Apple, che eludeva la rimozione dell'app attraverso l'eventuale presentazione di un piano di moderazione dei contenuti. Anche Amazon ha deciso di rimuovere Parler dai propri server, bollandolo come un social che non ha saputo moderare in modo adeguato i contenuti dei propri utenti. Nessun lucchetto, ma un primo avvertimento, per il canale YouTube (proprietà di Google) della campagna di Trump. Il portavoce Alex Joseph, ha dichiarato che «qualsiasi canale che pubblichi nuovi video con false affermazioni e in violazione delle normative, riceverà ora uno strik e- un avvertimento -, una sanzione che ne limita temporaneamente il caricamento e la pubblicazione streaming». Inoltre, la rimozione definitiva dei canali da Youtube si determinerebbe a seguito di tre strike definitivi nello stesso periodo di novanta giorni. L'intervento di Youtube si è mostrato ben più mite rispetto a quello degli altri concorrenti, limitandosi a cancellare il video di mercoledì sera in cui il tycoon alludeva alle elezioni rubate, senza sospendere il suo account ufficiale. Per Youtube, il video violava “le politiche sulla diffusione dei brogli elettorali”. Stop a tempo indeterminato, o almeno fino all'insediamento del nuovo Presidente americano , anche per l'account Instagram (dal 2012 di proprietà Facebook) di Trump. Il post pubblicato dall'amministratore delegato Mark Zuckerberg su Facebook, infatti, non lascia spazio a interpretazioni: “Riteniamo che i rischi nel permettere al Presidente di utilizzare il nostro servizio in questo periodo siano semplicemente troppo grandi”. Rachel Racusen, portavoce di Snapchat, ha dichiarato invece di aver chiuso l'account del presidente Trump per la presenza insistente di richiami alla violenza. Sulla stessa linea si pone TikTok: «I comportamenti ostili e la violenza non hanno spazio su TikTok», afferma una portavoce ad Axios. In queste ore Tik Tok sta promuovendo la rimozione di contenuti e tentando di reindirizzare i propri hashtag alle linee guida della community. Stripe è invece un'azienda statunitense che attraverso un sistema di software permette a privati e aziende di ricevere pagamenti via internet. Dalle colonne della propria sede a San Francisco ha annunciato che non elaborerà più pagamenti per le campagne di Trump. Un'ulteriore prova di come l'unione tra Trump e le piattaforme social sia giunta effettivamente al capolinea. Cacciata di Trump anche da Discord, piattaforma dedicata alle chat vocali e al gaming, che ha disposto la chiusura del canale The_Donald, divenuto oggetto di indagine a causa della sua palese connessione a un forum online utilizzato per incitare alla violenza,pianificare un'insurrezione armata negli Stati Uniti e diffondere disinformazione relativa alla frode elettorale negli Stati uniti del 2020.

Ilaria Zaffino per “la Repubblica” l'11 gennaio 2021. «Continuerà a parlare sui giornali, alle televisioni, è evidente che continuerà a parlare. Mica sto piangendo sulle sorti di Trump. È una questione di principio. Ha dell' incredibile che un' impresa economica la cui logica è volta al profitto, come è giusto che sia, possa decidere chi parla e chi no. Non è più neanche un sintomo. È una manifestazione di una crisi radicale dell' idea democratica e che alcuni democratici non lo capiscono vuol dire che siamo ormai alla frutta». Non usa certo mezzi termini Massimo Cacciari di fronte alla clamorosa espulsione di Donald Trump da tutti i social network, ma soprattutto da Twitter e da Facebook. «Adesso i mezzi con cui uno fa politica, piacciano o non piacciano, sono questi», continua Cacciari, «io ho smesso anche per questo motivo, non esiste per me. Il mezzo fa il messaggio, il mezzo è il messaggio, come sappiamo da qualche secolo».

Professor Cacciari, se lo immaginava che saremmo arrivati a questo?

«Che un politico, costretto per svolgere il suo mestiere a usare questi mezzi, possa averne accesso in base a decisioni del capitalista che detiene assoluto potere su questi mezzi stessi, a me pare inaudito. Dovrebbe esserci un' autorità politica costituita sulla base di procedimenti di legge, come quella per la privacy, un' autorità che sulla base di principi della Costituzione dica Trump non può parlare. Benissimo, allora io applaudo. Poi è evidente che Trump non dovrebbe parlare, che un politico non deve essere messo nelle condizioni di incitare all' odio, alla violenza: ma chi lo decide? Quello che fino al giorno prima era il suo sostenitore? Che non si capisca lo scandalo di questa cosa vuol dire che ormai siamo proprio pronti a tutto. Lo diceva anche Lacan: volete un padrone? Lo avrete».

Avrebbero potuto agire diversamente?

«Avrebbero dovuto. Twitter e Facebook sono dei privati, non possono togliere la parola. Oppure stabiliscano delle regole, mi diano un loro codice etico, come c' è nelle imprese, rendano pubblico questo codice in base al quale concedono l' accesso alle loro reti, indichino chi e cosa ha diritto di parola nelle loro reti e cosa no. Se non c' è una struttura politica che decide un controllo preciso su questi strumenti di comunicazione e di informazione decisivi ormai per le sorti delle nostre democrazie, è evidente che saranno gli Zuckerberg di questo mondo a decidere delle nostre sorti».

Secondo lei, assisteremo a nuovi casi, ci sarà una deriva in tal senso?

«E che ne so io? Lo chieda a Facebook. O a Twitter».

Twitter è percepita come una comunità dai suoi appartenenti e Trump ne ha violato le regole, istigando alla violenza, per questo è stato espulso. Potrebbe essere una motivazione.

«Non c' entra la motivazione. E poi la comunità che si è costituita intorno a questi mezzi coincide con la comunità politica, con lo spazio del lavoro politico».

È qui che sta dunque l'errore?

«È una tendenza storica, non è un errore. Non c'entra la storia con gli errori: quelli si fanno in matematica, in fisica, in biologia. È inevitabile fare politica su questi mezzi, questa è la tendenza storica, inappellabile. Ma è inconcepibile che quei mezzi siano proprietà di un privato che decide o meno il mio accesso al mezzo, senza alcuna possibilità di appello del pubblico, senza alcuna forma di controllo. Perché questo avviene, il pubblico è totalmente impotente sull' uso di quei mezzi, fuorché in Cina, ovviamente. E in Russia. È capitato a tutti noi di chiederci: ma è possibile che qualcuno possa aprire un profilo su Facebook a nome mio? Provi ad andare alla polizia postale e a chiedere come si fa a chiuderlo. Ma che vuoi chiudere?».

E allora che cosa ci resta da fare?

«Serve un' autorità politica legalmente costituita che, sulla base di principi della costituzione di quel Paese, può decidere se Trump non ha più accesso ai mezzi di comunicazione. Perché? Perché incita all' odio, alla violenza, perché è nazista, perché è razzista. E sulla base di principi costituzionalmente sanciti, o con mezzi analoghi a quelle che noi chiamiamo costituzioni, interviene. È palese che è questa la linea democratica, ma ormai».

Siamo al paradosso della tolleranza di Popper: nel nome della tolleranza non possiamo tollerare gli intolleranti?

«La tolleranza è una parola odiosa nel mio vocabolario. Non si tollera se non ciò che ritengo inferiore. Quindi la tolleranza postula una gerarchia di valori. Meglio essere tolleranti che intolleranti, ovviamente. Dopodiché se pensiamo che i Trump si sconfiggano così, saluti. Magari sconfiggeremo i Trump, più difficile sconfiggere qualche altro: forse non è proprio Trump il pericolo. Trump si manda a casa, come si stava già facendo. Twitter o non Twitter era stato mandato a casa. È folle che un politico si comporti come lui, non è questo il problema. Non è che noi possiamo decidere su questioni di principio in termini occasionali, quello ci piace allora parla, quell' altro non parla. Ma siamo pazzi?».

Giampiero Mughini per Dagospia l'11 gennaio 2021. Caro Dago, mentre leggo sulla “Repubblica” l’intervista a Massimo Cacciari in cui il filosofo veneziano lamenta che sia “un capitalista privato” (Google, Twitter) a “togliere la parola” a un politico (in questo caso Donald Trump) che può piacerci o non piacerci ma che ha il diritto di comunicare con la sua gente e di far valere le sue opzioni – senza essere pienamente d’accordo con Cacciari nel caso specifico, si tratta di argomentazioni cui sono sensibile - mi arriva dalla Francia una comunicazione da Gabriel Matzneff, il grande scrittore francese con cui sono in rapporti amicali. E’ successo che dopo la pubblicazione in Francia di un libro in cui Vanessa Springora - una donna che quindicenne aveva avuto un’intensa relazione amorosa con Matzneff - lo aveva denunciato come un uomo che si era approfittato della sua giovane età e l’aveva “usata” né più né meno di come faceva contemporaneamente con altre minorenni, l’editoria francese  ha sprangato le sue porte a quello che è uno dei maggiori scrittori francesi contemporanei, fino a poco tempo fa un pupillo dell’editore Gallimard. Nessun editore francese ne vuole sapere del libro che Matzneff ha scritto questa estate, durante un soggiorno in Italia, Paese che lui ama molto e di cui conosce perfettamente la lingua. Nessuno, assolutamente nessuno. Eppure uno scrittore non ha altro mezzo di difendersi se accusato di malefatte che non scrivere un libro, altro che Trump cui è stata tolta la possibilità di lanciare delle bestialità su Twitter. Nella comunicazione che mi è arrivata, Matzneff scrive che se non ha tentato il suicidio dopo la pubblicazione del libro è solo perché voleva che arrivasse ai lettori la sua versione dei fatti, la sua versione dell’innamoramento per la ragazza quindicenne che oggi lo maledice. Ovviamente io non vedo l’ora di leggere questo libro. Verrà tirato in 200 copie dallo stampatore Kolytcheff. Le prime dieci copie su carta speciale e tutte firmate dall’autore sono prenotabili al prezzo di 650 euro ciascuna. Le rimanenti 190 copie sono prenotabili al prezzo di 100 euro ciascuna. Ovviamente io ho subito prenotato. Chi di voi volesse farlo deve mandare una mail a vanessavirus2020@gmail.com. Ciao, Gabriel. A presto.

Così i padroni della Rete diventano arbitri e giudici. Le polemiche dopo il blocco dei social di Trump. Salvatore Sica, Direttore di IN. DI. CO. Ordinario di diritto privato ( Informazione- Diritto- Comunicazione), su Il Dubbio il 9 gennaio 2021. Chiariamo subito un aspetto: le scene dell’irruzione a Capitol Hill dei giorni scorsi mettono profonda inquietudine, tanto più se si considera il contesto della democrazia americana fin qui considerata leading! Episodio di una gravità senza precedenti, che impone una reazione immediata, civile, culturale e secondo i rimedi di cui dispone l’ordinamento di quel Paese. Ma in misura analoga – sebbene travolta dall’ovvia prevalenza mediatica dei fatti di cronaca segnalati – in questo momento – e non è la prima volta – si è consumata un’altra vicenda che impone una riflessione altrettanto decisiva per le sorti della democrazia a livello globale. Zuckenberg, il padrone della comunicazione social del nostro tempo, ha disposto unilateralmente il “blocco” dei siti riconducibili a Trump sino alla cancellazione di alcuni post “censurati”. Anche in questo caso occorre chiarezza, per evitare equivoci e strumentalizzazioni, tipiche della nostra difficile epoca: il contenuto dei post incriminati è inaccettabile da qualsiasi punto di vista li si consideri. D’altro canto non c’è una sola della affermazioni del guru di Facebook e Twitter che non sia da sottoscrivere, quando sostiene: «Gli eventi scioccanti delle ultime 24 ore dimostrano chiaramente che il presidente Donald Trump intende utilizzare il suo restante tempo in carica per minare la transizione pacifica e legale del potere al suo successore eletto, Joe Biden»; ed ancora: «La priorità per l’intero Paese deve essere garantire che i restanti 13 giorni e quelli successivi all’inaugurazione passino pacificamente e in conformità con le norme democratiche». Ma il tema è un altro: chi è Zuckenberg per assumere la veste di “censore” del pensiero altrui, in quest’ipotesi di un presidente degli Usa, che io non avrei votato, ma comunque ancora in carica sino al 20 gennaio 2021? La risposta richiede un ragionamento più ampio. Da circa un ventennio è in atto un fenomeno senza precedenti, che la terribile stagione della pandemia ha accentuato ed agevolato: il passaggio definitivo alla società della comunicazione globale, in una situazione di rovesciamento delle realtà, nel senso che oggi è prioritariamente vero ciò che risulta dalla diffusione social rispetto alla stessa effettività dei fatti storici. Il processo ormai ha connotati, direi, di definitività: tutto è on line, le relazioni interpersonali, gli scambi commerciali, la medicina, la giustizia, la didattica scolastica, la pubblica amministrazione. In quest’orgia comunicazionale, certamente ricca di aspetti positivi – basti pensare a che cosa sarebbe stato il periodo di lockdown in assenza di strumenti di comunicazione avanzata – tuttavia passa in secondo piano un profilo rilevantissimo e decisivo: l’intero processo è nelle mani di pochi soggetti “privati” detentori dello “strumento” tecnologico, custodi gelosi del segreto algoritmico che alimenta il processo, “proprietari” di una mole smisurata di dati personali, che finiscono per “mercificare” gli stessi titolari a cui si riferiscono. Senza che nessuno aprisse gli occhi e mentre tutti erano pazzi della sbornia da social, si è determinato un’inversione di rapporti di forza tra la sfera del pubblico – cioè del potere costituito, di cui è emanazione il diritto, il sistema delle regole – e quella del privato. Oggi sono i governi ad aver necessità degli Over the Top della comunicazione e non il contrario. Anzi, questa deriva è così avanzata che proprio Zuckenberg non ha fatto mistero in più di un intervento di sognare una società «a misura della comunicazione», come quando ha avanzato di modificare le disposizioni dei vari ordinamenti che fissano un’età minima per accedere ai Social: egli propone sei anni, perché è bene che i bambini imparino subito – e magari anche prima di leggere a scrivere – a frequentare le autostrade della Rete, di cui egli ha il controllo. La gravità della situazione è ormai evidente allorché la stessa politica si “inginocchia” dinanzi a tale potere privato costituito: le stesse scelte di governo – e sfido a sostenere il contrario – spesso sono dominate dalla ricerca di qualche like in più o dall’accaparramento del maggior numero di followers; anzi, lo stesso ceto politico si “modella” sulla stagione della comunicazione, altrimenti non si spiegherebbe come alcuni mediocri, del tutto privi di contenuto, che sarebbero stati cacciati a pedate in una vecchia sezione di partito, oggi diventano personalità o consiglieri dei principi! Il disegno dei “padroni del vapore” della Rete pare avviarsi alla fase finale: la pretesa, dopo aver creato dipendenza dal mezzo su cui esercitano il controllo, di gestirne i contenuti, assurgendo ad arbitri, censori, giudici. Insomma, le immagini dei seguaci di Trump che profanano il tempio della democrazia americana mettono tristezza e creano allarme; la presa di posizione del guru dei Social è, ribadisco, non meno inquietante. Il Diritto deve con urgenza recuperare il proprio spazio. Deve farlo con le masse ignoranti ed eversive che sfondano vetri e porte del Campidoglio, deve farlo con le multinazionali della comunicazione, che è tempo che paghino le tasse in base al profitto che realizzano, che consentano con trasparenza di tracciare la sorte dei dati che raccolgono a nostra insaputa, che intervengano, su ordine di un potere pubblico, a bloccare prontamente non i soli account di Trump, ma anche quelli dei milioni di haters che ogni giorno inquinano il mondo con notizie false e ed affermazioni e video indecenti. Ma è urgente che almeno qualcuno si riprenda dall’ubriacatura in cui siamo immersi!

Jaime D'Alessandro per "la Repubblica" il 12 gennaio 2021. Parla Alec Ross, già consigliere all' innovazione di Hillary Clinton. "Si dovevano discutere regole certe all' inizio del mandato presidenziale". E della politica dice: "Soffre di un grave gap tecnologico" È stato il consigliere all' innovazione di Hillary Clinton quando era Segretario di stato sotto la presidenza Obama, ha scritto un libro denso e sorprendente sulla tecnologia intitolato "Il nostro futuro", ha corso per i democratici per la carica di governatore del Maryland nel 2018. Alec Ross, 49 anni alcuni dei quali passati nel nostro Paese, è fra i pochi politici americani che si muove con la stessa disinvoltura sia negli ambienti di Washington sia in quelli della Silicon Valley. Ora è tornato in Italia dove insegna presso la Bologna Business School in attesa di capire cosa vuol fare "da grande". Ed è da qui che ha seguito l' evolversi della situazione negli Stati Uniti.

Qual è stata la sua reazione alla notizia che Twitter aveva chiuso per sempre l'account di Donald Trump?

«Sono rimasto sorpreso perché per molti anni i social network non hanno fatto nulla, non hanno alzato un dito. Sono passati direttamente dalla passività al bando».

Cosa avrebbero dovuto fare Jack Dorsey che dirige Twitter e Mark Zuckerberg che è a capo di Facebook? E quando avrebbero dovuto farlo?

«Conosco personalmente entrambi. È stato lo stesso Jack Dorsey a creare il mio account Twitter mentre eravamo seduti uno a fianco all' altro su un marciapiede a Città del Messico nell' ottobre del 2009. Sono due persone molto intelligenti ma non sono saggi: ingegneri poco sofisticati quando si tratta di politica e di società. Avrebbero dovuto dialogare con Donald Trump e con tutti gli altri politici che gli somigliano, stabilendo anni fa regole molto chiare, confini che se superati avrebbero portato a conseguenze certe».

Ora però dovranno farlo e non solo negli Stati Uniti.

«Un sistema di regole chiaro e coerente è necessario. Ma dubito che lo possano progettare nella Silicon Valley, non ne hanno la capacità».

C'è chi sostiene che la cacciata di Trump da Twitter e l'allontanamento dalle altre piattaforme sia stata una mossa politica.

«L'hanno sicuramente potuto fare perché Trump ha perso le elezioni e aveva solo poche settimane a disposizione. Se avesse vinto e avesse comunque provocato una rivolta, non credo si sarebbero comportati alla stessa maniera i colossi del web. In parte è però anche frutto della pressione che queste compagnie ricevono dai loro stessi dipendenti e da una parte dei loro utenti negli Stati Uniti».

Si è dibattuto sul ruolo dei social network in politica, e non certo da oggi. Svolgono la funzione di un servizio pubblico in mani private. Ma non sono testate giornalistiche. Come vanno trattati e chi dovrebbe stabilire cosa sono?

«Abbiamo tre grandi questioni da affrontare: la sicurezza pubblica e come difendere le comunità vulnerabili e l' integrità democratica sul web; la questione della privacy e più in particolare sia i sistemi di tracciamento dei dati personali sia le cosiddette camere di eco che online creano dei gruppi isolati che aumentano la polarizzazione; infine il rispetto della libera concorrenza e l' equità del mercato digitale. Sono tutte questioni che richiedono l' intervento dei governi».

Quale è stato il reale impatto della politica e della propaganda online sulla politica di questi ultimi quattro anni? E cosa c' è di differente rispetto a quando lei lavorava con Hillary Clinton?

«I social network, ma anche radio e tv della nuova destra estrema americana, hanno creato un universo alternativo alla realtà. Quando lavoravo per Barack Obama o per Hillary Clinton la disinformazione era un fenomeno comune, ma nulla che assomigliasse ai livelli che abbiamo raggiunto oggi. Ora è un mondo parallelo».

Alcuni alti dirigenti di Facebook, Mike Schroepfer per esempio che è a capo di tutta la parte tecnologica, sostengono che le polarizzazioni sono sempre esistite. Specie negli Stati Uniti.

«Mike Schroepfer conosce la tecnologia come pochi altri ma non sa nulla di geopolitica. Gli Stati Uniti sono più polarizzati oggi di quanto non lo siano stati durante la Guerra Civile e l' azienda di Mike ha una grossa responsabilità. Twitter ha di fatto dato alla luce il Donald Trump politico e ora lo stesso Twitter lo ha messo a tacere. Peccato abbiano agito a danni ormai fatti. Trump sapeva esattamente cosa stava facendo in questi anni mentre usava i social network e conosceva le conseguenze molto meglio dei giovani ingegneri che popolano i colossi della tecnologia. Già questo dice tutto».

Cosa spera che accada ora?

«Mi aspetto che i consigli di amministrazione di queste società attuino un cambiamento reale. È evidente che ci sono nuove figure che devono essere assunte e altre che andrebbero licenziate. La prima cosa che dovrebbe accadere è una revisione profonda del sistema gerarchico di queste multinazionali. Mark Zuckerberg, per esempio, ha troppo potere e ha già mostrato di non saperlo gestire. Ebbi con lui una discussione sulla destra estrema. Chiaramente non comprende le conseguenze che la sua piattaforma ha sulla politica e sulla società».

Il processo per regolare le grandi piattaforme web è stato avviato sia negli Usa sia in Europa, anche se con modi e toni differenti. Crede che i politici chiamati a scrivere queste leggi siano preparati?

«No, questo è l'altro grosso problema: c'è più conoscenza della tecnologia nelle scuole dei miei figli che nella maggior parte dei governi. È imperativo che la politica sia europea sia americana aumenti il livello di comprensione su questi temi».

Lei ha corso per i democratici per una poltrona da governatore. Qual è stata la sua personale esperienza nell'uso dei social network?

«Ho provato a usarli in maniera divertente e con passione, ma sono cose che non funzionano più molto. I social media sono diventati un luogo molto arrabbiato, cupo, dove come sappiamo l'odio funziona bene».

Ci proverà di nuovo a scendere in politica?

«Forse, ma ci sono molti altri modi per cambiare il mondo. La politica è solo uno fra tanti».

(ANSA-AFP il 12 gennaio 2021) - Twitter ha chiuso "oltre 70mila account" legati alla teoria cospirazionista di estrema destra QAnon: la decisione segue l'attacco contro Capitol Hill da parte di un gruppo di sostenitori del presidente Donald Trump. Lo ha annunciato la stessa società. Alla luce "dei violenti eventi di Washington DC e dell'accresciuto rischio di pericolo, venerdì pomeriggio abbiamo cominciato a sospendere in modo permanente migliaia di account dedicati soprattutto alla condivisione di contenuti QAnon", ha reso noto Twitter. "Da venerdì oltre 70.000 account sono stati sospesi come risultato dei nostri sforzi, con molti casi di numerosi account gestiti da un singolo individuo".

Da "il Giornale" il 12 gennaio 2021. Twitter crolla in Borsa nella prima seduta dopo la rimozione dell' account di Donald Trump. Il titolo «social» ha cominciato la seduta a Wall Street segnando perdite dell' 11%, per poi recuperare a metà seduta ma restando sempre molto negativo. A un' ora dalla chiusura le azioni, quotate al Nasdaq, perdevano il 6 per cento. Negativo anche Facebook, con le azioni in calo di oltre il 3% per lo stesso motivo, quello della censura a Trump. Venerdì scorso 8 gennaio il Twitter ha annunciato di aver bandito definitivamente il presidente Usa uscente dalla propria piattaforma «a causa del rischio di ulteriori incitazioni alla violenza». Con la cancellazione dell' account di Trump, Twitter ha perso uno dei suoi più grossi megafoni all' interno della piattaforma. The Donald contava oltre 88,7 milioni di follower, un seguito enorme, tra i profili più seguiti sul social dopo Cristiano Ronaldo (90 milioni), Rihanna (104), Katy Perry (109), Justine Bieber (113) e Barack Obama (127). Secondo i dati raccolti da Investing.com, Twitter è in procinto di riportare per la prima volta vendite trimestrali superiori a un miliardo di dollari quando presenterà il bilancio il prossimo mese. Ma nonostante le buone prospettive di crescita, sembra che aver staccato la spina a Donald Trump abbia disinnescato l' entusiasmo degli investitori che comunque hanno contribuito alla crescita di Twitter negli ultimi anni.

Anna Masera per "la Stampa" il 12 gennaio 2021. L'8 gennaio 2021, giorno in cui Twitter ha sospeso definitivamente l'account del presidente degli Stati Uniti Donald Trump dopo il tentativo di colpo di Stato al Campidoglio di Washington, sarà ricordato come una data spartiacque per le piattaforme digitali dei social media. Oltre a Twitter, anche Facebook, Youtube, Snapchat, Spotify, TikTok - e poi anche Amazon, Apple e Google che hanno disconnesso la app Parler -, sono tra quelle che hanno vietato o limitato gli account affiliati a Trump. Una svolta che ieri sera è arrivata anche in Italia, con Twitter che ha «temporaneamente limitato» l'account del quotidiano Libero. Ne abbiamo parlato con Derrick De Kerckhove, esperto di comunicazione digitale: sociologo belga naturalizzato canadese, ha diretto per 25 anni fino al 2008 il McLuhan Program in Culture & Technology dell'Università di Toronto prima di trasferirsi in Italia, dove è direttore scientifico della rivista Media Duemila. Diversi politici hanno espresso preoccupazione per la libertà di espressione, anche se a Trump non mancano i mezzi su cui esprimersi sia attraverso i media mainstream sia attraverso gli account social istituzionali della Casa Bianca. Ieri Angela Merkel ha fatto sapere di ritenere che il blocco sui social di Trump sia "problematico". Condanna bipartisan anche dalla Francia e da molti esponenti Ue.

Hanno ragione?

«È problematico perché crea un precedente che potrebbe avere conseguenze in futuro in altre circostanze, è naturale che ci si chieda se sia giusto che aziende private detengano tanto potere. Abbiamo bisogno di inventare una nuova forma di supervisione democratica. Ma è stata una risposta di emergenza, nell' immediato si è trattato di legittima difesa: Trump era stato avvertito più volte».

Gli stessi politici che insorgono per difendere la libertà di espressione di Trump non lo fanno per i cittadini comuni che praticano il cosiddetto hate speech o la disinformazione. Le piattaforme social sostengono che i loro termini di servizio valgono allo stesso modo per tutti i cittadini digitali. È così?

«Le piattaforme social sono aziende private che offrono un servizio e hanno loro regole, chi aderisce deve accettarle, quindi in casa loro hanno ragione loro. Però se qualsiasi comune cittadino avesse infranto le regole come il presidente Usa ha fatto in questi anni, sarebbe stato cacciato dai social molto prima. Quindi la domanda da farsi è perché abbiano aspettato così a lungo prima di applicare i loro termini di servizio a Trump. Appare chiaro che fino a settimana scorsa siano valsi due pesi e due misure. D'altra parte, perdere un cliente popolare e coinvolgente - nel bene e nel male - come il presidente americano era una scelta scomoda per i social network che campano di questo. Non a caso ieri c' è stato un tonfo dei titoli di Twitter e Facebook quando ha aperto Wall Street. L'errore è stato lasciare che i social lucrassero su odio e disinformazione».

Si tratta di censura?

«In questo caso no. Se le persone usano i social per invitare alla violenza vanno fermate così come sarebbero fermate se lo dicessero in diretta televisiva. Se i social sono il luogo i cui si forma l'opinione pubblica, devono essere regolati allo stesso modo della televisione».

Come conciliare il rispetto dei diritti fondamentali con una maggiore responsabilità delle piattaforme social?

«L'errore è lasciare decidere a Facebook o Twitter sui nostri diritti. Serve una riflessione. Ma non abbiamo ancora assorbito il fatto che siamo entrati da parecchio tempo in una cultura ibrida - letterata e digitale - dove le regole di comportamento e le relative conseguenze sono cambiate. La libertà di opinione come si intendeva nell' era analogica non si presta alla cultura digitale. La legge contiene indicazioni per far fronte alle falsità e all' incitazione alla violenza, ma per casi individuali, non per movimenti di massa e discorsi sulla rete. La necessità di una maggiore regolamentazione del mondo online non si può delegare ai privati e richiede competenze digitali. Se la proposta della Commissione europea del Digital Services Act dello scorso 15 dicembre sarà approvata, l'6Europa potrà esigere che le piattaforme spieghino in maniera trasparente come moderano i contenuti, stabiliscano in termini chiari quali sono le regole e informino su decisioni come quella di sospendere un account. Spero che sia d' ispirazione in tutto il mondo».

Chiara Rossi per startmag.it il 12 gennaio 2021. Google e Microsoft sono tra i 960 grandi finanziatori, tra aziende e singoli individui, dell’inaugurazione di Joe Biden alla presidenza il prossimo 20 gennaio. Tra le altre società tecnologiche che stanno iniettando fondi nelle casse dell’inaugurazione del prossimo inquilino della Casa Bianca anche Qualcomm, Comcast, Verizon e Charter Communications mentre l’America corporate taglia le donazioni ai repubblicani che hanno votato contro la certificazione della vittoria di Biden — dopo l’assalto a Capitol Hill — e mentre i social mettono al bando Donald Trump. Il comitato di Biden non ha elencato i totali individuali né fornito ulteriori dettagli sulle donazioni. Tuttavia sarà tenuto a farlo entro 90 giorni dall’insediamento. Ma quelle stesse big tech che oggi sostengono il democratico Biden avevano fatto lo stesso per il presidente eletto repubblicano nel 2016. Sempre Google e Microsoft hanno inviato denaro e fornito servizi per l’insediamento di Trump nel gennaio 2017. Le aziende tecnologiche hanno sempre donato alle inaugurazioni presidenziali, indipendentemente dal partito politico, per aumentare la loro influenza sull’amministrazione entrante. Basti pensare a Facebook. Oggi il fondatore e ceo Mark Zuckerberg banna l’account di Donald Trump da Facebook ma nel 2016 ha versato 1 milione di dollari alla Convention repubblicana di Cleveland che nominò proprio il Tycoon.

Tutti i dettagli. Google (di proprietà Alphabet Inc.) e Microsoft sono tra le oltre 960 realtà (società, enti, organizzazioni e individui) che hanno donato più di 200 dollari per l’inaugurazione del presidente eletto Joe Biden, secondo un elenco pubblicato dal comitato che ha organizzato l’evento. Google è stato incluso nell’elenco perché ha fornito protezioni di sicurezza online gratuitamente al comitato inaugurale, ha affermato José Castañeda, un portavoce di Google. Stessa cosa che ha fatto nel 2016. Come ha riportato Politico, Google ha fornito servizi tecnologici, tra cui un live streaming su YouTube dell’inaugurazione, oltre a una donazione in contanti non specificata, per l’insediamento di Donald Trump nel gennaio 2017. Non va dimenticato inoltre che alla fine di ottobre, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha intentato una causa antitrust contro Google. E ora il presidente eletto Biden dovrebbe portare avanti le stesse indagini avviate dal suo predecessore. Anche Microsoft che oggi figura tra i finanziatori dell’insediamento di Biden, ha fatto lo stesso per Trump nel 2016. Secondo il rapporto sappiamo che il colosso di Redmond ha finanziato l’inaugurazione di Trump 500mila dollari, metà del suo contributo era in contanti e metà in “prodotti e servizi”. Tornando a Biden, il comitato ha ricevuto donazioni anche da Boeing. Altre società che hanno donato sono Qualcomm, Comcast e Charter Communications. Il Comitato inaugurale presidenziale ha ricevuto donazioni anche dalla Federazione americana degli insegnanti e dalla United Food and Commercial Workers. Anche le aziende sanitarie sono in primo piano nell’elenco, tra cui Anthem, il gigante dell’assicurazione sanitaria, MedPoint Management, che fornisce servizi di gestione a gruppi di medici, e Masimo Corporation, un produttore di dispositivi elettronici di monitoraggio dei pazienti. Non ci sono limitazioni legali su quanto un donatore può dare a un comitato inaugurale, ma il comitato di Joe Biden ha volontariamente limitato i contributi dei singoli a  500.000 dollari e delle società a 1 milione di dollari. Il team di Biden ha proibito inoltre donazioni dalle industrie del petrolio, del gas e del carbone e dai lobbisti registrati. Se Microsoft, Google, Verizon e Anthem avevano finanziato anche il comitato inaugurale di Trump nel dicembre 2016. Ci sono dei grandi assenti quest’anno. Come Pfizer e Dow Chemical che entrambi hanno rivelato di aver versato 1 milione di dollari per l’insediamento di Trump. Exxon Mobil, Amgen e Altria Client Services avevano riferito di aver donato 500.000 dollari ciascuno. General Motors ha riferito di aver donato 200.000 dollari. Sei società hanno riportato contributi di 100.000 dollari: Verizon Communications, Valero Energy, MetLife Group, Clean Energy Fuels, Anthem e Aetna. Tornando alle big tech, le aziende tecnologiche hanno sempre donato alle inaugurazioni presidenziali, indipendentemente dal partito politico, come un modo per aumentare la loro influenza sull’amministrazione entrante. Tuttavia, la critica allo strapotere del settore tecnologico è una questione bipartisan e forse uno dei pochi argomenti in cui i legislatori democratici e repubblicani concordano entrambi su una regolamentazione più rigorosa. Ma se il GOP ha condotto una lotta contro le Big Tech principalmente a causa della censura delle voci conservatrici, i democratici hanno altre priorità, tra cui la mancanza di concorrenza. Dopo che Twitter e Facebook hanno sospeso l’account di Donald Trump, spaccando l’opinione pubblica fra chi parla di censura e chi di decisione tardiva, la decisione infiamma il dibattito già acceso sul ruolo e sul crescente peso dei social media. Eppure negli Stati Uniti le piattaforme digitali si sono sempre trincerate dietro la sezione 230 del Communications Decency Act, la norma del 1996 che protegge le aziende tecnologiche dalla responsabilità sui contenuti pubblicati dagli utenti, garantendo la libertà di espressione sul web. Se Trump aveva emesso un ordine esecutivo prendendo di mira la Sezione 230 nel maggio dello scorso anno, anche Biden ha già parlato di una riforma della Sezione 230. I Democratici hanno già promosso la modifica della Sezione 230 del Communications Decency Act per arginare la diffusione di incitamento all’odio e la disinformazione. L’assedio di Capitol Hill potrebbe aumentare le probabilità che ci riescano, secondo Axios. L’assalto al Campidoglio del 6 gennaio pone al centro del dibattito il ruolo delle piattaforme online nella pianificazione dell’assedio. Secondo Axios, ciò potrebbe spingere a una nuova e radicale legislazione antitrust che potrebbe seguire una roadmap fissata la scorsa estate. “Mentre continuiamo a indagare l’insurrezione del 6 gennaio, compreso il ruolo svolto dalle piattaforme di social media, lavorerò con i miei colleghi su entrambi i lati del corridoio per garantire che le piattaforme online non siano un terreno fertile per l’odio e la violenza”, ha dichiarato la senatrice dem Amy Klobuchar. Secondo Axios, probabilmente Klobuchar sarà il nuovo presidente del comitato giudiziario antitrust. Infine, anche in assenza di una nuova legislazione antitrust, l’amministrazione Biden potrebbe sostenere in modo aggressivo e possibilmente espandere le cause antitrust contro Google (dal Dipartimento di Giustizia) e Facebook (dalla Federal Trade Commission).

La censura incombe sul pensiero non conformista.  Mirko Giordani il 9 gennaio 2021 su Il Giornale. Twitter ha bannato definitivamente il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Jack Dorsey è riuscito nel miracolo di deviare l’attenzione dei media dalle azioni contro il Congresso verso la censura nei confronti del mondo conservatore e di destra. Un capolavoro tattico che neanche il più abile stratega avrebbe potuto pensare. Ormai siamo di fronte ad una realtà: i social network che conosciamo stanno bersagliando tutti coloro che non si allineano al pensiero progressista globale. Fine dei giochi. Facebook e Twitter ci hanno permesso negli anni di ingaggiare una battaglie delle idee dura ma giusta e leale contro gli avversari politici. Ora però l’arbitro, come un Byron Moreno qualunque, ha smesso i panni dell’imparzialità e gioca apertamente e senza vergogna contro i conservatori. Gia negli anni scorsi delle avvisaglie sul fatto che i social favorissero le idee progressiste, e Ted Cruz in America lo aveva già denunciato illo tempore. Chi controlla i controllori? Possiamo fare a meno dei social per diffondere le nostre idee? Dobbiamo aver paura della censura e delle conseguenze delle nostre idee? Quanto conta il diritto alla libertà di parola? E soprattutto, è venuto il momento di smontare pezzo per pezzo il monopolio di Big Tech sulle nostre vite virtuali? Queste sono le domande che dobbiamo porci se non vogliamo vivere la parodia di 1984 di George Orwell. Ascolta il mio ultimo podcast qui sotto: Ascolta “Gli esperti, il “colpo di Stato” di Trump ed il silenzio sulle malefatte cinesi ad Hong Kong” su Spreaker. 

Dal profilo Facebook di Mario Adinolfi il 12 gennaio 2021. Oggi dalla prima pagina del Corriere della Sera il buon Beppe Severgnini, cantore dell’establishment nostrano, si sbraccia a difesa del diritto di Twitter e Facebook di eliminare dal dibattito pubblico chiunque ritengano. Prima vennero a chiudere le pagine di Forza Nuova e CasaPound, li lasciammo fare, quelli sono fascisti. Poi fecero lo stesso con il presidente degli USA e i suoi più accesi sostenitori, li lasciammo fare, avevano toni che non ci piacevano. Ieri si sono presi anche i profili di un quotidiano italiano, Libero, oltre che di un politico italiano sgradito come l’assessore Donazzan. Accadrà anche a noi, presto. Solo quando se la prenderanno con Severgnini, Severgnini capirà e sarà troppo tardi.

Marco Bresolin per "la Stampa" il 12 gennaio 2021. Tutti al fianco di Donald Trump. O meglio: tutti (o quasi) contro la decisione di bannarlo presa dai principali colossi del Web. Perché l'arbitrio esercitato da Facebook, Twitter & C. preoccupa seriamente i governi occidentali, in particolare quelli europei. Non è tanto la difesa del principio della libertà di parola di cui sarebbe stato privato il presidente americano a suscitare perplessità, quanto la conferma che i Big Tech stiano ormai dettando la loro legge ponendosi al di sopra della legge. Oggi contro Trump, domani contro chissà chi. Per questo a Bruxelles e nelle principali capitali del Vecchio Continente si fa sempre più sentire la necessità di mettere mano al quadro normativo per cercare di porre fine al Far West che ha sin qui permesso loro di crescere a dismisura. E il caso esplode anche in Italia, con due episodi destinati a far discutere. Nella serata di ieri il profilo Twitter del quotidiano «Libero» è stato «limitato» dalla piattaforma perché «ha eseguito delle attività sospette». Per poterlo visualizzare era necessario dare il proprio esplicito consenso. Una sorte simile era toccata poche ore prima all'assessore regionale del Veneto, Elena Donazzan, che ha denunciato l'oscuramento dei suoi profili Twitter, Facebook e Instagram. L'esponente di Fratelli d'Italia si era prestata a intonare la canzone fascista «Faccetta nera» durante la trasmissione radiofonica «La Zanzara», in onda su Radio24, e per questo motivo i principali social avrebbero deciso di bloccarla. Il tema è al centro dell'agenda Ue. A dicembre la Commissione aveva lanciato il Digital Service Act, un quadro normativo che prevede una stretta proprio per costringere le grandi piattaforme Web alla responsabilità, ma secondo le modalità stabilite dalla legge. Le dure prese di posizione di Parigi e Berlino di ieri sembrano dimostrare che l'Ue è intenzionata a usare proprio i recenti episodi per rilanciare questa battaglia. Perché, per dirla con le parole di Angela Merkel, il blocco di Trump è «problematico». «La libertà di espressione - ha spiegato il suo portavoce - può avere dei limiti, ma deve essere il legislatore a fissarli, non un management aziendale». Sulla stessa linea, o forse addirittura oltre, la Francia, Paese attivo su più fronti per cercare di stoppare il dominio incontrastato dei «Gafam» (acronimo che sta per Google, Apple, Amazon, Facebook e Microsoft). «L'oligarchia digitale - ha sottolineato il ministro Bruno Le Maire - è una minaccia per le democrazie». Anche il governo italiano si è schierato al fianco di Parigi, Berlino e Bruxelles con la ministra per l'Innovazione, Paola Pisano: «In questo caso - ha detto - il fine non giustifica i mezzi». Sullo stesso fronte dei leader Ue, ma con argomenti diversi, anche leader che hanno un concetto un po' diverso della democrazia. Come il brasiliano Jair Bolsonaro, che ha subito espresso solidarietà e invitato i suoi fan ad abbandonare Twitter per trasferirsi su Parler. Peccato che il social network utilizzato dai conservatori e dalla destra americana (sul quale era appena sbarcato anche Matteo Salvini) sia sparito dal Web. Google e Apple hanno rimosso l'applicazione dai loro store, mentre Amazon ha bloccato l'accesso ai server per via dei messaggi inneggianti all'assalto di Capitol Hill del 6 gennaio scorso. Un altro esempio di come i più grandi possano decidere arbitrariamente di schiacciare i più piccoli. Parler ha annunciato che farà causa contro Amazon, ma i fatti delle ultime ore si sono già ritorti contro i principali colossi del Web a Wall Street, dove il titolo di Twitter è arrivato a perdere oltre il 10%.

Alda Vanzan per "il Messaggero" il 12 gennaio 2021. Come Donald Trump, anche l' assessore regionale del Veneto, Elena Donazzan, è stata bloccata dai social: i suoi profili Facebook e Instagram da ieri sono stati oscurati. Ma non la sola: anche il quotidiano Libero è stato sospeso da Twitter, non è chiaro se per un eccesso di cinguetii (ipotesi che sembra improbabile nel clima degli ultimi giorni, dopo i fatti di Washington) o per contenuti inopportuni. Donazzan, invece, ha cantato Faccetta nera in radio, poi ha postato le minacce ricevute, commentando: «I benpensanti della sinistra mi vogliono appesa». E mentre il centrosinistra le chiedeva le dimissioni e il governatore Luca Zaia la invitava quantomeno a «scusarsi», l' esponente di Fratelli d' Italia si è trovata zittita dai social. «Mi hanno imbavagliata», ha protestato. Tutto comincia venerdì quando, al programma radiofonico La Zanzara, i conduttori chiedono all' assessore all' Istruzione e al Lavoro del Veneto di scegliere tra Faccetta nera e Bella ciao. Sullo sfondo c' è la polemica de La Molisana, che ha cambiato il nome di un tipo di pasta da Abissine a Conchiglie. Donazzan sceglie la prima, ricordando di averla «imparata da bambina», di avere uno zio, Costantino, che faceva parte delle milizie mussoliniane e di preferirla a Bella ciao «che piacerà alla Boldrini». E intona Faccetta nera. La polemica che ne segue è accesa, da più parti nel centrosinistra viene chiesto al governatore leghista Luca Zaia di revocarle la delega. Il presidente non chiede le dimissioni a Donazzan, ma le dice di scusarsi: «Non l' ho sentita, penso che le scuse siano doverose, Faccetta nera riprende un periodo buio, è inevitabile che in molte persone sia stata urtata la sensibilità». L' esponente di Fratelli d' Italia si scusa a modo suo: «Se qualcuno si è sentito offeso, me ne scuso. A chi cerca di strumentalizzare per ribadire odio e livore, non ho nulla da dire». E aggiunge: «Ecco di cosa si occupa la sinistra italiana nel periodo più tragico della nostra storia repubblicana: di fascismo. Ho scoperto dunque che trovano il tempo non solo per litigare tra loro per mantenere in vita un governo che sta falcidiando la nostra economia, ma anche per montare un caso nazionale sulla mia partecipazione a La Zanzara, trasmissione che tutti conosciamo come goliardica e a tratti irriverente». E rivela di essere sotto attacco: «Sto subendo minacce ed insulti: pazienza, non è la prima e non sarà l' ultima volta, non accetto però lezioni sull' approccio che l' Italia tutta dovrebbe avere sui temi relativi al secondo conflitto mondiale: un periodo da consegnare definitivamente alla storia per ottenere una reale ed effettiva pacificazione nazionale, assicurando dignità di memoria a tutti coloro hanno sacrificato la propria vita durante la guerra civile tra il 1943 ed il 1945».

IL BLOCCO. Le scuse, però, non placano la polemica: esprime «costernazione» l' Unione delle Comunità ebraiche, mentre a chiedere le dimissioni sono i consiglieri regionali veneti del Pd, +Europa, la Cgil, la Rete degli Studenti Medi del Veneto, Italia Viva e il M5s. Le dimissioni non arrivano, ma arriva il blocco dei social. Secondo quanto riferito dall' ufficio stampa dell' assessore, Facebook le ha contestato il post pubblicato domenica: era lo screenshot di un paio di commenti alla notizia del canto di Faccetta nera in radio. (Luhe Dred: Qualcuno abbiamo dimenticato di appenderlo). Donazzan commenta: «Mi hanno imbavagliata sui social, impossibilitata temporaneamente a postare e a commentare».

Dagospia l'11 gennaio 2021. Da “La Zanzara - Radio24”. “Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora s’avvicina…”. L’assessore alla Formazione della Regione Veneto Elena Donazzan, Fratelli d’Italia, intona in radio, a La Zanzara su Radio 24, le strofe di una delle canzoni simbolo del Ventennio e scoppiano le polemiche con richieste di dimissioni da parte dell’opposizione. Cosa ha detto la Donazzan nell’intervento a Radio 24, mentre parlava della vicenda della Molisana, il pastificio sotto attacco per alcuni nomi di prodotti che ricordano il Ventennio? Ecco le parole dell’assessore.

Tra Faccetta Nera e Bella Ciao cosa scegli?: “Non ho nessun dubbio, scelgo Faccetta Nera.  Me l’hanno insegnata da bambina, in alcune case cantavano quella in altre Bella Ciao”. Ma non erano uguali, dice David Parenzo, una era espressione della libertà, l’altra della tirannide.

Donazzan: “Ah, non erano uguali? Io con Faccetta Nera ci sono cresciuta…”.

Parenzo: “Se un assessore in Germania avesse cantato l’inno delle Ss sarebbe stato cacciato a pedate nel culo”.

Donazzan: “Io l’ho cantata per difendere la Molisana, che ha fatto bene a fare quella pubblicità, è stata difesa persino dal Gambero Rosso. Faccetta Nera è parte della storia della mia famiglia. Se lei Parenzo pensa che io non faccia bene l’assessore è un’altra cosa, dica che mi tolgano e basta”.

Parenzo: “Magari anche Mussolini ha fatto una strada, però ha mandato milioni di persone nei campi di sterminio. E lei fa anche l’assessore all’istruzione”.

Donazzan: “La mia canzone di riferimento è Faccetta Nera, quella della Boldrini sarà Bella Ciao. Che problema c’è? Me l’ha insegnata mio zio”.

Parenzo: “Ma se avessero vinto quelli del suo amato zio io non sarei qui, questa è la differenza”.

Donazzan: “Mio zio Costantino era un militare fascista e una volta mi disse, quando gli chiesi perché aveva scelto il fascismo: Putea, se giura na volta soea, Bambina, si giura una volta sola.E’ rimasto fedele, e io lo amo. Punto”.

Parenzo: “Se avesse vinto lo Zio Costantino io non ci sarei, i miei sono stati costretti a scappare in Svizzera”.

Donazzan: “Giù le mani da Zio Costantino, però mi dispiace per la sua famiglia, le leggi razziali furono un’aberrazione”. Perché fece tante cose buone, giusto: “Bravi, vedo che cominciate a studiare. La cosa migliore che fece Mussolini fu l’Iri, oggi ne avremmo bisogno. Poi l’Inps, l’Inail, la retorica del Milite Ignoto, i sacrari, l’Opera nazionale dell’infanzia, ma che facciamo l’elenco, ce ne sono tante di cose buone…”

Da huffingtonpost.it l'11 gennaio 2021. “Chi canta inni fascisti non può stare in un’istituzione e, peggio, fare l’assessore all’Istruzione”. Lo afferma in una nota il gruppo Pd al Consiglio regionale del Veneto, con il capogruppo Giacomo Possamai, commentando l’accaduto alla trasmissione radiofonica ‘La Zanzara’, dove l’assessore Elena Donazzan (Fdi) ha intonato “Faccetta nera”. “Abbiamo assistito sconcertati alla ‘performance’ - proseguono i consiglieri dem - e presenteremo un’interrogazione a Zaia non solo per chiedergli di dissociarsi ufficialmente, ma per sapere se intende toglierle le deleghe, visto che lei non darà autonomamente le dimissioni. È un episodio gravissimo, purtroppo non il primo, che non può essere ancora derubricato a ricordo di infanzia o goliardata. È assolutamente fuorviante parlare di libertà di pensiero e libertà delle persone, come ha fatto la Donazzan per difendersi dalle accuse, perché il fascismo fu esattamente l’opposto: odio, razzismo e sopraffazione, il periodo più buio della storia d’Italia. La Giunta prenda le distanze, ma lo faccia sul serio, non a parole”, conclude la nota.

È stato giusto censurare Trump? La "libertà" ai tempi dei social. La chiusura dell'account di Donald Trump e il "boicottaggio" di Parler, social network vicino alle posizione della destra americana, impone una riflessione sulla libertà d'espressione. Ecco l'opinione delle "zanzare" David Parenzo e Giuseppe Cruciani. Francesco Curridori e Domenico Ferrara, Mercoledì 13/01/2021 su Il Giornale. La chiusura dell'account di Donald Trump e il 'boicottaggio' di Parler, social network vicino alle posizione della destra americana, impone una riflessione sulla libertà d'espressione. Ecco l'opinione delle 'zanzare' David Parenzo e Giuseppe Cruciani.

È giusto che aziende private, che svolgono comunque ormai un servizio pubblico, detengano il diritto di censurare autonomamente i profili?

Parenzo: “No, secondo me, queste grandi infrastrutture strategiche vanno regolamentate, o meglio si deve regolamentare l'ordine della discussione. Se uno avesse scritto una bestialità come: “W Totò Riina” che cosa sarebbe successo? Gli avrebbero chiuso il profilo. Quando, invece, qualcuno incita al fascismo si dice: “vabbè tanto è un'opinione...”. Qui la cosiddetta libertà d'opinione non viene messa in discussione. Qui c'è un altro tema. Twitter e Facebook hanno bisogno di silenziare Trump perché, in un momento molto critico, il presidente in carica non riconosceva il risultato elettorale e addirittura incitava i suoi alla rivolta tanto che c'è stato l'assalto a Capitol Hill. A quel punto il privato che gestisce quell'account, legittimamente, lo ha chiuso perché Trump ha violato le regole che si era impegnato a rispettare quando si è iscritto”.

Cruciani: “I social sono società private e hanno il diritto di fare quello che vogliono. Il problema è che spesso lo fanno per motivi politici. Pur essendo aziende private forniscono un servizio come il telefono e ormai sono talmente diffuse che chiudere un profilo è come privare qualcuno della libertà d'espressione. Il problema è che queste aziende agiscono in base a questioni politiche o algoritmi che capiscono solo loro. Se Trump fosse stato eletto, nonostante quello che ha scritto prima le elezioni (che non è diverso da ciò che ha scritto dopo), non gli avrebbero oscurato il profilo. Lo stesso avviene con la Donazzan in Italia che canta Faccetta nera. È chiaro che spesso ci sono pressioni politiche di alcuni gruppi che evidentemente scattare certe reazioni ora più che in altre occasioni”.

Perché se la censura colpisce ambienti di destra si grida meno alla scandalo e, anzi, spesso si applaude?

Parenzo: “Qui non è questione di destra o di sinistra. Se un imbecille scrivesse: “W le BR” o “W Totò Riina”, io vorrei che fosse censurato, mi indignerei ugualmente. La stupidità è pensare che il problema sia di destra o di sinistra. Certo, oggi siamo di fronte al fatto che un signore, grazie al suo incitamento, ha provocato l'assalto. All'opposto, mi incazzerei se qualcuno in Italia dicesse che la mafia ha creato molti posti di lavoro oppure che le BR hanno fatto bene a uccidere Aldo Moro. Chiederei la chiusura del profilo senza sé e senza ma e, non per questo, vorrei essere considerato un illiberale. Non è una questione di opinione tollerabile. Non si può essere tolleranti con gli intolleranti, come diceva Karl Popper, padre del liberalismo. Non confondiamo la libertà d'opinione con la libertà d'insulto e di istigare alla violenza. Io, poi, non accetto lezioni di libertà da una destra che fino a ieri considerava dei punti di riferimento Orban e Putin che hanno chiuso università e giornali. E ammetto che sia una contraddizione che loro siano ancora su Twitter".

Cruciani: “Questo avviene perché la libertà d'espressione è a corrente alternata. Con la scusa del fascismo, dell'incitazione all'odio, reati punibili già adesso attraverso le leggi attuali con una semplice denuncia, si vuole impedire di esprimersi e di comunicare con alcuni mezzi di comunicazione di massa che sono più importanti di Rai e Mediaset”.

Ci stiamo avviando a una dittatura del politicamente corretto stabilito dai Google, Amazon, Facebook e Twitter che hanno tarpato le ali al social Parler?

Parenzo: “No, è un'assoluta puttanata, anzi il polittically uncorrect è talmente mainstream che chi prova a dire: “guardate che questo, secondo me, non si può pubblicare”, divento io il censore. Ormai si può dire tutto e il suo contrario. Se Trump convoca una conferenza stampa, i giornalisti vanno e giustamente lo raccontano. Non diciamo puttanate. Oggi non si reprime nulla e impera il politicamente scorretto. E io che dico: 'guardate che le Br hanno fatto bene a uccidere Aldo Moro non è politicamente scorretto, è una stronzata', non sono politicamente corretto”.

Cruciani: “Il timore è questo: adesso dove si arriva? Siccome i padroni di questi social network sono molto potenti è evidente che non possono consentire lo sviluppo di strumenti di comunicazione dove nessuno può interferire. Di istigazione all'odio è pieno Twitter e Facebook e bastano le leggi attuali per punirlo”.

La chiusura del profilo Twitter di Libero mina la libertà di stampa?

Parenzo: "Beh, il giornale mi pare che sia uscito e lo stesso Feltri ha detto: “chi se ne frega”. Libero ha un suo direttore e un suo editore ed esce. Qui si parla della libertà d'opinione, ossia del fatto che il proprietario di Twitter ha deciso che alcune espressioni usate dal quotidiano Libero fossero incompatibili con la sua comunità. Sono il primo a dire che questa scelta non va lasciata in mano ai privati, ma o decidiamo che Twitter e Facebook sono responsabili dei contenuti che vengono veicolati e, quindi, fanno gli editori oppure se i social restano un campo libero in cui qualcuno può dire qualunque cosa, come in piazza, bisogna che qualcuno se ne assuma la responsabilità. Pensare che Twitter e Facebook siano delle zone franche dove ognuno è libero di dire quel che vuole oppure stabiliamo che insultare non è libertà”.

Cruciani: “Quello è un caso controverso. Non si è capito per quali motivi sia stato temporaneamente chiuso e, quindi, non mi avventurerei su questa polemica”.

La censura sui social dovrebbe essere regolamentata per legge? E se sì, come?

Parenzo: “Nel merito Twitter ha fatto benissimo a chiudere l'account di Trump, ma mancano una serie di norme che regolamentano questa infrastruttura strategica che, adesso, ci accorgiamo che può essere determinante nella creazione di un'opinione pubblica perché il social non è un giornale che ha dietro un editore che sceglie cosa pubblicare. Il dibattito pubblico sui social deve essere regolamentato, il che non lede la libertà d'opinione. Incitare alla violenza in una piazza non è possibile. Siccome oggi la piazza virtuale è come la piazza di una volta servono delle regole che c'erano anche quando i partiti facevano i loro comizi tant'è che se qualcuno incitava alla violenza interveniva la forza pubblica e, come minimo, ti multava. Ora non si capisce perché sui social tutto debba essere concesso”.

Cruciani: “No, ci sono già le leggi esistenti. Poi i social network privati hanno le loro regole che spesso, però, vengono applicate in maniera un po' distopica e arbitraria. Spesso qualcuno può sospettare che ciò venga fatto per motivi politici dal momento che i loro fondatori sono grandi elettori del Partito Democratico americano”.

Libertà di espressione e destituzione: Trump ci lascia due dilemmi. Biden e Pelosi hanno idee diverse sulla messa in stato d’accusa, ma resta anche il problema del bando di Twitter. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 12 gennaio 2021. Il caso Trump pone due dilemmi. Uno politico sulla sua destituzione, uno sulla libertà di espressione dopo il suo bando da Twitter. Esistono due modi per affrontare la questione della destituzione (impeachment) di Donald Trump. Il primo è quello di Nancy Pelosi, la presidente della camera dei rappresentanti che rifiuta l’impunità per un presidente che, secondo le sue parole, ha “incitato all’insurrezione”. Il secondo è quello di Joe Biden, il presidente eletto, che privilegia la “riconciliazione” e teme che un processo per la destituzione di Trump possa accentuare le divisioni nel paese. Questo dibattito dovrà essere risolto alla svelta perché Trump lascerà la Casa Bianca tra nove giorni. Ci sono poi le pressioni su Mike Pence perché attui il 25mo emendamento della costituzione per mandare a casa il presidente uscente: ma il vice di Trump non è mai stato un cuor di leone ed è difficile che imbocchi questa strada. Il Washington Post ritiene che sarà difficile ottenere anche un impeachment per cui suggerisce una strada più simbolica ma forse anche più concretamente politica: che il Congresso voti una mozione di censura che obblighi i repubblicani a schierarsi contro Trump, senza doverlo far fuori, su una questione di principio, ovvero che non si mettono in discussione i risultati del voto una volta che sono stati convalidati. Ne va della sopravvivenza della democrazia americana che in ogni caso ha bisogno di importanti e urgenti riforme a partire da un sistema elettorale che fa acqua da tutte le parti: per modificarlo, è bene ricordarlo, ci vogliono comunque i due terzi dei voti al Congresso, quindi servono un’unità di intenti e una convergenza che per il momento appaiono assai labili. Perché i democratici vogliono l’impeachment e la condanna di Trump, anche con un procedimento che si concluderà dopo il 20 gennaio? L’obiettivo dei democratici è quello di scongiurare attraverso la procedura di impeachment – la seconda dopo quella andata già a vuoto per abuso di potere – il rischio che Trump si ricandidi nel 2024. Dopo quanto accaduto il 6 gennaio questa prospettiva appare improbabile ma il presidente uscente conserva ancora l’appoggio di parte dei 74 milioni di elettori che l’hanno votato. La destituzione renderebbe un ritorno ancora più difficile. Emerge la spaccatura del paese insieme all’impatto delle menzogne ripetute da Trump sui presunti brogli, I primi sondaggi sono inquietanti. Il 68 per cento dei repubblicani non ritiene l’assalto al Campidoglio una minaccia per la democrazia, il 22 per cento approva addirittura l’iniziativa e il 77 per cento rifiuta di accettare che Trump lasci la Casa Bianca. L’effetto delle bugie ripetute da Trump a proposito dei presunti brogli è devastante sul panorama politico del Paese. La maggioranza degli elettori di Trump, tra l’altro, dichiara di essere fedele a lui, non al partito repubblicano. E questo la dice lunga sul punto in cui sono arrivati gli Stati Uniti e la paura di condannarlo da parte dei rappresentanti repubblicani che per quattro anni hanno avallato le sue menzogne e le sue fesserie, compresa la strategia anti-pandemia. Ecco perché tirare giù dal piedistallo Trump non è così semplice di fronte a un Paese spaccato. Poi c’è la questione Twitter. Anche qui c’è una divisione tra chi ritiene legittimo quanto ha fatto Twitter, buttandolo fuori dalla piattaforma, e chi invece pensa che sia stata esercitata una forma di censura. Chi appoggia la prima tesi sostiene che Twitter è una piattaforma privata e ha la facoltà di decidere _ anche su basi di sentenze della Corte suprema _ chi può farne parte e chi no. Le grandi aziende di social media, secondo questa posizione, hanno quindi il diritto di sospendere chiunque in quanto non sono canali di informazione. Ma è davvero così? In realtà sappiamo benissimo che un grande parte della popolazione, non solo negli Stati uniti ovviamente, prende le sue informazioni proprio dai social media. C’è chi ritiene che la decisione di censurare Trump non spetti a Twitter ma a un’autorità politica costituita per legge, come quella sulla privacy, che decida in base alla costituzione chi debba essere censurato o espulso. In poche parole si mette in dubbio che questi social media, pur essendo di proprietà privata, decidano o meno senza appello e senza possibilità di controllo. Ovviamente nelle autocrazie e nelle dittature il problema non si pone: sono questi regimi che decidono che cosa fare e infatti oscurano Twitter o Facebook quando gli pare e tengono strettamente sotto il controllo della loro censura i social media. Ma la questione c’è evidentemente, perché oggi la censura è stata applicata a Trump un giorno a chissà chi altro: la posizione che possono fare quel che vogliono perché si tratta di mezzi privati alla fine è debole. Intanto Twitter ieri ha perso in Borsa il 6,4 per cento e non è un caso: l’account di Trump era seguito da 88 milioni di persone.

Da ilmessaggero.it il 13 gennaio 2021. YouTube sospende il canale Donald Trump per una settimana per aver postato un video che incita alla violenza. Il presidente non potrà caricare nuovi contenuti per un «minimo di una settimana». La Camera intanto, approva la risoluzione che chiede al vicepresidente Mike Pence di invocare il 25° emendamento e rimuovere Trump. Mentre era in corso il dibattito in aula, Pence ha fatto recapitare una lettera alla speaker della Camera, Nancy Pelosi, nella quale spiegava che il ricorso al 25° emendamento non era nel miglior interesse del paese. Il no ufficiale di Pence spiana la strada all'impeachment.

Estratto dell’articolo di  Alex Shephard per newrepublic.it il 13 gennaio 2021. Venerdì, nel corso di alcune ore straordinarie, l’iPhone di Donald Trump è stato reso praticamente inutilizzabile – presumibilmente può ancora fare chiamate e fotografie, ma nient’altro. Il presidente è stato bannato non solo da Twitter e da Facebook, dove aveva più di 150 milioni di follower in totale, ma anche da YouTube, Shopify, Stripe, Twitch e, forse più assurdo, da Spotify. Se uno sconsolato Trump volesse ballare (da solo) “Macho Man”, dovrebbe comprarsi una copia fisica. (…) Il ban dei social media, in particolare da Twitter, il giocattolo preferito dal presidente, è stato immediatamente riconosciuto come una perdita incalcolabile per il presidente uscente. La carriera politica di Trump è stata costruita in gran parte sulla sua capacità di aggirare i media tradizionali e dettare l’agenda 140 (e poi 280) caratteri alla volta. "La presidenza Trump, e in effetti quasi tutta la sua carriera politica, è inscindibile dalla piattaforma", ha scritto Charlie Warzel del New York Times. Lo stesso Trump ha descritto questa dinamica come "Posso scrivere 'bing bing bing' e loro lo mettono su non appena lo twitto". Come presidente, Trump raramente ha rilasciato interviste o ha risposto alle domande della stampa. Il suo pulpito era Twitter, e ora non c'è più. Ma la stretta associazione tra Trump e Twitter oscura l’importanza che ha avuto e ha ancora per la sua ascesa politica un mezzo più datato: la televisione, e in particolare i network via cavo. Trump potrebbe aver perso il suo account Twitter, ma gli incentivi perversi che hanno portato li network a parlare di ogni sua espressione - su Twitter, a un raduno o in qualsiasi altro luogo - esistono ancora. Il modo in cui le notizie via cavo lo trattano dopo la sua istigazione alla rivolta del Campidoglio potrebbe avere maggiori conseguenze per il mondo politico rispetto a un Trump senza Twitter, in particolare se i cable network rimangono eccessivamente deferenti ai politici repubblicani che difendono o scusano il comportamento di Trump. (…) Le buffonate di Trump erano un buon affare per le reti. L'attenzione ossessiva rivolta a Trump, ha detto Leslie Moonves della CBS nel 2017, "potrebbe non essere un bene per l'America, ma è dannatamente buono per la CBS". Le reti - ad eccezione di Fox News - sono diventate sempre più antagoniste nei confronti di Trump e meno disposte a concedergli una copertura globale, ma il megafono è ancora lì. Sì, gran parte di quella copertura si è concentrata sui suoi tweet più roboanti, ma Trump è più che in grado di generare notizie senza social media. (…)

Camilla Conti per “La Verità” il 15 gennaio 2021. «Non festeggio né mi sento orgoglioso di dover bandire @realDonaldTrump da Twitter o come siamo arrivati qui. Dopo un chiaro avvertimento che avremmo intrapreso questa azione, abbiamo preso una decisione con le migliori informazioni che avevamo in base alle minacce alla sicurezza fisica sia su Twitter che fuori. Era corretto?». È questo il primo di tredici brevi messaggi pubblicati nella notte di mercoledì - nel gergo del social network si chiama thread per indicare una discussione sviluppata da singoli utenti - con cui il gran capo di Twitter, Jack Dorsey, ha spiegato la sua scelta di bandire il presidente uscente Trump dalla piattaforma. Con una lunga riflessione che però rivela anche qualche indizio sulla futura strategia del colosso tech. Fare soldi con i bitcoin. Cosa ha cinguettato Dorsey? «Abbiamo affrontato circostanze straordinarie e insostenibili che ci hanno costretto a concentrare tutte le nostre azioni sulla sicurezza pubblica», si legge nel post del Ceo, secondo cui il pericolo che le conversazioni online producano danni reali è conclamato e concreto. Il nostro obiettivo in questo momento è quello di disarmare il più possibile», prosegue Dorsey riconoscendo però che bannare un account «ha implicazioni reali e significative. Nonostante ci siano chiare e ovvie eccezioni, ritengo che un ban rappresenti un fallimento per noi nel promuovere un dibatto sano». Al contrario «i divieti frammentano la conversazione pubblica. Ci dividono. Limitano il potenziale per chiarirsi, redimersi e apprendere. Il ban inoltre crea un precedente a mio avviso pericoloso: il potere che un individuo o un'azienda esercita su una parte della conversazione pubblica globale». Uno degli aspetti relativi alla politica di regolamentazione dei contenuti infatti è che gli utenti sono liberi di spostarsi altrove, se non si trovano d'accordo con le regole adottate da quella determinata piattaforma. «Questo concetto tuttavia è stato messo in discussione la scorsa settimana quando diversi provider di servizi Internet hanno deciso di non ospitare ciò che ritenevano pericoloso», ha aggiunto riferendosi indirettamente a Facebook, Youtube e a Snapchat. «Sebbene tali azioni potrebbero essere giustificate al momento attuale, «nel lungo termine potrebbero essere distruttive per il nobile scopo e gli ideali di un Internet aperto», ha poi sottolineato Dorsey. Quasi un mea culpa, ma solo all'apparenza. Perché il vero punto dove mister Twitter vuole arrivare è un altro. Lo si capisce a metà del ragionamento quando improvvisamente Dorsey vira su un argomento a lui assai caro: i bitcoin. «Una tecnologia Internet fondamentale che non è controllata o influenzata da nessun singolo individuo o entità. Questo è ciò che Internet vuole essere e nel tempo lo sarà ancora di più. Stiamo cercando di fare la nostra parte finanziando un'iniziativa attorno a uno standard decentralizzato aperto per i social media. Il nostro obiettivo è essere un cliente di questo standard per il livello di conversazione pubblica di Internet. Noi lo chiamiamo Blu Sky», ovvero cielo blu. Al netto dei nomi stilosi e della narrazione che piace tanto ai dem - il «cattivo» è stato silenziato sacrificandolo sull'altare della democrazia - Dorsey e altri big social della Silicon Valley hanno capito che la bolla sta per scoppiare, che il business model delle piattaforme social è arrivato a fine corsa e va rivisto. Senza dimenticare che la mossa «democratica» varata dopo la rivolta in Campidoglio piace molto ai fan del presidente designato Joe Biden ma meno a Wall Street dove hanno perso terreno le azioni di Twitter (solo dall'insediamento di Trump quattro anni fa erano balzate del 160%) che si ritrova con meno utenti e quindi una minor capacità di attirare inserzionisti. Ecco perché il capo di Twitter sta lavorando al nuovo modello decentralizzato per i social media (ovvero non di proprietà di una singola piattaforma) plasmato dalla cosiddetta tecnologia blockchain, tecnologia usata per i bitcoin che possa «fornire un sistema affidabile in un ambiente sfiduciato». E farlo guadagnare. Perché Dorsey è anche al timone di Square, una società di pagamenti su Internet, che ha acquistato 50 milioni di dollari di bitcoin come parte di una scommessa sulla criptovaluta. Non solo. Per conto di Square, il magnate della tecnologia sta combattendo contro una proposta federale che costringerebbe la società a monitorare con maggiore attenzione le transazioni di criptovaluta. Il co-fondatore di Twitter ha criticato le regole proposte dal Financial Crimes Enforcement Network statunitense in una lunga lettera aperta: i regolamenti richiederebbero a Square e ad altre istituzioni finanziarie di raccogliere il nome e l'indirizzo fisico di chiunque invii o riceva più di 3.000 dollari di criptovaluta in una singola transazione. Le società dovrebbero riferire tali informazioni ai federali per transazioni superiori a 10.000 dollari. Dorsey sostiene che richiedere tali informazioni creerebbe un obbligo oneroso per le società finanziarie e le nuove regole potrebbero offrire ai consumatori un incentivo a utilizzare i propri portafogli di criptovaluta invece di fare affidamento su società consolidate come Square. Ricordando anche, nella lettera, che non esistono requisiti di registrazione così rigidi per le grandi transazioni cash: «se una madre ha dato a sua figlia 4.000 dollari in contanti, la figlia potrebbe depositare i soldi in una banca senza che questa debba raccogliere alcuna informazione sulla madre». La lunga serie di post pubblicati mercoledì notte dal numero uno di Twitter si conclude con questo messaggio: «Tutto ciò che impariamo in questo momento migliorerà i nostri sforzi e ci spingerà ad essere ciò che siamo: un'umanità che lavora insieme». Affinché il cielo sia sempre più blu, soprattutto per Dorsey.

Le parole di Jack Dorsey. Trump bannato da Twitter, il patron del social: “Giusto, ma precedente pericoloso”. Redazione su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. Giusto ma pericoloso. Questo, in estrema sintesi, il pensiero di Jack Dorsey, fondatore di Twitter, sul ban ai danni del Presidente Donald Trump dopo l’assalto e l’irruzione a Capitol Hill dello scorso 6 gennaio di suoi sostenitori che non accettano la transizione di potere verso il presidente eletto alle elezioni dello scorso 3 novembre Joe Biden. La decisione di ‘sospendere definitivamente’ l’account personale su Twitter Donald Trump è stata la scelta “giusta”, ma rappresenta anche un “fallimento” e un “precedente”, che è “pericoloso”. Dorsey ha scritto su Twitter il suo pensiero di non aver festeggiato e di non essersi sentito orgoglioso per la sospensione. E’ “un fallimento da parte nostra nel promuovere un discorso sano” e “dover prendere” queste misure “frammenta il discorso pubblico”. “Ci dividono – ha aggiunto – Limitano il potenziale per un chiarimento, un riscatto, per imparare. E costituiscono un precedente che ritengo pericoloso: il potere che un individuo o un’azienda ha su una parte del discorso pubblico globale”. Il presidente americano in carica è stato messo sotto accusa per la seconda volta con l’approvazione dell’impeachment alla Camera, proprio a causa dei fatti dello scorso 6 gennaio. Poche ore prima aveva tenuto un comizio nei pressi di Capitol Hill tornando ad agitare gli spettri di frode e di brogli. Dorsey ha comunque rivendicato come l’equilibrio di potere sia stato rispettato dal momento che “se le persone non sono d’accordo con le nostre regole possono semplicemente rivolgersi a un altro servizio”. Ma “questo concetto è stato rimesso in discussione la settimana scorsa quando un certo numero di fornitori di strumenti Internet fondamentali hanno deciso di non ospitare più quello che ritenevano pericoloso”. E su questo punto non crede si sia trattato di un coordinamento: “Più probabilmente le società sono arrivate alle proprie conclusioni o sono state spinte dalle azioni di altri”. E quindi “dobbiamo tutti esaminare le contraddizioni della nostra politica e della sua attuazione, dobbiamo pensare a come il nostro servizio possa incentivare follie e danni, c’è bisogno di maggiore trasparenza nelle nostre operazioni di moderazione” dei contenuti per un Internet “libero e aperto”.

 (ANSA 12 gennaio 2021) Amazon difende la sua decisione di bloccare Parler e chiede alla giustizia americana di non ordinare di reintegrare il servizio. "Parler ha violato il contratto ospitando contenuti violenti e non agendo tempestivamente nel rimuoverli", afferma Amazon nei documenti depositati in tribunale. Amazon ha sospeso Parler nei giorni scorsi dopo che il servizio è stato usato dai sostenitori di Donald Trump per organizzare le proteste al Campidoglio. Parler ha fatto causa ad Amazon, chiedendo a un giudice federale di Seattle di ordinare ad Amazon il reintegro immediato.

Ina Fried per axios.com il 13 gennaio 2021. In una dichiarazione in tribunale martedì scorso, Amazon ha dichiarato di aver rimosso il social network di destra Parler dal suo servizio cloud AWS dopo aver segnalato dozzine di contenuti violenti a partire da novembre.

Perché è importante: Parler ha citato in giudizio Amazon, sostenendo che la sua espulsione viola le leggi antitrust. Nella sua risposta, Amazon cita tra le sue difese il contenuto violento e la sua protezione ai sensi della sezione 230 del Communications Decency Act.

Dettagli: Amazon sostiene di aver inviato per la prima volta una lettera il 17 novembre con due esempi di contenuti violenti e ha chiesto alla società se tali contenuti violassero le regole di Parler e cosa stesse facendo la società per moderare tali contenuti. Nelle successive 7 settimane, Amazon ha dichiarato di aver segnalato più di 100 contenuti al chief policy officer di Parler, comprese le minacce dirette specificamente ai membri del Congresso.

Il quadro generale: Parler si è trovata in difficoltà con quasi tutti i suoi partner tecnologici, inclusi Twilio e Amazon, nonché Apple e Google, che hanno entrambi rimosso l'app dai rispettivi app store.

Cosa stanno dicendo: nella sua causa, Parler ha sostenuto che Amazon ha cospirato con Twitter per “gambizzare” il servizio proprio mentre stava guadagnando terreno. Amazon ha risposto che le sue azioni non riguardavano "la soppressione della parola o il soffocamento dei punti di vista", né "una cospirazione per limitare il commercio". Piuttosto, dice Amazon, "questo caso riguarda la dimostrata riluttanza e incapacità di Parler di rimuovere dai server i contenuti di Amazon Web Services che minacciano la sicurezza pubblica, ad esempio incitando e pianificando lo stupro, la tortura e l'assassinio di persone citate. funzionari e privati cittadini ".

Marilisa Palumbo per "corriere.it" il 27 gennaio 2021. Lauren Wolfe ha il tipico profilo della giornalista impegnata. E lavora(va) al New York Times, il giornale liberal per eccellenza, che in questi anni ha rafforzato la sua posizione e i suoi abbonamenti anche in virtù della vigile copertura di un presidente come Donald Trump, insofferente ai rituali della democrazia e profondamente ostile alla stampa. Ma quando Lauren, il giorno dell’insediamento di Biden, vedendo le immagini dell’aereo del presidente eletto atterrare alla Joint Base Andrews diretto a Washington, ha scritto «ho i brividi» , su di lei si è scatenata una campagna di bullismo social da destra molto simile a quelle che la sinistra dura e pura ha lanciato nei mesi passati contro chi sosteneva posizioni «non ortodosse». E il quotidiano — con il quale, ha specificato il management, Wolfe aveva una collaborazione, non un contratto fisso — l’ha licenziata. Non solo per il tweet, specificano (Wolfe aveva anche scritto che era infantile per Trump non mandare un aereo militare a prendere Biden, e l’aveva poi cancellato ammettendo che fosse inaccurato), ma senza aggiungere altri dettagli. A luglio dal Times se n’era andata Bari Weiss, assunta perché doveva essere una giovane voce centrista aperta ad argomenti conservatori, che ha lasciato stufa degli attacchi, compresi quelli di molti suoi colleghi, ricevuti su Twitter. Forse Lauren è (era) tra chi pensa che la cancel culture non esiste, e si scopre a esserne l’ultima vittima. È chiaro che nel quotidiano newyorchese deve esserci una certa tensione rispetto alle accuse anche preventive di partigianeria nei confronti della nuova amministrazione. Semplici lettori moderati e «mob» di destra aspettano il Nyt al varco per sapere se mostrerà nei confronti di Biden la stessa severità usata nei confronti di Trump (FoxNews va già ripetendo che i media liberal coprono le bugie di «Santi Joe e Kamala»). Ma licenziare una giornalista per un seppure discutibile tweet? Negli Stati Uniti il caso ha riaperto la discussione sulla «polizia del pensiero» di Twitter, e cioè su come l’onda dell’indignazione decida chi può parlare e chi no, chi può dire cosa: con alcuni interessanti cortocircuiti che dimostrano quanto il dibattito sia ingarbugliato. Tra i difensori di Wolfe Alyssa Milano, attrice attivista e paladina del #metoo, che ha twittato l’hashtag #rehireLauren. Mesi fa Milano aveva scritto che la cancel culture è un’arma della destra, non degli ultrà liberal, ora lancia un «cancelletto» chiedendo ai suoi 3 milioni e mezzo di follower di fare pressione sul «New York Times» e subito molti di loro sono passati alle minacce: riprendete Wolfe o cancello l’abbonamento (Wolfe stessa ha pregato di non farlo, difendendo il valore del giornale). È un fatto che Wolfe abbia violato una policy del New York Times, quella di non esprimere opinioni personali attraverso i propri social media. Ma la punizione — a prescindere se sia vero o no, come dicono gli avvocati della giornalista, che la condizione non si applicasse a lei che non era assunta a tempo indeterminato — è proporzionata alla violazione? «I giornalisti dovrebbero essere giudicati dalla correttezza del loro lavoro, non da un tweet occasionale o un commento o una mail privata in cui sono espresse preferenze umane — ha scritto sempre su Twitter Wesley Lowery di 60 minutes —: Risposte vigliacche e reazionarie all’indignazione online sono più imbarazzanti e minano l’integrità dell’istituzione giornalistica più di qualunque cosa abbia twittato un membro dello staff». E ancora: perché,come ripetono tanti di quelli che stanno difendendo Wolfe, una giornalista come Rukmini Callimachi che ha commesso degli errori clamorosi nel pluripremiato podcast Caliphate, è stata solo assegnata a un altro desk, e chi l’ha «coperta» non è stato «punito»? La risposta di una serie di fonti del New York Times a Joe Pompeo, che ha ricostruito il caso per Vanity Fair, sulla gravità della sanzione a Wolfe è che la giornalista fosse stata già ammonita per il suo comportamento sui social. «Per ragioni di privacy non ci addentriamo nei dettagli di una vicenda personale, ma possiamo dire che non abbiamo chiuso il contratto di un impiegato a causa di un singolo tweet — ha detto a Pompeo un portavoce del Times — Per rispetto delle persone coinvolte, non intendiamo commentare ulteriormente». Un dettaglio che non chiarisce tutto, e sicuramente non chiude il dibattito.

(ANSA il 27 gennaio 2021) - Youtube ha annunciato di aver esteso per la terza volta la sospensione di Donald Trump, dopo le violazioni della politica della piattaforma e l'istigazione dei suoi fan ad assaltare il Congresso per bloccare la certificazione della vittoria di Joe Biden. Le prime due volte era stato per una settimana, l'ultima non indica un termine rendendo la sospensione a tempo indeterminato. Youtube ha anche vietato temporaneamente al suo avvocato Rudy Giuliani di partecipare ad un programma che gli consente di ricavare soldi, per le false accuse di brogli elettorali.

ANDREA DANIELE SIGNORELLI per lastampa.it il 27 gennaio 2021. Sono passati solo pochi giorni da quando Donald Trump ha smesso di essere il presidente degli Stati Uniti, ma il tempo trascorso sembra molto più lungo. È come se Trump avesse lasciato la Casa Bianca non il 20 gennaio, ma due settimane prima: quando Facebook, Twitter e altre piattaforme hanno deciso di sbarazzarsi almeno temporaneamente dei suoi account social, in seguito all’assalto al Campidoglio di Washington da parte di una folla aizzata proprio dal presidente. Abituati com’eravamo ad assorbire ogni giorno decine e decine di tweet incendiari di Donald Trump – ultimamente quasi tutti riferiti agli inesistenti “brogli elettorali” di cui sarebbe stato vittima –, il silenzio che è calato da qualche tempo a questa parte ha rappresentato una netta inversione rispetto ai cinque anni precedenti (contando anche la lunga fase che lo ha visto protagonista delle primarie repubblicane). Quanto durerà questa pace? E che effetti avrà sul panorama dei social network e di internet nel complesso? Prima di tutto, va detto che la figura di Donald Trump ha già cambiato per sempre il mondo social. Con la sua sola presenza, l’ex presidente ha costretto i colossi digitali a fare ciò che per oltre un decennio si sono rifiutati di fare: combattere in maniera proattiva la disinformazione, abbandonando la posizione, sempre meno sostenibile, secondo cui Facebook e Twitter sono “piattaforme neutrali”. È questo il lascito più duraturo di Trump: ormai Mark Zuckerberg e Jack Dorsey sanno, nel bene e nel male, che il loro compito non è solo quello di fornire a chiunque una voce online, ma anche di stabilire regole chiare su come questa voce possa essere utilizzata e agire di conseguenza quando vengono infrante. A dare l’idea di quanto fosse ingombrante la presenza di Trump sono però soprattutto alcuni numeri. Secondo un report di Zignal Labs, nei giorni immediatamente successivi alla sospensione di Donald Trump ci sarebbe stato un calo nella circolazione delle fake news sulle elezioni statunitensi del 73% (da 2,29 milioni di menzioni di presunti brogli a circa 600mila). Stando ai dati di un’altra società, CrowdTangle, lo stesso fenomeno si sarebbe verificato su Facebook: da 10.600 post pubblici che utilizzavano il termine “Stop the steal” (con cui i più accesi sostenitori di Trump denunciavano il supposto furto elettorale) a 7.700, un calo del 30% circa. Ovviamente, questo non è l’effetto del solo allontanamento di Trump dai social, perché contestualmente Twitter e Facebook hanno sospeso un gran numero di personalità legate alla teoria del complotto QAnon; alcune di queste – come l’ex consulente legale di Trump Sidney Powell o il suo ex consulente alla sicurezza Mike Flynn – con centinaia di migliaia di follower. Solo Twitter ha cancellato oltre 70mila di questi profili, riducendo enormemente la quantità di disinformazione che proprio da questi account era originata. Le azioni intraprese dalle piattaforme hanno avuto un immediato effetto rasserenante su tutto l’ecosistema social. Un analisi di Media Matters mostra come, prima della sospensione di Trump, l’engagement (like, commenti e condivisioni) generato dalle pagine di destra presenti su Facebook rappresentasse il 47,5% del totale delle pagine politiche; mentre quelle di sinistra si fermavano al 25,3%. In seguito alla sospensione di Trump, la situazione si è parzialmente riequilibrata: l’attività sulle pagine di destra oggi conta per il 37,5%, quelle di sinistra per il 30%. Secondo Media Matters, questo indicherebbe come la temperatura politica sulle pagine di destra, che nei giorni precedenti alla sospensione di Trump aveva raggiunto livelli febbrili, sia rapidamente calata. Al momento, Trump è stato sospeso da un totale di 17 società tecnologiche (YouTube, Snapchat, TikTok, Pinterest, Twitch, Shopify e altre), ma è probabile che nella maggior parte dei casi si tratti solo di una sospensione temporanea (il gran giurì di Facebook dovrebbe esprimersi a breve a riguardo). Cosa succederà in caso di ritorno? “Gli ex presidenti di solito hanno l’abitudine di tenersi lontani dai riflettori e di non commentare l’operato dei loro successori, ma Trump difficilmente osserverà questa convenzione come non ha osservato nessuna delle altre”, ha spiegato il docente di Scienze Politiche Christopher Federico. “Nella misura in cui rimarrà un opinion leader e figura cruciale del mondo repubblicano, il volume sui social potrebbe non abbassarsi quanto immaginiamo”. Lo stesso Trump, nel suo discorso di congedo, ha infatti annunciato di voler tornare al centro della scena “in una forma o nell’altra”. Secondo alcuni analisti starebbe pensando di dare vita a un suo partito politico (c’è già il nome: Patriot Party). Se così fosse, ci sarebbe un solo modo per prolungare la tranquillità che dopo il 6 gennaio è calata sui social: rendere la sospensione di Trump permanente su tutte le piattaforme; relegandolo agli angoli più oscuri di internet come Parler o Gab.

Roberto Vivaldelli per ilgiornale.it il 2 aprile 2021. L'ex Presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump non solo non può avere un account su Facebook e Instagram - oltre a YouTube - ma non può nemmeno essere intervistato. Non è un lontano mondo dispotico ma è la realtà che stiamo vivendo, dove i colossi Big Tech stanno, sempre di più, decidendo chi può prendere parola o meno, cosa è verità e cosa non lo è, in maniera del tutto arbitraria e pericolosamente ideologica, ovviamente a danno dei conservatori di tutto il mondo. Lara Trump, moglie del figlio del tycoon, Eric, ha intervistato suo suocero sulla sua pagina in un videoclip subito rimosso da Facebook. Come riporta l'agenzia Adnkronos, si tratta di un'ulteriore mossa adottata da Facebook nei confronti di Trump, dopo che a gennaio aveva chiuso il suo profilo Twitter in seguito all'assalto al Congresso da parte dei suoi sostenitori. "In linea con il blocco che abbiamo posto agli account Facebook e Instagram di Donald Trump, ulteriori contenuti pubblicati con la voce 'Donald Trump' verranno rimossi e comporteranno ulteriori limitazioni sull'account", si legge in un'e-mail. Una decisione che Lara Trump ha definito "orwelliana". "Stiamo andando verso 1984 di George Orwell, è proprio così" ha commentato sui social media. Eric Trump ha pubblicato una copia di un'e-mail che ha ricevuto da un dipendente di Facebook, affermando che il blocco si applica a tutti gli account e le pagine della campagna, incluso il Team Trump, e a tutto ciò che riguarda l'ex Presidente Usa. "È così orribile - cosa sta diventando il nostro Paese?" ha scritto il figlio dell'ex Presidente Usa su Instagram. Per il senatore repubblicano Lindsey Graham è tempo di regolamentare i social media: "La guerra di Big Tech al conservatorismo e tutte le cose che riguardano Trump deve essere fermata. Ora, Facebook ha deciso che Lara Trump non può intervistare suocero. Chi prende queste decisioni? I liberal che gestiscono Big Tech. Tempo di abrogare la Sezione 230. Lotta con noi, Lara!" ha sottolineato Graham. Il testo della Sezione 230, che i repubblicani vogliono abrogare, dice infatti questo: "Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi". Una frase solleva i social network dalla responsabilità dei contenuti che vengono pubblicati sulle loro piattaforme. Che cosa ha detto l'ex Presidente Usa? Nell'intervista, durata circa 18 minuti, e pubblicata fra i podcast di Lara Trump, il tycoon è tornato a prendere di mira i social network e i media mainstream per aver censurato lo scandalo del computer di Hunter Biden, figlio del Presidente Usa Joe Biden: ha poi criticato l'agenda green del suo successore e si è scagliato contro la cancel culture imperante e contro il politicamente corretto. Ha poi anche parlato di una sua eventuale candidatura alle elezioni presidenziali nel 2024 e di come l'amministrazione Biden si stia dimostrando troppo debole nei confronti della Cina, avversario numero uno degli Stati Uniti a livello globale. "La domanda che tutti si pongono è: che cosa stai facendo ora?" ha chiesto Lara Trump all'inizio dell'intervista. "Sono in Florida, un bellissimo stato, dove abbiamo fatto un grandissimo risultato, come del resto in tanti altri stati. Ho vinto due volte le elezioni e la seconda di milioni di voti. In ogni caso amo la Florida, è un posto spettacolare".

La polemica. Rischio dittatura digitale, e se fossero gli Stati a spegnere i social? Massimiliano Capitanio, Deputato della Lega, su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Piattaforma sociale o dittatura digitale? Dirimere la questione è fondamentale per la sopravvivenza della cultura democratica. Staccando la spina a Trump, Twitter non ha solamente “spento” un cliente da oltre ottantanove milioni di followers. Bannando @realDonaldTrump e @Potus, ovvero President of The United States, il social network dei cinguettii ha tolto la libertà di espressione a un’intera Repubblica federale che, fino a prova contraria, trova rappresentanza nel suo Presidente. In Italia, poche ore dopo questa clamorosa censura, è stato “temporaneamente limitato” l’account del quotidiano Libero, reo, a detta dell’algoritmo di San Francisco, di aver “eseguito delle attività sospette”. Quali attività? Non vediamo l’ora di scoprirlo perché, come accaduto per Trump, in queste ore si poseranno le pietre angolari della e-democracy e scopriremo se il diritto d’impresa (Twitter, Facebook, Google, Amazon, Apple sono aziende) è superiore alle tavole della cultura democratica. Il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti tutela la libertà di parola e di stampa. L’articolo 21 della nostra Costituzione sancisce che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. L’Italia che non legge i giornali (solo il 28% dei giovani tra i 20 e i 24 anni, dati Istat, dice di sfogliarne uno almeno una volta alla settimana) forse non si straccerà le vesti di fronte al totem della libertà di stampa. Ma la vicenda Twitter tocca un altro articolo della Costituzione fondamentale per le nostre libertà personali, il numero 41. Perché è vero che “l’iniziativa economica privata è libera”, ma è altrettanto indiscutibile che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Ed è per questo che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La differenza non può sfuggire: non è l’algoritmo o il suo proprietario a determinare la legge, è la legge che controlla l’attività privata. In base a quale legge Twitter ha impedito l’accesso a un pubblico servizio a Trump o al quotidiano Libero? Sulla base di una sindacabile opinione? Sul presunto diritto di stabilire algebricamente il confine tra il bene e il male? Bisogna fare attenzione, perché in questo solco, a breve, potrebbe inserirsi la Commissione bicamerale d’inchiesta sulle fake news, già licenziata alla Camera e ora ferma al Senato. In assenza di una definizione condivisa e acclarata di “notizie false”, rischiamo di addentrarci in una pericolosa palude dove all’inizio sprofonderà il nemico, ma poco alla volta morirà la democrazia. E allora provocatoriamente chiediamoci se domani fossero gli Stati a spegnere i social network. Se fosse l’Italia, ad esempio, a stabilire, per legge, che certe piattaforme sono incostituzionali, che violano le regole che ci hanno portato fuori dalle dittature e che, forse, è venuto il momento di porre un freno al delirio di onnipotenza di chi è passato dai fasti della primavera araba al black out dell’inverno statunitense. È una provocazione, ma non troppo. Forse val la pena sedersi attorno a un tavolo e mettere dei paletti.

Giulia Zonca per "la Stampa" il 9 novembre 2021. Nel gennaio del 1940, Superman stava per essere rifiutato perché sembrava «troppo gay, con quel bel sedere tornito». Nel 2021 non passa mese senza il coming out di un supereroe. Non è una rivoluzione e neanche il tentativo di essere inclusivi a tutti i costi, è un ritorno alle origini di tanti personaggi nati per essere queer o per essere percepiti come tali: è un riallineamento. Il film più visto nell'ultimo fine settimana, Eternals è anche il primo firmato Marvel che abbia un protagonista dichiaratamente omosessuale. Phastos sa manipolare l'energia, dettagli, ma soprattutto ha marito e figlio, è appagato, realizzato, aperto e tutto ciò nelle vignette non si era mai visto. La Marvel si è tenuta nel regolamento il divieto «No Gays», fino agli Anni Ottanta. Nei Novanta, i numeri anche solo vagamente ammiccanti all'idea che i protagonisti potessero non essere etero venivano vietati ai minori di 18 anni. Alpha Flight nasce gay nel 1979 e si può comportare come tale solo nel 1992. Per una battuta o giù di lì, istanti di ambiguità. Questi rigidi codici vanno dai già citati dubbi su Superman, in tempi in cui nemmeno si usava la parola gay (nella lettera spedita al disegnatore Jerry Siegel c'è l'assurdo slang d'epoca «lah-de-dah che sta per affettato»), ai Duemila. Eppure eroi ed eroine sono da sempre stati icone della comunità Lgbtq+. Robin si porta dietro interpretazioni sulla sua sessualità dalla prima apparizione, «brusio di sottofondo» lo chiamerebbe l'ex ministro dello sport Spadafora che si è dichiarato in tv giusto due giorni fa. Nel 2021 esce allo scoperto pure l'amico di Batman: organizza una cena con un ragazzo che gli piace e si ritrova a sentire i commenti della serata quando ha la mascherina in faccia e quindi, secondo l'immaginario, non può essere riconosciuto. Il travestimento è di per sé un richiamo alla diversità, di qualsiasi genere. È l'accento su una stranezza che proprio nei fumetti si trasforma in fascino. Wonder Woman nasce dalla creatività di un uomo innamorato del sadomaso e interessato alla poligamia eppure diventa immediatamente simbolo gay. Gli sceneggiatori contemporanei si ritrovano a mescolare gli orientamenti sessuali come canoni narrativi, ma se non ha alcun senso ipotizzare un passato non binario per 007, ha molta logica tratteggiare così il figlio di Superman, farlo vibrare per il bacio con il seducente reporter Jay Nakamura. Un passato fluido non sarebbe stato compatibile con la storia di una spia sciupafemmine e autoreferenziale quindi è giusto che le battute di Skyfall in cui Bond avrebbe svelato storie al maschile siano state tagliate, invece l'universo dei supereroi si presenta senza etichette. In una sola stagione abbiamo visto il coming out di Superman junior, Robin, Capitan America (in una versione adolescente), Green Lantern e Batwoman oltre allo stile asessuato con cui hanno aggiornato Flash per concedergli assoluta libertà di azione e dare a chi lo segue una totale possibilità di immedesimazione. E poi c'è Dreamer, il debutto di un profilo transgender nella scuderia Marvel, il disegno e il lancio sono del 2018, l'uscita del 2021. Eternals. diretto da Chloé Zhao, premio Oscar per Nomadlands, è stato bloccato in molti paesi del Medio Oriente. Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati non sanno come comportarsi davanti a un bacio tra uomini, forse anche loro pensano che il sedere di Phastos sia «troppo tornito» e inventeranno qualche strano nomignolo per censurare lui e la sua famiglia. Ma il supereroe esiste per rappresentare tutti, per essere autoironico, risolutivo, per esprimere il meglio di sé e l'alternativo che ha grazie a un costume. Non sventolano l'arcobaleno per moda e nemmeno correggono il tiro dopo decenni di visione monotematica perché quell'universo è splendidamente queer per natura. Non serve il 2021 per sapere che Robin è gay, serve il 2021 per dirlo. E resta una buona notizia nonostante tutti i «lah-de-dah» che ci sono dietro.

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia il 13 gennaio 2021. Caro Dago, da buon erede dello stalinismo, anche il Politicamente Corretto rivolge le proprie purghe anzitutto al proprio interno. Allora voleva dire nella nomenclatura del Partito Bolscevico, oggi significa nello star system dell’industria culturale americana. Ivi compreso il fumetto, quest’opera di artigianato pop che esprime ancora oggi un bel pezzo di immaginario a stelle e strisce, a partire dal contrasto attualissimo tra l’idealismo buonista liberal e il realismo cupo conservatore, ovvero tra Superman e Batman. Transitando dall’universo Dc a quello Marvel, c’è un (non) eroe che è ancora più dark, più scorretto, più sospettabile di istinti paratrumpiani del Cavaliere Oscuro, ovvero Il Punitore. Che infatti in questi giorni ha scalato posizioni nelle liste di proscrizione, in perenne aggiornamento nella (fu?) patria del Primo Emendamento. Cerco di scriverla per com’è, conscio che il surrealismo è ormai sopravanzato dalla cronaca: poiché alcuni degli sciroccati che hanno invaso Capitol Hill (“golpisti”, obiettivamente, è troppo per le truppe sciamanesche, checché ne dica il politically correct trasversale avvezzo a trattare come legittimi capi di Stato macellai quali l’ayatollah Khamenei) ostentavano nell’abbigliamento il simbolo di The Punisher, il personaggio va censurato, o addirittura eliminato dal pantheon Marvel. A gettare il sasso è stato l’account specializzato ComicTropes, che ha sentenziato: “I manifestanti che hanno invaso Capitol Hill indossavano uniformi con il logo di Punisher. Credo che la Marvel debba evitare di proporre in maniera aggressiva questo marchio in modo che non venga pubblicato ovunque, oppure che abbandoni il character di Punisher”. Insomma, la casa editrice (che recentemente ha strombazzato l’introduzione nelle proprie saghe cinematografiche di eroi Lgbt e multiculti, alimentando quell’ideologia che ora le si ritorce contro) quantomeno dovrebbe iniziare a pubblicizzare la serie attenzionata con discrezione, magari riducendola a pubblicazione clandestina, auspicabilmente limitata ai mercatini dell’usato dell’Alabama. Ancora meglio, dovrebbe riscrivere da capo la psicologia e il carattere di Frank Castle, che da veterano di guerra ossessionato dalle ferite personali e collettive potrebbe diventare un hippie pacifista con un lavoro nella Silicon Valley, meglio se afroamericano, meglio ancora se aderente al Black Lives Matter. In caso contrario, non rimarrebbe che la cancellazione della collana (la “cancel culture” non è uno slogan, ma una prassi repressiva in azione quotidianamente), magari con un’ultima puntata in cui il reprobo viene sconfitto da un suo doppio Antifà. Paiono esagerazioni, invece queste castronerie fobiche ipercorrettiste sono state parecchio rilanciate sui social (d’altronde ormai le Big Company quando sentono odor di censura antisovranista trattengono a stento l’orgasmo, direbbe Bersani) e raccolte perfino da un disegnatore del personaggio, Mitch Gerads. Il quale cinguetta un classico politicamente corretto, la confessione con pubblica ammenda e richiesta di pene esemplari: “Ho lavorato sul personaggio per venti albi, ed ho disegnato un nuovo teschio. Ho lavorato anche ad una toppa per motivi di beneficienza. E vedendo queste immagini (fortunatamente quello non è il mio teschio) penso che sia giusto che la Marvel lo ritiri fino a quando non sarà più utilizzato a scopo di incitamento all’odio”. Salta così lievemente il principio della responsabilità individuale (noi biechi reazionari continuiamo a pensare che il problema degli imbecilli risieda nell’imbecillità, non nell’abbigliamento o nella gadgettistica), ma cosa volete che sia, in un Paese che sulla libertà dell’individuo è stato costruito.

Francesco Merlo per "la Repubblica" il 13 gennaio 2021. L'illiberale cacciata di Trump da Twitter finalmente illumina il mondo fuorilegge dei social. Solo la legge può regolare i servizi pubblici (acqua, luce) anche di proprietà privata. E se la legge non poteva impedire a Trump di fare il selvaggio su Twitter, di certo doveva impedire a Twitter di fare il selvaggio con Trump. La libertà d' espressione dicevano i rivoluzionari francesi "o è totale o non è". E il bullo vincente è peggio del bullo perdente.

Filippo Facci per "Libero quotidiano" il 13 gennaio 2021. È persino divertente guardare come i finti democratici e i giornalisti-intrattenitori stile Beppe Severgnini cerchino di giustificare l' esclusione di Donald Trump dai principali social-network, ora che l' ex presidente è rotolato dallo scranno ergo dargli il calcio dell' asino costa pochissimo. Lo capisce anche uno scemo che la cosa è grave, che si tratta di una censura pura e che la circolazione delle idee non può essere vincolata alla loro natura, a meno che siano tassativamente vietate dalle leggi: come il fascismo in Europa, il nazismo in Germania, ormai il giornalismo in Italia. Ne hanno convenuto statisti come Angela Merkel o Emmanuel Macron, in linea peraltro con un sacco di gente che con Trump non ha davvero niente a che fare, anche perché il ragionamento è semplice: non è possibile che un' azienda economica (che giustamente persegue il profitto) possa decidere chi parla e chi no, mettendo soavemente in discussione le fondamenta della nostra comunità democratica. Sono però vere tre cose: una è che il problema è vecchio e resta irrisolto dalla politica, tanto che negli anni c' è stata un sacco di gente censurata (persino da queste parti) senza che si alzasse un refolo; un' altra è che proprio sulla libertà delle idee, e sulla diffusione di idee anche balzane e manifestamente false (terrapiattisti, complottisti dell' 11 settembre, no-vax e fanatici religiosi) questi social network sono prosperati negli anni: se le regole valse per Trump fossero valse sin dall' inizio, Twitter e Facebook non avrebbero certo raggiunto miliardi di utenti e di introiti e di potere mediatico imbarazzante; e sarà anche vero che questi network sono dei privati che mirano al profitto (e alla sopravvivenza) e dovrebbero poter censurare chi vogliono, ma allora vale per tutti, anche per Libero, il Corriere della Sera, qualsiasi organo d' informazione privato che senza profitto non avrebbe la sopravvivenza. Resta che c' è una vacatio legis e un vuoto di potere riempito dai social, con le democrazie storiche che arrancano: ma non è che di conseguenza possiamo ridurci a trovare «opportuna» una decisione non democratica solo perché non piace a Beppe Severgnini, un giornalista-intrattenitore di Cremona. «I social non possono essere tubi vuoti dove passa di tutto», ha scritto l' intrattenitore sul Corriere, distratto per una volta dalle inezie quotidiane: perciò i social - non si scappa - dovrebbero essere dei tubi pieni dove passa quello che vuole Severgnini. Quella che è andata perduta, e che non sarà Facebook a restituirci, è la figura di intermediazione che gli opinion makers hanno rappresentato per almeno un secolo: negli ultimi decenni la rappresentavano i giornalisti, padroni del vero, del falso, dei fatti e del contraddittorio. Ora questa roba non c' è più, e non si torna indietro, purtroppo: i politici parlano direttamente al volgo (e sono volgo come loro) e ciascuno tende a raccontarsela, gli interessa solo di sé e dei propri problemi, si chiude nella famosa bolla che tende a escludere il resto del mondo: sono nate così le post-verità e le fake news. Però il tizio di cui stiamo parlando è (era) il presidente degli Stati Uniti democraticamente eletto, quindi non è che lo stesso Occidente, che intanto santifica democraticamente altri antidemocratici (arabi, cinesi, dittature con scranno all' Onu) possa spostare i confini e le regole secondo simpatia. Sentite Severgnini: «È ora che i social si sveglino e assumano le proprie responsabilità, visto che i governi democratici sonnecchiano e le autorità indipendenti arrancano». lo scenariO Ora provate a sostituire la parola «social» con «Hitler» oppure «Mussolini», o se volete sgravare scrivete «magistratura»: avrete lo stesso incerto scenario (compresa una crisi economica, ora anche pandemica) che precedette dei pieni che riempirono dei vuoti, cioè dei poteri che presero il posto di altri. È un discorso esagerato? Mica tanto: in fondo, negli Usa, l' insurrezione non c' è stata, e il risultato del voto democratico è stato accettato. L'unica cosa che c' è stata di sicuro è il silenziamento di Trump, che, piaccia o meno, rappresenta molti milioni di persone: questo mentre altre - dementi al cubo, haters, diffamatori, invasati, adescatori - hanno la fortuna di non essere così popolari. Insomma, no, non è il ritorno del dibattito tra politica e cittadini, non è una rinnovata separazione tra medium e contenuto coi giornalisti che vorrebbero continuare a rappresentare le regole, magari anche quelle dei social. Le regole e i codici dei social peraltro sono attualmente ridicoli, fanno ridere, sono discrezionali, i censori o decisori non hanno neppure una faccia. Non serve che si costituiscano come nazioni e magari si siano delle regole ferree, una polizia postale, una Costituzione: ci sono già gli stati normali, democratici, quelli che a mezzo delle loro leggi fatte da parlamenti eletti (e votati, se possibile) decidono chi incita all' odio o alla violenza o al razzismo all' insurrezione: decidono loro, non i sensi di colpa di Mark Zuckerberg o la banalità del bene di Beppe Severgnini da Cremona.

Social, Sgarbi: "Contro il moralismo non c'è vaccino". Vittorio Sgarbi commenta la chiusura del profilo Twitter del presidente Donald Trump e il "boicottaggio" del social network Parler da parte dei colossi del Big Tech. Francesco Curridori, Mercoledì 13/01/2021 su Il Giornale. "È una cosa enorme, gravissima". Così il deputato e critico d'arte Vittorio Sgarbi, nel corso di un'intervista rilasciata a ilGiornale.it, commenta la chiusura del profilo Twitter del presidente Donald Trump e il "boicottaggio" del social network Parler da parte dei colossi del Big Tech. Secondo Sgarbi, quella è stata una scelta sbagliata "perché è evidente che nessuno ha potere di censura se non è stabilito da un'autorità statuale". E, se da un lato "ci dovrebbe essere una regolamentazione", dall'altro "mi pare che tutto si deve poter dire", spiega il noto polemista, da sempre "preoccupato che qualcuno stabilisca quel che si può dire". Una censura che colpisce maggiormente la destra, sia negli Stati Uniti sia in Italia, per colpa del "perbenismo, un atteggiamento mentale di chi pensa di essere superiore agli altri e che è proprio specialmente della sinistra". Nel nostro Paese, infatti, proprio in questi giorni il profilo Twitter del quotidiano Libero è stato temporaneamente chiuso. Anche su questo Sgarbi ha le idee molto chiare: "È una cosa inaudita che, come tutte le forme di censura, mi auguro faccia aumentare le vendite di Libero". Sembra, dunque, ormai chiaro che ci si stia avviando, passo dopo passo, verso una sorta di dittatura del politicamente corretto che "è cominciata da un pezzo", spiega Sgarbi che aggiunge: "esattamente dopo l'estrema violazione del politicamente corretto fatta da Grillo, quando i suoi stessi accoliti hanno rovesciato questa posizione". Un voltafaccia che nel mondo della sinistra e dei pentastellati "il moralismo si moltiplica e si perpetua" come "una specie di malattia mentale che è iniziata con il Covid e le fake news". Il deputato del gruppo misto, a tal proposito, ricorda "quando si è immaginato di pensare a commissioni parlamentari e altri istituti per impedire ad altri di dire cose diverse" e conclude: "È molto inquietante, è una grave malattia e non so se ci sarà il vaccino per curarlo". Una presa di posizione, quella di Sgarbi, molto simile a quanto ha dichiarato sempre su ilGiornale.it il giornalista Massimo Fini: "L'odio è un sentimento, come la gelosia, e non si possono mettere le manette ai sentimenti. Non l'hanno fatto neppure i regimi totalitari, all'interno dei quali venivano proibite determinate azioni, ma non i sentimenti". Giuseppe Cruciani, invece, ha attaccato i padroni dei social network "che possono consentire lo sviluppo di strumenti di comunicazione dove nessuno può interferire" e aggiunge: "Di istigazione all'odio è pieno Twitter e Facebook e bastano le leggi attuali per punirlo”.

Alessandro Longo per repubblica.it il 14 gennaio 2021. Il nuovo rifugio dei movimenti dell’ultra destra, cacciati da Facebook e Twitter, si chiama Gab e sta accogliendo circa mezzo milione di nuovi utenti al giorno, con picchi di traffico di 20milioni di accessi quotidiani. A dichiarare i numeri è stato in questi giorni il suo fondatore, Andrew Torba, imprenditore texano con un passato nella Silicon Valley, con cui è in rotta da anni – dichiara – per le sue idee sovraniste, cristiano-radicali e vicino ai movimenti dell’alt-right (destra alternativa, estremista). Gab è attivo dal 2016, ma non è mai stato così popolare: in effetti, è sufficiente navigarci dentro per vedere che l’eccesso di traffico sta rallentando parecchio il caricamento delle pagine. Ma i server di Gab, ora sotto stress, sono anche il suo asso della manica: “Possediamo i nostri server, non ci possono spegnere facilmente", ha scritto ieri Torba, alludendo a quello che Amazon ha fatto con Parler, il social network prima preferito dall’ultra destra. Amazon ospitava Parler sui propri server, ma l’ha staccato per violazione delle sue policy, cioè perché la moderazione fatta dal social, sui post, era troppo blanda. Gli assaltatori del Congresso Usa avevano pubblicato istruzioni su come evitare la sorveglianza e annunciavano, su Parler, che avrebbero portato armi; oltre che lanciare minacce di morte a esponenti del partito democratico americano. Su Gab stanno arrivando quindi gli orfani di Parler, che era arrivato ad avere 2,5 milioni di utenti registrati. Ma non solo: anche chi si sente discriminato su Twitter e Facebook per le proprie idee sovraniste ora preferisce migrare in lidi che sente più affini. Qualche giorno fa ha consigliato di andare su Gab anche il quotidiano online italiano Primato Nazionale, che si definisce “sovranista”; suggerisce anche altri social in ascesa (anche se meno popolari di Gab), come MeWe e Rumble. Soprattutto consiglia VK, però, il principale social network russo. Si noti che Gab a differenza di Parler si presenta nettamente schierato a favore di una certa posizione politica. Se Parler, almeno nella facciata, si voleva posizionare come una “piazza neutrale” di dibattito, Gab è espressamente una casa, quasi un partito, per chi si identifica con idee della destra radicale. Ha un approccio chiuso e isolazionista: il fondatore scrive che ha scelto di limitare il motore di ricerca interno per ostacolare le indagini dei “giornalisti diabolici”. Tra i nemici che individua, non solo i democratici ma tutto il mondo del “capitalismo digitale”, delle big tech che considera pericolosi per i diritti della libertà di espressione. Di qui la scelta “autarchica” di essere quanto più possibile indipendente e quindi più resiliente, grazie a propri server, sui cui ora è in arrivo anche Parler; ma per lo stesso scopo offre anche un proprio browser, Dissenter, che blocca in automatico la pubblicità delle big tech come Google. Gab è bloccato da tempo, per i propri contenuti, da Apple e Google; ma loro chiedono agli utenti di accedere via browser anche da smartphone. A senso unico anche i gruppi che si trovano in Gab. “Joe Biden Is Not My President”, con quasi 100mila membri; “Stop the Steal” (che allude, come ha fatto il presidente uscente Donald Trump, al furto (“steal”) elettorale), con 140mila membri. Vari gruppi dedicati a Trump, ma anche ad altri della galassia sovranista, come Jair Bolsonaro, presidente del Brasile. Tra i gruppi consigliati a cui iscriversi anche quelli su cowboy, Qanon (la teoria del complotto che accusa i democratici di nefandezze, fino alla pedofilia, e che ha avuto un ruolo anche nell’assalto al Congresso Usa), la Chiesa cattolica “romana”, dieta e cucina a base di carne. Ovunque è possibile trovare post che accusano i democratici di complotti anti-americani, di essere corrotti e “satanici”; una teoria comune, lì affermata, è che gli Usa sono ormai un Paese “comunista” o “socialista”. Qua e là spuntano anche post contro i vaccini covid-19, accusati di essere pericolosi. Domina in generale un rifiuto della realtà fattuale ufficiale, quella secondo cui le elezioni Usa sono regolari, i vaccini sono efficaci e i democratici non sono una banda di criminali e pedofili. “Questa fuga da Facebook avrà due effetti”, commenta Giovanni Boccia Artieri, professore ordinario di Sociologia all’università di Urbino e tra i massimi esperti di digitale in Italia. “Da una parte, Facebook si svuoterà di certi contenuti e utenti conservatori. Dall’altra, si creeranno nuove “bubble”, circoli chiusi: frequentare una specifica piattaforma di social media può assumere il significato di identificarsi politicamente e alimentare un ambiente di contenuti a tua misura, in cui ti riconosci e che ti corrispondono emotivamente”. Un fenomeno che può contribuire, secondo vari esperti, a un’ulteriore polarizzazione e quindi radicalizzazione di idee e persone; in visioni totalmente contrapposte: non solo della politica, ma della realtà stessa.

"L'informazione è in trappola. In pericolo la libertà di pensiero". Dialogo con Marco Tarchi.

Il professor Marco Tarchi è sicuro: " L'homo digitalis intrappolato nella Rete coltiva ormai un’ambizione suprema e spesso unica: sentirsi un leader di opinione". Federico Giuliani, Sabato 16/01/2021 su Il Giornale. Non ha mai ceduto al richiamo dei social network. E a maggior ragione non intende farlo adesso, nell'epoca in cui le multinazionali del web hanno cambiato completamente - e forse definitivamente- le nostre vite. Marco Tarchi, politologo e professore ordinario di Scienza Politica a Firenze, si tiene ben lontano da piattaforme come Facebook e Twitter. Canali che, tra gli altri aspetti, hanno trasformato il nostro modo di socializzare, la comunicazione politica e perfino la democrazia. Di questo e tanto altro abbiamo parlato proprio con il professor Tarchi.

Professore, dopo i fatti accaduti in America, Twitter ha censurato l'account di Donald Trump (profilo che contava decine di milioni di follower). L'opinione pubblica si è spaccata in due: alcuni hanno ritenuto questa mossa corretta, altri l'hanno vista come un attacco alla libertà e alla democrazia. Lei come valuta la decisione del noto social di silenziare la voce del presidente americano?

"È l’ennesimo segnale della pericolosità, per la libertà di pensiero, dell’oligopolio informativo che si è costituito attorno alle multinazionali del web. Fino a non molti anni addietro, per far conoscere le proprie opinioni in sede pubblica si poteva disporre di una pluralità di canali influenti: tv e radio, siti web, ma anche giornali, riviste, libri. Nessuno di questi è scomparsa, ma la loro capacità di irradiazione si va sempre più riducendo a profitto dei social media. Chi frequenta questi ultimi non presta praticamente più alcuna attenzione ad altre fonti. E se qualche voce viene estromessa da Facebook, Youtube, Twitter, TikTok e via dicendo, è come se non esistesse più. Ben pochi andranno a cercarla, e ad ascoltarla, altrove. Siamo alla cappa di piombo della censura, come ha scritto di recente un intellettuale acuto – e censurato – come Alain de Benoist".

Da un punto di vista "tecnico", c'è il rischio che i social network possano influenzare la democrazia e il dibattito democratico? Se sì, in che modo?

"Certamente. Si è confermata l’osservazione che il grande scrittore e dissidente russo Solgenitsin – uno dei tanti grandi intellettuali non conformisti il cui nome è oggi dimenticato dai media mainstream – aveva fatto in un discorso, allora celebre, tenuto all’università di Harvard dopo essere arrivato negli Stati Uniti dopo una lunga detenzione nei campi di concentramento sovietici. Nell’Urss, aveva detto, non è consentito esprimere voci critiche. In Occidente in teoria è possibile farlo, ma basta che qualcuno tagli il filo del microfono agli interlocutori scomodi, e il risultato è lo stesso: la costrizione al silenzio di chi non si allinea alla volontà di chi è al potere".

La scure di Twitter è caduta anche sul quotidiano Libero, per il momento soltanto "ammonito". Che cosa rischiano i media (e in generale il mondo dell'informazione) "affidandosi" troppo ai social?

"L’oligopolio di cui ho accennato chiude l’informazione in trappola: se si rinuncia alle piattaforme telematiche si riduce l’audience, ma ci si espone al rischio della censura. Aver rinunciato alla battaglia contro lo strapotere del web, per quanto ardua fosse, è stato un grave errore per la stampa cartacea. Che comunque, spesso a sua volta ha censurato le voci scomode".

Dovessimo fare un bilancio, a suo avviso l'impatto dei social network sul mondo della comunicazione è positivo o negativo?

"Entrambi gli aspetti sono presenti. Da un lato, la rete offre la teorica possibilità di esprimere liberamente i più diversi punti di vista e di far circolare informazioni altrimenti difficili da ottenere. Dall’altro, di fatto non solo non annulla la possibilità di censura, ma ne amplifica gli effetti (si veda il caso di Trump, ma anche quello, in Francia, del comico Dieudonné, a cui le scorrettezze politiche erano già valse l’esclusione dal circuito di teatri e locali pubblici e che adesso si è visto bandire da YouTube, dove aveva trasferito i suoi spettacoli. E ci sono stati moltissimi episodi analoghi in varie parti del mondo)".

Com'è cambiata (in peggio e in meglio) la comunicazione politica nell'era dei social?

"In meglio: è diventata più immediata, diretta e ipoteticamente interattiva. In peggio: ha ingigantito la personalizzazione nei suoi aspetti più deplorevoli, con l’emarginazione dei temi propriamente politici a profitto del chiacchiericcio sui dettagli della vita privata degli esponenti dei vari partiti o dei titolari di cariche istituzionali – Instagram è il veicolo più dannoso in questo senso – e ha dato più spazio all’umoralità dei sostenitori e degli avversari. Per non parlare dell’ampia circolazione di notizie false e commenti destituiti di ogni fondamento, usati per screditare il "nemico"".

In che misura, invece, i social come Twitter e Facebook hanno peggiorato le relazioni personali e, in generale, l'esistenza umana?

"In misura amplissima. Hanno scatenato fino al parossismo le tendenze narcisistiche che, più o meno visibili, giacciono nel fondo dell’animo umano. E per apparire, per farsi notare, per guadagnarsi i famosi quarti d’ora di notorietà, c’è chi è disposto a dare il peggio di sé, a lasciarsi andare alle stramberie e agli eccessi più svariati. Le pagine – da molti definite “apocalittiche” che un politologo di grande acume qual era Giovanni Sartori aveva dedicato nel 1997 alle conseguenze nefaste della dipendenza dal video televisivo nel suo libro Homo videns hanno ritrovato una straordinaria attualità se proiettate nel contesto dei social media: indebolimento del sapere, trionfo della volgarità, successo di pubblico delle trovate più stupide e stravaganti. Anche in questo caso siamo dinanzi ad una mutazione antropologica: l’homo digitalis intrappolato nella Rete coltiva ormai un’ambizione suprema e spesso unica: sentirsi un leader di opinione. Molti individui, che in precedenza seguivano ideologie, programmi, progetti espressi da partiti, movimenti, associazioni e si accontentavano di un ruolo di sostenitori e collaboratori di quelle entità collettive, oggi mirano a costituire la propria cerchia di fedeli – i mitici “amici Facebook” –, magari destinati a non essere mai conosciuti di persona, e impartiscono lezioni urbi et orbi, emanano scomuniche, scaricano illazioni velenose o insulti su ogni soggetto non di loro gusto. La delazione e la diffamazione si sono moltiplicate, così come la credulità e la mancanza di senso critico. Si aggiunga a tutto ciò il fatto che le ore dedicate, nell’arco di una giornata, alla consultazione via cellulare o computer dei profili social propri ed altrui, allo scambio di post e di messaggi Whatsapp e così via, vanno a discapito di molte altre attività più produttive. Si legge molto meno di prima, si dedica un minor tempo ai rapporti intrafamiliari e alla frequentazione degli amici in carne ed ossa, si fa persino meno attività fisica e sportiva. Sugli studenti di ogni ordine e grado, tutto questo ha un effetto particolarmente deleterio, che quasi tutti coloro che si dedicano all’insegnamento constatano quotidianamente. Se c’è qualcuno che non se ne accorge, è perché passa il suo tempo libero sui social...".

Professor Tarchi, lei si è sempre tenuto fuori dal mondo dei social: è ancora convinto della sua scelta?

"Più che mai, e quanto ho detto sin qui dovrebbe essere sufficiente a spiegare perché. Preferisco spendere il mio tempo in altre maniere e non mi interessa minimamente condividere qualunque aspetto della mia vita privata con persone che con essa non hanno granché, o nulla, a che fare. Ma poiché nessuno è perfetto, ho anch’io una debolezza da confessare: mi diverte, quando sono in vacanza oppure ho un ritaglio di tempo libero, rendere conto di ristoranti, luoghi, musei che ho visitato nel corso dei miei viaggi (viaggiare è una delle mie passioni, e ho sempre interpretato questa vocazione come qualcosa di molto più importante e interessante dell’escursione turistica), per cui, nell’arco di sette anni, ho accumulato più di mille e trecento recensioni su Tripadvisor. Le pubblico anonimamente, anche se gli amici sanno come reperirle. Spero che servano ad altri appassionati del viaggio per orientarsi meglio e mi fa piacere quando qualcuno esprime un giudizio favorevole su quanto ho scritto o mi scrive per approfondimenti. Penso che le mie esperienze in paesi non molto frequentati, come Armenia. Georgia, Ucraina, Venezuela, Colombia, Ecuador ecc., siano utili ad altri come molte di quelle di altri lo sono state per me. Come vede, un qualche spazio al narcisismo lo lascio anch’io, non solo quando parlo in un’aula universitaria o in una sala per conferenze. E anzi, stavo dimenticando: mi piace anche recensire film su qualcuno dei siti specializzati. Quando era ancora possibile frequentare le sale – che rispetto allo schermo di un notebook dove guardare una pellicola in streaming danno ben altro piacere – ogni anno ne vedevo almeno un paio di centinaia. Commentarli con altri, in certi casi, mi veniva spontaneo".

Maria Elena Barnabi per "cosmopolitan.com" il 7 gennaio 2021. È da ieri che me lo ripeto e ancora stento a crederci. Ho cambiato Google perché da oggi, mi fanno sapere dalla sede americana del colosso di Internet, la parola lesbica non è più bannata dalle ricerche suggerite di Google, e tutto è nato da una mia segnalazione. Il sistema si chiama Autocomplete ed è quello che, quando digitiamo una parola su Google, ne fa comparire altre, sulla base delle combinazioni più frequentemente digitate dagli utenti, in modo da facilitarci la ricerca (altri dicono che è per condizionarla, ma vabbè). Tipo: scrivi “Kate Middleton” e prima ancora di finire di digitare il nome, Google ti segnala “Kate Middleton Instagram, “Kate Middleton matrimonio”, eccetera. Fino a ieri lesbica rientrava di fatto nella lista delle parole bannate da Autocomplete, come per esempio, pedofilia e squirting. Come l’ho scoperto? Semplicemente scrivendo la parola sulla stringa di ricerca di Google (ho screenshot da esibire*). Ho chiesto spiegazioni a Google Italia e all’headquarter americano, e due giorni dopo ho visto che qualcosa si muoveva. Timidamente hanno cominciato a comparire i primi suggerimenti di ricerca: “lesbica dizionario”, “lesbica frasi”, “lesbica moderna” (ho screenshot da esibire*). «C’era un malfunzionamento del sistema», mi scrive un portavoce di Google, dopo due giorni di operazioni sull’algoritmo. «Stiamo lavorando per apportare dei miglioramenti sistematici e assicurare così che le persone possano continuare a ricevere previsioni di Autocomplete utili per quello che stanno cercando». Sono contenta perché da oggi in poi le giovani (o vecchie) ragazze lesbiche potranno digitare la parola su Google e trovare il risultato delle ricerche di altre ragazze come loro. Si crea una comunità di parole, di ricerche, di ricordi. L’altro giorno ho intervistato una ragazza lesbica di 17 anni e mezzo e lei mi raccontava di quanto sia importante rivendicare questa parola. «È una specie di atto politico. So che oggi questa parola è associata al porno. Ma quando la uso, è come se prendessi una posizione. Dire “Io sono lesbica” è come dire “Io non sono nient’altro per te: non sono un oggetto sessuale”». Viene da pensare che forse anche il motore di ricerca associava questo termine al porno: altrimenti perché bannarne i suggerimenti di ricerca? Sono andata leggere la pagina di Google dedicata ad Autocomplete. Google scrive che il sistema è disegnato per riconoscere termini e frasi che potrebbero essere violenti, sessualmente espliciti, carichi di odio o pericolosi. Quando il sistema si rende conto che questo tipo di materiale potrebbe emergere dalle ricerche suggerite, allora queste vengono fermate. Potrebbe essere il caso della parola “lesbica”, vista la passione degli italiani per contenuto pornografico che ritrae due o più donne. Ma anche per la parola “gay” ci deve essere un sacco di materiale pornografico online, eppure per quella parola Autocomplete funziona. A dir la verità funziona anche per altri termini che definiscono l’orientamento sessuale (ho screenshot da esibire*), come omosessuale, eterosessuale e bisessuale (ho fatto una prova anche con transessuale: funziona). Insomma lesbica era l’unica a non avere i suggerimenti: nel menù a tendina, non compariva niente. Se invece scrivi “gay”, prima ancora di terminare di digitare la parola, Google ti suggerisce le abbinate “gay pride”, “gay significato”, “gay flag” e così via. Chi era interessato all’argomento, per ottenere qualche minimo suggerimento, fino a ieri doveva optare per la parola “lesbismo”, oppure scrivere la parola in inglese, “lesbian”. Per carità, c’era sempre la cara vecchia opzione, cioè quella di non utilizzare Autocomplete e digitare nella barra di Google tutte le parole che davvero si intendevano cercare (“lesbica coming out”, per esempio).

Ora è tutto risolto. Davvero? Comunque, ora tutto questo è risolto: si trattava solo di un malfunzionamento. Non era invece un’ulteriore riprova del fatto che, anche nella rappresentazione del mondo omosessuale, si preferiscano gli uomini alle donne. «Assolutamente no», mi ha detto l’altra sera (orari americani) al telefono lo stessa portavoce di Google che mi segnalava la risoluzione del problema. «Anzi, il fatto che ci siano suggerimenti di ricerca per tutti gli orientamenti sessuali dimostra che non c’è filtro. Semplicemente non ce n’eravamo accorti». Mi ha ringraziato a nome del team americano per aver segnalato questo malfunzionamento. Le ho detto che dovrebbero fare un check anche sulle altre lingue europee. Se metti “lésbica” (portoghese) non esce niente, e neppure se metti lo spagnolo “lesbiana” o il danese “lesbisk”. Bene invece per le lesbiche tedesche e le francesi: loro hanno suggerimenti di ricerca attivi (ho screeshot eccetera*. Mi sono fermata qui. Google facesse il suo lavoro da solo. Io vado a festeggiare il Natale.

Il nuovo tipo di giornalismo. Il Fatto censura intervista di Marco Lillo ad Alfredo Romeo sul caso Consip. Redazione su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti in un video pubblicato sui suoi canali social racconta la storia dell’intervista di Marco Lillo ad Alfredo Romeo censurata. “Vi devo raccontare una storia fantastica di giornalismo moderno. La storia di un’intervista. Solitamente il giornalista fa le domande, l’intervistato risponde. Al Fatto Quotidiano hanno inventato una nuova forma di interviste. Il giornalista fa le domande e l’intervistato deve rispondere come vuole l’intervistatore“. “Marco Lillo – prosegue Sansonetti – un investigatore ed è vice direttore del Fatto Quotidiano ha chiesto una intervista a Romeo sul caso Consip. Romeo ha accettato qualsiasi domanda e chiesto solo di farla per iscritto. Marco Lillo dopo un po’ di tempo gli ha inviato diecimila battute di domande, quasi da Pm, non da giornalista. Romeo ha risposto a tutte le domande e ha compilato diecimila battute anche lui. A quel punto Lillo ha detto che era troppo lunga… Fa così una sintesi di settemila battute cambiando domande e risposte. A quel punto Romeo ha detto che è un atto di censura. Lillo quindi ha chiesto a Romeo di rispondere alle nuove domande e di non superare in totale (con le domande), le 10mila battute totali“. “Nell’intervista c’è un po’ tutto – sottolinea Sansonetti –, dall’accanimento dei Pm alla lotta tra le procure di Roma e Napoli e il fatto che ci va sempre in mezzo Romeo. Romeo racconta tutto, racconta le cose, critica i Pm, il gip Sturzo che l’ha arrestato e tenuto sei mesi in prigione. Lillo legge l’intervista e poi dice: “Io non la posso pubblicare”. Ma come non la può pubblicare? E Lillo dice che le risposte possono essere offensive e ingiuriose nei confronti dei magistrati…“. “Lillo quindi alla fine ha deciso di non pubblicare l’intervista a Romeo. Questo apre una riflessione: sul tipo di giornalismo che si sta affermando in Italia. E’ attività dei Pm e delle procure che ha la sua espressione cartacea in alcuni giornali che escono nelle edicole, ma ci dice molte cose sulla vicenda Consip… una brutta storia. L’intervista a Romeo – conclude Sansonetti – è il primo caso di giornalista che si censura da solo“.

Il caso. Intervista censurata a Romeo, Marco Lillo ritiene di essere il gip del caso Consip. Redazione su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti, in un video editoriale torna sulla vicenda dell’intervista ad Alfredo Romeo censurata dal Fatto Quotidiano. Il direttore riassume la vicenda: Marco Lillo, vice direttore del Fatto Quotidiano chiede un’intervista ad Alfredo Romeo che è l’editore del Riformista e anche uno degli imputati nel processo Consip. Tema dell’intervista è il processo Consip. “Romeo risponde subito di sì perché non ha problemi a parlare e non ha mai nascosto niente – dice Sansonetti –  Però il Fatto è il Fatto, non è un giornale che gode di una grande fama di correttezza e oggettività. Quindi chiede domande scritte e risposte scritte. Le domande che vuoi tu, quello che vuoi, io rispondo a tutte. Arrivano domande lunghissime, 10 cartelle di domande, Romeo risponde con 15 cartelle di risposte, Lillo risponde che sono troppo lunghe e propone una versione più breve. Ci si mette d’accordo, tra domande e risposte in tutto sono 10 cartelle. Ma Lillo dice che non può pubblicarle perché non le condivide”. “Ma si tratta di un’intervista, mica di un documento comune – continua il direttore del Riformista – Le interviste funzionano così: uno fa le domande e l’altro risponde. In genere le interviste più belle sono quelle dove c’è scontro, differenza di opinione. L’intervista si fa per conoscere l’opinione, l’opinione del giornalista va nell’editoriale. Così Lillo decide di censurare l’intervista”. “La pubblichiamo noi del Riformista, raccontando la storia – dice Sansonetti – Lillo corre ai ripari, qualcuno deve avergli detto che ha fatto una figuraccia. Prova a trovare una soluzione e pubblica l’intervista online spiegando che su carta non si può perché si rischiano le querele e invece online si può. Con una nota in cui spiega perché non l’ha pubblicata veramente curiosa. Da una parte insiste nel dire che non condivide le risposte, dall’altra dice che le risposte sono false perché ipotizzano fatti diversi da quelli ipotizzati dall’accusa. Lui non parla di accusa ma di magistrati, per lui l’accusa non esiste. I magistrati sarebbero il Pubblico Ministero. Queste sono le sue tesi pubblicate sul Fatto online”. “Faccio un paio di osservazioni – continua il direttore nel video editoriale –  La prima e sull’idea di giornalismo. Questa idea che il giornalismo è una forma di assistenza alla magistratura, non è più considerata come attività intellettuale indipendente, ma di servizio alla magistratura. Si chiama giornalismo giudiziario e ormai dilaga perché nei giornali ha preso il comando, non a caso Marco Lillo è il vice direttore del Fatto. Poi non è che Travaglio sia differente, pensa quelle cose lì. Fine del giornalismo. La mia proposta è che si abolisca l’Ordine e che si confluisca nel CSM e di consegnare ai magistrati la direzione della nostra professione perché ormai è così”. “L’altra cosa che mi colpisce  – continua nel video editoriale – è l’idea di processo, cioè al Fatto sono convinti che il processo consiste in questo: c’è l’accusa, il pubblico ministero che indaga se vuole, ha la verità in pugno, poi l’imputato può provare a chiedere scusa e avere una pena attenuata, oppure a trovare delle prove che smontino le accuse, non il contrario. Tutta la storia del Diritto è smantellata. L’idea non è quella che bisogna costruire un processo, cercare la verità e confrontare tesi diverse. C’è un magistrato che ha diritto di esprimere una sua congettura e quella è sicuramente la verità. Lillo parla delle ‘verità dell’accusa che sono indiscutibili e tu non mi stai portando le prove che sono false’. Questo non è vero perché Romeo nell’intervista porta le prove di interrogatori e intercettazioni. Ma a Lillo le prove non bastano. E comunque non ci vorrebbero, le prove le deve portare l’accusa nel diritto moderno. Ma loro sono ancorati a questa idea che si fa strada nella società italiana. Quelli che dicono che esiste uno Stato di Diritto vengono quasi considerati dei complici dei delinquenti che sicuramente sono dei delinquenti”. “Poi – continua Sansonetti – Lillo si impunta su un fatto: su un bigliettino trovato a 300 metri dall’ufficio di Romeo, che l’accusa attribuisce a Romeo ma una perizia dichiara che la calligrafia non è la sua, nella quale c’è scritto ‘30mila euro mese T.’ Non è vero, euro non c’è scritto. Lillo, sebbene sostenga di essere il principale autore di questa inchiesta, più volte sostiene che l’ha fatta lui non i Pubblici Ministeri, "se era per loro l’inchiesta era già perduta". Per questo lui ci tiene molto a questa inchiesta, perché la considera sua. Nella sua idea avrebbe fatto il salto di carriera e da gioranlista- vicepm sarebbe passato direttamente a pm o addirittura a Gip perché sarebbe stato lui a costringere il Gip Gaspare Sturzo a respingere la richiesta di archiviazione. Per Lillo sarebbe questo biglietto la prova che Romeo dava 30mila euro al mese a Tiziano Renzi. Anche se Tiziano Renzi dalle intercettazioni emerge che premeva per far vincere le gare d’appalto ad altri. Il biglietto poi è stato trovato dopo mesi dalla fine delle gare”.

Storia di un’intervista oscena censurata da Travaglio. Altro che eredi di Montanelli, Travaglio e co. e il giornalismo che diventa lo scantinato di un Tribunale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. Immagino che voi pensiate che una intervista sia un genere giornalistico nel quale l’intervistatore pone delle domande, possibilmente cattive e incalzanti, e l’intervistato risponde come pensa che sia giusto rispondere. Beh, siete gente antica. Al Fatto Quotidiano hanno inventato altri generi di intervista. Più moderni. Il principale è stato battezzato il “genere Lillo”, perché inventato proprio da Marco Lillo, uno dei principali investigatori del Fatto di cui è anche vicedirettore. Lillo immagina che una intervista consista in un gruppo di domande (modificabili) poste dall’intervistatore, e in un gruppo di risposte che lo stesso intervistatore detta all’intervistato. In particolare, se per caso l’intervistato è un imputato, è molto importante – e su questo il compito dell’intervistatore è vigilare bene – che le risposte dell’intervistato corrispondano perfettamente alla versione dell’accusa. Altrimenti è oltraggio. E un giornale serio come il Fatto (che talvolta definisce vermi i propri avversari, talvolta nani, bomba, innominabile, pregiudicato…) non può permettersi di oltraggiare qualcuno. Comunque mai i magistrati. Questa è la storia della mancata intervista di Marco Lillo, vicedirettore del Fatto, ad Alfredo Romeo, fondatore della Romeo Gestioni (azienda leader in Europa nel facility management, che più o meno vuol dire manutenzione cura e restauro di edifici e strutture edilizie) ed editore di questo giornale. Conosco bene la storia di questa intervista perché, essendo amico di Romeo, l’ho seguita giorno dopo giorno. È durata un paio di settimane. Probabilmente ce ne sono molte altre di interviste abortite, simili, che io non conosco. Credo comunque che valga la pena raccontarla. Alfredo Romeo un mesetto fa si presenta al suo processo (Consip) e rilascia una lunga dichiarazione spontanea, nella quale spiega come e perché non esista traccia di nessun reato da lui commesso, e come e perché le gare Consip siano state truccate ai suoi danni. Accusa il mondo politico e lo stato maggiore di Consip. E anche alcuni magistrati che ritiene si siano comportati in modo non corretto o non adeguato o persecutorio. Il Fatto non scrive una riga, anche perché in questa udienza l’accusa parla pochissimo e quando parla fa una specie di autogol. Dunque non c’è ragione di riferire sul Fatto. Però, probabilmente, Lillo si incuriosisce. Forse perché nella deposizione di Romeo ci sono dei riferimenti non troppo lusinghieri su Matteo Renzi. Roba ghiotta per il Fatto. Non so se è per queste ragioni che pochi giorni dopo la deposizione Marco Lillo chiede un’intervista a Romeo. Il quale, come spesso gli succede, non ha grandi problemi a parlare, se qualcuno vuole interrogarlo (capita raramente). Lillo, tra l’altro, vuol sapere se c’è stato quel famoso incontro tra Romeo e Tiziano Renzi (sì, c’è stato e non si è parlato di Consip) attorno al quale si discute da anni (nessuno però l’ha mai chiesto a Romeo). Benissimo, dice Romeo, tutte le domande che vuole, risponderò a tutte senza silenzi o reticenze. Però scritte. Domande scritte e risposte scritte. Okay, dice Lillo e si mette a lavorare. Ci mette un po’ a preparare 10mila battute di domande. Non molto brillanti, per la verità, sembrano scritte più da un Pm, o da una guardia, che da un giornalista. Romeo non fa una piega. Risponde a tutte le domande. Con circa 15 mila battute. È raro, francamente, vedere un’intervista dove le risposte non siano almeno il doppio più lunghe delle domande, ma Romeo si adegua e accetta la sproporzione. Manda il tutto a Lillo. Nel frattempo arriva la richiesta di rinvio a giudizio per Romeo e per gli altri imputati Consip (nel secondo dei processi Consip, perché i magistrati hanno preferito spezzettare i processi) e Lillo scrive sul Fatto che il merito di questa richiesta è suo (in un primo momento i Pm avevano chiesto l’archiviazione) e che l’inchiesta in realtà l’ha condotta lui, e che finalmente la verità prevale. Credo che su questo abbia ragione (non sulla verità ma sulla conduzione dell’inchiesta). L’inchiesta è sua. E forse anche la richiesta di rinvio a giudizio. Dopodiché scrive a Romeo che il testo delle risposte non va bene, perché è troppo lungo. E allora lui ha fatto un sunto. Riducendo da 25 mila battute complessive a 7.000, cambiando tutte le risposte e persino le domande. Queste 7000 battute sono un’opera di fantasia del tutto priva di legami con il pensiero di Romeo. Il quale gli risponde: Amico mio, così non si può fare. Tu mi hai censurato e io non ti autorizzo a pubblicare. Lillo risponde a sua volta, cadendo dalle nuvole, che per carità, nessuna censura, è solo una questione di lunghezza, e chiede a Romeo di riscrivere tutto, partendo dalle nuove domande, ma di non superare le 10 mila battute. Romeo accetta e l’altro ieri manda il nuovo testo. 10 mila battute comprese tutte le domande di Lillo. Le risposte contengono critiche ad alcuni magistrati (in particolare il Gip Sturzo, ma anche altri) e accuse ai vertici Consip e a diversi esponenti politici, tra i quali Renzi e i renziani. Romeo spiega come lui sia stato escluso da tutte le gare sebbene sia considerato, nel campo, di gran lunga il numero uno, riferisce delle intercettazioni, agli atti, dalle quali risulta che i vertici Consip avevano l’ordine di escludere Romeo dagli appalti, se la prende con l’ AD di Consip, con i renziani, con Verdini e con altri, e infine smonta la storiella del bigliettino con scritto “30 a T e 5 a Rc” che secondo Lillo è la prova della corruzione e invece non è nulla. Racconta anche di come, dalle intercettazioni sempre agli atti di uno dei due processi, risulta che gli investigatori concordarono con un imputato una perquisizione e alcuni interrogatori. E questo imputato – evidentemente molto poco credibile – è l’unica fonte di indizi contro Romeo. La tesi di Romeo è che ci sia stata una congiura? No: due congiure. Una dei magistrati di Napoli che volevano colpire Renzi a tutti i costi, e una dei magistrati di Roma che, a tutti i costi, volevano salvare Renzi. Lui, Romeo, è finito in mezzo come doppio parafulmine e capro espiatorio. Benissimo. Tutto a posto. Si aspetta la pubblicazione. Ma in serata arriva un messaggio di Lillo che spiega che lui non può pubblicare l’intervista perché le cose sostenute da Romeo non coincidono con le opinioni di Lillo e soprattutto con le accuse dei Pm. E ciò, ovviamente, non è ammissibile. Quindi, o Romeo cambia radicalmente le risposte, o l’intervista è impubblicabile. Spiego a Romeo che queste cose, tanti anni fa, le faceva anche un magistrato russo che si chiamava Vyšinskij. Lui però non si rassegna al sistema Vyšinskij e non cambia le risposte. Siccome però era una bella intervista, la pubblichiamo noi. Ringraziando Lillo per la collaborazione.

Da giornalettismo.com il 30 dicembre 2020. La regola della conferenza stampa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte – il tradizionale appuntamento di fine anno organizzato dall’Ordine dei Giornalisti e dall’associazione stampa italiana – è quella di fare una sola domanda per giornalista, in modo tale da consentire a tutte le testate di rivolgere il proprio quesito all’istituzione. Ma cosa succede se a quella domanda non arriva una risposta soddisfacente? Ci può essere un incidente, come avvenuto – ad esempio – a Claudia Fusani proprio nel corso della conferenza stampa di oggi. Claudia Fusani aveva chiesto del piano vaccini, ottenendo una risposta – piuttosto generica – dal presidente del Consiglio che ha sottolineato come l’azione del governo sia stata importante e mai da mettere in discussione da questo punto di vista. A quel punto, tuttavia, la Fusani ha chiesto ulteriori spiegazioni e specifiche che, in realtà, il presidente del Consiglio sembrava anche propenso a voler dare. Tuttavia, è stato perentorio l’intervento del presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Verna, il quale ha chiesto alla segretaria di sala di far terminare l’intervento di Claudia Fusani: «Sono un fanatico dell’articolo 3 della Costituzione – ha detto Verna -: uguale per tutti. Anzi chiedo alla segretaria di sala di fare in modo che ogni giornalista, finita la domanda, vada al suo posto». Successivamente, vista la protesta della giornalista, il presidente dell’Ordine ha “concesso” un supplemento di risposta al presidente del Consiglio. Il momento di tensione che c’è stato, tuttavia, non è passato inosservato. Diversi colleghi giornalisti, su Twitter, hanno commentato l’episodio in maniera molto severa. Oscar Giannino, inoltre, ha aggiunto (citando un tweet di Annarita Di Giorgio del Foglio) che «quando un ordine dei giornalisti impedisce ai giornalisti di insistere quando il politico non risponde, è un servizio d’ordine del potere». Nel momento in cui, a tanti giornalisti, si è contestato di aver fatto domande non irresistibili al presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel corso delle tante conferenze stampa di questi mesi, proporsi come leggermente più incalzante per ottenere una risposta puntuale dovrebbe essere visto come un aspetto positivo e non come una mancanza di rispetto all’istituzione. Invece, lo stesso ordine dei giornalisti, su questo punto, non sembra pensarla ugualmente.

"Scusi, allora perché...", "Basta". Cala il gelo alla conferenza di Conte.

La giornalista di Tiscali news, Claudia Fusani, è stata ammonita dal presidente dell'Ordine dei Giornalisti per una "domanda di troppo" al premier. Rosa Scognamiglio, Mercoledì 30/12/2020 su Il Giornale. Censurata per una "domanda troppo" al premier Giuseppe Conte. Così, la giornalista di Tiscali news, Claudia Fusani, è stata ammonita - alla presenza di altri colleghi - dal presidente dell'Ordine dei giornalisti Carlo Verna nel corso della consuetudinaria conferenza stampa di saluto ai cronisti della stampa parlamentare organizzata a Palazzo Chigi nella mattinata di mercoledì 30 dicembre. Di quale atto di lesa maestà si sia macchiata Claudia Fusani è ancora da appurare. Certo è che, a detta del presidente dell'Odg Carlo Verna, pare abbia infranto la norma interna alle conferenze stampa parlamentari per cui è possibile rivolgere al premier una sola domanda durante l'incontro. Una regola ritenuta necessaria per evitare di protrarre oltremisura il colloquio coi giornalisti ma che, di fatto, rischia di inficiare il lavoro dei cronisti in sala. Senza contare che, come nel caso specifico della Fusani, si trattava di una lecita richiesta di chiarimento "alla domanda da cui il premier aveva svicolato", scrive Libero Quotidiano. "Ciascuno di noi si ricorda che le era stato chiesto fin da luglio di fare mente locale sul Recovery Plan e una svolta dallo stesso segretario Pd Zingaretti - spiega la giornalista di Tiscali news -. Perché l'approccio non è stato cambiato prima, perché siamo arrivati con questo ritardo? La sua squadra di governo è ancora la più bella del mondo? Infine, perché il Parlamento non ha ancora ricevuto il cronoprogramma della campagna di vaccinazioni?". "Per quanto riguarda agosto, faremmo un torto ai ministri, ad Amendola, alle amministrazioni periferiche, ai sindaci...", controbatte il premier Giusppe. Qui la Fusani interviene: "Non ci sono i progetti, presidente!". Dobbiamo rispettare chi ha lavorato ad agosto e non è andato in vacanza - si infervora il Presidente del Consiglio -, lei deve comprendere che c'è una riservatezza... Lei non può pensare che i progetti che verranno poi sintetizzati politicamente siano nati dal nulla. Siamo partiti lontano, da villa Pamphili con tutte le forze del Paese. Sono arrivati oltre 600 progetti, adesso nel documento tecnico ce ne sono 50-52 e alla fine vedrete come verranno presentati, con centinaia di pagine ciascuno. Sul Recovery Plan dobbiamo declinare un cronoprogramma...". "E allora perché...", la Fusani prova a intervenire di nuovo ma Verna la interrompe: "Prego la segretaria di sala di togliere la parola alla collega, sono un fanatico dell'articolo 3 della Costituzione. Mi spiace Claudia, ma la legge è uguale per tutti".

Da repubblica.it il 28 dicembre 2020. I fan di Johnny Depp in America e in Australia sono rimasti di stucco quando la piattaforma Netflix ha deciso di rimuovere i film della star dei Pirati dei caraibi e Alice nel paese delle meraviglie dalla lista dei titoli disponibili. La decisione è stata presa dopo che la battaglia giudiziaria che lo vede coinvolto con la ex moglie Amber Heard ha segnato un punto a sfavore della star americana, quando il tabloid Sun ha vinto la causa contro di lui per averlo definito "picchiatore coniugale". Non solo: qualche settimana fa lo stesso attore aveva dato la notizia che non sarebbe più stato nel cast di Animali fantastici nel ruolo del mago Grindelwald. La star lo aveva annunciato sui suoi social scrivendo che gli "è stato chiesto dalla Warner Bros e ho accettato e rispettato questa richiesta". Intanto sui social si è scatenata una campagna dei fan dell'attore che continuano a sostenere le sue ragioni e chiedono a Netflix perché i film del loro beniamino siano stati rimossi e non quelli della ex moglie, mentre Depp ha fatto sapere che farà ricorso rispetto al giudizio della corte inglese.

Depennati i film dal catalogo. Perché sono stati cancellati tutti i film con Johnny Depp da Netflix. Redazione su Il Riformista il 29 Dicembre 2020. Da sex symbol del cinema hollywoodiano a “picchiatore di mogli” per Johnny Depp il passo è stato molto breve. L’attore è infatti caduto in gran disgrazia non solo nella reputazione delle sue fan, ma a quanto pare, anche dei set e delle produzioni televisive. Tante che addirittura il colosso Netflix avrebbe cancellato i titoli che lo vedono protagonista dalla sua piattaforma. La pesante censura sembra sia avvenuta solo in America e nella zona del Pacifico perché su Netflix Italia i titoli ci sono ancora. A gettare il divo nella polvere la sua vicenda matrimoniale con Amber Heard che ha fatto chiacchierare i tabloid di tutto il mondo. Tra i due c’è burrasca e si accusano a vicenda di immonde violenze domestiche. Tra i due è partita una interminabile trafila di incontri in tribunale. Il The Sun definì Depp “picchiatore di mogli”, l’attore querelò il noto tabloid e ai finì in tribunale anche in questa circostanza. Durante il dibattimento si è rievocato sia il burrascoso matrimonio con la Heard, ma anche altri flirt precedenti dell’attore, e infine è arrivata la sentenza che ha rigettato l’accusa di diffamazione da parte di Depp verso The Sun. Dopo la sentenza è iniziata la debacle totale: la Warner Bros ha allontanato Depp dal set di Animali Fantastici 3 e al suo posto ha ingaggiato Mad Mikkelsens. Poi sono arrivate le rimostranze degli utenti di Netflix degli Stati Uniti e in Australia. E così il colosso dello streaming ha deciso di fare a meno di film come Donnie Brasco, Secret Window, Black Mass. Sono tempi veramente duri per il 57enne Depp.

·        Diritto all’Oblio: ma non per tutti.

Non basterà mai una legge: il diritto all’oblio è tutelato solo dalla civiltà (dei giornalisti). «No alle rievocazioni inopportune, senza ridurre la libertà di stampa», dice il presidente dell'Ordine dei giornalisti, Verna. Ma il potere dei media è assoluto. Errico Novi su Il Dubbio il 7 giugno 2021. Notizia di 10 giorni fa: lo scorso 28 maggio il Tribunale di Napoli ha deciso che nel caso della piccola Fortuna Loffredo e di suo padre Pietro, il diritto all’oblio non vale. Parliamo della bambina uccisa nel 2014, quando aveva 6 anni, scaraventata giù dall’ottavo piano dopo essersi opposta all’ennesimo abuso sessuale, nella più disumana delle periferie degradate di Napoli, il “Parco Verde”. Su di lei è in arrivo un film, il papà di Fortuna ha cercato inutilmente di bloccarne l’uscita. Il giudice ha respinto la richiesta: il diritto all’oblio invocato dal padre di quella vita innocente e martoriata non pretenderà certo di oscurare lo spettacolo. Perché appunto le storie anche tragiche, se si incrociano con l’attività giudiziaria, sono ormai lo spettacolo più a buon mercato. Il diritto all’oblio deve piegarsi, inchinarsi, retrocedere di un passo e farsi da parte. Inevitabile.

Dal Garante privacy un argine (almeno) online. Anche per un motivo banalissimo: il diritto all’oblio non esiste. Non è definito, in termini tassativi, nel nostro ordinamento. Comincia ad essere affermato in alcune sentenze, che però non formano ancora una giurisprudenza robusta. A presidiarne almeno uno dei versanti più delicati, relativo al web, è però la tutela della privacy, e quindi il Garante per la protezione dei dati personali. L’attività dell’authority è intensa e efficace, ma ha appunto il limite di incidere essenzialmente sull’informazione on line. Regola la complicata materia della facilità con cui si rintracciano gli articoli relativi ai casi giudiziari. Lo fa da anni, in un incrocio di pronunce con la Corte costituzionale, e sempre con lo sguardo rivolto a un principio: qualora una vicenda giudiziaria si concluda in modo favorevole alla persona precedentemente accusata di un reato, si può ottenere la deindicizzazione degli articoli risalenti all’indagine, ma non la loro cancellazione. La testata on line che aveva raccontato la storia, e ancora conserva i vecchi articoli, deve fare in modo da renderli irrintracciabili attraverso i motori di ricerca. Ma naturalmente chi fosse in possesso della “url”, l’indirizzo internet preciso di quell’articolo, dovrà poterlo leggere ancora. Né potrà essere preclusa la ricerca operata dal lettore direttamente con il motore interno al sito della testata. Il garante lo ha ribadito in un provvedimento reso pubblico lo scorso 27 aprile, con il quale ha respinto la richiesta di “cancellazione” presentata da un ex imputato di appropriazione indebita. L’accusa era risalente al 1998, il reato è stato nel frattempo dichiarato estinto dalla Cassazione e l’ex imputato, come riferisce il Garante, «riteneva che l’articolo gli recasse pregiudizio e non fosse più attuale». Niente da fare, reclamo respinto visto che l’articolo era stato già «deindicizzato» dall’editore. Al quale l’authority ha solo inflitto una sanzione di 20.000 euro «per non aver fornito risposta all’interessato, come previsto dal Regolamento». L’emblematica decisione del Garante ha radici precise nella giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità: il caso definito a fine aprile riecheggia direttamente l’ordinanza del 19 maggio 2020, numero 9147, della Cassazione (prima sezione civile). Ma come si vede, la questione dell’on line, del diritto all’oblio in rete, è solo una parte del problema. La reiterazione dei fatti, spesso operata dai media con sadica voracità, può avvenire in tante altre forme: con il cinema, appunto, negli show televisivi, in quella carta stampata che quasi mai dà uguale risalto a indagini e assoluzioni. Ma certo, la centralità dell’informazione on line non solo è già visibile ma è destinata a crescere.

Proposte normative e appelli istituzionali. E non a caso, proprio nelle scorse settimane, anzi quasi con perfetta coincidenza temporale rispetto al provvedimento del Garante privacy, i parlamentari più impegnati del fronte garantista hanno depositato, sul diritto all’oblio, emendamenti alla riforma del processo penale. È il caso del responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, che punta a introdurre l’obbligo di cancellazione. Certo è innegabile che in gioco vi siano anche la «utilità sociale» e il «valore di documento storico» degli articoli d’archivio, come hanno affermato il Garante nella propria recente decisione e la stessa Suprema corte. Eppure è difficile non mettere sul piatto della bilancia anche la richiesta di contrastare, proprio grazie al diritto all’oblio, le propaggini più feroci del cosiddetto processo mediatico. L’attuale sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto ne ha parlato a propria volta a inizio maggio in occasione della sua prima visita, nella nuova veste istituzionale, al plenum del Consiglio nazionale forense. Ha messo appunto in relazione il «diritto all’oblio» con «il processo mediatico che cancella il diritto costituzionale alla presunzione d’innocenza».

Verna: bilanciamento tra trovare caso per caso. E come si fa a trovare il punto di equilibrio? «Non si può che individuare di volta in volta il bilanciamento fra l’interesse pubblico e l’oblio di vicende lontane nel tempo invocato dalla persona», ricorda al Dubbio il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna, «ma è impensabile che una legge possa indicare il punto esatto e unico di questo bilanciamento: deve necessariamente essere trovato di volta in volta dal giornalista, secondo i principi della nostra deontologia, vale a dire la continenza e appunto la rilevanza sociale». È il metro da considerare anche per il giudice sempre più spesso chiamato a pronunciarsi da chi lamenta l’esposizione per fatti lontani. «Ma non può essere trattato come altri il caso di chi magari si candida a sindaco in una grande città e si lamenta perché i giornali tirano fuori processi in cui è stato coinvolto anche molto tempo prima», nota Verna, «come si fa a disconoscere l’interesse pubblico, in casi del genere?». I complessi incroci fra giurisprudenza costituzionale, di legittimità e delle corti internazionali in materia di diritto all’oblio e privacy sono raccolti in un dossier prodotto a fine dicembre 2020 dal Servizio Studi della Consulta (“L’oscuramento dei dati personali nei provvedimenti della Corte costituzionale”, a cura di Paola Patatini e Fulvio Troncone). Di sicuro, spiega ancora Verna, «io sono contrario a un sacrificio della libertà di stampa: il Testo unico della nostra deontologia contiene indicazioni chiare, e direi sufficienti».

Quel ruolo che dovrebbe inorgoglire i giornalisti. Può darsi che il presidente dei giornalisti abbia ragione. Può darsi che proposte come quelle di Costa e di Forza Italia sulla cancellazione integrale dei vecchi articoli on line possa infrangersi su una sanzione di incostituzionalità. Ma è innegabile che l’abuso un po’ sadico di vicende lontane, in quel modo «inopportuno» di cui parla lo stesso Verna, sia fra le patologie sociali più gravi della nostra giustizia. E allora, sembra chiaro anche che per curarla serve una grande opera di riscatto culturale, una riscoperta consapevole dell’equilibrio, della presunzione d’innocenza, del fine rieducativo della pena che mal si coniuga con il ludibrio perenne. Ed è anche chiaro come la tutela della persona umana dal saccheggio mediatico sia responsabilità dei giornalisti prima ancora che dei giudici. Continenza, rispetto del principio all’interesse pubblico, senza distorcerlo: ecco. Il rigore, la civiltà, l’integrità delle istituzioni rappresentative, della democrazia e prima di tutto della dignità, passano per le mani dei giornalisti. Riuscissimo ad esserne davvero consapevoli, dovremmo anche sentircene orgogliosi.

GARANTE PRIVACY & DIRITTO ALL’OBLIO: “NO ALLA CANCELLAZIONE DI UN ARTICOLO DALL’ARCHIVIO ONLINE DI UN QUOTIDIANO”. Il Corriere del Giorno il 29 aprile 2021. L’articolo conserva il suo valore di documento storico e come tale deve rimanere accessibile nella sua integrità agli abbonati e a chi dovesse svolgere specifiche ricerche. È quanto stabilito dal Garante della Privacy. Non si può cancellare un articolo dall’archivio online di un quotidiano. Per bilanciare la libertà di informazione e il diritto all’oblio, si può chiederne la deindicizzazione dai motori di ricerca, rivolgersi direttamente ai gestori, come Google, Bing ecc. L’articolo conserva infatti il suo valore di documento storico e come tale deve rimanere accessibile nella sua integrità agli abbonati e a chi dovesse svolgere specifiche ricerche. È quanto stabilito dal Garante della Privacy. Nel reclamo presentato al Garante – si legge nella Newsletter -, un cittadino chiedeva di ordinare all’editore di un quotidiano nazionale online, di cancellare i propri dati personali da un articolo pubblicato in estratto nell’archivio online. L’uomo riteneva che l’articolo gli recasse pregiudizio e non fosse più attuale, dal momento che riguardava una vicenda giudiziaria risalente al 1998, senza riportarne i successivi sviluppi. Nel frattempo infatti l’imputazione di appropriazione indebita aggravata a suo carico era stata dichiarata estinta per prescrizione dalla Suprema Corte di Cassazione. Lamentava poi che l’editore non avesse dato riscontro alla sua istanza per l’esercizio dei diritti. Il Garante nel ritenere infondata la richiesta di cancellazione ha considerato l’utilità sociale e il valore di documento storico dell’articolo oltre al fatto che questo fosse stato già deindicizzato dall’editore. L’articolo era infatti consultabile liberamente nell’archivio solo in estratto e integralmente solo dagli abbonati. Inoltre la data di pubblicazione e la sua collocazione all’interno dell’archivio consentivano di contestualizzare la vicenda, per la quale, in ogni caso, il reclamante non aveva mai fornito documenti dei successivi sviluppi. L’Autorità ha invece ordinato all’editore il pagamento di una sanzione di 20.000 euro per non aver fornito comunque risposta all’interessato, come previsto dal Regolamento, e ha disposto la pubblicazione integrale del provvedimento sul sito web del Garante.

·        Le Fake News.

Articolo di “The New York Times”, dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 2 dicembre 2021. Il 2 ottobre, la New Tang Dynasty Television, una stazione legata al movimento spirituale cinese Falun Gong, ha pubblicato un video su Facebook di una donna che salva un cucciolo di squalo arenato su una spiaggia. Accanto al video c'era un link per abbonarsi a The Epoch Times, un giornale che è legato al Falun Gong e che diffonde cospirazioni anti-Cina e di destra. Il post ha raccolto 33.000 like, commenti e condivisioni. Il sito web del Dr. Joseph Mercola, un medico osteopata che i ricercatori dicono essere il principale diffusore di disinformazione online sul coronavirus, pubblica regolarmente post su animali carini che generano decine o addirittura centinaia di migliaia di interazioni su Facebook. Le storie includono "Kitten and Chick Nap So Sweetly Together" e "Why Orange Cats May Be Different From Other Cats", scritto dalla Dr. Karen Becker, una veterinaria. E Western Journal, una pubblicazione di destra che ha pubblicato affermazioni non provate sui benefici dell'uso dell'idrossiclorochina per trattare il Covid-19, e diffuso falsità sulla frode nelle elezioni presidenziali del 2020, possiede Liftable Animals, una popolare pagina Facebook. Liftable Animals pubblica storie dal sito principale del Western Journal insieme a storie su golden retriever e giraffe. Video e GIF di animali carini - di solito gatti - sono diventati virali online quasi da quando esiste internet. Molti di questi animali sono diventati famosi: c'è Keyboard Cat, Grumpy Cat, Lil Bub e Nyan Cat, solo per nominarne alcuni. Ora, sta diventando sempre più chiaro quanto ampiamente il vecchio trucco di internet sia usato da persone e organizzazioni che vendono false informazioni online, dicono i ricercatori di disinformazione scrive il NYT. I post con gli animali non diffondono direttamente informazioni false. Ma possono attirare un pubblico enorme che può essere reindirizzato a una pubblicazione o a un sito che diffonde false informazioni su frodi elettorali, cure non provate per il coronavirus e altre teorie di cospirazione senza fondamento, interamente non correlate ai video. A volte, seguendo un feed di animali carini su Facebook, gli utenti si iscrivono inconsapevolmente a post fuorvianti dello stesso editore. Melissa Ryan, amministratore delegato di Card Strategies, una società di consulenza che studia la disinformazione, ha detto che questo tipo di "esca per il coinvolgimento" ha aiutato gli attori della disinformazione a generare clic sulle loro pagine, il che può renderli più prominenti nei feed degli utenti in futuro. Quella prominenza può guidare un pubblico più ampio al contenuto con informazioni imprecise o fuorvianti, ha detto. "La strategia funziona perché le piattaforme continuano a premiare il coinvolgimento su tutto il resto", ha detto la signora Ryan, "anche quando quel coinvolgimento viene da" pubblicazioni che pubblicano anche contenuti falsi o fuorvianti. Forse nessuna organizzazione dispiega la tattica con la stessa forza di Epoch Media, società madre di The Epoch Times. Epoch Media ha pubblicato video di animali carini in 12.062 post sulle sue 103 pagine Facebook nell'ultimo anno, secondo un'analisi del New York Times. Questi post, che includono link ad altri siti web di Epoch Media, hanno accumulato quasi quattro miliardi di visualizzazioni. Trending World, una delle pagine Facebook di Epoch, è stata la 15° pagina più popolare sulla piattaforma negli Stati Uniti tra luglio e settembre. Un video, postato il mese scorso dalla pagina di Taiwan di Epoch Times, mostra un primo piano di un golden retriever mentre una donna cerca invano di strappargli una mela dalla bocca. Ha più di 20.000 like, condivisioni e commenti su Facebook. Un altro post, sulla pagina Facebook di Trending World, mostra una foca che sorride ampiamente con una famiglia in posa per una foto in un resort Sea World. Il video ha 12 milioni di visualizzazioni.

Epoch Media non ha risposto a una richiesta di commento.

"La dottoressa Becker è una veterinaria, i suoi articoli riguardano gli animali domestici", ha detto una e-mail dal team di pubbliche relazioni del Dr. Mercola. "Respingiamo qualsiasi accusa del New York Times di fuorviare qualsiasi visitatore, ma non ne siamo sorpresi". 

I video virali sugli animali provengono spesso da posti come Jukin Media e ViralHog. Le aziende identificano video estremamente condivisibili e raggiungono accordi di licenza con le persone che li hanno fatti. Dopo essersi assicurati i diritti dei video, Jukin Media e ViralHog concedono in licenza le clip ad altre società di media, dando una parte dei profitti al creatore originale. Mike Skogmo, vicepresidente senior di Jukin Media per il marketing e le comunicazioni, ha detto che la sua azienda aveva un accordo di licenza con New Tang Dynasty Television, la stazione legata al Falun Gong. "Jukin ha accordi di licenza con centinaia di editori in tutto il mondo, attraverso lo spettro politico e con una gamma di argomenti, sotto linee guida che proteggono i creatori delle opere nella nostra libreria", ha detto in una dichiarazione. Alla domanda se l'azienda ha valutato se le loro clip sono state utilizzate come esca per la disinformazione nel raggiungere gli accordi di licenza, il signor Skogmo ha detto che Jukin non aveva altro da aggiungere. "Una volta che qualcuno concede in licenza il nostro contenuto grezzo, quello che ne fanno è a loro discrezione", ha detto Ryan Bartholomew, fondatore di ViralHog. "ViralHog non sta sostenendo o opponendo alcuna causa o obiettivo - che sarebbe al di fuori del nostro ambito di attività". L'uso di video di animali presenta un enigma per le piattaforme tecnologiche come Facebook, perché gli stessi post di animali non contengono disinformazione. Facebook ha vietato gli annunci di Epoch Media quando la rete ha violato la sua politica di pubblicità politica, e ha eliminato diverse centinaia di account affiliati a Epoch Media l'anno scorso quando ha determinato che gli account avevano violato le sue politiche di "comportamento inautentico coordinato". "Abbiamo intrapreso azioni di contrasto contro Epoch Media e gruppi correlati già diverse volte", ha detto Drew Pusateri, un portavoce di Facebook. "Se scopriamo che si stanno impegnando in azioni ingannevoli in futuro, continueremo a farle rispettare". L'azienda non ha commentato la tattica di usare animali carini per diffondere disinformazione. Rachel E. Moran, una ricercatrice dell'Università di Washington che studia la disinformazione online, ha detto che non era chiaro quanto spesso i video di animali portassero le persone alla disinformazione. Ma pubblicarli continua ad essere una tattica popolare perché hanno un rischio così basso di infrangere le regole di una piattaforma. "Immagini di animali carini e video di momenti salutari sono il pane quotidiano dei social media, e sicuramente non incorreranno in nessun rilevamento algoritmico di moderazione dei contenuti", ha detto la signora Moran.

Gianni Riotta per “La Stampa” il 20 novembre 2021. «Il vero pericolo è non riuscire ad evolversi»: questa scritta, apparsa nella redazione del leggendario quotidiano Washington Post, che costrinse il presidente Nixon alle dimissioni nel 1974 e fece innamorare una generazione del giornalismo, con Dustin Hoffman e Robert Redford al cinema nella parte dei reporter Carl Bernstein e Bob Woodward, è l'epitaffio della vecchia, gloriosa, stampa «mainstream», incapace di mutare pelle nel secolo digitale. La massima venne graffita quando il giornale, per generazioni proprietà della famiglia Graham, dovette arrendersi al nuovo editore Jeff Bezos, fondatore di Amazon, per i cultori dello status quo fine di un'era, per altri inizio di una stagione nuova. La saga è parte dell'opus magnum di Jill Abramson, Mercanti di verità. Il business delle notizie e la grande guerra dell'informazione, tradotto ora da Andrea Grechi e Chiara Rizzuto per Sellerio, 904 pagine dense di ricordi, giudizi sulla mutazione del «business model» dei media, vendette personali subite e ricambiate, scontri tra giornalismo dei maschi bianchi anziani e mondo gender, con donne, giovani e minoranze alla ribalta, sfide dei formati web e digitali alla stampa, brand globali a secernere pubblicità occulta. Invisibile al management e alle direzioni inamidate dei giornali, la mutazione culturale di una sterminata massa di cittadini, passata dall'edicola al dialogo online, chiudeva la stagione eroica del Watergate e schiudeva i profitti di BuzzFeed, Vice, testate digitali senza scrupoli tra pubblicità e cronache, pronte a titillare i click con scemenze e foto birichine, mentre Facebook diventava piazza mediatica in cui il fatturato viene prima della lotta alla disinformazione. Di questa epica Jill Abramson è protagonista e testimone. Prima donna direttrice del New York Times nel 2011, definita da un collega, lo riporta lei quasi con fierezza, «donna con due p come meloni di ferro», Abramson decide di erigere un muro tra redazione e manager e non accettare nessun compromesso con la famiglia Sulzberger, editore del quotidiano: «Non volevo che il mutamento tecnologico portasse a mutamenti di etica». E quando le propongono di lanciare un inserto di moda e costume dice repentina di no, solo perché l'idea non è di un redattore ma di un manager. Mercanti di verità contrappone il declino di Washington Post e New York Times all'ascesa di BuzzFeed e Vice, con i loro pittoreschi leader Jonah Peretti e Shane Smith, che Abramson, cronista esperta, tratteggia fra corse nudi in redazione, molestie sessuali, con un direttore che impone alla sua collega, e amante, di non presentarsi a un premio alla Columbia University perché lui andrà con la moglie sottobraccio. La generazione under 40 non sembra simpatica ad Abramson, la trova troppo politicamente corretta, poco esperta, a caccia di click su cultura e comunità Lgbt. Al vecchio mondo della carta stampata Abramson rimprovera di aver abolito il confine tra sponsor e giornalismo e di esser maschilista, all'informazione digitale di non avere scrupoli nel mescolare informazione e spot, essere effimera, poco colta, scadendo nella «cancel culture». Alla fine, la direttrice del New York Times si rifiuta di discutere con l'editore di un radicale «Rapporto sull'Innovazione» e vuol licenziare il vicedirettore, Dean Baquet (che intima a un cronista sgradito «Spero ti aprano un secondo b.. del c»). Arthur Sulzberger jr, publisher del giornale, licenzia allora Abramson, attribuendole comportamenti troppo duri con la redazione, scenate, rimproveri smodati. Per l'autrice non è la diversa filosofia editoriale la ragione dell'allontanamento, ma l'essere giudicata «bitch», donna insopportabile, per di più meno pagata dei predecessori uomini (il Times nega l'addebito). Il volume innesca polemiche, i siti imputati individuano intere parti che accusano di plagio e dichiarazioni prive di virgolette precise, Abramson si difende e scusa, ma Mercanti di verità resta lettura appassionante per chi abbia a cuore le sorti dei media e della democrazia, nell'epoca di fake news e populismi. Nel frattempo, però, New York Times e Washington Post hanno superato il declino, riducendo le perdite e mettendo nel mirino profitti, senza perdere rigore e prestigio e, anzi, grazie al web, conquistando audience planetaria, mentre Vice e BuzzFeed attraversano non pochi guai. A tratti Jill Abramson riduce il cambio di comunicazione culturale in corso a deplorevole stringa di abusi etici, come se un formato editoriale avesse la primazia morale ed altri fossero sentine di vizio. Non è così, ci son giornali pessimi e ottimi siti e viceversa, è il contenuto a far la differenza non la distribuzione. Abramson paga la nostalgia per un passato che, fra discriminazioni, censure e avidità, mai fu d'oro zecchino, e la diffidenza per un futuro di cui non vede gli orizzonti positivi, raggiungibili con matura consapevolezza. L'ex direttrice si riscatta però con la passione tumultuosa per il nostro mestiere e la sincerità aspra, investendo i nemici senza nascondere, con autocritica lodevole, i propri errori: perché davvero «il vero pericolo è non riuscire ad evolversi».

Vladimir Putin contro Maurizio Molinari: "Assurdità deliziosa, una vergogna". Un caso politico. Libero Quotidiano il 20 novembre 2021. Maurizio Molinari ha fatto infuriare Vladimir Putin. Tanto che la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha scritto su Twitter: "Ho letto con entusiasmo il suo articolo, dottor Maurizio Molinari. Era da tempo che non vedevo un'assurdità così deliziosa". E ha attaccato: "Capisco perché nessuno della sua redazione lo abbia firmato e lei si sia assunto in prima persona la responsabilità di questa vergognosa missione. Nessun giornalista che si rispetti vorrebbe il suo nome sotto il titolo 'Carri armati e migranti: la morsa di Putin sull'Europa'". Del resto, osserva il Fatto quotidiano, che ha riportato la notizia, "Molinari è un "atlantista. Diffida di Mosca e Pechino. Per lui, l'intento del Cremlino sembra essere quello di generare crisi parallele in Ucraina e in Polonia. Tasti sensibili della politica putiniana. Non ci risultano analoghi interventi della scaltra Zakharova, classe 1975, cresciuta alla scuola diplomatica sovietica (il padre lavorava all'ambasciata di Pechino, lasciò la legazione nel 1991, quando crollò l'Urss) verso altri giornali schierati con Casa Bianca e Nato", si sottolinea nel giornale di Travaglio. La Zakharova ha accusato quindi Molinari di "sproloquio", ha "un'idea confusa di dove sia Yelnya" che si trova a 260 chilometri dal confine ucraino. Insomma, non è esattamente che i carri armati di Putin siano al confine con l'Europa. Quindi lo ridicolizza: "Forse sarà più informato sulla collocazione della Svizzera tra Francia e Italia. La distanza è addirittura inferiore ai 260 km. Ma non è che domani Repubblica scriverà che Berna è a un passo dall'attaccare Italia e Francia contemporaneamente, visto che tutte le truppe svizzere sono più vicine al confine di questi Paesi di quanto non sia Yelnya all'Ucraina? Il difetto di tale logica non sembra ovvio ai lettori del suo giornale? Quel che lei si permette di fare non è consentito a un giornalista perbene".  

Falsi, menzogne, minacce. Così il clan "Fake Continua" uccise l'innocente Calabresi. Luigi Mascheroni il 21 Novembre 2021 su Il Giornale. Aurelio Grimaldi analizza la campagna diffamatoria orchestrata dai compagni che portò all'omicidio del commissario prima, e al plauso e alla giustificazione dei colpevoli poi. Un clamoroso caso di disinformazione, troppo spesso taciuto. Nemesi politica e paradosso ideologico, la macchina del fango tanto invocata contro la destra, è invece figlia dottrinaria e prediletta della sinistra. Ce lo ricorda un libro che, appoggiandosi a una documentazione imponente, ricostruisce, con lucidità e puntiglio, il caso più esemplare di delegittimazione dell'avversario dell'Italia moderna. Ossia come l'azione coordinata di un preciso gruppo di pressione, una lobby o un clan, attraverso una campagna stampa di precisione scientifica è riuscita a ledere la credibilità di una persona screditandone l'immagine pubblica, fino a trasformarla in un obiettivo da colpire. E infatti: il commissario Luigi Calabresi fu ucciso, colpito da due proiettili, il 17 maggio 1972, nel parcheggio davanti a casa, a Milano, dopo due anni e mezzo di una feroce e spregevole campagna di stampa condotta dalla sinistra il cui esito, inevitabile in quel delirio ideologico, fu appunto la morte del commissario «torturatore e assassino», considerato responsabile senza processo né prove - della morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra di un ufficio della Questura di Milano dove si trovava in stato di fermo in seguito alla strage di piazza Fontana, nel dicembre 1969. Il libro, Fango. L'omicidio Calabresi e la sinistra italiana (Castelvecchi) lo ha scritto Aurelio Grimaldi, autore e regista con una particolare sensibilità verso le trame nascoste della storia d'Italia (nel 2020 ha scritto e diretto Il delitto Mattarella sulle fosche vicende dell'omicidio del presidente della Regione Sicilia). Grimaldi all'epoca dei fatti aveva 12 anni ma ne ha trascorsi molti di più a studiare le carte dell'infinito iter giudiziario che ha portato alla condanna definitiva di Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani quali mandanti, e Leonardo Marino e Ovidio Bompressi come esecutori materiali, dell'omicidio del commissario Calabresi. E le carte sono parecchie, visto che fra processi e richieste di revisione, dal 1990 al pronunciamento della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo che nel 2003 respinse il ricorso degli imputati, si contano ben 17 sentenze (tutte, eccetto una, contrarie ai condannati). Nessuno in Italia ha mai avuto così tanti magistrati oltre cento - impegnati sul proprio caso. Sul caso Calabresi e sulle responsabilità di Lotta continua nella sua morte, e del suo leader Adriano Sofri in primis, si è detto e scritto tanto. Ma l'originalità del saggio di Grimaldi è, oltre la ricostruzione della cronaca, dei processi e del clima dell'epoca, il suo arrabbiato j'accuse, da sinistra, contro l'ideologia marxista rivoluzionaria e delirante che ha inneggiato e praticato la violenza per anni, senza pentimenti, e contro una micidiale macchina del fango fanaticamente alimentata da una setE il triste campionario di menzogne, minacce, ricostruzioni romanzate, fake news e invocazioni di morte sfornato per anni dalla stampa di sinistra, è agghiacciante. L'Unità, l'Avanti!, il settimanale del Partito comunista Vie nuove (si legga l'ignobile racconto, del tutto falso, sulla tragica notte del 15 dicembre 1969 dentro la Questura di Milano), il manifesto e soprattutto L'Espresso e Lotta continua: eccola la macchina del fango che formò l'opinione pubblica, che costruì il mostro Calabresi il «commissario Finestra», il «dottor Cavalcioni» che ne fece un assassino-torturatore cui farla pagare, che appiccicò sulla sua schiena il bersaglio su cui i militanti di Lotta continua, ispirati dai loro peggiori maestri, spararono i due colpi mortali; militanti che ancora, dopo l'infame assassinio, per anni continuarono a plaudire la vendetta compiuta, a proteggere i colpevoli, a difendere la «giustizia proletaria» contro quella dei tribunali dello Stato. Grimaldi di fatto compie due operazioni, una più meritoria dell'altra. Da una parte spazza via i molti luoghi comuni, pregiudizi e false informazioni che ancora aleggiano sulla morte di Pinelli e l'uccisione del «superpoliziotto» Calabresi; dall'altro analizza fin nei dettagli più infimi la vergognosa campagna di disinformazione operata dall'intellighenzia e dalla stampa di sinistra a difesa di Sofri&compagni. Nel primo caso l'autore ci ricorda che Calabresi non era nella stanza da cui cadde Pinelli (a distanza di decenni dichiara di non crederci più lo stesso Sofri); che l'anarchico Valpreda non mise la bomba a piazza Fontana, ma su quella giornata mentì su tutto ed era coinvolto in altri attentati dinamitardi, insomma era tutto tranne il santo e martire celebrato dalla sinistra antagonista, Dario Fo in testa; che Pinelli non fu gettato dalla finestra della Questura, ma o cadde per un malore dopo essersi sporto dal bassissimo parapetto, assonnato e spaventato (molto probabile) o si gettò suicidandosi (meno probabile), e comunque non fu mai picchiato né tanto meno torturato come dimostrarono tutte le perizie; che Calabresi con le cosiddette «violenze di Stato» non c'entrava niente, come tutte le indagini hanno comprovato. Nel secondo caso invece Grimaldi elenca tutte le fake news che inquinarono la vicenda: il falso passato di Calabresi inventato dal nulla (non fu mai negli Usa ad addestrarsi con la Cia, non ebbe alcun rapporto col generale golpista De Lorenzo, non frequentò mai i servizi segreti...); la totale ignoranza in materia dell'intero clan del «Calabresi assassino», i cui adepti non lessero mai un documento e non credettero a fatti e prove, ma solo nel dogma che il commissario doveva essere un assassino; il totale pregiudizio con cui la crema dell'intellighenzia nazionale (quasi 800 nomi eccellenti) firmò l'immondo manifesto pubblicato sull'Espresso nel giugno del '71 il punto di non ritorno della macchina del fango contro il «torturatore» Luigi Calabresi, di fatto il lasciapassare perfetto per il suo assassinio. Per il resto, ecco alcuni particolari del caso Calabresi, non essenziali ma significativi, che Aurelio Grimaldi ci ricorda impietosamente. Uno: alcuni passaggi malati di articoli usciti su Lotta continua (scritti anche in prima persona da Adriano Sofri): «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai», «Siamo stati troppo facili con Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, e continuare a perseguitare i compagni», «Calabresi è un assassino. Il proletariato ha già emesso la sua condanna. L'imputato è da tempo designato: torturatore e assassino», «Il proletariato emetterà il suo verdetto e lo renderà esecutivo». Due: uno dei pochissimi cronisti a prendere posizione a favore di Calabresi fu Enzo Tortora i casi della disgraziata giustizia italiana... -, allora corrispondente del Resto del Carlino. Tre: la peggiore di tutti, dal punto di vista etico e giornalistico, fu Camilla Cederna, ancora oggi santificata come grande penna (di costume forse, d'inchiesta per nulla, anzi), primo motore di quell'orrenda macchina del linciaggio che portò alla morte di Calabresi (si raccomanda la lettura del capitolo «Una maestra di giornalismo. Il metodo Cederna», sulle sue fallimentari inchieste, sia sul caso Calabresi sia sulla ancora più vergognosa vicenda che portò alle dimissioni di Giovanni Leone). Quattro: l'esilarante analisi filologica del libro Storia di Lotta Continua di Luigi Bobbio, dirigente del movimento marxista e figlio del celebre Norberto, che dà il senso del «caos ideologico e mentale di ragazzi che si autoimponevano un lavaggio del cervello anche lessicale che obnubilava ogni autonomia logico-concettuale». Cinque: l'annotazione che dei 757 firmatari della squadrista lettera contro Calabresi uscita sull'Espresso, solo due hanno fatto pubblicamente mea culpa: Norberto Bobbio e Paolo Mieli (e tutti gli altri?). Sei: il fatto che oltre agli articoli criminali Lotta continua pubblicava anche divertenti (?) vignette del commissario che insegna al figlioletto Mario a tagliare le teste dei rivoluzionari e a lanciare dalla finestra pupazzi di anarchici per preservare, da adulto, la tradizione torturatrice di famiglia. E ci fermiamo qui.

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi

Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 16 novembre 2021. (…) Ecco cosa insegna dunque il no di Mattarella: l'exit illumina anche l'incipit perché la fine è la perfezione dell'inizio e quando si diventa ex lo si resta per sempre. Ed eleganza vuole che l'ex non parli male dell'ex. È meglio parlarne bene, ed è ancora meglio non parlarne affatto perché ci sarà comunque qualcuno che vi troverà il veleno anche quando non c'è. Nelle aziende gli ex dirigenti sono addirittura pagati per tacere. E anche tra i giornalisti c'è l'inciviltà dell'ex che scrive contro il giornale del quale era una colonna, un columnist.

Filippo Facci per "Libero quotidiano" il 16 novembre 2021. Non prevediamo il futuro e non ricordiamo il passato. Certi amici di Renzi in effetti non potevano prevedere che i grillini si sarebbero distrutti da soli, senza bisogno di strutture che evidenziassero quello che a breve avrebbe visto anche il più cecato degli italiani. Non potevano prevedere che presto il Colle avrebbe mandato a casa i bambini e pure il maestro d'asilo. E Renzi non poteva prevedere che quel governo di mostri l'avrebbe pensionato lui direttamente: e non si dica che lo ringraziamo per questo, io personalmente mi prostro proprio ai suoi piedi, mi dichiaro suo debitore per l'eternità. Ora guardiamo al passato dimenticato. Il pinocchietto petulante del falso quotidiano- a proposito di fake news e di strutture di propaganda, come il suo giornale è notoriamente - ha dimenticato che la fake news propagandistica più falsa e dannosa del Dopoguerra la dobbiamo a lui: trattasi della famosa intercettazione in cui Berlusconi definiva la Merkel «culona inchiavabile» di cui il Fatto Quotidiano indicò persino la data e l'ora («le 11,53 del 5 ottobre 2008») ma che non è mai esistita, mai. Quella balla inescusata sputtanò l'Italia nel mondo e causò uno spaventoso danno politico ed economico. Sputtanò a vita anche Travaglio - già sputtanato di suo - ma questo lui non lo sa, perché è come per il governo Draghi: Travaglio non prevede e non vede neanche il presente.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 18 Novembre 2021. Abbiamo scomodato 401 battute di tastiera, martedì, per dire che il Fatto Quotidiano pubblicò la fake news più dannosa del Dopoguerra, ossia che esisteva un'intercettazione dove Berlusconi definiva la Merkel «culona inchiavabile» e che non è mai esistita, appunto. Allora Marco Travaglio, mercoledì, ha scomodato 3643 battute per confermarlo. Ha detto che loro non la pubblicarono: chiaro: non esisteva. Ha scritto che non scrissero che esistesse (come no: indicarono pure «un punto preciso dei verbali redatti dalla Guardia di Finanza», ore «11,53 del 5 ottobre 2008») e ha scritto che raccolsero solo «una voce» (raccogliere voci e spararle in prima pagina è il loro mestiere) e che «la stessa voce fu raccolta da Selvaggia Lucarelli» (qui ci arrendiamo). Morale: non è colpa loro se la voce circolò in tutto il mondo. Come a dire: se ho il Covid, e vado a rotolarmi in uno stadio di gente, poi non è colpa mia se il virus circola; similitudine inadatta, perché il Covid (virus corona) esiste e fa male, l'intercettazione (virus trojan) non esiste e ha fatto male lo stesso. Travaglio, sull'intercettazione, scrisse pure un'editoriale. E ora ci ha definito «Facce da culona». Va beh. Un consiglio: non peggiori le cose, stia almeno muto, continui a raccattare voci e cartacce (da pubblicare o da nascondere) e a pestare e raccogliere altre cose, possibilmente munito di sacchetto e paletta.

Da Nerone a Berlusconi: un tempo c’era Tacito, oggi c’è Travaglio. Angelo Crespi su Cultura e Identità il 17 Novembre 2021. Ci viene facile inserire Nerone nella lista dei peggior criminali di sempre: come fosse un massacratore, il suo nome ben s’attaglia a quello di Hitler, di Stalin, di Pol Pot. Eppure l’imperatore romano non si macchiò di crimini simili, non decretò la morte di milioni di persone, non progettò olocausti né rieducazioni forzate e gli storici contemporanei faticano pure ad attribuirgli l’incendio di Roma, che tra tutti i delitti a lui imputati è il più eclatante e fantasioso. Nerone, per esempio, non partecipò a guerre né immaginò conquiste, non massacrò i Galli ai confini come fece Cesare, neppure sterminò gli ebrei come Tito e Vespasiano o distrusse definitivamente Gerusalemme cambiandole il nome come fece Adriano, che pure ci giunge, filtrato attraverso le “sue” memorie romanzate da Marguerite Yourcenar, per antonomasia “poeta e filosofo”. Certo Nerone qualche crimine lo commise, soprattutto dentro la cerchia più stretta dei familiari: per esempio è appurato che fece uccidere la madre Agrippina e costrinse al suicidio Seneca e sedò con rigore qualche congiura di palazzo, al pari dei suoi predecessori o successori, similmente immischiati in fratricidi, matricidi, uxoricidi, i quali però godettero di miglior stampa e sul cui capo non cadde la damnatio memoriae. Nerone fu colpito da una primordiale macchina del fango, screditato a futura memoria da storici del calibro di Tacito, Svetonio, Dione Cassio, Tertulliano (che lo bollò come primo persecutore dei cristiani), i quali per motivi diversi, pur scrivendone a morte ormai avvenuta, avevano ragioni politiche e ideologiche per dargli contro. E poco sono serviti nella storia tentativi di riabilitazione: quello del raffinato filosofo e matematico Gerolamo Cardano, che nel Cinquecento s’arrischiò in una lode a Nerone, o quello di Napoleone, che sentenziò: «Il popolo amava Nerone. Perché opprimeva i grandi ma era lieve con i piccoli». E benché la storiografia moderna sia ormai clemente nei confronti del giovane e bizzoso imperatore, dedito alla crapula e all’arte più che alle carneficine, la leggenda nera resta a imperitura memoria, a dimostrazione che il “metodo Nerone” ha funzionato bene e funziona. Fuori dal contesto storico, la cronaca politica italiana degli ultimi anni è stata determinata dall’agire della macchina del fango che non ha risparmiato nessun partito, né di destra né di sinistra, ma che a ben guardare è stata decisiva e ferrea solo ed esclusivamente quando a patire gli schizzi sono stati uomini non protetti dall’ombrello della sinistra: solo per fare gli esempi più famosi, Silvio Berlusconi massacrato per Rubi e poi assolto, Marcello Dell’Utri crocifisso per la trattativa Stato Mafia e poi assolto e ancora più di recente Stefano Morisi, lo spin doctor della Lega, messo alla berlina per semplici questioni sessuali senza che si potesse provare lo straccio di un reato. Casi, piccoli o grandi, che in certi momenti hanno cambiato il corso delle cose, facendo cadere governi, o impedendo che si andasse a elezioni, fomentando campagne diffamatorie, mettendo marchi di infamia a persone rispettabili, tenendole in galera o sottoponendole a snervanti, interminabili processi: in definitiva mettendo a rischio la democrazia italiana. Lo abbiamo scoperto con il libro “Il Sistema” di Luca Palamara e Alessandro Sallusti quanto fosse determinante, insieme all’agire della magistratura, la stretta connessione tra gli inquirenti e il mondo dei media: spesso la fuga di notizie serviva a corroborare inchieste giudiziarie che non avevano sempre fondamenti solidi e anche quando arrivava l’archiviazione o l’assoluzione (sempre tardiva), la fama aveva già marchiato in modo indelebile e condannato a priori, almeno dal punto di vista dell’opinione pubblica, le persone coinvolte. La questione che andrebbe sviscerata non è però “perché esiste la macchina del fango”. Abbiamo visto che già anticamente la doxa, un mostro dalle cento teste e dai cento occhi, faceva le proprie vittime. La cosa da chiedersi è perché in Italia abbia un verso solo: i giornali di sinistra sembrano ispirati da un macabro giustizialismo e da un altrettanto stucchevole senso di superiorità intellettuale ed etica che li porta a disprezzare la verità in nome dell’ideologia, ad immolare il buon senso sull’altare della battaglia politica, tutti difetti ben visibili e facili da condannare se non fossero i difetti di noi italiani e dell’umano in generale, che presagendosi migliore gode della malasorte altrui. Ma c’è di più: oggi il pensiero progressista si è incistato su quello che promana dal politicamente corretto, una sorta di intreccio inestricabile in cui le ragioni dell’uno si incrociano con le ragioni dell’altro, a formare un coacervo di false verità in un cortocircuito da cui sembra impossibile venir fuori, poiché fa leva sui nostri sensi di colpa e sulla propensione morale dell’agire sociale: così anche la cosa più stupida passa per intelligente, la cosa più scopertamente falsa passa per vera e nessuno ha il coraggio di denunciare il male, pena l’esclusione dal consesso dei giusti.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 16 novembre 2021. Repetita iuvant, e io ripeto: Marco Travaglio non è affatto uno sprovveduto, anzi è un ottimo giornalista, la sua prosa è brillante, ma anche lui come tutti, qualche volta scrive cazzate, delle quali io mi intendo abbastanza. Ieri per esempio nel suo fondo giornaliero ha accusato Alessandro Sallusti di essere stato l'artefice della patacca su Dino Boffo, veicolata dal Giornale quando in realtà il direttore responsabile ero io. Tanto è vero che l'Ordine dei giornalisti sospese me e non lui per tre mesi come se avessi stuprato una bambina. Sallusti che era mio condirettore al massimo può essere considerato mio corresponsabile, ma sarebbe una forzatura. In effetti il documento che accusava il direttore dell'Avvenire non era autentico, si trattava di una fotocopia. Tuttavia il contenuto raccontava un episodio vero. Tanto che Boffo si dimise dal vertice del quotidiano cattolico, e la chiesa si guardò bene dal trattenerlo. Qualche tempo dopo a Dino il Vaticano affidò la conduzione della propria televisione, dove egli non resistette a lungo: venne sollevato dall'incarico e sparì dalla circolazione, mentre io, che sarei stato il suo persecutore, sono ancora qui a rompere le balle. Travaglio si chieda perché, altrimenti siamo qui a prenderci per i fondelli. Chiaro il discorso? Proseguiamo. Marco scrive che Sallusti poi venne condannato agli arresti domiciliari per varie diffamazioni e graziato da Napolitano. Intanto le diffamazioni non erano varie ma una sola, causata da un articolo morbido vergato da Renato Farina. Poiché anche Travaglio è stato processato (ingiustamente) per lo stesso reato, dovrebbe sapere che la Corte costituzionale si è espressa contro il carcere per i giornalisti, quindi l'intervento dell'allora capo dello Stato più che una grazia fu un dovere, perché la libertà di stampa non è una barzelletta con cui i tribunali possono giocare a loro piacimento. Insomma, voglio dire che per attaccare me e Sallusti non c'è bisogno di inventare fandonie, sia io che lui siamo pieni di difetti e abbiamo commesso tanti errori, non quanti ne hai commessi tu, ma quasi. Un'ultima considerazione. I duelli tra colleghi sono leciti e in certi casi anche divertenti, però a una condizione: che rispecchino la realtà. Cosa di cui talvolta Travaglio si scorda. Nulla di grave, ma che palle.

Da “ANSA” il 14 novembre 2021. La presunta gaffe razzista di Joe Biden durante un discorso al cimitero nazionale di Arlington era in realtà frutto di un montaggio di Fox News. Lo rivela l'Associated Press che ricostruisce la vicenda. Qualche giorno fa, in occasione del Veteran's Day il presidente Usa ha citato il defunto giocatore di baseball Satchel Paige come "il grande negro" ('the great negro'), lanciatore della Negro League", ovvero la lega formata da giocatori di baseball afroamericani negli anni '20, "prima di diventare un grande lanciatore nella Major League. Tuttavia nel video mandato in onda dalla Fox, nel programma Sean Hannity Show, si sente Biden dire soltanto "Satchel Paige, il grande negro". Un passaggio in cui la parola "negro" non è contestualizzata e suona come un insulto razzista. Un portavoce di Fox News interpellato dall'Associated Press ha spiegato che il taglio era stato effettuato per motivi di spazio e che il discorso è stato poi trasmesso per intero dal programma Fox and Friends. 

Fedez "arrestato con 28 grammi di cocaina in auto". Una storia agghiacciante in tribunale. Libero Quotidiano l'08 novembre 2021. Diffondere fake news? Per la Procura di Milano si può, basta non essere una fonte credibile. È accaduto ai danni di Fedez e di J-Ax. Su di loro nel 2017 era stata diffusa la seguente notizia: "Fedez e J-Ax arrestati con 28 grammi di cocaina nella macchina". Un'enorme balla che ha costretto i due cantanti prima a smentire attraverso l'agenzia giornalistica Ansa e poi a presentare una querela per diffamazione. Eppure per il sostituto procuratore milanese Isabella Samek Lodovici il caso va archiviato. Il motivo? L'articolo 51 del codice penale che impedisce di punire chi esercita un diritto. Il reato è sì "oggettivamente configurabile", ma "si colloca nel contesto della disinformazione che spesso caratterizza l'ambito delle notizie dedicate al cosiddetto gossip con la spettacolarizzazione del pettegolezzo". Per di più l'indagato dai più strampalati nomi d'arte è anche noto come "il re della bufala sociale italiana". Questo però non lo rende esente dal risarcimento del danno. Ad opporsi all'archiviazione i legali del marito di Chiara Ferragni, Gabriele Minniti e Andrea Pietrolucci. "La pubblicazione di notizie false e denigratorie non è mai legittima", scrivono ricordando che la fake news ha creato diversi danni all'immagine del rapper. A maggior ragione perché la disinformazione è "in grado di influenzare e indirizzare le opinioni, le scelte e le tendenze di una considerevole quantità di persone". 

Da leggo.it il 4 novembre 2021. La Comunità Ebraica di Roma non ci sta. La Feltrinelli pubblica on line il libro «Protocolli dei Savi Anziani di Sion» senza accennare minimamente al fatto che siano una falsità storica. I Protocolli, infatti, sono un falso documentale creato dall'Ochrana, la polizia segreta zarista, con l'intento di diffondere l'odio verso gli ebrei nell'Impero russo. La segnalazione arriva su Twitter. La comunità ebraica di Roma chiede spiegazioni sulla pubblicazione del libro chiave della propaganda antisemita senza alcuna nota che ne evidenzi la sua falsità. E il tweet al veleno recita: «Ehi Feltrinelli, attenzione qui. Davvero pensate si possa proporre i Protocolli dei Savi di Sion - libro chiave della propaganda antisemita - senza una nota che ne evidenzi la falsità? Così si favoriscono i teorici del complotto a danno dell’imprescindibile analisi storica». Nel tweet di denuncia, oltre alla copertina del libro, appare la descrizione al libro sullo store della casa editrice. Una descrizione che mette in dubbio anche il fatto che sia un falso e dichiarando: «veri o falsi che siano ormai non conta più», scatenando le ire di tutta la comunità ebraica. 

L’era della post-falsità. Come orientarsi nel mercato (avvelenato) delle verità. Antonio Nicita su L'Inkiesta il 27 ottobre 2021. In un mondo dove il disprezzo degli esperti si accompagna alla presunzione di potersi informare meglio da soli, il dilagare della disinformazione diventa una minaccia seria per la democrazia. Ma come scrive Antonio Nicita nel suo ultimo libro, appena ci si accorge della propria ignoranza si diventa più umili e aperti. Il mercato delle verità, costruendo i propri fatti alternativi, si pone anche in rapporto conflittuale con il progresso della conoscenza. Uno degli effetti è quello di alimentare il rischio nichilista della post-falsità tipico di quella che Keyes denomina la suspicious society, una società del sospetto nella quale, sapendo che ciascuno costruisce una propria verità, finiamo per non credere più a nulla e non fidarci più di nessuno: «quando dire il falso diventa troppo diffuso e chi mente troppo abile, anche coloro che dicono la verità finiscono per essere sospettati di dire il falso». A favore di questo rischio, gioca un ruolo perverso la memoria della rete, l’enorme archivio del web, utilizzabile strategicamente per avvalorare, selettivamente, ogni convinzione. Per trovare conferme a fatti inesistenti e per alimentare complotti. Il che però può comportare non solo la moltiplicazione di universi paralleli chiusi, nel mercato delle verità, ma anche la sopravvivenza di idee e istanze antistoriche, di propaganda di fatti e opinioni non veritieri che così resistono alla falsificazione del tempo. Come ha scritto Charles Seife: «prima che la Rete rendesse la società interconnessa, era molto più difficile imbattersi in certe idee […] oggi anche l’idea più pazzesca di solito è a pochi colpi di mouse dalla conferma e del rinforzo da parte di una banda di simpatizzanti». L’accesso alla sconfinata memoria del web mette sullo stesso piano ignoranza e conoscenza. Più di trent’anni fa, prima quindi dell’avvento dei social media, in un editoriale su «Newsweek», Isaac Asimov scriveva: c’è un culto dell’ignoranza negli Stati Uniti e c’è sempre stato. Il flusso di ant-intellettualismo è stato il costante filo rosso che ha avvolto la nostra vita politica e culturale, nutrito dalla falsa nozione che democrazia significhi che «la mia ignoranza è altrettanto valida della tua conoscenza». Tom Nichols, nel suo recente libro The Death of Expertise, descrive – con un certo allarme – l’avvento di una vera e propria campagna contro l’established knowledge, non solo, quindi, contro l’establishment. La tesi è che la crescente e diffusa protesta contro l’establishment – che molti vedono come caratteristica comune dei diversi movimenti populistici nel mondo – porti con sé anche il più profondo e generalizzato «rifiuto degli esperti», cioè del paradigma della conoscenza cosiddetta mainstream, in base al quale i governi tendono a prendere le loro decisioni. Il problema della morte dell’expertise, o se volete dei parriastes di cui abbiamo parlato nel terzo capitolo, non sarebbe dato tuttavia dalla nostra ignoranza, ma, per una paradossale inversione della maieutica socratica, «da quello che non sappiamo di non sapere». Nascerebbe, cioè, da un profondo mutamento culturale per il quale non solo non ci fidiamo più degli esperti ma riteniamo che su ogni questione, per quanto complessa, possiamo far meglio da soli. È il trionfo dell’opinionismo autoreferenziale: riteniamo di avere un’opinione su tutto e per di più siamo convinti sia quella giusta. Si chiama Dunning-Krueger effect, dal nome dei due ricercatori in psicologia della Cornell University che nel 1999 hanno condotto una ricerca empirica secondo la quale la pretesa di non essere uno sprovveduto cresceva al crescere del grado di effettiva sprovvedutezza e di ignoranza. Il problema più grave, scrive Nichols, è che a suo avviso oggi, addirittura, «siamo fieri di non conoscere le cose… non solo pensiamo che ciascuno sia intelligente e preparato come tutti gli altri, ma crediamo di noi stessi di esserlo più di ogni altro. Eppure, non potremmo essere più lontani dalla verità». La facilità poi di reperire informazioni in rete (incluse quelle pseudoscientifiche di numerosissimi studi pubblicati su riviste predatorie online prive di affidabili attività di referaggio e controllo) alimenta l’illusione della conoscenza mentre il cercare selettivamente solo ciò che conferma le nostre tesi agisce da ulteriore meccanismo rafforzativo delle nostre convinzioni. Un recente esperimento condotto da un gruppo di psicologi cognitivi dell’Università di Yale ha mostrato che l’uso di Internet per la ricerca di informazioni alimenta l’illusione della conoscenza, in quanto si tende a credere che tutto ciò che può essere facilmente ritrovato fuori di noi nella rete, sia in realtà un patrimonio acquisito («un partner della nostra memoria»), con un click, dalla nostra mente. Questo risultato sarebbe così persistente che l’attività di Internet searching finisce per incrementare la valutazione della propria conoscenza anche quando, in effetti, non si è trovata l’informazione che si stava cercando. L’incapacità di misurare il rischio e di disporre di conoscenze di base adeguate spiegherebbe anche la crescita dello scetticismo nei confronti, ad esempio, della pericolosità del Covid-19, dell’assenza di rischi collegati ai vaccini e dell’esistenza dei cambiamenti climatici. Nel primo anno della pandemia, abbiamo cercato in fretta risposte di cui ancora non potevamo disporre. Ma questa incertezza, anziché farci apprezzare la fragilità e la potenza del ragionamento scientifico ci ha spinto a domandare certezza e verità semplici da chi si offriva di fornirle. E così, paradossalmente, le notizie false sul nuovo coronavirus hanno risposto a quella domanda di certezza e sicurezza dettata dalla paura, dall’ansia e dalla fretta, cui il ragionamento scientifico non poteva rispondere. Ma quando gli scienziati non sono in grado di fornirci tutte le risposte è segno che stanno lavorando bene. Secondo verità e coscienza, potremmo dire. Come scrivono i Gorman, «quando si tratta della nostra salute, ciascuno di noi si considera un esperto e quando non conosciamo la causa di qualcosa che ci preoccupa molto, possiamo gravitare in massa verso ogni tipo di proposta». I Gorman sottolineano che a tutti noi piacerebbe ascoltare un esperto che ci dica «i vaccini non causano l’autismo». E tuttavia è più probabile che, più correttamente, ci verrà detto che «non vi è differenza nell’incidenza di autismo tra persone vaccinate e non vaccinate». Una risposta scientifica che tuttavia può non essere compresa o ribaltata: lasciando aperta la possibilità che autismo e vaccinazioni possano caratterizzare alcune persone, può generare in qualcuno il dubbio che esista non solo una correlazione ma una relazione causale precisa dai secondi al primo. Di qui, a rinunciare alla vaccinazione il passo è breve. Inoltre, questa sicurezza nella propria conoscenza, unitamente all’ignoranza circa la propria ignoranza, secondo molti studi, finisce per aumentare la dispercezione e la polarizzazione ideologica. Accade tuttavia un fatto strano. Se, per caso, scopriamo di essere più ignoranti di quel che pensavamo, diventiamo più umili e riduciamo anche il nostro grado di polarizzazione ideologica. Diventiamo più aperti e cresce la disponibilità ad ascoltare chi ne sa più di noi. Nel loro recente libro The Knowledge Illusion, due scienziati cognitivi, Steven Sloman e Philip Fernbach riportano una serie di esperimenti che dimostrano proprio questo fenomeno. Quindi, se da un lato ignorare l’ignoranza ci rende molto assertivi e sicuri di noi, monopolisti nel mercato delle verità, dall’altro scoprire la nostra ignoranza, ci rende meno sicuri e, conseguentemente, più inclini a imparare e ad ascoltare gli altri, specie se più competenti di noi in un certo campo. Ma il punto che qui ci interessa di più è mostrare una possibile, provvidenziale, reversibilità nel processo che dal mercato delle idee ci conduce al mercato delle verità: la scoperta di quanto non sappiamo (di non sapere). C’è allora da chiedersi quale sia il futuro della democrazia liberale se la nostra conoscenza di temi, anche decisivi, sui quali esprimiamo il nostro consenso o dissenso per la definizione delle politiche pubbliche, risulta così superficiale e illusoria. E come possiamo uscirne. Come possiamo coniugare la libertà d’espressione con regole che ci consentano di superare la trappola cognitiva del mercato delle verità?

da “Il mercato delle verità. Come la disinformazione minaccia la democrazia”, di Antonio Nicita, Il Mulino, 2021, pagine 240, euro 16

Dagotraduzione da Technology Review il 18 settembre 2021. Il sito è accattivante per la sua semplicità. Su uno sfondo bianco, un gigantesco pulsante blu invita i visitatori a caricare l'immagine di un volto. Sotto il pulsante, quattro facce generate dall'intelligenza artificiale consentono di testare il servizio. Sopra, lo slogan proclama audacemente lo scopo: trasformare chiunque in una pornostar utilizzando la tecnologia deepfake inserendo il volto della persona in un video per adulti. Tutto ciò che serve è la foto e un click. MIT Technology Review ha scelto di non nominare il servizio, che chiameremo Y, né di utilizzare citazioni dirette e screenshot dei suoi contenuti, per evitare di indirizzare traffico verso il sito. È stato scoperto e portato alla nostra attenzione dal ricercatore di deepfake Henry Ajder, che ha seguito l'evoluzione e l'ascesa dei media sintetici online. Per ora, Y esiste in relativa oscurità, con una piccola base di utenti che fornisce attivamente feedback sullo sviluppo nei forum online. Ma i ricercatori temono che possa emergere un'app come questa, in violazione di una linea etica che nessun altro servizio ha mai attraversato prima. Fin dall'inizio, i deepfake, cioè quei media (foto, video) generati dall'intelligenza artificiale, sono stati utilizzati principalmente per creare rappresentazioni pornografiche di donne, che spesso trovano la pratica psicologicamente devastante. Il creatore di Reddit che ha reso popolare la tecnologia ha inserito volti di celebrità femminili in video porno. Ad oggi, secondo le stime della società di ricerca Sensity AI, tra il 90% e il 95% di tutti i video deepfake online sono porno non consensuali e circa il 90% di questi presenta donne. Con l'avanzare della tecnologia, sono emersi anche numerosi strumenti senza codice di facile utilizzo, che consentono agli utenti di "spogliare" i vestiti dai corpi femminili nelle immagini. Da allora molti di questi servizi sono stati messi offline, ma il codice esiste ancora in piattaforme open source e ha continuato a riemergere in nuove forme. secondo la ricercatrice Genevieve Oh, che l'ha scoperto, ad agosto l'ultimo sito di questo tipo ha ricevuto oltre 6,7 milioni di visite. Deve ancora essere messo offline. Ci sono state altre app per lo scambio di volti a foto singola, come ZAO o ReFace, che collocano gli utenti in scene selezionate di film tradizionali o video pop. Ma, come è successo con la prima app pornografica dedicata allo scambio di volti, Y porta questo processo a un nuovo livello. È "fatto apposta" per creare immagini pornografiche di persone senza il loro consenso, afferma Adam Dodge, il fondatore di EndTAB, un'organizzazione no-profit che educa le persone sugli abusi della tecnologia. Questo attrae persone che altrimenti non avrebbero pensato di creare porno deepfake. «Ogni volta che ti specializzi in questo modo, crei un nuovo angolo di Internet che attirerà nuovi utenti», afferma Dodge. Y è incredibilmente facile da usare. Una volta che un utente carica una foto di un volto, il sito apre una libreria di video porno. La stragrande maggioranza dei video presenta donne, anche se una piccola manciata è dedicata anche agli uomini, per lo più nel porno gay. Un utente può quindi selezionare qualsiasi video per generare un'anteprima dello scambio di volti in pochi secondi e pagare per scaricare la versione completa. I risultati sono tutt'altro che perfetti. Molti degli scambi di volti sono ovviamente falsi, con i volti che luccicano e si distorcono mentre cambiano le angolazioni. Ma per un osservatore casuale, potrebbe essere accettabili e lo sviluppo dei deepfake ha già mostrato quanto velocemente possano diventare indistinguibili dalla realtà. Alcuni esperti sostengono che la qualità del deepfake non ha molta importanza perché il danno psicologico alle vittime può essere lo stesso in entrambi i casi. E molti utenti non sono consapevoli dell'esistenza di questa tecnologia, quindi anche lo scambio di volti di bassa qualità può essere in grado di ingannare le persone. Y si autodefinisce uno strumento sicuro e responsabile per esplorare le fantasie sessuali. Il messaggio sul sito incoraggia gli utenti a caricare la propria faccia. Ma nulla impedisce loro di caricare i volti di altre persone e i commenti sui forum online suggeriscono che gli utenti lo abbiano già fatto. Le conseguenze per le donne e le ragazze colpite da queste attività possono essere devastanti. A livello psicologico, questi video possono essere violenti quanto il revenge porn: veri video intimi girati o pubblicati senza consenso. «Questo tipo di abuso - in cui le persone travisano la tua identità, il tuo nome, e la tua reputazione e la alterano in modi così violenti - ti frantumano nel profondo», dice Noelle Martin, un'attivista australiana che è stata presa di mira da una campagna di deepfake porno. E le ripercussioni possono durare tutta la vita. Le immagini e i video sono difficili da rimuovere da Internet e nuovo materiale può essere creato in qualsiasi momento. «Influisce sulle tue relazioni interpersonali; ti colpisce quando cerchi lavoro. In ogni singolo colloquio di lavoro che fai, potrebbe essere tirato fuori. E pesa sulle potenziali relazioni romantiche», dice Martin. «Fino ad oggi, non sono mai riuscito completamente a rimuovere nessuna delle immagini. Sarà sul web per sempre. Non importa cosa faccio». A volte è persino più complicato del revenge porn. Siccome il contenuto non è reale, non sempre le donne si sentono traumatizzate o credono che il fatto meriti una segnalazione. «Se qualcuno sta lottando con il fatto si essere stato veramente una vittima, compromette la sua capacità di riprendersi», dice. Il porno deepfake non consensuale può anche avere impatti economici e di carriera. Rana Ayyub, una giornalista indiana che è diventata vittima di una campagna di deepfake porno, ha subito molestie online così intense che ha dovuto ridurre al minimo la sua presenza sul web e sul suo profilo pubblico, di cui ha bisogno per svolgere il suo lavoro. Helen Mort, una poetessa e giornalista con sede nel Regno Unito che in precedenza ha condiviso la sua storia con MIT Technology Review, ha detto di aver sentito la pressione di sparire dopo aver scoperto che le sue foto erano state rubate da account social privati per creare falsi nudi. La Revenge Porn Helpline finanziata dal governo del Regno Unito ha recentemente preso in carico il caso di un'insegnante che ha perso il lavoro dopo che le sue immagini pornografiche deepfake sono state diffuse sui social media e portate all'attenzione della sua scuola «Sta peggiorando, non migliorando», dice Dodge. «Aumentano le donne che vengono prese di mira in questo modo». L'opzione di Y di creare porno gay deepfake, sebbene limitata, rappresenta un'ulteriore minaccia per gli uomini nei paesi in cui l'omosessualità è criminalizzata, dice Ajder. È il caso di 71 giurisdizioni a livello globale, 11 delle quali puniscono il reato con la morte. Ajder, che ha scoperto numerose app porno deepfake negli ultimi anni, afferma di aver tentato di contattare il servizio di hosting di Y e di metterlo offline. Ma è pessimista sul fatto che si possa impedire la creazione di strumenti simili. È già apparso un altro sito che sembra tentare la stessa cosa. Ajder pensa che vietare questi contenuti sulle piattaforme di social media, e forse anche rendere illegale la loro creazione o il loro consumo, si rivelerebbe una soluzione più sostenibile. «Significherebbe trattare questi siti web come se fosse materiale del dark web», dice. «Anche se continua a esistere sottoterra, se non altro resta lontano dagli occhi della gente comune». Y non ha risposto alle richieste di commento. Le informazioni di registrazione associate al dominio vengono inoltre bloccate dal servizio privacy Withheld for Privacy. Il 17 agosto, dopo che MIT Technology Review ha fatto un terzo tentativo di contattare il creatore, il sito ha pubblicato un avviso sulla sua homepage dicendo che non è più disponibile per i nuovi utenti. Al 12 settembre, l'avviso era ancora lì.

Educazione digitale per i minori. O moriremo di fake news. I dati dimostrano che la rete è fonte informativa primaria, se non unica, per i giovani, ma anche come molti di loro non riescano a distinguere le notizie false. Va perciò avviata subito una campagna che crei nei ragazzi consapevolezza e strumenti per riconoscere i messaggi. È l’unico modo serio che abbiamo per evitare che proprio i minori, irretiti dalle notizie inventate, ne alimentino il propagarsi attraverso i dibattiti che quell’informazione sa accendere sui social. Antonino La Lumia, Avvocato del Foro di Milano, su Il Dubbio il 31 agosto 2021. La parola ha rappresentato la chiave evolutiva per l’uomo, determinando il passaggio a una società dove la comunicazione costituisce la forma di relazione personale più immediata: comunicare significa vivere, rendere la realtà esperienza condivisa, dare sostanza alle cose riconducendole all’unicità del linguaggio. Nel recente saggio “Elogio della parola”, Lamberto Maffei ne tratteggia l’evoluzione, con finalità difensive, partendo dalla splendida convinzione che “l’uomo, la sua unicità e la sua civiltà siano espressi da una stringa di parole che la ragione infila nella collana della storia”. Oggi – la pandemia lo dimostra, al di là di ogni benevolo dubbio – corriamo il rischio che, priva di ogni residuo di ragione, quella stringa finisca per spezzarsi, mandando in frantumi la collana della nostra attualità: il funambolico vortice delle fonti di (dis)informazione, moltiplicatesi a dismisura nell’oceano della rete, porta ormai a sovrapporre il reale al surreale, in un magmatico flusso mediatico, dove la verità diventa opinabile e le capacità di giudizio di larghe fasce della popolazione (non solo italiana) rispetto alle notizie false si vanno drammaticamente riducendo. Il dato, al di là della stretta cronaca, induce a riflettere, perché le nuove tecnologie determinano effetti irreversibili sui comportamenti e sulle abitudini sociali: l’analisi dei numeri racconta che la metà della popolazione mondiale (3,8 miliardi di persone) utilizza regolarmente i social media (il 98% si collega tramite dispositivi mobili), mentre sono 4,54 miliardi le persone connesse a Internet (Report Digital 2020 di WeAreSocial, in collaborazione con Hootsuite). Le statistiche più sorprendenti fotografano la permanenza online: l’utente medio spende “navigando” un tempo pari a oltre 100 giorni all’anno (6 ore e 43 minuti al giorno): oltre un terzo di questo tempo, 2 ore e 24 minuti al giorno, è dedicato specificamente all’uso dei social network. La perenne immersione nella rete incide anche sulla psicologia degli utenti: più di una persona su due (56%) presta particolare attenzione al tema delle fake news, come potenziale elemento di distorsione dell’informazione, e il 64% manifesta preoccupazione circa la modalità con le quali le aziende utilizzano i loro dati personali. L’eloquenza dei numeri non può che trovare conferma nell’infuocato dibattito che ruota attorno al Covid: secondo l’ultimo rapporto Censis “Disinformazione e fake news durante la pandemia” (aprile 2021), gli effetti della comunicazione confusa sono talmente deleteri che addirittura 5 milioni di italiani (circa il 10% del totale) sono ancora convinti che i bambini non possano ammalarsi con il virus. Questo continuo sovraffollamento comunicativo, alimentato da notizie non verificate o perfino inventate, invece che migliorare il grado di conoscenza di un determinato evento, sta provocando sempre più spesso una visione distorta della realtà, sfociando in situazioni di allarme sociale e comportamenti che portano con sé conseguenze fatali sull’intera comunità. La questione impatta decisamente anche sulla sfera del diritto: la disinformazione, infatti, può essere arginata soltanto con un sistema normativo adeguato al nuovo assetto dei canali di comunicazione, prevedendo parallelamente accordi di principio con le maggiori piattaforme social e promuovendo iniziative di sensibilizzazione sull’uso consapevole della rete. La diversa conformazione della realtà sociale in base al proliferare di una conoscenza gravemente falsata, unita alla dispersione del concetto stesso di comunicazione, determina – sul piano strettamente giuridico – notevoli implicazioni, che attengono all’interpretazione delle regole generali di condotta e, di conseguenza, all’efficacia (o meno) delle norme. Ne stiamo avendo un esempio quotidiano, in queste settimane, con il tema dei vaccini e del cosiddetto green pass: si è ormai ribaltato il normale processo di formazione del pensiero, che origina dall’acquisizione della notizia, la quale, metabolizzata come informazione, diventa patrimonio – individuale e collettivo – di conoscenza. Adesso, al contrario, si forma prima l’idea (ovviamente contrastante con quella “ufficiale”, ritenuta sconveniente e dannosa, seppur basata su verità scientifiche) e soltanto dopo, per supportarla e diffonderla, si costruiscono le notizie deformate ad arte, lasciando che la rete operi da detonatore, generando la più classica scia di opinioni, commenti e invettive: è assodato, infatti, che una fake news abbia una velocità di propagazione sul web anche di venti volte superiore rispetto alle altre. È un brodo di coltura molto pericoloso, perché porta alla creazione di una verità “altra”, che per molti – sprovvisti di mezzi culturali e psicologici adeguati – diventa la verità “unica”. Nella difficile sfida della riconquista di un pensiero autentico, la fascia più critica è quella dei giovani: da nativi digitali, non potrebbero immaginarsi lontani da Internet e, proprio per questo, corrono i rischi maggiori di subirne gli influssi negativi, facendosi coinvolgere – spesso per immaturità – dalla catena delle fake news. In questa prospettiva, giocano un ruolo delicatissimo non soltanto i genitori e la famiglia, primo presidio nella quotidianità, ma anche gli educatori e le Istituzioni: il corretto sviluppo cognitivo dei minori, infatti, è un obiettivo fondamentale per l’intera società, rappresentando il diritto all’informazione la prima fase di consolidamento dell’idea di comunità democratica, fondata su rapporti paritari tra individui consapevoli. La falsa conoscenza, per certi versi peggiore dell’ignoranza, è – invece – in grado di innescare un drammatico domino di inconsapevolezza, che va combattuto sin dai banchi di scuola (o dai primi smartphone, se si vuole): una battaglia che, a buon diritto, può essere ricondotta alla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, sottoscritta nel 1989 dall’Assemblea generale dell’Onu, e ai suoi principi fondamentali, tra i quali il diritto alla protezione e al benessere del minore, nonché il diritto all’ascolto e alla partecipazione. Di particolare rilievo, in tal senso, è il primo comma dell’articolo 13, che – riferendosi alla libertà di esternare le proprie convinzioni – presuppone e tutela il diritto alla corretta informazione: “Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, di ricevere e di divulgare informazioni e idee di ogni specie, indipendentemente dalle frontiere, sotto forma orale, scritta, stampata o artistica, o con ogni altro mezzo a scelta del fanciullo”. È un difficile equilibrio tra libertà e controllo, che – lontano dalle imposizioni – può essere tenuto in piedi unicamente dalla fiducia e dalla coscienza indotta dall’autentica conoscenza: i ragazzi possono ottenere la “piena cittadinanza digitale”, utilizzando la tecnologia in modo sano, senza farla diventare preponderante rispetto alla vita reale e soprattutto gestendola in modo da valutarne appieno vantaggi e criticità. Un approdo raggiungibile mediante una seria e ragionata educazione digitale, che viaggi coerentemente con l’istruzione, come componente primaria dell’apprendimento: non è più concepibile (né utile) un percorso scolastico credibile e realmente formativo che non comprenda – da un lato – l’analisi e il senso stesso della “vita” telematica e – dall’altro – le giuste coordinate per renderla fruibile, secondo canoni di accessibilità e sicurezza. La chiave di volta, in questa semina della crescita, diventa proprio la capacità di muoversi nella rete, distinguendo innanzitutto ciò che è vero da ciò che è artefatto (spesso talmente bene da apparire verosimile): per questo, istruzione, cultura e maturità digitale non possono che evolversi in unica via, attraverso l’esperienza diretta a verificare le notizie. È questo il passaggio più complesso, perché serve far sviluppare uno spirito critico sempre più marcato in soggetti – adolescenti, ma ormai anche preadolescenti – che frequentemente manifestano un’intolleranza “fisiologica” per ogni forma di regola imposta dall’esterno: per tale ragione, diventa indispensabile una formazione costante con un approccio educativo collaborativo, che segua il versante scolastico e quello familiare, avendo come scopo finale quello di rendere spontanea la ricerca di fonti autorevoli. Ecco perché occorre operare direttamente sul campo, guidando e coinvolgendo i ragazzi nella scoperta delle insidie della rete e portandoli – nel modo più intuitivo possibile – a rendersi conto di come le notizie, anche apparentemente verosimili, possano essere identificate come fake news, attraverso l’analisi di alcuni particolari: immagini contraffatte, storie costruite ad arte per essere più credibili, nomi falsi dei siti, linguaggio scientifico usato impropriamente soltanto per rendere verosimile un’opinione non supportata da riscontri oggettivi. Il tutto anche per evitare che i giovani siano portati a partecipare a tutte quelle inutili (e anzi dannose) discussioni, che montano a margine di episodi di disinformazione, con l’unico effetto di renderli ancora più virali. Bisogna, in altri termini, operare – individualmente e collettivamente – per limitare al massimo il fenomeno della cosiddetta overconfidence, ossia quella eccessiva fiducia dei minori nelle proprie capacità di giudizio rispetto alle notizie, derivante dall’innegabile abilità nell’uso degli strumenti tecnologici: non è un caso, d’altronde, che, secondo una recente ricerca della Fondazione Mondo Digitale per il progetto “Vivi internet al meglio”, condotta – in collaborazione con Google e Altroconsumo – su giovani tra 14 e 19 anni, ben 3 su 5 considerino la rete la prima fonte per informarsi e, nonostante il 90% sia a conoscenza dell’esistenza di news non autentiche, più di un terzo degli intervistati (36,3%) dichiari di non essere mai stato vittima di disinformazione e comunque il 43,2% sostenga di esserlo soltanto poche volte all’anno. La consapevolezza dell’autodifesa dal virus della disinformazione diventa, pertanto, la più potente arma di contrasto al proliferare delle notizie false: il controllo delle fonti, attraverso un’attività costante di fact-checking, rappresenta il modo più semplice ed efficace per farlo. È il messaggio fondamentale da trasmettere ai giovani nella ripida e malferma scala dell’educazione digitale, così da poter tornare al condivisibile concetto primario di informazione, sostenuto da Hegel già nel 1820 e sempre attualissimo: “La preghiera dell’uomo moderno è la lettura del giornale: ci permette di situarci nel mondo storico, quotidianamente”. Situarci nel mondo storico, appunto. Con notizie vere.

Francesco Bonazzi per “la Verità” il 20 agosto 2021. Si fa presto a dire fake. Prendete la storia del Covid-19 che sarebbe nato nei laboratori di Wuhan. Bollata per mesi come una notizia falsa, una leggenda internettiana per menti semplici e complottiste, è oggetto da fine luglio di una seconda indagine da parte dell'Organizzazione mondiale della sanità. Oppure la certezza salvifica al 100% dei vaccini: la terza dose ci aspetta già in autunno e quindi qualche dubbio della prima ora era forse quantomeno legittimo. Il problema è che la vita, la realtà, perfino la scienza, sono piene di sfumature, di dati in aggiornamento. E anche di colpi di scena. Così fa un po' sorridere il trionfale comunicato stampa di Facebook, che annuncia di aver rimosso oltre venti milioni di contenuti che violavano la policy aziendale sulle fake news in materia di Covid-19. Non si tratta solo dell'annoso dibattito su false informazioni e censura, ma del fatto che specie con una pandemia è perfettamente normale che nel giro di pochi mesi le conoscenze cambino e ciò che ieri sembrava folle, o graniticamente vero, si possa rivelare oggettivo o del tutto inconsistente. Oltre un anno e mezzo di convivenza forzata con il virus dovrebbero averlo insegnato a tutti quanti. E gli esempi sono già moltissimi. «Fake news» è una di quelle espressioni che non solo si presta a un uso strumentale e a zittire chi non la pensa come noi, ma è per sua stessa natura un concetto in divenire, che si può ritorcere contro chi lo brandisce con superiorità. Facebook lotta da tempo contro le critiche di non selezionare i contenuti dei suoi iscritti e così pubblica regolarmente un rapporto sulla propria opera di pulizia dei social. Nell'ultimo «Report sull'applicazione degli Standard della Comunità» si vanta di aver rimosso «più di 20 milioni di contenuti da Facebook e Instagram che violavano le nostre policy sulla disinformazione legata al Covid-19». Inoltre, sono stati eliminati «oltre 3.000 account, pagine e gruppi che hanno ripetutamente violato le regole contro la diffusione di fake news, anche sui vaccini». In generale, sono circa 190 milioni i contenuti relativi alla pandemia su cui il social network ha inviato avvisi, perché valutati «falsi, manipolati o privi di contesto». Già, il «contesto». Concetto di una certa raffinatezza e anche un po' sfuggente. In determinati momenti, o in determinate aree geografiche o situazioni politiche e sociali, una certa affermazione può sembrare vera o falsa. E le notizie sul Covid-19 non hanno fatto eccezione fin da subito. Grandi o piccole che fossero. Un anno fa, chi osava affermare che il virus fosse nato nei laboratori di Wuhan era accusato di propagare notizie false per colpire i sinceri democratici di Pechino. Ma dopo mesi di inchieste giornalistiche autorevoli, persino le anime belle dell'Oms, a fine luglio, hanno avviato una seconda indagine sulla faccenda. Magari si scoprirà che non è andata così, ma a questo punto come si fa a bollare come «fake news» una notizia su cui indaga l'Oms? Oppure, la storia dei guanti come presidio igienico irrinunciabile: in un primo tempo chi avanzava dei dubbi era trattato come un pazzo; poi, sempre l'Oms ha chiarito che «lavare spesso le mani offre una maggiore protezione». Anche il tema del lockdown ha visto in campo tutto e il suo contrario, come in un bar dello sport planetario. All'inizio della pandemia, specie in nazioni come Italia e Francia, mettere in discussione le quarantene era visto come un atteggiamento infantile e negazionista. Poi si sono sprecate le analisi su modelli alternativi, come quello svedese, e il dibattito infinito sull'immunità di gregge è ancora qui a dimostrare che anche sostenere che il lockdown sia inutile non è del tutto campato per aria. E forse, andavano tenuti a casa solo gli anziani. E ancora, la storia dei vaccini di Astrazeneca, prima iniettati anche ai giovani e poi relegati solo ai pensionati, non è un altro caso in cui è davvero difficile capire chi ha peccato di fake news? Idem per il dilemma sulla contagiosità dei vaccinati: non è elevata, ma ormai non è esclusa. Eppure fino a qualche mese fa era bollata come notizia falsa solo perché utilizzabile dai No vax. Il problema è che anche le idee dominanti cambiano idea.

Carlo Pizzati per “La Stampa” il 6 agosto 2021. Una rete di disinformazione e di propaganda a favore della Cina è riuscita a infiltrarsi nei social network di tutto il mondo grazie all’intelligenza artificiale, al furto di profili in Bangladesh e in Turchia e alle tecniche più avanzate di comunicazione digitale. Ma a causa anche di grossolani errori grammaticali in inglese, tipici del traduttore automatico online e di chi non ha dimestichezza con la lingua utilizzata negli attacchi, la squadra di propagandisti è stata smascherata dal «Centre for Information Resilience» britannico. Erano più di 350 i falsi profili il cui obiettivo era gettare discredito su oppositori e critici del governo cinese e disseminare un ingannevole messaggio di largo sostegno online per le politiche di Pechino. L’obiettivo era delegittimare sui social americani le politiche occidentali e promuovere immagine e influenza cinesi in America e in Europa. Nei loro post, gli anonimi agenti della propaganda difendevano la politica cinese nello Xinjiang, negando le evidenze sulla persecuzione dei musulmani uiguri e cercando di spostare l’attenzione sul fatto che gli Stati Uniti hanno avuto la schiavitù e che in America continuano ad esserci violazioni di diritti umani, come nel caso dell’afroamericano George Floyd, soffocato durante l’arresto da un poliziotto poi condannato per l’omicidio. Il network faceva circolare anche vignette un po’ datate e grottesche del tycoon cinese in esilio Guo Wengui, critico del regime cinese, della denunciatrice anticorruzione Li-Meng Yan, oltre che dell’ex consulente di Donald Trump, Steve Bannon. La rete clandestina operava su Twitter, Facebook, Instagram e YouTube con una tecnica già conosciuta chiamata «astroturfing», cioè una campagna fittizia di opinione di massa che funziona così: un falso profilo lancia una presunta notizia o una denuncia sociale, poi altri profili falsi ritwittano, ri-postano o rilanciano il contenuto, dando così l’impressione che quel tema abbia un seguito reale e voluminoso sia di «mi piace» che di commenti, mentre invece è solo una manovra di comunicazione. È così che si crea un’influenza sui temi, cercando di scalare le tendenze del giorno utilizzando sempre gli stessi hashtag. Ed è questo uno dei modi per manipolare, o tentare di manipolare, l’opinione online. È proprio grazie all’impiego di queste tecniche che gli esperti del Cir sono riusciti ad individuare una ricorrenza sistematica negli hashtag, scovando a uno a uno i falsi profili, denunciati poi ai gestori dei network che hanno sospeso gli account. Anche perché c’era un altro dettaglio a denunciarli. Difatti chi intesseva questo piano di propaganda ha utilizzato anche false foto-profilo generate con l’intelligenza artificiale grazie al nuovo framework SytleGAN. Le foto di fantasmi mai esistiti, creati con un collage dal software, servivano a eludere il procedimento di identificazione. Gli account aperti da veri utenti (molti in Bangladesh e in Turchia), poi ceduti, o rubati individuando la password, erano invece più facilmente smascherabili poiché si poteva risalire all’identità e capire che il profilo non era più gestito dal vero proprietario, anche perché d’improvviso cambiava la lingua utilizzata nei post. Invece con le foto generate dall’intelligenza artificiale si pone un ostacolo ulteriore allo smascheramento. Ma i programmi, per quanto avanzati, hanno dei punti deboli. Il più ovvio è che gli occhi dei finti proprietari generati dall’AI sono sempre alla stessa altezza, nell’inquadratura della foto-profilo. Tirando una riga dritta tra le foto dei profili sospetti all’altezza degli occhi è stato facile individuare subito che erano dei falsi. E mettere fine a questo network di spammers di propaganda politica pro-Pechino.

Piccolo manuale per difenderci dalle "stronzate". Nicola Porro il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. Chi ritenesse l'ultimo libro di Giancristiano Desiderio un semplice divertissement, una piccola provocazione intellettuale di un crociano annoiato, sbaglierebbe. La Teoria generale delle stronzate, è un libretto semplicemente geniale ok. Intanto partiamo da un'indispensabile definizione: «Mentre le bugie si limitano a sostituire il vero con il falso le stronzate fingono l'esistenza di un mondo, di una realtà che invece sono inesistenti, pure fandonie, balle. Stronzate appunto». Ecco perché sono molto più pericolose. Prendete la bugia più banale: «Io quella donna non la conosco». E pensate alla stronzata: «Io non conosco donne». La politica e i mandarini dell'establishment sono oggi molto più affetti dal rischio stronzate che dal rischio mendace. «L'indifferenza nei confronti della realtà - scrive Desiderio - è proprio un posto logico e fattuale per dire e fare stronzate. La logica delle stronzate è parolaia, verbosa fonica, irreale; la logica della storia è esistenziale fattuale contenutistica e reale. La logica anti-stronzate è, in una sola parola, critica. La critica è sempre una critica del potere e il maggior potere oggi - ma pensarci bene anche in passato non si scherzava mica con le imposture, basta ricordare le ideologie, anzi, l'Ideologia - è proprio il potere delle stronzate. Per menare una vita decente non abbiamo scelta dobbiamo elaborare una consapevole critica della ragione delle stronzate». Desiderio riesce ad elaborare, in modo semplice e diretto, una critica ontologica, si sarebbe detto un tempo, del marxismo e della sinistra, proprio prendendo a prestito la sua teoria delle stronzate: «Il marxismo è stato fondato sul sentimento più diffuso: il risentimento. Nel nostro tempo il risentimento, non più tenuto sotto controllo e analizzato e smontato, ha creato la cultura del vittimismo. La vittima è innocente per definizione e se sono innocente qualunque cosa sarà necessariamente colpevole, anche lui o loro per definizione. Dunque, le vittime devono avere giustizia e su questo risentimento del vittimismo e nato cresciuto il diritto penale totale». Scrivetelo meglio di Desiderio e conquisterete questa biblioteca. La stronzata come modificazione della realtà, rammentate, è peggio della bugia. La vittima, finta o presunta tale, crea più consenso alla sinistra marziana, dello sfruttato, del proletario. Desiderio prende poi a prestito il delizioso classico di Carlo Maria Cipolla, Le leggi fondamentali della stupidità umana, e ne aggiunge una sesta: «Quando i non stupidi non distinguono più il vero, il falso, il finto, allora, il potere degli stupidi non ha più limiti e conduce inesorabilmente il paese alla rovina». Insomma un manualetto da leggere da cima a fondo, e noi vi abbiamo illustrato solo la cima. 

Nicola Porro. Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su ilGiornale.it e, su RaiDue, conduce il programma d'approfondimento "Virus, il contagio delle idee", il ven

(ANSA il 23 giugno 2021) Nell'anno della pandemia, l'ANSA è il primo brand italiano di informazione per affidabilità: lo certifica il Digital News Report 2021 dell'Istituto Reuters condotto in 46 Paesi. L'agenzia di stampa si colloca in cima alla classifica conquistando la fiducia dell'82% degli italiani (l'anno scorso era all'80%). Seguono SkyTg24 e Il Sole 24 Ore. ANSA.IT è terzo per consultazione tra i siti d'informazione (conquista una posizione rispetto al 2020): il 20% degli italiani lo naviga ogni settimana. Primo Tgcom24, davanti a SkyTG24. Poi Repubblica, Fanpage, Corriere della Sera e Rainews. I tg Rai sono primi, seguiti da Mediaset e Skytg24.

Da liberoquotidiano.it il 15 giugno 2021. Ed eccoci al sondaggio del lunedì proposto da Enrico Mentana al suo TgLa7 e realizzato da Swg. Sondaggio attesissimo, dopo il terremoto suscitato dalla rilevazione di Nando Pagnoncelli, che con il suo Ipsos dava il Pd come primo partito, tallonato da Fratelli d'Italia e la Lega di Matteo Salvini addirittura in terza posizione e vittima di un duplice sorpasso. Sondaggio per il quale Salvini ha anche attaccato Pagnoncelli, ricordando come "lavora per il Pd" e, insomma, sollevando qualche dubbio sulla bontà della rilevazione. Si diceva, il sondaggio di Mentana. Bene, dalla rilevazione arriva una secca smentita a Ipsos e Pangoncelli. La Lega, infatti, si conferma primo partito, seppur in calo dello 0,5%, con il 20,9% dei consensi. Dunque, se si votasse oggi, anche per Swg i Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni sarebbero seconda forza con il 20,4% e in ascesa di 0,3 punti percentuali. Quindi il Pd, terzo, insomma altro che prima forza a livello nazionale. Il partito guidato da Enrico Letta viene dato al 19% tondo tondo, in calo di 0,2 punti percentuali. Quindi il M5s, in lieve risalita al 16,2%, con una crescita di 0,3 punti percentuali. Poi Forza Italia, in calo dello 0,1% al 6,8 per cento. E ancora, Azione stabile al 3,4%, quindi Sinistra Italiana in calo dello 0,3% al 2,3 per cento. E via dicendo con MdP-Articolo 1, in crescita di 0,2 punti percentuali e al 2,3 per cento. Si allunga dunque il vantaggio della formazione di Roberto Speranza rispetto a Italia Viva di Matteo Renzi, che segue al 2% e in calo dello 0,1 per cento. Dato al 2% anche +Europa, poi i Verdi all'1,9%, Coraggio Italia all'1,2% mentre le altre liste, complessivamente, raggiungerebbero l',16 per cento. Il 39% del campione, infine, sceglie di non esprimersi sulle intenzioni di voto alle ipotetiche elezioni politiche.

Da liberoquotidiano.it il 15 giugno 2021. Alessandra Ghisleri a L’aria che tira ha fatto chiarezza sul sondaggio Ipsos che tanto sta facendo discutere in queste ore. Nando Pagnoncelli si è infatti discostato parecchio da tutte le altre rilevazioni sulle intenzioni di voto e ha dato il Pd in qualità di primo partito italiano al 20,8 per cento: scalzata la Lega, che sarebbe scesa al 20,1 per cento e sarebbe stata scavalcata in un colpo solo non solo dai dem ma pure da Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni è infatti stato rilevato al 20,5 per cento. “Partiamo da un dato - ha esordito la Ghisleri - l’unico che guadagna davvero in questa operazione si chiama Mario Draghi, e di conseguenza ne giova anche il suo governo. Noi abbiamo dati diversi, ma il trend è lo stesso di Pagnoncelli. Ci sono tre partiti molto vicini, ma i dati vanno letti bene. I sondaggi hanno circa un 3 per cento di errore, qui invece abbiamo il 38,8 di intervistati che non si esprimono, quindi il margine di errore sale al 4 per cento. Ciò vuol dire che questi tre partiti sono sostanzialmente alla pari”. La chiave di lettura della direttrice di Euromedia Research è la seguente: “Non c’è un partito che scatta in avanti, non c’è un leader, ma c’è il desiderio di averne uno e di avere la politica. Non sapendo verso chi indirizzarsi, gli elettori si muovono a ventaglio verso quelli che sono i punti di riferimento che sentono più vicini. Fdi non è un partito di governo, eppure cresce notevolmente: questi tre partiti sono vicini e lottano per il primato, ma non si vota quindi è tutto ancora da giocare”.

Chi decide cosa è vero? Gli "scheletri" dei fact-checker. Martina Piumatti il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Dichiarano indipendenza, ma hanno legami con gli enti che dovrebbero controllare. O che li finanziano. Cosa non torna dei siti di fact-checking. Indipendenti da politica e istituzioni, scandagliano le notizie, verificano le fonti ed emettono il verdetto: vero o falso. E quando sbagliano, si correggono. Questa la policy dei più noti siti di fact-checking. In lotta perenne contro l’infodemia agiscono da implacabili fustigatori del male della disinformazione in nome della verità. Dai cacciatori di bufale ci si aspetterebbe totale indipendenza, distanza abissale da possibili conflitti d’interessi o da legami anche lontani con organizzazioni, enti pubblici o privati di cui si potrebbero trovare a verificare le affermazioni. I più influenti siti italiani di fact-checking, Facta e Pagella Politica, sono entrambi testate giornalistiche registrate presso il Tribunale di Milano e fanno parte della stessa società, la The Fact-Checking Factory (TFCF) Srl. La TFCF nasce nel 2013 come Pagella Politica Srls (il cambio di denominazione è del dicembre 2020) da dieci soci (Pietro Curatolo, De Bernardin, Federica Fusi, Giorgio Gagnor, Amerigo Lombardi, Alexios Mantzarlis, Flavia Mi, Andrea Saviolo, Silvia Sommariva e Carlo Starace) con “l’obiettivo di monitorare le dichiarazioni dei principali esponenti politici italiani, al fine di valutarne la veridicità attraverso numeri e fatti”. Il sito, però, nato per “inserire una dose di oggettività nella dialettica politica italiana” è già online dal 3 ottobre 2012. Nel 2020 si aggiunge Facta, una sorta di spin-off di Pagella Politica che “allarga il suo campo di indagine a tutte le forme di disinformazione, qualsiasi sia il loro argomento”. Con un focus dedicato a Covid e vaccini (che aderisce a CoronaVirusFacts Alliance, un progetto per stanare le fake news sul virus finanziato da Facebook, Google e Whatsapp) e uno slogan inequivocabile: “Scegli a chi non credere”. Tra i finanziatori nel 2020: Facebook (all’interno del Third-Party Fact-checking Program), alcuni bandi promossi dall’International Fact-checking Network, l’agenzia di stampa Agi, l’emittente pubblica Rai e la Commissione europea. Stessa proprietà, con sede a Reggio Emilia, stessi soci e stessa policy. Sul sito di Facta e Pagella Politica si legge: “Nessuno dei fondatori o dei membri dello staff fa parte di partiti e/o movimenti politici e non essere attivi in politica - in partiti, movimenti o gruppi di pressione - è uno dei requisiti fondamentali per lavorare o collaborare con Pagella Politica (stessa cosa per Facta, ndr)”. Bene. Quanto serve per allontanare anche il minimo sospetto che dietro alla lotta contro la disinformazione si celino forme di propaganda politica o di censura per veicolare verità di parte. “L’indipendenza - sottolinea a ilGiornale.it Ruben Razzante, docente di diritto dell’informazione all’università Cattolica di Milano e membro della task force governativa contro le fake news - è l’essenza stessa della democrazia dell’informazione. L’autonomia e l’asetticità nei giudizi dovrebbero essere il primo requisito di un’informazione libera. Se l’informazione è prodotta da soggetti che fanno attività consulenziali o svolgono delle attività retribuite da parte di istituzioni o aziende delle quali poi parlano nei loro articoli, è evidente che c’è un condizionamento. D’altra parte anche nella deontologia giornalistica c’è il tema della commistione pubblicità e informazione, ma lì è più smascherabile: i giornalisti che fanno pubblicità vengono sanzionati dai Consigli di disciplina. A livello macro, nella dimensione della rete, dove ci sono tantissimi non giornalisti svincolati dalla deontologia giornalistica, questo tema del conflitto di interessi rischia di produrre degli effetti devastanti”. E qui, a giudicare dai curriculum dei soci fondatori, i “soggetti che fanno attività consulenziali o svolgono delle attività retribuite da parte di istituzioni o aziende” sono parecchi. Da collaborazioni presenti e passate con enti internazionali dal profilo politico a consulenze governative retribuite, fino a ruoli operativi e decisionali in organi chiamati a decidere su stanziamenti di fondi. Gli scheletri dei fact-checker abbondano. Tutti consultabili su LinkedIn. Silvia Sommariva è ricercatrice in carica dell’Oms (sul suo caso c’è anche un’interrogazione parlamentare del deputato del Carroccio Claudio Borghi) e consulente in monitoraggio dei social media all’Unicef, dove lavora anche un’altra socia: Flavia Mi. Giorgio Gagnor, dopo “un'esperienza in una banca d'affari”, ha lavorato “nel mondo della consulenza strategica tra Milano e Parigi”. Ora si è fermato in Lussemburgo dove è manager di Ferrero. Carlo Storace, bocconiano, anche lui con trascorsi all’Onu è passato da una società tedesca di consulenza strategica alla MSC (Mediterranean Shipping Company) di Charleston, per approdare all'International Renewable Energy Agency (IRENA) di Abu Dhabi. Daniele De Bernardin, oltre a essere anche analista politico presso Openpolis, da luglio 2020 si è aggiudicato un contratto da 60mila euro annui come consulente del dipartimento della transizione digitale della presidenza del Consiglio. Anche Giovanni Zagni, direttore di Pagella Politica, vanta un legame ‘governativo’. Fa parte della task force contro le fake news istituita un anno fa dall’allora sottosegretario all’Editoria Andrea Martella. Amerigo Lombardi ha collezionato stage alla Commissione europea e all'ambasciata Italiana a Zagabria, ha lavorato per una fondazione politica a Bruxelles e all'ufficio Ilo (un’organizzazione dell’Onu che promuove i diritti umani) di Budapest. Ora è rientrato in Italia e si occupa di “politiche sociali e politiche del lavoro”. Andrea Saviolo, dopo un passaggio alla Nato e all’ambasciata italiana di Sarajevo, lavora presso la Direzione generale per i negoziati di vicinato e allargamento della Commissione europea. In pratica, collabora alla stesura della pianificazione del bilancio comunitario e ai negoziati con gli Stati membri e il Parlamento europeo. Anche Pietro Curatolo, come Saviolo e Lombardi, ha lavorato per la Commissione europea, promotrice del bando di finanziamento Horizon 2020 (grant agreement n. 825469). Vinto dal progetto europeo SOMA di cui fa parte anche la società proprietaria di Pagella Politica e Facta, beneficiaria di un contributo di quasi 180 mila euro. Infine Alexios Mantzarlis, dopo un passaggio all’Undp (Onu), ha lavorato al The Poynter institute come direttore dell’International Fact-Checking Network. Un ente che puntando a costituire una sorta di rete globale dei fact-checker ne certifica l’attendibilità. Sia Pagella Politica che Facta l’hanno ottenuta, insieme a una serie di finanziamenti stanziati dallo stesso Ifcn. Mantzarlis, a scanso di equivoci, ha dichiarato il conflitto di interessi, assicurando di svolgere per il sito italiano di debunking un ruolo di mera consulenza informale. Un conflitto risolto nel 2021, quando è diventato policy advisor per Google (tra i finanziatori del Ifcn per cui lavorava prima). Lo stesso colosso del tech che proprio il 2 aprile scorso in occasione della Giornata internazionale del fact checking, ha stanziato 25 milioni di euro per il Fondo europeo per i media e l’informazione che promuove ricercatori, fact-checker, organizzazioni no profit e altre realtà in prima linea per combattere la disinformazione. A valutare e selezionare i progetti sarà l’Osservatorio europeo dei media digitali (EDMO), un progetto della Commissione europea istituito lo scorso anno e di cui la stessa Pagella Politica è già partner. Legami, nomi che ritornano, progetti, finanziamenti, ruoli che si sovrappongono, legittimi, ma che sollevano qualche domanda altrettanto legittima. La dichiarata indipendenza da “politica, movimenti o gruppi di pressione” come ne uscirebbe da un’operazione di fact-checking auto applicata?

Un fact-checker firmatario all’Ifcn Code of Principles, il codice etico del network internazionale (a cui in Italia aderiscono solo Pagella Politica, Facta e Open) “è tenuto - ci spiega David Nebiolo di Agcom - a precisi impegni in materia di imparzialità”: “trasparenza”, “indipendenza dell’organizzazione di fact-checking e dei membri dello staff sia da partiti politici sia da organizzazioni potenzialmente attive in campagne di advocacy su specifici temi di interesse pubblico” e “correction policy onesta e aperta”. Requisiti rigidi che, se violati, comporterebbero la fuoriuscita dalla rete dei fact-checker. Non solo. “La mancata adesione al Codice - sottolinea Nebiolo - non consente ai fact-checker di partecipare a numerosi programmi di finanziamento destinati ai soli firmatari del Codice e di prendere parte a programmi specifici di collaborazione con le piattaforme online, quali il Third-Party Fact-Checking Program di Facebook”. Un duro colpo per gli eventuali “trasgressori” di quell’indipendenza inattaccabile richiesta a chi decide cosa è vero. Che “difficilmente - aggiunge il responsabile dell’ufficio stampa dell’Agcom - supererebbe di nuovo la procedura di valutazione a cui deve sottoporsi per confermare la sua adesione al Codice”. Poi, però se, come riportato sopra, uno dei soci della testata da valutare è anche il direttore dell’ente che certifica (Alexios Mantzarlis era direttore dell’International Fact-Checking Network quando Pagella Politica ha ottenuto la prima certificazione nel 2017), qualche dubbio resta. Alla richiesta di una spiegazione in merito, ci risponde via mail Giovanni Zagni. “Nessun socio di TFCF SRL, - scrive il direttore di Pagella Politica - la società proprietaria delle testate Pagella Politica e Facta.news, oggi lavora o fa consulenza per il governo italiano o per l’Oms. Tra i nove soci, una lavora per l’Unicef – l’organizzazione internazionale e non Unicef Italia, che è una Ong con statuto e funzioni diverse – e un altro presso la Commissione europea. Ci tengo a sottolineare che i soci di TFCF non hanno alcuna influenza sull’attività della redazione o sulla scrittura degli articoli – ad esclusione mia, che sono socio di minoranza oltre che direttore”. Sarà. Ma da quanto emerso dal fact-checking di cui sopra, per citare i loro slogan, verrebbe da chiedersi: “Vero”, “Pinocchio andante” o “panzana pazzesca?” Certo, ora “scegliere a chi non credere” potrebbe non essere così semplice.

La Pravda che ci attende. Gioia Locati il 16 aprile 2021 su Il Giornale. Oggi la rivista Nature ha dedicato un articolo alla disinformazione. Lo trovate qui. Si intitola: “La corsa per frenare la diffusione della disinformazione del vaccino Covid”. Sommario: “I ricercatori stanno applicando  le strategie perfezionate durante le elezioni presidenziali statunitensi del 2020 per monitorare la propaganda no-vax”. Qualche stralcio: “A marzo Twitter ha annunciato che avrebbe bloccato gli account di chi ripetutamente diffonde informazioni false sui vaccini Covid 19”. L’autore precisa che gli stop sono da considerarsi avvertimenti e che, per chi insiste, è prevista la chiusura dell’account.

L’importante “battaglia”. Nature definisce quella in corso una “battaglia contro la disinformazione”; si afferma che questa disinformazione è “assai rischiosa perchè potrebbe avere ricadute sul numero dei vaccinati”. La “battaglia è condotta nei laboratori di informatica e sociologia degli Stati Uniti, gli stessi che monitorarono le falsità sulle elezioni presidenziali (i sostenitori di Trump affermano che le elezioni sono state rubate, lo sostiene anche Trump. Ricordiamo – per i posteri – gli incresciosi episodi di censura, mai accaduti nella storia della democrazia americana: fu impedito a Trump di parlare. Le televisioni nazionali americane tolsero i microfoni a un ex presidente democraticamente eletto con la scusa che stava dicendo il falso. Chiediamoci chi sia il giudice che stabilisce il vero e il falso. Le televisioni americane? O le televisioni sono solo lo strumento?) Allo stesso modo, continua l’autore dell’articolo, con la stessa determinazione (ossia quella che animò la censura di Trump) “gli esperti di informatica e sociologia si stanno concentrando sulle falsità sui vaccini: alcuni sondaggi riferiscono che più di un quinto degli americani è contrario al vaccino”. (E con ciò?- domandiamoci – quando mai una società è monocorde su tutto?).

L’”esercito”di forze. “I ricercatori stanno lanciando progetti per tracciare e taggare la disinformazione sui vaccini fra i social media oltre a raccogliere enormi quantità di dati per comprendere il modo in cui la disinformazione, la retorica politica e le politiche pubbliche interagiscono per influenzare l’assunzione dei vaccini negli Stati Uniti”. “Gli scienziati hanno identificato un’ampia varietà di disinformazione che circonda COVID-19 e vaccini, che vanno dalle teorie del complotto secondo cui la pandemia è stata progettata per controllare la società o aumentare i profitti ospedalieri, fino alle affermazioni che i vaccini sono rischiosi e non necessari”. “Perciò il consorzio di ricerca Virality Project sta espandendo le strategie sperimentate durante le elezioni per aiutare a informare su come piattaforme come Twitter e Facebook affrontano la disinformazione dei vaccini. Creato da ricercatori di diverse istituzioni statunitensi, tra cui la Stanford University in California, l’Università di Washington a Seattle e la New York University, il team sta lavorando con agenzie di sanità pubblica e società di social media per identificare, tracciare e segnalare la disinformazione che viola le loro regole”.

Le ragioni. “Gli informatici e i sociologi si sono concentrati dapprima sulla disinformazione che ha riguardato le elezioni americane e ora quella sui vaccini a causa del potenziale  danno pubblico – ha affermato Renée DiResta, responsabile della ricerca presso l’Osservatorio Internet di Stanford”. “Sebbene le società di social media preferirebbero non essere la polizia della verità, questi sono argomenti in cui la posta in gioco è così alta che devono agire – dice – aggiungendo che quando si tratta di disinformazione online il potenziale di danno deve essere valutato attentamente. Contro il diritto alla libertà di parola”. (Insomma, fanno capire che la situazione è talmente grave che non si può fare altro. Sembra quasi che non esistano reati o calamità di eguale portata. Chiediamoci, se c’è una polizia della verità, chi è il Ministero dell’Interno? E chi decide qual è la verità?).

I sondaggi. L’articolo prosegue spiegando che gli autori delle fake news sono “un numero relativamente piccolo di super diffusori” e che “Facebook, Instagram, Twitter, TikTok e YouTube hanno etichettato, bloccato o rimosso fino al 35% degli autori di reato”. Tuttavia, si legge, “c’è il desiderio di capire cosa pensano le persone di COVID 19”, quindi un corposo finanziamento di 200.000 dollari sta finanziando numerosi sondaggi. In sintesi il 21% degli intervistati ha dichiarato di non vaccinarsi, fra gli operatori sanitari il 24% . Grazie a queste informazioni si ragionerà sul da farsi. Lo scienziato politico, David Lazer, di Boston è certo che "le persone ascoltano i loro medici e che quello che dicono i medici influenzerà le loro scelte".

Conclusioni (nostre). Le persone che dubitano o rifiutano i vaccini sono poche ma secondo quanto si apprende “sono diffusori” e rappresentano un pericolo. Perché “la posta è alta”  e “il potenziale danno deve andare contro la libertà di parola”. Quale posta alta? E quale danno? Quindi, l’andare contro la libertà di parola – per ammissione di questi ricercatori – è funzionale allo scopo: ci stanno dicendo "spiace ma serve". Chi decide?

IL COMMENTO. “C’È DA AVERE PIÙ PAURA DI TRE GIORNALI OSTILI CHE DI MILLE BAIONETTE”. Massimo Cogliandro, Partito del Sud, su SudOnline.it il 12 aprile 2021. Così diceva Napoleone Bonaparte stratega di indubbio spessore non solo sui campi di battaglia. Purtroppo il meridione ha un cattivo rapporto con buona parte della stampa ed io aggiungerei anche del cinema, della poesia della prosa e del teatro, sia per colpa dell’ignominia cucitaci ad arte sulle nostre spalle, sia per l’indole dimessa forgiata dagli anni di applicazione della famigerata Legge Pica. Ogni volta che assurgiamo agli onori giornalistici è solo per andare in cronaca nera ovvero ci troviamo da sempre di fronte al plotone d’esecuzione. Dopo la nascita di giornali meridionalisti come “Il Sud On Line”, ed altri, ed il fiorire di movimenti e gruppi meridionalisti, il modo di rappresentare il Sud ed il modo di approcciarsi ai meridionali è parzialmente cambiato. Ma non basta! Capita ancora oggi di ascoltare, da organi di informazioni anche nazionali, casi di più arresti nel nord Italia, ma farciti di sottolineatura/e dell’appartenenza geografica meridionale di qualcuno di questi individui; affermazione atta, per stereotipi, a giustificazione della situazione. Ovvero la sola presenza di un meridionale tra gli arrestati rende logico che abbia coinvolto, nella vicenda genti del nord come se lì si non abbia facoltà autonoma nel crimine ovvero che in quelle zone il fenomeno criminale non esista perché più evolute. Di contro se qualche meridionale assurge alle cronache per meriti scientifici, culturali o diversi ancora difficilmente sarà indicato come tale, si procederà ad un oltraggioso silenzio. Ad ulteriore riprova del modus operandi esistente vi chiedo se avete mai avuto per le mani una “Relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione sull’andamento della giustizia” che viene redatta annualmente in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Se si, vi sareste accorti che, specialmente negli anni passati, ad esempio in concomitanza delle cosiddette “guerre di mafia” numericamente i morti registrati in quell’anno erano di quantità inferiore ai morti ammazzati in altre città del nord. Con la differenza che un morto ammazzato a Reggio Calabria, a Bari o a Napoli otteneva un’eco mediatica assolutamente superiore di uno ammazzato a Milano o a Udine, ammesso che venisse pubblicato. Va anche detto che questo tipo di giornalismo scandalistico ha così fatto la fortuna di qualche giornalista e di qualche giornale in danno dell’immagine del Meridione e forse sull’altare della lotta alla criminalità organizzata. Papa Francesco ha detto “Stranamente, non abbiamo mai avuto più informazioni di adesso, ma continuiamo a non sapere che cosa succede.” Ed ha perfettamente ragione anche nel nostro caso specifico! Infatti nel nostro meridione possiamo trovare: personaggi illustri, esempi di vita, imprese da additare, istituzioni pubbliche efficienti ed altro ma non sono oggetto di articoli stampa! Va detto che il “bene” comunque non fa notizia, non da scandalo e quindi non fa vendere giornali! È però arrivata l’ora, per noi meridionalisti, – e assurgo tali presupposti senza averne titolo, arbitrariamente, anche per i giornali meridionalisti, – di cambiare passo, dobbiamo iniziare a dare spazio alle biografie di personaggi noti meridionali, alle imprese dei nostri territori che meritano e così via dicendo. Abbiamo il dovere di remare verso una corretta idea di Meridione dobbiamo parlare di Noi esaltando ciò che c’è di buono nella nostra terra e tra i nostri paesani. Questo nuovo modo di fare oltre che moralmente servirà a ridurre i luoghi comuni che certe volte soffocano persino il turismo o il progredire delle attività commerciali. Per fare un esempio prendiamo in esame la nomea del paese di Corleone, premetto di non conoscere quella realtà a causa del fatto che abito lontano da lì, ma posso dire che l’immagine di quel comune è legata, purtroppo in maniera indissolubile in quanto nativi, a Totò Riina e Bernardo Provenzano. ma il cinema con il libro ed film “Il Padrino” ha dato il colpo finale all’immagine di quel paese e dei suoi abitanti. Sono sicuro che attualmente, ed anche negli anni passati, in quel paese saranno presenti esempi di buona vita o buona amministrazione. Corleone deve essere additato per altro, e mi piacerebbe vederlo scritto su qualche giornale, pur abitando lontano e pur solamente a mezzo di ricerche tramite internet ho appreso che Corleone è il paese natio di Filippo Latino, oggi San Bernardo da Corleone religioso dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, ex prima spada di Sicilia. Fu proclamato beato il 15.05.1768 da Papa Clemente XIII ed il 10.06.2001 proclamato Santo da Papa Giovanni Paolo II, da taumaturgo operò miracoli ed ebbe il dono della scrutazione e della profezia. Inoltre Corleone è poco nota per la fierezza di carattere dei suoi abitanti motivo per il quale fu chiamata “animosa civitas”, perché nel 1282, all’epoca dei famosi Vespri Siciliani, fu la seconda città, dopo Palermo, ad insorgere contro la dominazione di Carlo d’Angiò Re di Napoli. Ma Corleone non è nota per i suoi abitanti che hanno lottato contro la mafia e che per tale motivo sono stati ammazzati come: Bernardino Verro (sindaco di Corleone e sindacalista voleva l’equa ripartizione del latifondo), Placido Rizzotto, (anch’egli sindacalista e politico), Luciano Nicoletti (militante del Partito Socialista Italiano – corleonese d’adozione), Giovanni Zangara (assessore della giunta Verro), Calogero Comajanni (guardia campestre il quale arrestò Luciano Liggio per furto che poi si vendicò facendolo uccidere), Liborio Ansalone (comandante dei Vigili Urbani fu ucciso per avere collaborato con il Prefetto Antimafia Mori), Ugo Triolo (avvocato e Viceprocuratore onorario ucciso per queste sua attività di servizio), e perfino Giovanni Falcone, discendeva da parte di madre da Corleone ove addirittura visse una parte della sua infanzia. Come si vede il bene ed il male sono ovunque. Personalmente sono convinto che il bene è sempre superiore a ciò che c’è di male per cui mi appello ai compagni del Partito del Sud a tutti i meridionalisti ai componenti di questa testata ed a chiunque voglia e possa: innalziamo ciò che c’è di bene di prestigioso e di buono nel nostro meridione, scriviamolo, pubblichiamolo diamogli forza e diffusione anche parlandone vantiamolo contestando così i luoghi comuni su di noi! Massimo Cogliandro, Partito del Sud

Al Meridione è negato anche questo diritto. Il falso Sud delle serie tv: o sbirri o mafiosi. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Raccontarsi per come si è, né cartolina né necrologio, un po’ e po’, una miscela di tragedia, commedia, condita dalla farsa. La vita di ognuno è un misto di tutto, così la vita di una terra: un insieme di tutte le cose che accadono al mondo, in tutti gli angoli del mondo, con prevalenze e mancanze. A tutti dovrebbe essere permesso il racconto sincero, anche solo per lo sfizio di raccontare bugie. Il Sud questo diritto non lo ha, è quello che un narratore onnipotente e onnisciente vuole. Non è un pensiero a se stante, stratificato, complesso; è brandelli di pensate superficiali, in bilico fra quelle da cronaca nera e quelle da fiction. Perciò il Sud non è, resta un pianeta distante, confinato in una galassia lontanissima, di cui arrivano solo le leggende. Il Sud famigerato dei processi di mafia o quello colorato delle serie televisive. Falso uno e falso un altro: due bugie non hanno mai dato corpo a una verità. Una deriva a cui sembra impossibile sottrarsi: quasi nessuno prova a raccontarlo un Sud per come è, lo si racconta per come serve agli altri, a se stessi. Lo si racconta per come poi se ne possa fare pietanza. E non è che non ci siano stati grandi narratori a raccontarlo, passano gli sforzi di Pirandello, di Sciascia, di Alvaro, di Strati, e di una lunga e sacra schiera, come le puntate di un film neorealista non in tono con le tendenze attuali. Il Sud è commissari e procuratori, sbirri e banditi: tutti ora truci ora leggeri; una terra colorata, intrisa di zagare e sole che si sveglia tardi perché c’è sempre poco da fare, e poi finisce al tavolo di un ristorantino vista mare a godersi frittelle di fi ori e pescato freschissimo. Tutto si assonna nella certezza di un andrà tutto bene alla fine. E invece da secoli niente va a finire bene, perché il Sud non è un filmetto americano in cui i marine rimetteranno l’ordine dei giusti, o arriveranno i borghesi illuminati a distribuire carezze. Il Sud è il documentario su una zolfatara, i minatori si dicono l’un l’altro non ti schiantari, non aver paura, senza aspettarsi risoluzioni se non quelle che passeranno attraverso lotte e resistenze durissime. Dopo averlo vestito per decenni dei panni dell’imputato, si pensa di risarcire il Sud per mezzo di un inesauribile gomitolo di soap-fiction che tessono trame unendole a orditi fatti per tranquillizzare chi guarda, invitarlo in location da urlo. Nessuno ci pensa a raccontare il Sud di quelli che il Sud lo vivono, lo abbandonano, lo invocano e lo bestemmiano. Un Sud che sia un Sud vero, non la major di una cospicua stirpe di writer o storyteller, ma con un’aria che a volte sa di gelsomino e altre di cumuli di spazzatura bruciata. Un Sud che non è né arretrato né antimoderno, che semplicemente si sia scontrato con una modernità portata da lontano. Un incidente da cui una cultura ne sia uscita a pezzi, senza che nessuno si sia poi preso la briga di curarla, di sanarne le ferite. C’è un Sud che dovrebbe e vorrebbe raccontarsi da Sud, ma è un fi lm che quelli bravi, di fuori, dicono non potrebbe aver successo. E allora proseguiamo a narrare di camicie a fiori, di ozio creativo e di estati perenni. Proseguiamo a inventare finzioni patinate che lasceranno intonsa la sostanza di un mondo che continuerà a essere altro per chi davvero lo viva o lo abbandoni.

I colori delle bugie, l’arte di mentire con la creatività. Il bisogno di ritinteggiare ogni tanto la propria esistenza, soprattutto quando ciò che ci circonda inizia a sbiadire. Chiara Abbate su Il Quotidiano del Sud l'11 aprile 2021. Le bugie sono un po’ come le bolle di sapone. Siamo sempre lì a sperare che volino il più alto possibile, con la consapevolezza che prima o poi scoppieranno. Magari incontreranno qualche impedimento lungo il percorso, o semplicemente, dopo un po’, la verità vorrà venire a galla… Ad ogni modo, c’è bugia e bugia. Ce ne sono di piccole, di grandi e addirittura di gigantesche; ma la distinzione principale su cui tutti noi ci confrontiamo spesso è quella tra le nere e le bianche. La bugia nera è, in assoluto, la più oscura e la più maligna. Con differenti toni di disprezzo viene appellata anche fandonia, falsità, balla, menzogna. Ha lo sguardo schivo e torbido e se la riconosci fa paura, perché lei è priva di scrupoli. Quando qualcuno la tira fuori dal taschino con fare minaccioso, probabilmente lo fa per ingannare e magari guadagnarci anche qualcosa (che altrimenti non avrebbe mai ottenuto).

La bugia nera non ha alibi o scusanti: tutti (o quasi) sono pronti a metterla alla forca, urlando a gran voce “Colpevole! Colpevole!”. E chi l’ha subita, in cuor suo si sente un po’ stupido per essersela bevuta, però anche vittima perchè proprio a lui poveretto doveva capitare… Il problema sorge soprattutto quando la bugia nera la fa franca, ossia quando la bolla di sapone scoppia ma nessuno se ne accorge. Il mendace si fa forte dei suoi risultati, si sente invincibile, mentre i sensi di colpa si allontanano per lasciare spazio a una tentazione impellente, cioè quella di continuare a osare, spingersi oltre. È come un prurito che parte timido e che a un certo punto diventa incontrollabile: il bugiardo si fa sempre più bugiardo, anzi doppiamente sempre più bugiardo, in quanto negherà incessantemente di aver fatto uso della bestia nera, anche davanti all’evidenza. 

C’è poi la bugia bianca, leggera come una farfalla, perché lei è sempre giustificata. “Lo faccio a fin di bene”, risponde spensierata svolazzando qua e là tutte le volte che viene interpellata. Quando si parla di lei tutti alzano le spalle, non sanno che dire, un po’ tra l’imbarazzo e l’omertà. In fin dei conti, lei è amica e complice di tutti, nessuno riesce a negare di averle chiesto qualche piccolo favore (anche perchè, chi ci provasse, sarebbe davvero additato come un bugiardo…). A tutti noi è capitato di fare un complimento altisonante sul nuovo taglio dei capelli di una cara amica, su quell’età portata così bene da un vecchio compagno del liceo, su un disegno indecifrabile del nostro primogenito, sugli spaghetti al ketchup cucinati dagli amici americani. Complimenti spesso gratuiti e non veri, ma che strappano un sorriso a chi abbiamo di fronte. Accontentare, appagare, assecondare, compiacere, confortare, consolare, favorire, fraternizzare, incoraggiare, motivare, piacere, rasserenare, rassicurare, risollevare, simpatizzare, soddisfare… ogni scusa è buona per tirare in ballo una bugia bianca, che silenziosa risplende per il suo candore.

Poi, tra le nere e le bianche si nascondono le bugie a colori: gialle, rosse, azzurre, verdi e anche fucsia. Sono bugie intriganti e saltellanti, che balzano fuori in modo inaspettato dal cilindro delle persone più fantasiose. È questo un elemento importante delle bugie a colori: chiamarle in causa non porta di per sé nessun vantaggio, se non magari quello di attirare l’attenzione, impressionare una persona che ci mostra simpatia. Ma non è detto, in quanto a volte è proprio con gli sconosciuti che esse diventano ancora più sgargianti. Attenzione però: raccontare di uno squalo di cinque metri visto a un palmo di naso durante un’immersione subacquea o di una rocambolesca performance sportiva durante il campionato di calcio sono in realtà passatempi da dilettanti… Le bugie a colori più bramate abitano infatti solo nelle menti dotate di una forte immaginazione e hanno la capacità di rendere qualsiasi banale accadimento una storia seducente. Sono i dettagli aggiunti (e inventati) che trasformano ogni aneddoto grigio in un’avventura, grazie alle pennellate di colore acceso che creano contrasti unici e inaspettati. Solitamente non c’è un fine preciso nel disegnare una bugia a colori, non esiste una malizia predeterminata o un retropensiero. Semplicemente, si lascia galoppare la creatività, scoprendo quanto possa essere attraente, per un narratore, osservare le pupille dilatate di chi è in ascolto con stupore.

Di per sé le bugie a colori sono innocue, sempre che le tinte forti non prendano il sopravvento stravolgendo tutto il disegno. I pittori esperti lo sanno: a volte una pennellata di troppo sulla tela può rovinare l’intero quadro. Il rischio principale è infatti che la fantasia, invadente e presuntuosa, tiri una gomitata alla realtà e la metta da parte. Il “fatto”, nudo e crudo, si troverebbe quindi sbattuto in un angolo, certo offeso per essere stato defenestrato in modo così improvviso e sfacciato. Questo perché, in certe persone, la tentazione di “romanzare ancora un po’” si fa sempre più ardita. Sovrapponendo i colori senza un giusto equilibrio, quel racconto diventerà, ahimè, una grande, grossa e grassa bugia marrone o addirittura nera. Il consiglio più saggio non è però quello di riporre i colori e i pennelli in un cassetto, perché ognuno di noi ha bisogno di ritinteggiare ogni tanto la propria esistenza, soprattutto quando ciò che ci circonda inizia a sbiadire. Le bugie a colori fanno bene agli occhi e all’anima di chi le racconta e di chi le ascolta. Continuiamo quindi a colorare il grigio quotidiano, giocando in maniera sana con la fantasia e facendo attenzione a non esagerare con le pennellate (altrimenti nessuno ci prenderà più sul serio, neanche noi stessi). Come ultimo accorgimento, è bene ricordare che, indistintamente, tutte le bugie, che siano nere, bianche o a colori, hanno una caratteristica comune: preferiscono scendere a patti con chi possiede una buona dose di memoria, certamente per evitare figuracce memorabili. Come dicevano gli antichi, “mendacem memorem esse oportet”.

Il gemello di Butac ci ha dedicato un articolo. Zaira Bartucca su Rec News il 16 Marzo 2021. Il pluri-foraggiato Facta ci ha dedicato un pezzo di “Factchecking” di quelli che cozzano con i “Facts”. L’autore o autrice che non si firma… l gemello di Butac, il pluri-foraggiato Facta, ci ha dedicato un articolo dal titolo a effetto “No, il governo israeliano non dovrà rispondere di crimini contro l’umanità” per la campagna di vaccinazione“. L’autore o autrice che non si firma – potrebbe essere chi si è occupato per otto anni di ricette di cucina, chi fa il social media manager o chi scrive saggi sulla “cultura dell’estinzione dei viventi” – ha confezionato un articolo di fact-checking, di quelli che non tengono in debita considerazione i “facts”. Due: la denuncia esiste, il documento esiste (lo abbiamo pubblicato, anche se loro preferiscono non scriverlo). Dunque, non c’è nessuna “notizia falsa”. Del resto i lettori (che ormai si fanno abbindolare sempre meno da questi comunicatori pagati a cottimo dalle big tech, dai governi e dalla stessa Ue) sapranno trarre le loro conclusioni da soli. Noi – a differenza di altri – non vogliamo convincere nessuno, non ordiniamo a nessuno di credere o non credere a una determinata cosa (per noi ognuno ha il suo cervello, l’abbindolamento delle masse non è tra le nostre priorità) e non crediamo di avere la verità in tasca. Facciamo solo il nostro lavoro con impegno, passione ed estrema dedizione verso l’interesse comune (non verso interessi specifici) esercitando i nostri diritti di critica e soprattutto di cronaca. Quelli che qualcuno – articolo dopo articolo e post social dopo post – tenta di mettere quotidianamente in discussione. Ma noi andiamo avanti, incuranti. Di seguito la rettifica che ho inviato, chiedendone la pubblicazione. Sappiamo già, comunque, qual è l’abitudine di questo tipo di siti che non contrastano la disinformazione, ma la propagano: ignorare ogni contraddittorio e ogni rettifica. Chissà: magari questa volta ci stupiranno.

In qualità di direttore di Rec News chiedo alla Redazione di Facta di rettificare l’articolo “No, il governo israeliano non dovrà rispondere di crimini contro l’umanità” per la campagna di vaccinazione” entro 48 ore dalla ricezione della presente, e di dare alla rettifica la stessa rilevanza concessa all’articolo di partenza, come previsto dalla normativa vigente. Recnews.it è un sito di Inchieste e di approfondimento giornalistico iscritto al ROC dell’Agcom. Pubblichiamo solo contenuti verificati citando sempre le fonti interne ed esterne integrando i contenuti con le fonti documentali, laddove disponibili. Come in questo caso. Il nostro sito è gestito da giornalisti regolarmente iscritti all’Ordine. Tanto premesso, non accettiamo lezioni sulla nostra professione da pari grado in qualche caso troppo giovani o che – leggo – hanno lavorato per giornali di ricette di cucina. Nessuno ha la patente di Verità in tasca: non ce l’ha Rec News ma nemmeno un sito come Facta (finanziato da Facebook e da altri organismi interessati) che lavora sui post social, sui messaggini whatsapp e ben che vada sul lavoro degli altri, esclusivamente per screditarlo o vantarlo a seconda delle necessità dettate dall’azienda committente. Non basta un nome per arrogarsi la pretesa di occuparsi in via esclusiva di fatti, tanto più che il vostro non è giornalismo scientifico. Quello lo facciamo noi (lo sapevate?) utilizzando strumenti OSINT. Non ogni giorno, certo, vista la complessità di questo tipo di indagini e il tempo che richiedono per il loro espletamento. “Vaccini compulsivi in Israele”, il governo finisce davanti al Tribunale dell’Aja La Corte Penale internazionale chiamata a pronunciarsi dopo la denuncia di due avvocati. L’accusa è di violazione del Codice di Norimberga e di crimini contro l’umanità e la libertà personale. Questo anche per far comprendere che Rec News non c’entra assolutamente nulla con i siti che si dedicano a una “martellante campagna di bufale anti-scientifiche e pro-QAnon”, quindi non vediamo per quale motivo dobbiamo essere accomunati a questo tipo di produzioni. Contiamo di essere smentiti, ma Facta appare a un primo sguardo come l’ennesimo contenitore di Fact-checking strumentale che ha un occhio aperto e l’altro chiuso, un po’ sul modello di Butac. Ovviamente, ha una veste grafica molto più curata che serve ad ammantare il tutto di un’autorevolezza che, spiace, ma è assente. In dieci anni di lavoro non mi è mai capitato di leggere inchieste dei signori Zagni o Fontana, e se mai le ho lette non le ricordo, quindi tant’è. Sarei ben contenta, in caso, di valutarle, visto che il giornalismo di inchiesta caratterizza buona parte degli articoli che ho prodotto negli ultimi dieci anni. Nel merito della rettifica, il Vostro articolo non solo non smentisce Rec News, ma ammette l’esistenza del documento da noi pubblicato e l’esistenza della denuncia dei due avvocati. Non abbiamo mai parlato di condanne (come lasciate intendere), anzi a differenza vostra abbiamo riportato la denuncia integralmente e non parzialmente. Vorrei, infine, porre una domanda al direttore di Facta, che si assumerà la responsabilità di quanto è stato pubblicato contro Rec News in caso di mancata rettifica: perché la bacheca di segnalazioni da lei diretta dovrebbe avere più autorevolezza di siti come Israel News – cui abbiamo fatto riferimento senza che i suoi collaboratori se ne accorgessero – o dello stesso Rec News, che in due anni ha pubblicato una mole di inchieste esclusive davvero inattesa per un sito indipendente che si regge unicamente sulle proprie gambe, a differenza vostra? L’anonimo autore dell’articolo ha avuto modo di considerare realmente i contenuti di Rec News (non solo sulla base della segnalazione di qualche rosicone, intendo) prima di catalogarli come “disinformazione”? E qual è, poi, per Facta la “disinformazione” pubblicata da Rec News? Un articolo in cui si dà conto delle recenti dichiarazioni di Jack Nicklaus sui ricoveri covid e il parere medico della dottoressa Margarite Griesz Besson sull’utilizzo della mascherina, peraltro pubblicato in via integrale senza manipolazioni di sorta. Facta si sente di etichettare come “disinformazione” due pareri (ripeto, uno dei quali medico) solo perché non è d’accordo con il tenore di quanto dichiarato? Attendo, direttore, sue cortesi risposte, sperando che non ignori le rettifiche come fa Butac o come fa Gayburg: quest’ultimo, per esempio, è un autentico sito di disinformazione cui non avete mai dedicato neppure due righe: glielo segnalo, sperando che lei non sia parte attiva della campagna di discredito che sta interessando il sito che dirigo, solo perché si permette di discostarsi da certa narrativa ufficiale sulla bontà indiscussa di tamponi, mascherine e vaccini.

Zaira Bartucca Direttore e Founder di Rec News, Giornalista. Inizia a scrivere nel 2010 per la versione cartacea dell’attuale Quotidiano del Sud. Presso la testata ottiene l’abilitazione per iscriversi all’Albo nazionale dei giornalisti, che avviene nel 2013. Dal 2015 è giornalista praticante. Ha firmato diverse inchieste per quotidiani, siti e settimanali sulla sanità calabrese, sulle ambiguità dell’Ordine dei giornalisti, sul sistema Riace, sui rapporti tra imprenditoria e Vaticano, sulle malattie professionali e sulle correlazioni tra determinati fattori ambientali e l’incidenza di particolari patologie. Più di recente, sull’affaire Coronavirus e su “Milano come Bibbiano”. Tra gli intervistati Gunter Pauli, Vittorio Sgarbi, Giulio Tarro, Armando Siri, Gianmarco Centinaio, Michela Marzano, Vito Crimi, Daniela Santanché. Premio Comunical (2014, Corecom/AgCom). Autrice de “I padroni di Riace – Mimmo Lucano e gli altri. Storie di un sistema che ha messo in crisi le casse dello Stato”. · · ·

Facta e Zagni si riutano di retticare. Perché così tanta paura del confronto? Rec News il  19 Marzo 2021.  Lo avevamo definito il gemello di Butac, e non a caso. La corsa campestre (con affanno) del direttore ci ricorda quella di Coltelli. Bloccati i nostri commenti al sito e i messaggi Whatsapp. Profilo Twitter ripulito dalle risposte (come è possibile?) in cui tentavamo di dire la nostra Comunicazione di servizio acta – pluri-finanziato sito di debunking strumentale – ci ha rifiutato la rettifica, che deve avvenire entro 48 ore dalla ricezione ed essere pubblicata con rilevanza pari rispetto all’articolo di partenza. La richiesta è stata inviata il 16 marzo via PEC. Sollecitazioni alla redazione sono giunte via Whatsapp nella giornata di ieri. Messaggi via Whatsapp sono stati recapitati al numero del direttore Giovanni Zagni, che in tutta risposta ha bloccato il nostro recapito. Facta ha inoltre provveduto a rastrellare i nostri commenti inviati al sito (in cui semplicemente chiedevamo notizie sulla rettifica) e perno i tweet di @RN_Inchieste tramite cui abbiamo provato a rendere nota anche la nostra versione dei fatti. Zagni e compagni – come Butac a suo tempo non ammettono alcun confronto e alcun contraddittorio. Quello che scrivono loro deve essere oro colato, perché i redattori di Facta – a scelta tra il social media manager e lo scrittore di ricette di cucina – si sentono a buon diritto più titolati degli altri. Nei fatti (come abbiamo reso noto tramite la rettifica che abbiamo pubblicato su Rec News prevedendo la violazione deontologica di Facta) il sito non solo non ci ha smentito, ma ci ha dato ragione sull’esistenza della denuncia al governo israeliano e sul documento. “Vaccini compulsivi in Israele”, il governo finisce davanti al Tribunale dell’Aja La Corte Penale internazionale chiamata a pronunciarsi dopo la denuncia di due avvocati. L’accusa è di violazione del Codice di Norimberga e di crimini contro l’umanità.

Nicola Porro, scivolone su Jamal Khashoggi: "Mercante d'armi? Mi scuso, un errore mostruoso". Libero Quotidiano il 09 marzo 2021. "È stato un errore mostruoso". Con questa premessa Nicola Porro si scusa con tutti i suoi lettori. Colpa di una notizia apparsa sul suo sito nicolaporro.it, dove si dava spazio a Jamal Khashoggi, editorialista del Washington Post ucciso dal regime saudita. Qui però Khashoggi è stato definito un "mercante di armi". "Alla mia piccola redazione e al sottoscritto - spiega il conduttore di Quarta Repubblica - è sfuggito". Poi la firma del Giornale definisce quanto accaduto grave, "per di più nei confronti di un giornalista ucciso mostruosamente. Non posso che scusarmi". In realtà l'articolo è di Carlo Andrea Bollino, prof ordinario di Economia all'Università di Perugia. Bollino il 2 febbraio pubblicava sul sito di Porro l'articolo "Gli 8 misteri sull'embargo all'Arabia Saudita". Ma è al punto 4 che scivola: "Khashoggi non era solo un giornalista ma anche un mercante di armi e nessuno di noi sa ancora veramente cosa è successo". Tra i primi a notare l'errore il Fatto Quotidiano che, per sua ammissione, dice di aver scritto a Porro attraverso Twitter senza però ricevere risposta. "Non ho visto quel tweet, purtroppo", ha giustificato il conduttore quei 30 giorni intercorsi tra la notizia e le scuse. Per Porro non è il primo scivolone. In onda su Rete Quattro il giornalista si era scusato con Sergio Mattarella. Il motivo? Mentre Alessandro Sallusti parlava della centralità avuta da chi era al Colle all’epoca dei fatti riguardanti la condanna a Silvio Berlusconi, dietro apparivano le immagini dell'attuale presidente della Repubblica. Un errore visto che all'epoca c'era Giorgio Napolitano. 

Da liberoquotidiano.it il 23 febbraio 2021. Mara Venier è dovuta intervenire suo malgrado su una tristissima e bruttissima fake news messa in giro da qualche sito e divenuta virale sui social. Una vera e propria bufala ha infatti riguardato Nicola Carraro, il marito della conduttrice di Domenica In che è stato dato per morto. In realtà è vivo e vegeto, ma la notizia buttata lì da qualcuno è arrivata persino alla conoscenza della Venier, che si è ritrovata messaggi di gente che chiedeva spiegazioni o che addirittura le faceva le condoglianze. Ma che c*** scrivete, vergognatevi”, ha tuonato la “zia” Mara su Instagram, riprendendo la fake news e chiarendo che suo marito è vivo e sta benissimo, l’unico suo problema di salute al momento è il mal di denti. Poco dopo ha anche modificato il messaggio per aggiungere un rafforzativo “siete delle m***”. Uno sfogo assolutamente comprensibile, anzi doveroso perché a tutto c’è un limite. Tramite i social la Venier ha quindi chiarito questa bruttissima faccenda, incassando la solidarietà anche da parte di alcuni personaggi famosi che loro malgrado si sono ritrovati nella stessa situazione. Sono infatti giunti alla “zia” Mara i messaggi da parte di Laura Pausini, Elisabetta Gregoraci e Max Giusti e poi anche di Elena Santarelli, che invece ha vissuto sulla sua pelle la stessa identica esperienza.

Peripezie e infortuni dell'informazione giudiziaria. Corruzione: prosciolto Romeo ma le agenzie scrivono il contrario. Redazione su Il Riformista il 5 Marzo 2021. Alfredo Romeo (cioè il nostro editore) oggi ha vinto una battaglia importante in Tribunale (Finora su 20 procedimenti giudiziari avviati contro di lui ne ha vinti in modo definitivo 17, e altri tre sono in corso). Il Gup di Napoli lo ha prosciolto in serata da tutti i reati importanti per i quali era stato indagato, e soprattutto dal reato di corruzione, che era il pezzo forte del processo, e dai reati fiscali. Ha deciso il rinvio a giudizio solo per alcuni reati minori, il principale è il furto di energia elettrica. Il reato consiste nell’aver utilizzato le lavatrici di Palazzo di giustizia per alcuni bucati di indumenti e lenzuola dell’ospedale Cardarelli. Il beneficio del reato è stato tutto per l’Ospedale. La cosa curiosa è che le agenzie di stampa hanno fatto circolare notizie del tutto diverse. Hanno scritto che Romeo era stato rinviato a giudizio (insieme all’ex presidente della regione Stefano Caldoro) per corruzione, per evasione fiscale e per aver truccato gli appalti. Notizie assolutamente infondate. Bisognerebbe capire chi le ha fornite alle agenzie di stampa. Probabilmente non lo sapremo mai.

I PRIMI DUE LANCI NON VERITIERI (ANSA)  – L’imprenditore Alfredo Romeo è stato rinviato a giudizio dal Gup di Napoli nell’inchiesta che lo accusa di essere stato “promotore e l’organizzatore” di un sistema in grado di condizionare appalti in strutture pubbliche e non, e di controllare la gestione di patrimoni immobiliari di pubbliche amministrazioni. Rinviato a giudizio per i reati contestati, tra i quali quello associativo, corruzione, millantato credito, evasione fiscale, frode in pubbliche forniture, prosciolto per alcuni capi minori. Rinvio a giudizio per l’ex parlamentare Italo Bocchino, l’ex governatore Stefano Caldoro e l’attuale dg dell’AslNa1 Centro Ciro Verdoliva. Per l’attuale direttore dell’AslNa1 Ciro Verdoliva il rinvio a giudizio riguarda la frode in pubbliche forniture, la rivelazione di segreti d’ufficio, il favoreggiamento, la falsità materiale, la corruzione e l’induzione a dare o a promettere utilità. Verdoliva è stato prosciolto per alcune condotte contestate in concorso con alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine. Tra gli episodi contestati al direttore dell’Asl, figurano anche alcuni interventi manutentivi, nella sua abitazione, da parte di due dipendenti e il titolare di una imprese che stava svolgendo lavori in subappalto nell’ospedale Cardarelli di Napoli di cui Verdoliva, all’epoca dei fatti era dirigente. Prosciolto da alcuni reati “minori” anche Alfredo Romeo, tra cui quelli fiscali, per i quali l’imprenditore non è stato rinviato a giudizio. L’ex presidente della Regione Campania Stefano Caldoro è stato rinviato a giudizio per traffico di influenze, insieme con l’ex parlamentare Italo Bocchino e con lo stesso Romeo. Prosciolti dalle accuse di corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio i tre agenti della Polizia di Stato Aniello Ippolito, Francesco D’Ambrosio e Elio Di Maro, difesi dall’avvocato Sergio Pisani. A giudizio invece due finanzieri. L’accusa di associazione per delinquere, tra le altre, viene contestata, insieme con la corruzione, anche a Ivan Russo, collaboratore storico di Romeo. Il reato di corruzione viene contestato anche a un dirigente di prima fascia del ministero della Giustizia, Emanuele Caldarera, all’epoca dei fatti con funzioni di Direttore generale per la gestione e manutenzione degli uffici ed edifici del complesso giudiziario di Napoli. L’udienza, per evitare assembramenti, visto il considerevole numero di indagati e, quindi, anche di avvocati, si e’ tenuta nell’aula bunker del carcere di Napoli-Poggioreale. Assoluzione, invece, per il funzionario del Comune di Napoli, Ciro Salzano, che e’ stato giudicato con il rito abbreviato.

LA RETTIFICA – (Ripetizione con titolo e testo corretti) L’imprenditore Alfredo Romeo è stato rinviato a giudizio dal gup di Napoli nell’ambito di una inchiesta dei sostituti procuratori Carrano, Woodcock e Raffaele. All’imprenditore difeso dagli avvocati Carotenuto, Sorge e Vignola, viene contestato il reato associativo e altri reati minori. Assolto con l’architetto Ivan Russo della Romeo Gestioni dall’unico reato di corruzione contestato. Rinvio a giudizio anche per l’ex parlamentare Italo Bocchino, l’ex governatore Stefano Caldoro e l’attuale dg dell’AslNa1 Centro Ciro Verdoliva. Per l’attuale direttore dell’AslNa1 Ciro Verdoliva il rinvio a giudizio riguarda la frode in pubbliche forniture, la rivelazione di segreti d’ufficio, il favoreggiamento, la falsità materiale, la corruzione e l’induzione a dare o a promettere utilità. Verdoliva è stato prosciolto per alcune condotte contestate in concorso con alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine. Tra gli episodi contestati al direttore dell’Asl, figurano anche alcuni interventi manutentivi, nella sua abitazione, da parte di due dipendenti e il titolare di una imprese che stava svolgendo lavori in subappalto nell’ospedale Cardarelli di Napoli di cui Verdoliva, all’epoca dei fatti era dirigente. Prosciolto da alcuni reati “minori” anche Alfredo Romeo, tra cui quelli fiscali, per i quali l’imprenditore non è stato rinviato a giudizio. L’ex presidente della Regione Campania Stefano Caldoro è stato rinviato a giudizio per traffico di influenze, insieme con l’ex parlamentare Italo Bocchino e con lo stesso Romeo. Prosciolti dalle accuse di corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio i tre agenti della Polizia di Stato Aniello Ippolito, Francesco D’Ambrosio e Elio Di Maro, difesi dall’avvocato Sergio Pisani. A giudizio invece due finanzieri. L’accusa di associazione per delinquere, tra le altre, viene contestata, insieme con la corruzione, anche a Ivan Russo, collaboratore storico di Romeo. Il reato di corruzione viene contestato anche a un dirigente di prima fascia del ministero della Giustizia, Emanuele Caldarera, all’epoca dei fatti con funzioni di Direttore generale per la gestione e manutenzione degli uffici ed edifici del complesso giudiziario di Napoli. L’udienza, per evitare assembramenti, visto il considerevole numero di indagati e, quindi, anche di avvocati, si è tenuta nell’aula bunker del carcere di Napoli-Poggioreale. Assoluzione, invece, per il funzionario del Comune di Napoli, Ciro Salzano, che è stato giudicato con il rito abbreviato. L’imprenditore e avvocato Alfredo Romeo è stato assolto anche dal reato di evasione fiscale insieme con l’amministratore delegato della Romeo Gestioni Enrico Trombetta. Non è stata mai contestata all’avvocato Romeo e all’azienda Romeo Gestioni alcuna ipotesi relativa ad appalti.

La fake news sulle pagine dei sovranisti. Lamorgese e la falsa mascherina pro-migranti durante il giuramento, la bufala sul ministro dell’Interno. Carmine Di Niro su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. La macchina della propaganda dell’estrema destra italiana non si ferma neanche durante i momenti del giuramento dei nuovi ministri del governo Draghi. Ne sa qualcosa Luciana Lamorgese, ministro dell’Interno del governo Conte-bis e confermata dall’ex numero uno della Banca centrale europea al Viminale come “tecnico”. Sui social network, come in questo caso la pagina Facebook Primavera Nazionale, con oltre 100mila followers e “specializzata” nella condivisione di contenuti che rimandano a Giorgia Meloni e alla galassia di Fratelli d’Italia, è comparsa nelle stesse ore del giuramento una immagine fake del ministro. Nel fotomontaggio si vede il ministro Lamorgese firmare indossando una mascherina con la scritta “Refugees Welcome”, “I rifugiati sono benvenuti”, un chiaro rimando ad una serie di teorie del complotto sulla sostituzione etnica in atto in Italia, come il fantomatico “piano Kalergi”. Ovviamente il titolare del Viminale indossava al momento del giuramento una semplice mascherina bianca ffp2, come osservabile dal sito del Ministero dell’Interno e dal video integrale della cerimonia pubblicato sul canale YouTube del Quirinale.

Il neo ministro smaschera la fake news. Brunetta e lo smartworking: “Basta, dipendenti pubblici tornino in ufficio”, ma l’intervista era vecchia. Rossella Grasso su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. La notizia della decisione del neoministro per la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta della fine dello smartworking e dell’imminente ritorno in ufficio dei dipendenti pubblici è rimbalzata di bocca in bocca, social in social, giornale in giornale. Peccato che si trattava di una notizia falsa. “Riaprire tutto: i Comuni devono funzionare, i tribunali devono funzionare, come funzionano gli ospedali. Non vedo perché se un ospedale funziona, non possa funzionare una scuola, un Comune, un ufficio di urbanistica, un tribunale. Smettiamola per favore, basta: si torni tutti a lavorare”. Queste le parole citate dal Corriere della Sera che hanno fatto balzare dalla sedia in tanti. Ma poche ore dopo lo stesso Brunetta ha smentito tutto dai suoi social: “Leggo sul sito del Corriere della Sera di una mia intervista pubblicata in data odierna dal titolo ‘Basta smart working, i dipendenti pubblici tornino in ufficio’. Il contenuto pubblicato nella sedicente intervista si riferisce ad un mio intervento a Tgcom24 in data 22 giugno dello scorso anno, periodo nel quale sembrava che la pandemia fosse in via di superamento, con il ritorno auspicato alla normalità”. “Quindi, io non ho rilasciato alcuna intervista, a nessuno, come doveroso riserbo, in attesa del discorso programmatico del presidente del Consiglio Mario Draghi alle Camere del prossimo mercoledì al Senato e giovedì alla Camera, con conseguente dibattito parlamentare e voto di fiducia. Sono sconcertato e dispiaciuto. Dal momento del giuramento, io non ho rilasciato alcuna intervista, né scritto alcun articolo. Nulla”. Il Corriere ha eliminato l’articolo e si è scusato con il ministro e con i lettori. “Per un disguido e un nostro errore di cui ci scusiamo con il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta e con i lettori, è andato online un articolo su una vecchia intervista dell’allora deputato Brunetta che riguardava un contesto completamente diverso in cui si pensava di poter tornare alla normalità”. Ma intanto la notizia si era diffusa a macchia d’olio su tutti i giornali. Qualcuno l’ha eliminata ma si sa le fake news si spargono sempre a macchia d’olio. E subito è partita anche la macchina della polemica, in primis da parte dei sindacati e poi dalle forze politiche che non hanno verificato la veridicità della notizia. Intanto Brunetta ha commentato così su Facebook l’accaduto: “Prendo atto della smentita del Corriere della Sera. Ma a questo punto mi chiedo: chi ha interesse ad avvelenare i pozzi? Chi vuole mettere già i bastoni tra le ruote a questo governo? Chi ha interesse a giocare con gli equivoci? Quello del ‘Corriere’ sarà un errore… ma io queste domande me le sto ponendo”.

Evviva le favole, oggi tocca a Bergoglio populista. Peccato non sia vero! Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Attenzione attenzione! Domenica 14 La Repubblica ha recensito due libri, di cui uno, in poche righe. Ma di questo, l’autrice dell’articolo, è sicura di averlo letto? Perché si tratta del libro di Zanatta, docente universitario a Bologna, che propaga la falsa tesi secondo cui c’è un filo conduttore populista tra i gesuiti dell’America Latina, che parte con le “reducciones” (Paraguay, Argentina, Brasile, Uruguay, Bolivia tra il XVII e il XVIII secolo)  e arriva fino a Bergoglio passando per Peron, Chavez, Fidel Castro. Boom!. La tesi di Bergoglio populista era stata da me stroncata – fatti alla mano – su Il Riformista ad agosto. Ma si sa, non basta. Le fasulle teorie rinascono. Però stavolta è troppo: non basta scrivere un libro per dimostrare una tesi, specie se è costruita a tavolino. E farsi volere bene da editori ed autori parlando in positivo e a tutti i costi di un libro poco accurato, non è un bel servizio ai lettori. Oltre ad invitare alla lettura integrale del mio articolo, ecco per sommi capi la questione: Ammettiamo per un momento che il «populismo gesuita» esista davvero e che Bergoglio ne sia imbevuto. Allora perché non citare mai nemmeno una volta, per striscio o per sbaglio, i teologi argentini che hanno centrato la loro riflessione sulla «teologia del popolo»? Intendo Carlos Maria Galli, Lucio Gera, Juan Carlos Scannone, solo per citarne tre. Non sono pericolosi populisti al servizio di Peron bensi teologi di spessore che hanno influito in maniera consistente sullo sviluppo di una linea teologica non schierata politicamente. E infatti Zanatta non ne parla, perché distruggerebbero la tesi precostituita e ossessivamente ribadita: il populismo è gesuita. Ammesso (e non concesso) che sia vero il legame diretto tra populismo gesuita, populismo politico, Bergoglio (il cui peronismo, scrive Zanatta, «è naturale proiezione secolare della sua fede»; addirittura!…), in che modo troviamo questo legame nei discorsi di Papa Francesco? Dove è che Papa Francesco scrive o fa intendere che il sano e puro popolo latinoamericano e la sua cultura cristiana sono vittime designate del colonialismo ideologico e del libero commercio, cioè Usa, Occidente, razionalità illuminista? E qui viene il bello. Nei discorsi di Papa Francesco non c’è traccia. Prendiamo come riferimento il discorso del 9 luglio 2015, a Santa Cruz de la Sierra (Bolivia), rivolto al Secondo Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari. Una platea ideale per scatenare il populismo gesuitico-papale, o no? La Chiesa, diceva Papa Francesco in quel discorso, «non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento». Non sembra populismo. E poi gli errori veri e propri nel libro: la descrizione della teologia della liberazione, attribuzioni sbagliate (tipo Helder Camara propugnatore della teologia della liberazione, cosa tutt’altro che vera…) e così discorrendo. Riaffermo la conclusione di quell’articolo: la tesi di fondo del libro viene declinata in maniera ideologica e sbagliata. E stupisce che una pubblicazione siffatta abbia trovato un Editore italiano così prestigioso, che pochi anni or sono aveva consulenti ben preparati sulle tematiche della religione e della Chiesa cattolica. Forse sono andati in pensione. Occorrerebbe richiamarli in servizio per evitare altre scivolate. Perché un conto sono le idee, ben diverso, come in questo caso, voler appoggiare una tesi precostituita, prendendo posizione nella polarizzazione ecclesiale in corso, senza dirlo apertamente, rendendo un pessimo servizio ai lettori.

Perché le fake news ci aiutano a vivere meglio. Mario Furlan l'11 gennaio 2021 su Il Giornale. Il celebre “sciamano” Jake Angeli: per qualcuno è un nero di Black Lives Matter che si è schiarito la pelle. Perché crediamo tanto nelle fake news, dette anche bufale? Perché siamo dei citrulli? No. Ho tanti amici che, pur essendo ben più intelligenti di me, si rimpinzano, quotidianamente, di bufale. E allora, perchè? Andiamo con ordine. La prima fake news cui crediamo è spesso la poetica panzana di Babbo Natale. Quando abbiamo sufficienti indizi per capire che non esiste, smettiamo – seppure a malincuore – di crederci. Ma quando smettiamo di credere in Babbo Natale abbiamo 6 o 7 anni. Siamo bambini. E secondo te è più difficile convincere un bambino o un adulto che lo stanno prendendo per i fondelli? Ti potrà sembrare strano, ma è molto più difficile aprire gli occhi ad un adulto! Perché le fake news soddisfano almeno 4 nostri bisogni fondamentali.

1) Il bisogno di proteggerci dai pericoli. Dalla notte dei tempi la nostra prima esigenza è quella di sopravvivere, e di evitare i pericoli. Per questo siamo portati a credere in chi ci indica un pericolo, vero o immaginario che sia. E le bufale cui crediamo di più sono quelle che ci mettono in guardia da terribili rischi: Se vai nel bosco l’orco ti mangia!, piuttosto che Se ti vaccini ti cresce la coda!

2) Il bisogno di semplificarci la vita. Il nostro mondo moderno è, come la nostra vita, sempre più complesso. E capirlo diventa sempre più difficile. E’ un mondo in cui non esistono quasi mai soluzioni facili a problemi difficili. La realtà non è in bianco e nero, ma piena di grigi. E di sfumature. Per fortuna arrivano le fake news a semplificarci la vita. Che sollievo avere una visione manichea dell’esistenza! E’ consolante sapere che il bene sta tutto di qua e il male tutto di là; che noi siamo i buoni e loro i cattivi. E’ comodo: non devi fare la fatica pensare per capire come stanno le cose. Infatti loro – i fabbricanti di bufale – pensano per te.

3) Bisogno di sentirci importanti. Tutti noi abbiamo un disperato bisogno di sentirci importanti. E, se possibile, in qualcosa migliori degli altri. Le fake news ci aiutano a soddisfare questa necessità. Perché ci fanno sentire parte di un’élite di illuminati che conosce la verità; mentre la maggioranza del popolo bue si ciba di bugie. Che soddisfazione poter proclamare, con legittima presunzione, “Io sì che so la verità! Invece voi comuni mortali, poveretti, credete a quello che leggete sui giornali!” Potremmo entrare in crisi se chi chiedono da chi abbiamo saputo la verità: di solito si tratta di qualche blog o sito complottista, come Quanon, che campa sulle fandonie. Perché più persone ci cliccano su, più guadagnano. E’ buffo: non crediamo al Giornale, ma ci fidiamo di improbabili giornaletti online. Non crediamo al Corriere della Sera, ma abbiamo cieca fiducia nel Corriere della Minchia. Naturalmente questi siti pieni zeppi di falsità avranno nomi altisonanti: qualcosa come La verità, Controinformazione, Notizie libere e così via. Oppure abbiamo qualche amico bene informato che ci spiega come stanno davvero le cose. Ma sarà davvero bene informato, o non si sarà inventato tutto di sana pianta? Non importa. Raccontando bufale possiamo vantarci di sapere quello che agli altri è nascosto. Così ci sentiamo importanti: solo noi conosciamo la vera verità, mentre loro sono il gregge. Purtroppo – o per fortuna – non ci rendiamo conto che a voler fare i furbi ci stiamo comportando da fessi. E che i veri furbi sono gli spacciatori di bugie: noi siamo i loro utili idioti.

4) L’esigenza più importante: conservare la nostra identità positiva. E poi c’è una quarta esigenza, la più importante: quella di essere fedeli a noi stessi per conservare un’identità positiva. E’ dura e ci vuole molto coraggio a riconoscere di avere preso una cantonata. Perché ti senti un idiota. E allora preferiamo perseverare, imperterriti, nell’errore, anche se ci sembra che qualcosa non torni. Per non ammettere di avere sbagliato dobbiamo selezionare accuratamente le informazioni che ci giungono dal mondo circostante: naturalmente sarà necessario accettare quelle che confermano il nostro punto di vista e rifiutare tutte quelle che lo smentiscono.

Lo sciamano cornuto è un nero travestito!  Questi sono giorni ricchi di fake news. Alle classiche – il Covid non esiste, Trump ha perso per colpa dei brogli, il mondo è governato da una setta di pedofili satanisti – se ne sono aggiunte altre, decisamente fantasiose: il vaccino ci trasformerà in robot; l’assalto al Congresso è stato condotto da antifascisti travestiti da trumpiani; o, addirittura, la perla secondo cui sono stati i militanti di Black Lives Matter ad assaltare Capitol Hill. Ma non erano neri, mentre gli scalmanati visti in tv erano bianchi? La risposta è geniale: i neri sono diventati bianchi grazie a Photoshop, e il famoso “sciamano” Jake Angeli, il cornuto vestito di pelli di marmotta, è un africano che si è schiarito la pelle come Michael Jackson! Caro e affezionato lettore, se sei tra quelli che credono a qualcuna delle bufale sopra citate, ti prego di non cambiare idea. Lo sappiamo che è rarissimo che qualcuno lo faccia, perché le sue convinzioni, giuste o sbagliate che siano, fanno parte della sua identità. Come l’essere cristiano o musulmano; di destra o sinistra; milanista o interista. E’ qualcosa di totalmente irrazionale ed emotivo, ed è giusto che sia così: l’essere umano è un animale emotivo, e usa la razionalità per giustificare le sue scelte irrazionali. Cercare di far cambiare idea a qualcuno non è solo inutile: può essere anche crudele. Perché si va a terremotare un comodo universo di certezze, senza fornirne altre in sostituzione. Se ci sono tanti bambini che credono felicemente in Babbo Natale, perché non accettare con altrettanta serenità che ci possano essere altrettanti adulti che credono che la terra sia piatta?

Ecco gli «assassini di bugie» sul web Così a Bari si studiano le fake news Nasce anche la piattaforma etica. Secondo un lavoro condotto dalla cooperativa Radici Future in collaborazione con il dipartimento di Informatica dell’Università il 7o% delle notizie non è attendibile. Michele Pennetti su Il Corriere della Sera il 23/1/2021. È sufficiente cercare l’informazione sbagliata per individuare le fake news? Quali sono i criteri per affermare che una notizia è finta? E, infine, possono i social autodisciplinarsi sul piano etico? Interrogativi così attraversano - da tempo - la galassia massmediologica e della pubblica opinione. Anche perché sulla riproduzione di falsità si fonda una porzione ragguardevole della promozione di consenso politico ed economico. Basti pensare che i social network sono cresciuti esponenzialmente proprio perché è impossibile - o quasi - rintracciare la fonte delle informazioni postate. Il peccato originale resta la concessione alle aperture di profili fasulli. Profili sovente governati da macchine, da algoritmi, non da esseri umani. Megafoni che diffondono notizie non certificate e neppure verificate. Il dibattito (già rovente) attorno al tema è esploso nel momento in cui Twitter ha deciso di sospendere - prima in via temporanea e poi definitiva - il profilo dell’ex presidente statunitense Donald Trump.

Due milioni e mezzo di articoli scandagliati. Le reazioni alla divulgazione di fake news o di giudizi costruiti ad arte, in realtà, pongono due problemi: uno di natura scientifica e l’altro di ordine etico. Scientificamente, per un utente medio senza competenze specifiche sul campo, è difficile scovare un’informazione non veritiera. Un approccio originale per congegnare un insieme di indicatori utili è stato focalizzato dalla cooperativa Radici Future Produzioni di Bari che, attraverso una convenzione siglata con il dipartimento di Informatica dell’università Aldo Moro, ha sviluppato un sistema di intelligenza artificiale che traccia nel lessico, nello stile della scrittura e nel vocabolario i segni della menzogna. L’accordo ha consentito ad alcuni studenti di laurearsi con tesi sulle predizioni algoritmiche di scenari criminali e presenza di fake news. La mole di dati, invece, ha rivelato che le notizie ingannevoli nascono quasi sempre da informazioni autentiche che, successivamente, vengono decostruite, ribaltate, ristrutturate artificialmente grazie alla ricorrenza di mai generici keyword. Fra quotidiani e siti sono stati visionati e analizzati poco più di due milioni e mezzo di testi. Gli articoli scremati dalla carta stampata nazionale, comprese le edizioni locali dei giornali, sono stati ritenuti dallo studio al cento per cento attendibili. Una percentuale crollata fra il 30 e il 40 per cento nel momento in cui sono stati presi in esame i pezzi pubblicati dalle medio-piccole testate online. Detto in maniera più chiara: il 60-70 per cento delle notizie hanno palesi margini di arbitrarietà. Quota che sale fino al 90 per cento nel momento in cui le stesse notizie vengono traghettate sui social network.

Il social network certificato. Ai risultati appena enunciati si è pervenuti attraverso la spremitura di ricorrenze terminologiche che permettono di riconoscere se, dietro l’informazione vagliata, c’è un fabbricante artificiale. Proprio partendo da queste considerazioni sviluppate con l’università di Bari, Radici Future sta per immettere sul mercato online LiesKill.com/eu. Ovvero, un social network generalista con funzione per la didattica a distanza. La particolarità della piattaforma, che per parole e immagini viaggerà sulla stessa lunghezza d’onda di Facebook e Twitter, sta nella certificazione etica dell’utente, il lieskiller, l’assassino di bugie. Ogni utilizzatore, prima di iscriversi, dovrà approvare un galateo che l’impresa ha prodotto ispirandosi alla Dichiarazione universale dei diritti umani e al codice deontologico della stampa italiana. La società si avvarrà di un comitato etico-scientifico interno ed esterno. Su indicazione dell’equipe di LiesKill o di altri utenti collegati ad una chat, il lieskiller che contravverrà al codice etico sarà espulso. Il canone preselettivo sgombra il campo da dubbi. Il fil rouge è stabilire un rapporto di fiducia, diretto, con gli iscritti e rifarsi alle regole del gioco per evitare che un hater o un propagatore di disinformazioni possa insediarsi sulla socializzazione. Il ricorso alla deontologia dei giornalisti, peraltro, offre un’identità inconfondibile della collocazione “commerciale” di questa piattaforma etica, che è sempre più un posizionamento di opinione. Il punto cardinale del momento, in materia. Possono coesistere sul web piattaforme “leggere” e social solidi eticamente codificati? E l’Unione europea può normare le sanzioni a carico di chi riproduce bufale finalizzate a migliorare notevolmente le proprie performance? Nell’attesa, da Bari giungono rilevatori interessanti e una chiave operativa per schivare le fake news.

Conte ancora il leader più gradito. Crisi di governo, gli italiani non vogliono le urne: solo uno su 5 chiede il voto. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Gennaio 2021. Tanti interrogativi ma una certezza: gli italiani non voglio le urne. È il risultato del sondaggio realizzato da Ipsos per il Corriere della Sera. Per la società di Nando Pagnoncelli infatti il 40% degli intervistati ritiene opportuno che l’attuale esecutivo continui fino alla fine della legislatura mentre il 40% si augura un’alternativa. Di questi solo il 21% chiede nuove elezioni, mentre l’8 punta ad un governo di unità nazionale, il 7% ad un cambio di maggioranza e il 4 per cento ad un nuovo premier. Pur non volendo andare alle urne, è opinione diffusa quella che la crisi di governo innescata dalle dimissioni delle ministre renziane Bonetti e Bellanova abbia indebolito il governo Conte (53%), mentre un 20% reputa che l’uscita di Italia Viva dalla maggioranza permetterà all’esecutivo più libertà d’azione e coesione. Tra coloro che si professano del Pd, il 62% è convito che l’esecutivo si sia indebolito, mentre tra i grillini il 50% pensa che si sia rafforzato. Le difficoltà nate dalla crisi per ora non stanno compromettendo il gradimento nel governo, anzi. Secondo Ipsos l’indice di gradimento raggiunge il 51%, in aumento di due punti in una settimana.  Quanto ai leader politici, in testa al gradimento c’è il presidente del Consiglio Giuseppe Conte , stabile a 56, seguito dal ministro della Salute Roberto Speranza (38, in crescita di tre punti), e da Giorgia Meloni (35, in crescita di 1), mentre a 29 troviamo Salvini  (in calo di 2 punti), Zingaretti (stabile) e Franceschini (+2). Sale a 27 Berlusconi, mentre pur guadagnano un punto resta ultimo a quota 12 Matteo Renzi. Tra gli effetti della crisi c’è anche lo "smarrimento" dei cittadini. Il 42% degli intervistati ammette esplicitamente di non aver capito (42%) i motivi della crisi.

SONDAGGI: IL 57,2 PER CENTO DEGLI ITALIANI VUOLE LE DIMISSIONI DEL PREMIER CONTE. Il Corriere del Giorno il 23 Gennaio 2021. Un dato interessante del sondaggio è che il 53 per cento del campione considera immorale la ricerca dei “costruttori” per sopperire all’uscita della maggioranza da parte di Italia Viva, pur di tenere in piedi il governo giallorosso Conte bis. Il sondaggio ha riguardato anche le restrizioni Covid. Il 45 per cento degli italiani ne chiede la rimozione per salvare l’economia. L’ultimo sondaggio condotto da Termometro Politico tra il 19 e il 21 gennaio rivela che il 57,2  per cento degli italiani pensa che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dovrebbe dimettersi perché nel voto sulla fiducia non ha ottenuto la maggioranza assoluta. Il 39,4 per cento  vorrebbe un ritorno al voto immediato. Il 40,7 per cento del campione è invece contrario all’abbandono del premier. Dato questa che contrasta con la lieve crescita il 39,1 per cento (più 01 per cento) della quota degli italiani che hanno fiducia in Conte, ed il calo equivalente, al 66,6 per cento di che quelli che non si fidano del premier. Un altro dato interessante del sondaggio è che il  53 per cento del campione considera immorale la ricerca dei “costruttori” per sopperire all’uscita della maggioranza da parte di Italia Viva, pur di tenere in piedi il governo giallorosso Conte bis. Il 24, 8 per cento, è convinto invece che la ricerca di responsabili sia corretta e legittima, mentre il 20,7 per cento, pur non approvandola, la considera il male minore rispetto ad altre alternative politiche. Insomma quelli che giustificano in qualche modo la caccia al voto sono il 45 per cento del campione. E’ stato chiesto agli intervistati quale premier preferirebbero considerata la crisi di governo e gli equilibri parlamentari in atto. Il 26,7 per cento vorrebbe che Conte proseguisse il suo lavoro con l’attuale esecutivo, il 12,5 per cento preferirebbe un Conte ter, l’11,6 per cento vorrebbe un premier istituzionale o tecnico. Ancora il 6,1 per cento vorrebbe affidare la guida del governo ad un esponente di centrodestra che provi a fare un governo anche con l’attuale Parlamento, mentre il 3,1 per cento vedrebbe bene come premier un altro esponente della maggioranza giallo rossa. Il sondaggio di Termometro politico per quanto riguarda le intenzioni di voto, assegna il primo posto alla Lega di Matteo Salvini che però perde 2 punti percentuali rispetto all’ultima rilevazione attestandosi al 23,8 per cento. Rimane stabile al 20,2 per cento il Pd. Fratelli d’Italia cresce al 17,3 per cento. Sale al 15,3% il M5S, Forza Italia dal 6,2% al 6,5%. Italia Viva e Azione raccolgono ciascuno il 3,3% mentre La Sinistra è accreditata del 3 per cento. Italexit è data all’1,5 per cento davanti a +Europa (1,2 per cento), Verdi (1 per cento), Partito Comunista (1 per cento) e Cambiamo (0,6 per cento). Gli altri partiti tutti insieme ottengono il 2 per cento.

Il sondaggio ha riguardato anche le restrizioni Covid. Il 45 per cento degli italiani ne chiede la rimozione per salvare l’economia. Tra questi c’è un 25 per cento di persone che ritiene le misure di contenimento inutili. Al contrario il 51,7 per cento considera le restrizioni ancora necessarie. Tra questi c’è un 20,8 per cento che le vorrebbe ancora più severe.

Michele Serra per “la Repubblica” il 6 gennaio 2021. La figlia di Milly Carlucci è probabilmente la donna più bella del pianeta. E il figlio di Christian De Sica è l'uomo più bello che sia mai esistito. Perché vi dico queste due rimarchevoli scemenze? Perché compaiono da giorni, testuali, implacabili, sul mio computer, in calce a notizie anche serie, su pagine web anche serie. Si tratta di pubblicità, o meglio di "finte notizie" che hanno lo scopo di attirare l'attenzione: tu clicchi, sbadatamente, per vedere se davvero la figlia di Milly Carlucci è la donna più bella del pianeta, e il tuo schermo diventa una specie di suk. Ne ho già scritto altre volte. E se ne ho già scritto, è perché la qualità della pubblicità (dei suoi modi, del suo linguaggio) è parte integrante della qualità della comunicazione. Puoi anche avere, come utente dell'informazione in rete, un percorso selezionato e riflessivo, diciamo così. Ma ti arrivano addosso, ugualmente, tonnellate di pubblicità di serie B, scritte in un italiano di serie C (traduttore automatico), con un livello culturale di serie D e, soprattutto, con una capacità di mira catastroficamente sbagliata: perché i quattro quinti dei richiami pubblicitari che mi arrivano NON sono calibrati sui miei interessi e i miei gusti. Mi scuso per il passatismo: ma il decrepito assetto dell'informazione novecentesca aveva, in questo senso, più capacità selettiva, e miglior marketing. Se uno comperava il quotidiano autorevole, o se comperava Cronaca vera, o Bolero, trovava pubblicità molto diverse. Non le bambole gonfiabili per l'utente del quotidiano autorevole. Era classismo? Forse. Ma questo è sparare nel mucchio. Non si era detto che gli algoritmi sono il Grande Fratello?

Michele Valensise per "La Stampa" il 5 gennaio 2021. Di fronte a eventi eccezionali che vedeva con i suoi occhi, un tempo il cronista di guerre e disastri era ossessionato dalla paura di trasmettere una testimonianza poco convincente e di non essere creduto. E se l'autenticità del racconto non bastava per garantirne il successo, occorreva uno sforzo in più per descrivere la realtà a lettori lontani. L' eterna lotta tra verità e menzogna o tra diverse sfaccettature della verità è stata al centro di una vicenda sensazionale allo Spiegel, tempio del giornalismo d' inchiesta, che oltre al suo diabolico protagonista ha coinvolto i vertici e l' etica di fondo del settimanale amburghese. Ora la ricostruzione di un bravo freelance della stessa testata rivela, insieme alla patologia dell' impostore, i limiti del sistema che avrebbe dovuto smascherarlo e fa riflettere sul maggior rigore necessario in epoca di fake news (Tausend Zeilen Lüge - Mille righe di bugie, di Juan Moreno, Rowohlt, pp. 287, 18). Un giovane inviato sulla cresta dell' onda, Claas Relotius, apprezzato per i suoi straordinari scoop e insignito per quattro anni su sei con il prestigioso premio Reporter, è in Arizona per un servizio su gruppi paramilitari americani sospettati di neutralizzare con le armi i migranti illegali negli Stati Uniti dal confine col Messico. Da Sud lo Spiegel gli affianca, per un servizio a doppia firma, Juan Moreno, incaricato di intercettare il traffico dei latinoamericani che sognano una nuova vita negli Usa. Relotius è un' autorità indiscussa, Moreno un semplice collaboratore e il primo impone un testo pieno di dettagli che al collega appaiono poco verosimili. Racconta di essersi infiltrato in una rete clandestina di volontari armati, decisi a difendere l' inviolabilità del confine e responsabili di fucilate contro i migranti e di violenze sessuali. Cita nomi e dati che suonano poco accurati, fornisce qualche immagine che lascia più di un dubbio e confeziona l' intero reportage con una velocità del tutto inusuale. Insomma, si può sospettare che qualcosa non quadri. Le perplessità di Moreno si scontrano con la difesa a spada tratta dell' astro nascente da parte della direzione dello Spiegel e con velate minacce. Ma il giornale non ha fatto i conti con la tenacia e la spina dorsale del freelance, figlio di poveri immigrati andalusi. Moreno avvia una sua personale, meticolosa e rischiosa inchiesta, che dopo vari colpi di scena e prove inoppugnabili svelerà l' inganno. Relotius ha semplicemente inventato l' intero servizio in una stanza d' albergo di Phoenix, con fantasia fervida e grande cura di riscontri plausibili. Non basta. Emerge che anche la maggior parte dei suoi celebrati servizi è frutto di pura immaginazione, avvolta in una scrittura fluida e in abili costruzioni. Così la storia di una sessantenne del Missouri, con figlio e nipote vittime di un omicidio, che coltiva la singolare passione di assistere a esecuzioni capitali, in base all' asserita legislazione di alcuni Stati sulla necessaria presenza di cittadini rispettabili all' atto dell' iniezione letale. O quella di una vittima congolese tra le decine di minatori uccisi in una manifestazione di protesta dalla polizia sudafricana. O il reportage su due fratellini siriani, in fuga dalla guerra perché perseguitati, che a distanza - con una video-chiamata dall' inseparabile telefonino - conducono Relotius tra le macerie e i miliziani armati della loro città bombardata. O ancora la lunga intervista con la moglie di un combattente tedesco dell' Isis. E altro. Tutto inventato a tavolino con calcoli sottili. Per la rivista tedesca, il cui motto è «come prima cosa, non crediamo a niente», il colpo è durissimo. Lo è per quanti sanno che quel lavoro oggi ha un' unica risorsa, la fiducia. La vicenda di Claas Relotius, persona gentile e riservata, illustra un' inclinazione compulsiva alla falsificazione, un rapporto patologicamente distorto con la realtà: se anziché il giornalista avesse fatto lo sceneggiatore, ora non sarebbe disoccupato. Né sarà lui a girare il film, in uscita quest' anno, tratto dal libro. Ma la vicenda rivela anche le debolezze di un apparato sinora orgoglioso di una possente struttura interna, senza uguali in Germania, di verifica dei fatti, che in questi casi non ha verificato alcunché. Succede, non solo ai tedeschi. Da ultimo, nella trappola della storia bella ma falsa è caduto anche il New York Times, vittima di un reportage su un terrorista canadese in Siria, inventato di sana pianta da una giornalista di fama, Rukmini Callimachi. Insomma, per conformismo e interesse, anche punte di diamante come i due capi dello Spiegel convolti possono cedere alle sirene della penna a effetto, piuttosto che tenere la barra dritta sulla verità senza aggettivi. Eppure avrebbero dovuto ricordare per primi il vecchio monito di Ernest Hemingway, «scrivere bene vuol dire scrivere la verità».

Da “il Messaggero” il 25 gennaio 2021. Anche le testate internazionali più blasonate scivolano in incidenti imbarazzanti. Il prestigioso magazine statunitense New Yorker ha restituito un importante riconoscimento giornalistico dopo avere scoperto con un' indagine interna che l' articolo premiato conteneva informazioni false. Nel 2018 il periodico pubblicò una lunga inchiesta sul fenomeno emergente in Giappone dei cosiddetti parenti in affitto. La storia era centrata su una società che offre ai clienti degli attori che fingono di essere membri della famiglia. Autore del lungo pezzo, «A Theory of Relativity», è Elif Batuman, romanziere e autore della rivista dal 2010. La storia è valsa al New Yorker il National Magazine Award ma la rivista ha poi scoperto che i tre protagonisti principali dell' articolo avevano ingannato l' autore e la squadra che si occupa del fact-checking. Sono risultate false persino le prime righe dell' articolo, dove si racconta che «due anni fa Kazushige Nishida, un uomo d' affari di sessant' anni, ha iniziato ad affittare una moglie part-time e una figlia» dopo la morte della sua vera moglie. Un mese fa il magazine aveva aggiunto una nota alla versione online dell' articolo, sottolineando che i risultati dell' indagine «contraddicono aspetti fondamentali delle storie di queste persone e minano ampiamente la credibilità di ciò che ci hanno detto». Ma aveva lasciato la storia nel suo sito perché il fenomeno dei «parenti in affitto» in Giappone è «ben documentato» e fornisce una «esplorazione delle idee di famiglia in Giappone e più in generale». Il magazine aveva avviato la sua indagine dopo che nel 2019 un media giapponese aveva segnalato che un dipendente di Family Romance, lo stesso descritto nell' articolo, «si era finto cliente della società in un documentario tv». L' American Society of Magazine Editors, che assegna i National Magazine Awards, ha annunciato la decisione della rivista venerdì, lodando il New Yorker per la sua indagine e per la sua decisione di restituire il riconoscimento.

 “I suprematisti sparano ai migranti”. Ma lo scoop era falso. Andrea Amata, 8 gennaio 2020 su Nicolaporro.it. Il settimanale tedesco Spiegel è al centro di una polemica causata dalla spregiudicatezza di un suo cronista, Claas Relotius, che è stato più volte insignito del premio Reporter per gli audaci scoop di cui è stato autore. Fra i colpi giornalistici di Relotius si annovera il servizio sui migranti illegali latino-americani fermati ai confini degli Stati Uniti da gruppi di volontari clandestini con il grilletto facile e inclini alla violenza. Il reporter dello Spiegel, dall’alto della sua autorità mediatica, ha confezionato un’inchiesta giornalistica, premeditando l’alterazione della verità e renderla, così, accattivante e spendibile dal mainstream celebrante le gesta di chi conferma lo stereotipo razzista dell’uomo bianco. Il prestigioso cronista ha raccontato di essersi infiltrato nelle ronde clandestine che pattugliavano i confini statunitensi, fornendo immagini e nominativi che, tuttavia, suscitarono perplessità in un suo collaboratore, Juan Moreno. Ma i dubbi sollevati sull’inchiesta vennero respinti dalla direzione dello Spiegel. Il freelance Moreno, figlio di immigrati andalusi, non ha desistito ed ha raccolto prove inoppugnabili sulla mistificante narrazione, smascherando la bufala impacchettata dal cronista pluripremiato. Relotius si è rivelato un fraudolento propagatore di menzogne ed un prevaricatore dell’etica giornalistica che dovrebbe venerare la “sacra” verità dei fatti. Approfondimenti successivi hanno accertato l’abituale fabbricazione di notizie plasmate dalla fervida immaginazione del cronista tedesco. Un duro colpo per il settimanale tedesco, come sarebbe stato per qualsiasi altro giornale, che fonda la sua credibilità sul racconto della verità e sulla verifica dei fatti. La storia di Relotius conferma che in alcuni ambienti della comunicazione si punti più all’effetto che procura una notizia, seppure falsa, che all’oggettività dell’informazione. Poi quando la fake news viene concepita per raccontare l’inverosimile, come il manipolo di suprematisti che sparano agli immigrati, i fautori dello stereotipo razzista, pur di espandere il loro pregiudizio, ne incentivano la produzione, gettando ombre pesanti sull’indipendenza dell’informazione che dovrebbe sottomettersi, esclusivamente, alla verità. Andrea Amata, 8 gennaio 2020

Da leggo.it il 22 dicembre 2020. Quando alla fine dello scorso anno avevamo pubblicato l'elenco di tutti i nostri errori, oltre a chiedere scusa ai lettori, ci eravamo ripromessi di migliorare. Ci abbiamo provato. E in parte ci siamo riusciti. Ma non fino in fondo. Così anche quest'anno ci ritroviamo a elencare una lista di ricostruzioni errate, refusi (qualcuno ha fatto sorridere come il calciatore della Juventus Cuadrado scritto con la Q, imperdonabile invece quel Recovery found anziché fund) e inesattezze presenti nelle nostre pagine. Chiediamo ancora scusa agli interessati e ai lettori tutti. Il 18 luglio Valerio Carocci, giovane leader del Cinema America di Roma, è stato aggredito nei pressi di Trastevere. Inizialmente diversi media - tra cui il nostro giornale - hanno indicato l'aggressore come un membro di una organizzazione di estrema destra, vicina a Casapound. Si trattava invece addirittura del contrario: di un giovane che gravita nel centro sociale Acrobax, dell'area antagonista di sinistra, nel quartiere Marconi. Il 17 settembre, in apertura della Cronaca di Roma, abbiamo pubblicato un servizio sugli esercizi commerciali che non avevano riaperto a Roma a causa della pandemia. Secondo le stime di Confcommercio, si trattava del 15% dei negozi in periferia e del 25% nel centro storico, ma noi abbiamo erroneamente concluso che si trattava del 40% complessivo degli esercizi commerciali. Nello sport, in occasione della morte di Paolo Rossi (lo scorso 9 dicembre), abbiamo fatto un torto a Giorgio Lago, storico direttore del Gazzettino di Venezia, scrivendo che il soprannome Pablito era stato inventato da Gianni Brera durante il Mondiale 1982. Invece, l'invenzione è proprio di Giorgio Lago che scrisse per primo di Pablito, al Mundial di Argentina del 1978. Sempre nello sport abbiamo dato per certo l'arrivo di Francesco Totti nella nuova Roma di Dan Friedkin, ma la trattativa non è mai decollata. Abbiamo raccontato di quella coppia di vigili sorpresa a fare sesso. Ma a tradirli non è stata, come abbiamo scritto, l'autoradio di servizio lasciata accesa ma una registrazione da parte di qualcuno che poi ha presentato l'esposto al Comando. Ora quindi la magistratura indaga per capire se le effusioni siano avvenute nell'auto di servizio e durante l'orario di lavoro ma anche sull'intercettazione abusiva (dove i vigili sono vittime). Diverso il caso del web, dove, a causa dei tempi serrati, l'errore è spesso dietro l'angolo. Ad esempio, abbiamo messo online una bozza - errata - di uno dei tanti dpcm del governo: in quel caso ci siamo scusati subito con i nostri lettori. Strappa invece un sorriso uno scambio di persona avvenuto sulle nostre pagine elettroniche: per qualche ora il fidanzato di Cecilia Rodriguez, la sorella di Belen, è diventato Francesco Moser, padre di Ignazio Moser. Sempre uno scambio di persona ci ha portato a sbagliare il nome del marito di Rita Pavone: invece che Teddy Reno abbiamo scritto che il suo compagno era Tony Renis.

Davide Desario per leggo.it il 22 dicembre 2020. L'anno scorso, di questi tempi, abbiamo pubblicato una pagina con le nostre notizie sbagliate. Errori gravi e meno gravi, refusi, ma anche ricostruzioni errate uscite sulle pagine o sul sito internet di Leggo nel 2019. Errori commessi sempre in buona fede, ve lo garantisco, che però avevamo comunque fatto e che meritavano le nostre scuse agli interessati e ai lettori tutti. Quella pagina non era un colpo a effetto o una trovata mediatica. Quella pagina era la voglia di cambiare, in meglio, il nostro modo di fare informazione e di stringere ancora di più il già forte legame che ci lega ai tantissimi lettori. Come a dire: «Ce la mettiamo tutta ma non siamo infallibili e voi potete fidarvi di noi perché se sbagliamo ve lo diciamo». Promettemmo di provare a fare meglio. E ci abbiamo provato ogni giorno del 2020. Pur sapendo che era difficilissimo riuscirci. Infatti, non ci siamo riusciti. Almeno quanto avremmo voluto. Pensate che bello se avessimo potuto pubblicare una pagina completamente bianca dicendo: «Questi sono i nostri errori». Invece, anche quest'anno, abbiamo riempito un articolo con le notizie che non sono state date in modo corretto. Siamo riusciti a fare un po' meglio che in passato. Soprattutto grazie ai lettori che ci hanno aiutato ad avere particolari che non conoscevamo o che non sapevamo perché spesso le fonti provavano a tenerli nascosti. Certo dobbiamo fare ancora meglio. Vogliamo fare ancora meglio. La strada è lunga. Ma quest'anno abbiamo capito che tanti di voi sono al nostro fianco.

Flavio Briatore attacca: "Il caso della Rolls Royce? Pronto a far causa al Corriere". E sulla Gregoraci...Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 24 dicembre 2020. Un uomo viene scambiato per un altro più famoso perché ha i suoi stessi occhiali, lo stesso taglio di capelli, la stessa macchina e, apparentemente, gli stessi lineamenti. Ha commesso un'infrazione con l'auto, l'ha lasciata in mezzo alla strada, intralciando il passaggio del tram, e tutti se la sono presa con il personaggio noto. Fino a che non si è scoperto che quest' ultimo non c'entra niente. E che il vero responsabile è un cittadino di nome Luigi Proietti, proprio come l'attore da poco scomparso. In questa commedia dell'assurdo e degli equivoci, degna di classici della letteratura quali Il sosia di Dostoevskij, si è ritrovato imbrigliato, suo malgrado, l'imprenditore Flavio Briatore, "reo" di eccessiva somiglianza con l'occasionale trasgressore del codice della strada. A scrivere il copione, per malizia o per errore, non si sa, è stato il Corriere della Sera.

Briatore, com' è sta storia? Ormai la vedono anche dove lei non c'è.

«Sì, tutto nasce giovedì scorso quando il Corriere pubblica un articolo sul sito, con tanto di video, accusandomi di aver parcheggiato una Rolls Royce nel cuore di Milano, in modo tale da bloccare il traffico. Io chiamo subito il giornalista, smentendo categoricamente e dicendogli che non potrei mai essere io: sono a Montecarlo, non guido da 20 anni e la targa della mia auto è monegasca, non italiana come quella ripresa nel video. Il giornalista del Corriere riporta la smentita ma continua a sostenere nell'articolo di avere le prove: i testimoni, dice, riferiscono che si tratta di Briatore E per due giorni il Corriere continua così, fino a che, in modo molto cortese, non si espone Luigi Proietti che, parlando con Leggo e Il Giornale, ammette di essere lui il vero responsabile dell'infrazione».

La faccenda si chiude qui?

«Macché. Il Corriere per due giorni mi ha descritto come un furbetto: prima di pubblicare il pezzo non si è degnato di farmi una chiamata per appurare che fossi realmente io, e dopo ha continuato a giocare sull'equivoco, sostenendo che Proietti era un mio sosia. E poi, a parte il pentimento tardivo pubblicato nel pezzo, non mi sono arrivate le scuse personali né del giornalista né del direttore né dell'editore. Pertanto farò causa».

Non pensa che il tutto possa essere avvenuto in buona fede?

«No, io ci vedo del dolo, l'attacco è stato fatto in modo mirato. Per la stessa ragione, ogni volta che faccio qualcosa di buono, la notizia viene ignorata. Penso alla campagna da me promossa a sostegno degli abitanti di Bitti, in Sardegna, colpiti da un'alluvione. Sono riuscito a raccogliere 67mila euro, frutto di mie donazioni personali e di contributi da parte dei miei locali, che verranno destinati per Natale alle famiglie e alle attività di quel paese. Pensa che qualcuno sulla stampa ne abbia parlato?».

È dalla scorsa estate che lei è nel mirino. Allora l'accusavano di essere un propagatore di coronavirus col suo locale, il Billionaire.

«Sul Billionaire sono state dette tante falsità. Si parlava di 60 dipendenti positivi, quando invece erano 28, peraltro tutti supportati adeguatamente, curati e guariti. E poi, se davvero quello era il grande focolaio, com' è che il Billionaire è chiuso da più di quattro mesi ma oggi i contagi in Italia non smettono di crescere? Resto convinto che, se anziché Billionaire, si fosse chiamato Discoteca Bingo Bongo e fosse stato un locale qualsiasi, nessuno se ne sarebbe occupato. Invece così tanti si sono riempiti la bocca».

Si è spiegato il perché di questi attacchi? È tutta invidia sociale? O pesano le sue posizioni critiche nei confronti del governo Conte?

«Mi sono convinto che il Covid abbia creato un odio bestiale, esasperando la rabbia sociale nel nostro Paese. Come diceva Montanelli, prima, se vedevano una macchina di lusso al semaforo, gli italiani sognavano di fare soldi e potersela comprare. Oggi sognano di rigartela. E poi questa mia vicenda è po' una fotografia di quello che sta succedendo all'Italia: un Paese che in passato ha partorito idee, artisti, imprenditori, talenti e oggi si è rintanato nei propri pregiudizi e nella propria ideologia, a prescindere dai fatti. Spesso la stampa e i media contribuiscono a questo andazzo».

Quanto concorrono invece al declino le misure del governo?

«Be', i veri autisti da multare sono quelli che guidano il Paese e stanno facendo andare fuori strada il pullman Italia a ogni curva. Penso agli ultimi assurdi decreti: hanno fatto la stupidata di chiudere i centri commerciali nei weekend e poi si lamentano se la gente si assembra nei negozi in centro. Incoraggiano lo shopping con il cashback e poi incolpano i cittadini che vanno a fare compere. È tutto un controsenso, come la strategia "apri e chiudi" che sta facendo impazzire gli esercenti. Ma vedrà che a Natale gli italiani si attrezzeranno per violare queste norme folli. Si muoveranno a due a due, magari con dieci macchine, pur di andare a trovare i parenti».

Lei si sottoporrà al vaccino, pur essendo già stato colpito dal virus?

«Sì, ne parlerò con il mio medico e mi vaccinerò. Farei di tutto purché questa situazione finisca e il Paese la smetta di stare in ginocchio».

Di lei si è parlato molto anche a proposito del «Grande Fratello».

«Guardi, credo di essere stato uno dei concorrenti del Grande Fratello. Si è parlato più di me che di chi era in gara. Almeno loro sono stati pagati. Manderò una fattura per farmi pagare anche io (sorride, ndr)».

C'è qualcosa di vero in quella storia del contratto tra lei ed Elisabetta Gregoraci?

«No, non esiste nessun contratto. Su me ed Elisabetta sono state scritte e dette tante cazzate e cattiverie».

Ma tornerebbe mai con la Gregoraci, come sperano molti fan?

«Ora tra me e lei c'è un rapporto di affetto e dobbiamo solo lavorare insieme per il bene di nostro figlio. Sono contento che lei sia uscita dalla Casa del Gf e lo abbia fatto per passare le vacanze con Nathan, da grande mamma qual è».

A quando invece l'incontro col suo presunto sosia Proietti?

«Gli ho telefonato e l'ho invitato a esporre qualche opera in un mio locale, visto che lui fa il gallerista. Intanto però mi prendo il lusso di tirare di nuovo fuori la mia Rolls Royce dal garage. È così tanto tempo che non la uso».

Michele Serra per “la Repubblica” il 23 dicembre 2020. Vedi a che piccole cose si aggrappa la felicità. Leggo che non era Briatore, era un suo sosia il tizio che ha lasciato la sua Rolls, a Milano centro, sulle rotaie del tram, bloccando quel poco di traffico prenatalizio che il Covid concede. E tiro un grande sospiro di sollievo, perché ho rischiato di scriverne, di quella falsa notizia (circolata per due giorni, e non sono pochi) e però alla fine non l' ho fatto, risparmiandomi la brutta figura di dare del Briatore a Briatore l' unica volta che non c' entra niente. Ne approfitto per scusarmi con Briatore (pur non avendo scritto mezza riga contro di lui) a nome delle decine di media che lo hanno descritto, prima protervo e poi fuggiasco, nei panni del Nemico del Natale. Ma a parte lo scampato pericolo, è bello anche sentirsi alleggerito dal peso del pregiudizio. "Non era Briatore" è il possibile titolo di un avvincente racconto innocentista, un poco il contrario, come spirito, dell' andreottiano "a pensare male si fa peccato ma spesso si indovina". A pensare male, in realtà, si sbaglia molto spesso, ed essendo questo mio un mestiere che bene si addice ai malpensanti, è sempre un sollievo scoprire che l' umanità è un poco migliore di come la immaginiamo. Il sosia di Briatore, per esempio: magari è una magnifica persona, fa beneficienza, adotta a distanza i delfini, finanzia la piantumazione di alberi in Etiopia, ha aperto una scuola montessoriana per il recupero dei giovani trapper. Ha forse colpa di essere il sosia di Briatore? Poteva forse scegliere di essere il sosia di Teresa di Calcutta, o di Mattarella? Risolta la questione etica, rimane insoluta una domanda: ma si può essere così pirla da lasciare una Rolls sulle rotaie del tram?

Aradeo, fidanzati uccisi: denuncia contro «Pomeriggio 5» per diffamazione. L'edicolante era stato indicato come un sospettato durante la popolare trasmissione di intrattenimento in onda su Canale 5. Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Dicembre 2020. Una denuncia contro il programma «Pomeriggio 5» per averlo erroneamente indicato come sospettato del duplice omicidio dell’arbitro leccese Daniele De Santis e della sua compagna Eleonora Manta. A depositare l’atto, tramite gli avvocati Roberto Tarantino e Davide Spiri, è stato l’edicolante di Aradeo che nei giorni immediatamente successivi al delitto venne indicato come soggetto coinvolto nelle indagini e interrogato in Procura. E invece nulla di più falso. Nella querela, i legali chiedano che si proceda per diffamazione aggravata contro una serie di persone: il direttore del programma, gli autori, la presentatrice Barbara D’Urso e l’inviata Ilaria Dalle Palle. I fatti risalgono al 23 settembre scorso, due giorni dopo l’omicidio. Nel primo pomeriggio inizia a diffondersi una voce, non confermata, circa il fatto che una persona di nome «Andrea» ( che in un primo momento si riteneva fosse il nome dell’assassino pronunciato da Eleonora prima di morire), edicolante di Aradeo, sia stato convocato in Procura per essere interrogato. La notizia rimbalza incontrollata sulle varie testate on line e in televisione, alla luce dell’enorme attenzione mediatica sul caso. In pochi minuti l’inconsapevole protagonista dello “scoop”, che è regolarmente nella sua edicola del tutto ignaro di ciò che sta accadendo, si ritrova attorniato da telecamere, troupe giornalistiche e tanti curiosi. Ma anche da persone che lo additano come presunto killer, in considerazione del fatto che Seclì, il paese di origine di Eleonora, dista appena qualche chilometro da Aradeo. Inevitabilmente, tutto questo causa all’edicolante un enorme disagio, tant’è che si rivolge immediatamente ai suoi legali per smentire ufficialmente la notizia, priva di qualsiasi fondamento. «È stato fermato ed è sotto interrogatorio in Procura un trentasettenne - dice l’inviata nel servizio - forse è stato trovato l’assassino. Sembra essere un edicolante che abita nel paese vicino alla mamma di Eleonora, ma la cosa fondamentale è che questo signore si chiama Andrea. Questa persona al momento informata dei fatti è un edicolante, molto conosciuto nel paese di Aradeo...conosceva Eleonora, probabilmente la conosceva fin da piccola...». Ma in realtà nulla di quanto detto dalla giornalista Mediaset corrisponde al vero. Ora toccherà alla Procura di Lecce valutare la sussistenza di eventuali ipotesi di reato nei confronti dei soggetti indicati in querela. È possibile anche che possa essere avanzata una sostanziosa richiesta di risarcimento.

·        Il Nefasto Politicamente Corretto.

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore,  per Dagospia il 13 dicembre 2021.

Caro Dago, capisco che detto oggi appaia provocatorio, ma esiste un’istituzione al mondo perfino più ridicola dell’Uefa. Sì certo, il sorteggio toppato in mondovisione come l’ultimo torneo parrocchiale, le proteste dei club e via delirando, ma senti cosa si è inventata la Generalitat. Trattasi del sistema amministrativo della Catalogna, che ha segnato l’ultima (per ora) frontiera della (sur)realtà politicamente corretta: la guerra ai campi da calcio, in particolar modo alle porte. Sessiste, maschiliste, esclusiviste. Giuro, è tutto vero, per quanto largamente inverosimile. Il ministero dell’Istruzione del governo catalano, dopo approfondite riflessioni, ha infatti scovato la causa primigenia della discriminazione tra il maschio e la femmina (ma sarebbe meglio dire tra il maschio e i vari altri generi sessuali, a neolingua politically correct vigente) ignobilmente perpetrata dal sistema patriarcale fin dalla più tenera età: la presenza appunto, in molti cortili di molte scuole, delle porte da calcio. La rimozione forzata e correttissima di traverse e pali reazionari renderebbe finalmente “meno maschilisti gli istituti scolastici”. Non siamo in grado di determinare quanti ettolitri di cerveza sia necessario ingerire per partorire la stronz…, ehm l’idea, ma possiamo quantomeno  intuire il falò della logica allestito dagli alticci burocrati barcellonesi. Che anzitutto, da zelanti progressisti arcobaleno, si rivelano i più oscurantisti di tutti (ricordate alle nostre latitudini l’approccio alla libertà d’espressione che coltivavano le truppe censorie pro-Zan?): certificando che gli spazi scolastici occupati dai campetti di pallone sarebbero esclusivamente a misura di bambino, stanno contemporaneamente asserendo che il calcio non è mai, per statuto e definizione, materia da bambine. Alle quali possono sempre restare la cucina e il taglio&cucito, per prepararle al radioso avvenire di fornitrici di prole per la stirpe catalana. Sono i paralogismi del politicamente corretto, colti peraltro in diretta da Alexia Putellas, catalanissima, ala del Barcellona femminile fresco di Triplete (con campi e porte le giocatrici blaugrana in questo momento se la cavano assai meglio dei colleghi uomini, per dire il masochismo della proposta governativa), vincitrice del Pallone d’Oro 2021, una sorta di Leo Messi in gonnella: “Io iniziai nel cortile quando avevo quattro o cinque anni”. Ed è già gioco, partita, incontro. “Le bimbe devono credere in loro stesse. E se sentono di voler diventare calciatrici devono lottare e lavorare sodo per riuscirci”. Il merito è sempre personale, prescinde dalle norme e dal sesso, essere donna non è né un plus né un minus, conta come te la cavi col dribbling nello stretto e quanto inquadri la porta quando calci. Conta l’individuo, che è il nemico per eccellenza del totalitarismo arcobaleno come lo era dei totalitarismi rossi e neri: dove questi lo riducevano alla Classe, o alla Razza, quello lo incatena al suo Genere, perdendo così tutta l’abbondanza empirica della realtà. Che è quella che fa sì che Alexia faccia giusto un paio di palleggi più del sottoscritto prima di far cadere il pallone, tanto per essere chiari. Post scriptum: Tra l’altro, non ci avete recentemente fracassato gli zebedei con la raggiunta parità pallonata, le magnifiche sorti e progressive del calcio femminile, i Mondiali 2019 trasmessi a reti unificate col girone delle Azzurre elevato a livelli di epopea che al confronto le Notti Magiche di Baggio&Schillaci erano preliminari di Europa League? E adesso volete togliere loro perfino le porte, il tutto in nome dello stesso conformismo… Meno cerveza, please.

Se il politicamente corretto distrugge il cinema. Erika Pomella il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. Carnage è un film del regista Roman Polanski, ritenuto colpevole di abusi su una minore. Kate Winslet si è detta pentita di aver lavorato con un regista del genere. Alle 00.48 su Iris andrà in onda Carnage, il film di Roman Polanski che venne presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia e che vede un cast d'eccezione, capeggiato da Kate Winslet e Christoph Waltz.

Carnage, la trama

Tratto dall'opera teatrale Il dio del massacro, Carnage racconta l'incontro e il successivo scontro tra due coppie di genitori che si incontrano a seguito di un problema tra i figli. Alan (Christoph Waltz) e Nancy Cowan (Kate Winslet) sono infatti i genitori di un ragazzino accusato di aver aggredito fisicamente il figlio di Penelope (Jodie Foster) e Michael (John C. Reilly). L'incontro tra i quattro adulti inizia seguendo le più basilari leggi della convivenza civile, ma ben presto lo scudo dell'educazione comincerà a mostrare le proprie crepe. I due nuclei familiari sono infatti diametralmente opposti e vivono vite molto diverse, per cui è davvero difficile mettersi gli uni nei panni degli altri. La situazione degenera quando Nancy, a causa di un conato, rovina uno dei libri di Penelope, mentre Michael non riesce a credere quando scopre che Alan difenderà la casa farmaceutica responsabile della malattia della madre. Tra insulti e accuse sulle capacità genitoriali, i quattri finiranno con il dare il via a un vero e proprio gioco al massacro.

Il ripensamento di Kate Winslet e la cancel culture

Sebbene abbia una durata inferiore agli ottanta minuti, Carnage è una pellicola che riesce a mettere in scena le ipocrisie del mondo borghese. Ma a ben guardare il film è anche un esempio dell'ipocrisia che regna a Hollywood e che in questi tempi di politicamente corretto sta mettendo a dura prova il concetto di arte che, per sua stessa natura, dovrebbe essere sempre libera. Nel 2020, infatti, Kate Winslet rilasciò un'intervista in cui espresse il proprio rimorso per aver accettato di lavorare con un regista come Polanski. Come riporta Elle, infatti, Roman Polansky nel 1977 confessò di aver fatto sesso con una minorenne e sebbene all'inizio la sua confessione abbia portato a un patteggiamento successivamente esso venne confutato, spingendo Polanski ad abbandonare gli Stati Uniti - dove è ancora oggi ricercato - e a trasferirsi in Francia.

Nell'intervista rilasciata a Vanity Fair nel 2020 Kate Winslet si è detta pentita delle sue scelte e ha detto:"La vita è dannatamente corta e mi piacerebbe poter fare del mio meglio quando si tratta di essere un esempio per le ragazze più giovani. Gli stiamo dando un mondo incasinato, perciò mi piacerebbe fare quello che posso e avere un po' d'integrità. Nel senso... cosa cazz* stavo facendo quando lavoravo con Woody Allen e Roman Polanski? Oggi per me è incredibile pensare a come quegli uomini siano trattati con il massimo riguardo nell'indutria cinematografica. E io devo prendermi le mie responsabilità per aver lavorato con entrambi. Ma non posso portare indietro le lancette dell'orologio."

L'opinione di Kate Winslet e il suo rimpianto per aver lavorato con i registi citati sembra tuttavia una mossa per difendersi da possibili attacchi perché, soprattutto nel caso di Polanski, l'attrice era ben consapevole di chi fosse il regista e quale fosse il suo crimine. Quando Kate Winslet ha accettato di girare Carnage era ben consapevole di quello che Polanski aveva fatto, che era un fuggitivo e, oltretutto, aveva combattuto per la sua idea. In un'intervista con il New York Times, Kate Winslet aveva difeso la sua scelta di lavorare con Roman Polanski e Woody Allen asserendo che la loro sfera privata "doveva essere messa da parte", perché si trattava di lavoro. Se il crimine di Roman Polanski è noto e riconosciuto anche dalla giustizia statunitense, il discorso di Woody Allen è leggermente diverso. Il famoso regista newyorkese, secondo quanto scritto da Elle, è stato accusato dall'ex moglie Mia Farrow di aver abusato sessualmente della figlia Dylan Farrow, ma Woody Allen - con il quale Kate Winslet ha lavorato nel 2017 nel film La ruota delle meraviglie - venne scagionato dalle accuse. E l'attrice difese anche il proprio lavoro con lui.

In un'altra intervista riportata da Global News Kate Winslet ha detto: "Woody Allen è un ottimo regista e lo è anche Roman Polanski. Ho avuto una splendida esperienza nel lavoro con loro e questa è la verità". Quindi l'ultima dichiarazione di Kate Winslet in cui rinnega alcune pellicole della sua lunga carriera non sembra tanto una presa di consapevolezza, quanto le proverbiali lacrime da coccodrillo. 

Erika Pomella. Nata a Roma, mi sono laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione di montaggio e da allora scrivo di Cinema e Spettacolo per numerose testate. Ho collaborato con l’Ambasciata Francese in Italia per l’organizzazione della prima edizione del festival del cinema francese a Roma. Parlo fluentemente francese e, quando non lavoro, passo il mio tempo a leggere montagne di romanzi e ad organizzare viaggi

Antonello Piroso per la Verità il 5 dicembre 2021. Lasciatemi nel medioevo della mia infanzia, ve ne prego. Quel magico eldorado anagrafico in cui Babbo Natale era asessuato, quel piccolo mondo antico in cui le tradizioni venivano omaggiate per quello che erano, riti condivisi in cui tutti erano accettati e accolti. Perché se per essere alla moda, up to date, devo trovare geniale la provocazione delle Poste norvegesi, che in occasione del cinquantesimo anniversario della depenalizzazione dell'omosessualità hanno deciso di girare uno spot in cui Babbo Natale si bacia con un altro uomo (che a uno, già così, verrebbe da domandare: «Dovendo genufletterci davanti al totem della modernità, a quando una bella ammucchiata nel presepe all'ombra della stella cometa?»).Perché se per non apparire un reazionario conservatore devo gioire per l'iniziativa presa a Modena, issare in una delle piazze principali una maxistatua di Papà Noel, o di Santa Claus, fate voi, però rigorosamente in tutù. Ecco, se per venire applaudito come contemporaneo evoluto devo dire di sì a queste, come ad altre manifestazioni del movimento di liberazione 3.0, la mia educata risposta è: grazie, ma anche no. Pronto a ripeterlo anche di fronte ad altre iniziative che finiscono con l'incenerire l'innocenza della mia giovinezza, quando le tempeste ormonali erano scatenate da donne maestre nel gioco del «vedo e non vedo», e il massimo dell'eccitazione si raggiungeva sbirciando il reggicalze che Laura Antonelli lasciava intravedere salendo su una scala nel film Malizia di Salvatore Samperi. Perché se per non farmi appiccicare la lettera scarlatta di retrogrado oscurantista devo cadere in deliquio davanti ad Alessia Marcuzzi, persona piacevole e ironica, che su Instagram esibisce il suo privato scrigno di sex toys, «vi porto nel mio arsenale». Con Marina La Rosa, l'ex «gatta morta» - e quindi vivissima - del primo Grande Fratello, la quale interpellata: «Che ne pensi del tabù sfatato da Marcuzzi?», ha elegantemente sghignazzato: "Ma quale tabù? Tutti noi abbiamo a casa dei sex toys. E menomale!», postando anche lei l'immagine del suo compagno di giochi. E dopo che l'ormai ex attrice Gwyneth Paltrow ha messo in vendita la candela «che profuma come la mia vagina» (sold out in poche ore, a conferma del vecchio adagio per cui la madre dei followers è sempre incinta), ebbene, di nuovo: grazie, ma anche no. Intendiamoci: qui non si sta sindacando la libertà del singolo di organizzare il proprio Natale, la propria sessualità, l'intera sua esistenza, come caspita più gli aggrada, ci mancherebbe pure altro. Ma non può accadere neppure che, in ossequio a una visione a senso unico della tolleranza, io arrivi a rinnegare la (o rinunciare alla) mia, d'identità: antropologica, sessuale, religiosa. Una società che abdichi ai propri valori prevalenti non è né più democratica né più «aperta», come l'avrebbe definita Karl Popper. Perché se non ci deve essere la prevaricazione del gruppo sull'individuo, non può neppure avvenire il contrario. Il tentativo è in corso. In nome di una legittima richiesta di rispetto delle minoranze o di categorie considerate in via presuntiva più deboli (personalmente ho sempre ritenuto che il sesso caratterialmente davvero forte sia quello femminile, anche se le leve del potere sono quasi sempre in mano di uomini e ominicchi), l'esplicita rivendicazione a muso duro «così è, se vi pare» cerca di mettere la mordacchia alla maggioranza, di cui si vorrebbe conculcare il diritto di esprimere il proprio punto di vista, antagonista o indifferente che sia. Un magnifico ossimoro, a ben guardare, un paradosso nel paradosso. Perché una maggioranza ridotta al silenzio si trasforma, in concreto, in una minoranza. Così, perseguendo ossessivamente l'inclusione (altro mantra che ha portato al lunare documento della commissione europea sull'uguaglianza ad uso dei funzionari della Ue, linee guida - poi ritirate - atte a non urtare la suscettibilità di chi non è cristiano, e che di fatto abolivano l'espressione «Buon Natale»), si tende all'esclusione dei dissidenti. Un gulag alla rovescia, a voler enfaticamente esagerare. Quello per cui poi si prova un sempre maggiore fastidio è l'esibizionismo di ritorno di persone che ti sbattono in faccia il loro status (compresi i maschi alfa, che ci tengono a farti sapere di essersi accoppiati con centinaia di donne, riducendole a tacche da segnare sul calcio del fucile: «almeno 700», evocando una datata autocertificazione contabile di Antonio Cassano, che però sportivamente aggiungeva: «Ma ai tempi chi cuccava più di tutti era Francesco Totti», alè), senza che tu abbia avvertito alcuna necessità di avere lumi al riguardo. Vedi da ultimo l'attrice Eliana Miglio, che, segnala il sito Dagospia, «sorprende con un libro autobiografico sul proprio disordine erotico, tra fluidità dei sensi e ambivalenza dei desideri», e vai con il coming out tendenza lesbo senza margini per l'immaginazione: «Mi tuffo dentro di lei, la sento ansimare sotto di me, vorrei fare l'amore facendole un po' male». Il dibattito e la critica è consentito solo tra simili, e tanti saluti alla crescita garantita dalla dialettica degli opposti, tesi-antitesi-sintesi. Gay che si confrontano con gay, donne con donne, neri con neri, perché tu bianco, tu maschio, tu etero, tu insomma «diverso» ma da sempre «privilegiato», che ne puoi sapere? Sicché, l'altra sera quel marpione di Maurizio Costanzo ha apparecchiato una puntata del suo show con un duello tra un reduce del Grande Fratello, Tommaso Zorzi, e il mai allineato Maurizio Coruzzi in arte Platinette, con il primo a riecheggiare la cultura del piagnisteo, «Noi (gay) per anni siamo stati vittime di un sistema eterocentrico», e il secondo a rintuzzare facendo ondeggiare il parruccone: «Ma se la televisione è piena di f**ci! Quale visione eterocentrica! Basta con questo vittimismo! Siamo ovunque!».Per chiudere: pensatela come più vi garba, ma non rubateci i nostri usi e consuetudini. La banale visione del mondo delle anime semplici: gli uomini, le donne, Babbo Natale e la Befana, il mistero del sesso e della vita. Soprattutto per i nostri figli, che avranno, si spera, tutto il tempo per scoprire che quell'anziano con la barba bianca, che dispensa doni viaggiando su una slitta trainata da renne, è una leggenda. Che quello tra il papà e la mamma, o - se preferite - tra un maschio e una femmina, non è l'unica forma di amore, fisico e spirituale, che esiste. E che i bambini non li portano le cicogne. Ma neppure una provetta. 

Francesco Moscatelli per "La Stampa" il 3 dicembre 2021. Tutù di aghi di pino con lucine, canottiera rossa (con peli delle ascelle bianchi in pendant con la barba), scaldapolpacci in pelo di simil-renna, occhi chiusi vagamente sognanti e mani alzate sopra la testa che stringono un cuore rosso. Basta inserire un euro e partono a rotazione cinque versioni di Jingle Bells - metal, honky tonk, disco anni '80, techno e carillon - mentre il pupazzone di poliuretano alto tre metri ruota su se stesso per un minuto e mezzo. Che non ci siano più i babbi natali di una volta è cosa nota. Anzi, a essere pignoli, la questione stessa dell'esistenza di un Babbo Natale autentico è ontologicamente controversa fin dai tempi in cui la Coca Cola dipinse di rosso l'abito del bisnipote di San Nicola. Il Babbo Ballerino installato in piazza XX Settembre a Modena, però, a due passi dallo storico mercato coperto Albinelli, ha fatto fare un salto ulteriore alle mai sopite polemiche fra progressisti e conservatori. Quella che poteva risolversi in una legittima e genuina disputa estetica, sul modello della discussione andata in scena ieri pomeriggio in piazza fra i titolari della polleria Vaccari - «È un po' imbarazzante vederlo così» - e il neo-ingegnere ambientale Luca Carini, intento a scattarsi un selfie instagrammabile insieme agli amici con la corona d'alloro ancora in testa, sta diventando materia di polemica politica. A lanciare il sasso è stato il senatore di Forza Italia Enrico Aimi: «È un'icona arcobaleno, per adulti ideologizzati, mezzo babbo e mezza babba. Qui non si smette mai di fare politica, nemmeno di fronte ai bambini che meriterebbero solo di essere lasciati in santa pace, in preparazione all'evento più bello e sacro dell'anno». «Viste le sue recenti battaglie e l'odio per le nostre tradizioni forse la sinistra ha trovato finalmente il suo simbolo natalizio, un bel Babbo Natale in calzamaglia», ha rincarato la dose Ferdinando Pulitanò, presidente provinciale di Fdi. C'è chi ha fatto spallucce, ricordando che il centrodestra a Modena si è sempre aggrappato a qualunque cosa pur di sfidare il monopolio del centrosinistra (che governa ininterrottamente il Comune dal 1946 e in anni recenti è andato al ballottaggio solo nel 2014, e contro i Cinque Stelle), e chi l'ha presa quasi sul personale. Maria Carafoli, responsabile della società di promozione territoriale Modenamoremio, madrina dell'iniziativa, si presenta in piazza con il dépliant che illustra le altre manifestazioni previste durante le feste: «L'idea era solo quella di donare un po' di divertimento e serenità ai bambini. E comunque non vengano a spiegare a me cosa sono le tradizioni» dice, mostrando sullo smartphone una foto scattata mentre dona un presepe a papa Francesco. Lorenzo Lunati, lo scenografo che ha realizzato l'opera insieme alla moglie, si aggira fra le telecamere dei programmi del pomeriggio con l'aria spaesata. Non si capacita che dopo il Babbo Natale capottato con renne e slitta del 2018, quello che sbucava dal centro della terra del 2019 - «La gente pensava avessi davvero rotto la pavimentazione» - oggi debba difendere pure quello in tutù. «Volevo dare un segno di leggerezza in questi mesi che si preannunciano ancora difficili - racconta -. Mi sono ispirato a mia figlia la prima volta che ha messo le punte e ha iniziato a volteggiare per casa. Sognava quel momento e per lei è stata una gioia incredibile». Il sindaco Gian Carlo Muzzarelli, esponente di primo piano del Pd emiliano e grande organizzatore di eventi (c'era lui dietro il concerto-evento di Vasco Rossi del 2017), non trattiene un sorriso prima di entrare in consiglio comunale: «L'unica cosa che mi auguro per questo Natale sono vaccini, tempo da trascorrere con i propri cari e la possibilità di godersi il nostro bellissimo centro storico. Natale è vita, non divisione. Non educhiamo i ragazzi a cercare il male dove non c'è». Nella città del Festival della Filosofia, però, c'è anche chi prende lo spunto per una riflessione amara. «Nell'incapacità di fare politica di oggi - ragiona Carlo Galli, ordinario di Storia delle dottrine politiche a Bologna, modenese doc - si fanno grandi discorsi su temi che una volta avremmo definito sovrastrutturali. Siamo in mezzo a una pandemia, con la disoccupazione giovanile al 30% e una crisi economica all'orizzonte: è un errore punzecchiarsi su questi diversivi». Davanti al Babbo Ballerino, intanto, la gente continua a fermarsi. Sono stati già raccolti 500 euro che, come spiega un cartello, verranno devoluti all'Ail di Modena-sezione Luciano Pavarotti. «L'importante è che porti gente - ammette con grande realpolitik Giuseppe Pierro, che gestisce la tigelleria Sosta Emiliana, affacciata proprio sulla piazza -. Per quanto mi riguarda potrebbe essere anche nudo». 

E adesso anche Google "censura" il Natale. Domenico Ferrara il 6 Dicembre 2021 su Il Giornale. Addobbato il doodle del motore di ricerca. Ma con la voce "festività stagionali 2021". Sapevate che dal 3 dicembre scorso sono iniziate le festività stagionali? Nemmeno noi. Eppure secondo Google sì. E a giudicare dalle palline colorate che animano il Doodle del motore di ricerca dovremmo pure esserne felici. Questa volta l'azienda di Mountain View ha dato il meglio di sé: si potrebbe dire che abbia fatto un upgrade coniando una nuova denominazione per non pronunciare o per non scrivere la pericolosissima parola «Natale». Insomma, ci risiamo: al politicamente corretto non c'è mai fine. Se incontrate qualcuno in questi giorni, augurategli dunque «Buone festività stagionali 2021». Se poi vi prende per scemo o vi chiede spiegazioni ditegli pure che è una questione di inclusività, di rispetto verso le altre religioni e che l'ha detto zio Google. D'altronde, non è la prima volta che il colosso del web intraprende la strada dell'oscuramento della nascita di Cristo. Da quando è nata, Google non risulta che abbia mai dedicato un Doodle al Natale (ne ha creati oltre 4mila). O meglio: magari lo ha fatto ma quasi di nascosto senza mai scrivere la parola dannata. Basti pensare, per fare giusto un esempio, che il 25 dicembre 2017 ha scelto il semplice augurio di «Buone Feste». All'epoca eravamo ancora alla formula asettica e non si erano raggiunti i livelli di oggi con una frase che sembra più un geroglifico, una delle peggiori formule burocratiche o un astruso testo di un manuale di istruzioni scritto male. D'altronde, si sa, la multinazionale ha sempre messo in pratica un laicismo imperante privilegiando quella che oggi si definisce cancel culture in nome di una parvenza di inclusività e di rispetto ecumenico. Uno specchietto per le allodole che rischia di celare un appiattimento per non dire altro di tutte le identità con l'effetto boomerang di escluderle tutte. Ma non sia mai che si turbi qualche non cristiano che naviga in rete. E quest'anno, con la dicitura «Festività stagionali», Google non dovrebbe correre questo pericolo. Semmai, potrebbe accadere che chi legge questa strana frase pensi che abbiano inserito qualche nuovo numero rosso nel calendario o che venga celebrata la festa dei lavoratori del turismo o dei braccianti agricoli, i cosiddetti stagionali appunto. Il Doodle arriva a pochi giorni dalla polemica, raccontata in esclusiva dal Giornale, sulle linee guida della Commissione Europea per una «comunicazione inclusiva» da impartire ai suoi membri. Linee guida che prevedevano, tra le altre cose, di non utilizzare la parola «Natale» e i «nomi cristiani di Maria e Giuseppe». Per fortuna, dopo il vespaio sollevatosi, Bruxelles ha fatto retromarcia porgendo le sue scuse. Google invece scommettiamo che tirerà dritta per la sua strada. Eppure, il sospetto che il colosso di Mountain View si sia ispirato alla Ue è presente così come potrebbe anche darsi che abbia voluto privilegiare la linea statunitense dove da tempo al posto di Merry Christmas si è fatta largo l'espressione Season's Greetings, che per gli americani significa «Saluti della stagione», una formula neutra che fa accapponare la pelle. Con tanti saluti al Natale. Anzi, scusate, alle «festività stagionali».

Domenico Ferrara. Palermitano fiero, romano per cinque anni, milanese per scelta. Sono nato nel capoluogo siciliano il 9 gennaio del 1984. Amo la Spagna, in particolare Madrid. Sono stato un mancato tennista, un mancato giocatore di biliardo, un mancato calciatore, o forse preferisco pensarlo...Dal 2015 sono viceresponsabile del sito de il Giornale e responsabile dei collaboratori esterni. Ho scritto "Il metodo Salvini", edito da Sperling & Kupfer e "La donna s'è destra. L'altra storia della cultura e della politica femminile italiana", edito da Giubilei Regnani. Per la collana Fuori dal coro del Giornale ho pubblicato: "Gli estremisti delle nostre vite"; "La sinistra dei fratelli coltelli" e "Tutte le boldrinate dalla A alla Z". Mi esaltano la genialità di Saramago, l'essenzialità di Hemingway e la bellezza di Dostoevskij, consapevole però di non capirli fino in fondo. Ho una sola passione vera: il Palermo. Non so resistere alle tentazioni culinarie sicule né a quella di tornare in Sicilia dalla "famigghia".

Retromarcia Ue sulla censura. Salvi "Maria" e "Buon Natale". È la vittoria dei moderati. Francesco Giubilei l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. Almeno per quest'anno il Natale è salvo. Possono tirare un sospiro di sollievo i migliaia di cittadini europei che si sono indignati di fronte alle "linee guida per una comunicazione inclusiva". Almeno per quest'anno il Natale è salvo. Possono tirare un sospiro di sollievo i migliaia di cittadini europei che si sono indignati di fronte alle «linee guida per una comunicazione inclusiva» redatte dalla Commissione europea e scoperte da Il Giornale con uno scoop che ha fatto il giro dell'Europa. La storia è ormai nota: in un documento nato per circolazione interna alla Commissione, si invitava a non utilizzare la parola Natale o i nomi Maria e Giovanni perché di origine cristiana per non offendere le minoranze, a non iniziare una conferenza con la consueta formula «signori e signore» fino a non usare la frase «colonizzare Marte» ma «inviare umani su Marte» vista la connotazione negativa della parola colonizzazione. Un vero e proprio vademecum del politicamente corretto infarcito con una serie di raccomandazioni paradossali (quando non ridicole) ma purtroppo per noi estremamente serie provenendo da una delle principali istituzioni europee. Ieri la commissione è stata costretta a fare marcia indietro dopo la pressione mediatica e politica e lo sdegno di tanti cittadini. La commissaria europea alla Parità Helena Dalli ha spiegato: «La mia iniziativa di elaborare linee guida come documento interno per la comunicazione da parte del personale della Commissione nelle sue funzioni aveva lo scopo di raggiungere un obiettivo importante: illustrare la diversità della cultura europea e mostrare la natura inclusiva della Commissione europea verso tutti i ceti sociali e le credenze dei cittadini europei» aggiungendo: «Tuttavia, la versione delle linee guida pubblicata non serve adeguatamente questo scopo. Non è un documento maturo e non soddisfa tutti gli standard di qualità della Commissione. Le linee guida richiedono chiaramente più lavoro. Ritiro quindi le linee guida e lavorerò ulteriormente su questo documento». Una decisione che ha suscitato il plauso dei leader e dei partiti di centrodestra. Antonio Tajani ha affermato: «Grazie anche all'azione di Forza Italia, la Commissione europea ritira le linee guida sul linguaggio inclusivo che chiedevano di togliere riferimenti a feste e a nomi cristiani. Viva il Natale. Viva l'Europa del buonsenso». Il leader della Lega Matteo Salvini parla invece di una vittoria: «Grazie alle migliaia di persone che hanno reagito e hanno portato al ritiro di questa porcheria. Continueremo a vigilare, grazie! Viva il Santo Natale» mentre gli europarlamentari Zanni e Camponesi (presidente gruppo ID e capo delegazione Lega) esprimono soddisfazione annunciando la necessità di mantenere «alta l'attenzione su ogni tentativo di eliminare e sostituire i nostri simboli, la nostra cultura, i nostri valori, nel nome del pensiero unico del politicamente corretto e della cancel culture». Parole di soddisfazione anche da parte di Giorgia Meloni: «La Commissione europea batte in ritirata e stralcia il documento interno che prevedeva l'eliminazione della parola 'Natale perché considerata poco inclusiva. Abbiamo fermato la vulgata del politicamente corretto. Occorre continuare a battersi per un'Europa che sia orgogliosa delle proprie radici e della propria identità e che non solo eviti di cancellarle ma che sia in grado di celebrarle e ricordarle». «Bene così. Si trattava di un documento assurdo e sbagliato. Una comunità non ha paura delle proprie radici. E l'identità culturale è un valore, non una minaccia» scrive Renzi su Twitter. Anche l'eurodeputata Patrizia Toia del gruppo dei Socialisti e democratici, si domanda: «La Commissione ritiene che vi sia rispetto del pluralismo e si negano le parole che ricordano l'identità e storia di uno dei patrimoni religiosi che ha fondato, con altri, il bagaglio culturale e ideale dell'Europa?». Per concludere: «Quel testo divide, non include».

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la

Le radici del crollo nel "No" a Wojtyla. Gli ultrà europei torneranno alla carica. Gian Micalessin l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. Da 20 anni l'apparato burocratico di un'Unione neo positivista cerca di decristianizzare il continente. Il dietrofront è solo tattica. Per individuare la «linea d'ombra» di un'Europa pronta a cancellare il Natale e i valori cristiani bisogna tornare a quella Convenzione Europea - guidata dall'ex- presidente francese Valery Giscard d'Estaing - che tra il 2001 e il 2003 tentò di stillare i principi di una Costituzione Europea. In quell'inconcludente biennio l'Unione voltò definitivamente le spalle all'«Europa delle cattedrali», la visione con cui Robert Schuman, e altri padri nobili del pensiero unitario, evocavano una comune civiltà cristiana. Una visione definitivamente smantellata nell'ultimo ventennio per compiacere l'apparato burocratico di un'Unione de-cristianizzata e piegata al neo-positivismo anti-cristiano. In tutto questo un ruolo fondamentale lo giocò Giscard d'Estaing, l'ex-presidente francese sotto il cui mandato passarono - oltre alle leggi su divorzio e aborto - anche quei provvedimenti sul ricongiungimento familiare all'origine del grande fenomeno migratorio d'Oltralpe. Un'opera di revisione valoriale e sociale continuata all'interno della Convenzione Europea. Quell'opera, come rivelato nel 2015 dall'arcivescovo Monsignor Rino Fisichella, toccò lil suo «nadir» quando il Presidente della Convenzione rifiutò una lettera indirizzatagli da Papa Giovanni Paolo II e affidata a un politico italiano. «É bene che la tenga in tasca e non me la consegni - sbotto d'Estaing consapevole di come la lettera contenesse un' esortazione del Pontefice ad inserire un riferimento alle radici giudaico-cristiane dell'Unione. Quel «gran rifiuto» era il simbolo di un'intolleranza neo-laicista che rifiutava non solo di comprendere, ma persino di misurarsi con le ragioni del Cristianesimo. Quel diniego ha aperto la botola del precipizio che in 20 anni ha trasformato Bruxelles e palazzo Berlaymont in un laboratorio del politicamente corretto. Un laboratorio in cui mancando riferimenti a identità e valori condivisi hanno fatto breccia le prassi esposte dalla Commissaria all'Uguaglianza Helena Dalli nel suo triste e grigio abbecedario della neo-lingua. Ma non illudiamoci, il ritiro del documento, annunciato ieri, è semplice tatticismo indispensabile per sopire il fragore provocato dalla pubblicazione su Il Giornale di quel manifesto della sottomissione. «Sono vent'anni che Bruxelles sforna documenti con quei contenuti - spiega a Il Giornale l'ex- ministro della Difesa Mario Mauro ricordando i 14 anni passati in un Parlamento Europeo di cui è stato vice presidente. «Non lasciamoci ingannare il politicamente corretto - continua Mauro - non è un innocuo galateo, ma l'ideologia e lo strumento di una sinistra transitata dal desueto linguaggio della lotta di classe alla teoria dei nuovi diritti. Nella Genesi l'uomo s'appropria della realtà quando Dio ordina di dare un nome alle cose. Un principio applicato da tutte le rivoluzioni e sancito per la prima volta dal Pcus sovietico che definì «politicamente corretto» ogni atto in linea con i suoi dettami. Un secolo dopo il politicamente corretto è lo strumento usato della sinistra radicale americana e da quella europea per cambiare la realtà. Non a caso la «cancel culture» prevede di cambiare il corso della storia e trasformare i vinti in vincitori attraverso operazioni semantiche». Una maestrina di queste operazioni è, senza dubbio, la signora Dalli. Una Commissaria solerte nel raccomandare l'oblio del Natale nel nome dell'inclusione, ma altrettanto sollecita, il 23 aprile scorso, nell'indirizzare un tweet di buon Ramadan a tutti i musulmani d'Europa. Che tanto i cristiani da quest'Europa si possono pure escludere. 

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.

C'è una speranza contro chi taglia radici. Luigi Mascheroni l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. La Commissione europea ha ritirato il decalogo che vuole dettare le parole corrette, eliminare riferimenti alla religione e al genere, fare sparire persino il semplice "Signore e signori". La Commissione europea ha ritirato il decalogo che vuole dettare le parole corrette, eliminare riferimenti alla religione e al genere, fare sparire persino il semplice «Signore e signori». I burocrati della lingua, che la Storia ha insegnato essere i più pericolosi, hanno accettato di fare un passo indietro. Riscriveranno un documento ambiguo che pretendendo di garantire «il diritto di ogni persona ad essere trattata in maniera uguale» finisce per negare la possibilità di ognuno a manifestare la propria diversità. Quando l'ossessione per l'inclusione si trasforma in una miope cancellazione. Una battaglia è vinta, ma la guerra è ancora lunga. Dobbiamo saperlo. Non sarà facile preservare le tradizioni, poter dire «padre» e «madre» al posto di «genitore 1» e «genitore 2», salvaguardare il Natale o continuare a scrivere senza asterischi. Visti i tempi, la tutela delle supposte minoranze potrebbe alla fine travolgere la maggioranza. Dio non voglia. Ammesso che si possa usare la parola «Dio». L'onda lunga del «parlare corretto», l'incubo della discriminazione e la volontà di uniformare gusti e tendenze sono fenomeni violenti che si alimentano di fanatismo e stupidità, che oggi abbondano. Per fortuna però gli europei (che non sono esattamente i «cittadini della Comunità europea») hanno un vantaggio rispetto al mondo anglosassone, Stati Uniti in primis, dove il combinato disposto politically correct, cancel culture, ideologia Woke e #MeToo ha scatenato una crociata di cui non si riesce a vedere la fine. Noi europei, e noi italiani in particolare, siamo più cauti e disincantati. Mediamente i nostri conservatori sono meno rigidi dei repubblicani e i progressisti meno intolleranti dei liberal. È probabile che proprio la millenaria tradizione giudaico-cristiana alla fine ci salvi dai peggiori estremismi. Educati a rispettare le giuste differenze, eviteremo di distruggere la persona in nome dell'Ideologia. La speranza, come sempre, sono i giovani. E la paura semmai è che proprio i ragazzi, intesi come ragazzi e ragazze, siano invece i più deboli di fronte a quanti, volendo includere a tutti i costi, finiscono col generare le peggiori discriminazioni. La chiamano «generazione snowflake», «fiocco di neve», e sono i giovani, nati fra gli anni '90 e i Duemila, troppo fragili e sensibili davanti alle durezze del mondo per accettare critiche e difendere valori, principi e radici. Così spaventati di offendere qualcuno, che non parlano più di niente. Non leggono i libri scorretti, non vedono i film scandalosi, non guardano i quadri spudorati. Così rischiano di sciogliersi nel peggiore dei mondi omologati. No ragazzi: non siate neutrali. Non è il momento.

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021). 

Un enigma d'amore chiamato Gesù. Eugenio Scalfari su La Repubblica il 30 novembre 2021. Il fondatore di "Repubblica" parte dal mistero dell’uomo venuto da Nazareth per ricordarci la necessità di avere cura della Terra

L'ascolto è riservato agli abbonati. Negli ultimi tempi mi è capitato (non credo soltanto a me) di ragionare di Gesù di Nazareth: il fascino che questa figura ancora esercita è fortissimo. Così come potenti sono il mistero e gli interrogativi che la sua vita, la sua morte e la successiva nascita della Chiesa pongono. Una serie di riflessioni che torno ad affrontare adesso, mentre riguardo il mio libro Il Dio unico e la società moderna.

Non solo Natale. Federica Bianchi su L'Espresso l'1 dicembre 2021. La Commissione propone (e poi ritira) delle linee guida per un linguaggio istituzionale più inclusivo. Che tenga conto delle sensibilità della nuova società europea. In cui l’Italia fa ancora fatica a riconoscersi. Alla fine, con un gesto tra il prudenziale e il pavido, la Commissione europea ha ritirato le linee guida sviluppate per la comunicazione istituzionale dei suoi funzionari. Si trattava per la verità di pagine a uso interno che qualcuno strumentalmente ha deciso di fare trapelare in prossimità delle festività. E difatti in Italia, e tra tutti i 27 Paesi europei, solo in Italia, è scoppiata la polemica. Che nei giorni scorsi è finita sulle prime pagine di tutti i giornali. Ma perché tanto clamore? Nelle linee guida per una comunicazione europea che rispecchi la composizione sociale, i credi religiosi e gli orientamenti sessuali di tutti i cittadini dell'Unione di oggi - e non quella del secolo scorso - la Commissione europea, tra tantissimi consigli ai suoi burocrati, aveva tra le varie cose suggerito di non dire automaticamente nelle comunicazioni istituzionali Buon Natale ma Buone Feste. Il termine "feste" comprende tutte le festività religiose di questo periodo (Hannuka, Natale e Ramadan) e, soprattutto, rende contenti tutti, cattolici, cattolici ortodossi, ebrei e musulmani, perché in quella parola generica ognuno può ritrovare l'augurio per la celebrazione del suo credo, senza nulla togliere agli altri. Lo scandalo è scattato anche a proposito del suggerimento di utilizzare negli esempi ipotetici fatti per illustrare una situazione non solo nomi della Vecchia Europa come Maria e John ma anche quelli in uso nell'Europa orientale, come Malika, o nomi dei nuovi europei, come Mohammed. Negli Stati Uniti, dove la realtà di una società composita e variegata esiste da oltre un secolo, saranno almeno 20 anni che l'augurio di Buon Natale è stato sostituito con quello di Buone feste. Ormai non ci fa caso più nessuno. E se a quel tempo l'Italia non aveva ancora fatto i conti con la sua trasformazione in una società multiculturale e multietnica, ormai siamo consapevoli di non essere più una società omogenea. Non più soltanto bianchi, cattolici, maschilisti. Il linguaggio deve cambiare per includerci tutti. E lo deve fare non per buonismo o perché "fa progressista" ma perché se il linguaggio non cambia, e da rappresentativo finisce per diventare escludente, sarà difficile costruire una nuova società coesa di cui abbiamo molto bisogno. Si rischiano conflitti e frammentazioni che solo chi trae vantaggio dal caos può auspicare. Sul Natale noi italiani siamo particolarmente sensibili. È la nostra festa annuale per eccellenza. Quella che, lo sappiamo fin da piccoli, credenti o meno, ci ricorda le nostre radici europee, la festività che ci caratterizza rispetto al resto del mondo, che magari la festeggia anche, almeno per il coté godereccio, ma che non dimentica di averla importata dalla culla del cristianesimo, dall'Europa. E dunque il Natale per noi, che il Vaticano lo abbiamo in casa, non è solo una festività religiosa ma soprattutto un simbolo identitario. Ci dice chi siamo, da dove veniamo. In un mondo in rapida trasformazione è la nostra certezza. Censurare la parola Natale, anche se solo in una comunicazione istituzionale, nell'immaginario collettivo equivale a censurare noi stessi. Discorso simile vale per i nomi propri, ovviamente. E non è un caso che l'esempio criticato, Maria, sia il nome della Madonna, ampiamente diffuso. Ma la realtà, che ancora in Italia facciamo fatica a sentire nostra, è che l'identità dell'Europa moderna non è più legata alle sue radici cristiane. Quelle non le eradicherà nessuno per definizione perché sono ancorate nel passato. Ma non sono più indispensabili per considerarci europei. Per renderci europei. La nostra Unione oggi è fondata su un costrutto giuridico-legale unico: lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani. L'Europa, in un mondo sempre più dominato dai regimi autoritari, si differenzia con il suo abbraccio della democrazia e dei diritti, con le sue libertà commerciali, sociali, religiose, di movimento. Essere europeo vuol dire avere la certezza di vedere tutelata la propria libertà con l'unica limitazione del rispetto di quella altrui e del collettivo sociale, che è poi il grande lascito dell'insegnamento cattolico. Tutti i fili spinati del mondo non ci proteggeranno dalla realtà che il 1900 è finito. Che la nostra società è colorata. Ma ieri come oggi non ci sarà coesione, che è poi la forza di qualsiasi democrazia, senza la consapevolezza che la sensibilità dell'uno finisce lì dove inizia quella dell'altro. Ed è per questo che anziché battere velocemente in ritirata, per paura di scatenare un ennesimo polverone ancora una volta legato alla questione “immigrazione”, la Commissione avrebbe fatto meglio a cogliere l’occasione per spiegare il senso delle sue linee guida e ad affermare senza pudore il legame tra cultura, educazione e linguaggio. 

Se la sinistra abbandona il Natale alla destra. Francesco Merlo su La Repubblica il 30 novembre 2021. Perché il documento della Ue, subito ritirato, sulla festa cristiana politicamente corretta, è un’altra occasione mancata per i laici. Forse perché quasi tutti i suoi leader, a partire dai germanici Enrico e Goffredo, non hanno nomi ebreo-cristiani, la sinistra italiana si è concessa la miseria politica di regalare alla destra di Salvini e Meloni, ai loro sberleffi e alla loro esibita devozione non solo la difesa del Natale ma addirittura la difesa dell'onomastica ebreo-cristiana, a scorno di tutti i Maria, Giovanni, Luca, Giuseppe e ovviamente pure Matteo (tié).

Francesco Merlo per “la Repubblica”l'1 dicembre 2021. Forse perché quasi tutti i suoi leader, a partire dai germanici Enrico e Goffredo, non hanno nomi ebreo-cristiani, la sinistra italiana si è concessa la miseria politica di regalare alla destra di Salvini e Meloni, ai loro sberleffi e alla loro esibita devozione non solo la difesa del Natale ma addirittura la difesa dell'onomastica ebreo-cristiana, a scorno di tutti i Maria, Giovanni, Luca, Giuseppe e ovviamente pure Matteo (tié). (...) Ed eccoci tornati all'inizio e alla sinistra che non si è sentita offesa neppure per l'inclusiva esclusione di Mattarella, che porta il nome di Sergio di Radone, patrono di Russia, il santo più amato dai cristiani ortodossi. E allora - scherzi a parte, si dice - persino l'Iran, che è la teocrazia forse più intollerante, festeggia una tradizione preislamica che nessun ayatollah ha avuto mai il coraggio di proibire, il Capodanno zoroastriano (lo stesso Zarathustra che in Nietzsche diventa metafora). Ecco, forse stiamo pian piano creando, nel cuore dell'Europa, gli ayatollah del politicamente corretto se è vero che a Natale, in Italia, in sintonia con la presidente Dilla ogni anno c'è chi veste i pastorelli con la kefiah, chi sostituisce la recita di Betlemme con quella di Cappuccetto Rosso, chi vuole la Madonna con il chador, chi vieta Tu scendi dalle stelle. Si scatena, purtroppo a sinistra, il gioco infantile dell'etnologo dilettante, del siamo tutti Lévi-Strauss, del falso rispetto, della festa religiosa scaricata come il peso di un facchino o la soma di un somaro, con l'idea arrendevole che per onorare le altrui identità bisogna perdere di vista o rinunciare alla propria. Non è questo il relativismo. Ma i laici, che non sono orfani di assoluto, di assolutezze e di assolutismi, dovrebbero irridere e smontare lo sbracato politicamente corretto: il black tree in omaggio al black people, il Gesù nero, la colomba nera della pace, arlecchinate come un'ostia di pane nero. Ecco perché è un peccato mortale lasciare a Salvini e Meloni la difesa del Natale e dell'onomastica ebreo-cristiana, non certo perché davvero quasi tutti i leader a sinistra non hanno nomi cristiani, non solo Letta e Bettini: D'Alema è latino, Bersani è un composto latino-francone, Vendola e Fratoianni sono greci, Boldrini è latina. I solo cristiani ('mazza) sono Conte e Grillo, due Giuseppe. E se fosse per questo che non siamo messi tanto bene? 

Da repubblica.it il 29 novembre 2021. "Ogni persona in Ue ha il diritto di essere trattato in maniera eguale" senza riferimenti di "genere, etnia, razza, religione, disabilità e orientamento sessuale". Così - scrive Bruxelles nelle sue nuove linee guida - devono sparire "Miss o Mrs" (signorine e signore) sostituite da un più generico "Ms". E anche le festività non dovranno più essere riferite a connotazioni religiose, come il Natale, ma citate in maniera generica: si dovrà dire, ad esempio, le "festività sono stressanti" e non più "il Natale è stressante", si legge nel documento per una "corretta comunicazione" fornita dalla Commissione dal titolo "Union of Equality". Le linee guida contengono diversi capitoli in cui il trattamento egualitario della persona, secondo l'esecutivo Ue, va preso in considerazione. Nel decalogo della Commissione ci sono alcune raccomandazioni da usare sempre: "Non usare nomi o pronomi che siano legati al genere del soggetto; mantenere un equilibrio tra generi nell'organizzazione di ogni panel; se si utilizza un contenuto audiovisivo o testimonianze, assicurarsi la diversità sia rappresentata in ogni suo aspetto; non rivolgersi alla platea con le parole 'ladies' o 'gentleman' ma utilizzare un generico 'dear colleagues'; quando si parla di transessuali identificarli secondo la loro indicazione; non usare la parola 'elderly' (gli anziani) ma 'older people' (la popolazione più adulta, ndr); parlare di persone con disabilità con riferimento prioritario alla persona (ad esempio al posto di 'Mario Rossi è disabile' va utilizzato 'Mario Rossi ha una disabilità')". Nelle linee guida ci sono anche riferimenti ad una "corretta" comunicazione in merito alle religioni. Ad esempio nel testo si consiglia, in qualsiasi contenuto comunicativo, di "non usare nomi propri tipici di una specifica religione". In merito alle festività la commissione chiede di "evitare di dare per scontato che tutti siano cristiani". Con tanto di esempi: al posto di dire o scrivere "Natale è stressante" l'esecutivo europeo invita ad utilizzare le parole: 'Le festività sono stressanti'". Immediata la reazione del centrodestra italiano. Antonio Tajani e Forza Italia, in un'interrogazione scritta alla Commissione Ue, chiedono che il riferimento al Natale nelle linee guida venga modificato, "nel rispetto delle radici cristiane dell'Unione europea". E la Lega attacca: "Dietro una comunicazione formalmente anti-discriminatoria e neutrale, si nasconde la violenza del pensiero unico, che l'Ue ha ormai sposato appieno. La volontà sempre quella di riscrivere l'idea di società, di famiglia, di natura, di vita. La tecnica è ormai nota: si cambiano le parole, si rovesciano i significati, si introduce una neo-lingua che cambia il modo di pensare dei cittadini. Siamo orgogliosi dei nostri valori e delle nostre tradizioni. Non ci faremo uniformare dall'Ue. Mi sono già attivata per presentare un'interrogazione alla Commissione Europea, perché quando si perde la battaglia delle parole, si perde la battaglia delle idee". Lo dichiara Simona Baldassarre, europarlamentare e responsabile del Dipartimento Famiglia della Lega.

In Europa vietato dire "Natale" e perfino chiamarsi Maria. Francesco Giubilei il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. Il documento interno della Commissione: no all'uso di "Miss o Msr", basta riferimenti religiosi e nomi cristiani. Se ce lo avessero raccontato e non lo avessimo letto nero su bianco in una comunicazione ufficiale della Commissione europea, non ci avremmo creduto perché i contenuti delle nuove linee guida per una «comunicazione inclusiva» hanno dell'incredibile. In un documento per circolazione interna di cui Il Giornale è entrato in possesso in esclusiva intitolato #UnionOfEquality. European Commission Guidelines for Inclusive Communication, vengono indicati i criteri da adottare per i dipendenti della Commissione nella comunicazione esterna ed interna. Come scrive nella premessa il Commissario per l'uguaglianza Helena Dalli «dobbiamo sempre offrire una comunicazione inclusiva, garantendo così che tutti siano apprezzati e riconosciuti in tutto il nostro materiale indipendentemente dal sesso, razza o origine etnica, religione o credo, disabilità, età o orientamento sessuale». Per farlo la Commissione europea indica una serie di regole che non solo cancellano convenzioni e parole usate da sempre ma contraddicono il buon senso. Vietato utilizzare nomi di genere come «operai o poliziotti» o usare il pronome maschile come pronome predefinito, vietato organizzare discussioni con un solo genere rappresentato (solo uomini o solo donne) e ancora, vietato utilizzare «Miss o Mrs» a meno che non sia il destinatario della comunicazione a esplicitarlo. Ma non è finita: non si può iniziare una conferenza rivolgendosi al pubblico con la consueta espressione «Signori e signore» ma occorre utilizzare la formula neutra «cari colleghi». Il documento si sofferma su ambiti specifici come il «gender», «Lgbtiq», i temi «razziali ed etnici» o le «culture, stili di vita e credenze» con una tabella che indica cosa si può o meno fare basata sulla pretesa di regolamentare tutto creando una nuova lingua che non ammette la spontaneità: «Fai attenzione a non menzionare sempre prima lo stesso sesso nell'ordine delle parole, o a rivolgerti a uomini e donne in modo diverso (ad esempio un uomo per cognome, una donna per nome)»; e ancora «quando scegli le immagini per accompagnare la tua comunicazione, assicurarsi che le donne e le ragazze non siano rappresentate in ambito domestico o in ruoli passivi mentre gli uomini sono attivi e avventurosi». Una volontà di cancellazione del genere maschile e femminile che raggiunge livelli paradossali quando la Commissione scrive che bisogna evitare di usare espressioni come «il fuoco è la più grande invenzione dell'uomo» ma è giusto dire «il fuoco è la più grande invenzione dell'umanità». È evidente che dietro la ridefinizione del linguaggio si celi la volontà di cambiare la società europea, le nostre usanze e tradizioni come emerge dal capitolo dedicato alle «culture, stili di vita o credenze». La Commissione europea ci tiene a sottolineare di «evitare di considerare che chiunque sia cristiano» perciò «non tutti celebrano le vacanze natalizie (...) bisogna essere sensibili al fatto che le persone abbiano differenti tradizioni religiose». C'è però un'enorme differenza tra il rispetto di tutte le religioni e vergognarsi o cancellare le radici cristiane che sono alla base dell'Europa e della nostra identità. In nome dell'inclusività la Commissione europea arriva a cancellare il Natale invitando a non utilizzare la frase «il periodo natalizio può essere stressante» ma dire «il periodo delle vacanze può essere stressante». Una volontà di eliminare il cristianesimo che si spinge oltre con la raccomandazione di usare nomi generici invece di «nomi cristiani» perciò, invece di «Maria e Giovanni sono una coppia internazionale», bisogna dire «Malika e Giulio sono una coppia internazionale». Fino ad arrivare allo sprezzo del ridicolo che impone di contrastare la connotazione negativa di parole come colonialismo: vietato dire «colonizzazione di Marte» o «insediamento umano su Marte», meglio affermare «inviare umani su Marte». Quando la tragedia lascia lo spazio alla farsa.

Bufera sulla censura Ue. "Cancella la nostra storia". Francesco Giubilei il 29 Novembre 2021 su Il Giornale. Spagna, Polonia e Ungheria contro il documento che "purifica" il linguaggio. Salvini: "Una follia". La scoperta da parte del Giornale di un documento della Commissione europea nato per circolazione interna con le «linee guida per una comunicazione inclusiva» sta facendo discutere a causa delle indicazioni che vietano di utilizzare il termine Natale, i nomi cristiani come Maria e Giovanni, l'espressione «signori e signore» arrivando a divieti paradossali come «colonizzare Marte» (la formula corretta dovrebbe essere «inviare umani su Marte»). Un vero e proprio vademecum del politicamente corretto che ha suscitato reazioni di sdegno da parte del mondo politico italiano. Se la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni ha affermato senza giri di parole: «Ora basta: la nostra storia e la nostra identità non si cancellano», il segretario della Lega Matteo Salvini l'ha definita «una follia» e il vicesegretario federale Lorenzo Fontana ha rincarato la dose: «Quanto avviene in questa Europa dove si impone una deriva antropologica e sociale dei nostri costumi e tradizioni, è un qualcosa di mostruoso. Dobbiamo combattere con tutte le nostre forze, perché questo non accada». Sulla stessa linea Marco Zanni, presidente al Parlamento europeo del gruppo Identity and democracy e il capo delegazione Lega Marco Campomenosi che in una nota congiunta hanno scritto: «È preoccupante che questo modo di ragionare sia fatto proprio dalle istituzioni europee: vorremmo che l'Europa usasse meglio i soldi dei cittadini, per risolvere questioni ben più concrete e urgenti. Non ci renderemo complici: continueremo a difendere i valori giudaico-cristiani dell'Europa e la sacrosanta libertà di espressione dei cittadini». Unanime la condanna anche in seno al gruppo dell'Ecr dove, se Carlo Fidanza ha affermato che «siamo alla follia! Un altro piccolo passo verso il nulla», l'europarlamentare spagnolo Jorge Buxadé, vicepresidente di Vox, non usa giri di parole per condannare il documento: «I barbari sono dentro». Uno sdegno che ha travalicato i confini dell'Italia, dalla Spagna alla Polonia fino all'Ungheria dove Rodrigo Ballester, capo del Centro per gli Studi Europei dell'MCC di Budapest (principale collegio universitario ungherese), ha scritto un tweet per esprimere la sua disapprovazione. Eppure le follie della «comunicazione inclusiva» della Commissione europea non si fermano al Natale e all'abolizione dell'uomo e della donna ma abbracciano a trecentosessanta gradi ogni ambito della società mettendo in discussione principi come l'appartenenza nazionale e la famiglia. Nel documento si mette in guardia dall'offendere «persone apolidi o immigrati» invitando a evitare l'utilizzo del termine «cittadino» perché «non tutti nell'Ue sono cittadini», vietato perciò dire «tutti i cittadini hanno il diritto di essere sicuri». Non poteva infine mancare un attacco alla famiglia con l'invito a non descrivere le persone come sposate o single ed «evitare di legare il concetto di famiglia a uno status legale». Vale il principio che nessuno deve sentirsi offeso tranne i cristiani, chi crede nel valore della famiglia e nel rispetto della propria nazione, verso di loro tutto è concesso, anche cancellare millenni di storia.

Rivolta contro Bruxelles. Così in due anni è nato il bavaglio buonista. Francesco Giubilei il 30 Novembre 2021 su Il Giornale. È bufera sulle "linee guida Ue" del linguaggio inclusivo. Interrogazione di Tajani: lesa la libertà. Chissà cosa direbbero gli artefici dell'idea europea Schuman, De Gasperi e Adenauer se leggessero le linee guida della Commissione europea per una «comunicazione inclusiva» in cui si cancella il riferimento al Natale, ai nomi cristiani come Maria e Giovanni e alla differenza tra uomo e donna. Sembrano passati secoli dalla firma del Trattato di Roma nel 1957 intriso di valori cristiani con cui si posero le basi per la cooperazione europea eppure, confrontando il documento diffuso dalla Commissione con un testo analogo realizzato dal Parlamento europeo nel 2019, le differenze sono notevoli. In soli due anni è avvenuta un'accelerazione senza precedenti per ridefinire il linguaggio e cancellare espressioni, modi di dire e concetti che da sempre hanno fatto parte della nostra storia. Le «linee guida per la comunicazione inclusiva» redatte nel 2019 nascono per «garantire la parità di rappresentanza tra donne e uomini» e una «efficace sensibilizzazione e impegno per mettere le donne e gli uomini sullo stesso piano» poiché «la parità tra donne e uomini è un valore europeo saldamente radicato nei trattati». Nel 2019 si dà per implicita l'esistenza dei sessi uomo e donna e si aggiunge che le linee guida mirano a «riconoscere che gruppi target ampiamente definiti (giovani, dirigenti, ecc...) hanno segmenti diversi al loro interno, per esempio donne, uomini, persone identificate come lgbti, persone con disabilità, persone di diversa origine sociale o etnica, ecc. Pertanto, queste raccomandazioni mirano a riconoscere la piena diversità del pubblico definito e fare sforzi per garantire che nessuno venga respinto». Obiettivo delle linee guida del 2019 è assicurare il bilanciamento dei sessi tra i relatori negli eventi ed evitare di utilizzare espressioni o parole offensive verso i disabili. Si tratta di indicazioni ragionevoli e di buon senso e di tutt'altro tenore rispetto al documento «#UnionofEquality» scoperto da Il Giornale con una volontà di regolamentare e normare ogni discorso definendo quali parole si possono usare e quali no. Non a caso l'europarlamentare e coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani, ha presentato un'interrogazione alla Commissione europea chiedendo se linee guida per la comunicazione inclusiva «rispettino l'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo sul principio della libertà di espressione, che include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche?» aggiungendo: «Nel rispetto del principio di inclusività, quali misure intende adottare per rispettare la sensibilità della maggioranza dei dipendenti della Commissione europea? Intende modificare queste linee guida, nel rispetto delle radici cristiane dell'Unione europea?». Un'interrogazione presentata anche dell'europarlamentare Nicola Procaccini del gruppo Ecr per chiedere spiegazioni sul documento che, più che promuovere una comunicazione inclusiva, sembra voler escludere cristiani e cittadini di buon senso.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 più influenti d’Italia.

Chiara Baldi per "la Stampa" il 29 novembre 2021. A distanza di quattro giorni Martino Mora, professore di ruolo di storia e filosofia al liceo Scientifico Bottoni di Milano, ne è ancora convinto: «Quel vestiario era inaccettabile, totalmente inadeguato al contesto. E avrei avuto la stessa reazione se fossero venuti vestiti da clown o da Babbo Natale». L'abbigliamento «inaccettabile» è quello che tre studenti della terza D hanno indossato lo scorso 25 novembre, in occasione della Giornata Internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne: un abito lungo («che era quello che mi ha dato più fastidio di tutti», dice Mora) e un tutù da ballerina («che ho visto solo dopo perché era seduto al banco»). Un terzo, poi, si era dipinto le unghie di rosso. Un gesto di solidarietà che al professore - che sul suo profilo Facebook esterna spesso con toni non proprio benevoli su donne, omosessuali, chiesa, giornali e vaccini - non è piaciuto. «Per solidarizzare con le donne - commenta - non c'è bisogno di vestirsi da donne. Io - prosegue - a scuola vado in giacca e cravatta non perché voglio fare l'elegantone ma perché considero la scuola un santuario di cultura e educazione che merita un vestiario adeguato. E voglio che gli alunni facciano lo stesso: non siamo al Carnevale di Viareggio». E così, i tre sono stati invitati a uscire dalla classe e, dopo essersi rivolti alla preside Giovanna Mezzatesta, è stato il professor Mora a essere cacciato. «La dottoressa Mezzatesta ha dato un ordine che non poteva dare, quello di allontanarmi da scuola, sono quindi io la parte lesa», rincara la dose l'insegnante. La vicenda però non si è conclusa giovedì ma ha avuto degli strascichi: sabato, infatti, gli studenti di due altre classi - la quarta e la quinta della sezione D - sono usciti dall'aula durante l'ora del professor Mora, in segno di protesta. «Ci siamo rifiutati di seguire la sua lezione per difendere le nostre idee», hanno scritto sul profilo Instagram dell'istituto, raccogliendo quasi 6 mila like. E anche il commento di un altro professore della scuola, Lorenzo Mazzi, che ha proposto una mozione in favore degli studenti e già firmata da buona parte degli altri insegnanti. «I docenti del Bottoni sono orgogliosi del vostro coraggio e del vostro impegno, avete tutto il nostro sostegno!», ha scritto Mazzi sotto al post su Instagram. La dirigente scolastica Mezzatesta, intanto, ha preso in mano la situazione: «Sto redigendo la relazione con i fatti accaduti, che sono due: il fatto che Mora non abbia assolto al compito di vigilanza poiché ha cacciato dalla classe tre alunni e, poi, che si sia rifiutato di fare lezione. Aggiungerò anche le varie schifezze che ha scritto su Facebook contro di me e contro la scuola. E appena sarà pronta la consegnerò all'ufficio scolastico provinciale, che prenderà provvedimenti nei suoi confronti», spiega. Per Mora è quasi certa la sospensione che potrebbe arrivare prima di Natale. Intanto, in queste ore, sono molti gli episodi «sgradevoli» che vengono riportati e che coinvolgono proprio il professore. Come quando un anno fa disse a una studentessa «prova a leggere questo testo, ammesso che voi donne sappiate leggere». Oppure quando, in occasione di una lezione in dad con la senatrice a vita Liliana Segre, il docente si fece scappare un «uff, della Segre non se ne può più!».

Il docente rischia la sospensione. Professore rifiuta di fare lezione agli studenti in gonna: la storia della ‘rivolta’ di alunni e dirigente del ‘Bottoni’ di Milano. Carmine Di Niro su Il Riformista il 29 Novembre 2021. È stato avviato un provvedimento disciplinare, col rischio di sospensione dal lavoro, per Martino Mora, professore del liceo scientifico Bottoni a Milano che venerdì 25 novembre, nella Giornata mondiale contro la violenza sulle donne e di genere, aveva rifiutato di fare lezione nella sua classe a causa di due studenti ‘colpevoli’ di indossare una gonna come gesto di solidarietà. Troppo, evidentemente, per il professore di storia, che prima ha chiesto di uscire dall’aula e poi si è rifiutato di continuare la sua lezione. La risposta al suo gesto è arrivata il giorno seguente anche da altre classi dell’istituto milanese: gli studenti della classe 4D sono usciti dall’aula rifiutandosi di ascoltare la lezione “per difendere le loro idee”, sedendosi in corridoio studiando per l’ora successiva. Una vicenda che ha aperto uno scontro senza precedenti tra il professor Mora e la dirigente scolastica del liceo Bottoni, Giovanna Mezzatesta. Intervista dal Fatto Quotidiano, la dirigente ha fornito la sua versione dei fatti: “Alla prima ora quando il professore ha cacciato fuori dall’aula i ragazzi vestiti da donna, la mia collaboratrice l’ha invitato a farli rientrare. Quando sono arrivata a scuola è venuto nel mio ufficio dicendomi che non avrebbe fatto lezione con “dei travestiti”. A quel punto l’ho invitato a tornare in classe perché in quel modo avrebbe violato il diritto allo studio degli studenti”. Da parte sua Mora avrebbe proposto di restare a disposizione della scuola in sala insegnanti senza rientrare in classe, soluzione rifiutata però dalla dirigente: “Non potevo certo chiamare un supplente perché il professore non voleva far lezione ai ragazzi in gonna. Ho detto che o tornava ad insegnare o sarebbe dovuto andare a casa”, cosa poi accaduta. Diversa, e non poteva essere altrimenti, la versione raccontata su Facebook dal professore nel giorno stesso in cui è avvenuto l’episodio: “La preside del liceo dove insegno mi ha cacciato da scuola. Stamattina. Mi ha cacciato poiché le avevo detto che non intendevo fare lezione in presenza di un allievo maschio che si è presentato travestito da donna dalla testa ai piedi. A questo punto la “signora” in questione mi ha messo brutalmente e arbitrariamente di fronte all’aut aut: o avrei fatto lezione facendo finta di nulla, o avrei dovuto lasciare immediatamente la scuola. Alla mia risposta che mi sembrava molto più onorevole la seconda possibilità, ella mi ha cacciato”. Posizioni inconciliabili, come evidente. La dirigente Mezzatesta è pronta però ad andare fino in fondo alla storia e sta preparando una relazione su quanto accaduto: “Mora non ha assolto al compito di vigilanza poiché ha cacciato dalla classe tre alunni e, poi, si è rifiutato di fare lezione. Appena sarà pronta la consegnerò all’ufficio scolastico provinciale, che prenderà provvedimenti nei suoi confronti”, ha spiegato a La Stampa la dirigente.

CHI E’ MORA – Il professore da parte sua si dice pronto a pagare “il prezzo dell’isolamento e dell’ingiustizia”, annunciando una forma di martirio contro quella che definisce “paccottiglia sub-culturale anglosassone e politicamente corretta che sta prendendo il sopravvento anche qui”. Ma il suo profilo Facebook, aperto al pubblico, si possono notare altre posizioni ‘borderline’ su altri temi: da Draghi al vaccino, dal ddl Zan al suicidio assistito, fino ai giornalisti. Draghi, per esempio, viene definito in un post “sacerdote del dio denaro, il banchiere dei banchieri, il delegato di Wall Strett, l’amico di Big Pharma, l’uomo di fiducia degli strozzini globali, il mandatario degli usurai”. Il potere dei media è invece gestito, secondo Mora, da “uomini di tale profonda, luceferina malvagità, da lasciare sgomenti”, il tutto perché i grandi giornali “criminalizzano i renitenti al siero magico della multinazionali del farmaco, che trattano come untori e potenziali assassini”. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giulia Cazzaniga per "la Verità" il 6 dicembre 2021. Questa è un'intervista che si è svolta in due tempi. A un certo punto il professor Martino Mora ci ha chiesto di prendersi una pausa. Stava raccontando che gira voce di un suo licenziamento, e fosse vera «mi troverebbe in mezzo a una strada». Lo abbiamo richiamato dopo un'ora, e la sua voce aveva deposto l'angoscia: «Non si preoccupi, sono determinato e più combattivo che mai, è stato un momento di stanchezza. Da giorni fatico a dormire, ma non ho intenzione di fare la vittima». Mora ha 50 anni e fino a qualche giorno fa conduceva un'esistenza quieta tra la sua casa di Milano - vive solo dopo che la madre è morta, un anno fa - e l'insegnamento al liceo scientifico Bottoni, le sue letture, la scrittura di libri - ha pubblicato Abbattere gli idoli contemporanei (Radio Spada) - e appassionati post su Facebook, oggi scandagliati e riassemblati dai suoi accusatori.

«Sono diventato un mostro. L'ultima che ho letto su un sito gay è che sono un indemoniato».

Mora, a lei la ricostruzione dei fatti. Venerdì 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne, è a scuola.

«Dieci minuti dopo l'inizio dell'ora stavo interrogando in classe terza, e un ragazzo arriva in ritardo. Si toglie la giacca, indossa un lungo abito da donna, molto appariscente, a fiori, con le spalline». 

Si scoprirà che gli studenti avevano concordato con la preside di far lezione in gonna come simbolo, perché usata come scusante di molestie o stupri.

«Già, peccato che non ne ero stato informato, né gli studenti me lo hanno comunicato, nemmeno quando, seduta stante, dopo aver visto l'abbigliamento del ragazzo, l'ho mandato dalla preside».

Non era il solo vestito così.

«Non me n'ero neanche accorto. Due compagni sono usciti con lui dalla classe e solo allora ho notato che indossavano un gonnellino». 

Perché l'ha spedito in presidenza?

«Ritengo che a scuola occorra vestirsi in modo adeguato, è un luogo che merita rispetto. Dire che erano vestiti in modo indecente non è un insulto, ma una constatazione». 

Ha qualcosa contro la giornata per la violenza sulle donne?

«Ma figuriamoci, io sono contrario a qualsiasi tipo di violenza, donne, uomini, bambini, animali. Non sono convinto però che per difendere le donne servano pagliacciate in un luogo come la scuola». 

I ragazzi quindi vanno dalla preside.

«Che non c'era. Tornano da me, e io ho lasciato quel ragazzo fuori dalla porta. Bene in vista, attendendo la preside. Per solidarietà, altri sono rimasti con lui». 

E da lì si è scatenato l'inferno...

«La preside mi fa sapere che occorreva riammetterlo in aula, e così è stato. Alla terza ora dovevo tornare in classe, in presidenza sostengo che almeno il ragazzo in tenuta più appariscente dovrebbe cambiarsi: mi ero accorto che sotto era normalmente vestito, ma ottengo il fermo rifiuto della dirigente. Chiedo allora di esentarmi dalla lezione e che avrei recuperato l'ora perduta in altro momento. Nessuna soluzione è stata presa in considerazione, mi ha detto che se non fossi tornato subito in classe avrei dovuto andar via da scuola. Non era in suo potere, ma non ho discusso l'ordine e me ne sono andato a casa. Poi le tre classi dove insegno hanno deciso di scioperare e di non fare più lezione con me, restando in corridoio per giorni». 

Con i suoi studenti il rapporto si è rotto?

«No, anzi. Il dialogo con me ha convinto proprio la classe dove è successo il fatto a riprendere le lezioni. Ho parlato a lungo con i ragazzi in questi giorni».

Si è scusato?

«Non ho ceduto di un millimetro sui principi, ho lasciato parlare tutti per diverse ore. Alla fine abbiamo chiarito le posizioni e recuperato il rispetto reciproco». 

Ma la vicenda è andata ben oltre i muri del liceo.

«La preside, in svariate interviste a giornali e tv, ha annunciato di stare preparando un super dossier contro di me, con un pesante provvedimento disciplinare. Questo è quello che so dalla televisione, non mi hanno ancora recapitato nulla. Le voci a scuola parlano anche di licenziamento». 

Contro di lei si sono scatenati programmi tv, social network e blog.

«Sono un mostro solo perché ho detto no a una buffonata. C'è chi mi ha scritto che devo guardarmi le spalle quando cammino, ma non mi spavento perché finché sono minacce online con nomi e cognomi non sto neanche a sporgere denuncia. Mi hanno dato del fascista, razzista, sessista, xenofobo, omofobo e, appunto, indemoniato».

Sono tutti insulti alla sua sensibilità?

«Non credo volessero farmi un complimento, ma ritengo che siano parole della neolingua orwelliana che, in fondo, mi fanno sorridere. Sono fobie da lasciare agli psichiatri, più che veri insulti». 

È stato ospite a Pomeriggio Cinque, la trasmissione di Barbara d'Urso.

«Ci sono andato a testa alta, hanno provato, senza alcun successo, a linciarmi vivo». 

Dai suoi commenti online si è poi capito che ha una posizione particolare sui vaccini, apriti cielo.

«Sono scettico nei confronti dei vaccini e non me ne vergogno, sì. Faccio i tamponi per lavorare, a mie spese». 

Facciamo un passo indietro? Da quanto insegna in quell'istituto?

«Insegno Storia e Filosofia al Bottoni dal 2016».

Prima?

«La lunga gavetta del precario della scuola, in giro per i licei della provincia di Milano».

Che rapporto ha con i suoi studenti?

«Buono. Ascoltano, seguono, sanno che possono domandare sempre una spiegazione se non hanno capito».

È severo?

«Se non hanno studiato c'è l'insufficienza. La scuola dovrebbe tornare a essere selettiva, e non avere metodi di giudizio sempre più blandi, di tendenza soprattutto dopo la pandemia. Ma non sono severo, e i miei studenti lo sanno, premio con voti alti chi studia». 

Quando spiega siede in cattedra?

«Di solito sì. La mia è la didattica frontale alla vecchia maniera. Non escludo possano esserci strade alternative, ma i ragazzi vanno educati a riconquistare la concentrazione. Devono sforzarsi più oggi di ieri, perché la frenesia dei messaggi visivi che scorrono sui loro cellulari li costringe a una fatica». 

Una fatica che lei non vuole togliergli.

«No, perché insegnare non significa dare la pappa pronta. Faccio pause, se necessario, ma riuscire a concentrarsi permette ai ragazzi di crescere, e servirà loro nel mondo del lavoro».

Che idea si è fatto di quello che è successo?

«Ho scelto di non tirarmi indietro, mi sono esposto per difendere un'idea che mi pare di buon senso. Ma ho toccato un tasto che non dovevo, è evidente. Il linciaggio che sto subendo me lo conferma. Sono convinto che al di là delle intenzioni soggettive - le persone coinvolte in questa storia non credo ne abbiano contezza - ci sia un progetto dietro questi attacchi. Uno studente del mio istituto ha detto ai giornali: vogliamo l'insegnamento del transessualismo nelle scuole». 

Chi c'è dietro?

«Non lo so, osservo però connessioni tra i "gretini", come li chiamo io, cioè coloro che appartengono al movimento milanese di Fridays for future di Greta Thunberg, e queste ideologie. E dietro quel movimento ci sono poteri forti, non certo solo il faccino della ragazza. È evidente che occorreva distruggermi mediaticamente, e subito, perché ho detto un "no"».

Da insegnante, cosa ha osservato in questi anni?

«Uno dei cavalli di Troia di questo voler portare tendenze culturali nella scuola è l'educazione civica. Salutata con entusiasmo anche dalla Lega, è stato un autogol a favore della parte politica opposta». 

Perché?

«Perché con l'educazione civica entrano a scuola le ideologie trasversali, dominanti del pensiero unico, compresa l'Agenda Onu 2030. La vecchia scuola di Gentile e Gramsci era ideologica, sì, ma almeno di alto livello qualitativo. Quel modello era basato su un sapere solido, oggi si vogliono sfornare conformisti». 

Più concretamente?

«Nei programmi portati avanti da Onu e Oms, che ricordo proponeva l'educazione sessuale fin dalla più tenera infanzia, ci sono contenuti discutibili: immigrazionismo, una certa visione dell'omosessualità, femminismo estremo. Contenuti che si presentano sempre con aggettivi belli e buoni: si parla di inclusione, lotta alle discriminazioni, accettazione del diverso». 

Concetti che nel suo caso non sembrano essere stati rispettati.

«Quel che mi accade dimostra proprio che diritti, paroloni e concetti che vanno verso il transumano - io lo definisco subumano, perché nega le differenze, fin da quelle sessuali - sono solo retorica. C'è dietro una profonda malvagità. È un desiderio autodissolutorio. Rispettare le altre identità non vuol dire distruggere la propria». 

Lei è cattolico, dico bene?

«Mi definisco un cattolico della tradizione, non modernista. E vedo che tutte le strutture di senso - Chiesa, scuola, famiglia - sono messe fortemente sotto attacco in modo subdolo, non diretto. Attaccate dall'esterno, ma ancor più dall'interno. Dietro alla lotta contro le discriminazioni c'è una battaglia per l'esclusione, di chi pensa diversamente, dietro al dirittismo una concezione di società atomistica, la disintegrazione delle strutture comunitarie, così da massificare le persone, tutte uguali e tutte consumatrici». 

Queste sue convinzioni sono mai entrate in aula?

«No, perché io non insegno per condizionare i ragazzi, al contrario di alcuni colleghi. Non voglio indottrinare nessuno. La mia visione del mondo è nei miei libri o online, ma a meno che non me lo domandino io rifuggo un atteggiamento invasivo sulle loro coscienze». 

Ora che farà?

«Aspetto, non ho ancora gli elementi per capire se devo dotarmi di un avvocato».

Valeria Braghieri per “il Giornale” il 27 ottobre 2020. Già la moglie ci procurava una punta di fastidio. Sensazione irrazionale e ingenerosa, per carità. Ma ci è sempre apparsa un po' superflua tra renne, elfi, campanellini, pacchetti e notti di consegne. E infatti il massimo che le sia mai stato concesso, nell'immaginario comune quanto nei libri e nei film, è stato preparare una cioccolata calda al marito prima della partenza in slitta, o scaldargli i piedi sotto le coperte una volta di rientro, al Polo Nord. Voluminosa come lui, vestita di rosso come lui... ma insomma diciamocelo, la moglie di Babbo Natale, non ha mai aggiunto nulla. E anche ai fini dell'atmosfera di magia non è mai servita un granché. Adesso, dopo non aver mai digerito fino in fondo la legittima consorte, il servizio di Poste norvegese, Posten, ci chiede di immaginare Babbo Natale in compagnia di un amante. Maschio. Per celebrare i cinquant'anni dal giorno in cui il Paese ha reso legale amare chi si vuole, l'azienda ha realizzato uno spot in cui, di anno in anno, Santa Claus, coltiva un romantico sentimento nei confronti di un aitante cinquantenne, tale Harry. I due si incontrano solo il 25 dicembre, in occasione della consegna natalizia. Babbo Natale si cala dal camino, si aggira nel soggiorno e il padrone di casa lo sorprende. I due si siedono sul divano, sorseggiano qualcosa, si guardano negli occhi... Si comprende subito che tra loro è amore al primo punch. Ma avere un solo giorno di approcci all'anno rende la faccenda un tantino sfinente. Ad ogni incontro qualche nuova ruga e qualche capello bianco in più. Così nello spot si va «avanti veloci» fino all'happy end: un bacio sulle labbra davanti all'albero addobbato. Un'atmosfera rarefatta, il camino acceso, il mondo fuori, che pare aver messo il silenziatore, un Babbo Natale innamorato e un amante impaziente. Ecco come, da oggi, i bambini norvegesi potranno immaginarsi Santa Claus e i suoi magici viaggi. Aspettando regali che evidentemente lui non avrà mai il tempo di consegnare…Per noi Babbo Natale andava benissimo completamente asessuato com'era. Una moglie, un amante, i piedi freddi, il punch caldo... tutta roba che serve solo a rovinare le favole. 

Leonardo Martinelli per “La Stampa” il 27 novembre 2021. Una decina di anni fa il nuovo arazzo venne scelto per decorare il Salone dei ricevimenti di Villa Medici. È l'Accademia di Francia, sulla collina del Pincio: il punto più alto di Roma, con il suo parco, un paradiso. Fino a quel momento appesi ai muri vi erano state ampie tappezzerie astratte, scelte dallo scenografo e pittore Richard Pedruzzi. A quel momento si decise di recuperare dai magazzini l'arazzo delle Indie, una serie di otto tappezzerie, che Luigi XV (1710-74) aveva donato all'Accademia di Francia. A lungo, nessuno aveva trovato niente da ridire. Ma a Villa Medici ogni anno arrivano sedici artisti in residenza, con una generosa borsa di studio dello Stato francese: sorta d'avamposto della cultura parigina in quell'oasi di pace surreale, nel cuore di Roma. E così sul Pincio è piombata inevitabile la «cancel culture». Guardiamolo con più attenzione l'arazzo. Vi sono raffigurati diversi uomini di colore. Le «Indie» si riferiscono a un mondo considerato all'epoca esotico e in particolare il Brasile. Sulla base di ricerche recenti, sono stati identificati nelle tappezzerie dei dignitari del regno del Congo inviati sul territorio brasiliano per convincere gli olandesi ad allearsi con i francesi contro i portoghesi. In altre scene figurano schiavi originari dell'Africa spediti a lavorare nelle colonie olandesi. Sta di fatto che i sedici artisti residenti del 2020-21, fin dagli inizi, hanno contestato la presenza dell'arazzo nel salone più rappresentativo. Per la Notte bianca, uno degli eventi clou di Villa Medici, lo scorso 28 ottobre, i borsisti hanno chiesto la chiusura degli spazi. Per loro le tappezzerie «sono il frutto di una cultura visiva imperialista che, ricorrendo all'esotico, celebra le violenze colonialiste d'Europa, la schiavitù, lo sfruttamento eccessivo della natura e la riduzione degli umani allo stato di oggetti». Jérome Delaplanche, già responsabile della storia dell'arte a Villa Medici, ha contestato quella posizione «decolonialista»: «Si tratta di un attivismo politico il cui unico scopo è quello di incriminare l'Occidente. Non è ricerca della verità, ma un'opera di indebolimento». Per poi aggiungere: «La storia viene strumentalizzata per diventare un'arma morale: dividere tra buoni e cattivi. L'unico obiettivo di questa ideologia postcoloniale è la condanna dell'Europa malvagia». Alla fine, con un'intervista al Figaro, è intervenuto Sam Stourdzé, 48 anni, direttore di Villa Medici, nominato nel settembre 2020 con il beneplacito di Emmanuel Macron. Ha ricordato di aver coinvolto un gruppo di artisti e universitari per "riconsiderare" le tappezzerie alla luce del dibattito attuale sulle rappresentazioni dell'immaginario coloniale». In realtà tra qualche settimana l'arazzo dovrà essere tolto dalle pareti del salone, che sarà sottoposto a un restauro (anche per recuperare alcune decorazioni lì dipinte dal mitico Balthus, che fu alla guida dell'istituzione romana dal 1961 al '77). Ci vorrà qualche mese e «a quel momento dovremo decidere cosa raccontare» con le opere esposte nel salone e riflettere sull'«immagine che la Villa vuole dare di sé stessa». «A questo stadio - aggiunge - stiamo incontrando, discutendo e scambiando opinioni con tutte quelle e quelli che vivono e lavorano qui». Accusato nei fatti di cedere agli «estremisti» della «cancel culture», precisa «noi non cancelliamo niente. Senza essere nel pentimento, possiamo aprirci a letture più complesse della storia. Oggi nel salone si trovano solo gli otto pezzi dell'arazzo delle Indie e poco più. Domani ci troveremo ancora l'arazzo, ma molte più cose». Insomma, si profila all'orizzonte un compromesso macronista: un colpo al cerchio e uno alla botte. Pure in questo la Villa Medici si conferma il riflesso della Francia contemporanea in terra italiana. «Al tempo stesso» è l'espressione più amata da Macron, presa in prestito dal filosofo Paul Ricoeur. Vuol dire non essere né di destra, né di sinistra. Essere tutto e il contrario di tutto. Annacquare la realtà in un decente e riduttivo centrismo. Significa pure sopravvivere alle polemiche della «cancel culture». 

Da torinotoday.it il 27 ottobre 2020. Aggredito un militante di Azione Studentesca, organizzazione vicina a Fratelli d'Italia, davanti al liceo classico Cavour di Torino. Il ragazzo stava volantinando contro la decisione dell'istituto di utilizzare l'asterico nelle comunicazioni rendendo così il genere fluido. Decisione che è stata contestata nei giorni scorsi anche da Matteo Salvini, il leader della Lega. Il fatto è accaduto mercoledì 24 novembre. Da quel che riporta l'agenzia di stampa ANSA, il militante di Azione Studentesca sarebbe stato avvicinato da un giovane del Kollettivo Studenti Autorganizzati che gli avrebbe chiesto di vedere un volantino. Poi lo avrebbe colpito al volto con un pugno. L'aggressore è poi scappato. Contro l'aggressore non è stata presentata denuncia. Nella notte tra lunedì e martedì 23 novembre altri studenti di destra avevano già inscenato una manifestazione contro la decisione del liceo Cavour. Il Blocco Studentesco aveva appeso davanti alla scuola alcuni striscioni con sopra scritto: “L'asterisco è bruttura: che uccide l'italiano e la cultura”.

La rivolta degli studenti contro l'asterisco "fluido". Nino Materi il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. Alta tensione dopo l'aggressione al militante di destra che distribuiva volantini anti "schwa". Ci sarebbe poco da aggiungere alla sintesi titolistica che ha fatto ieri Dagospia: «Menato per le menate del politicamente corretto». Al centro della vicenda, sempre lui: il prestigioso liceo classico Cavour di Torino, tanto politicamente corretto da far ribaltare nella torba il conte Camillo Benso che seguita a chiedersi cosa abbia fatto di male per vedersi intestato un istituto tanto «avanti» negli usi e nei costumi; compresi quelli ortografici, sintattici e grammaticali. Il tutto condito dalla tipica spocchia «progressista» abituata a virare (oggi come ieri) su comportamenti violenti. Proprio come accaduto giorni fa davanti al Cavour, dove sono volati i cazzotti. Col brillante risultato di far perdere all'espressione «passare dalle parole ai fatti» ogni connotazione metaforica, regalandole invece una sfumatura decisamente più aggressiva. A pagarne le conseguenze è stato giorni fa uno studente che davanti al liceo Cavour di Torino stava distribuendo volantini «contro l'uso dell'asterisco nelle comunicazioni scolastiche per rendere il genere fluido». Il poveretto che si è «beccato un pugno in faccia» è «un militante di Azione Studentesca, gruppo vicina a Fratelli d'Italia», mentre il picchiatore appartiene alla sponda politica opposta: cioè quella di sinistra che fa capo ai membri del Kollettivo Studenti Autorganizzati («autorganizzati» pure nel suonarle a chi la pensa diversamente da loro). Risultato: ora tra gli studenti del Cavour, già divisi sull'uso dello schwa, gli animi sono tesissimi e anche il corpo docente è perplesso. Qualcuno parla espressamente di «sciocchezza». Dal preside, silenzio. Il giovane finito ko stava volantinando contro la tragicomica decisione dell'istituto di «utilizzare l'asterisco nelle comunicazioni rendendo così il genere fluido». Una disposizione che si commenta da sola, ma su cui due leader di partito del calibro di Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno espresso il proprio dissenso, contribuendo forse a rendere la vicenda ancor più fantozziana. Ma, alla luce degli ultimi sviluppi, la commedia assume ora una coloritura tra il giallo e il noir. Il militante di destra (alias, Azione Studentesca) è stato avvicinato da un coetaneo di sinistra (alias, Kollettivo Studenti Autorganizzati) che gli ha chiesto di vedere un volantino. Poi ha colpito l'avversario al volto con un pugno»; nota a margine: l'aggressore è scappato e contro di lui non è stata presentata denuncia. Nei giorni precedenti, altri studenti di destra (alias Blocco Studentesco) avevano protestato pacificamente contro la decisione del Cavour, appendendo davanti alla scuola uno striscione con scritto: «L'asterisco è bruttura: che uccide l'italiano e la cultura». Slogan dalla rima non certo baciata, ma dal senso chiaro. La settimana scorsa il comunicato del «Cavour» era stato ripreso da tutti i media: «Da parte nostra nessuna rivoluzione linguistica, ma un decisivo passo avanti nelle questioni di genere e del concetto "fluido" nelle comunicazioni interne, esterne, individuali o collettive. Non utilizzeremo più sostantivi e aggettivi connotativi sessualmente, ma l'asterisco. Studente diventerà student* e iscritti sarà iscritt*, solo per fare alcuni esempi». Una prosa che dimostra come non sarà certo un asterisco (alias, schwa) a sconfiggere il burocratese. L'inossidabile circolare scolastica vince su tutto. Sempre. Nino Materi

Giovanni Sallusti per Dagospia il 17 novembre 2021. autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore. Caro Dago, non c’è niente da fare, tocca tornare a Orwell, per decrittare gli impazzimenti quotidiani dell’era Politicamente Corretta. “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”. Eccola lì, l’essenza di ogni autoritarismo, il doppiopesismo logico e morale tra l’oligarchia che impugna il manganello e la plebe che lo assaggia. E questo autoritarismo sghembo, patinato e buonista che ci è toccato in sorte non fa eccezione. Prendete l’ultima prodezza di una vera e propria Erinni del Politicamente Corretto, Dietlinde Gruber detta Lilli, occhiuta setacciatrice di ogni sbavatura stilistica in odore anche vago di machismo, sessismo, sovranismo (qualunque cosa voglia dire), fascismo (ammesso voglia dire ancora qualcosa). Ebbene, la giornalista competente e progressista si è sentita rivolgere la seguente, fondamentale domanda a un recente convegno (in queste occasioni l’intervistatore svolge invariabilmente la funzione dell’intellettuale cortigiano, con particolare attenzione al secondo aspetto, l’intelletto è opzionale): “Ritenete Mario Giordano un vostro collega?”. La Gruber quasi non crede a cotanto assist, a questo rigore a porta vuota davanti allo scalpo di un reprobo così manifesto per l’ideologia dei Buoni, e infatti esordisce con un risolino di compiacimento. Dopodiché si lancia: “Allora, rispondo prima io perché non sono neanche sicura…”, quasi a mettere in dubbio l’esistenza stessa del dissidente, come da consolidata tradizione sinistra. Ma è solo un pretesto per vibrare il vero colpo: “Sì, se faccio un verso sai chi è, questo Giordano”. E, avendo ormai creato il clima per l’esecuzione pubblica, può esibirsi in un forzatamente stridulo “Behbehbehbehbeh…”, che vorrebbe essere la parodia della voce del reprobo (il video è stato mostrato nella puntata di ieri di Fuori dal Coro). Il quale sì, è dotato di un timbro vocale più acuto della media, diciamo pure nettamente più acuto della media (per noi che non ci siamo mai candidati col Pd è una caratteristica descrittiva, non valutativa, quindi ci possiamo permettere di non essere reticenti). Quindi: l’anchorwoman impegnata, e sempre dalla parte giusta, che ha scritto un libro contro “la cultura delle 3 V” dell’odio maschilista (volgarità, violenza, visibilità), sforna un’uscita che sarebbe considerata volgare in qualunque bar di periferia, violenta come solo può esserlo l’irrisione per un (presunto, sempre dalle parti civili e democratiche) difetto fisico in assenza del difettato, e che sfrutta tutta la forza della visibilità dell’autrice, una signora (sì può dire, senza che indichi eccesso testosteronico?) che va in onda ininterrottamente da lustri in prima serata su reti televisive nazionali. Ci sarebbe materiale per dodici puntate di “Otto e mezzo” contro la barbara usanza contemporanea del body shaming, se la protagonista non fosse la conduttrice del medesimo. Per cogliere quanto l’ipocrisia doppiopesista sia l’alfabeto del Politicamente Corretto di rito gruberiano (che poi è una mera importazione di mode d’Oltreoceano, non vorremmo la nostra si montasse la testa), propongo un esperimento mentale: provate a invertire i poli attoriali della scena. Mario Giordano, in esordio di trasmissione, chiamando a sé l’ormai mitologico regista/spalla (“Donato!”), maramaldeggia: “Aspetta, questa Gruber, non sono neanche sicuro… Sì, se faccio una smorfia sai chi è, questa Gruber”. E si mette lì a stringere i labbroni, in una parodia oscena delle labbra della collega, fattualmente, legittimamente e innocentemente più voluminose della media. Chiaro cosa sarebbe accaduto, no? Fucilazione del reprobo a reti unificate, editoriali prestampati in serie sull’orrido maschilismo becero-destrorso che non passa, comunicato di scuse di Mediaset con pellegrinaggio in ginocchio di Piersilvio alla sede di La7. Noi non vogliamo niente di tutto ciò, ovviamente, siam mica sgherri del pensiero unico. Solo, ci permettiamo di dire a Lilli che, se lei chiude il suo libro con l’ambizioso programma di “rieducare il maschio”, a volte basterebbe la sana, antica, reazionaria educazione. E sì, vale anche per la femmina. 

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia il 23 novembre 2021. Caro Dago, c’è qualcosa di peggio dell’ideologia Politicamente Corretta. È l’ideologia politicamente corretta, quando incrocia l’ottusità della burocrazia. I nonsense arcobaleno normalizzati a procedure, magari con timbro del Consiglio d’Istituto. È quello che è accaduto al Liceo classico e musicale-coreutico Camillo Benso conte di Cavour, il più vetusto di Torino e uno dei più antichi d’Italia (le origini risalgono al 1568). Lestissimo, però, ad adeguarsi allo spirito del tempo impazzito della contemporaneità, quello dettato da Fedez e da Michela Murgia, piuttosto che da Luigi Einaudi o Cesare Pavese (per citare due alunni dello storico istituto). La decisione risale a maggio, ma è salita all’onore delle cronache in questi giorni (Stampa e Repubblica, ormai indistinguibili l’una dall’altra, si sono abbandonate a resoconti entusiasti, rispetto a cui urge rivalutare l’agenzia Stefani come esempio di distacco obiettivo durante il Ventennio): l’intera comunicazione istituzionale della scuola, dal sito internet alle circolari interni, rivolte a docenti e studenti, e anche il materiale esterno per le famiglie, prevede l’introduzione di esso. No, di essa, dannato riflesso patriarcal-reazionario. No, non proprio essa, non vogliamo nemmeno cadere nello psicoreato, gravissimo al tempo del Soviet politically correct (si sono divorati J.K. Rowling, figurati caro Dago quanto ci mettono col sottoscritto), per cui i generi sessuali sono due, il maschio e la femmina. Insomma, ess*: l’inclusivissimo, civilissimo, correttissimo (non grammaticalmente, ma un liceo classico mica deve ancorarsi ad anticaglie quali la struttura della lingua) asterisco! Proprio così, nelle severe aule sabaude è tutto un proliferare di “student*”, “ragazz*”, “alliev*”, “iscritt*”, e via infierendo sull’idioma dell’Alighieri, del Manzoni e di simili beceri maschi bianchi sessisti, peraltro ricordati nelle antologie di letteratura esclusivamente grazie al loro status di privilegiati. Ha chiarito il preside Vincenzo Salcone, intervistato a microfoni Uniti dal Giornale Unico dell’Asterisco: “Il Cavour è considerato un liceo classico molto impegnativo dove il percorso di studi richiede grande disciplina” (il che potrebbe apparire un’ovvietà, risultando ancora assai difficile imparare i paradigmi dei verbi greci studiandoli saltuariamente, o approfondire l’Eneide senza impegnarsi). Ma “questo è solo un lato della medaglia” (meglio, un lat*, a volte anche i funzionari più zelanti della neolingua inciampano). “Il rigore, la durezza anche, di un certo tipo di insegnamento che proponiamo, trovano dall'altra parte un'attenzione estrema alla persona, che è al centro della nostra azione educativa”. Persona che è anche corpo, che è anche situata e definita da certe caratteristiche biologiche e sessuali, ci verrebbe da dire rimestando qualche appunto filosofico liceale, ma certo era l’era pre-Salcone, pre-Asterisco. “L'identità e l'uguaglianza di genere sono elementi a cui attribuiamo una importanza fondamentale nella nostra comunità scolastica. E il linguaggio che utilizziamo rispecchia questo sentire”. Un triplo carpiato logico, in bilico tra Orwell e Ionesco: per rispettare tutte le identità e non discriminare in base al genere sessuale, abolisco le une e l’altro nel linguaggio, frullandoli nell’Identità Indistinta e nel Genere Unico, gli ultimi, sfavillanti ossimori prodotti dall’incessante catena di montaggio ideologica del Politicamente Corretto. Infatti, “l’asterisco specifica che per noi tutti sono uguali a prescindere dalla loro identità e orientamento sessuale”. Non ha nulla a che fare con le persone in carne e ossa (come potrebbe d’altronde, essendo la loro edulcorazione scientifica e fin semiotica?), è un segnale di riconoscimento: siamo anche noi dei Buoni, anzi ci poniamo all’avanguardia del buonismo inclusivista, a-sessuato, post-grammaticale. “Anche negli scambi di mail tra e con i docenti ci siamo abituati a scrivere in un modo nuovo, più inclusivo e rispettoso delle diversità”. I professori di un liceo classico storico, nobile e “rigoroso”, che si sono “abituati a scrivere in un modo nuovo”, un caso plastico e definitivo di rieducazione totale (e totalitaria), perché spontanea. È lo stadio finale e irreversibile della censura: l’autocensura. “Ora amava il Grande Fratello”, è la fine della distopia di “1984”.

Il clistere della società L’infermiere (precario) licenziato per un video e la cancel culture che continua a non esistere. Guia Soncini l'11 Novembre 2021 su L'Inkiesta. La furia scema delle anime buone del web si è scatenata contro un poveraccio per un TikTok irrispettoso verso i pazienti di un ospedale. Dopo le polemiche, la struttura ha servito sul piatto la testa del malcapitato alle folle della rete e la giustizia fessa di questa epoca ha trionfato. E se «esiste la cancel culture?» fosse la domanda sbagliata? Se stessimo facendo il dibattito sbagliato? Se la semantica (non è cancel culture, è call-out culture, cultura delle conseguenze e delle responsabilità, dicono i sacerdoti della sua non esistenza) fosse una distrazione dal punto della questione? Se ieri eravate impegnati a incrementare il pil, vi riassumo la vicenda dell’infermiere di TikTok. Un tizio qualunque, infermiere in una struttura per malati terminali, pubblica sul suo profilo social – su TikTok, la piattaforma dei video imbecilli: non nella collana Fabula di Adelphi – un video in cui simula conati con la didascalia «quando vai a controllare il paziente dopo due clisteri». Svelando così a un mondo ignaro e indignabile una cosa che mai esso mondo avrebbe potuto immaginare: che pulire il culo agli altri non è un mestiere gradevole. L’internet – la stessa internet che quotidianamente cuoricina una hostess di terra che sbeffeggia i passeggeri che osano non essere viaggiatori abituali e quindi non sanno come si faccia un check-in – è improvvisamente indignata alla scoperta che ci siano lavoratori che detestano la clientela grazie alla quale percepiscono uno stipendio. Oltretutto, diversamente dalla hostess di terra, l’infermiere, col suo pomposo «official» nello username di TikTok, avrebbe diritto alla nostra compassione: di giorno pulisci culi, la sera fai il gradasso sentendoti finalmente non quello con le giornate peggiori di tutti. Se non hai diritto a una valvola di sfogo tu, non so proprio chi, e i primi a capirlo dovrebbero essere i buoni dell’internet, quelli che cianciano abitualmente di «salute mentale». A questo punto i buoni dell’internet ripeterebbero uno dei loro slogan preferiti: che ogni lavoro è dignitoso se fatto in maniera onesta. Un tic verbale che temo venga in mente solo a chi non abbia mai dovuto campare pulendo gabinetti o altri mestieri la cui spiacevolezza non serve un romanziere particolarmente fantasioso per immaginare (d’altronde «i soldi non sono importanti» è una frase che non si sente mai da chi abbia problemi economici). Comunque. L’internet chiede la testa dell’infermiere. L’internet chiede teste più volte al giorno tutti i giorni, e di solito – se parliamo dell’internet italiana – non le ottiene (con pochissime eccezioni: mi viene in mente solo la chiusura del programma pomeridiano che aveva violato il codice – quello civile, quello penale, quello morale e probabilmente pure quello stradale – rappresentando una massaia in tacchi a spillo). Questo porta le figure che indicavo all’inizio, i volenterosi negazionisti della cancel culture, a dire che qui in Italia il problema è ignoto: se chiediamo il licenziamento di Soncini almeno tre volte a settimana e quella osa ancora non essere all’angolo a chiedere la carità ai passanti, possiamo forse dire che il sistema di cancellazione degli sgraditi funzioni? Certo che no: un tentato omicidio mica viene processato come omicidio. Quand’è che il sistema funziona? Quando te la prendi con l’anello debole della catena. Col programma pomeridiano, mica con Sanremo. Col collaboratore carneade, mica con l’editorialista di prima pagina. E quindi, come sempre, il problema è un problema di classi sociali: il grande rimosso del postmodernismo. C’è un’infermiera (credo), su Twitter, che, quando lo scandale du jour dell’infermiere inizia a montare, scrive le cose più lucide. «Siete sempre bravissimi a criticare il lavoro altrui quando a malapena conoscete il codice deontologico, ma tornate a farvi il vostro di lavoro e non rompete il cazzo per un video, io sto in ospedale dalle sei alle dodici ore al giorno e non ho il tempo di interessarmi al lavoro altrui dicendo “denunciamo!!!!”». Ma anche, e qui arriviamo alla questione che mi aveva subito fatto sorridere di fronte alle richieste di licenziamento: «È palese che vivete nell’utopia più totale e nel mondo dei cazzi vostri se pensate che un infermiere/medico possa essere licenziato, radiato dall’albo o chi più ne ha più ne metta per un video del genere su TikTok dove non ha rivelato niente del paziente» (il video era un siparietto recitato, non una vera scena ospedaliera: la gente sta su TikTok sperando sia un provino per Amici, mica a scopo documentaristico). Il giorno dopo, però, arriva la notizia che l’infermiere è stato in effetti licenziato. E chiunque viva in Italia – in Italia, non sul Twitter italiano – capisce che evidentemente era un poveraccio di quelli che l’internet dei buoni definirebbe «precari»: avete mai provato a licenziare una persona assunta, in Italia? A licenziarla per un video che neanche potete dimostrare abbia girato in orario di lavoro? Senza che il giudice del lavoro vi faccia una pernacchia costringendovi a riassumerla e a pagarle pure i danni? E infatti di lì a poco viene pubblicata una mail della struttura in cui si precisa «che lo stesso non faceva parte dell’organico stabile della struttura ma bensì con contratto a prova semestrale non ancora completato». Sorvolando sull’italiano dei medici, persino peggiore di quello degli avvocati: anche oggi l’internet dei buoni non ha ottenuto la testa di uno dei padroni dell’universo, ma d’un poveraccio che aveva osato fare la cosa più insopportabile che possa venir fatta agli esseri umani di questo secolo. Non ridurli in miseria, non privarli dei diritti civili, non costringerli ad aderire a una qualche ortodossia di pensiero: ridere di loro. Ridere di noi. Come ha osato. E se fosse tua madre, tuo padre, se fossi tu che ti caghi addosso in una struttura terminale? Allora, il dettaglio che più ti pesa sarebbe certamente lo stipendio di uno che fa un video su TikTok a proposito dell’idea astratta del cagarsi addosso, sì. A quell’uno, invochiamo, regine di cuori di Alice nel paese delle meraviglie, dovrà essere tagliata la testa. E a quel punto ci rassereneremo, perché noi siamo i buoni, e in tutta questa vicenda non ci pare il problema sia che un infermiere assunto il ricoverato terminale può pure prenderlo a sganassoni e comunque non potrai licenziarlo, e un infermiere in prova può restare senza lavoro per TikTok. Non ci pare il problema sia che, prima di aprirsi un account dove simula sagacia, l’hostess di terra debba accertarsi che i sindacati le garantiscano illicenziabilità. Macché. Il problema è che, santo cielo, hanno riso di noi. Di noi che difendiamo i deboli. Solo che, quando il debole è l’infermiere, mica ce ne accorgiamo.

Gabriele Barberis per "il Giornale" l'8 novembre 2021. Occuparsi delle bizzarrie buoniste di Laura Boldrini, questo sì che non è normale. Il Covid rallenta ma non sparisce, i No green pass sono sempre più rabbiosi, ma l'ex presidente della Camera tenta un po' pateticamente di riscrivere un'agenda politica che l'ha cancellata come un inquilino molesto sfrattato a fine contratto. Nella sua domenica, tanto social e poco operosa a giudicare dallo sforzo prodotto, si affida a twitter per promuovere il suo nuovo libro, #questononènormale. Di cui la stessa autrice lascia cadere una ghiotta anticipazione: «Donna ridarella, o santa o puttanella... mandiamo in soffitta certi proverbi!». Un'impresa più oziosa che titanica, da accogliere sorridendo scuotendo la testa. Un po' quello che stanno facendo tanti utenti social, sbalorditi dall'intento involontariamente umoristico di mettere al bando tutti i detti popolari che potrebbero turbare la parità di genere. Basta con la «donna al volante pericolo costante» o «le donne e buoi dei paesi tuoi», tanto per dare l'idea di una crociata ridicolmente censoria spacciata come un'azione coraggiosa per spazzare secoli di stereotipi. Preoccupa più che altro l'intento serio di un ex vertice dello Stato di alimentare l'onda del politicamente corretto, uno strumento mellifluo per mettere fuori gioco chiunque usi una parola fuori tempo o citi aforismi che rimandano alla saggezza degli antenati. Oggi invece i nostri nonni, secondo la «femminista dalla nascita» Laura Boldrini, diventano implicitamente una cricca di volgari omofobi che hanno inquinato le menti di figli e nipoti con scemenze machiste. Su twitter il dibattito s' infiamma tra battute da avanspettacolo che rimarcano provocatoriamente gli aforismi popolari poco benevoli verso gli uomini. Per il dirigente di Fratelli d'Italia Guido Crosetto, piemontese arguto, oggi sarebbe un caso di body shaming proclamare «grand e gross ciula e baloss». Questo detto da un gigante di due metri arrivato a pesare anche 130 chili. E poi quei poveri carabinieri, quando l'Arma era esclusivamente maschile, sbeffeggiati e accusati di ogni idiozia solo per strappare una grassa risata alla fine di una barzelletta irriverente. Basta, meglio non dare altre idee ai fanatici del linguaggio ipercorretto, se no si apriranno ogni giorno battaglie di pulizia lessicale. I proverbi sulle donne, soprattutto quelle irripetibili da caserma, saranno colpiti da fatwa dalle conseguenze spaventose. Il prossimo passo sarà chiedere la rimozione, a Milano, di via Gino Bramieri. Un genio dell'umorismo per milioni di italiani, sicuramente un cattivo maestro per donna Laura.

Franca Giansoldati per "il Messaggero" l'8 novembre 2021. Il quesito si trascina insoluto da sempre, si almanaccano i teologi e si confrontano i filosofi: Dio è donna o uomo? La natura del Creatore sembra essere destinata a restare un mistero ma sullo sfondo si fa strada la moda dilagante, ispirata al politically correct, di mettere un asterisco di genere dopo il nome, in modo da opacizzare le desinenze maschili e femminili. Dio* diventa così neutro, senza specificare il sesso. I giovani cattolici in Germania (tra i più accesi sostenitori della riforma della Chiesa in chiave egalitaria, democratica, progressista e, ovviamente, rispettosa del gender) si stanno battendo per far passare questa versione salomonica. Dio con l'asterisco. Di fronte a questa mossa la conferenza episcopale tedesca nonostante le spaccature al suo interno tra progressisti e tradizionalisti si è immediatamente ricompattata per riportare un po' d'ordine. E così l'idea di scrivere Dio* versione politically correct è stata respinta in un amen.

L'ORTOGRAFIA «Il dibattito teologico sulla questione non è rilevante in questo momento. Abbiamo ben altri problemi da affrontare nella Chiesa in questo momento» ha tagliato corto il portavoce della conferenza, Matthias Kopp, aggiungendo che Dio è più del sole, della luna e delle stelle. Quindi, ha aggiunto, «non possiamo afferrare Dio. Non possiamo descrivere Dio a parole». Tutto è nato da un documento della Comunità cattolica giovanile tedesca, Katholische junge Gemeinde, in cui si anticipava la road map delle riforme inclusiva anche dell'ortografia di come definire Dio. I ragazzi motivavano questo passaggio perché i loro coetanei sembrano scoraggiati e stanchi di vedere l'immagine classica di un Creatore raffigurato sempre bianco e maschio. «La rappresentazione di un Dio maschio e bianco non è all'altezza e rende più difficile l'accesso di molti giovani alla Chiesa e alla fede». L'associazione giovanile cattolica (che conta circa 600 mila iscritti) metteva l'accento sulla discriminazione femminile implicita. I vescovi di fronte a questa alzata d'ingegno non sono riusciti a restare silenti. Solitamente tolleranti nei dibattiti diocesani, persino in quelli più estremi (tipo se non sarebbe meglio avere una Papessa) stavolta non ci hanno pensato due volte a reagire. Solo un vescovo ha timidamente accolto con favore l'ipotesi, probabilmente per non inimicarsi i ragazzi, essendo il responsabile del settore giovanile della conferenza episcopale tedesca. Il fatto è che i giovani nemmeno vogliono riflettere sul fatto che le prime parole del Padre Nostro sono appunto, Padre Nostro. Tuttavia ad avere aperto pubblicamente il fronte sulla natura di Dio è stato proprio un Papa, Albino Luciani, il pontefice che regnò solo 33 giorni dopo essere stroncato da un attacco cardiaco. Durante un angelus, domenica 12 settembre 1978, disse: «Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile è papà, più ancora è madre». Ruppe il tabù definendo Dio anche madre. Un altro Papa, trent' anni dopo, Benedetto XVI corresse un po' il tiro e da teologo di peso, nel primo volume del suo Gesù di Nazareth, sulla maternità di Dio ebbe un po' da dire. «Madre non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto». In un altro passaggio Benedetto XVI affermava: «Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell'uomo l'amore della madre appare inscritto nell'immagine di Dio, è tuttavia anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento. Madre nella Bibbia è un'immagine ma non un titolo di Dio». E ancora: «L'immagine del padre era ed è adatta a esprimere l'alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo. Solo mediante l'esclusione delle divinità-madri l'Antico Testamento poteva portare a maturità la sua immagine di Dio, la pura trascendenza di Dio».

I GENERI La Crusca, tempo fa, a proposito del dilagare dell'uso dell'asterisco scriveva che non dobbiamo cercare di forzare la lingua «al servizio di un'ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L'italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale». 

Viviana Ponchia per “QN - Il Giorno” il 5 novembre 2021.  Con la Cancel culture i Monty Python oggi non potrebbero più lavorare. Terry Gilliam lo diceva sconsolato il 19 ottobre: è stato profetico, è toccata a lui. Cancellato. Bandito perché in odore di omofobia. A 80 anni, il regista che fu la spina dorsale del gruppo comico britannico, noto per le provocazioni e l'immaginario senza confini, ha preso il benservito dal teatro londinese Old Vic. Avrebbe dovuto dirigere la commedia musicale Into the woods in cartellone la prossima primavera. Nessuno lo ha spiegato apertamente, ma sono tutti convinti che la cacciata sia dovuta alle sue opinioni sul movimento #Metoo: «Una vera e propria caccia alle streghe, ci sono persone perbene che sono state prese a martellate». Sosteneva anche di odiare il produttore e predatore sessuale Harvey Weinstein, però questo non l'ha notato nessuno. E intanto peggiorava la propria posizione contrattuale smontando il perbenismo mainstream sulle identità sessuali: «A Hollywood c'è molta pressione affinché un personaggio transgender sia interpretato da un attore transgender - aveva dichiarato -. È ridicolo. Non si può più ridere di nessuno. Sono stanco, come maschio bianco, di essere incolpato di qualsiasi cosa. Perciò voglio che mi chiamiate Loretta: lesbica nera in transizione». Loretta mette il dito nella piaga: il politicamente corretto soffoca anche la commedia, l'ossessione per la correttezza del linguaggio ammutolisce il giullare. Sì, i Monty Python non lavorerebbero più. E noi ci saremmo persi un capolavoro come Brian di Nazareth, vero e proprio manuale per smontare la retorica a colpi di risate e assurdità. Era il 1979. E noi molto più liberi senza saperlo, anche se il film fece fatica a finire in sala. Oggi la cancel culture farebbe un salto sulla poltrona e chiamerebbe il boia perché là dentro c'era tutto tranne che il politicamente corretto: umorismo da bar sport, gente deforme, difetti di pronuncia. Non si sfotteva Gesù (il protagonista era il vicino di casa), ma i suoi seguaci e chiunque si faccia incantare da un tizio che dice cose semplici. Eretico ma non blasfemo, un missile sui meccanismi di creazione del consenso. «Un film così divertente che i norvegesi l'hanno censurato», diceva la pubblicità. Ecco, oggi non avrebbe chance. Ma Terry Gilliam riesce ancora a fare incazzare. Non pago del siluramento, ha postato su Facebook un messaggio di sostegno al nuovo spettacolo su Netflix del comico David Chappelle, accusato a sua volta di essere omofobo: «Incoraggio tutti a vederlo. Per me è il più grande umorista vivente. Incredibilmente intelligente, socialmente consapevole, pericolosamente provocatorio e terribilmente divertente». Il teatro non ha gradito, considerando quelle affermazioni «in contrasto con la cultura e i valori dell'Old Vic». Un po' c'è da capirli. Dal 2003 al 2015 hanno avuto come direttore artistico Kevin Spacey, sono stati i più colpiti dall'ondata del #Metoo dopo che l'attore è diventato Barbablù. Ma Gilliam non è il solo a dare segnali di disagio, a marzo anche Ralph Fiennes aveva reagito: «Dobbiamo avere anche le voci che rischiano di essere offensive». Niente, la Cancel culture avanza e spesso viene scorrettamente confusa con il politicamente corretto. Una cosa è dire non vedente al posto di cieco, un'altra considerare il bacio a Biancaneve non consensuale. Si cancellano un libro, uno spettacolo, un professionista perché un gruppo di persone si sente offesa. Si manda al rogo Woody Allen perché negli anni '90 fu accusato dalla ex moglie Mia Farrow di avere violentato la figlia adottiva Dylan e pazienza se non ci sono prove: l'America lo ripudia e Amazon annulla l'accordo di distribuzione dei suoi film. «Ascoltatemi! - implora Brian eletto a gran voce nuovo Messia dopo essere stato rapito dagli alieni - Non sono il Messia! Lo giuro su Dio!». Loretta continua su quella strada.

Scozia, scuola elementare chiede ai maschi di indossare la gonna contro la disuguaglianza. Valentina Mericio il 04/11/2021 su Notizie.it. Una scuola di Edimburgo, al fine promuovere l'uguaglianza di genere, ha chiesto agli alunni di sesso maschile di indossare una gonna. Una gonna per promuovere l’Uguaglianza di genere. È questa la proposta arrivata da una scuola elementare di Edimburgo, la Castleview Primary School, che ha inviato una mail ai genitori degli alunni di sesso maschile e agli insegnanti, di indossare una gonna al fine di promuovere l’inclusività tra maschi e femmine. Una proposta questa che è stata accolta bene dalle famiglie anche se non sarebbero mancate le perplessità. Questa iniziativa è stata proposta dopo che qualche mese fa, uno studente quindicenne dell’istituto di Valladolid in Spagna, fu espulso e finì sotto l’occhio del ciclone dopo che decise di andare a scuola indossando una gonna. Il moto di solidarietà fu immediato grazie anche ai diversi studenti e insegnanti che scelsero a loro volta di indossare la gonna. Nel frattempo l’iniziativa della Castleview Primary School, ha avuto il plauso dell’amministrazione di Edimburgo. Il portavoce a questo proposito ha affermato: “Vogliamo garantire che tutte le nostre scuole siano inclusive e Castleview stia svolgendo molto lavoro positivo per promuovere l’uguaglianza tra i bambini di tutte le età”. Se questa iniziativa è stata da una parte ben accolta sia dalla scuola, che dalle istituzioni, anche da parte delle famiglie degli alunni c’è stato un apprezzamento generale anche se le perplessità espresse sarebbero state diverse. “Se un ragazzo vuole indossare una gonna a scuola, dovrebbe essergli permesso”, sono le parole di uno dei genitori che, ha tuttavia invitato a non fare pressioni sugli indumenti scelti dagli studenti: “Perché fare pressioni per chiedere ai nostri figli di indossare una gonna o essere visti come una sorta di bigotti?”. 

Da "iltempo.it" il 4 novembre 2021. Il delirio politically correct non risparmia nessuno. Neppure il maghetto più amato - e apparentemente innocuo - del cinema. L’atteso ritorno di Harry Potter sul grande schermo per festeggiare i 20 anni di "carriera" si porta dietro qualche veleno di troppo. L’occasione è la proiezione di "Harry Potter e la Pietra Filosofale" che, dopo essere entrato nella storia del cinema vantando il record di incasso al botteghino per il weekend di apertura più alto di sempre, dal 9 al 12 dicembre sarà possibile rivedere nei cinema in Italia. La notizia, accolta con entusiasmo dai milioni di fan italiani, ha "scatenato" gli haters, che attaccano l’autrice J.K. Rowling "rea" di essere diventata miliardaria grazie alla saga del maghetto di Hogwarts (è la seconda persona più ricca d’Inghilterra dopo la regina Elisabetta), ma anche e soprattutto per le sue dichiarazioni divisive sulla comunità Lgbt. «Non voglio più supportare in alcun modo un’autrice che utilizza i suoi guadagni e il suo potere mediatico per sostenere cause transfobiche», scrive uno dei tanti internauti. «Andando al cinema farete guadagnare altri soldi a quella transfobica!», rincara un altro. Un dibattito quantomai attuale anche in Italia, dove la settimana scorsa è andato in scena in Parlamento lo scontro sul ddl Zan. Qualcuno prova a difendere l’incolpevole maghetto: «Harry Potter non è la Rowling», scrive. Ma c’è anche chi difende l’autrice britannica a spada tratta: «Colpevole di essere rimasta una voce libera. Imperdonabile diventare famosi e non adeguarsi alla narrazione dominante», sottolinea un fan. Che l’operazione boicottaggio non sembri alla fine prendere piede sembra comunque assodato, come conferma il sarcasmo di un utente: «Ora so che film andare a vedere con la mia famiglia, grazie!», ironizza eloquentemente. 

Pallamano, bikini vietato. Le donne del beach handball in rivolta: "Sessismo". Lorenzo Pastuglia su Libero Quotidiano il 02 novembre 2021. Bikini? Nella pallamano non verranno più utilizzati perché troppo sessisti. Lo ha deciso la Federazione internazionale, che ha cambiato il regolamento sulle divise femminili del beach handball, o pallamano giocata in spiaggia, dopo le polemiche sollevate in estate per le multe alla nazionale norvegese. Le atlete nordiche, infatti, erano state punite dalla commissione disciplinare della Federazione europea di pallamano (Ehf) perché durante gli Europei avevano indossato dei pantaloncini stile ciclista anziché gli slip da bikini, in segno di protesta contro le regole sull'abbigliamento dello sport, giudicate inique e sessiste. Le nuove regole sull’abbigliamento - Con le nuove regole del beach handball femminile, per l’abbagliamento le atlete dovranno indossare "pantaloncini corti aderenti", e non più "slip del bikini con una vestibilità aderente e tagliati con un angolo in alto verso la parte superiore della gamba". Inoltre, i disegni inclusi nel nuovo regolamento non indicano più un top succinto, come quello richiesto in precedenza, ma una canotta simile a quella della divisa degli uomini, che prevede canottiera e pantaloncini, fin sotto il ginocchio, purché "non siano troppo larghi”. Così ha commentato l'attrice e attivista Talitha Stone, sin dal primo momento a favore della decisione delle giocatrici norvegesi: “Spero che ciò sia l'inizio della fine del sessismo e dell'oggettivizzazione delle donne e delle ragazze nello sport”. Le reazioni alla multa inflitta dall’Ehf - La decisione sulla multa alle atlete norvegesi, infatti, aveva portato a più di una protesta, raccogliendo la solidarietà dell’organizzazione che si occupa di uguaglianza di genere: la “Collettive Shout”. La stessa che ha intrapreso una campagna nella quale sono state raccolte più di 60mila firme. Sul tema si era espressa anche la cantante statunitense Pink, la quale si era offerta di pagare la multa inflitta dalla Federazione alla nazionale femminile norvegese. Il ministro per la Cultura e lo Sport norvegese, Abid Raja, aveva definito le regole sulle divise femminili "del tutto ridicole", mentre da più parti erano state chieste le dimissioni dei presidenti della Federazione europea e di quella internazionale.

Murgia scatena il suo odio contro Ricolfi: ecco cosa ha detto. Daniele Dell'Orco il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. Dopo le reazioni di Gad Lerner e Christian Raimo al debutto del sociologo sul foglio diretto da Maurizio Molinari, la scrittrice sarda va all'attacco col solito ritornello. Puntuale come una cartella di Equitalia, anche Michela Murgia interviene sullo strike cognitivo scatenato dal debutto di Luca Ricolfi su Repubblica. Il sociologo, già beccato da Gad Lerner e Christian Raimo, ora deve incrociare il fioretto anche con l'inventrice del fascistometro. Ma se i suoi sodali avevano colto la palla al balzo per attaccare la linea editoriale del quotidiano romano, la Murgia prende di petto direttamente Ricolfi. Scrive in un Tweet: "Leggo Ricolfi su Repubblica e non posso fare a meno di pensare che il clitoride ha 8000 terminazioni nervose, ma ancora non è sensibile quanto un editorialista italiano maschio bianco eterosessuale quando sente minacciato il suo privilegio". Tralasciando la scelta lessicale come al solito principesca, la Murgia fomenta il suo clan di follower con quel ritornello di aggettivi cadenzati ("italiano maschio bianco eterosessuale privilegio", non potrebbe essere un nuovo tormentone musicale stile "Io sono Giorgia"?) che rappresenta alla perfezione la deriva narrativa del politicamente corretto messa a nudo da Ricolfi. Ma non solo. Perché la sua reazione è dovuta al fatto che il sociologo la chiama in causa in prima persona, pur senza nominarla. Nel suo articolo "Politicamente corretto, le cinque varianti delle parole", Ricolfi scrive: "La nascita di codici di scrittura 'corretti' procede, anche in Italia, in modo del tutto anarchico, in una Babele di autoproclamati legislatori del linguaggio, che si arrogano il diritto di dirci come dovremmo cambiare il nostro modo di esprimerci, non solo riguardo ai generi ma su qualsiasi cosa che possa offendere o turbare. Università, istituzioni culturali, aziende, compagnie aeree, associazioni LGBT, spesso in disaccordo fra loro, fanno a gara e sfornare codici di parola cui tutti – se non vogliamo essere accusati di sessismo-razzismo-discriminazione – saremmo tenuti a adeguarci". E chi meglio della Murgia, la sdoganatrice di schwa e di asterischi a neutralizzare il genere delle parole, potrebbe calzare meglio nella definizione di "legislatore del linguaggio"? In generale, comunque, a Ricolfi è riuscita una tripletta degna del miglior Gigi Riva. In un colpo solo ha ridicolizzato il fronte progressista, smascherato la povertà delle argomentazioni dei sedicenti intellettuali della sinistra, costretto molti di loro a leggere, fino in fondo, qualcosa di davvero interessante.

Daniele Dell’Orco è nato ad Alatri nel 1989. Giornalista pubblicista, è laureato in Scienze della comunicazione presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Ha conseguito il Master in giornalismo Eidos e ha perfezionato gli studi presso la Cuny University di New York. Ha diretto la rivista trimestrale cartacea Nazione Futura. È stato editorialista de La Voce di Romagna ed è collaboratore del quotidiano Libero e del Giornale.it. Per il portale InsideOver ha realizzato reportage da dieci paesi del mondo. Nel 2015 ha fondato la casa editrice Idrovolante.

Guido Crosetto smaschera Michela Murgia: "Pericolosissima totalitarista, dittatrice a sua insaputa". Libero Quotidiano il 06 novembre 2021. Uno scambio di tweet tra Massimiliano Parente e Guido Crosetto è stato piuttosto seguito perché ha avuto come protagonista Michela Murgia. “Quanto fa bene alla causa dei diritti Lgbtq+ - si è domandato lo scrittore - chiedere censure su libri o film o comici bollati come omofobici, transfobici, ecc? Io come scrittore è una vita che combatto contro parentefobici ma non ho mai chiesto la censura di nulla, neppure della Murgia, che ha chiesto la mia”. Nei commenti è arrivata la replica di Guido Crosetto, che non ci è andata per il sottile con la scrittrice rosso-spinto con licenza d’insulto: “La signora Murgia è una pericolosissima totalitarista, una dittatrice a sua insaputa, una persona che disprezza la libertà degli altri e le idee diverse dalla sua (singolare usato apposta)”. Insomma, una stoccata non di poco conto, quella dell’ex parlamentare di Fratelli d’Italia. Proprio negli scorsi giorni la Murgia ha sollevato un certo sdegno per un commento su Luca Ricolfi, che aveva firmato un primo editoriale per Repubblica dedicato al politicamente corretto. Contro il quale il sociologo si batte con forza e orgoglio, suscitando però la rabbia della Murgia, che su Twitter ha commentato così: “Leggo Ricolfi su Repubblica e non posso fare a meno di pensare che il clitoride ha 800 terminazioni nervose, ma ancora non è sensibile quanto un editorialista italiano maschio bianco eterosessuale quando sente minacciato il suo privilegio”.

Daniele Dell'Orco per il Giornale il 2 novembre 2021. Dev'essere davvero dura la vita di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica. Dura perché storicamente la destra lo accusa di essere troppo di sinistra, e ora la sinistra ha iniziato ad accusarlo di essere troppo di destra. Il misfatto è accaduto con l'approdo del sociologo Luca Ricolfi tra le firme del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, con un long-form tra l'altro dedicato al "politicamente corretto" e alle sue derive. Il contrappasso è notevole, perché in effetti Repubblica ha ingaggiato qualcuno che su Repubblica ha il coraggio di spiegare il caos comunicativo, narrativo e intellettuale prodotto da una convenzione sociale che media come Repubblica hanno contribuito a consolidare. Nel suo excursus temporale che parte da fine anni '70 negli Stati Uniti, Ricolfi spiega bene come il politicamente corretto si sia trasformato in qualcosa di assai pericoloso per la convivenza democratica, con la sua neolingua, con i suoi modi censori, con quel gigantesco tribunale popolare chiamato a giudicare la storia che è il mantra della "cancel culture". Ricolfi, insomma, ha spiegato a Repubblica quanto abbiano lavorato male da trent'anni a questa parte. E la cosa non è piaciuta per niente a chi invece di politicamente corretto ci vive, e bene. Gad Lerner, il comunista col Rolex, ha twittato: "Complimenti a Luca Ricolfi. Il suo odierno approdo a Repubblica, il giornale della sinistra 'antipatica' contro cui ha condotto una coerente battaglia culturale, è a suo modo una vittoria. Può compiacersi di avere espugnato la roccaforte nemica. Metamorfosi di un giornale..." Perché per Lerner, abituato a dover fare lui da maestrino e a dover spiegare lui alla destra come dover fare la destra, non può che essere un giorno triste. Lui, abituato a ragionare ancora come ai tempi di Lotta Continua, non può certo gioire del fatto che un quotidiano progressista possa ospitare (anche) delle firme di buon senso anziché passare ogni giorno a blaterare di "pericolo fascismo". E lo stesso dicasi per l'intellettuale militante, Christian Raimo, uno che vive di steccati ideologici e che senza quelli non sarebbe in grado nemmeno di ritrovare la via di casa propria. C'è anche Raimo, infatti, nella prima fila degli "indignados", come dimostra il suo retweet al compagno Lerner accompagnato dalla didascalia: "Repubblica diventa sempre di più un giornale minoritario di destra". Certo, perché per la sinistra il problema è sempre lo stesso: predicare bene e razzolare male. Cianciano di pluralismo, libertà di pensiero, confronto e dibattito ma poi quando arriva davvero, la scure del pluralismo, sono i primi a rimpiangere i bei vecchi tempi in cui si poteva essere antagonisti e fieri di esserlo.

Politicamente corretto, le cinque varianti delle parole. Luca Ricolfi su La Repubblica il 31 ottobre 2021. Come il linguaggio “giusto” si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso e assai più pericoloso per la convivenza democratica. Quando, esattamente, sia nato il “politicamente corretto” nessuno lo sa. Sul dove, invece, siamo abbastanza sicuri della risposta: negli Stati Uniti. La sinistra americana, un tempo concentrata – come la nostra – sulla questione sociale, ossia sulle condizioni di lavoro e di vita dei ceti subalterni, a un certo punto, collocato tra le fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ha cominciato a occuparsi sempre più di altre faccende, come i diritti civili, la tutela delle minoranze, l’uso appropriato del linguaggio. Questa posizione, profondamente idealistica e anti-marxista, condusse, nel giro di un decennio, a conferire una centralità assoluta ai problemi del linguaggio, e a creare un fossato fra la sensibilità dei ceti istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini, impegnati con problemi più terra terra, tipo trovare un lavoro e sbarcare il lunario. Fu così che venne bandita la parola “negro” (sostituita con nero), e per decine di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio), vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare.

In Italia, che io ricordi, solo Natalia Ginzburg ebbe il coraggio e la lucidità di notare, fin dai primi anni ’80, l’ipocrisia e la natura anti-popolare di questa svolta linguistica, che non solo preferiva cambiare il linguaggio piuttosto che la realtà, ma creava una frattura fra linguaggio pubblico e linguaggio privato, fra l’élite dei virtuosi utenti della neo-lingua e i barbari che continuavano a chiamare le cose come si era fatto per secoli e secoli senza che nessuno si offendesse. Ebbene, questa storia a noi può sembrare ancora attuale, ma è una storia del secolo scorso. Chi crede che, oggi, il politicamente corretto sia usare una parola giusta al posto di una sbagliata si è perso la parte più interessante del film. Un film che in Italia è ancora alle prime battute, ma in America è andato molto avanti, in un tripudio di scene estreme e di effetti speciali. Oggi il politicamente corretto si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso, e assai più pericoloso per la convivenza democratica. Il politicamente corretto di oggi sta al politicamente corretto delle origini come le varianti più recenti del virus stanno al virus originario (quello di Wuhan). Per capire perché dobbiamo individuare le mutazioni che, nel giro di un ventennio, lo hanno completamente trasformato. La prima mutazione (da cui la variante alpha) è intervenuta all’inizio del XXI secolo, con Internet e la creazione del nuovo spazio pubblico dei social. Fino a ieri, per risentirti se uno ti chiama spazzino dovevi incontrare una persona in carne e ossa, e accorgerti della sua eventuale intenzione di offenderti. Oggi, se navighi su Internet o stai sui social, hai mille occasioni quotidiane per offendere e sentirti offeso. L’arena dei social, dove imperversano volgarità e offese alla grammatica, è un perfetto brodo di coltura delle suscettibilità individuali. Lo ha descritto benissimo Guia Soncini nel suo ultimo libro (L’era della suscettibilità, Marsilio). La variante alpha è la più trasmissibile. La seconda mutazione (da cui la variante beta) è l’espansione della dottrina del “misgendering” in tutti gli ambiti. Che cos’è il misgendering? È chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile (cari colleghi) se ci si riferisce a un collettivo misto. Secondo le versioni più demenziali della correttezza politica in materia di generi, assai diffuse nelle università americane, i professori dovrebbero chiedere ad ogni singolo allievo come preferisce essere indicato: he, she, zee, they, eccetera. Gli epigoni meno dotati di senso del ridicolo, da qualche tempo attivi anche in Italia, aggiungono regole di comunicazione scritta tipo usare come carattere finale l’asterisco * (cari collegh*), la vocale u (gentilu ascoltatoru), o la cosiddetta schwa (?) (benvenut? in Italia) per essere più “inclusivi”, ovvero non escludere o offendere nessuno. La nascita di codici di scrittura “corretti” procede, anche in Italia, in modo del tutto anarchico, in una Babele di autoproclamati legislatori del linguaggio, che si arrogano il diritto di dirci come dovremmo cambiare il nostro modo di esprimerci, non solo riguardo ai generi ma su qualsiasi cosa che possa offendere o turbare. Università, istituzioni culturali, aziende, compagnie aeree, associazioni LGBT, spesso in disaccordo fra loro, fanno a gara e sfornare codici di parola cui tutti – se non vogliamo essere accusati di sessismo-razzismo-discriminazione – saremmo tenuti a adeguarci. Fra i più deliranti di tali codici quelli emersi recentemente nell’industria delle comunicazioni audio e in ambito informatico. D’ora in poi un operaio, se non vuole essere accusato di sessimo, non potrà più parlare di jack maschio e jack femmina, e dovrà sostituire questi termini con spina e presa. Quanto agli informatici, guai parlare di architettura master-slave, che evocherebbe il dramma della schiavitù. E guai pure a parlare di quantum supremacy (supremazia dei calcolatori quantistici su quelli tradizionali): la parola supremacy è proibita, perché rischia di evocare il suprematismo bianco. La terza mutazione (da cui la variante gamma) è la cosiddetta cancel culture, secondo cui tutta l’arte e la letteratura, compresa quella del passato, andrebbe giudicata con i nostri attuali parametri etici, e censurata o distrutta ogniqualvolta vi si trovano espressioni, immagini, o segni potenzialmente capaci di turbare la sensibilità di qualcuno. Le case editrici si dottano di sensitivity readers, che passano al setaccio i manoscritti non per valutare il loro valore artistico, ma per vedere se contengono anche la minima traccia di idee che potrebbero urtare qualcuno. Le statue dei grandi personaggi del passato vengono distrutte o imbrattate. I dipinti di Paul Gaugin vengono censurati perché il pittore aveva sposato una minorenne. Il finale della Carmen di Bizet viene capovolto, perché nel finale la protagonista viene uccisa da don Josè, e noi non ce la sentiamo di mettere in scena un femminicidio (ma un omicidio messo in atto da una donna sì). La quarta mutazione (da cui la variante delta) è la discriminazione nei confronti dei non allineati. Professori, scrittori, attori, dipendenti di aziende, comuni cittadini perdono il lavoro, o vengono sospesi, o vengono sanzionati, non perché abbiano commesso scorrettezze nell’esercizio della loro professione, ma perché in altri contesti, o in passato, hanno espresso idee non conformi al pensiero dell’élite dominante. Non solo: nella politica delle assunzioni, in particolare nelle facoltà umanistiche, vengono esclusi gli studiosi non allineati all’ortodossia politica dominante. La quinta mutazione (da cui la variante epsilon) è forse la più preoccupante. È la cosiddetta identity politics. Un complesso di teorie, filosofie, rivendicazioni, secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni. Da qui derivano le idee più strampalate, ad esempio che per tradurre un romanzo di una autrice nera tu debba essere nera (è successo). Che per parlare di donne tu debba essere donna; per parlare di omosessualità essere omosessuale; per parlare dell’Islam essere islamico; per parlare dell’Africa essere africano. Se osi parlare di qualcosa senza essere la cosa stessa sei accusato di «appropriazione culturale». Ma da qui deriva, soprattutto, l’idea che nell’accesso a determinate posizioni non contino il talento, la preparazione, la competenza, le abilità, l’esperienza, ma che cosa hanno fatto i tuoi antenati. Se sono maschi bianchi eterosessuali devi lasciare il passo a chi ha antenati più in linea con l’ideologia dominante. Perché i discendenti delle minoranze doc hanno diritto a un risarcimento, e i discendenti dell’uomo bianco (anche se non hanno alcuna colpa) devono pagare per le colpe, vere o presunte, dei loro progenitori colonialisti, oppressori, schiavisti, in ogni caso privilegiati. All’ideale dell’eguaglianza, generosamente perseguito da Martin Luther King, che pensava che tutte le differenze di razza, etnia, genere dovessero diventare irrilevanti, perché a contare dovevano essere solo le altre differenze (quelle che fanno di ogni individuo quel che è, con i suoi pregi e i suoi difetti), subentra l’idea opposta che solo le differenze di razza, etnia, genere contino. Lo scopo delle grandi istituzioni educative, a partire dalle università, non è più promuovere la conoscenza e ricercare la verità, ma combattere le ingiustizie sociali, riequilibrando le diseguaglianze con azioni positive, che privilegiano determinate minoranze e penalizzano maggioranza e minoranze non protette, prescindendo dai meriti e dalle capacità di ogni individuo. Così la parabola della cultura liberal si compie. L’ideale di Martin Luther King e di tanti leader illuminati del passato (compreso Barack Obama), sconfiggere le discriminazioni con l’eguaglianza, si capovolge nel suo contrario: instaurare l’eguaglianza attraverso le discriminazioni.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 31 ottobre 2021. Per fare parte delle Forze Armate è necessario mantenersi in forma ed essere in grado di sopportare e portare a termine prove fisiche di alto livello. Non si tratta di un'affermazione ovvia, perché il caso è stato appena discusso in un tribunale. Il fatto che un superiore sottolinei in una scheda di valutazione l'eccessivo peso di un soldato non è sbagliato, secondo il Tribunale amministrativo della Toscana. La censura, per i magistrati, non rientra tra le pratiche di body shaming, ma fa parte dei normali criteri di valutazione del personale sottoposto gerarchicamente. Per questo motivo, il collegio ha respinto il ricorso di un caporalmaggiore che presta servizio in un reggimento con sede in Toscana. Il sottufficiale aveva chiesto ai magistrati amministrativi l'annullamento di una serie di schede valutative compilate da un superiore, da lui ritenute ingiuste nei suoi confronti. È necessario fare una precisazione: il soldato svolge la mansione di contabile. E proprio per questo motivo considerava superflui e inadeguati i passaggi nei quali il capo sottolineava il suo aspetto esteriore e, soprattutto, il suo peso corporeo. Nella sentenza, emessa dai giudici della I sezione, si legge che «il ricorrente lamenta che la superiorità delle funzioni contabili rispetto al grado da egli ricoperto sarebbe incompatibile con certi giudizi non lusinghieri espressi dal superiore». In particolare, il sottufficiale «si duole del fatto che il suo peso corporeo sia per la prima volta stato preso in considerazione nella nuova scheda valutativa come fattore di limitazione delle possibilità di impiego». Per i magistrati, però, si tratta di una «doglianza priva di pregio». Per due motivi: il giudizio sull'aspetto esteriore del Caporale era stato «abbassato» in alcuni precedenti rapporti informativi poi annullati dallo stesso Esercito e sostituiti dalle schede valutative e, soprattutto, «la notazione inerente il peso eccessivo non appare fuori luogo, atteso che si tratta di un fatto che, obiettivamente, può condizionare le possibilità operative del militare». Per i giudici non importa il fatto che il soldato sia impiegato nel reparto contabile: nelle motivazioni della sentenza si legge infatti che l'uomo, «ancorché svolga mansioni d'ufficio, non può mai essere assimilato ad un semplice impiegato». Non è la prima volta che il Tar si esprime sui requisiti fisici di componenti di Esercito, appartenenti alle forze dell'ordine o al dipartimento Protezione civile. Negli anni scorsi, per esempio, diversi candidati avevano fatto ricorso diventare Vigili del fuoco, nonostante non raggiungessero il limite di altezza minimo che, all'epoca, era 165 centimetri. Nel 2017, il Tribunale amministrativo aveva dichiarato «illegittimo» il limite di altezza fissato. L'incongruenza derivava dal fatto che lo stesso limite non era mai stato applicato per coloro che facevano parte dei volontari e svolgevano praticamente le stesse mansioni del personale stabilizzato. Per i magistrati, la prescrizione di requisiti di statura differenziati risultava «contraddittoria e irragionevole in quanto non è giustificata da una sufficiente diversità delle mansioni dato che il personale volontario dei Vigili del fuoco svolge gli stessi compiti ed esercita le stesse funzioni di quello effettivo». I magistrati si sono espressi diverse volte anche su candidati esclusi dal concorso per entrare in Polizia, o nei Carabinieri, perché avevano un tatuaggio troppo vistoso.

Alessandro Camilli per blitzquotidiano.it il 29 ottobre 2021. Puoi sparare a un nero, ma non ferire i sentimenti di un gay… un comico afroamericano si è permesso questa battuta di amarissima ironia. Ed è stato subito messo all’indice, alla gogna e, se possibile, ai ceppi dal nuovo movimento puritano che monta e intasa e ostruisce la libera vita pubblica negli Usa. Il Puritanesimo intollerante, talebano e…progressista. O sedicente tale. Il Puritanesimo delle statue abbattute, della storia da purgare. Purgare da Shakespeare, Dante, la musica classica, la letteratura occidentale, il greco, il latino, l’età greco-romana, la filosofia del Rinascimento e anche l’Illuminismo e la rivoluzione e civiltà industriale. Tutto da purgare perché tutto espressione e manufatto del grande stregone maligno che avvelena e inquina il mondo: l’uomo bianco eterosessuale. Questo nuovo Puritanesimo già divenuto soffocante, che ha già le mani sulla carotide della libertà di pensiero e che ha già espresso voglia di falò di cattivi esempi nei libri, quadri, testi, immagini… Questo nuovo Puritanesimo va a sommarsi negli Usa a quello tradizionale. In una gara a chi sviluppa maggiore ottusità e ferocia. Il Puritanesimo di chi non vi è altro Libro se non la Bibbia (l’eco di non vi è altro Libro se non il Corano in Occidente facciamo finta di non sentirlo). Il Puritanesimo delle Chiese Evangeliche e di certo cattolicesimo americano che porta ad esempio i Texas a legiferare premio-taglia per chi scopre un tentativo di aborto. Il Puritanesimo del non esiste evoluzione e scienza, il mondo ha solo poche migliaia di anni e tutto il resto è eresia. Il Puritanesimo del non insegnate la scienza ai nostri figli, nella scienza c’è il diabolico. Ed ora, col medesimo intento, assegnandosi la stessa missione di stanare e stangare gli “infedeli” e gli “impuri” ecco il nuovo Puritanesimo, quello che Churchill era un razzista, una macchia della storia dell’uomo bianco e poco smacchia aver sconfitto Hitler. Quello che ogni rapporto o relazione eterosessuale è o sospettabile di intrinseche molestie mentre ogni relazione omosessuale è puro amore. C’è molto, moltissimo da temere, anche da questa parte dell’Atlantico, dal sommarsi oltre oceano dei due Puritanesimi, due maxi onde tra le quali la libera società americana annaspa.  

Gli americani fanno un fascio dei razionalisti. Francesco Giubilei il 30 Ottobre 2021 su Il Giornale. Sono finiti i tempi del grand tour quando intellettuali e pensatori americani venivano a Roma per ammirare le bellezze dell'antichità classica, eppure l'arte e la cultura italiana hanno offerto anche nel Novecento esempi di eccellenza. Sono finiti i tempi del grand tour quando intellettuali e pensatori americani venivano a Roma per ammirare le bellezze dell'antichità classica, eppure l'arte e la cultura italiana hanno offerto anche nel Novecento esempi di eccellenza. L'architettura razionalista di Marcello Piacentini ne è l'emblema, il quartiere dell'Eur in cui oggi si apre il G20 rappresenta il massimo esempio di razionalismo. Fino a qualche anno fa avremmo letto sulle pagine dei quotidiani stranieri reportage scritti da giornalisti che esaltavano il valore artistico e culturale di monumenti come il Colosseo Quadrato e l'obelisco dedicato a Guglielmo Marconi, di dipinti come la Fondazione di Roma di Giorgio Quaroni o l'affresco Tutte le strade conducono a Roma di Achille Funi nel Palazzo dei Congressi, fino ai mosaici di Gino Severini. Oggi, in un'epoca di cancel culture dilagante, siamo costretti a commentare un articolo del Washington Post intitolato «Lo strano sfondo del G20: un quartiere costruito come fiore all'occhiello fascista» in cui si sostiene che, essendo l'Eur costruito durante il fascismo, bisognerebbe prendere spunto da quanto avvenuto negli Stati Uniti e in altri Paesi europei eliminando i monumenti poiché è «scioccante che, mentre i monumenti di schiavisti, generali confederati, re e colonizzatori sono stati eliminati negli Stati Uniti e in gran parte d'Europa, a Roma sono entrati a far parte del panorama». Premesso che non devono essere giornalisti americani a suggerirci cosa fare dei monumenti di Roma (d'altro canto non è una polemica nuova, già nel 2017 il New Yorker in un articolo che fece discutere si chiedeva: «Perché ci sono così tanti monumenti fascisti a Roma?»), ridurre il razionalismo a un fenomeno prettamente fascista significa non tenerne in considerazione il valore storico, culturale e artistico universalmente riconosciuto. Basterebbe lasciare da parte l'ideologia e soffermarsi sulla bellezza delle sculture e delle architetture marmoree passeggiando per le strade dell'Eur che ancora, per fortuna, non è stato deturpato dalle scure del politicamente corretto.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 p

Abbattere l’EUR: l’imperialismo del politicamente corretto. Marco Gervasoni il 29 Ottobre 2021 su culturaidentita.it. Arriva Biden a Roma per il G20 e la sinistra americana chiede di abbattere l’Eur. Se non tutto il quartiere (che poi ci sarebbero pure gli abitanti…) almeno “le statue di schiavisti, re, generali e colonizzatori”. I moderni Unni (che poi a dire il vero furono molto più rispettosi del passato rispetto ai Black Lives Matter di oggi) stanno nel Washington post, giornale Bibbia dei liberal Usa e, come tutti sanno, di proprietà di Jeff Bezos, cioè del proprietario di Amazon. Massì, disintegriamo il Palazzo della Civiltà Italiana e sostituiamolo con un più democratico e “inclusivo” centro Amazon per la spedizione di merci in tutta Italia. Questo l’articolista del giornale di Bezos non lo scrive: lo aggiungiamo noi, perché siamo cattive persone. Si scherza ma in realtà c’è poco da scherzare. E ci sono almeno tre questioni da sollevare. La prima è che questo politicamente corretto, oggi definito woke, condanna colonialisti e imperialisti, ne butta giù le statue e le effigi, ma possiede poi esattamente un atteggiamento colonialista e imperialista. Come, scrive il WP, arriva il presidente Biden, l’imperatore della democrazia globale, e noi in Us abbiamo abbattuto persino la statua di Thomas Jefferson, e voi italiani pezzenti e arretrati, vi tenete quelle costruite dagli architetti di Mussolini? Come vi permette? Veniamo noi ad importarvi la democrazia cancellatrice. La seconda questione riguarda l’Eur. Non è la prima volta che il globalismo politicamente corretto lo prende di mira. Molti ricorderanno un’intemerata dell’allora ahimè presidente della Camera Laura Boldrini, anche lì dietro spinta americana, visto che l’eliminazione dei monumenti fascisti è cavallo di battaglia di una storica della letteratura italiana, Ruth Ben-Ghiat, auto proclamatasi storica del fascismo, ovviamente ultra liberal (tendenza radical chic secondo gli ortodossi canoni tomwolfiani). Ebbene, lo diciamo chiaro e forte: giù le mani dall’Eur, un capolavoro di urbanistica e di monumentalistica, in cui modernità e tradizione si fondono perfettamente, un gioiello della identità italiana. Come scriveva Edoardo Sylos Labini nell’editoriale del numero di giugno 2019, con la splendida copertina di Mauro Reggio, l’Eur rappresentava, e rappresenta ancora, “l’intuizione di costruire la città del futuro”. La terza questione è che non si fermeranno all’Eur. Guido Crosetto stamane twitta “allora abbattiamo il Colosseo”. Meglio non suggerire, anche se sicuramente ci stanno già pensando. Se per il politicamente corretto woke e Black Lives Matter va cancellato tutto quello che riguarda la memoria del passato, in particolare quello legato a società che utilizzavano gli schiavi, organizzate ad impero, ebbene le memorabilia dell’antica Roma dovrebbero essere rase al suolo tutte. Il fascismo è solo un pretesto: il movimento woke è una tendenza rivoluzionaria, figlia dello gnosticismo e del settarismo protestante, che assomiglia però all’islam dei talebani, e del resto utilizza gli stessi mezzi. Va fermato in ogni modo. Siamo qui anche per questo.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 26 ottobre 2021. Con una magnifica doppietta, sabato e lunedì il Foglio ha proposto due lunghi articoli di Bari Weiss (ha lasciato il New York Times poiché, dice, ormai è diretto da Twitter) e Anne Applebaum. L'una e l'altra raccontano l'America di oggi e la lettera scarlatta applicata a chiunque sia giudicato colpevole di cattivi pensieri: uno per tutti, il professore che osò tradurre like in cinese, e ne uscì una parola dal suono troppo simile alla N Word (cioè la Parola N, nigger, che non si può più scrivere nemmeno per citarla, dunque abbiate pietà di me). Bene, il prof è stato licenziato per negligenza. Ho letto il pezzo di Bari Weiss nelle ore in cui Alessandro Barbero era sotto processo pubblico per aver detto che le donne non hanno successo in certi campi forse perché sono strutturalmente diverse dagli uomini. Ormai lo abbiamo capito, Barbero ha impulsi suicidi, e infatti è stato condannato per sessismo con feroce e unanime ansia purificatrice. Ma davvero qualcuno crede che Barbero consideri le donne inferiori? Davvero non ci si ravvisa una spaventosa, catartica lapidazione? L'unica differenza con l'America - mi ha detto un amico - è che qui non chiedono ancora il licenziamento del mostro. Tempo poche ore e il grande salto è stato compiuto. Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva, ha suggerito alla Rai di liberarsi dell'indegno storico adesso e per sempre. Il reato di cattivo pensiero, da pagare col licenziamento, arriva dal Parlamento (e non dai pericolosi fascisti), cioè dal tempio della libertà di opinione. Di ogni opinione, non solo quelle maggioritarie su Twitter. Si salvi chi può.

Da video.repubblica.it il 24 ottobre 2021. Laura Delaudi e Simona Alvisi sono una coppia nella vita e nella danza. Simona la dama, Laura il cavaliere, vestita con il frac: "Perché bisogna dare il tempo agli altri di abituarsi - scherzano raccontandosi durante un allenamento, nella palestra di Genova Begato con il loro maestro Pierangelo Lavezzato - ma chissà, un domani potremmo anche vestirci uguali". Una storia che sa di prime volte, di brecce aperte contro gli stereotipi. Sono ballerine di danze standard in coppia (valzer lento, tango, valzer viennese, slow fox, quickstep) e sono la prima coppia dello stesso sesso in Italia ad aver chiesto di partecipare alle gare. Vincendone tante, e piazzandosi sul podio ad esempio agli ultimi campionati italiani dell'Associazione nazionale maestri di ballo. Ma mentre questa e altre federazioni minori le hanno ammesse alle competizioni, quella più grande e affiliata al Coni, la Fids, Federazione italiana danza sportiva, ancora no. Perché ha un regolamento rigido: la dama deve essere donna e il cavaliere uomo. "Ma tutto questo ha ancora senso oggi?", si chiedono Laura e Simona. Lo abbiamo chiesto alla Fids. Che apre uno spiraglio.

Da askanews.it il 23 ottobre 2021. La città di New York ha approvato lunedì 18 ottobre la rimozione della statua di Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, esposta nella camera di consiglio da più di un secolo, a causa del suo passato da schiavista. Una commissione del consiglio comunale adottò all’unanimità il principio del ritiro di Jefferson, che fu anche uno degli autori della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti. Jefferson tenne più di seicento schiavi nella sua piantagione in Virginia. Ebbe sei figli da uno di questi schiavi. La rimozione della statua era stata richiesta per diversi anni dai consiglieri comunali latini e neri, e ora si prevede che la statua si unisca a una sala della New York City Historical Society. Terzo presidente degli Stati Uniti, “Jefferson rappresenta alcune delle pagine più vergognose della lunga e articolata storia del nostro paese”, ha affermato il consigliere afroamericano della città di New York Adrienne Adams. Il dibattito sulla presenza di questa statua nella sala consiliare del municipio di New York era stato rilanciato con il movimento Black Lives Matter, nato dalla morte dell’afroamericano George Floyd, asfissiato sotto il ginocchio di un poliziotto bianco nel maggio 2020 a Minneapolis. Dopo diversi anni di tensioni incentrate sul passato schiavista degli Stati Uniti, l’8 settembre in Virginia è stato sfatato il monumento più importante denunciato come simbolo razzista del Paese: è caduta la gigantesca statua del generale Lee, ex comandante dei sudisti dal suo piedistallo dopo essere stato sul piedistallo per più di 130 anni a Richmond.

Il vero volto (discriminatorio) dell’antirazzismo liberal. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 24 ottobre 2021. Parafrasando Pier Paolo Pasolini, siamo dinanzi al “razzismo degli antirazzisti”: sembra infatti un paradosso, ma negli Stati Uniti e, in generale, nel mondo anglosassone, l’antirazzismo liberal si sta – non troppo lentamente – trasformando in un razzismo “sistemico” nei confronti dei bianchi. A denunciarlo non è certo una testata conservatrice o di estrema destra ma Leighton Woodhouse sul blog della ex giornalista e redattrice del New York Times, Bari Weiss. Come spiega Woodhouse, infatti, la soluzione proposta dall’antirazzismo woke non è quella che “insegnavano Martin Luther King e Thurgood Marshall” ossia che “tutti gli esseri umani sono uguali e quindi ogni tipo di discriminazione è un male. Si tratta, invece, in modo esplicito, di abbracciare la discriminazione, ma questa volta come strumento di ‘equità’. In pratica, questo significa una discriminazione razziale contro i bianchi e gli asiatici”. Questo per “compensare” i secoli di razzismo che gli afroamericani hanno provato sulla propria pelle per colpa dei bianchi.

La nuova concezione di razzismo: dimenticata la lezione di Martin Luther King

Nel suo libro del 2019 How To Be an Antiracist, lo storico Ibram X. Kendi spiega cosa significa essere “antirazzisti” nell’America di oggi. “L’unico rimedio alla discriminazione razzista è la discriminazione antirazzista. L’unico rimedio alla discriminazione passata è la discriminazione presente. L’unico rimedio alla discriminazione attuale è la discriminazione futura” scrive Kendi. Tanto che il Wall Street Journal si chiede, a proposito delle teorie del controverso storico: “La cura per il razzismo è davvero più razzismo?”. Come sottolinea RealClear Politics, per comprendere appieno il nuovo antirazzismo, dobbiamo ricordare la definizione tradizionale di razzismo: stereotipizzazione, denigrazione, emarginazione o esclusione delle persone sulla base della razza. Definizione che ha cambiato radicalmente significato in “emarginazione e/o l’oppressione delle persone di colore basate su una gerarchia razziale socialmente costruita da chi privilegia i bianchi”.

Dopo la morte di George Floyd e le proteste di Black Lives Matter, questo modo di pensare e concepire il razzismo ha cominciato a dilagare nei campus universitari, sui media liberal, nell’opinione pubblica, diventando un dogma indiscutibile. L’aspetto centrale di questa nuova concezione di “razzismo” è che non è più neutrale rispetto alla razza. Ora è impossibile, per definizione, che i bianchi siano vittime del razzismo. La definizione stessa costruisce una “gerarchia razziale” per cui solo le persone di colore possono essere vittime e solo i “bianchi” possono emarginare o opprimere. I bianchi non possono in alcun modo essere vittime, solamente “carnefici”, oppressori e privilegiati. Chi nasce bianco, già in culla, è accusato di essere parte di un sistema che privilegia i bianchi. Non è forse una concezione razzista quella secondo cui una persona di colore è vittima del razzismo, per definizione e, al contrario, una persona identificata come “bianca” è razzista?

Il razzismo contro i bianchi è realtà?

Che la nuova concezione di antirazzismo sia ormai parte del dna culturale della sinistra progressista americana e dei liberal, lo dimostrano anche le azioni dell’amministrazione Biden. Come sottolinea Woodhouse, lo scorso marzo, il presidente Biden ha firmato il Rescue Plan Act, che avrebbe dovuto aiutare gli americani che ancora si stanno riprendendo dal Covid-19. Il disegno di legge ha stanziato 4 miliardi di dollari solo per gli agricoltori di colore, che hanno perso terreno per anni e ora costituiscono solo il 2% di tutti gli agricoltori americani. Questa era, sostenevano i sostenitori, una forma di “giustizia riparativa”, dato che gli agricoltori afroamericani erano stati duramente colpiti da decenni di “razzismo sistemico”. Peccato che negli Stati Uniti l’agricoltore medio guadagni appena circa  45.000 dollari l’anno e la stragrande maggioranza degli agricoltori, di tutte le razze, sta affogando nei debiti.

A porre fine a questa evidente discriminazione è fortunatamente intervenuto il Wisconsin Institute for Law and Liberty, il quale ha intentato una causa contro il governo federale. Un‘ingiunzione del tribunale ha messo fine a quello che ha definito “una diffusa discriminazione”. Perché mai gli agricoltori del 2021 dovrebbero essere ritenuti responsabili e dunque penalizzati di un qualcosa che non hanno commesso? Altro esempio concreto del razzismo contro i bianchi – e asiatici – è rappresentato dalla clamorosa decisione dell’Art Institute of Chicago, che il mese scorso ha licenziato i suoi docenti universitari – volontari – per essere troppo bianchi e troppo benestanti. I 122 volontari avevano dedicato, in media, 15 anni della loro vita al museo, e avevano una profonda conoscenza delle sue oltre 300.000 opere d’arte. Questa forma discriminatoria di “antirazzismo” non è una tuttavia prerogativa dei soli Stati Uniti. Come riportato nelle scorse settimane dal Giornale.it, nel Regno Unito succede che l’English Tour Opera, una delle più importanti compagnie liriche internazionali, ha deciso di lasciare a casa metà dei suoi musicisti orchestrali e di non rinnovare loro il contratto. Motivo? Hanno la pelle del colore “sbagliato” e devono lasciare il posto ad altri, appartenenti alle minoranze. Non conta che questi 14 musicisti siano dei veterani, che siano bravi e professionali, no: sono bianchi, dunque addio.

La teoria critica della razza

Per gli attivisti antirazzisti tutto ciò si basa sulla Teoria critica della razza. Secondo i suoi sostenitori, la “supremazia bianca”, attraverso il “razzismo sistemico”, esiste e mantiene il potere attraverso la legge e una visione della storia vista sotto la prospettiva dei bianchi. Secondo tale teoria, “il razzismo è radicato nel tessuto e nel sistema della società americana” ed è pervasivo nella cultura dominante”. Come riportato da InsideOver, molti studiosi e accademici hanno criticato la teoria critica della razza e i suoi sostenitori spiegando che essa fomenta il razzismo dei neri contro i bianchi e dunque una guerra cultura insuperabile.

Tra questi c’è il giudice Richard Posner della Corte d’Appello del Settimo Circuito degli Stati Uniti, il quale ha sostenuto, nel 1997 che la teoria critica della razza “volta le spalle alla tradizione occidentale dell’indagine razionale, rinunciando all’analisi per la narrativa”. Inoltre, rifiutando l’argomentazione ragionata, i teorici della razza critica, “rafforzano stereotipi sulle capacità intellettuali dei non bianchi”. L’ex giudice Alex Kozinski, che ha prestato servizio presso la Corte d’Appello del Nono Circuito, ha criticato i teorici critici della razza nel 1997 per aver sollevato “barriere insuperabili alla comprensione reciproca” e quindi eliminando opportunità di “dialogo significativo”.

Paola Italiano per lastampa.it il 22 ottobre 2021. «Ovviamente la narrazione ha un impatto reale nel mondo reale. Un impatto che può essere estremamente positivo ma può anche essere negativo. Chiaramente ho rovinato la comunicazione interna all’azienda, avrei dovuto gestirla con più umanità. Voglio dire che avevo un gruppo di dipendenti che stavano provando un grande dolore per via di una nostra decisione. E questo doveva essere capito prima di agire e io non l’ho fatto». Con queste dichiarazioni rilasciate a Variety il co-Ceo di Netflix Ted Sarandos si è scusato con i dipendenti dopo le polemiche della comunità Lgbtq+ innescate dallo show “The Closer” del comico Dave Chappelle, accusato di transfobia. Sarandos aveva replicato con una mail aziendale nella quale affermava che non è vero che i contenuti di uno show generino conseguenze nella vita reale, facendo l’esempio della violenza che, sempre stando alle sue dichiarazioni, è aumentata negli ultimi 30 anni all’interno dei prodotti dell’industria culturale e dell’intrattenimento, senza per provocare un aumento della violenza nella vita reale. Dichiarazioni a uso interno che erano state divulgate all’esterno, generando nuove polemiche. Lo show di Chappelle è stato accusato di alimentare pregiudizi e stereotipi contro la comunità Lgbtq. Sarandos aveva difeso il gigante dello streaming sottolineando anche la pluralità dei contenuti ospitati sulla piattaforma e citando tra gli altri gli show di Hannah Gadsby, attrice comica che aveva messo in scena con il pluripremiato “Nanette” la storia a tratti tragica del suo coming-out e che aveva seccamente replicato mandando a quel paese Sarandos senza giri di parole. L’intervista a Sarandos esce a poche ore dallo sciopero indetto dai dipendenti di Netflix con un presidio di protesta davanti alla sede di Sunset Boulevard. La prima a scagliarsi contro lo show di Chappelle era stata una persona trans dipendente di Netflix, Terra Field, successivamente sospesa dal lavoro e poi reintegrata. Un altro dipendente è stato invece licenziato con l’accusa di aver divulgato dati riservati dell’azienda, in particolare il costo dello show di Dave Chappelle, 24,1 milioni di dollari. 

Il politicamente corretto lincia la Atwood. Roberto Vivaldelli il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. La nota scrittrice canadese, 81 anni, ha pubblicato un articolo d'opinione che lancia l'allarme sul rischio che la parola "donna" possa essere "eliminata" dal politically correct. È diventato veramente complesso al giorno d'oggi per una persona un po' in vista, nell'era del pensiero unico politicamente corretto e della woke supremacy, poter esprimere liberamente il proprio pensiero senza rischiare di dover fare i conti con l'inquisizione laica della cancel culture. A finire nel mirino degli indignados della correttezza politica questa volta è Margaret Atwood, 81 anni, una delle voci più note della narrativa e della poesia canadese famosa in tutto il mondo. Più volte candidata al Premio Nobel per la letteratura, Atwood ha vinto premi prestigiosi quali il Booker Prize nel 2000 per L'assassino cieco e nel 2008 il premio Principe delle Asturie. Nel 2017 ha inoltre ricevuto il prestigioso Raymond Chandler Award, istituito da Irene Bignardi nel 1996 in collaborazione con il Raymond Chandler Estate. Laureata a Harvard, ha pubblicato oltre venticinque libri tra romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini e saggi. Basta scorrere il suo profilo twitter, per comprendere come Atwood sia una donna di orientamento progressista e non certo una fervente conservatrice. .

Anche Atwood vittima del pensiero unico

Eppure, come spesso accade ultimamente, basta una frase, una parolina fuori posto, un pensiero fuori dal coro e non conforme, per scatenare la bufera. Anzi, basta addittura meno: è sufficiente condividere un link "sbagliato", come ha potuto constatare lei stessa quando ha condiviso ieri su Twitter e con i suoi 2 milioni di follower, un articolo di opinione del Toronto Star intitolato "Perché non possiamo più dire "donna?". Come riporta il Corriere della Sera, secondo l'autrice, Rosie DiManno, il termine "donna" sarebbe "a rischio di diventare una parolaccia" e potrebbe alla fine essere "sradicato dal vocabolario medico e cancellato dalla conversazione". Critica quella che le sembra una "infelice evoluzione del linguaggio" e "l'attivismo trans impazzito", ma garantisce che l'articolo non rappresenta "una tesi contro l'autoidentificazione di genere" e che sostiene la causa dell'uguaglianza Lgbtq. Nulla di nuovo per chi conosce la (dura) diatriba culturale in corso fra transgender e femministe radicali. Contro la povera scrittrice, subito accusata di "transfobia" sono piovute le critiche, osservazioni e - anche - gli insulti più disparati.

"Delusa da lei". Bufera sulla scrittrice

"Nessuno vieta la parola donna" le fa notare Katie Mack. "Molte organizzazioni stanno, giustamente, optando per un linguaggio preciso quando parlano di cose che hanno a che fare con tratti biologici piuttosto che con l'identità di genere. Non è un attacco alla femminilità non equiparare il genere alla biologia specifica". "Sono delusa dal tu lo abbia condiviso perché di fatto non è vero" afferma Mx. Amanda Jetté Knox. "Possiamo ancora dire "donna" e possiamo anche dire "persone" quando ha senso usare un linguaggio più inclusivo. Non sono binario. Ho anche le mestruazioni e ho dato alla luce 3 bambini. Dire persone con il ciclopersone include le donne. E me". Ma c'è anche chi ci va giù pù duro: "Per favore, non cadere in questa merda. La parola donna non è bandita. Ad esempio, dire 'persone' non esclude le donne. Le persone stanno semplicemente riconoscendo che possiamo usare un linguaggio inclusivo nelle discussioni che possono includere le donne, ma non esclusivamente". Insomma, gli stessi critici ammettono che la parola "donna" sta scomparendo per far posto a un più inclusivo "persone". Ma ciò che è sempre più evidente che certe "libertà" a sinistra non si possono proprio contemplare. Soprattutto se si tratta di minoranze e diritti Lgbtq.

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in v 

Matteo Persivale per il "Corriere della Sera" il 22 ottobre 2021. Margaret Atwood, 81 anni, canadese, due premi Booker, premio Arthur C. Clarke Award e premio Franz Kafka, premio alla carriera dei National Book Critics e del Pen Center Usa, è la scrittrice che con Il racconto dell'ancella (dal romanzo anche un film e una fortunatissima serie tv) ha immaginato un mondo distopico in cui la Repubblica di Gilead riduce in schiavitù le donne relegandole a mere procreatrici (quelle incapaci di procreare per motivi fisici o anagrafici vengono eliminate). Atwood è su Twitter, non il posto ideale per una discussione serena (in 280 caratteri) su temi delicatissimi, tra i quali l'identità di genere, l'inclusività, la transfobia, gli aspetti biologici della transizione: se n'è accorta sicuramente ieri, avendo incassato commenti negativi, critiche, e anche insulti per aver twittato (ai suoi 2 milioni di follower) senza commenti il link a un articolo di giornale ( il Toronto Star ) dal titolo «Perché non possiamo più dire "donna"?». Secondo l'autrice, Rosie DiManno, il termine «donna» sarebbe «a rischio di diventare una parolaccia» e potrebbe alla fine essere «sradicato dal vocabolario medico e cancellato dalla conversazione». Critica quella che le sembra una «infelice evoluzione del linguaggio» e «l'attivismo trans impazzito», ma garantisce che l'articolo non rappresenta «una tesi contro l'autoidentificazione di genere» e che sostiene la causa dell'uguaglianza Lgbtq. DiMannio cita esempi come la Aclu, associazione pro-diritti civili americana, che per motivi di inclusività ha cambiato le parole della giudice Ruth Bader Ginsburg sostituendo «donna» con «persona», la British Medical Association che ha raccomandato al personale di utilizzare «persone incinte», invece di «donne incinte», e l'ospedale britannico che ha ordinato al personale del reparto maternità di utilizzare «persone che partoriscono», invece di «donne incinte». 

Paolo Di Stefano per il "Corriere della Sera" il 19 ottobre 2021. Se è vero che Facebook censura l'aggettivo «negro», e lo fa indiscriminatamente attraverso un algoritmo, c'è il rischio che la cancellazione riguardi non solo il «negro» riferito alla pelle, ma anche il «negro» dagli innumerevoli significati privi di sfumature spregiative o razziste (a meno che non intervenga un moderatore). Così stando il mondo di Zuckerberg, c'è da immaginare che se volessimo citare su Facebook uno dei primi testi in italiano, e cioè l'Indovinello veronese , ci esporremmo alla mannaia censoria per via di una frase sull'aratura: «negro semen seminaba» (seminava un seme scuro). Nulla a che vedere con la pigmentazione della pelle umana. Ma sull'altare del politicamente corretto verrebbe sacrificato a cuor leggero anche Dante («or ci attristiam nelle belletta negra», poco importa che a essere «negra» sia la fanghiglia in cui giacciono gli iracondi). E in fila: Petrarca («Or tristi auguri e sogni e penser negri»), Ariosto, Tasso, Galileo, Monti, Foscolo, Gozzano e i suoi «imenotteri negri», eccetera. Insomma, mezza letteratura italiana verrebbe falciata senza pietà dalle «buone intenzioni» morali del social. A proposito di Facebook, leggo un gran libro dello storico e teorico della letteratura Stefano Brugnolo, intitolato un po' troppo seriosamente Nuove forme di critica (Prospero editore), che raccoglie i suoi post degli ultimi due anni. Post molto argomentati, pieni di grazia e di ironia, oltre che di intelligenza. Tra questi, un capitolo che pone una domanda semplice: «fino a dove vogliamo arrivare nella battaglia per la liberazione dal nostro cattivo passato di bianchi ed europei?». Da una parte, ci dice Brugnolo, è vero che salvo eccezioni non esiste artista, filosofo, scrittore dei secoli scorsi che non si sia macchiato di colpe morali, interpretando valori che oggi ci appaiono esecrabili. D'altra parte, Omero, Aristotele, Virgilio, Ovidio, Dante, Shakespeare, Rousseau, Dostoevskij saranno pure cantori dei pregiudizi del loro tempo, ma sono anche artefici di opere di bellezza capaci (magari senza volerlo) di migliorare l'umanità. E infine, chi siamo noi per giudicare il passato in nome della giustizia e dell'eguaglianza, come se fossimo privi di nefandezze da consegnare ai posteri? Dunque: piuttosto che ripulire il passato, perché non preoccuparsi del futuro?

Estratto dell'articolo di Arianna Di Cori per “repubblica.it” il 19 ottobre 2021. "Una fiera dedicata all'arte africana piena di quadri di negri e foto di negri". Parole testuali, scritte in stampatello sui social, che non andrebbero nemmeno riportate se non per il fatto che a scriverle è stato il direttore editoriale della prestigiosa testata d'arte Artribune, Massimiliano Tonelli. Succede in occasione della fiera sull'arte africana 1:54, alla Somerset House di Londra. Tonelli, per argomentare la sua perplessità sulla necessità di "ghettizzare" - a suo avviso - gli artisti neri, affida a una storia di Instagram il suo pensiero. "Non è che è diventata un inutile ghetto - scrive nella stories datata 14 ottobre - che nessun beneficio porta all'arte africana tantopiù che ormai arte di artisti africani si trova dovunque in gallerie, fiere, aste e musei?". Per il direttore di Artribune "no, non ha senso". A giudicare dall'uso (enfatizzato nella doppia ripetizione) della parola dispregiativa, Tonelli sarebbe in grado di rispondersi il contrario da solo. Ma tant'è. La caduta di stile (per usare un eufemismo) di Tonelli, che è anche cofondatore del blog Romafaschifo, è stata accolta con sdegno da parte della sua stessa redazione. E a nemmeno 24 ore dalla discutibile uscita social, i giornalisti di Artribune - rivista che peraltro ha dedicato ampio spazio all'analisi delle complessità dell'arte africana e ai suoi esponenti contemporanei più di spicco, come Zanele Muholi, Meg Onli, Virgil Abloh, David Adjaye, Igiaba Scego - si sono dissociati dal loro direttore. (…) E sotto una pioggia di commenti, a chiedere le dimissioni del direttore. Poco dopo, la risposta di Tonelli, stavolta affidata a Facebook. A suo dire si è trattato del "più classico degli infortuni social, mi scuso con chi si è sentito toccato". Ma la toppa è peggio del buco: "Per esprimere frettolosamente il mio giudizio non positivo sulla fiera, tramite una storia su Instagram, ho adoperato un termine offensivo - scrive Tonelli, che ha subito provveduto ad eliminare la story incriminata - . Pensavo che il contesto ben spiegasse che lo utilizzavo non in chiave offensiva o in chiave razzista (anzi esattamente all'inverso, proprio per mettere in guardia da quello) ma dobbiamo imparare che alle volte il contesto non basta e conta molto la forma". (…)

Da "la Stampa" il 25 ottobre 2021. Undici opere di Pablo Picasso che ornavano il Bellagio Hotel di Las Vegas, sono stati vendute all'asta da Sotheby' s per un prezzo finale totale di 110 milioni di dollari, pari a oltre 94,4 milioni di euro, nella stessa città dei casinò. Si tratta di nove quadri e di due sculture in ceramica, che comprendono cinquant' anni di attività del grande artista spagnolo. Fra i dipinti, il celebre "Donna con berretto rosso-arancio" del 1938, che ritrae la musa e amante di Picasso di allora, Marie-Thérèse Walter, ha incassato il prezzo più alto, 40,5 milioni di dollari (34,7 milioni di euro). Un altro dipinto, "Uomo e bambino" del 1959, è stato battuto per 24,4 milioni di dollari. Fra gli altri capolavori che abbellivano il Picasso Restaurant del Bellagio, oggi di proprietà della Mgm Resorts, anche "Natura morta con cesto di frutta e fiori" dipinto nel 1942 nella Parigi occupata dai nazisti, battuto per 16,6 milioni di dollari. La collezione di opere di Picasso, che in totale comprende 20 lavori, era stata acquistata dal precedente proprietario del lussuoso albergo-casinò, Steve Wynn. La vendita fa parte del tentativo dei casino e del gruppo alberghiero Mgm di diversificare la sua vasta collezione di opere d'arte per includere pezzi di artiste donne, persone di colore e della comunità Lgtbq oltre che provenienti da nazioni emergenti. Uno studio del 2019 da parte della biblioteca pubblica delle Scienze ha sottolineato che nei 18 maggiori musei statunitensi l'85% delle opere esposte sono di artisti bianchi e l'87% sono maschi. 

Giancristiano Desiderio per il "Corriere della Sera" il 25 ottobre 2021. «Prevenire è meglio che curare». Alessandro Chetta, giornalista e videomaker, deve essersi ispirato a questo principio prudenziale nello scrivere il saggio Cancel Cinema (Aras). L'idea è semplice: che cosa resterebbe del grande patrimonio cinematografico italiano, in cui ci sono Fellini e Leone, Totò e Peppino, Loren e Lollobrigida, Gassman e Sordi - per citarne solo alcuni - se per giudicarlo applicassimo le categorie della cancel culture che è una evoluzione fanatica del già radicale «politicamente corretto»? Nulla. Eppure, possiamo immaginare di buttare a mare quell'immenso tesoro d'arte e di varia umanità perché attraverso lo schermo del politically correct non sappiamo più vedere neanche un film del passato e non riusciamo più a distinguere il bello e il brutto, il comico e il grottesco, l'attuale e l'«inattuale»? Ecco, Chetta analizzando 200 film fa uno stress test al cinema italiano: «Un po' per servire ai nuovi puritani un irridente divertissement , un po' perché i film sono un barometro del costume nazionale - come siamo, come eravamo - e infine per mettere in chiaro quanto inconsistente possa essere l'incappucciamento del passato, se è vero che ogni universo storico contempla sempre un universo morale frutto del suo tempo». L'esperimento di Chetta è efficace perché attraverso i film pensa il nostro rapporto con il passato e dice: come è possibile che non siamo più capaci di conoscere il passato e di giudicare l'arte? L'esempio che usa è spiazzante: immaginate che RaiUno mandi in prima serata TotòTruffa '62 con Nino Taranto ed Ernesto Calindri. Sarebbe il finimondo: Totò appare dipinto da nero ( blackface ), ha l'anello al naso, parla in modo ridicolo e interpreta il console del Catongo. Allo stesso modo, da quanto tempo non vedete - nemmeno su Blob - la celebre scena in cui Sordi ammazza di botte per amore e gelosia Monica Vitti? Non la vedrete più perché l'autocensura corre più veloce della censura: la previene assumendola. Mentre Chetta fa il contrario: la previene neutralizzandola. Come? Recuperando i giusti criteri del giudizio o coltivando un più equilibrato rapporto con il passato. Una volta Carlo Delle Piane, parlando del film di Pupi Avati Regalo di Natale , nel quale recitava con Diego Abatantuono, Gianni Cavina, Alessandro Haber, disse: «Il cinema è la vita». Forse, non è una gran frase, perché se il cinema è arte, allora, è vita espressa e, insomma, ci si è capiti: il cinema «rappresenta» la vita così com' è. E com' è la vita? Scorretta. E se abbiamo un patrimonio che la mostra nei suoi vizi e nelle sue virtù è bene che lo custodiamo prima che qualcuno trasformi Totò in Dumbo e ci appiccichi sopra un alert per i contenuti scorretti.

Michela Tamburrino per "la Stampa" il 18 ottobre 2021. Quando il politicamente corretto diventa una farsa. Accade che il noto talent Amici di Canale 5, decida di censurare nientemeno che Malafemmena, capolavoro della canzone napoletana, che Totò aveva dedicato a sua moglie. Un gruppo di allievi ballerini danza in tv su quelle note che con un maldestro taglia e cuci hanno oscurato la parola, forse equiparata a insulto sessista, che dà il titolo al brano struggente. Si salva «st' ommo t' avesse accisa» fortunatamente resa a loro incomprensibile per lingua. Oltretutto in napoletano «malafennema» è tutt' altro che un insulto. Ci si chiede: nel dubbio, perché non scegliere un altro brano ed evitarsi così di sprofondare nel grottesco? 

Valeria Robecco per “il Giornale” il 17 ottobre 2021. Per oltre cinquant' anni Larry Miller, istituzione del basket americano e presidente del marchio Jordan, ha custodito un segreto inconfessabile: quando aveva 16 anni ha ucciso un altro teenager. Ora ha deciso di raccontare tutto in un libro-confessione scritto con la figlia primogenita - Jump: My Secret Journey From the Streets to the Boardroom - che uscirà il prossimo anno. «Mi stava divorando dentro», ha rivelato in anteprima in un'intervista alla rivista Sport Illustrated riguardo a quanto successo il 30 settembre del 1965 a West Philadelphia. All'età di 13 anni Miller (oggi 72enne) era entrato nella gang Cedar Avenue della città della Pennsylvania: tre anni dopo un suo amico venne ucciso da una banda rivale, e lui si convinse che doveva vendicarlo. Così prese una pistola calibro 38, si ubriacò con altri tre ragazzi e uscì in strada per dare la caccia a chiunque fosse affiliato alla banda rivale. All'angolo tra la 53esima e Locust Street sparò un colpo alla prima persona che incontrò: la vittima fu poi identificata come il 18enne Edward White, lui non lo conosceva e il giovane non faceva parte di nessuna gang. «Eravamo tutti ubriachi, mi ci sono voluti anni per realizzare il vero impatto di quello che avevo commesso - ha spiegato nell'intervista -. Questo è ciò che rende le cose ancora più difficili per me, il fatto che non c'era nessun motivo». Miller fu arrestato subito dopo l'omicidio, e mentre era in carcere ha studiato per prendere la laurea alla Temple University, su cui poi ha costruito la sua carriera. Nel libro ha descritto nel dettaglio quanto avvenuto mezzo secolo fa e il tempo trascorso dietro le sbarre per vari reati, prima in un carcere minorile e poi in prigione fino ai 30 anni. Il passato tuttavia è tornato a tormentarlo mentre sosteneva un colloquio di lavoro per la società di contabilità Arthur Andersen: in quell'occasione rivelò l'accaduto, l'offerta dell'impiego fu immediatamente revocata e in quel momento lui decise che non avrebbe «mai più parlato» dell'episodio. Così, per decenni, è riuscito a nascondere tutto anche ai figli, agli amici e ai soci in affari: non ha mai mentito, ha assicurato, ma è sempre stato capace di insabbiare l'omicidio. Solo prima dell'intervista a Sport Illustrated, secondo quanto riferito, ha informato le persone a lui più vicine, tra cui la leggenda del basket Michael Jordan e il commissario Nba Adam Silver. «Per 40 anni sono scappato da tutto questo, ho cercato di nasconderlo e speravo che la gente non lo scoprisse», ha detto Miller, passato da ruoli dirigenziali alla Nike (dove è entrato nel 1997) alla presidenza del Jordan Brand, con una pausa per guidare i Portland Trail Blazers tra il 2007 e il 2012. L'idea di rivelare tutto all'ex campione dei Chicago Bulls, suo amico, lo ha reso «decisamente nervoso», ma poi ha detto di essere stato supportato sia da lui che da Silver. «Sono rimasto prima sbalordito e poi stupito che Larry abbia gestito la sua lunga e proficua carriera professionale, operando ai massimi livelli nel nostro settore, tenendo questo segreto, e alla fine ho provato tristezza per il fatto che abbia portato questo fardello per tutti questi anni senza il supporto dei suoi numerosi amici e colleghi», ha sottolineato il commissario Nba. Miller ora spera che la sua storia possa allontanare i giovani a rischio da una vita di violenze e far capire agli ex detenuti che ci può essere una seconda possibilità: «L'errore di una persona, anche il peggiore - ha affermato - non dovrebbe controllare ciò che accade per il resto della vita». «Siamo orgogliosi di Larry, della speranza e dell'ispirazione che la sua storia può offrire», ha fatto sapere da parte sua Nike, sottolineando che la sua vita è stata «un'incredibile storia di seconde opportunità».

Da rollingstone.it il 17 ottobre 2021. Dave Chappelle entra a modo suo nella polemica sui comportamenti di DaBaby. Nel nuovo speciale Netflix The Closer si chiede perché mai la carriera del rapper ha subito contraccolpi a causa dei suoi commenti omofobi e non per avere ucciso un ragazzo nel 2018. Chappelle, che in passato è stato criticato per le sue battute su gay e trans, si è offerto scherzando di «negoziare il rilascio di DaBaby» con la comunità LGBTQ. Il principe della stand-up comedy americana riconosce la gravità dei commenti del rapper al Rolling Loud Miami: «Sapete, no, che sono uno che ci va pesante, ma pure io quando ho visto quella roba ho pensato: cazzo, DaBaby! Ha irritato un sacco di gente. Ha colpito la comunità LGBTQ dritta nell’AIDS», un gioco di parole fra “ass” (culo) e “AIDS”. Chi ha criticato DaBaby e contribuito alla sua presunta cancellazione, continua Chappelle, forse non sa che nel 2018 il rapper ha ucciso un diciannovenne in un Walmart del North Carolina (DaBaby ha detto di avere agito per autodifesa e non è stato incriminato per la morte dell’uomo; è stato invece giudicato colpevole di un reato minore, possesso d’arma da fuoco).

Dagotraduzione dal Daily Mail il 15 ottobre 2021. Il marchio Minnetonka, azienda di scarpe con sede nel Minnesota, si è scusata per aver prodotto mocassini nonostante non sia di proprietà di nativi americani, il popolo che ha aperto la strada al design delle calzature tradizionali. La società ha ammesso di aver guadagnato denaro attraverso «l’appropriazione» della cultura dei nativi americani. «Ci scusiamo profondamente e significativamente per aver beneficiato di design ispirati ai nativi senza onorare direttamente la cultura o le comunità locali» si legge nella dichiarazione. Minnetonka, che produce le sue scarpe dal 1964, ha programmato le scuse in concomitanza con la Giornata dei popoli indigeni. Il Ceo David Miller ha dichiarato di aver rilasciato la dichiarazione per riconoscere che la società non è un'azienda di proprietà dei nativi e ha affermato di aver promesso di fare di più per supportare le comunità indigene in futuro. Miller ha spiegato che la società ha prima ammesso pubblicamente il suo uso della cultura nativa nell'estate del 2020 e ha aggiunto che ora voleva scusarsi pubblicamente. L'appropriazione culturale è il termine usato per descrivere persone o gruppi che adottano, senza riconoscerlo, elementi visivi dell'identità di un'etnia spesso perseguitata. Negli ultimi anni è diventata una questione scottante. I bianchi che indossano acconciature tradizionalmente nere come le treccine, o le persone che indossano copricapi da nativi americani, o ancora l’utilizzo delle figure messicane di Dia De Muertos per Halloween, hanno suscitato rabbia. «Abbiamo riconosciuto pubblicamente l’appropriazione nell'estate del 2020, ma era attesa da tempo», ha detto Miller nella sua dichiarazione. «Mentre Minnetonka si è evoluta oltre il set di prodotti originale, i mocassini rimangono una parte fondamentale del nostro marchio e nel 2020 abbiamo iniziato a intensificare il nostro impegno per la cultura a cui dobbiamo così tanto». «Vogliamo onorare il nostro impegno nei confronti delle comunità dei nativi americani con le nostre azioni in futuro». Minnetoka ha annunciato di aver anche assunto un "consulente per la riconciliazione". L'azienda di scarpe ha proseguito affermando che sta rafforzando i suoi sforzi per "diversità, equità e inclusione" nel tentativo di garantire che i gruppi di minoranza siano meglio rappresentati. Miller prevede anche di collaborare con artisti nativi americani per cercare di portare un'inclinazione più autentica alle collezioni future. 

Da tuttomercatoweb.com il 9 ottobre 2021. Marco Materazzi risponde a Lilian Thuram dal palco del Festival di Trento. Thuram nelle scorse ore ha lanciato un appello: "I giocatori bianchi non devono stare zitti nella lotta contro il razzismo". Un appello a cui Materazzi, nel corso del suo intervento, ha replicato così: “Sono contro il razzismo, però Thuram non è mai uscito dallo stadio quando cantavano Materazzi figlio di puttana. Questa è la discriminazione, per il bianco, per il nero e anche per il figlio di puttana”.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 ottobre 2021. Mick Jagger e Keith Richards hanno annunciato che I Rolling Stones smetteranno di eseguire il brano “Brown Sugar” per via dei riferimenti alla schiavitù. La hit, scritta nel 1969, è stata un punto fermo dei loro concerti dal vivo da quando ha è uscita, 50 anni fa, ed è la seconda canzone più suonata del loro catalogo dopo Jumpin’ Jack Flash, eseguita ben 1.136 volte secondo la rivista Rolling Stone. Da quando hanno debuttato nel nuovo tour, il 26 settembre, la band ha evitato di suonare la canzone. L’ultima volta che l’hanno eseguita è stata il 30 agosto 2019 all’Hard Rock Stadium di Miami in Florida. Interrogato dal Los Angeles Times, Mick Jagger ha detto che hanno deciso di prendersi una pausa dalla canzone. «Abbiamo suonato “Brown Sugar” tutte le sere dal 1970, per cui abbiamo pensato, lasciamola fuori e vediamo come va». Keith Richards, che ha scritto la canzone con Jagger durante una sessione del 1969 allo studio Muscle Shoals in Alabama, si è detto sorpreso dal recente disagio per i testi, dal momento che si trattava di una storia grottesca sulla schiavitù, lo stupro e la violenza sessuale. «Non avevano capito che era una canzone sugli orrori della schiavitù? Ma stanno cercando di seppellirla. Al momento non voglio entrare in conflitto con questa merda. Ma spero che saremo in grado di resuscitarla». La canzone è stata controversa fin dall'inizio e la band ha spesso cercato di abbassare i toni del testo. Originariamente era intitolata "Black Pussy", ma Jagger decise che il titolo era troppo "grintoso". La frase originale era: “Brown Sugar, come mai hai un sapore così buono? / Ah, adesso mi fa venire voglia di zucchero di canna, proprio come dovrebbe fare una ragazza di colore”. La band nelle registrazioni successive ha scambiato le parole "ragazza nera" con "giovane ragazza". Jagger ha spiegato in un'intervista nel 1995 che era a disagio con i testi. «Dio sa di cosa parlo in quella canzone», ha detto Jagger, in un'intervista del 1995. «È un tale guazzabuglio. Tutte le brutte faccende in una volta sola». La canzone è stata scritta in 45 minuti e Jagger l'ha descritta come «una cosa molto istantanea». «Non scriverei mai quella canzone ora», ha detto. «Probabilmente mi censurerei. Pensavo: 'Oh Dio, non posso. Devo smettere. Non posso semplicemente scrivere crudo in questo modo’». Il classico è stato oggetto di controversie negli ultimi anni: nel 2015 Vulture che ha descritto la canzone come «grossolana, sessista e straordinariamente offensiva nei confronti delle donne di colore». Scrivendo sul Chicago Tribune  del successo del 2019, il produttore musicale Ian Brennan ha dichiarato: «Il problema oggi non è che abbiano mai scritto la canzone. Né che l'abbiano mai cantata. La colpa è che continuano a cantarla». Si pensa comunemente che Brown Sugar sia stato scritto da Jagger per la sua ex amante Marsha Hunt. Hunt, che ha dato alla luce il primo figlio di Jagger, Karis, è una cantante nata in America che è considerata l'ispirazione per il classico del 1971 degli Stones.

Mattia Marzi per "il Messaggero" il 14 ottobre 2021. Ma come? La band più rock' n'roll di sempre, quella che ha fatto della linguaccia il suo simbolo, cede ora alla scure del politically correct senza difendersi in alcun modo e, anzi, si autocensura? Tutto vero. I Rolling Stones hanno deciso di rimuovere Brown Sugar dalla scaletta dei concerti del loro tour negli Stati Uniti. Non una canzone qualunque, ma una delle loro più amate, contenuta nell'album Sticky Fingers del 1971 e da sempre una costante negli show di Mick Jagger e soci. Il motivo? Riguarda il testo, che contiene riferimenti alle donne di colore e alla schiavitù. Compaiono già nella prima strofa, tra l'immagine della nave che trasporta schiavi destinati a lavorare nei campi di cotone («Gold coast slave ship / bound for cotton fields», canta Jagger) e quella del negriero che frusta le donne («Hear him whip the woman just around midnight»). Troppo, nel 2021? «Non si erano mai accorti che questa era una canzone sulla schiavitù?», si è domandato Keith Richards, il 77enne chitarrista della leggendaria rock band, in un'intervista concessa la scorsa settimana al «Los Angeles Times», parlando delle critiche ricevute per via della canzone da quando è partito il tour negli Usa. Forse l'orecchiabile riff e la melodia che hanno permesso alla canzone di diventare un classico dei Rolling Stones (oltre 600 mila copie vendute dal singolo nel Regno Unito e 3 milioni a livello mondiale per l'album di cui fa parte), per tutto questo tempo hanno in qualche modo distratto il pubblico dai contenuti del testo. O forse questa storia del politically correct sta davvero sfuggendo di mano. Jagger, 78 anni compiuti a luglio, è cauto. E non esclude di reinserirla in scaletta in futuro: «Abbiamo suonato Brown Sugar' ogni sera dal 1970, quindi abbiamo pensato che per ora mettiamo il brano fuori dalla scaletta e vediamo come vanno le cose», ha detto il cantante. 

LA STORIA 

Accreditata a Richards e Jagger, Brown Sugar fu scritta principalmente da Jagger, che lavorò al brano durante le riprese del film I fratelli Kelly di Tony Richardson, per il quale nel 1969 il cantante recitò indossando i panni del protagonista. Mick all'epoca aveva 27 anni e nel testo inserì riferimenti alle trasgressioni di cui gli Stones, otto album all'attivo fino a quel momento, erano già soliti parlare nelle loro canzoni, tra cenni al sesso e allusioni agli stupefacenti (lo «zucchero di canna» del titolo secondo alcuni rimanderebbe all'eroina). Jagger, Richards, Mick Taylor, Bill Wyman e Charlie Watts Ronnie Wood sarebbe entrato a far parte della band cinque anni più tardi, nel '75 la incisero alla fine del '69 durante le sessions di quello che sarebbe poi diventato Sticky Fingers. Già nel 1995, in un'intervista alla rivista americana Rolling Stone, Jagger ebbe a dire: «Non riscriverei mai quella canzone, oggi. Probabilmente mi censurerei. Penserei, Oh Dio, non posso. Devo fermarmi'. Dio sa di cosa sto parlando in quella canzone. È un tale miscuglio. Tutti gli argomenti sgradevoli in un colpo solo». 

FRECCIATA

Intanto, mentre gli Stones si stanno ancora riprendendo dal lutto che ha colpito la grande famiglia della band lo scorso agosto, con la scomparsa a 80 anni dello storico batterista Charlie Watts (Jagger, Richards e Wood non hanno neppure potuto partecipare ai funerali, per via delle norme anti-Covid nel Regno Unito al momento del decesso si trovavano negli Usa per le prove del tour insieme al nuovo batterista Steve Jordan e tornando in patria sarebbero dovuti restare alcuni giorni in isolamento), alla band arriva una frecciatina non di poco conto. Da Paul McCartney. In un'intervista concessa al The New Yorker il 79enne ex Beatle che sta promuovendo la sua docu-serie 3, 2, 1 McCartney, in streaming su Disney+, il libro dei Beatles sulle lavorazioni di Let It Be e il suo The Lyrics, autobiografia appena uscita realizzata commentando tutti i testi scritti nel corso della sua carriera ha detto di Jagger e soci: «Non sono sicuro di doverlo dire, ma loro sono una cover band di blues». Che colpo basso.  

Dagotraduzione dal Daily Mail il 14 ottobre 2021. Colin Wright, biologo evoluzionista americano, è stato censurato da Instagram per aver condiviso sul social i risultati di uno studio sui transgender di un’importante rivista medica. La ricerca affermava che in molti sport gli uomini sono biologicamente superiori alle donne. Lo studio, confotto dall’Università di Manchester e del del Karolinska University Hospital di Stoccolma, intitolato Transgender Women in the Female Category of Sport: Perspectives on Testosterone Suppression and Performance Advantage, era stato pubblicato su Medicine& Sports, rivista scientifica fondata nel 1969. Colin Wright, che ha collaborato con il Wall Street Journal ed è stato nel mondo accademico per 12 anni, aveva condiviso un grafico tratto dallo studio che mostrava come chi nasce biologicamente maschio ha un vantaggio in termini di prestazioni rispetto a chi nasce biologicamente femmina in molti degli sport in cui i transgendere sono stati ammessi alle Olimpiadi. A conclusioni scientifiche simili sono arrivati anche i ricercatori dell’Università di Loughborough, che sul British Journal of Sports Medicine hanno pubblicato uno studio dal titolo: “In che modo la transizione ormonale nelle donne transgender modifica la composizione corporea, la forza muscolare e l’emoglobina?”. Entrambi gli studi sono stati pubblicati prima delle Olimpiadi di Tokyo 2020, a cui per la prima volta hanno partecipato atleti transgender. Gli studi hanno concluso che anche dopo tre anni di terapia ormonale le donne transgender conservano ancora vantaggi in termini di forza rispetto alle donne biologiche. Gli studi sono stati realizzati per verificare se i criteri del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) per l’idoneità degli atleti eliminassero effettivamente il vantaggio nelle prestazioni di possedere corpi maschili. Il Cio ha stabilito che i livelli di testosterone totale di un atleta devono essere al di sotto di 10 nanomoli per litro per almeno 12 mesi prima e durante la competizione. Entrambi gli studi hanno scoperto che le riduzioni di forza, massa magra, massa muscolare e densità ossea attraverso l'uso di regimi tipici di soppressione del testosterone mostrano una differenza minima rispetto alla differenza media tra uomini e donne biologici, lasciando i primi con un vantaggio in termini di prestazioni. Il grafico condiviso da Wright mostrava il vantaggio prestazionale maschile che i corpi degli uomini cisgender consentivano loro rispetto alle donne cisgender. L'illustrazione mostra che, anche se gli uomini hanno un vantaggio in termini di prestazioni, esso varia nei diversi eventi sportivi a seconda del livello e del tipo di abilità fisica o fisiologica o della misura del successo che ogni sport richiede. Lo studio di Medicina dello Sport suggerisce che invece di una linea guida per tutti gli atleti transgender, le singole federazioni sportive dovrebbero determinare le proprie condizioni per i loro eventi.

Marco Ciriello per "il Mattino" il 13 ottobre 2021. Succede che ad “Amici” programma Mediaset, in una sfida, si balli su “Malafemmena” di Toto (eseguita da Roberto Murolo) e per due volte la parola, che dà il titolo alla canzone e a due film, venga omessa. Nell’assenza c’è l’improbabile futuro politicamente corretto, nel non cantato c’è il silenzio di chi non distingue, non contestualizza e finisce per non capire. Toto e doppio, come e doppio o talvolta triplo e persino quadruplo il suo linguaggio, dobbiamo a lui l’allargamento della lingua italiana, l’uso molteplice delle parole, i giochi di prestigio tra suoni e significati, e dobbiamo a lui una delle canzoni più belle ed eseguite della musica italiana. Che ha i sentimenti di un tango, risentimento e vendetta – nasce da un presunto tradimento della moglie, Diana Bandini Lucchesi Rogliani, che si risposa prima del previsto, consumata dai tradimenti di Toto, un paradosso – e si conclude con una nuova dichiarazione d’amore che si rimette nelle mani di Dio per la pena da scontare, ma a nessuno mai e venuto in mente di farne la colonna sonora per un femminicidio. Ne si trovano donne che eventualmente si sono sentite offese dalla canzone, ma intanto succede che “Malafemmena” scompaia. Viene automatico chiedersi che succederà all’ironia degli Squallor? E di buona parte del rock degli anni Sessanta e Settanta? Prima che accadesse – sarebbe bello per un errore e non per una zelante supervisione che comincia a cancellare quello che potrebbe infastidire i seguaci della neo censura – in un saggio, “Cancel Cinema. I film italiani alla prova della neocensura” (aras edizioni), Alessandro Chetta analizzando le opere esposte al pericolo di ottusità, in chi vede e ascolta, e partendo dai film, segnalava – con ironia – la canzone di Toto come pericolosa portatrice di «un germe sessista potentissimo». Insomma, l’amante pericolosa, che amante non e, la donna pericolosa che mette a rischio l’amore e anche la donna di malaffare, si mescolano e vengono cancellate. A nulla vale l’educazione sentimentale di Toto, il suo essere figlio del dolce stil novo, verrebbe subito condannato e la sua immaginazione, poi, lo metterebbe in guai seri davanti all’improvvisato tribunale femminista (composto da caporal’esse), e non basterebbe la confessione fatta ad Oriana Fallaci – che colpevole! non lo giudica, donna e non caporal’essa –: «Prima, quando viaggiavo senza una donna, portavo sempre con me una vestaglia femminile e un paio di scarpine col tacco. Sempre. Cosi, prima di andare a letto, appendevo la vestaglia accanto alla mia, mettevo le scarpine accanto alle mie, e mi sembrava di aver la donna. Che vuol farci: amo troppo le donne. Sara perchè sono meridionale, sarà perchè odio gli uomini: ma le donne, secondo me, sono la cosa più bella che ha inventato il Signore. Io le amo tanto, le donne, che riesco perfino a non essere geloso. Tanto a che serve esser geloso. Se una donna ti vuol bene, e felice. Se non ti vuol bene, ne prendi un’altra. Si, lo so cosa pensa. Che dalle mie canzoni risulta tutto il contrario. Ma quelle cose si scrivon cosi perchè fanno comodo». Ecco il Toto doppio, col professionismo delle emozioni, quello che gioca e si prende doppiamente gioco di se (dei suoi sentimenti) e degli altri. Come diceva Ugo Gregoretti «Amare vuol dire sfottere». Tra l’altro la canzone e un sentimento dal cor fuggito, viene scritta sul set, a Formia, nel 1951, e appuntata su un pacchetto di sigarette (Toto fuma pure: colpevole!) e non capita dall’autista al quale la canta. Chissa ad “Amici” la vorrebbero riscritta cosi: Gender/tu si nu' gender fluid/co' st'uocchi e fatto rider/e poi sagli 'o quid; e subito dopo si sentirebbe la voce di Toto chiedere: «Beh, allora, ragazzi, adesso vogliamo ritornare in se?».

Sessisti, razzisti, misogini, omofobi. Quanto sono scorretti i film italiani. Luigi Mascheroni il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le botte di Sordi alla Vitti, il blackface di Totò, le "serve" e il "vizietto". Commedie, capolavori e stra-cult alla prova della neocensura. L'ossessione per la correttezza politica a volte è pericolosa. Altre, ed è peggio, ridicola. Gabriele Salvatores, un regista premio Oscar, è tranchant: non ho intenzione di girare un film con un gender manager sul set per garantire risalto alle interpretazioni femminili, ha detto poco tempo fa. E ce ne sarebbero di cose da dire sui limiti alla libertà creativa, l'operettistico di certi diktat, le implacabili regole antisessismo e antirazzismo che sfogano nel grottesco... Del resto, se un fotogrammi sì e uno pure persino le fiabe già edulcorate della Disney, da Dumbo a Biancaneve, si impigliano nelle maglie del neomoralismo ideologico, cosa potrà accadere in futuro, magari molto vicino, a tanti vecchi scorrettissimi e divertentissimi film? È quello che prova a immaginare Alessandro Chetta, giornalista e videomaker, nel suo nuovo Cancel Cinema. I film italiani alla prova della neocensura (Aras edizioni) - non un pamphlet ma un saggio molto documentato sia su versante cinematografico sia su quello della storia della cancel culture e del politicamente corretto e delle loro derive - in cui il cinema italiano dell'età dell'oro è passato sotto la lente del moralismo autoritario d'ultimo conio sempre goffamente truccato da rivendicazione. Riusciranno i nostri eroi... (Ettore Scola, e tutti gli altri registi e sceneggiatori che hanno fatto della nostra cinematografia una delle maggiori al mondo) a sopravvivere a forbici, correctwashing, asterischi, divieti, alert e disclaimer vari? A rischiare, del resto, sono in tanti. A partire dai titoli. Esempi: Il vizietto (nel 1978 non si era ancora capito se l'omosessualità fosse un vizio o un'inclinazione), La patata bollente (Steno, nel 1979, sbancò il botteghino, Vittorio Feltri, con lo stesso titolo, del 2017, si è reso una condanna per diffamazione), Le mogli pericolose (forse che Luigi Comencini ci sta dicendo che la colpa è sempre loro, mai dei mariti, qualsiasi cosa succeda?) oppure, il peggiore di tutti: Totò, Peppino e la... malafemmina, anno di pessime prospettive per il #MeToo 1956...Un po' colto divertissement che irride i nuovi puritani, un po' j'accuse provocatorio per prevenire danni peggiori nell'immediato futuro (chi l'avrebbe immaginato, dieci anni fa, che negli Stati Uniti a Colazione da Tiffany avrebbero rinfacciato scivolate razziste verso gli asiatici?!)?, Cancel Cinema costituisce un impietoso stress test su oltre duecento film italiani per cercare di capire quanti e quali resisterebbero alla nuova censura retroattiva che pretende di processare il passato senza considerare le sfumature, il contesto, il significato del termine «parodia», la libertà della creazione artistica, le normali mutazioni del comune senso della morale... Lo tsunami che cancella tutto è partito da tempo oltre Atlantico e sta per abbattersi sull'Europa. Prepariamoci. Bene: ma oggi, l'etica dell'annullamento, quali film di ieri colpirebbe? Pensate, per un momento, se stasera in prime time su Rai1, prima di un intervento di Rula Jebreal a Rainews, o su Rai3, dopo il democraticissimo Che tempo che fa, dovesse passare un film (capolavoro, peraltro) come Amore mio aiutami, anno di femminismi, pacifismi, libertà sessuale e emancipazione della donna 1969, con la celeberrima sequenza in cui, sulla spiaggia di Sabaudia, Alberto Sordi insegue e malmena con violenza inaudita la moglie - Monica Vitti - innamorata di un altro uomo. Pugni, schiaffi, calci. Altrettanto nota la sequenza successiva: di fronte alla moglie, acciaccata ma tornata docile, un amico chiede al marito: «Incredibile. Ma come ci sei riuscito?». Risposta di Sordi: «Semplice, daje giù botte!». Nemesi e paradosso del bigottismo di ritorno, la controfigura della Vitti nella scena del pestaggio era una giovane Fiorella Mannoia, oggi petulante madrina del movimento transfemminista #NonUnaDiMeno. «La sequenza di schiaffi e botte che Sordi le dà sulla spiaggia? Quella ero io - minimizzò anni dopo - . Il massimo che poteva capitare era perdere l'equilibrio per una spinta». Il minimo che può capitare, ora, sono editoriali indignati, post infuocati, appelli, richieste a distributori e reti televisive di tagliare, oscurare, segnalare...Come non si può accettare del resto che sia trasmesso un film come Il mulatto di Francesco De Robertis, 1949, in cui un pacato sacerdote, Don Gennaro, di fronte a un ragazzino figlio di una violenza dei soldati alleati durante la guerra, esclama: «Che bel bambino, peccato sia nero», e pensate se avesse detto «negro». O come Hanno rubato un tram (1954) - bianco/nero magnifico, le quote rosa così così... - in cui Aldo Fabrizio racconta d'aver iscritto la figlia a un concorso per miss, «ma non di quelli in cui si sfila in bikini» ma dove la gara prevede che «Si cuce, si stira, si fanno le tagliatelle»: per diventare la donna perfetta, insomma. O come - per stare in tema - Totò e le donne (1952), dove il Principe sentenzia, senza appello: «Vi dico io chi sono le donne... due punti... Inopportune, prepotenti, malinconiche, incoscienti, maligne, superficiali, egoiste, invidiose, noiose, esose... sì anche esose!». E a proposito di Totò: ma quando in TotòTruffa, 1962, si tinge la faccia di nero e si mette l'anello al naso per fare ridere il pubblico italiano, non conosce il vietatissimo (oggi!) blackface?! No, no... ci sono cose che non si possono (più) sentire. Pensa se su La7, subito dopo un talk sul femminicidio con Lilli Gruber e Michela Murgia andasse in onda Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), gigantesco film diretto da Ettore Scola (sceneggiatura: Age&Scarpelli) dove la solita remissiva Monica Vitti, indecisa fra Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini, pugnalata al ventre, perdona il marito ma sussurra all'ex compagno che l'ha accoltellata: «A te, te amo di più». Non basterà la nomination alla Palma d'oro sulla Croisette, era il 1970, a salvarne la programmazione. E poi ci sono i selvaggi schiaffeggi di Giannini all'infida borghese Mariangela Melato: «Bottana industriale!!». Ci sono i film in cui le colf non si chiamavano nemmeno domestiche, ma «serve». Le mille commedie all'italiana in cui allusioni, mano morte, battute a doppio senso e catcalling (impareggiabile l'episodio «Gli italiani si voltano» nel film L'amore in città, 1953) erano ancora motivo di un sorriso e non di denuncia penale. Per tacere del machismo italico. Lando Buzzanca, per dire, oggi avrebbe l'ergastolo, senza processo. Ah: poi c'è Diego Abatantuono che in Eccezzziunale... veramente, era solo il 1982, canta «Se mi piace una donna/ ce sbrano la gonna». È così. Il cinema italiano ne ha per tutti: «negri», zingari (Il carabiniere a cavallo, 1961), «terroni» (la filmografia è lunghissima), prostitute (altrettanto lunga), gay (prima di Ferzan Özpetek non è che fossero sempre belli, affascinati, indipendenti, affermati...), lolite (da Il sorpasso in giù), minorati e «diversamente abili», tipo Il gobbo, di Carlo Lizzani, 1960, o il finto paraplegico di Compagni di scuola, 1988, per non dire di grassi, nani, sfregiati, dislessici... Alla faccia del body shaming. Il peggio, poi, è quando vecchi e nuovi ostracismi si saldano, e raddoppiano indignazione e divieti. Come Ultimo tango a Parigi. Prima contestato per le scene di sesso (finte), oggi per la (vera) costrizione dell'attrice. Titoli di coda (se non offendiamo gli animali che non ce l'hanno).

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 202

Luca Beatrice per “Libero Quotidiano” il 7 ottobre 2021. Tanto vale dirlo subito: capita sempre più spesso di sentirsi dei cretini a resistere su certe posizioni, disperatamente avvinghiati sulle barricate più per abitudine che per cultura. Non sono passati neppure dieci anni da quando lo scrittore inglese John Niven pubblicò Maschio bianco etero, e in tanti ce lo auto dedicammo, a partire da quella meravigliosa citazione: «Ogni volta che sganci un reggiseno e senti quel paio di tette sconosciute che ti cascano tiepide addosso, ti senti immortale». Oggi sarebbe fortemente sconsigliato andare in stampa con un titolo del genere. Tra gli ultimi baluardi a cadere, tocca a Playboy, la rivista illustrata che dal 1953 ha deliziato lo sguardo e l'immaginazione di generazioni spogliando e fotografando le donne più belle del mondo. In copertina sul numero di ottobre c'è un ragazzo filippino agghindato da coniglietto: si chiama Bretman Rock, 23 anni, celeberrimo youtuber e "beauty influencer" da quasi 18 milioni di follower, attivissimo nella difesa dei diritti LGTB. Se escludiamo la transgender messicana Victoria Volkova, quello di Bretman è il secondo maschio in prima pagina sul giornale dopo il rapper Bud Bunny. Hugh Hefner fece eccezione solo per se stesso, ma dopo la sua scomparsa nel 2017 sono cambiate tante cose. Il ritratto di Bretman Rock rimanda a un'iconografia che include diversi luoghi comuni, cita il Vizietto, Victor Victoria e i Village People, con tanto di calza nera smagliata e zatteroni anni '80. Non proprio un'immagine originale della cultura gay, se vogliamo parlarne in chiave di "normalizzazione" forse sarebbe stato meglio un tipo in giacca e cravatta, jeans e t-shirt, senza per forza dover ricorrere alla carnevalata e all'effetto Pride. Ma il ragazzo, seguitissimo soprattutto dai più giovani, si dice fiero della scelta, convinto che oltre alla causa omosex farà molto bene anche al suo popolo. Penso che il vecchio Hugh si stia rivoltando nella tomba e con ragione. Playboy è la rivista, tendenzialmente per uomini ma non solo, dove le donne sono al centro del nostro sguardo e della nostra attenzione, puro "oggetto" (si notino le virgolette) del desiderio e della fantasia. Le più belle di ogni tempo, da Marilyn Monroe a Monica Bellucci, sono passate di qua e cambiare una storia che dura da decenni, in nome del politicamente corretto, è una stupidaggine studiata ad hoc per far parlare di sé. Colpa anche della crisi dell'editoria, ma dubito che gli aficionados corrano in edicola ad accaparrarsi il numero col gay. D'accordo, le cose finiscono e chi si ostina nelle sue posizioni, come me, è davvero cretino. Però mi piace ancora quel mondo dove si impazzisce per le donne, che sono più belle degli uomini, e che certe tradizioni si mantengano almeno nei cosiddetti territori franchi. Il principe di Salina diceva: «Tutto cambia affinché nulla cambi», ma sarà davvero così? Guardiamo alla politica di casa nostra, la confusione regna sovrana. Ricordavo che il centro destra, ai tempi di Silvio Berlusconi, fosse una "riserva" di eterosessualità, lui amava le donne e perciò ha avuto parecchi guai e critiche durissime. Mai però mi sarei aspettato che gli alfieri del celodurismo di bossiana memoria si trovassero nell'imbarazzo di dover minimizzare gli effetti di coca-gay party e contemporaneamente firmassero accordi con il partito della famiglia. Pensavo che questi fossero più integri del conservatore austriaco Jorg Heider, insomma ci fosse più coerenza nel rivendicare antichi valori. Ovviamente sto scherzando, ognuno a letto ci porti chi vuole (se lo vuole), però io confidavo che su Playboy avrei continuato a trovare ragazze meravigliose e nude. Mi sbagliavo, prima o poi capiterà alle mie riviste preferite di moto e calcio e allora sarà davvero la fine.

L'autocensura del David umilia l'arte. Giordano Bruno Guerri il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Se è vero che non è una censura l'esposizione a Dubai di una copia del David di Michelangelo, mostrata solo dalla vita in su, peggio mi sento, perché è un'autocensura. S e è vero che non è una censura l'esposizione a Dubai di una copia del David di Michelangelo, mostrata solo dalla vita in su, peggio mi sento, perché è un'autocensura. «Il David non è visto come sempre accade dal basso verso l'alto, ma accoglie i visitatori guardandoli in faccia», dice Davide Rampello, progettista e curatore del percorso espositivo del Padiglione Italia all'Expo, «di solito nessuno può guardarlo negli occhi». Già, ma di solito tutti possono guardarlo intero, genitali (peraltro modesti), cosce muscolose a grandi piedi compresi. Se davvero si fosse voluto ottenere l'effetto «a me gli occhi», mezzi economici e tecnici non sarebbero mancati, invece di affossare oltre metà della costosa riproduzione negli uffici, invisibile al pubblico. Autocensura, dunque, per non disturbare i pudici padroni di casa. Come avvenne cinque anni fa, quando ai Musei Capitolini qualcuno decise di coprire con pannelli bianchi le statue di corpi nudi durante la visita del presidente iraniano Hassan Rouhani. «Penso che ci sarebbero stati facilmente altri modi per non andare contro alla sensibilità di un ospite straniero così importante senza questa incomprensibile scelta di coprire le statue», dichiarò allora il ministro Dario Franceschini. Ma, a dispetto del buon senso, l'abbiamo fatto di nuovo. Rampello - uomo simpatico, intelligente e di grande fantasia si esibisce in un'arrampicata sugli specchi tanto spettacolare da valere un premio alla creatività italiana: il David sarebbe un testimonial della memoria, «Nel Rinascimento la memoria era la madre di tutte le Muse, Michelangelo sapeva che senza memoria non ci può essere né scienza né arte. Senza memoria l'uomo perde la capacità di raccontare il mondo. Ecco, questa è una copia del David per testimoniare la memoria». Non si capisce perché, in questo sforzo titanico di testimoniare la memoria, David debba rinunciare ai glutei rotondi e al pisello, cui con Michelangelo era certamente affezionato. La memoria, per noi, è il ricordo della nostra civiltà e della nostra cultura, che da più di mezzo millennio hanno quasi liberato l'arte e noi da censure infantili sulle pudenda. Se altre culture non ce l'hanno ancora fatta, rispettiamole: ma dichiarandolo, senza nasconderci dietro la furbizia, tradizionale vizio (e vezzo) nazionale. Giordano Bruno Guerri

Da lastampa.it il 6 ottobre 2021. Il gemello in 3D del David di Michelangelo, "star” all'Expo di Dubai, viene esposto con le nudità nascoste. La testa e il collo della riproduzione alta sei metri della statua rinascimentale sono esposti in una struttura ottagonale al primo piano, mentre i genitali e le gambe sono visibili al livello inferiore riservato ai visitatori selezionati. Una scelta che ha avuto un seguito polemico in Italia. «L'Italia oscura il David di Michelangelo a Dubai in ossequio alla tradizione islamica: un'umiliazione inaudita, inaccettabile, intollerabile. Ci troviamo di fronte all'umiliazione dell'arte italiana» ha dichiarato Vittorio Sgarbi. «Il David è un'opera d'arte e non deve essere censurata» ha sottolineato, parlando con l'Adnkronos, il critico d'arte Achille Bonito. «È un'immagine dell'Italia. A Dubai hanno usato un escamotage, una forma di prudenza per venire incontro alla sensibilità di un continente che ha altri principi religiosi» ha aggiunto. Ma gli organizzatori del Padiglione d'Italia hanno smentito le dichiarazioni e le accuse secondo cui si è cercato deliberatamente di nascondere i genitali della statua a causa della sensibilità religiosa e sociale nello stato arabo del Golfo, e nella regione prevalentemente musulmana. «Abbiamo programmato di posizionare la statua di David com'è ora molti, molti mesi fa», ha detto il commissario Paolo Glisenti. «Abbiamo portato qui la statua del David alla fine di aprile nel mezzo del Ramadan, tra l'altro, alla presenza di molti alti funzionari degli Emirati e del governo italiano». In merito alle polemiche suscitate dall'allestimento, il direttore artistico Davide Rampello, ha poi replicato che l'obiettivo era quello di fornire una nuova esperienza consentendo ai visitatori di vedere il David all'altezza degli occhi, mentre gli amanti dell'arte devono guardare la statua originale al museo Galleria dell'Accademia di Firenze. «Il David, icona di bellezza e perfezione, è posto al centro dell'area chiamata Teatro della Memoria. Nella cultura odierna, confondiamo il concetto di memoria con l'archivio.  Ma la memoria ha molto di più, il fattore emozionale: il David, in quella posizione, offre subito lo sguardo ai visitatori diventando il testimonial della memoria». Si tratta quindi, secondo Rampello, «di una prospettiva inedita, introspettiva ed emozionante. La statua poggia all'interno dell'area dedicata alle visite di rappresentanza da cui é comunque visibile nella sua interezza dal basso. Questo è stato l'approccio concettuale, il resto sono interpretazioni che valgono come tali». La creazione della replica utilizzando una delle stampanti 3D più grandi al mondo ha richiesto 40 ore di scansione digitale dell'opera d'arte in marmo originale del XVI secolo con le rifiniture completate a mano, secondo il sito web dell'Expo. «La riproduzione è stata eseguita con una tecnologia molto sofisticata utilizzata nello spazio e rifinita da artigiani di Firenze che hanno ricoperto la statua di polvere di marmo», ha detto Glisenti. Basato sul tema "La bellezza connette le persone”, il Padiglione Italia è tra i quasi 200 espositori di Expo 2020 Dubai, la prima fiera mondiale che si tiene in Medio Oriente. La fiera prevede di attirare 25 milioni di visite dopo essere stata ritardata di un anno dalla pandemia di coronavirus.

Carlo Nicolato per “Libero Quotidiano” il 27 settembre 2021. Certo, da una pubblicazione scientifica non è che potessimo aspettarci una citazione di Dante per descrivere con parole appropriate il genere femminile, ma definire la donna "corpo con vagina" è davvero troppo. Indignante e perfino sorprendente per una rivista di indiscutibile prestigio come la britannica "The Lancet", considerata insieme a poche altre come una sorta di Vangelo nel campo medico-scientifico. Per la verità, alla redattrice senior Sophia Davis non avevano affidato un compito facile, visto che era stata spedita al Vagina Museum nel Camden Market di Londra per recensire una mostra sul "menstrual shame" dal titolo "Periods on Display"; ma è evidente si sia, per così dire, fatta prendere la mano dagli schemi mentali e comunicativi attualmente in voga. Travolta dagli eccessi del politically correct, ammaliata dalle sirene della cancel culture e dall'ideologia woke - quella che appunto afferma la necessità di stare sempre all'erta di fronte a razzismo e alle discriminazioni sessuali -, per la copertina del suo articolo ha scelto un titolo che in realtà è una citazione del pezzo stesso, in cui si asserisce che «storicamente, l'anatomia e la fisiologia dei corpi con le vagine sono state trascurate». Una battuta consona al tema della mostra in un museo peraltro già di suo non esattamente aulico? Può darsi, ma di gran pessimo gusto visto che tra l'altro l'articolo appare su una pubblicazione che dovrebbe interessarsi di scienza senza far discutere di altro. La definizione, come ovvio, ha scatenato una diffusa indignazione sui social media, specie su Twitter, dove la pagina in questione è stata riportata provocando una serie di contraddittorie proteste, una specie di cortocircuito tra le vestali del pensiero unico. Tra chi si è ritenuto offeso ci sono politici, scienziati, medici. Ad esempio lo psichiatra in pensione e professore dell'University College di Londra Dave Curtis che comunica, indignato, di aver scritto a Lancet «per dire loro di togliermi dalla loro lista di revisori statistici e cancellare il mio abbonamento e non contattarmi mai più per nulla». Ci sono ovviamente e giustamente anche le femministe, come il gruppo "Women Make Glasgow", che dicono di voler presentare un reclamo formale su quella copertina «disumanizzante e sessista». Ma tra gli indignati ci sono anche gli attivisti dei diritti gay, lesbian, bisexual, trangender, e poi queer, intersexual e perfino asexual, secondo la versione attualizzata d'oltreoceano. «Il linguaggio disumanizzante ha ora infettato il Lancet», ha ad esempio twittato Dennis Kavanagh di Lesbian & Gay News. «Dove andremo a finire?» ha scritto invece Martina Navratilova, grande tennista del passato e celebrata atleta del mondo Lgbt. Ovviamente nessuno toglie a questi maître à penser della vulgata pseudo progressista il diritto e le libertà di indignarsi, se non fosse che sono proprio loro che hanno innescato la deriva che ha trascinato al largo anche il Lancet, promuovendo la cancellazione dei "gender binari" e di fatto la disumanizzazione dei sessi (si badi, non del sesso), ridotti così in definitiva a pura scelta individuale, se non addirittura a capriccio. In quest'ottica la vagina diventa una semplice caratteristica fisica, perfino trascurabile e in alcuni casi indesiderata, mentre l'utero viene relegato a mero organo utile solo allo scopo riproduttivo. D'altronde cos'è se non un "corpo con vagina" una donna che a pagamento riproduce un bambino per una coppia gay? Ma questa non è la sola contraddizione. L'altra, più politica, è che contro la definizione di Lancet si è scatenato tutto l'armamentario politically correct progressista e di sinistra, sotto il cui ombrello convivono appunto femminismo alla Boldrini ed estremismo Lgbt, anche se sono l'uno la negazione dell'altro. In questa supponente cozzaglia ideologica, convive chi vorrebbe declinare al femminile parole che non lo richiedono per onorare la parità dei sessi, e chi al contrario vorrebbe introdurre l'asterisco per annullare i sessi, neutralizzando e trascendendo i generi. Trasformando cioè l'umanità in corpi con vagine e corpi con peni.

Donne, la Maestà sofferente diventa la Falcidia leghista contro l’arte di Pesce. Ma la scultura critica è il simbolo dell’impegno dell’artista a favore dell’universo femminile. Vittorio Sgarbi su Il Quotidiano del Sud il 26 settembre 2021. Il consigliere ed ex presidente della Lega nel Municipio Centro Ovest, dipendente del gruppo del Carroccio in Regione, Renato Falcidia, sui social, definisce spazzatura l’opera di arte contemporanea dell’artista e designer di fama mondiale Gaetano Pesce che ha opere esposte al Moma di New York, al Victoria and Albert Museum di Londra, al Centre Pompidou di Parigi e ora una mostra in Cina. E, di conseguenza, attacca la mostra voluta dalla giunta del sindaco Marco Bucci e che è stata presentata anche dal presidente della Regione Giovanni Toti. Al post di Falcidia arriva il like di Francesca Corso, presidente delle Pari Opportunità del Comune, che forse ignora come la scultura criticata sia il simbolo dell’impegno di Pesce a favore delle donne e degli eventi organizzati dal Comune per sostenere la causa contestualmente alla mostra. Il monumento è infatti il simbolo del pregiudizio maschile che affatica e ostacola la donna in ogni sua forma espressiva. Come le femministe di sinistra a Ferrara, il noto critico Renato Falcidia, prevedibilmente, contesta la “Maestà sofferente” di Gaetano Pesce, uno tra i grandi italiani a New York, rimproverando radicalmente l’artista con argomenti risibili che entrano nel merito dell’invenzione e della estetica della sua opera. Magari non gli piace neanche Picasso, e, figuriamoci, Duchamp. Stavamo aspettando la sua sentenza. Falcidia ignora che Pesce è uno dei pochi artisti non raccomandati dalla sinistra, essendo contro il regime culturale che impone il pensiero unico cui si piega anche lui. Ma, dovrebbe sapere Falcidia, la creatività degli artisti è libera e indipendente. Ed ecco la semplice, onesta storia: considerato che il corpo della donna risulta privo di testa e arti, l’oggetto che maggiormente evoca è senza dubbio una poltrona. Anzi non lo evoca, lo è, partendo da un prototipo elaborato da Pesce cinquant’anni prima, come egli stesso dichiara, in un tempo lungo di conversione ai valori femminili e ai diritti, conquistati in mezzo secolo, appunto, dalle donne. Nessuno obbligava un maschio a fare un monumento alla Maestà ferita, alla Maestà tradita o alla Maestà sofferente; e dovrebbe essere considerata una conquista che un uomo, un artista, nei limiti della sua visione, dedichi un monumento, come non ve ne sono, alla donna. A suo modo. Ma non basta. Falcidia entra nel merito della creatività di Pesce, avanzando osservazioni di tipo moralistico, proprio come hanno fatto le femministe ferraresi: “il nostro problema è un altro: che la violenza di genere venga rappresentata attraverso la riduzione della donna a un corpo inerme e non pensante. E la enormità dell’opera non fa che amplificare questo effetto: corpo inerme e non pensante”. Bravo Falcidia! Ti faremo dare la tessera del Pd! Un’opera d’arte, più o meno riuscita, non è un saggio di sociologia! Deve far pensare. Anche con le metafore, anche con il sogno, anche con una interpretazione visionaria. Nessuno più di Pesce ha interpretato la varietà e i sussulti, i movimenti e le oscillazioni dei comportamenti e del gusto, anche negli ambienti familiari, dove stanno letti e poltrone. E, d’altra parte, se Falcidia e le femministe avessero un po’ di pudore, avrebbero ricordato che alcuni capolavori di De Chirico, archetipi per Pesce, rappresentano mobili nella valle, con grandi e poeticissime metafore. Per alcune interpretazioni essi indicano il nomadismo e il ricordo di trasferimenti di case e di luoghi, nella infanzia. Nell’arte entrano remote suggestioni psicologiche. Nella  tesi di due donne, Rebecca Gander e Paola Montini,  per il corso di Letteratura artistica del semiologo Paolo Fabbri, si legge: “La poltrona, anche come ricordo legato alla madre,  ci sembra che ricopra in De Chirico una posizione di particolare rilevanza dove, di volta in volta, assume funzioni importanti: vitale per un paralitico; come trono dorato per la madre che sorveglia e protegge lui e il fratello; come luogo dell’abbandono ai pensieri dolorosi del padre del figliol prodigo; oppure come emblema del potere e dell’autorità legata al prefetto”. È consentito? Lo stesso De Chirico, nelle “Memorie della mia vita”, trasfigura sedie, letti e poltrone in una dimensione poetica, di ritorno all’infanzia. E che dire del più ferrarese dei dipinti di De Chirico, “Le muse inquietanti” dove, davanti al Castello Estense, si palesano non uomini, ma manichini? Risulta che qualche uomo abbia contestato De Chirico che ha ridotto l’uomo a manichino, togliendogli testa e arti, e riducendolo a un fantoccio inerme e non pensante? Nessuno ha mai ritenuto di mettere in discussione le scelte di De Chirico. Adesso è arrivata l’ora Falcidia. A Falcidia non deve piacere De Chirico. A Falcidia e alle femministe non piace Pesce. Sanno bene loro cosa vuol dire lui. E cosa dovrebbe dire? L’arte non si giudica, se non rispetto alla sua incidenza storica.  L’arte si sente, perché sensibili, più delle persone comuni, sono gli artisti. E pochi sono intelligenti, e sensibili, come Gaetano Pesce. Poveri Falcidia e seguaci, comunisti senza saperlo. Aspettiamo il loro giudizio anche su Evola, Magritte e Henry Moore. E su tutta questa brutta arte degenerata.

La Spigolatrice di Sapri troppo sensuale: la statua scatena le polemiche. Il Quotidiano del Sud il 26 settembre 2021. DOVEVA essere la statua per ricordare la Spigolatrice di Sapri, simbolo della città del Cilento che raffigura la donna che raccoglie le spighe e legata anche alla celebre poesia antiborbonica di Luigi Mercantini, ispirata alla spedizione di Carlo Pisacane. Invece, è diventata oggetto di polemica per una presunta visione sessista. Il comune della provincia di Salerno che conta più di seimila abitanti ha voluto dedicare una nuova statua bronzea sistemata sul lungomare e inaugurata alla presenza di autorità locali, ma in poco tempo sono arrivate le polemiche legate alle forme troppo procaci della donna rappresentata nella statua. La spigolatrice descritta da Mercantini nella poesia sarebbe infatti una giovane lavoratrice dei campi, presumibilmente vestita con gli abiti tipici delle contadine dell’epoca ovvero lunghe gonne con grembiuli, dove sistemare il raccolto, camicie accollate e cuffie sui capelli. Invece, l’opera svelata a Sapri mostra una donna adulta, dal corpo fortemente segnato da un abito fasciato e dall’abbigliamento che, secondo i tanti che non hanno gradito la scelta dello scultore Stifano, sarebbe eccessivamente sessualizzante. Molte le critiche arrivate da tutta Italia e le richieste di rimuovere la statua. Le Donne democratiche Pd Palermo spiegano: «Sentiamo il dovere di schierarci in modo netto e categorico per l’abbattimento di questa statua diseducativa e fuorviante che banalizza le donne e vanifica ogni comizio in favore della parità di genere urlato dalle poltrone politiche di ogni istituzione». «Ancora una volta ci viene chiesto di subire l’umiliazione di vederci rappresentate in forma di corpo sessualizzato, privo d’anima e di legame con le questioni sociali e politiche a fronte di una storia che è  tutt’altra: la figura della Spigolatrice di Sapri, ideata e poetizzata da Mercantini viene proprio a Sapri ridotta a uno stereotipo che nulla ci racconta della rivoluzione antiborbonica e che nulla ci racconta dell’autodeterminazione di una donna che sceglie di non andare a lavoro per schierarsi contro l’oppressore». 

L’autore della statua, Emanuele Stifano, risponde alle critiche: «Se fosse stato per me avrei fatto una figura completamente nuda, lo stesso vale a dire per il Palinuro di qualche anno fa e per le statue che farò in futuro, a prescindere dal sesso, semplicemente perché sono amante del corpo umano in generale e mi piace lavorarci. Penso comunque sia inutile dare spiegazioni a chi vuole assolutamente vederci depravazioni o cose varie». 

Valentina Santarpia per corriere.it il 27 settembre 2021. Seducente, lo è di sicuro. Che sia anche appropriata, la nuova statua dedicata alla spigolatrice di Sapri, è faccenda contestata. Da quando ieri sono circolate le foto dell’inaugurazione, con tanto di sguardo perplesso/ammirato di alcuni politici presenti, lo scultore Emanuele Stifano e la cittadina sul mare, una delle ultime della provincia di Salerno prima che inizi la tortuosa costa della Basilicata, sono diventati argomento di discussione. Con accuse di sessismo da una parte, e difesa del corpo rappresentato nell’opera d’arte, dall’altro. Ma andiamo per ordine. La figura leggendaria della spigolatrice è, per Sapri e dintorni, indissolubilmente legata alla poesia di Luigi Mercantini: «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti. Me ne andavo un mattino a spigolare, quando ho visto una barca in mezzo al mare». Chiunque frequenti il Cilento si è fermato a leggere questi versi sulla stele che ricorda la fallita spedizione di Sapri di Carlo Pisacane (1857) che aveva lo scopo di innescare una rivoluzione antiborbonica nel Regno delle Due Sicilie. Mercantini racconta la vicenda storica dal punto di vista di una lavoratrice dei campi, addetta alla spigolatura del grano, che si trova per caso ad assistere allo sbarco, incontra Pisacane e se ne invaghisce. La donna, la spigolatrice appunto, parteggia per i trecento e li segue in combattimento, ma finisce per assistere impotente al loro massacro da parte delle truppe borboniche. Un massacro che negli anni è stato rievocato con diversissime celebrazioni e rappresentazioni, con tanto di figuranti in spiaggia e simulazioni battagliere, e che è diventato un rito a metà tra storico e turistico. È per questo che la spigolatrice non è donna qualsiasi, ma un simbolo, un riferimento, una sorta di musa, per quelle terre che, a parte una natura selvaggia e strepitosa spesso maltrattata, non hanno avuto altre doti per procurarsi la fama ed entrare nei libri di storia. E forse è per questo che la statua appena inaugurata, che la mostra con un abito succinto, trasparente, assolutamente capace di non far immaginare nulla delle forme sinuose, ha sollevato più di qualche perplessità. Non che uno volesse immaginarsi la bella spigolatrice pura e casta e timorata di Dio. Ma almeno lasciarle quell’aura di figura aulica, quasi divina, poco terrena, leggendaria e sacra, sarebbe sembrato opportuno, almeno a sentire i commenti stupiti e indignati di chi ha assistito allo svelamento della statua sotto gli occhi di Giuseppe Conte, in città per un tour elettorale. E di chi, osservandone le fattezze sensuali, ha bollato l’opera d’arte come sessista. «È un’offesa alle donne e alla storia che dovrebbe celebrare - scrive su Twitter l’ex presidente della Camera ed esponente del Pd, Laura Boldrini - Ma come possono perfino le istituzioni accettare la rappresentazione della donna come corpo sessualizzato? Il maschilismo è uno dei mali dell’Italia». «A Sapri uno schiaffo alla storia e alle donne che ancora sono solo corpi sessualizzati. Questa statua della Spigolatrice nulla dice dell’autodeterminazione di colei che scelse di non andare a lavoro per schierarsi contro l’oppressore borbonico. Sia rimossa!», chiede la collega di partito Monica Cirinnà. E le Donne democratiche Pd di Palermo sentono «il dovere di schierarci in modo netto e categorico per l’abbattimento di questa statua diseducativa e fuorviante che banalizza le donne e vanifica ogni comizio in favore della parità di genere urlato dalle poltrone politiche di ogni istituzione». Il sindaco di Sapri, Antonello Gentile, assicura che «al momento a Sapri nessuna parte sociale o politica ha criticato l’opera o distorto il concetto di opera realizzata dall’artista». E lo scultore cilentano Emanuele Stifano si difende: «Se fosse stato per me - scrive su Fb - avrei fatto una figura completamente nuda, lo stesso vale per il Palinuro di qualche anno fa e per le statue che farò in futuro, semplicemente perché sono amante del corpo umano in generale e mi piace lavorarci. Penso comunque che sia inutile dare spiegazioni a chi vuole assolutamente vederci depravazioni o cose varie». Allibito e sconfortato dalle «accuse di ogni genere» che gli sono piovute addosso, lo scultore ha provato a spiegarsi su Facebook: «Quando realizzo una scultura tendo sempre a coprire il meno possibile il corpo umano, a prescindere dal sesso. Nel caso della Spigolatrice, poiché andava posizionata sul lungomare, ho “approfittato” della brezza marina che la investe per dare movimento alla lunga gonna, e mettere così in evidenza il corpo. Questo per sottolineare una anatomia che non doveva essere un’istantanea fedele di una contadina dell’800, bensì rappresentare un ideale di donna, evocarne la fierezza, il risveglio di una coscienza, il tutto in un attimo di grande pathos. Aggiungo che il bozzetto preparatorio è stato visionato e approvato dalla committenza. A chi non mi conosce personalmente dico che metto in discussione continuamente il mio operato, lavorando con umiltà e provando sempre a migliorarmi, lungi da me accostarmi ai grandi Maestri del passato che rappresentano un faro che mi guida e mi ispira». Tema sensibilissimo, quello toccato dallo scultore: senza andare a scomodare la copertura delle statue dei musei Capitolini in vista della visita del presidente dell’Iran a Roma- vicenda che portò ad un’indagine interna di Palazzo Chigi- dove finisce l’opportunità di una rappresentazione artistica e dove inizia la censura? Anche perché, a ben vedere, anche la statua della spigolatrice posta un po’ più in là, sullo scoglio dello Scialandro, non è così «coperta». Ma almeno è lontana dagli sguardi indiscreti, libera in mezzo al mare.

Michele Serra per "la Repubblica" il 28 settembre 2021. Effettivamente la spigolatrice di Sapri mostra il culo, su questo non c'è dubbio. La si è guardata a lungo, tutti, ben oltre, diciamo così, il dovere di cronaca. E dunque vale la critica che quella posta in Sapri a futura memoria dallo scultore Stifano sia una statua "ipersessualizzata" rispetto all'oggetto in questione, che è una contadina meridionale di un paio di secoli fa: molto difficile, secondo qualunque informazione storica e iconografica a nostra disposizione, che mostrasse il culo. Né la (brutta) poesia di Luigi Mercantini, della quale la statua è comunque un miglioramento, autorizza a pensarlo. Detto questo, ciò che sbalordisce non è la ragione della critica, che non è solo legittima, è anche giusta. È il tono. Dall'abbattimento in su, e in giù, pare che quel bronzo costituisca volontaria offesa alla libertà delle donne di non apparire come un oggetto sessuale: argomento così indiscutibile, e così forte, che ci si meraviglia possa essere messo a repentaglio da un paio di natiche di bronzo. Ecco, forse l'epoca della suscettibilità è soprattutto l'epoca della fragilità. Ci si sente messi a repentaglio da molto poco, da un'opinione avversa, da un luogo comune consumato, da una statua sgradita. Come se debolissima fosse la percezione delle proprie ragioni, che altrimenti non vacillerebbero per così poco. Il rischio - altissimo - è che le migliori cause, per fanatismo, per rigidità, per moralismo, per emotività, diventino impopolari e sgradite: perché ipercensorie, che siccome il troppo stroppia vale quanto ipersessuale. Così che qualcuno possa pensare, alla fine, che il contrario di ipersessuale è sessuofobo, e dunque il vero vulnus non siano le chiappe della spigolatrice di Sapri, ma le chiappe in genere

Dagonews l'1 ottobre 2021. Da “Radio Cusano Campus”. La sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta questa mattina nel programma “Genetica Oggi”, condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, riguardo alle polemiche sulla statua della Spigolatrice di Sapri. "Si grida troppo al sessismo quando si parla del corpo femminile. Io non credo che questo faccia bene alle donne. Ci si dimentica sempre che noi donne siamo anche corpo, che ci esprimiamo anche attraverso il corpo. Se arriviamo alla negazione del corpo, per non essere 'sessisti', si sta in realtà raggiungendo un elevatissimo livello di ipocrisia. La tutela della donna non avviene rinnegando il corpo, anzi il corpo femminile andrebbe anche esaltato. Si dice sempre che l'aspetto non conti quando sappiamo invece che tutti noi ci misuriamo anche con questa dimensione. Mi chiedo che male ci sia ad avere un bel corpo con sopra una bella testa?!”. "Non è una questione di forme, ma di corpo in quanto tale. Se un artista ha una visione più erotica di una spigolatrice non credo ci sia nulla di male. Il problema del sessismo non lo risolviamo certo rimuovendo la statua della spigolatrice. I social sono pieni di immagini che mettono le donne in una determinata luce, cosa facciamo? Li chiudiamo? Dovremmo vietare la pornografia? Dovremmo vietare certi film? Penso che sia tutto molto eccessivo per questi tempi”. "La nostra fisicità rappresenta parte della nostra identità, racconta chi siamo. Molte problematiche che avvengono a livello della sfera sessuale avvengono perché non ci si riesce a vedere nel proprio corpo. Il piacere sessuale passa anche dal corpo, dal mostrarlo e dal sentirsi bene dentro di esso”. "Il sessismo e la tutela della donna dovrebbe passare attraverso leggi che non ci sono e che dovrebbero tutelare le donne, non attraverso la critica a certe immagini”.

Meloni contro le femministe: “Vi indignate per la Spigolatrice e non per la Madonna a forma di vagina”. Alberto Consoli giovedì 30 Settembre 2021 su Il Secolo d’Italia. Giorgia Meloni interviene sulla statua della Spigolatrice di Sapri “formosa” che tiene ancora banco tra mille ipocrisie. La leader di Fratelli d’Italia commenta con un’osservazione pungente: “Ho saputo che alcune femministe avrebbero chiesto la rimozione di una statua perché “troppo formosa”. E – a loro dire – offensiva per le donne. Mi chiedo – ragiona la leader di Fratelli d’Italia  – : ma per caso sono le stesse che hanno promosso o difeso l’imbarazzante iniziativa nella quale veniva esposta una Madonna a forma di vagina?”. La domanda contiene già la risposta: “Qualcuno di voi ricorda qualche loro parola di condanna nei confronti di una squallida rappresentazione che, sì, offendeva le donne?”. Mai una critica giunse dalle femministe sulla blasfemia grave commessa. Era l’8 marzo scorso. La spigolatrice di Sapri in abiti succinti, aderenti, con le forme del corpo in evidenza resta, intanto,  dove sta: sul lungomare della cittadina in provincia di Salerno. I commenti sulla pagina Fb di Giorgia Meloni mettono in luce l’ipocrisia enorme di chi sta suscitando un finimondo: “È una statua bellissima, ma perché queste donne se la prendono tanto; invece per quella pubblicità della nuvenia che fanno sempre nelle ore quando si pranza o si cena tutti zitti mah!!”. C’è l’ironico: “Beh…le critiche, leggo, arrivano da Cirinnà e Boldrini…Eh…niente…fa gia ridere cosí”. Tra i commenti c’è chi fa un’esegesi della statua oggetto di polemiche: “La donna mediterranea, ed in questo caso cilentana, ha le forme. Non è una donna androgina. Cosa c’è di male?  L’ autore ha spiegato che il vestito è in movimento per rappresentare il vento e la brezza marina”. Scrive un altro utente: “La sensualità, non ha epoca. Abiti succinti, e diventa scandalosa? Ma perché la donna deve essere giudicata per questo?E si dicono pure femministe?”. E a proposito dell’iscena rappresentazipne della Madonna rappresentata come un vagina un’uutente di Fb sottolinea: “Non offendeva solo le donne, quella manifestazione offendeva una religione, il pudore, la sensibilità, chiunque non la pensasse come loro”. Ma allora tutte zitte. Le femministe si scaldano a corrente alternata. Ricordiamo bene lo scempio accaduto al quartiere Montesacro di Roma: dove un gruppo di femministe di due centri sociali protestò contro il parroco dei Santi Angeli Custodi portando in processione una Madonna a forma di vagina. La colpa di don Mario era di essere «fascista ed omofobo» per essersi opposto al progetto di pedonalizzazione di piazza Sempione. Che per chi non è della zona, prevedeva lo spostamento della statua della Madonna che è lì da una vita.

Femministe fanno la festa alla Madonna con una statua a forma di vagina. La Meloni: «Blasfemia». Michele Pezza lunedì 8 Marzo 2021 su Il Secolo d’Italia. Un accordo in extremis Peppone e don Camillo riuscirono trovarlo. Il Comune doveva costruire otto alloggi popolari su un terreno ceduto dalla parrocchia su cui insisteva l’antica edicola raffigurante la Madonna. Fallito ogni tentativo di disfarsene con la forza, il sindaco comunista si rassegnò a inglobarla nella nuova costruzione. Gli appartamenti si ridussero così a sette. E qui fu il parroco a far la sua parte: gli spettava assegnare la metà degli alloggi, ma ne considerò uno già occupato da un’Inquilina di suo gradimento. Questi erano i racconti che il Grande Fiume affidava alla pena di Giovannino Guareschi in altri tempi e in un’altra Italia. Ben diversa da quella di oggi, intossicata da ideologie di pseudo-liberazione, il cui unico obiettivo è quello di riportare l’uomo nel suo stato di natura. Non libero, ma primitivo.  Basta vedere quanto accaduto al quartiere Montesacro di Roma, dove un gruppo di femministe di due centri sociali ha protestato contro il parroco dei Santi Angeli Custodi portando in processione una Madonna a forma di vagina. La colpa di don Mario, subito bollato come «fascista ed omofobo»? Essersi opposto al progetto di pedonalizzazione di piazza Sempione che prevedeva lo spostamento della statua della Madonna subito prima della scalinata della chiesa. E aver definito «uno scempio» la bandiera Arcobaleno. Da qui la reazione femminista e la vigilia della festa della donna trasformata in oltraggio alla Madonna. Era rosa shocking e a forma di vagina quella portata in processione fino alla scalinata che porta al sagrato della chiesa. Che cosa volessero dire con questa blasfema carnevalata è un mistero che certamente svelerà uno di quei so-tutto-io che di solito troviamo appollaiati nei talk-show o nelle pagine culturali dei giornali. Hanno una toppa per ogni buco e beccano applausi ad ogni rammendo. Non da tutti, per fortuna. «Qualcuno si sente rappresentato da questi personaggi che fanno della blasfemia e del cattivo gusto una bandiera?», chiede Giorgia Meloni in un post nel quale mostra la foto pubblicata su “Il Giornale” (in alto). In appoggio alla leader di FdI anche Provita, associazione molto impegnata nelle campagne antiabortiste: «Ma le donne poi, sarebbero solo la propria vagina?».

La statua simbolo del Risorgimento italiano appena inaugurata. Cosa è la Spigolatrice di Sapri e perché è al centro della polemica: “È un’opera sessista”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Settembre 2021. “Eran trecento, eran giovani e forti,/e sono morti!/Me ne andava al mattino a spigolare/quando ho visto una barca in mezzo al mare:/era una barca che andava a vapore,/e alzava una bandiera tricolore”. Sono questi i versi immortali di Luigi Mercantini, che ispirarono l’istallazione a Sapri, nel Cilento, di una statua che rappresenta una donna, la spigolatrice, che guarda la scena in mare. Una nuova statua della spigolatrice è appena stata inaugurata sul lungomare cittadino e con essa sono partite le polemiche. Un tempo quei versi di Mercantini si imparavano a memoria a scuola. Una storia che racconta la fallita spedizione di Sapri di Carlo Pisacane (1857) che aveva lo scopo di innescare una rivoluzione antiborbonica nel Regno delle Due Sicilie. La poesia racconta quella scena: la spigolatrice, una contadina addetta alla spigolatura del grano, si trova per caso ad assistere allo sbarco, incontra Pisacane e se ne invaghisce. La donna, la spigolatrice appunto, parteggia per i trecento e li segue in combattimento, ma finisce per assistere impotente al loro massacro da parte delle truppe borboniche. Succede così che la spigolatrice diventa un simbolo anche se mai entrata nei libri di storia. La statua presente a Sapri se ne sta sola su una roccia, visibile solo dal mare. Ma negli ultimi giorni una nuova statua è stata inaugurata nella cittadina cilentana alla presenza anche di Giuseppe Conte. La statua è di bronzo, e rappresenta una donna dalle belle forme e con un abito succinto che sembrerebbe trasparente. Da qui la polemica di chi ha definito l’opera “sessista”. “È un’offesa alle donne e alla storia che dovrebbe celebrare – ha scritto su Twitter l’ex presidente della Camera ed esponente del Pd, Laura Boldrini – Ma come possono perfino le istituzioni accettare la rappresentazione della donna come corpo sessualizzato? Il maschilismo è uno dei mali dell’Italia”. “A Sapri uno schiaffo alla storia e alle donne che ancora sono solo corpi sessualizzati. Questa statua della Spigolatrice nulla dice dell’autodeterminazione di colei che scelse di non andare a lavoro per schierarsi contro l’oppressore borbonico. Sia rimossa!”, ha chiesto la collega di partito Monica Cirinnà. E le Donne democratiche Pd di Palermo hanno sentito “il dovere di schierarci in modo netto e categorico per l’abbattimento di questa statua diseducativa e fuorviante che banalizza le donne e vanifica ogni comizio in favore della parità di genere urlato dalle poltrone politiche di ogni istituzione”. Lo scultore Emanuele Stifano si è difeso su Facebook: “Se fosse stato per me – ha scritto in un post – avrei fatto una figura completamente nuda, lo stesso vale per il Palinuro di qualche anno fa e per le statue che farò in futuro, semplicemente perché sono amante del corpo umano in generale e mi piace lavorarci. Penso comunque che sia inutile dare spiegazioni a chi vuole assolutamente vederci depravazioni o cose varie”. “Quando realizzo una scultura tendo sempre a coprire il meno possibile il corpo umano – ha spiegato lo scultore – a prescindere dal sesso. Nel caso della Spigolatrice, poiché andava posizionata sul lungomare, ho ‘approfittato’ della brezza marina che la investe per dare movimento alla lunga gonna, e mettere così in evidenza il corpo. Questo per sottolineare una anatomia che non doveva essere un’istantanea fedele di una contadina dell’800, bensì rappresentare un ideale di donna, evocarne la fierezza, il risveglio di una coscienza, il tutto in un attimo di grande pathos. Aggiungo che il bozzetto preparatorio è stato visionato e approvato dalla committenza. A chi non mi conosce personalmente dico che metto in discussione continuamente il mio operato, lavorando con umiltà e provando sempre a migliorarmi, lungi da me accostarmi ai grandi Maestri del passato che rappresentano un faro che mi guida e mi ispira”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La Baviera sul linguaggio gender. "Va salvaguardato il tedesco". Daniel Mosseri il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Il governo contro le università che impongono ai loro studenti una scrittura più neutra e inclusiva. No all'indottrinamento del linguaggio «inclusivo» e no ai poliziotti del linguaggio. Il governo regionale di Monaco di Baviera ha lanciato un avvertimento alle università e alle accademie che operano sul territorio del Libero Stato di Baviera: gli studenti che non adoperano gli asterischi o le schwa, che non declinano i nomi anche al femminile ma che insisteranno con l'uso tradizionale delle desinenze al maschile non dovranno ricevere voti più bassi. Il gendern, così si indica con neologismo tedesco la pratica di trasformare il linguaggio depurandolo dall'uso prevalente del maschile, «non deve essere rilevanti a fini degli esami», ha dichiarato lo stesso Söder a seguito di una riunione dell'esecutivo regionale. Dello stesso avviso il ministro bavarese per la Scienza, Bernd Sibler. Smentendo alcune voci circolate nei giorni scorsi secondo cui ad alcuni studenti allergici al gendern sarebbero stati assegnati dei voti più bassi, il ministro del partito cristiano sociale bavarese (Csu) di Söder ha affermato che nel Land meridionale tedesco non è stata registrata alcuna protesta o denuncia da parte di studenti ma che tuttavia «l'uso del linguaggio di genere non dovrebbe essere un criterio di valutazione». La sollecitazione dell'esecutivo, ha poi aggiunto lo stesso Söder, è di natura provvisoria e il governo di Monaco si riserva di verificare e approfondire la questione in futuro. Abituato a far notizia per i suoi modi assertivi, a meno di una settimana dalle elezioni per il rinnovo del Bundestag, Söder sposta su di se la luce dei riflettori della politica. Ma l'annuncio era nell'aria: la settimana scorsa la Conferenza delle Università bavaresi e il governo di Monaco avevano polemizzato a distanza in materia. Ad agosto una serie di università ha preparato alcune linee guida per consigliare agli studenti di non utilizzare le desinenze maschili e femminili ma al contrario di impiegare un linguaggio più neutro e inclusivo anche grazie all'uso di asterischi. A ruota gli atenei bavaresi hanno ribadito che «gli studenti sono liberi di scegliere la lingua per loro più appropriata. Nessuno può quindi essere valutato in maniera peggiore». Troppo poco per il governo di Söder, il governatore che fino alla scorsa primavera ha cercato di farsi accreditare quale candidato cancelliere di tutti i moderati. Parlando al congresso della Csu e in una serie di interviste, Söder ha etichettato le linee guide degli atenei come «indottrinamento», ricordando che il linguaggio non si impone dall'alto e che tali indicazioni finiscono poi in eccessi secondo cui non si potrà più dire «padre e madre» ma «genitore 1 e genitore 2». «Io non voglio che i miei figli mi chiamino genitore», ha affermato. Il gendern non è esclusiva delle università: molte amministrazioni prediligono l'uso di termini neutri. Così per non dire elettori ed elettrici si dirà «persone votanti» e per non dire lavoratori o lavoratrici si dirà «forza lavoro». La settimana scorsa il 96% dei delegati al congresso della Csu ha respinto «gli eccessi politicamente indottrinati e artificiali delle acrobazie linguistiche gender-moralistiche». Daniel Mosseri

Milo Manara contro il politicamente corretto: «Crea censura. Oggi non mi farebbero disegnare». Eleonora Guerra il 20 settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. «Se dobbiamo scegliere tra la vita e la libertà, significa che stiamo messi male». A dirlo è stato Milo Manara, nell’ambito di un’ampia riflessione che sulle minacce alla libertà di pensiero e di espressione, che vanno dal politicamente corretto ai fondamentalismi, che più d’una volta hanno insanguinato le nostre città. «Oggi non mi permetterebbero più di disegnare le mie tavole e le mie eroine. Forse, in questo asfittico clima da politicamente corretto, neanch’io mi sentirei tranquillo», ha detto il maestro dei fumetti. Intervistato dal Messaggero, in occasione della conclusione di Pordenonelegge, dove ha presentato A figura intera, l’autobiografia edita da Feltrinelli Comics e curata dal direttore editoriale, Tito Faraci, Manara ha rivendicato il valore della libertà, che sempre ha ispirato la sua opera e la sua vita, ma che pure lui si è visto mettere in discussione. Avvenne, per esempio, nel 2014, quando negli Usa si ritrovò duramente contestato per aver disegnato una Donna ragno nel suo stile, dunque particolarmente sexy. Era «per una serie di copertine sulle supereroine e – ha ricordato Manara – mi sono beccato l’accusa di sessismo. Credo che la Marvel non mi chiamerà mai più». Manara poi, sei anni dopo, si prese la sua rivincita, quando quel disegno fu battuto all’asta per 37.500 dollari. Ma il caso resta. E lui, in fin dei conti, assolve pure gli editori. «Capisco anche la prudenza degli editori visti i tempi, nessuno – ha detto – vuole diventare il nemico pubblico numero uno». Per Manara, però, le minacce alla libertà non arrivano solo dal politicamente corretto. «Ci sono fenomeni allarmanti, come quel professore in Francia, sgozzato in classe per aver fatto una lezione sulla storia della religione. Se dobbiamo scegliere fra la vita e la libertà, significa che siamo messi male», ha sottolineato, invitando a non dimenticare «la multi religiosità sociale». «Io – ha aggiunto – sono ancora Charlie Hebdo, lo ero prima dei fatti del Bataclan e lo sono ancora oggi. La censura è tornata indietro a cinquant’anni fa, soprattutto negli Usa». Manara, comunque, non si ritiene «scandaloso». «Oggi possiamo scandalizzarci solo per chi si batte per la verità», ha detto, citando Greta Thunberg e aggiungendo che «oggi, l’arte erotica è bandita non perché sia scandalosa, ma perché c’è chi si indigna». Essere politicamente scorretti, però, non è un dovere. Semmai «un artista dev’essere libero di osare, senza farsi imporre limiti da nessuno». «Un disegnatore non deve essere un apolide, ma rivendicare un ruolo sociale», ha poi aggiunto, chiarendo che con le sue immagini postate sui social, in occasione di fatti come l’anniversario della «catastrofe etica del G8 di Genova» o di quella ambientale degli incendi in Sardegna, «realizzo un’immagine e la posto, recuperando il ruolo pubblico». «Fa riflettere che il cinema e l’arte erotica siano scomparsi e intanto letteratura, cinema e tv continuano a raccontare fatti di sangue. Non vedo come ciò possa aiutarci debellare la violenza dalla società», ha proseguito Manara, per il quale in questa società non c’è particolare spazio per l’avventura. «Ho l’impressione che ci preferiscano calmi e addomesticati», ha concluso, avallando però il Green pass. «I governi devono governare e io mi faccio il Green pass. Abbiamo dieci milioni di non vaccinati e non possiamo permetterci – ha concluso – di ritornare a mille morti al giorno».

Chiara Bruschi per "Il Messaggero" il 20 settembre 2021. «Io non sono cattiva, è che mi disegnano così», sussurra Jessica Rabbit nel celebre film Chi ha incastrato Roger Rabbit. Impossibile discernere questa frase dalle curve sinuose della sensualissima pin-up, dall'abito striminzito rosso fuoco illuminato da migliaia di paillettes che sobbalza a ogni suo passo; dalla folta chioma e dalle ciglia da cerbiatto, o dalle labbra carnose che insieme alla voce calda, ammaliatrice e apparentemente innocente creano un'aurea togli fiato a tutti i personaggi che si trovavano ad avere a che fare con lei, siano essi in carne e ossa o cartone animato. A «disegnarla così» non era stato Gary Wolf nel romanzo giallo del 1981 Who censored Roger Rabbit dal quale era stato il film Disney. I creatori della pellicola, sette anni più tardi, si erano invece ispirati a Rita Hayworth per il colore dei capelli, a Veronica Lake per la pettinatura e a Lauren Bacall per lo sguardo. Un concentrato di sensualità dell'età dell'oro di Hollywood che aveva permesso di consegnare alla storia un'icona senza tempo. O quasi visto che quel tempo sembra essere scaduto proprio adesso. La Disney, infatti, ha fatto sapere di aver preso provvedimenti nel parco tematico più famoso al mondo, il Disneyland di Anaheim, in California: qui Jessica Rabbit cambierà. Così come molti altri successi della casa di produzione cinematografica anche il film di Robert Zemeckis ha una sua attrazione ispirata alla pellicola, che però stride con i tempi correnti. Nell'era del Metoo Jessica non può più essere una donzella indifesa, vittima della violenza maschile e sempre in attesa che un eroe la salvi dalle grinfie del villain di turno. Nell'attuale animazione del parco a tema, chiamata Roger Rabbit's Car Toon Spin, Jessica veniva catturata da un malvivente che la nascondeva nel baule di un'auto e il marito Roger conduceva i turisti in un'avventura per liberarla. Ora però il robot di Jessica è sparito e nel baule dell'auto ci sono solo barili di acido, temutissimo dai protagonisti del film perché era proprio questo il modo con cui il giudice Morton scioglieva i cartoni animati. Un'assenza che alcuni fan avevano notato e segnalato, preoccupati, e che, avvisa la Disney, non deve allarmare perché è solo momentanea. Jessica tornerà in una versione più attuale e pertinente per la cultura di oggi: non più la moglie di ma sarà lei stessa un'investigatrice privata, titolare della sua agenzia, impegnata nella lotta contro il crimine che sta attanagliando la Los Angeles del 1947. Proprio come faceva Eddie Valiant, interpretato da Bob Hoskins nel celebre film. «Prenderà ispirazione dal suo amico di vecchia data, il leggendario Eddie Valiant, ma Jessica ci dimostrerà che fa sul serio», si legge su una pagina del giornale Extra! Extra! che circola in rete. Nell'articolo si spiega come la carriera di attrice l'abbia resa una delle star più famose e riconoscibili al mondo ma che ora «userà la sua celebrità per far sentire la propria voce». E, a quanto pare, ha già cominciato: «Quando è troppo è troppo» avrebbe detto Jessica allarmata dal diffondersi della criminalità che spaventa i suoi vicini a tal punto da impedire loro di uscire di casa. Questo il suo grido di battaglia: «I criminali stanno progettando qualcosa di grosso, scoprirò di cosa si tratta e vi metterò fine! State attenti, il vostro regno di terrore è finito!». Non si sa ancora se condurrà questa missione ancheggiando con indosso un abito dallo spacco vertiginoso o se in cantiere c'è anche una rivisitazione del suo look. Nella foto che la ritrae a mezzo busto, tuttavia, indossa un casto impermeabile doppio petto con scollo a V e un cappello Fedora. Non è certo il primo passo che la casa di produzione ha compiuto nel rivedere i suoi classici per riadattarli all'era contemporanea. Un anno fa la piattaforma di streaming Disney+ aveva preso provvedimenti contro cartoni animati come Dumbo, Gli Aristogatti, Fantasia, Peter Pan e Il libro della giungla. «Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono oggi - aveva annunciato in un messaggio -. Invece di rimuovere questo contenuto, vogliamo ammetterne l'impatto dannoso, trarne insegnamento e stimolare il dialogo per creare insieme un futuro più inclusivo». 

NON E' UN PAESE PER BIANCHI. Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 settembre 2021. Dopo 17 anni, la rivista Rolling Stone ha aggiornato la lista delle migliori 500 canzoni al mondo. I cambiamenti più significativi sono stati nelle prime tre posizioni, oggi assegnate a tre celebri cantanti di colore: Aretha Franklin (1), Public Enemy's (2) e Sam Cooke (3). Fino al 2004, invece, in testa alla classifica svettavano Bob Dylan, i Rolling Stones e John Lennon. La rivista ha scritto che la sua lista originale era «dominata dal primo rock e soul», mentre quella nuova include una gamma di generi più ampia tra cui hip-hop, pop latino, rap, country, indie rock e reggae. «Molto è cambiato dal 2004; allora l'iPod era relativamente nuovo e Billie Eilish aveva tre anni. Quindi abbiamo deciso di dare alla lista un riavvio totale...» Il risultato è stata una visione più ampia e inclusiva del pop, una musica che continua a riscrivere la sua storia a ogni battito». La classifica è stata creata con il contributo di 250 musicisti, giornalisti e produttori, che hanno compilato la loro personale Top 50. In tutto, hanno ricevuto un voto oltre 4.000 brani, e nella nuova classifica le novità sono state ben 254. Tra gli artisti che hanno partecipato alla classifica ci sono Cyndi Lauper e Annie Lennox, produttori di successi moderni come Sam Smith e Megan Thee Stallion, leggende del rock come Don Henley degli Eagle e Tainy Corey Taylor degli Slipknot, così come i beniamini indie emergenti Lucy Dacus e Tash Sultana. "Respect" di Aretha Franklin è prima in classifica (nel 2004 era quarta), e ha spodestato "Like a Rolling Stone" di Bob Dylan (finita in quarta posizione). Al secondo posto ha debuttato l'inno dell'attivista per i diritti civili dei Public Enemy "Fight the Power", facendo precipitare il successo dei Rolling Stones "(I Can't Get No) Satisfaction" alla posizione n.31. Il musicista soul Sam Cooke è passato dal numero 12 al numero tre con "A Change is Gonna Come", spingendo "Imagine" di John Lennon alla 19esima posizione. E dopo "Like a Rolling Stone" c'è il successo grunge dei Nirvana "Smells Like Teen Spirit", che si è salito di quattro posti. 

Questi i primi posti nel 2004 

1. Bob Dylan – ‘Like a Rolling Stone’    

2. The Rolling Stones – '(I Can't Get No) Satisfaction'

3. John Lennon – ‘Imagine'

4. Marvin Gaye – ‘What’s Going on’

5. Aretha Franklin – ‘Respect’

6. The Beach Boys – ‘Good Vibrations’

7. Chuck Berry – 'Johnny B. Goode'

8. The Beatles – 'Hey Jude'

9. Nirvana – ‘Smells Like Teen Spirit’

10. Ray Charles – 'What'd I Say'

E nel 2021: 

1. Aretha Franklin – ‘Respect’ (+4)

2. Public Enemy – ‘Fight the Power’ (First time on list)

3. Sam Cooke – 'A Change Is Gonna Come' (+9)

4. Bob Dylan – ‘Like a Rolling Stone’ (-3)

5. Nirvana – ‘Smells Like Teen Spirit’ (+4)

6. Marvin Gaye – ‘What’s Going On’ (-2)

7. The Beatles – ‘Strawberry Fields Forever’ (First time on list)

8. Missy Elliott – 'Get Ur Freak On’ (First time on list)

9. Fleetwood Mac – ‘Dreams’ (First time on list)

10. Outkast – ‘Hey Ya’ (First time on list)

Da “il Giornale” il 19 settembre 2021. «In una storia che avrebbe dovuto ispirare le donne mostrando una giovane donna in competizione con gli uomini ai massimi livelli degli scacchi mondiali, Netflix ha umiliato l'unica vera donna che aveva effettivamente affrontato e sconfitto gli uomini sulla scena mondiale nella stessa epoca». È con questa motivazione che l'ex campionessa sovietica di scacchi Nona Gaprindashvili, all'età di 80 anni, decide di far causa a Netflix, per sessismo e danno di immagine. Nell'ultimo episodio della popolarissima serie tv «La Regina degli scacchi», («The Queen's Gambit» in originale), che ha per protagonista Beth Harmon, interpretata da Anya Taylor Joy, si sostiene che la leggenda sovietica non abbia mai duellato con uomini. «Una falsità che cancella la mia vita», replica la Gaprindashvili, che per questo chiede 5 milioni di dollari di risarcimento e la rimozione dell'affermazione denigratoria. Ecco la frase incriminata: «C'è Nona Gaprindashvili, ma lei è campionessa femminile di scacchi e non ha mai affrontato uomini». Un'affermazione che storpia anche il libro del 1983 di Walter Tevis a cui si ispira la serie, vista da oltre 62 milioni di famiglie e al secondo posto nella classifica delle serie più viste della storia della piattaforma streaming dopo «Tiger King» (64 milioni).

Morello Pecchioli per “La Verità” il 19 settembre 2021. No racistcake colpiscono ancora. L'ultimo dolce a cadere sotto gli strali dell'antirazzismo dolciario, del politically correct alimentare, è la torta di mele. Raj Patel, giornalista gastronomico del Guardian, l'ha bollata come razzista. Patel, inglese di origini indiane, l'accusa di essere un simbolo del colonialismo yankee: le mele di origini europee, portate in America dai coloni post colombiani, avrebbero contribuito al «vasto genocidio di popolazioni indigene». Come? Favorendo la colonizzazione di nuovi territori a scapito degli indiani. Il mitico pioniere John Chapman, conosciuto in Italia grazie a Disney come Giovannino Semedimela per aver speso la sua vita a piantare migliaia e migliaia di semi di mela in tutto il West, considerato dalla storia americana il profeta dell'ambientalismo e del naturismo, è visto da Patel come una sorta di John Chivington, il massacratore di pellerossa a Sand Creek. Il gastrogiornalista del Guardian, dato che c'è, scomunica oltre alle mele anche la deliziosa crostina di zucchero sulla apple pie e perfino la tradizionale tovaglia di cotone a quadretti sopra la quale le nonne d'America (la più famosa è Nonna Papera che la prepara per Qui, Quo, Qua) depositano il dolce caldo di forno. Entrambi, zucchero e telo quadrettato, sono condannati come elementi «schiavisti» dallo scatenato no racistcake perché, a suo dire, simboleggiano la tratta degli schiavi e il genocidio di milioni di indiani e africani sradicati dalle loro terre e costretti a lavorare in condizioni disumane nelle piantagioni di canna da zucchero e di cotone. La torta di mele è solo l'ultimo dei dolci e dolcetti finiti nella lista di proscrizione degli estremisti del politicamente corretto, dolcetti colpevoli secondo il fariseismo linguistico di avere un nome, sia pure storico, razzista. Come i «moretti», figurine antropomorfe di liquirizia che ben ricorda chi, bambino negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, li comperava dalla grassa lattaia prima di andare al cinema dei preti. Con 5 lire la donna pescava con la sessola dal vaso di vetro un cartoccino di «moretti» che durava un tempo del film, con 10 lire ci si riempiva la tasca e si succhiava liquirizia per tutta la pellicola. Una sorta di «moretti» li faceva fino a poco tempo fa l'Haribo, l'azienda di dolciumi tedesca che solo in Italia fattura più di 50 milioni di euro. Erano caramelle gommose nere che riproducevano maschere tribali africane e delle antiche civiltà precolombiane. Usiamo i verbi al passato perché nonostante la potenza del fatturato o forse proprio per quello, l'Haribo non le ha più prodotte da quando sono finite nel mirino dei no racistcake svedesi e danesi che puntarono il dito contro la ditta di Bonn accusandola di razzismo e minacciando il boicottaggio dei suoi prodotti. Una sorte simile è toccata ad Agostino Bulgari, il re italiano dei marshmellow. Fatto bersaglio di pesanti ingiurie, ha dovuto piegare la testa e cambiare nome al celeberrimo Negrettino. Bulgari, che ha trasformato la pasticceria fondata dal nonno nel 1880 a Pavone Mella, in provincia di Brescia, in una azienda di fama europea, aveva ideato negli anni Settanta, prendendo ispirazione da dolci simili assaggiati durante un tour nel vecchio continente, questo panciuto bonbon di crema bianca d'albume d'uovo, ricoperto di cioccolato nero con una base di cialda croccante. Un dolcetto semplice che piace un sacco ai bambini e ancor di più ai loro golosi genitori. Agostino è morto ottantasettenne nel gennaio di quest' anno. Gli ultimi anni della sua vita sono stati amareggiati dai violenti attacchi da parte dei sostenitori del politically correct. Gli davano del razzista per aver chiamato Negrettino il Negrettino. Dare del razzista a Bulgari è stato come darlo a San Nicola, Santa Lucia, Babbo Natale, alla Befana e perfino a Gesù Bambino. A tutti quei santi e personaggi, cioè, che nel periodo delle feste natalizie portano giocattoli e dolci ai bimbi buoni. Nel piatto o nella calza dei dolciumi non manca mai il tradizionale Negrettino, dolce stagionale. «Alla fine abbiamo dovuto cambiare nome al Negrettino», racconta il figlio di Agostino, Roberto, che adesso conduce l'azienda con il fratello Riccardo. «Lo abbiamo chiamato Bulgarino. Il papà che lo amava come un terzo figlio non riusciva a concepire il perché di tanta cattiveria e il fatto di doverlo ribattezzare. Ne ha sofferto tantissimo». A vendicare Agostino Bulgari ci pensano gli affezionati consumatori che continuano a chiamarlo col vecchio nome, ma anche Amazon ed Ebay che vendono ancora lo spumoso dolcetto dei Bulgari col nome di Negrettino. L'anno scorso toccò alla Migros, catena svizzera di supermercati (da non confondere con la catena italiana Migross, con due esse), togliere dagli scaffali, in seguito alle proteste antirazziste, i «mohrenköpfe», teste di moro, dolcetti simili al Negrettino di Bulgari. «Abbiamo deciso di togliere il prodotto dal nostro assortimento», precisò Migros sui social, «perché il nome non corrisponde ai nostri valori». Quali valori siano, se etici od economici, si lascia l'interpretazione ai lettori. Valori, comunque, subito condivisi da altre catene della grande distribuzione svizzera che si affrettarono ad eliminare le teste di moro dal reparto dolciumi. La vicenda dei «mohrenköpfe» svizzeri non è ancora finita. L'azienda che li produce, la Richterich, non vuole cambiare il nome storico che, assicura sul suo sito (richterich-ag.ch) «non ha nulla a che fare con le persone dalla pelle scura, ma che deriva da moor che in tedesco antico significa cinghiale». Testa di cinghiale, dunque. Niente male come capriola. I primi «moretti» risalgono ai primi del secolo XIX, inventati, pare, in Danimarca. Si diffusero presto in tutta Europa. I francesi li chiamarono, e li chiamano tuttora, «tête de nègre», testa di negro. Uguale significato hanno i «negerinnentet» belgi e i «negerzoen» olandesi. Ci si chiede cosa succederà alle Morositas, giuggioloni neri, morbidi come la modella di colore Cannelle che negli anni Ottanta, nel periodo del suo maggior splendore, li pubblicizzò in una serie di spot. Anche Roberto Zottar, membro del Centro studi Franco Marenghi dell'Accademia italiana della cucina, in un articolo pubblicato su Civiltà della Tavola, la rivista dell'Accademia, si pone interrogativi sull'eventuale cambio di nome di prodotti e piatti italiani, tra i quali cita il vino Negroamaro, il budino Moretto, la birra Moretti, l'amaro Montenegro, l'aperitivo Negroni, il salame Negronetto del salumificio Negroni di proprietà del gruppo Veronesi. «Credo che il politicamente corretto», scrive Zottar, «rischi di essere talvolta una forma di censura che condanna ciò che non appare in linea con le tendenze culturali attuali. Personalmente tremo al pensiero che simili dibattiti possano innescarsi nell'Italia gastronomica perché metteremmo a rischio molte specialità dai nomi politicamente scorretti. Capita infatti di imbattersi spesso in pietanze dai nomi curiosi e forse poco invitanti». Molto poco invitante è, tra i formaggi, il puzzone di Moena. Tra i salumi non sono da proporre a persone con la puzzetta al naso i coglioni di mulo, le palle del nonno e nemmeno sua maestà il culatello di Zibello. Ricordano i postriboli napoletani gli spaghetti alla puttanesca. Nomi nati in passato dalla cultura contadina, codificati da secoli di storia. Come gli strangolapreti trentini che alcuni storici della tavola sostengono nati all'epoca del Concilio di Trento (1545-1563) e così chiamati per la voracità con cui venivano divorati da certi panciuti cardinali. Avrebbero lo stesso buon sapore se il Vaticano in nome del politicamente corretto chiedesse di cambiare il loro nome in «gnocchetti di pane raffermo e spinaci alla trentina»? 

Abudinen, il cognome dell’ex ministra nel dizionario come sinonimo di ruberie. La componente del governo aveva dovuto dimettersi per lo scandalo di una presunta maxi tangente. Il verdetto lessicale precede quello giudiziario. E lei si appella alla Crusca ispanica. Daniele Mastrogiacomo su L'Espresso il 13 settembre 2021. Il linguaggio comune, alla fine, può più di qualsiasi inchiesta giudiziaria. E di un verdetto. Sebbene si tratti di una condanna virtuale ma ben più pesante di quella decisa da un tribunale e più difficile da sopportare. Soprattutto quando il tuo cognome, nel lessico comune, si trasforma in un verbo che ti inchioda a responsabilità che la Giustizia deve ancora acclarare ma che per la gente sono un dato di fatto. Accade in Colombia. La ex ministra della Tecnologia, dell’Informazione e delle Telecomunicazioni Karen Abudinen, dimessa per un caso di corruzione, scopre che nel Registro Reale Spagnolo, la nostra Accademia della Crusca, si indicava il termine abudinar o abudinear come sinonimo di rubare. Non nella lingua classica del castigliano ma come nuovo termine adottato dal linguaggio comune, grazie ai social e al web. La donna, racconta el Pais, giovane rampolla di una delle famiglie che contano nel paese andino, i Char, padroni di mezza Barranquilla, chiamata a Bogotà dal presidente Iván Duque, di cui è amica, per entrare nell’Olimpo della politica e assumere un incarico di rilievo, non ha retto alla tempesta mediatica. Accusata di aver concesso un appalto poco trasparente per la fornitura della rete Internet anche alle regioni isolate e rurali della Colombia, particolarmente colpite in questi due anni di Covid-19, è stata costretta alle dimissioni dopo 4 mesi di polemiche e indagini della magistratura. Si era scoperto che la società affidataria aveva presentato delle credenziali bancarie false. La Abudinen si era difesa sostenendo di essere stata ingannata. Peggio. Ma pochi hanno creduto alla sua versione perché nel frattempo erano spariti 19 dei 260 milioni del contratto dati come anticipo. Non è chiaro se li abbia intascati lei. E’ molto più probabile che siano finiti in un buco nero e che la truffa è opera della compagnia incriminata. Apriti cielo! Più la ministra si difendeva, più i social, implacabili, si riempivano di commenti acidi. Una vera tempesta. Il presidente Duque l’ha sostenuta per un po’ ma alla fine, visto che la sua giovane protetta rischiava di trascinarlo a fondo, con la gente da mesi in piazza per altri e più gravi problemi, tra scontri violentissimi e polemiche furibonde, ha deciso di mollarla e le ha chiesto di dimettersi. Karen ha obbedito. Ma il fatto che il suo nome fosse diventato sinonimo di “rubare”, entrando a far parte del gergo digitale e di strada, ha ferito il suo orgoglio e ovviamente il suo cognome altisonante. Per la famiglia, sentire accostare il nome Abudinen a chi ruba, dal semplice cellulare alla truffa, è stata un’onta insopportabile. La ragazza doveva reagire, restituire dignità a una dinastia che aveva sempre avuto parola nelle scelte che contano in Colombia. L’ex ministra si è quindi rivolta alla Bibbia della lingua spagnola. Ha scritto a Madrid e ha chiesto spiegazioni su perché quel termine per lei così offensivo in patria, usato dai social e della rete, fosse entrato addirittura nel nuovo gergo segnalato dal Registro reale spagnolo.  “Chiedo che ci sia un pronunciamento ufficiale”, ha esortato la ragazza.  E poi sull’account twitter @karenabudi ha incalzato: “Il mio nome e quello di nessun essere umano può essere usato per essere denigrato. Questo è un crimine”. Il Registro reale spagnolo ha risposto con un tweet già spedito ad altro utente che chiedeva lumi: “Registriamo i termini abudinar e abudinear nei testi delle reti sociali come verbi di recente creazione, usati nel lessico popolare in Colombia come sinonimo di rubare, imbrogliare”. Risposta asettica ma efficace. Perché riporta una verità. Con buona pace di una ragazza troppo giovane e forse troppo ingenua per diventare ministra.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 9 settembre 2021. Ho provato a immaginare una realtà parallela in cui la coppia Concita De Gregorio/David Parenzo alla conduzione di In Onda sia la stessa, ma a sessi invertiti. David è una donna, Concita un uomo. Ecco, non saremmo arrivati alla terza puntata senza le barricate delle femministe (me compresa) fuori dagli studi, visto non tanto l’evidente disequilibrio negli spazi concessi ai due nel programma (Parenzo parla meno della Lagerback da Fazio) ma per i modi con cui lei si rivolge a lui. Sbrigativi, sprezzanti, conditi da sorrisini nervosi attraverso i quali mostra forzatamente i denti (che nel linguaggio non verbale significano una cosa ben precisa: ti vorrei addentare la giugulare) e con una frequente espressione che copre tutte le scale di colori comprese tra il disprezzo e il compatimento. Davvero, se Concita De Gregorio fosse un uomo, non staremmo neppure più qui a parlarne. Avrebbe preso un unico, gigantesco cazziatone agli esordi e si sarebbe ravveduta. E invece ne parliamo perché ieri sera si è raggiunta la vetta più alta della sua arroganza. Ospite il ministro Luigi Di Maio, lo stesso Di Maio ha respirato quell’imbarazzo che si respira a cena, di fronte a una coppia di amici con lui che tratta di merda la moglie o viceversa e tu balbetti qualcosa per sdrammatizzare, ma vorresti infilare la testa nell’insalatiera per l’imbarazzo. Tra l’altro, duole dirlo, ma modi a parte, sul tema virus e Green Pass la De Gregorio era di un’impreparazione tale che Parenzo e Di Maio al confronto parevano Fauci e Burioni. A partire dalla sua sconcertante premessa, ovvero: “Il Green Pass da solo non serve a niente, è solo una certificazione che significa che sei tamponato o vaccinato per entrare nei posti”. Che voglio dire, certo che da solo non serve a niente, infatti non è l’unica misura di contenimento del paese. E no, non è “solo una certificazione”, ma, appunto, una misura di contenimento del virus e di protezione per i cittadini. A quel punto il ministro Di Maio spiega con chiarezza che “il Green Pass serve a entrare nei locali, luoghi insomma in cui c’è la più alta probabilità di trasmettere il virus. Non sarà certo meglio tornare al coprifuoco…”. La De Gregorio scatta come se Di Maio avesse urlato “sieg heil!” in piedi sulla scrivania. E lo interrompe con una supercazzola devastante, avvitandosi su se stessa come spesso le succede: “Il Green Pass è uno strumento di controllo, non di cura! Il vaccino cura o comunque previene cioè “cura” è inesatto, diciamo che PREVIENE DALLA malattia, mentre il Green Pass controlla se ti sei vaccinato. Quindi il governo si deve prendere la responsabilità eventuale”. In pratica, a un anno e mezzo dalla pandemia, la De Gregorio non ha ancora capito le basi dell’epidemiologia, e questo sarebbe pure un peccato grave ma accettabile, ma su quelle dell’educazione ero convinta andasse più forte. E invece riesce pure a rimproverare gli altri interlocutori del problema che la affligge in quel momento: la confusione.  “Introducendo il Green Pass abbassiamo la curva dei contagi!”, dice Di Maio, provando a semplificare il concetto. E lei, nervosa: “No, non è che abbassiamo la curva, col Green Pass non facciamo entrare le persone non vaccinate e tamponate, è questa la questione sennò facciamo confusione!”. In pratica, secondo la conduttrice, il Green Pass è una specie di tessera magnetica dell’hotel, serve solo a entrare in camera. Probabilmente lei accede ai tavolini al chiuso nei bar con la scheda della camera 107 dell’Hilton. Non ha capito quello che hanno capito anche i lampioni: se nei luoghi al chiuso entrano solo persone o vaccinate (quindi protette e meno contagiose se infette) o tamponate (quindi probabilmente non infette e in contatto con persone che se infette contagiano meno gli altri, perché vaccinate) il virus si contiene di più. E i primi ad essere protetti dal Green Pass sono proprio i non vaccinati. Che non sono discriminati, ma tutelati. Parenzo, che ha capito, aggiunge incauto: “Non voglio dar ragione a Di Maio, ma il Green Pass è incentivante!”. Ha dato ragione a un grillino. A UN GRILLINO. Lei mostra le gengive fingendo di sorridere e lì si capisce che butta male, tipo il gatto quando muove la coda. Sono segnali della natura che non si possono ignorare. E insiste, improvvisandosi portavoce “delle persone” che non si sa chi siano, se quelle che incontra lei al bar o quelle che al casello autostradale pagano contanti, boh: “Le persone non vogliono il Green Pass perché il Green Pass stabilisce che ci sia una differenza tra vaccinati e non vaccinati!”. Parenzo prova a proferire parola e lei: “Non sto parlando con te, sto parlando con LUI!”. Cioè, Parenzo non è un suo interlocutore titolato ad intervenire e il ministro è un “Lui generico”. Una specie di schwa, ma un po’ meno. L’invasione della Polonia è stato un momento di maggiore modestia, nella storia. Mentre Di Maio assiste allibito alla tensione tra i due conduttori, lei va avanti: “Molta gente dice ‘se ci dobbiamo vaccinare vi dovete prendere voi la responsabilità, perché io devo firmare? Dovete imporre voi l’obbligo’, oggi una signora mi ha scritto questo!”. Persone, gente, una signora. Deve essere la nuova sinistra che vuole dimostrare di ascoltare la gente. Ma soprattutto la nuova sinistra che non ha mai sentito parlare di “consenso informato” in tema di sanità. Un concetto nuovo, inedito, per la conduttrice. Di Maio dice un altro paio di cose insolitamente lucide e Parenzo, che ormai ha deciso di morire come quei delfini che si spiaggiano da soli e non sai perché, sussurra: “Io non sono d’accordo con Concita!”. I denti. Le gengive. “IO faccio un mestiere che è quello del giornalista e il giornalista fa domande!”, sibila lei. IO. Come a dire “tu invece sei un metalmeccanico” e “tu invece annuisci e basta”. Il problema è che le sue non erano quasi mai domande, ma affermazioni. Dovrebbe rivedersi la puntata, la De Gregorio, e scoprirebbe che oltre all’assenza di educazione, di equilibrio, di preparazione, ieri c’era anche quella dei punti interrogativi. I grandi latitanti, nella sua vita televisiva. E non solo.

L'ultima follia liberal: pure la costituzione è offensiva. Roberto Vivaldelli il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. I National Archives Usa avvisano gli utenti che i documenti storici - fra cui la Costituzione - possono contenere un linguaggio potenzialmente offensivo. Ennesima follia del politically correct. Il regime del politicamente corretto si scaglia contro i Padri Fondatori degli Stati Uniti d'America e contro la costituzione. "Harmful language alert": così recita il disclaimer introdotto dai National Archives (Nara) - l'agenzia del Governo federale incaricata di conservatore importanti documenti governativi e storici - che avvisa i lettori che la costituzione statunitense del XVIII secolo presenta un "linguaggio potenzialmente offensivo" non in linea con gli "impegni istituzionali per la diversità, l'equità, l'inclusione e l'accessibilità". I National Archives, dal canto suo, s'impegnano inoltre "a lavorare con il personale, le comunità e le istituzioni paritarie" al fine di valutare e "aggiornare le descrizioni dannose" e "stabilire standard e politiche per prevenire futuri linguaggi dannosi". Come spiega l'agenzia, i documenti (costituzione inclusa), abbracciano "la storia degli Stati Uniti ed è nostro compito preservare e rendere disponibili questi documenti storici". Di conseguenza, alcuni documenti qui presenti "possono riflettere opinioni e punti di vista obsoleti, prevenuti, offensivi e possibilmente violenti". Nell'era della follia imperante del politically correct si arriva al punto di dover specificare e sottolineare che un documento vecchio di 200 anni (almeno) può presentare un linguaggio vetusto e non adeguato agli standard morali della contemporaneità e, soprattutto, alle mode linguistiche del momento. Perchè il politicamente corretto - un'ideologia universalistica che non ammette obiezioni o punti di di vista differenti dalla vulgata comune - pretende di giudicare il passato, e ora anche le costituzioni, secondo il dogma totalitario della correttezza politica che oggi vige, soprattutto nel mondo anglosassone. Il passato va cancellato - come le statue dei confederati e non solo - perché i nuovi modelli - rigorosamente "inclusivi" - devono essere quelli del politicamente corretto e dunque ispirati a Black Lives Matter e agli altri movimenti della sinistra liberal. Un messianesimo di fondo che conduce a delle crociate come questa, dove tutti - tranni i bianchi eterosessuali, ovviamente - possono sentirsi offesi e discriminati persino dal linguaggio contenuto in documenti storici. È la negazione della storia stessa, ma agli attivisti liberal poco importa: l'unico obiettivo è mettere in discussione la storia scritta dai bianchi, secondo la nuova guerra tribale della politica idenditaria. Come ricorda Yahoo News, il Congresso istituì i National Archives nel 1934 per preservare i documenti storici e gli archivi del governo degli Stati Uniti. Documenti importanti che sono sotto la protezione degli Archivi nazionali includono la Costituzione, il Bill of Rights e la Dichiarazione di Indipendenza. Dopo che i visitatori del sito Web hanno iniziato a notare l'avviso sul linguaggio potenzialmente dannoso, un utente di Twitter ha chiesto chiarimenti a Nara tramite Twitter. Il National Archives ha replicato chiarendo che l'avviso non si riferiva ad alcun documento in particolare presente nel catalogo e che si trattava di un "avviso generale". L'avviso, tuttavia, la dice lunga su quanto la moda del politically correct sia pervasiva e abbia investito anche le istituzioni e non solo il mondo della cultura e dell'intrattenimento.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

Da repubblica.it il 9 settembre 2021. L'ironia di Peter Griffin e famiglia costa cara. Walt Disney, proprietaria del canale Fox, è stata sanzionata dall'Agcom con una multa da 62.500 euro in relazione a una puntata de "I Griffin" sulla nascita di Gesù andata in onda lo scorso marzo. Un episodio, che l'Autorità ha giudicato "nocivo allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori". La delibera con il provvedimento è del 29 luglio e la puntata contestata ("Gesù, Giuseppe e Maria") è stata trasmessa il 12 marzo scorso, tra le 18 e le 18.20, quindi in fascia protetta. All'indomani della messa in onda i parlametari leghisti Roberto Calderoli e Daniele Belotti avevano annunciato l'invio di un esposto all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, chiedendo che l'episodio non venisse più riproposto. Dal canto suo Walt Disney aveva provato a difendersi, sottolineando in particolare che "I Griffin" non sarebbe un programma destinato ai bambini, così come il canale Fox che lo ospita. "Secondo quanto prospettato nelle memorie difensive, “Fox” non è un canale tematico dedicato ai bambini, pertanto nel suo palinsesto non è rinvenibile una fascia di programmi destinata ad attrarre il pubblico di minori", si legge nella delibera. "Il canale è collocato nell’arco di numerazione 100 della guida elettronica dei programmi (EPG) di Sky, molto distante dall’area tematica destinata ai bambini (600), circostanza che concorre ad escludere che normalmente i minori abbiano occasione di transitare sul canale. La società evidenzia che “I Griffin” non è un prodotto per i minori, ma un prodotto di animazione concepito per un pubblico più maturo che si colloca nel filone stilistico e narrativo dell’animation comedy". Una linea difensiva che non ha comunque convinto l'Autorità, che tra i suoi rilievi evidenzia come "nel corso dell’episodio contestato si assiste a dialoghi caratterizzati dall’uso reiterato e gratuito di espressioni volgari, di scurrilità e turpiloquio, di offese alle confessioni e ai sentimenti religiosi". Secondo l'Agcom l'episodio "risulta nel suo complesso nocivo allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori e concretamente idoneo a turbare, pregiudicare, danneggiare i delicati complessi processi di apprendimento dall’esperienza e di discernimento tra valori diversi o opposti, nei quali si sostanziano lo svolgimento e la formazione della personalità del minorenne". Da qui la decisione di irrogare la sanzione da 62.500, pari a due volte e mezzo il minimo edittale (il massimo previsto è 350.000). Una decisione accolta molto positivamente dal senatore leghista Simone Pillon. "Si tratta di un segnale chiaro: l'educazione dei bambini, specialmente su temi sensibili come la religione o la morale sessuale spetta ai genitori, e non ai messaggi ideologici dei big media e delle lobby", ha scritto su Facebook.

Da "Adnkronos" il 31 agosto 2021. Tim, con riferimento a quanto riportato  dalla presente testata in merito allo spot di TimVision con protagonista Lino Banfi, precisa "che non risulta nessun provvedimento del Giurì dell'Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria o del Comitato Media e Minori e che pertanto non vi è stata nessuna censura. La diffusione degli spot previsti a supporto dell'offerta calcio sta proseguendo secondo quanto pianificato lo scorso luglio". E' quanto si legge in una nota di Tim. 

Da "today.it" il 31 agosto 2021. Alla fine il Moige ha vinto. Dopo che la scorsa settimana il Movimento Italiano dei Genitori aveva sporto una denuncia contro lo spot di TimVision dedicato all'Offerta Calcio e Sport a causa del "porca put*ena" gridato da Lino Banfi, la pubblicità è stata censurata. Da questo momento in poi andrà in onda una versione tagliata dello spot in cui il protagonista - ovvero Oronzo Canà, simbolo del film cult L'allenatore nel pallone - inveirà per la sua antenna mal funzionante in modo più contenuto. La denuncia era stata presentata dal Moige all'Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria e al Comitato TV Minori dopo "un abbondante volume di segnalazione da parte di genitori e famiglie", aveva spiegato la onlus in una nota. L'espressione "porca put*ena", si sottolineava, rende "sgradito lo spot alle famiglie e ai minori". "Sembra infatti che, affinché lo spettatore a casa non si annoi, sia necessario ravvivare l'interesse con qualcosa che possa scandalizzare o almeno catturare il pubblico - si leggeva - Una soluzione antiquata e sulla lunga controproducente per le stesse aziende, associate a riferimenti trash nell'immaginario dei clienti, che consigliamo fortemente di non reiterare". E ancora: "In una tv già subissata da contenuti volgari e inadatti ai minori, non si sente davvero bisogno di un ulteriore dose di cattivo gusto e volgarità: e non è possibile derubricare un'esclamazione del genere traformandola in un motto di spirito o in una forma ironica, giocando magari sul personaggio - amatissimo - di Oronzo Cana. 'Le parole sono importanti', diceva Nanni Moretti, e in questo caso le parole scelte per lo spot di TimVision appaiono chiarissime e assolutamente non fraintendibili".

Massimo Gramellini per corriere.it l'1 settembre 2021. Prima o poi la smania purificatrice doveva arrivare anche lì: a Lino Banfi che dice porcaputténa. Lo dice da quarant’anni, senza particolari conseguenze sulla psiche di svariate generazioni. Lo ha ripetuto Ciro Immobile in mondovisione dopo il primo gol agli Europei e ha portato pure bene. Ma adesso che a New York hanno tolto dal menu gli spaghetti alla puttanesca, non poteva durare. Il Moige che invoca la censura per lo spot di Banfi è un capolavoro del grottesco. Prima tira in ballo fantasmatici genitori preoccupati dagli effetti del porcaputténismo su una prole cresciuta con i ditirambi dei rapper. Poi cita nientemeno che Nanni Moretti — «le parole sono importanti» — per spiegare che certe volgarità «sulla lunga sono controproducenti», anche se forse intendeva dire «alla lunga» (le parole sono importanti). Infine, notizia di ieri, spaccia esultante un programmato cambio di slogan — ogni episodio dello spot ne ha uno diverso, l’ultimo è «lapalissienemente» — per una vittoria della censura, intestandosi un demerito che non ha. Se proprio si volesse salvaguardare l’infanzia dalle oscenità degli adulti, basterebbe cominciare dai telegiornali. «Anche da noi chi parla in tv ha i fucili puntati addosso?» ha chiesto un bambino dopo avere visto le immagini del talk show talebano il cui conduttore era sotto il tiro di un manipolo di invasati. Col permesso del Moige è stato bello rispondergli: «No, perché qui siamo in democrazia e ci teniamo ancora alle apparenze, porcaputténa».

La rappresentazione in chiave moderna di Romeo e Giulietta a Londra è accompagnata da avvisi che mettono in guardia sui contenuti del dramma. Francesca Galici il 21 Agosto 2021 su Il Giornale. Anche Romeo e Giulietta è caduto vittima del politicamente corretto. Si sapeva che sarebbe accaduto, era solo questione di tempo. A finire nel mirino è la rappresentazione del Globe theatre di Londra con Alfred Enoch e Rebekah Murrell nei panni dei due protagonisti del dramma shakespeariano. Lui è un attore inglese di colore, lei è di carnagione chiara e per gli organizzatori tanto è bastato per mettere un avviso agli spettatori, informandoli che il contenuto potrebbe turbarli. Siamo davvero diventati così sensibili? In realtà, anche il Times che ha commentato la vicenda nutre qualche perplessità sull'informativa allo spettacolo, che viene addirittura accompagnata dai contatti dell'associazione dei Samaritans e da quelli dello sportello d'ascolto. Le preoccupazioni degli organizzatori nascono dal fatto che la pieces di Ola Ince che vede protagonisti Alfred Enoch e Rebekah Murrell è ambientata nell'attuale momento storico, con l'opposizione delle famiglie all'amore tra Romeo e Giulietta si colloca in uno scenario carico di pregiudizi e di discriminazioni. Questo, nell'idea del Global theatre di Londra, inasprisce i tratti della vicenda e li rende maggiormente vicini al vissuto dello spettatore, tanto da giustificare l'advise per "suicidio, uso di droga e violenza". Anche nella Londra attuale permeata di politicamente corretto, l'atteggiamento degli organizzatori è apparso quanto meno esagerato a fronte di un dramma classico che va in scena da secoli e che viene studiato anche nelle scuole di ogni ordine e grado. Dal 1597 a oggi, Romeo e Giulietta non ha mai subito nessuna limitazione, non è mai stato oggetto di censura per motivi etici, quindi non si capisce come mai, nel 2021, debba essere oggetto di un disclaim informativo prima della visione. Tutto questo avviene nella casa per eccellenza del dramma shakespeariano, nel teatro che ricalca con precisione l'architettura di quello di Stratford-upon-Avon in cui William Shakespeare portava originariamente in scena le sue opere. La polemica nel Regno Unito è aperta. La maggior parte delle persone sostiene che stavolta il Globe theatre abbia esagerato con le precauzioni, tanto più che non è la prima volta che Rome e Giulietta viene ambientato in un'epoca moderna diversa rispetto a quella originale. Tanti, invece, ritengono che per evitare certi eccessi basterebbe non rivoluzionare la trama, lasciando che l'opera segua la sua linea narrativa e cronologica nel periodo nel quale il suo autore l'aveva ideata. Se il politicamente corretto irrompe anche in un'opera del rango di Romeo e Giulietta, qualunque altro dramma teatrale rischia di ricevere il medesimo trattamento.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Luca Bernardo fascista? Perché non chiedono ai candidati se sono anti-comunisti? Giuseppe Valditara su Libero Quotidiano il 16 agosto 2021. Nelle elezioni comunali è ripiombato il tema dell'antifascismo. Si chiede ad alcuni candidati una solenne dichiarazione di antifascismo. Essere antifascisti oggi non ha probabilmente più molto senso, posto che il fascismo è una esperienza politica e culturale finita quasi 80 anni fa e non rappresenta certo una prospettiva per il futuro, essendo miseramente fallita con una guerra persa, la sudditanza verso la Germania nazista e la complicità nell'Olocausto. Non si capisce allora perché non si richieda una analoga e speculare dichiarazione di anticomunismo: in fondo fino agli anni '70 del secolo scorso vi era una forte minoranza nel Paese che credeva ancora nella rivoluzione d'Ottobre e nei suoi valori. Più comprensibile sarebbe dunque chiedere una dichiarazione di antirazzismo, purché si chiarisca cosa si intende per razzismo e cioè la discriminazione di un essere umano fondata sulla appartenenza ad una razza. E non si confonda così furbescamente il razzismo con la difesa dei confini da qualsiasi invasione di immigrati clandestini. Stante così il concetto, in verità ad ogni persona di buon senso non risulterebbe difficile dichiararsi antirazzista. C'è una dichiarazione più autentica che non viene mai richiesta e che risolverebbe invece alla radice ogni questione "antifascista": la adesione ai valori democratici espressi dalla nostra costituzione, in primo luogo quello di eguaglianza fra tutti gli esseri umani, il rispetto della sovranità popolare, dello stato di diritto, del principio della separazione dei poteri. Tutto questo è stato negato dai fascismi e dai comunismi di ogni tempo. Ma viene oggi nei fatti negato anche da tanti presunti "democratici". Basterebbe in altre parole chiedere di riconoscersi nei valori costituzionali, così come sono stati intesi dai nostri Padri costituenti: si eviterebbe una retorica stucchevole che serve solo per mediocri fini politici. 

Da “il Giornale” il 14 agosto 2021. Instagram si è scusato per aver rimosso il poster cinematografico di Madres Paralelas dalla sua piattaforma. Ma la polemica sul web non si place. Il manifesto utilizzato per promuovere il suo nuovo film, che esplora le vite parallele di due madri durante il primo e il secondo anno di crescita dei propri figli, inquadra infatti un capezzolo da cui esce una goccia di latte. Così, in conformità con le proprie linee guida, Instagram ha bloccato il poster perché violava le sue politiche anti-nudo. Ma la polemica che ha invaso i social nelle ore successive, ha indotto il social media ad una rapida retromarcia. Instagram ha spiegato che rispetto alla policy anti-nudo, la piattaforma fa alcune «eccezioni per consentire la nudità in determinate circostanze», per esempio «quando si tratta di un chiaro contesto artistico». «Pertanto - hanno aggiunto i responsabili del social media - abbiamo ripristinato i post che condividono la locandina del film di Almodóvar su Instagram e ci scusiamo davvero per qualsiasi confusione causata». Parlando del poster, il designer Javier Jaén, autore della locandina, ha spiegato che durante la creazione dell'immagine era consapevole che potesse infrangere le regole dei social media. Ma, sebbene avesse presente questo fatto, avevano deciso che l'arte era più importante. «Almodovar - ha affermato Jaén - mi ha detto che ha lanciato i suoi film con dei poster per tutta la vita, da molto prima che esistesse Instagram, e che avrebbe continuato a farlo anche dopo Instagram». Il film del regista spagnolo aprirà in concorso la Mostra del Cinema di Venezia il primo settembre.

Curry razzista: l'ultima follia dei "corretti". Tony Damascelli l'11 Agosto 2021 su Il Giornale. "Let's have a curry tonight?". Andiamo a mangiare indiano, stasera? Proibito, da cancellare, i food blogger inglesi vogliono togliere dal vocabolario, il loro, il sostantivo curry che ha l'odore delle colonie. «Let's have a curry tonight?. Andiamo a mangiare indiano, stasera? Proibito, da cancellare, i food blogger inglesi vogliono togliere dal vocabolario, il loro, il sostantivo curry che ha l'odore delle colonie, nel senso dei Paesi che fanno parte dell'Impero. Ora sarebbe opportuno che i suddetti blogger si informino meglio perché la parola incriminata è inglese e niente affatto di origine indiana là dove si utilizzano altri tipi di spezie, dalla curcuma al coriandolo, dal ginger cioè zenzero al pepe o chiodo di garofano. Il curry è una polvere di spezie e sono stati gli inglesi a importarlo dalla Cina in India, anzi trattavasi di foglie di curry che in seguito sono diventate appunto polvere di. Secondo altri studiosi l'etimo sarebbe comunque indiano da karl che starebbe per zuppa. Risulta che in occasione della seconda guerra mondiale i soldati di Sua Maestà ma anche quelli dell'Imperatore giapponese, si nutrissero, tra le altre cibarie, anche di curry mai pensando di offendere gli indiani e affini, anche perché le spezie venivano ordinate dai più ricchi del Paese e a loro portate in tavola dai servi. Ora che si ritenga razzismo mettere in menù un riso al curry sta a significare come ormai siano saltate le marcature e l'intelligenza abbia superato il limite della decenza. Per la proprietà transitiva e in questo caso dei «nasi comunicanti» dovrebbe essere proibito, sempre sull'isola di Sua Maestà, il black pudding, quella salsiccia che fa parte del full english breakfast e che, per la presenza di carne di maiale potrebbe offendere i fedeli di religione musulmana per non dire del Bedfordshire blanger che, oltre al maiale è ricoperto di farina e di sego, quando, correva il secolo diciannovesimo, si voleva evitare che le mani unte e lerce dei lavoratori toccassero quel cibo. Si potrebbe proseguire con una lista da mensa aziendale ma questo sfinirebbe i food blogger che sono una specie di influencer del cibo, figure di grandissima moda e tendenza che conoscono il kamasutra della cucina ma spesso nulla sanno della prima posizione, come si accende un fuoco, quali pentole utilizzare. Ma questa, forse, è invidia o gelosia, sta di fatto che la parola curry vive e lotta assieme a noi. Nessuno di noi ha mai pensato di confondere una spezia con un'altra, chi lo fa l'aspetti, tra il pepe e la curcuma tra il curry e la noce moscata non ci sono parentele e il Sud Est Asiatico è soltanto un riassunto geografico per quel tipo di sostanze aromatiche. Tony Damascelli

Da leggo.it il 6 agosto 2021. Un tweet infelice pubblicato sull'account della Juventus Women ha scatenato una bufera internazionale sul club bianconero accusato di razzismo e costretto, nel giro di poco, a cancellare il post in questione e a pubblicare le scuse immediate. Ma cosa è successo? In una foto Cecilia Salvai, colonna delle Juventus e della Nazionale femminile, allungava la forma degli occhi con le dita per mimare gli occhi a mandorla. Sulla testa la giocatrice aveva un attrezzo da allenamento utilizzato su tutti i campi di calcio chiamato "cinesino". Un'immagine – accompagnata da emoji divertiti – che voleva risultare simpatica ma che nel giro di poco è stata bersagliata da critiche e commenti negativi da parte migliaia di persone indignate, prevalentemente straniere, a cominciare da TMZ, popolare e seguitissimo sito di gossip internazionale: «Juventus FC Women ha twittato un'immagine incredibilmente razzista di una giocatrice che indossa un cono in testa, e fa un gesto selvaggiamente razzista», ha cinguettato la testata. L'episodio, che ricorda quello capitato qualche tempo da Michelle Hunziker a "Striscia la notizia", ha visto la Juventus chiedere scusa nel giro di pochi minuti pubblicando un nuovo tweet, questa volta per rimediare al passo falso precedente. «Ci scusiamo sinceramente per il fatto che il nostro tweet, che non doveva causare polemiche o avere sfumature razziali, possa aver offeso qualcuno. La Juventus è sempre stata contro il razzismo e le discriminazioni», il tweet bianconero. 

Dalla rubrica "Porta e Risposta" di Francesco Merlo per "la Repubblica" il 5 agosto 2021. 

Caro Merlo, concordo al 100% sulla cancellazione della parola razza. Ma ogni volta che sento uno straparlatore in tv mi scappa un "ma che razza di stronzo!". Che farne dello sfogo? Mario Simone 

Risposta di Francesco Merlo. Qui la parola razza è usata come rafforzativo spregiativo. All'opposto, Brera elogiava così gli atleti del Triveneto: "i rassa-Piave no tradisse mai.". Scalfari e Turani battezzarono i capitalisti papponi "razza padrona". La metafora sposta, chiarisce e drammatizza i significati. Per gli stronzi della tv andrà sempre bene.

Francesco Mattana per "il Giornale" il 5 agosto 2021. Dive maliarde o signorine della porta accanto, ragazze procaci o eteree silhouette, svampite per natura oppure per calcolo: le sfumature delle showgirl che hanno fatto la storia della televisione italiana sono ben più di cinquanta. Da quando il varietà è sparito dai palinsesti, giocoforza sono sparite le showgirl dal piccolo schermo e l'«assassinio» del genere varietà e delle sue vessillifere è stato perpetrato dall'ideologia politicamente corretta, il cui scopo è rimodellare il ruolo della donna nella società. 

Viene in soccorso, in questo frangente di iconoclastia, l'idea di Renato Tomasino, studioso e critico di lunga pezza, di pubblicare il volume C'era una volta la showgirl. L'arte della seduzione nelle immagini di un archivio scomparso (Ed. Odoya, pagg. 688). Si parte con un excursus storico, dal momento che le radici delle showgirl televisive affondano nella notte dei tempi: le ballerine egizie dimenantisi al cospetto dei faraoni e le fanciulle che in età minoica volteggiavano attorno al toro totemico erano antenate delle soubrette moderne. Dopo avere squadernato il percorso plurimillenario della donna nello spettacolo, l'autore ci conduce nel «Paese dei balocchi» delle vedette a noi più coeve. Ecco Abbe Lane che col «cha cha cha» portava scompiglio nella neonata Rai Tv e il professionismo di Delia Scala; il fare scombiccherato di Isabella Biagini e le sofisticatezze di Milva; i ruggiti da tigre di Mina (foto) e la popolarità immensa di Raffaella Carrà; l'esotismo ambiguo di Amanda Lear e le forme incontrollate di Carmen Russo; il privato che diventa pubblico di Lory Del Santo e il «mâitre-à-penserismo» di Alba Parietti. La categoria showgirl è così onnicomprensiva che può includere sia stelline dalla luminosità effimera sia stelle la cui luce ha rifulso nel cinema, quali Sophia Loren e Mariangela Melato, Sabrina Ferilli e Maria Grazia Cucinotta: tutte loro hanno avuto parentesi soubrettistiche e in questo modo hanno valorizzato ulteriormente il proprio curriculum, essendo quella della showgirl una nobile arte. Il «falò delle vanità» del pensiero unico dunque, in virtù del fatto che di arte nobile stiamo parlando, non potrà mai estinguerne il mito.

Maria Luisa Agnese per il "Corriere della Sera" il 3 agosto 2021. Saranno una quarantina di uomini, ottanta occhi che guardano verso quella ragazza di forme sontuose che incede verso di loro, tutti maschi in grigio, con al centro quella macchia bianca di fiera bellezza ripresa di schiena e pochi altri elementi di contorno, una lambretta, la ruota di una bicicletta e l'insegna Zucca a far capire che siamo sulla soglia della Galleria Vittorio Emanuele nella Milano di metà anni Cinquanta, ai tempi del pre boom economico. Quella di Mario De Biasi è una fotografia che va famosa nel mondo con il titolo Gli italiani si voltano e che oggi non si potrebbe scattare o perlomeno se si scattasse sarebbe accolta da tali e tante polemiche che sarebbe bollata come atto ultra politicamente scorretto, invece di finire come è finita anni dopo in mostra al museo Guggenheim di New York scelta da Germano Celant come manifesto per la sua mostra «The Italian Metamorphosis 1943-1968», per raccontare proprio un mondo ormai in dissolvenza. Le fotografie rappresentano quasi plasticamente lo spirito del tempo e vanno incorniciate nel loro periodo e non giudicate a posteriori, anche perché come in questo caso ci aiutano - cogliendo il loro impatto generale in un primo tempo e poi andando a fondo ad esaminarne i dettagli - a ricostruire la storia materiale del momento, facendole interagire con quello che viene tramandato dalla tradizione orale. Perlomeno quando sono foto alfa come questa del fotografo De Biasi che è stato una specie di rabdomante della sua contemporaneità, un occhio presentissimo nei grandi avvenimenti della storia come negli eventi sociali. Fra gli inviati di punta della rivista Epoca , ai tempi fiore all'occhiello del parterre Mondadori, ha fatto reportage dal mondo (tra gli altri quello sulla rivolta d'Ungheria del 1956), e ha fotografato personalità come Marlene Dietrich, Brigitte Bardot, Sophia Loren. Gente famosa, rivoluzioni, luoghi sconosciuti, con la macchina fotografica come protesi o meglio parte della sua anatomia, un terzo occhio sempre con sé. Questa immagine ormai iconica e parte del corpus della nostra memoria collettiva di cui parliamo in questa pagina si è presentata davanti all'obiettivo di De Biasi alla fine di una giornata spesa dal fotografo in giro per il centro di Milano, da Piazza San Babila alla Galleria, in compagnia di una bella ragazza che gli faceva da testimonial per un servizio che era stato commissionato dal settimanale Bolero Film. La fanciulla si chiamava Moira Orfei era una trapezista acrobata di 23 anni della grande famiglia di artisti del circo, ancora sconosciuta (non ancora lì attrice famosa che sarebbe diventata musa per Fellini e Pietro Germi, anche se qualcuno già preveggente quel giorno le chiese l'autografo) che corrispondeva ai canoni della bellezza del tempo e incedeva con una sua libera fierezza mentre si accingeva ad affrontare quel muro di sguardi maschili, una scena da paesino del Sud alla Malena, e invece eravamo nel cuore della Milano del 1954 che già si avviava a diventare forza trainante del boom dell'Italia post bellica. Che sguardo avrà avuto la fanciulla, vista da davanti? ci si potrebbe chiedere. E la risposta è nell'immagine speculare sempre scattata da De Biasi in cui Moira si allontana con sguardo noncurante. «Il fotografo gioca allegramente con la situazione sociale e il cliché dell'occhiata torbida del maschio italico, e lo fa con una composizione che abbonda di curve» ha notato non senza britannico humour il sito Vintage everyday . «La ruota della bici, i paraurti dello scooter, le teste degli uomini, la camminata basculante della donna; persino l'insegna Zucca evoca le curve (quasi ) in ogni lettera, e in italiano ha doppio significato, l'ortaggio e la testa vuota». Sul cliché del periodo Gli italiani si voltano si era performato poco tempo prima un regista come Alberto Lattuada, girando proprio con questo titolo un episodio del film-inchiesta a più mani L'amore in città , ideato da Cesare Zavattini nel 1953. Lattuada, che di sguardi maschili e bellezza femminile se ne intendeva parecchio, aveva scoperto negli anni Carla Del Poggio (poi sua moglie), Catherine Spaak, Valeria Moriconi, Dalila Di Lazzaro, Nastassja Kinski, Clio Goldsmith, Barbara De Rossi. Nel suo episodio Lattuada fa scendere e salire per le strade di Roma un piccolo esercito di donne di forme fastose, maggiorate del tempo seguite da rapaci sguardi maschili che oggi, invece di essere accarezzati dalla macchina da presa, non sarebbero neppure contemplati. Ma anche qui le protagoniste non sono imbarazzate ma sempre accompagnate da una certa aria di lungimirante indipendenza. Come la giovane Moira Orfei.

Flavio Pompetti per "il Messaggero" il 2 agosto 2021. Furono le voci di protesta di due donne nel 1896 a lanciare a Boston le sorti della neonata Audubon Society. Minna Hall e Harriet Hemeneway denunciarono nei salotti della buona società cittadina il vezzo di acquistare cappelli decorati con le piume di uccelli esotici. Dai quei salotti discendono oggi le 500 sezioni della Audubon, una delle organizzazioni più influenti per la presa di coscienza, e per la salvaguardia dell'ambiente naturale. Centoventicinque anni dopo sono ancora delle voci di protesta, tante, a chiedere una revisione della nomenclatura delle scienze naturali per proteggere un equilibrio altrettanto precario: quello che governa i rapporti tra bianchi e neri nell'ambiente umano.

LE DEFINIZIONI Le scienze naturali si sono sviluppate lungo il corso di secoli dominati dall'oppressione razziale e questo ha permesso di associare il nome di specie animali agli esploratori e agli scienziati che le avevano identificate, anche quando questi ultimi erano apertamente razzisti, o quando hanno usato epiteti razziali per legare uccelli e piante a particolari regioni. È così che ancora oggi è rimasto nel nostro lessico l'Albero corallo africano (Erythrina Caffra) che fa cenno all'espressione dispregiativa con la quale venivano chiamati gli abitanti del Mozambico. Ma gli esempi non finiscono certo qui sull'onda di una sorta di revisionismo che investe un ampio settore. Il pino sabiniano onnipresente in California è comunemente chiamato «digger», scavatore, così come venivano chiamati indiscriminatamente i nativi indiani di diverse tribù, ridotti a cercare cibo tra i rifiuti delle nuove terre dove venivano esiliati. Una piccola specie aviaria della famiglia delle calcaridi è praticamente estinta, ma il suo nome è ancora associato al capitano John McCown un ornitologo dilettante che combattè per l'esercito confederato, e che si vantava di possedere una collezione di teschi di indigeni uccisi.

L'INDAGINE Tutti questi nomi sono stati già cambiati o sono nel processo di esserlo. L'indagine dei riformatori dei cataloghi di specie naturali si allargherà poi ad abbracciare altri concetti poco graditi alla moderna sensibilità, come una classe di falene che negli Usa vengono chiamate: «gipsy», zingare, nome rigettato dalla comunità rom. Stessa sorte alle carpe oggi dette «asiatiche» anche se non hanno nessuna provenienza orientale, ma che prendono l'appellativo dalla frequentazione dei bassifondi. Il dibattito si è sviluppato l'anno scorso a New York quando una donna bianca che si rifiutava di mettere il cane al guinzaglio in un'area di Central Park riservata agli appassionati ornitologi, chiamò la polizia per denunciare che l'uomo che la stava redarguendo era «un nero minaccioso». Si scoprì poi che quell'uomo, lo scienziato Christian Cooper, era un membro di prestigio della Audubon Society. Si scoprì anche che la sua presenza era una rarissima apparizione tra i ranghi dell'associazione. Alle spalle dell'episodio e del nuovo imperativo di ribattezzare animali e piante c'è poi lo spartiacque dell'omicidio di George Floyd. «Sappiamo bene che cambiare il nome degli uccelli non abolirà il razzismo. Ma quest' ultimo traguardo va raggiunto togliendo un mattone alla volta alla costruzione, e noi cerchiamo di fare la nostra parte», dice Jordan Rutter, co-fondatore del gruppo «Nomi degli uccelli per gli uccelli». Il peso collettivo dei mattoni di cui parla l'attivista è quello che si è abbattuto sul collo di Floyd attraverso la pressione del ginocchio del poliziotto Derek Chauvin. I mattoni andranno rimossi con pazienza e determinazione, anche un nome o una piuma di uccello alla volta, come fecero le fondatrici della Audubon. E alla fine del percorso si potrebbe scoprire che lo stesso nome del fondatore dell'associazione è destinato a scendere dal podio: le spedizioni di John James Audubon erano finanziate dai soldi fatti dalla sua famiglia nelle piantagioni schiaviste dei Caribi.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 luglio 2021. Un uomo è stato costretto a rimuovere dal cimitero la statua che aveva fatto costruire per ricordare il padre perché secondo i residenti somiglia ad Adolf Hitler. La disputa è scoppiata a Weil im Schönbuch nel Baden-Württemberg, in Germania, dopo che una nuova scultura è stata posta sulla tomba di Edwald E., morto nel 2013. Suo figlio Oliver, 51 anni, a metà luglio ha fatto installare sulla tomba una nuova statua di legno, ma l’uomo raffigurato aveva i baffi e indossava una maglia numero 88. I cittadini indignati hanno chiamato il sindaco Wolfgang Lahl, 52 anni, preoccupati per la figura di legno e la sua presunta somiglianza con Hitler, ha riferito Bild. Il numero 88 sulla maglia ha suscitato scalpore in quanto è sinonimo di «Heil Hitler» negli ambienti neonazisti perché H è l'ottava lettera dell'alfabeto. L'avvocato di Oliver ha spiegato che suo padre è stato il tesoriere di una squadra di calcio per 30 anni, il che spiega la maglia, e viveva al numero 88, motivo per cui quel numero è stato messo sulla maglia. Il sindaco ha fatto rimuovere la statua, che è stata creata dall'artista di Kirchentellinsfurst Vincent Kröner, e Oliver può mettere la figura nel suo giardino di fronte. La sicurezza dello Stato sta indagando sulla base del codice penale tedesco che vieta «l'uso di simboli di organizzazioni incostituzionali» al di fuori dei contesti di «arte o scienza, ricerca o insegnamento». La legge è stata utilizzata principalmente per mettere al bando i simboli nazisti e comunisti, ma non dice niente sui singoli simboli da bandire. 

Sintesi dell’articolo di Brendan O’Neill per “Spiked”, pubblicato da “La Verità” il 26 luglio 2021. Pensate se Philip Roth, quando era in vita, fosse stato ogni giorno bersagliato da offese antisemite. Se non avesse potuto accendere il computer senza vedersi chiamare canaglia, stronzo, merda, con invio di immagini porno spinte e minacce di morte. Vi sareste aspettati reazioni, giusto? La Casa Bianca avrebbe detto qualcosa. Il mondo letterario sarebbe sceso al suo fianco. I commentatori si sarebbero detti disgustati. J.K. Rowling non è un Roth, ma è comunque una scrittrice importante. Forse la principale personalità culturale prodotta dal Regno Unito negli ultimi 20 anni. Eppure viene tranquillamente sottoposta a ignobili offese misogine, forme d'odio irripetibili anche per un giornale libero come il nostro: «Ucciditi», «Troia, ti ammazzerò», «Muori puttana». Com'è possibile che il primo ministro non dica nulla? Come può il Guardian starsene pigramente a osservare? Il reato d'opinione della Rowling, ovvio, è pensare che il sesso biologico sia reale. Crede che chi nasce maschio è maschio, e non dovrebbe avere accesso agli spazi riservati alle donne. Cinque anni fa sarebbe stato perfettamente normale pensarlo. Ditelo adesso e sarete minacciati di ritrovarvi una bomba sotto casa, come è successo alla Rowling questa settimana. Nessuno che creda nella libertà, nella ragione e nell'uguaglianza può tollerare quanto sta accadendo. Il silenzio dell'élite progressista sulla violenza contro J.K. Rowling è per certi versi peggiore della violenza stessa. Perché loro sanno che quanto accade alla Rowling è sbagliato. E orribile. Credono che tacere salverà loro la pelle. Si sbagliano di grosso.

Michele Serra per “la Repubblica” il 24 luglio 2021. La cerimonia d'apertura dei Giochi di Tokyo mi è sembrata bellissima. Sobria e sorprendente. L'opposto della pacchianeria fracassona che spesso anima questo genere di adunate in Mondovisione. Qualcosa di riflessivo, di intenso, di gentile la animava, a conferma che i giapponesi sono il popolo più elegante del pianeta, nonché il più educato. Ora, però, abbiamo un problema. Il primo artefice di questo spettacolo ammirevole, il direttore artistico Kentaro Kobayashi, è stato licenziato con disdoro, a poche ore dall'inizio della "sua" cerimonia, per avere pronunciato, ventitré anni fa, quando era un giovane cabarettista, una infelice frase sull'Olocausto che i suoi stessi accusatori inquadrano nel genere "barzellette antisemite". La domanda, inevitabile, è: possibile che l'autore di uno spettacolo così umano, così partecipe dei dolori e delle speranze del mondo, debba essere scomunicato per una "barzelletta antisemita" uscitagli di bocca quasi un quarto di secolo fa mentre cercava, maldestramente, di fare lo spiritoso? Visto che si parla tanto di prescrizione, davvero può esistere prescrizione per corrotti e mafiosi, e non per un artista che vede distrutto il suo eccellente lavoro di oggi a causa di una scemenza giovanile vomitata dagli archivi? Esiste ancora il diritto di sbagliare? Esiste ancora il diritto di maturare, di cambiare, oppure ognuno di noi è inchiodato per l'eternità alle proprie tracce? Non avete anche voi l'impressione che l'ossessione della purezza (puritanesimo, appunto) stia facendo uscire di senno il mondo? Che fine ha fatto il "chi è senza peccato scagli la prima pietra", in questo evo di lapidazioni, pentimenti, autodafé, che puzza lontano un miglio di Inquisizione, e di rogo

Dario Salvatori per Dagospia il 20 luglio 2021. Incredibile come ancora oggi il cosiddetto “uso improprio della banana” possa far notizia. Tanto più in un ristorante. Nell’estate del 1960, proprio per questo motivo, passò i suoi guai Ghigo Agosti, uno dei primi esponenti del rock and roll milanese, prima ancora di Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. Agosti, oggi 85enne, già l’anno prima aveva spaccato nei juke-box con la sua “Coccinella”, ispirata a Madame Coccinelle, transgender francese di una certa notorietà. Ghigo, re del filone rock demenziale anni Cinquanta, sfornò “La banana è un frutto di moda”, con un testo ad alto potenziale equivoco, che incappò nella censura Rai, anche se ad un primo ascolto sembrava un innocuo cha-cha-cha: “La banana è un frutto di moda/fa più scena del whisky and soda/te la chiedon di qui, te la voglion di là/in calypso o in cha-cha-cha formato/se la provan, ti dicon ancora/”non mi basta gustarne una sola”/ed Antonio, il bello si pentirà/di non ballare il banana cha-cha.” La Rai giudicò il testo “concupiscente”, ma nei juke-box, il dispositivo musicale più libertario di tutte le epoche, la censura non era arrivata e K22 di Ghigo e gli Arrabbiati urlava eccome. Con questo brano Ghigo vinse il 1° Festival dell’Urlo. Vinse grazie al pubblico del juke-box, che era costituito da adolescenti, da un pubblico che non si poteva permettere di frequentare un locale e magari possedere un giradischi. Già per il semplice fatto di starsene davanti a quello scatolone musicale luminoso, con lo sguardo rivolto a titoli, tasti e manopole, potevano comunicare rimanendo insieme per interi pomeriggi. Quei ragazzi, alle prese con qualche accenno di rock and roll “lento” o con qualche sostanzioso approccio con l’altro sesso, erano certamente più numerosi, in città come in provincia, dei loro coetanei che leggevano Ginsberg o la Sagan. Superato il periodo iniziale, in cui era visto soprattutto come un simpatico mostro dispensatore di suoni, si diffuse rapidamente nelle località balneari, nei piccoli centri di provincia, nei bar di periferia delle grandi città. Così i figli degli emigranti italiani che avevano per primi installato gli espresso-bar nelle periferie delle metropoli americane, sentirono l’America più vicina, alla portata di mano, grazie ai loro gusti musicali sempre più vicini a quelli dei coetanei americani.  Ragazzi che grazie a Ghigo e a Celentano avevano già un inno: “La felicità costa un gettone/per i ragazzi del juke-box/la gioventù, la gioventù, si compra per cinquanta lire/e nulla più/in un gettone c’è l’ossessione/l’ossessione dei ragazzi del juke-box.”.

La cerimonia dei tormenti. I Giochi fermano guerre, non il "politically correct". Elia Pagnoni il 23 Luglio 2021 su Il Giornale. Su bullismo e Shoah saltano i pezzi grossi dello show. Tregua per i conflitti non per gli scandali. La tregua olimpica può funzionare per fermare le guerre, ma certo non scalfisce il rigore proverbiale dei giapponesi, popolo che fa dell'etica e della inflessibilità nei comportamenti una bandiera che sventola sopra ogni cosa. Ministri che si dimettono facendo l'inchino davanti al parlamento, alti dirigenti industriali che lasciano il loro posto per un errore senza accampare alibi, esempi di un popolo che conosce la cultura del rispetto come pochi altri. Anche se poi, alle volte, si arriva addirittura all'eccesso. Ultimo esempio la tormentata cerimonia di apertura dei Giochi di Tokyo che va in onda alle 13 ora italiana (diretta su Rai Due) con tutte le precauzioni anti Covid, con le delegazioni delle squadre ridotte all'essenziale, senza la solita sfilata di governanti pavoneggianti di tutto il mondo, ridotti ai minimi termini anche questi e rappresentati su tutti dal presidente Macron, perché la Francia ospiterà le prossime Olimpiadi.

Ci sarà l'imperatore Naruhito, che ripeterà la formula di apertura dei Giochi come già suo padre Akihito a Nagano 98 e suo nonno Hirohito a Sapporo '72 e nella prima edizione di Tokyo olimpica, 57 anni fa, ma forse eviterà di usare, vista la pandemia mondiale, la parola «celebrare» (ieri, rivolto a Bach ha detto «per niente facile organizzare questi Giochi»). Non ci sarà invece chi ha ideato la cerimonia, perché in Giappone hanno scoperto che Kentaro Kobayashi, direttore artistico della serata, aveva fatto una battuta sgradevole sull'Olocausto in uno sketch di ventitré anni fa. Così, inflessibile e inevitabile, è scattato il provvedimento di licenziamento dell'incauto artista, che nel '98 certo non avrebbe mai immaginato di essere chiamato un giorno ad un compito così prestigioso. Poco importa se il povero Kobayashi si era subito pentito e scusato per lo scivolone; a Tokyo prima o poi tutti i nodi vengono al pettine, e Kentaro si è ritrovato a casa. Pazienza se adesso il Comitato organizzatore dovrà trovare in fretta e furia un sostituto che faccia funzionare tutto alla perfezione in mondovisione, considerando anche che due giorni fa un altro artista, il compositore Keigo Oyamada, autore di alcune musiche che avrebbero dovuto accompagnare la cerimonia, si era dovuto dimettere perché sui social era stata ricostruita una storia di bullismo e abusi nei confronti dei compagni di scuola nei primi anni Novanta. Anche Oyamada, ovviamente, aveva già fatto ampia e pubblica ammenda, ma la morale nipponica non fa sconti. E il regista ha dovuto trovare in due giorni un compositore e una musica sostitutivi per non lasciare un imbarazzante buco nella serata. D'altra parte, anche l'ex presidente del Comitato organizzatore Yoshiro Mori, aveva dovuto rassegnare le dimissioni in febbraio, mortificandosi davanti ai colleghi per aver detto che «le riunioni a cui partecipano troppe donne, in genere vanno avanti più del necessario». Accusato del sessismo più bieco, il dirigente ha dovuto togliere il disturbo velocemente, anche se ormai mancava poco tempo all'inizio dei Giochi. Ma in Giappone non si scherza, nemmeno da ragazzi, figuriamoci se poteva essere perdonato un dirigente 83enne. Adesso ci si chiede che cosa ne sarà del copione ideato da Kobayashi per la serata inaugurale, ma da un Paese che ha inventato il harakiri, che cosa ci si poteva aspettare? Elia Pagnoni

Da trevisotoday.it il 26 luglio 2021. Le Olimpiadi della Nazionale italiana di pallavolo femminile sono iniziate con una bella vittoria per 3 set a 0 contro la squadra del Comitato olimpico russo. A far parlare di sé al termine della partita è, ancora una volta, Paola Egonu fuoriclasse dell'Imoco Volley. Questa volta però non si tratta delle sue giocate da record durante il match ma di un video diventato virale a causa della reazione avuta in campo dalla pallavolista italiana, selezionata come portabandiera olimpica. Nelle immagini del video, al termine di un'azione, si vede Paola Egonu scusarsi in inglese con una delle avversarie. Per tre volte la pallavolista italiana ha detto "Sorry" in direzione dell'avversaria che però non sembra averla badata. A quel punto la Egonu se ne è uscita con un insulto in dialetto romano: "E pijatela ner c... dai". Le immagini del siparietto sono subito diventate virali sui social, sollevando centinaia di commenti divisi tra chi ha ironizzato sull'uscita della fuoriclasse italiana e chi ha storto il naso per la sua reazione in campo proprio pochi giorni dopo essere stata scelta come portabandiera olimpica.

Le Olimpiadi del politicamente corretto. Egonu portabandiera italiana: di colore, lesbica e arcobaleno. Elsa Corsini martedì 20 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. “Sono pronta, facciamola, bum, questa rivoluzione!” aveva azzardato tempo fa. Detto fatto. Paola Egonu, icona della nazionale femminile di volley, sarà tra gli atleti scelti per portare il vessillo olimpico all’apertura dei Giochi di Tokyo. Di colore, lesbica e arcobaleno. La campionessa di pallavolo azzurra è ‘perfetta’ per la narrazione politicamente corretta. Se non ci fosse bisognerebbe inventarla. Tempo fa la pallavolista si era praticamente autocandidata. “Mi piacerebbe prendermi sulle spalle questa responsabilità. Davvero: io, di colore, italiana e la bandiera. L’ignoranza e certe cose del passato hanno bisogno di un taglio netto”, aveva detto l’atleta afro-italiana. Oggi la notizia, accolta tra le lacrime. Quando il presidente del Coni, Giovanni Malagò, appena atterrato a Tokyo, le ha comunicato la scelta è scoppiata a piangere per l’emozione. Chi non lo avrebbe fatto? Sarà lei, la ventiduenne pallavolista di colore, a portare l’orgoglio tricolore alla cerimonia di apertura dei Giochi olimpici 2020. «Sono molto onorata per l’incarico che mi è stato dato a far parte del Cio. Per portare la bandiera olimpica. Mi ritrovo a rappresentare gli atleti di tutto il mondo ed è una grossa responsabilità. Attraverso me esprimerò e sfilerò per ogni atleta di questo pianeta”.

La pantera dell’Imoco Volley di Conegliano è lesbica. Sul suo valore sportivo nessun dubbio. Paola è una numero uno. Una delle “pantere” dell’Imoco Volley Conegliano, attaccante e opposto della Nazionale italiana di volley femminile, guidata dalla capitana Miriam Sylla. Un metro e 89 centimetri di tecnica e potenza. Un’elevazione che la porta a volare a quasi tre metri e mezzo. Le sue schiacciate sono bolidi che lasciano poche speranze a chi si trova dall’altra parte della rete. Ormai è il volto più noto della Nazionale italiana di volley e icona della pallavolo mondiale. Ma il suo profilo “civico”  travalica il talento sportivo. Se sei eterosessuale e non sventoli la bandiera arcobaleno di questi tempi in Italia hai una marcia in meno. Qualche tempo fa l’immancabile Cecile Kyenge, già eurodeputata ed ex ministra per l’Integrazione del governo Letta, aveva auspicato l’incoronazione di Paola. “Sarebbe un bel segnale…”. Due mesi fa la Egonu aveva raccontato al Corriere di essersi innamorata di una collega. Precisando però di non essere lesbica. “Ho ammesso di amare una donna (e lo ridirei, non mi sono mai pentita). E tutti a dire ‘ecco, la Egonu è lesbica’. No, non funziona così”, protesta. “Mi ero innamorata di una collega, ma non significa che non potrei innamorami di un ragazzo. O di un’altra donna. Io sono una pazza che si innamora a prima vista, bang, in due secondi. Non sto lì a pensarci, parto come un treno”. Speriamo che faccia altrettanto la nazionale rosa (si può dire?) di volley sui campi olimpici. In tempi di derby sulla legge Zan, la campionessa azzurra di colore e omosessuale (forse) è un’autentica eroina. L’incarnazione del Bene. Che sia lei a guidare il vessillo con i cerchi olimpici per l’Italia è musica per le orecchie della sinistra e del mainstream.

Paola Egonu torna a parlare della sua storia con Katarzyna Skorupa: “Non vi deve interessare con chi dormo”. Redazione Notizie.it il 23/07/2021. Paola Egonu, fresca di nomina come portabandiera dell'Italia alle Olimpiadi di Tokyo, torna a parlare in un'intervista della propria vita privata, del suo coming out e della relazione con la ex compagna Katarzyna Skorupa. La fortissima pallavolista Paola Egonu, una delle principali atlete italiane che presenzieranno alle Olimpiadi di Tokyo2020, è tornata a parlare, proprio pochi giorni prima dell’inizio della rassegna olimpica, della propria vita privata.

Le Olimpiadi. La campionessa di Conegliano, nata a Cittadella nel 1998, è già la protagonista assoluta tra i nostri atleti, per le Olimpiadi di Tokyo, essendo stata nominata dal Comitato Olimpico Internazionale portabandiera dell’Italia. La ragazza seppur solo 23enne ha già fatto incetta di premi in carriera, essendosi laureata quest’anno campionessa italiana ed europea, vincendo il campionato di A1 e la Champions League di volley ed essendo nominata in entrambi i casi MVP della competizione. La Egonu ha segnato quest’anno anche il record di 47 punti in una sola partita, massimo punteggio ottenuto da una singola giocatrice in un match del nostro campionato.

Il coming out. L’opposto di Conegliano ha fatto parlare di sé in questi giorni, non solo per le sue sempre ottime prestazioni nel campo da gioco, ma anche per alcune dichiarazioni rilasciate in una recente intervista, riguardanti la propria vita privata. È infatti noto che la Egonu avesse intrapreso una relazione con la sua ex compagna di squadra, ai tempi della Igor Novara, Katarzyna Skorupa e che avesse fatto pubblicamente coming out. Relazione poi terminata verso la fine del 2018, ma di cui si torna a parlare in questi giorni.

L’intervista. L’atleta italiana, attualmente single, ha dichiarato: “Ho ammesso di amare una donna, e lo ridirei non mi sono mai pentita, e tutti a dire: ecco la Egonu è lesbica. Mi ero innamorata di una collega, ma questo non significa che non potrei innamorarmi di un ragazzo, o di un’altra donna. Non ho niente da nascondere, ma di base sono fatti miei. Quello che deve interessare è se gioco bene a volley, non con chi dormo”.

Paola Egonu la portabandiera italiana alle Olimpiadi di Tokio 2021: chi è, età, altezza, origini, fidanzata e stipendio. Gaia Sironi il 20/07/2021 su Notizie.it. Paola Egonu è una pallavolista italiana di origine nigeriana che ricoprirà il ruolo di portabandiera ai giochi olimpici di Tokyo. Scopriamo meglio chi è.  Paola Egonu parteciperà alle Olimpiadi di Tokyo 2020 nella nazionale italiana di pallavolo, e sarà anche la portabandiera per il nostro Paese. Scopriamo qualcosa in più sulla sua vita privata e professionale.

Paola Egonu: chi è? Paola Egonu è nata il 18 dicembre del 1998 a Cittadella, in provincia di Padova.

Figlia di emigrati nigeriani, il padre Ambrose faceva il camionista, la madre Eunice era un’infermiera in Africa, Paola ha anche due fratelli minori, Angela e Andrea.

La famiglia di Paola si è poi spostata a Milano per motivi di lavoro, prima di trasferirsi a Manchester. La ragazza ha però preferito rimanere in Italia per seguire il suo sogno di diventare una pallavolista professionista, aiutata anche dal suo metro e 93 di altezza.

La sua passione per la pallavola è nata da giovanissima, e in breve tempo riesce a scalare tutte le categorie, fino a diventare una professionista a soli 15 anni.

Vorrebbe però continuare gli studi, iscrivendosi a Giurisprudenza per poter diventare un avvocato e aiutare i più deboli.

Paola Egonu: la vita privata. Paola è molto legata alla sua famiglia e ai suoi molti amici, di cui pubblica spesso le foto sul suo profilo Instagram. Molto restia a parlare della sua vita sentimentale, durante un’intervista ha ammesso, con molta semplicità, di avere una fidanzata, che poi si è scoperto essere la giocatrice polacca Katarzyna Skorupa.

La loro relazione è però terminata nel 2018, e dal quel momento non si hanno altre notizie su eventuali nuove storie della pallavolista.

Paola Egonu: la carriera. Dopo l’inizio della carriera nella squadra della sua città, già nel 2013 esordisce in B1 nel Club Italia, squadra di cui fa parte fino al 2019 e la porta a raggiungere la serie A1. Nel 2017-2018 passa all’Agil Novara, Supercoppa italiana, la Champions League e il doppio titolo di Mvp. La pallavolista ha continuto a vincere anche quando è passata nel 2019 all’Imoco di Conegliano, con cui ha vinto due Supercoppe, due Coppa Italia, lo scudetto e la Champions League. Grazie a questa squadra e ai suoi risultati lo stipendio annuale della giocatrice tocca i 400 mila euro all’anno.

Paola Egonu: l’esperienza in Nazionale e alle Olimpiadi. Paola ha cominciato la sua esperienza Nazionale nel 2015, giocando per l’Under 18, con cui ha vinto la medaglia d’oro ai Mondiali del 2015. Con la Nazionale maggiore italiana è diventata una vera e propria star nel 2017, vincendo poi l’argento ai Mondiali del 2018 e il bronzo agli Europei del 2019. Tutti speriamo che possa vincere l’oro nell’Olimpiade di Tokyo. Proprio per questa Olimpiade Paola Egonu è stata scelta come portabandiera per l’Italia, insieme col ciclista Elia Viviani e Jessica Rossi, campionessa di tiro a volo.

Dagospia il 21 luglio 2021. Dal profilo Facebook di Mario Adinolfi. Dicono che sono razzista perché ho scritto su Twitter che la scelta di Paola Egonu come portabandiera olimpica è un cliché figlio di conformismo, ingiusto perché ci sono in delegazione azzurra più di trenta atleti con un cv sportivo superiore alla Egonu. Che è stata scelta perché nera e lesbica, in ossequio ai diktat politici di chi domina i nostri tempi. Ma la Egonu con la nazionale ha zero tituli, mentre decine di nostri atleti olimpici sono zeppi di titoli europei, mondiali che li rendono degni rappresentanti dell’Italia. Dalla scherma arriveranno le solite tante medaglie, perché non una di loro, signor Malagò? Sappiamo il perché. E il razzista sarei io? La Egonu non ha vinto nulla con la nazionale, nessun titolo europeo o mondiale. Fossi nella Egonu avrei rifiutato perché tutti sanno qual è la ragione per cui è stata scelta. Vi dà fastidio che io abbia evidenziato tale ragione? Avete problemi perché vi costringo al confronto con il vostro conformismo? Non è un problema mio… Basta porsi la semplice domanda di controprova: se la Egonu fosse stata bianca e etero, sarebbe stata sempre lei la prescelta? La risposta è ovvia, per chi è intellettualmente onesto. Con chi non lo è, è inutile discutere.

Gustavo Bialetti per "la Verità" il 22 luglio 2021. Prove tecniche di politicamente illeggibile sulla Stampa. In un articolo in gloria di Paola Egonu, la pallavolista candidata dal Coni a portare la bandiera olimpica durante la cerimonia inaugurale, l'attivista Michela Murgia si è lasciata prendere dall'entusiasmo e ha regalato ai lettori un'overdose di «schwa», il simbolo da usare al posto della desinenza maschile per definire un gruppo misto di persone. Il tutto perché Egonu pare sia omosessuale e avrebbe una fidanzata. Il che per altro, nel 2021, non sembra un motivo per sconvolgere i lettori del giornale di Torino. Ma andiamo per ordine. Qui il fattore chiave sembra essere il colore della pelle di Egonu, che è scura scura, ha 22 anni, è nata a Cittadella e la cui storia viene raccontata sotto il titolo suggestivo «Paola Egonu e quei diritti negati». In sostanza la teoria della Murgia è che la pallavolista non è «un modello d'integrazione», come ha fatto notare Luca Zaia, ma una semplice «eccezione» di un sistema razzista. E associare i diritti all'eccellenza in qualche disciplina sarebbe fuorviante perché i diritti vanno riconosciuti «a prescindere» che uno sia un grande calciatore o una saltatrice provetta. Infatti nessuno ha sostenuto questo, ma non si capisce questo fastidio per il fatto che Egonu sia portata in palmo di mano dal Coni. Forse nell'immaginario murgiano dovrebbe lavorare in catene nella Bassa di Rovigo, con il padrone (leghista) che le dà della lesbica tutto il giorno. Ma il capolavoro della Maestrina rossa è che a un certo punto del suo pezzo si mette a usare la «schwa» quando dovrebbe declinare al femminile. Il che fa supporre che per la Murgia la pallavolista veneta non sia femmina. No, ma la Murgia non discrimina, sia chiaro. Forse si è solo un po' confusa. 

Giulia Zonca per “La Stampa” il 21 luglio 2021. Si chiude il cerchio, anzi i cerchi di questa Italia che ha molte facce, tanto orgoglio e che prima ancora di cominciare manda una sua atleta a rappresentare tutto il mondo, una missione che a Paola Egonu riesce facile. Lei si definisce orgogliosamente afro-taliana e trova nell'incrocio tra le sue origini, la Nigeria e la sua casa, il Veneto, la potenza per schiacciare senza concedere risposta. La stella della nazionale di pallavolo sarà tra le otto persone che porteranno la bandiera olimpica alla cerimonia di apertura. Il Coni ha proposto il suo nome quando è stato invitato ad avanzare una candidatura, una donna nell'anno in cui la rappresentanza femminile azzurra raggiunge il 48 per cento, a un passo della parità che almeno nello sport non è questione statistica. Per l'Italia olimpica è un dato consolidato dopo una lunghissima rincorsa. Merito delle tante pioniere che hanno avuto il coraggio e la determinazione, atlete che hanno osato, segnato un traguardo, spostato un limite, fissato un parametro e che oggi Egonu onora con la sua sfilata, con la sua carriera. A 17 anni doveva essere comparsa a Rio e si è fatta notare in un'edizione disgraziata per il volley, a 22 è considerata la giocatrice più forte del torneo e ha strappato ogni etichetta. Non vuole essere descritta dalla nazionalità o dall'orientamento sessuale, pretende di essere tutto quello che sente e questa ostinazione, quasi un'insofferenza verso chi la vorrebbe più semplice da decifrare, l'ha resa specchio per tante persone in cerca di un riferimento. Adolescenti abbagliati dal talento, ragazzini motivati dalla sfacciata convinzione, donne sbalordite dalla libertà, bambini di seconda o terza generazione, nati in Italia in famiglie immigrate, che ne condividono il bisogno di indipendenza. Perfetta per l'incarico che il capo dello sport italiano Giovanni Malagò le ha confermato appena atterrato in Giappone: «È un premio al valore della persona». Lei incrocia le lunghissime gambe dentro uno degli anelli che stanno al Villaggio e stavolta non trova le parole, come se essere finalmente fotografata per quello che è, dopo una vita a protestare contro quello che non vuole essere, l'avesse spiazzata: «È una delle emozioni più intense che io abbia mai provato. Rappresentare gli atleti di ogni nazione è una responsabilità immensa, sono fiera e grata». Quando i Giochi sono stati rinviati ha scritto «cinque anni per Cinque cerchi» e ora quei cerchi li scorta in uno stadio vuoto davanti a miliardi di persone. Una delle donne che in questi Giochi si gode spazi meritati e per chi si secca a sentirlo ripetere, perché l'equità sarebbe ormai scontata, è pronta subito la prima polemica di genere. Una di quelle che al maschile non sarebbe scoppiata mai: agli ultimi Europei le norvegesi della pallamano sono state multate per gli short stile bikini, troppo succinti. Appoggiate dalla federazione li riproporranno qui, così come la britannica Olivia Breen, paralimpica del triplo, a cui è stata contestata la tenuta, questione di centimetri. Per il motivo opposto, solo 9 anni fa, il Cio ha cercato di accorciare le mutandine delle pugilesse. Erano esordienti, si sono opposte comunque, cazzotti ancora prima di mettere piede su un ring e adesso l'Italia ha una squadra di sole femmine. C'è bisogno che una con la grinta di Egonu porti atlete e atleti oltre i confini che altri vorrebbero per loro, lei si preoccupa di vestire solo le medaglie e di chiudere i cerchi. Uno lo salda intorno ai pregiudizi dell'«Economist» che ha accusato l'Italia di Mancini di essere troppo bianca. L'Italia è solo azzurra.

La doppia morale (pure) alle Olimpiadi. Francesca Galici il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. Fognini che insulta se stesso viene massacrato ma Paola Egonu che insulta l'avversaria viene esaltata: ecco l'Italia dei due pesi e delle due misure. Certo che l'Italia è davvero un Paese strano. Fino a ieri mattina la discussione principale era sul presunto flop degli Azzurri a Tokyo, dove le nostre squadre hanno fatto il pieno di medaglie di bronzo (buttale via...) ma non hanno vinto abbastanza ori. Erano solo due prima che Gianmarco Tamberi e Marcell Jacobs compissero l'impresa perfetta salendo sul tetto del mondo. Dopo la conquista delle due medaglie d'oro da parte degli atleti delle Fiamme oro, e scusate il gioco di parole, l'Italia è improvvisamente diventata la squadra olimpica più forte e dai bar ai social si esaltano le qualità tecniche del velocista e del saltatore. Bizzarro, no? Sono bastate due medaglie per capovolgere tutto. Ma siamo fatti così, incoerenti e ottimi giratori di frittate a seconda di come tira il vento. Prima che Jacobs e Tamberi stupissero tutti, rendendoci orgogliosi delle loro imprese, e prima della polemica sul presunto fallimento della spedizione olimpica, in Italia l'argomento olimpico preferito è stato Fabio Fognini. Non perché abbia compiuto un'impresa storica, visto che è stato eliminato al terzo turno dal russo Medvedev, ma per uno scapocciamento in diretta televisiva mondiale al termine dell'incontro. Il carattere del tennista italiano non è certo sconosciuto agli appassionati di tennis ma stavolta Fognini viene accusato di aver superato un limite. Quale? Quello del politicamente corretto. Prima di lanciare la racchetta alla fine dell'incontro, un gesto che se fatto da una rockstar con la sua chitarra viene osannato, Fabio Fognini se l'è presa con se stesso, dedicandosi una sequela di insulti dopo aver mandato la palla a rete. "Frocio, sei un frocio", ha urlato il tennista, che poche ore dopo si è scusato per il linguaggio utilizzato. Ora, va bene tutto, ma a nessuno viene in mente che si stia un po' esagerando con quel ditino puntato? Fabio Fognini ha sbagliato nella sua espressione di dissenso ma ha insultato se stesso. Il clima da inquisizione e da censura, la smania di voler trovare il razzismo, il sessismo, la violenza, la misoginia, l'omofobia e qualunque altro elemento in qualsiasi cosa, forse sono un po' sfuggiti di mano. Ma non sempre eh. Perché in Italia è tutto relativo, anche quella sfilza di infrazioni al politicamente corretto elencato poco fa. Infatti, il nostro Paese per qualche ora si è esaltato per Paola Egonu, la straordinaria pallavolista della nazionale italiana. Anche in questo caso, così come accaduto con Fabio Fognini ma nel senso opposto, la pallavolista è stata al centro dell'attenzione per un insulto. La Egonu sotto rete ha più volte chiesto scusa a un'avversaria, che non sembra aver recepito il dispiacere dell'Azzurra. A quel punto, invece di voltare le spalle e lasciar correre, cosa ha fatto la nostra schiacciatrice? Se n'è uscita con molto un colorito, e poco olimpico, "e pijatela n'der culo". In questo caso l'insulto non era diretto a se stessa, come nel caso di Fabio Fognini, ma era rivolto a un'avversaria e, se proprio vogliamo fare le pulci a quanto detto dalla pallavolista, anche qui ci sarebbero gli estremi per una violazione del politicamente corretto, vista la tipologia di "augurio". Eppure per giorni è stata lodata, esaltata, presa come esempio. Ma come è possibile? L'identikit di Paola Egonu ha tutte le spunte nel posto giusto per essere una bandiera del perbenismo, pertanto il suo non è stato un insulto ma un modo di dire simpatico e divertente di cui ridere. Sarebbe interessante sapere come avrebbero reagito quelli che ben pensano a parti invertite, ossia se l'avversaria avesse rivolto alla Egonu le sue stesse parole. Forse ora si starebbe raccontando un film diverso.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Sport schiavo del politically correct: in copertina c'è una trans. Roberto Vivaldelli il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. Sulle tre copertine diverse del nuovo numero della celebre rivista, oltre a Leyna Bloom, ci sono anche altre due donne: la rapper Meghan Thee Stallion e la tennista Naomi Osaka. "Sono così felice, onorata e onorata di condividere con voi la notizia che sono la prima donna trans a onorare la copertina di Sports Illustrated!". Lo scrive sul suo profilo Instagram Leyna Bloom, prima transgender a finire sulla copertina dello speciale della celebre rivista Sports Illustrated dedicata ai costumi da bagno. "Questo momento storico - spiega -è importante per #girlslikeus perché ci permette di vivere ed essere notate. Molte ragazze come noi non hanno la possibilità di vivere i nostri sogni, o di vivere a lungo. Spero che la mia copertina permetta a coloro che stanno lottando di essere notate e di sentirsi apprezzate. Lasciate io che sia un messaggero che ci guidi verso un futuro di rispetto e apprezzamento per tutte le donne in tutte le forme e di tutti i ceti sociali". Il sogno è nato nel 1997, quando l'attivista Leyna Bloom ha sfogliato per la prima volta l'edizione con la copertina di Tyra Banks sul tavolino di suo padre. "Quando mi hanno detto che avevo la copertina, ho parlato con mio padre", ha detto Bloom a Page Six Style, in un articolo tradotto da Dagospia. "Gli ho risposto che quando stavo guardando quella rivista, stavo guardando al mio futuro. Mi stavi dando gli strumenti di cui avevo bisogno per vedermi, per sapere che potevo essere lì, che potevo ispirare, che un giorno avrei potuto far parte di tutto questo". Pare sia arrivato il tempo di novità, di progresso, di mettere in discussione la vecchia società patriarcale conservatrice e bigotta. Per andare incontro alle nuove tendenze, Sports Illustrated dedica dunque tre copertine del suo Swimsuit Issue a Leyna Bloom e a Meghan Thee Stallion, la prima rapper. La terza copertina è dedicata invece alla tennista giapponese Naomi Osaka, numero due del ranking WTA. Piccolo particolare: tutte e tre sono di colore. Una scelta, nell’epoca del politicamente corretto imperante e dell’identity politics ricca di significati politici, che volutamente strizza l’occhio alle battaglie ideologiche dei liberal Usa e dei progressisti identitari nei confronti delle minoranze, la principale ossessione della sinistra a stelle e strisce proveniente dai campus universitari e dai salotti più esclusivi. Il caporedattore di Sports Illustrated Swimsuit Issue, MJ Day, si è detto entusiasta della scelta. "Leyna è leggendaria nel mondo dell'attivismo, straordinariamente bella e ha un innegabile senso di sé che traspare dal momento in cui entra sul set", ha detto Day. "La sua storia rappresenta una storia basata sulla resilienza, e non potremmo essere più entusiasti di aiutarla a raccontarla. La sua presenza come prima donna trans di colore ad essere nel nostro numero è il risultato della sua dedizione di una vita a forgiare il proprio percorso". Sports Illustrated poteva forse scegliere una donna bianca-caucasica per la sua copertina più importante? Certo che no.

Chi dovrà mettere in copertina la prossima volta per accontentare i fanatici del politicamente corretto? L’ossessione identitaria dell’opinione pubblica progressista statunitense non poteva che indurre il comitato di redazione a scegliere Leyna Bloom. Dietro a questa ossessione per il colore della pelle, però, si cela un rischio concreto, oltre al cosiddetto "razzismo al contrario": ossia che l'attrice e attivista transgender - e altre come lei - vengano scelte più per apparire come delle figurine e delle bandierine da esporre come un trofeo nella gara a chi è più inclusivo e progressista, più che per altri meriti. I rischi (non calcolati) dell’identity politics e di chi, come i liberal, vuole politicizzare qualunque cosa.

Tokyo 2020, Dagospia e la passione politica per la destra di Aldo Montano: "Ecco perché non fa il portabandiera". Libero Quotidiano il 22 luglio 2021. È alla sua quinta Olimpiade come Federica Pellegrini ma di lui si parla poco, rispetto alla nuotatrice. Sperava di fare il portabandiera ma si dovrà accontentare di sfilare dietro Elia Viviani e Jessica Rossi. "A quasi 43 anni Aldo Montano sbarca ai Giochi di Tokyo e punta all’oro mondiale a squadre nella sciabola ma non viene celebrato come meriterebbe", rivela Dagospia. Lo schermidore livornese è uno dei più longevi protagonisti dell’olimpismo azzurro. L’oro ad Atene 2004 all’ultimo assalto, i complimenti dell’allora presidente Ciampi, livornese come lui, il prefisso telefonico della sua città scritto sulla mano. Un altro Montano sul podio olimpico. Dopo il nonno Aldo, il padre Mario Aldo e i tre cugini del padre. Dinastia Montano. "Eppure lo sciabolatore ha dovuto fare i conti sempre con una vulgata antipatizzante che lo ha ridotto - in ragione dei suoi flirt da copertina e delle apparizioni in reality e programmi tv - a un personaggio da gossip: “Aldo Montato”.", ricorda sempre Dagospia. “Io in palestra mi sono sempre fatto un cu** così. Eppure per la gente ero quello della bella vita”, ha dichiarato alla “Gazzetta” Ma non è che sconta anche le sue idee politiche? Non sono mancate le polemiche da parte di qualche anima bella “radical” per quel tatuaggio dannunziano “Memento audere semper” sull’avambraccio. Intanto lui promette: "La saga dei Montano forse non è finita, come quella di Rocky e Creed".

Federica Cocchi per gazzetta.it il 22 luglio 2021. Non è ancora iniziata l'Olimpiade e Vanessa Ferrari ha già iniziato a fare salti mortali. Questa volta per difendersi da accuse, postume e sbagliate, di razzismo nei confronti di Simone Biles. Tutta colpa di una vecchia dichiarazione di Carlotta Ferlito dopo la finale alla trave dei Mondiali di Anversa, dove l'ex azzurra e l'iridata si erano piazzate rispettivamente al quarto e quinto posto dietro la Biles. Una frase infelice ripescata ieri da un post social: "La prossima volta io e Vanessa ci dipingeremo il volto di nero per vincere". Uno scivolone dettato dal calore della contesa e immediatamente seguito dalle scuse dell'atleta e della federginnastica. Un caso chiuso, sepolto sotto una coltre di polvere di magnesio. Ma nonostante il diritto all'oblio, il web non dimentica e così la questione, da cui la Ferrari si è sempre chiamata fuori, è tornata alla ribalta. Appena rilanciata quella vecchia dichiarazione non sua, Vanessa è stata colpita da una vera e propria shitstorm, da cui ha dovuto difendersi con un post social. "Vengo attaccata con commenti e insulti per una frase razzista, nei confronti di @simonebiles , che non ho mai detto! Questo e stato detto da una mia compagna di nazionale, nel 2013, e io non c'entro niente. Qualcuno ha incolpato me ingiustamente e questo viene condiviso senza prima verificare che questo sia vero. Quelli che stanno condividendo questo post contro di me dovrebbero farsi un esame di coscienza, perché stanno incolpando la persona sbagliata". Una violenza tale da costringere la regina Simone Biles a intervenire in prima persona in difesa della campionessa Mondiale di Aarhus 2006, rispondendo nei commenti del post. La pluriolimpionica statunitense ha chiesto scusa a Vanessa per l'accaduto proponendo un incontro di pace: "Spero di incontrarti in pedana e chiederti scusa ufficialmente per quello che hai dovuto subire. Nel frattempo in bocca al lupo a te a team Italy!". Simone e Vanessa, regine anche fuori dalle pedane.

Ferrari razzista. Follia social. E la stella Biles la difende. Sergio Arcobelli il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. A Vanessa continuano a capitarne di tutti i colori. Come se gli infortuni patiti nella lunga carriera non fossero abbastanza... È da un giorno che la Ferrari ha assaporato il clima olimpico, di ieri infatti una foto scattata insieme alla compagna davanti ai cinque cerchi, ma neanche il tempo di iniziare l'avventura che Vanessa è finita bersaglio di un attacco social. I leoni da tastiera hanno colpito ancora una volta, senza pietà, contro la leonessa di Brescia che è pronta a gareggiare nella sua quarta Olimpiade conquistata con il sudore e la fatica. Prima, però, come detto, ha dovuto affrontare una serie di commenti negativi sui canali social. Tutta colpa di uno scambio di persona e di una vecchia frase tornata alla ribalta. Accusata di razzismo per una frase infelice («La prossima volta io e Vanessa ci dipingeremo il volto di nero per vincere») che risaliva in realtà al 2013 e che era stata pronunciata da un'altra atleta, l'ex ginnasta Carlotta Ferlito, dopo la finale alla trave dei Mondiali di Anversa, dove le azzurre si erano piazzate al quarto e quinto posto dietro l'americana Simone Biles, la Ferrari ha risposto piccata con il seguente tweet: «State facendo confusione, questa è un'accusa falsa. Non sono io che ho detto quella frase, è stata una mia compagna tanti anni fa. Prima di accusare qualcuno, pensateci». Per fortuna ci ha pensato Simone Biles ad intervenire in difesa della campionessa del mondo del 2006. «Smettetela ragazzi, Vanessa è sempre stata gentile con gli Usa e con me. Vanessa spero di vederti e di scusarmi personalmente per tutti quelli che ti hanno accusato», ha commentato la star statunitense. Il caso è chiuso. Sergio Arcobelli

Maurizio De Santis per fanpage.it il 26 luglio 2021. "Vi piace il nostro nuovo outfit?". Dopo l'allenamento, la ginnasta tedesca Pauline Schäfer ha postato su Instagram una foto a suo modo storica, rispetto alle convenzioni olimpiche. Per tutta la durata dei Giochi di Tokyo 2020 le ginnaste della Germania indosseranno una tuta aderente e performante, che non impedisce il movimento né le esecuzioni degli esercizi, ma non il classico body. Andranno in pedana per le esibizioni e per le gare con uniformi a tenuta intera, che coprono la maggior parte del corpo dall'anca alla caviglia. La scelta non è stata polemica ma ha voluto lanciare un chiaro messaggio contro la "sessualizzazione della ginnastica" e, in particolare, per dare un segnale forte ogni forma di abuso nei confronti delle atlete. Una decisione divenuta pubblica a poche ore dall'inizio delle competizioni ma che la federazione tedesca di ginnastica aveva in animo a partire dallo scorso mese di aprile, seguendo la linea e l'opinione comune a molte atlete.

Un segnale dopo il caso delle giocatrici di beach handball. L'immagine delle ginnaste tedesche è in qualche modo anche una risposta, una presa di posizione molto chiara rispetto a quanto accaduto pochi giorni fa quando la squadra femminile norvegese di beach handball è stata sanzionata per l'abbigliamento delle giocatrici: si erano rifiutate di indossare lo slip del bikini durante un match optando per degli short, pantaloncini ritenuti non regolamentari secondo le prescrizioni internazionali della disciplina. L'episodio è avvenuto in occasione della partita valida per la medaglia di bronzo del campionato europeo disputata domenica scorsa contro la Spagna.

La multa di 1500 euro alla squadra norvegese. È stata la federazione europea di pallamano a richiamare le scandinave, infliggendo un'ammenda di 1500 euro complessiva (150 euro ad atleta) per la violazione della normativa che resiste ancora per il beach handball mentre i bikini non sono ritenuti più obbligatori nel beach volley dal 2012. 

Giulia Zonca per "La Stampa" il 28 luglio 2021. Il beach volley va in prima serata nella programmazione americana, succede per molte ragioni e pure per una percezione evidente. Se vuoi diventare una giocatrice di livello devi avere un corpo talmente perfetto da reggere il bikini sportivo, che segna tutto e non concede nulla. Generazioni crescono imparando che il talento va abbinato all'assenza di ogni difetto. Se questo è il messaggio che è passato è ora di cambiare l'inquadratura. Lo spettatore, il tifoso, si convincono che per giocare sia obbligatorio mettersi il due pezzi minimo, solo che a leggere il regolamento si scopre altro. Molto altro. Si può indossare quasi tutto, l'elenco è lunghissimo: leggins, body, pantaloncini. Gli obblighi non riguardano lo stile. Il beach volley viene dalle spiagge californiane e si porta dietro il proprio mondo, lo si può adattare. La maggioranza vuole giocare in bikini, il modo migliore per non riempirsi di sabbia, ma le atlete gradirebbero pure non avere primi piani delle chiappe in mondovisione. Tatuate o no. Proprio su di loro si interroga il capo del circuito olimpico, il broadcast del Cio. Yiannis Exarchos ha attivato un confronto con le tv che hanno i diritti dei Giochi: «Vorremmo passare dal sex appeal allo sport appeal, mettere al centro della scena il gesto tecnico e tutto quello che lo rende immortale». Sorrisi, feste per la vittoria, danze e dettagli delle imprese sì, invadenza e insistenza no. L'idea è semplice, il cambiamento, lento e complicato dal fatto che non ci sono per forza cattivi comportamenti da censurare, ma spesso pessime abitudini da sradicare, e questa è l'Olimpiade giusta. Le ragazze tedesche della ginnastica non hanno banalmente sostituito il body classico con una tuta integrale, hanno modificato la prospettiva. Loro come, al contrario, la paralimpica gallese Olivia Breen che va fiera dei suoi shirts a taglio alto e si è sentita dire che sono troppo sgambati. Il problema non è la lunghezza, è il giudizio che segue la misurazione. A un uomo non si contano i centimetri di tessuto che indossa e alle donne sì, ma non è nemmeno una questione che riguarda il genere, è proprio il racconto che le telecamere fanno delle competizioni a essere sotto esame. Il capo di Obs, Olympic Broadcasting Services, è un po' disorientato. Ammessi gli errori di anni, «altri anni» dice lui, resta il fatto che nessuno ha un protocollo: «Va ripensato il modo di proporre l'evento». Molta filosofia che segue alle tante lamentele. Gli atleti vogliono il diritto di scegliere che cosa mettersi, una volta rispettate le consegne sui materiali e sugli sponsor. La tv interna ha cercato di dare dei canoni di buon senso: non indugiare su particolari intimi, non insistere su scene che potrebbero mettere qualcuno a disagio, spostare la telecamera se un qualsiasi capo di abbigliamento si spacca, si strappa e lascia l'atleta esposto. Succede di continuo e fino a qui il segnale internazionale ha raccolto, nelle varie edizioni, diversi nudi involontari. Se succedesse adesso, dovrebbero mostrare altro. Si procede a piccolissimi passi, prima definire l'ovvio, poi inventarsi un diverso approccio alle immagini. Stravolto il montaggio del film, la trama cambia. A Tokyo 2020, in molti si sono stufati, una minoranza è consapevole del tentativo di invertire la rotta, gli altri continuano a vedere video poco in linea con i tempi. Due anni fa è stato fatto un sondaggio nell'ambiente dell'atletica, la maggioranza delle donne ha ammesso che oltre a essere preparate, motivate e competitive si sentono pure spinte a essere modelle. Brave non basta mai. Le tedesche hanno denunciato il voyeurismo. La tuta è comparsa prima in allenamento, poi nel preliminare della gara a squadre e adesso se ne riparla per il singolare mentre la sudafricana del nuoto, Tatjana Schoenmakerm, argento nei 100 rana, ha raggirato il divieto delle cuffie afro con una soluzione fai da te che le ricorda molto. Spirito di indipendenza e un certo idillio olimpico che motiva tutti. Sentiremo altri dissensi e vedremo ancora inquadrature sospette, la gara del surf già era al limite del vecchio stile, però in Giappone qualche cosa è successo. Nel 2015 Blatter, allora capo della Fifa, ha chiesto alle donne di giocare con il gonnellino da tennista, nel 2012 il Cio ha tentato di imporre al pugilato femminile, appena entrato in programma, di lottare con gli accessori del volley. Oggi non oserebbero.

Fabio Albanese per "La Stampa" il 28 luglio 2021. «Non credo che ci sia voyeurismo nelle riprese delle atlete. Piuttosto, credo che le nuove sensibilità di movimenti come il MeToo, ma anche l'allargamento ai paesi arabi della platea televisiva, pongano questioni che una volta non c'erano, anche perché le inquadrature nello sport sono abbastanza standard». Nazareno Balani, 73 anni, storico regista Rai dello sport, è andato in pensione dopo le Olimpiadi di Rio 2016 ma la tv è ancora il suo mondo: collabora con le federazioni di atletica e di motonautica, studia con un team sistemi di ripresa che siano meno costosi. 

Di queste Olimpiadi viste in tv che cosa ne pensa?

«In realtà, non è la prima volta che si fanno queste discussioni. Nel tennis, per esempio, è già successo e le proteste vengono da paesi islamici per la grande paura di mostrare corpi femminili esposti. E siccome il peso di questi paesi nel Cio è cresciuto, il problema si pone».

La contestazione è che negli anni le inquadrature sulle atlete si sono strette sempre più. Che cosa ne pensa?

«La tenuta sportiva è andata sempre più a stringersi, sia per motivi legati agli sponsor che danno le forniture e che più si guardano la loro merce e più sono contenti, e anche perché con il caldo le atlete più sono libere e più corrono o saltano. Bisognerebbe anche guardare gli uomini che sono anche loro più spogliati ma forse questo dà meno fastidio». 

Si pensa a nuove regole per fare le riprese degli eventi sportivi, è possibile?

«La soluzione è facile, basta stare larghi e far vedere il meno possibile. Però si tradisce lo spettacolo che accompagna qualunque manifestazione sportiva. Dovrebbero fare solo primi piani e non figure intere o mezzi primi piani. Mi sembra come quando mettevamo le vesti alle statue, se mi si permette il paragone».

Non c'è un modo per rispettare lo spettacolo dell'evento sportivo e anche gli atleti che lo animano?

«Io parto dal fatto che la gioventù che c'è alle Olimpiadi è di una bellezza straordinaria, gente ben nutrita, ben allenata, con muscoli e corpi perfetti che si fanno guardare».

Le atlete lamentano che le telecamere indugiano più volentieri sui loro corpi che su quelli dei loro colleghi maschi.

«In queste Olimpiadi non ho notato grandi situazioni del genere, anche perché i giapponesi sono molto timorati e fanno una ripresa abbastanza standard. Certo, nei replay si va un po' a stringere l'inquadratura. Poi, sicuro c'è un gran fermento nel mondo su questi argomenti e va cercata una regola. Nell'atletica, uno scavalcamento di una saltatrice in alto è uno spettacolo del corpo e la ripresa non può ignorarlo; non bisogna esagerare ma riprendere bene fa parte del movimento atletico».

Le sono capitate situazioni del genere nella sua lunga carriera di regista tv sportivo?

«Ricordo gli internazionali di tennis a Roma, abbiamo avuto minacce di ritiro da parte araba. Siamo stati un po' più larghi nelle inquadrature. Bisogna sempre mediare tra le varie esigenze».

"Siete poco caste". Attacco del teologo islamico contro le pallavoliste. Gerry Freda il 30 Luglio 2021  su Il Giornale. Il teologo in questione, Ihsan Senocak, gode di un vasto seguito sui social e i suoi commenti registrano sempre migliaia di "mi piace". La nazionale olimpica femminile di volley turca è stata ultimamente criticata sui social da un noto teologo islamico del medesimo Paese, scagliatosi contro le giocatrici poiché "poco caste". A lanciare sul web l'invettiva in questione è stato Ihsan Senocak, pensatore con un vasto seguito tra gli internauti: un milione di follower su Facebook, quasi un altro milione su Twitter e 862 mila su Instagram. Le accuse contro l'abbigliamento delle pallavoliste di Ankara sono state da lui esternate in un tweet pubblicato domenica scorsa e tale messaggio ha ricevuto in poco tempo circa 50 mila ‘mi piace’ e 30.000 retweet. Nel messaggio in questione, il teologo si era scagliato contro la divisa da gioco sfoggiata dalle "sultane della rete" (soprannome con cui sono conosciute le pallavoliste turche), tuonando: "Figlie dell’Islam! Siete le sultane della fede, della castità, della moralità e della modestia… non dei campi sportivi. Voi siete figlie di madri che si sono astenute dal mostrare il loro naso per pudore. Non siate vittime della cultura popolare. Siete la nostra speranza e la nostra preghiera". Oltre a conquistare tanti "mi piace" e commenti positivi, l'invettiva di Senocak ha però ricevuto anche forti critiche dai suoi connazionali internauti; molti di questi ultimi, in particolare, hanno criticato il teologo islamico per avere, con quel tweet relativo alle divise da gioco, "demoralizzato" le giocatrici e di averne compromesso il rendimento in campo, fino a determinare la sconfitta della compagine di Ankara al torneo olimpico, avvenuta questo martedì, contro la nazionale italiana di pallavolo. Non è la prima volta che Senocak pubblica sui social le proprie opinioni e critiche verso l'abbigliamento delle cittadine turche. Nel 2017, egli aveva appunto criticato i padri che permettono alle figlie di andare all’università in jeans e “con le sopracciglia curate”, ricordando contestualmente ai genitori che tale concessione avrebbe aperto alle ragazze "le porte dell’inferno".

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018. 

La crociata del politically correct contro il "bikini sessista". Roberto Vivaldelli il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. La federazione ha condannato le atlete della squadra norvegese di pallamano a pagare a una multa equivalente a 1500 euro. Motivo? Si sono rifiutate di indossare i tradizionali slip e bikini. Sdegno in Norvegia. Nella pallamano da spiagga è guerra contro il bikini "sessista". Come riporta la Msnbc, questa settimana la squadra femminile norvegese di beach handball è stata multata di 1.500 euro (circa 1.765 dollari) dalla Federazione europea di beach handball. Motivo? Le atlete hanno indossato i pantaloncini di spandex invece dei tradizionali slip e bikini durante la partite valevole per il terzo posto contro la Spagna dei Campionati Europei di Beach Handball che si svolgono a Varna, in Bulgaria. I regolamenti della Federazione internazionale di pallamano da spiaggia stabiliscono che le atlete devono indossare slip bikini "con una vestibilità aderente", mentre le controparti maschili possono indossare i pantaloncini. Questo, secondo le atlete norvegesi e secondo gran parte dell'opinione pubblica più progressista, rappresenta una discriminazione misogina e arcaica, volta all'"ipersessualizzazione" delle atlete donne. Sdegno nel Paese scandinavo, come riporta l'agenzia Agi. "E' totalmente ridicolo. Cambiamenti comportamentali sono necessari con una certa urgenza nell'universo dello sport, conservatore e maschilista" ha reagito su Twitter il ministro della Cultura, Abid Raja. "Una visione così machista della donna appartiene ad un'altra epoca" ha denunciato un giornale regionale norvegese. Le giocatrici norvegesi sapevano che avrebbero violato le linee guida della Federazione internazionale di pallamano, ma hanno scelto di andare avanti comunque con il cambio della divisa, come forma di protesta pubblica contro tali regole. La Federazione norvegese di pallamano ha sostenuto l'iniziativa e ha accettato di pagare le multe inflitte alle atlete. Il capitano della squadra Katinka Haltvik ha dichiarato all'emittente pubblica norvegese Nrk che lei e le sue compagne di squadra hanno preso la decisione "spontanea" di sostituire gli slip con i pantaloncini blu per stimolare il dibattito pubblico e, si spera, cambiare le regole. "Spero che avremo una svolta e che la prossima estate indosseremo in quello che vogliamo", ha detto a Nrk. Ha anche aggiunto che la pallamano da spiaggia" dovrebbe essere uno sport inclusivo, non esclusivo".

Solo una questione di comodità? Davvero si tratta di mero comfort, oppure la ragione di questa battaglia va inserita nell'ambito della discussione ideologica sull'identità di genere? A giudicare dalle parole di Haltvik, che accusa la pallamano di non essere sufficientemente inclusiva, il sospetto è che si tratti della seconda ipotesi e ci sia molta politica in questa battaglia. C'è davvero qualcosa di male o di offensivo in un bikini in spiaggia oppure si tratta di una crociata che strizza l'occhio al politicamente corretto? Il paradosso è che negli anni '50 e '60 anni le donne indossavano con fierezza le minigonne per sfidare i dogmi perbenisti della società dell'epoca: oggi accade il contrario, forse perché il politicamente corretto è il nuovo perbenismo. Per quanto concerne la multa, che può apparire eccessiva, va detto che in qualsiasi sport se non ci si presenta con l'abbigliamento consono si rischia di incappare in multe e sanzioni: difficile dunque comprendere tanto sdegno, vista anche la piena consapevolezza delle atlete che sapevano di violare le regole. E - piaccia o meno - la loro missione può dirsi compiuta, visto il grande dibattito di queste ore.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

Ciro Scognamiglio per gazzetta.it il 29 luglio 2021. Non si può dire che la prova nella cronometro olimpica del tedesco Nikias Arndt, nel giorno del trionfo di Primoz Roglic, sia stata indimenticabile. Il tedesco del Team Dsm, 29 anni, ha chiuso 19° a 3’54” da Primoz Roglic. Le parole di uno dei suoi tecnici invece sì che hanno suscitato una bufera, perché Patrick Moster gli ha urlato per “incoraggiarlo” mentre era in azione “Vammi a prendere questi due cammellieri”. Il riferimento era a due ciclisti africani, l’algerino Azzedine Lagab e l’eritreo Amanuel Ghebreigzabhier (quest’ultimo corre con Vincenzo Nibali alla Trek-Segafredo) che erano partiti 3’ e 2’ minuti prima del tedesco. Parole a sfondo razzista che si sono sentiti chiaramente alla televisione, al punto che il commentatore tedesco si è sentito il dovere di chiedere scusa. Pure la Federciclo tedesca si è dissociata da Moster, che ha 54 anni e ha un passato da corridore. Più tardi sono arrivate le scuse dello stesso Moster: "Stavo incitando il mio atleta, faceva molto caldo, ho fatto confusione scegliendo le parole sbagliate. Mi dispiace, spero di non aver offeso nessuno. Non sono razzista, ho molti amici di origini nordafricane. Sono mortificato".

La "dittatura" dello spettacolo: così impone il politicamente corretto. Andrea Muratore il 20 Luglio 2021 su Il Giornale. La somma tra i nuovi media e la morsa del conformismo politicamente corretto connota la moderna "società dello spettacolo". Su cui oltre mezzo secolo fa Guy Debord scrisse pagine profetiche. "La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale": basterebbe questo breve aforisma a mostrare tutta la profonda attualità de La società dello spettacolo, saggio del filosofo francese Guy Debord pubblicato per la prima volta nel 1967. Debord, nel suo saggio, lesse in anticipo una tendenza ai suoi tempi sempre più strutturata nelle società ad economia avanzata: il parallelo avanzare della società dei consumi e di una nuova forma di opinione pubblica e intellettuale attivo al tempo stesso massificati e mercificati. In altre parole, la cultura di massa e, con essa, la formazione sociale di idee, costumi, opinioni politiche erano sempre più dipendenti dall'impatto giocato dai media più diffusi, in una fase in cui si andava consolidando la presa del mezzo televisivo. Prima delle grandi rivoluzioni nella comunicazione dell'età contemporanea Debord colse che, in Francia, in Europa, nel resto dell'Occidente ogni aspetto della vita sociale aveva via via acquisito il carattere “separato” tipico degli spettacoli propriamente detti. Al cui interno si può nitidamente distinguere il palco dalla platea, i performer dal pubblico, l’attività della rappresentazione dalla passività della ricezione. E nei cui confronti la reazione dell'opinione pubblica è, chiaramente, più emotiva che razionale. Debord intuiva la potenzialità che il medium televisivo offriva per irreggimentare dell'opinione pubblica, di canalizzazione del dissenso e del dibattito su questioni periferiche, triviali o su vere e proprie narrazioni, piuttosto che su confronti ideologici e politici. La società dello spettacolo da lui narrata aveva come cantori i primi intellettuali "militanti", portavoce del conformismo degli anticonformisti, padri del moderno mainstream progressista. Ironia della sorte, le tesi di Debord furono, un anno dopo la pubblicazione del suo libro, fortemente propugnate in Francia dagli agitatori del Sessantotto, che lo lessero senza capirlo veramente: perché il Sessantotto, nato con la giustificazione della rivolta contro un sistema ritenuto ingessato, oppresso dai retaggi conservatori del passato e antidemocratico, finì di fatto per ipostatizzare e materializzare tutte le tesi della società dello spettacolo. Creando un nuovo conformismo, una rivolta emozionale fondata su faglie labili o liquide ("vecchio" contro "nuovo", "progresso" contro "reazione", "doveri" contro "diritti" nuovi e vecchi e via dicendo), una focalizzazione eccessiva sull'individualismo a scapito dello spirito e dei diritti-doveri di comunità che avrebbe aperto la strada, nelle società occidentali, al trionfo dell'ethos neoliberista e della mercificazione delle opinioni, del pensiero, delle azioni sociali che Debord aveva previsto. Per citare Debord: "Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine". La lucidità dell'analisi del pensatore francese è constatabile dalla perfetta applicazione della sua logica all'era dei social network e di internet, che hanno permesso un'amplificazione delle interazioni e dei contatti che Debord, all'epoca, non poteva nemmeno immaginare. Ma la logica di fondo è rimasta immutata: lo "spettacolo", amplificatosi nella sua pervasività, diviene sedativo per il pensiero critico. L'emozionale batte il reale; gli scenari costruiti attraverso le narrazioni, i moti d'indignazione più o meno spontanei del web, le campagne di attivismo online sono i guardiani che frenano da un profondo e amplificato contatto con la realtà. E non a caso la narrazione che maggiormente si avvantaggia e sfrutta la moderna società dello spettacolo è quella liberal-progressista e politicamente corretta, figlia di quel Sessantotto che riprese e ribaltò le tesi di Debord. Che si parli di diritti civili, ambiente, integrazione, morale, questioni sociali ciò che conta, nel mondo dei social, non appare più essere il pensiero critico, l'elaborazione razionale, l'indipendenza della cultura. Trionfa un generale conformismo liquido, i cui "eretici" sono messi all'indice, etichettati, colpiti. Esclusi dai guardiani del dibattito pubblico perché decisi a negare la natura artificiosa del there is no alternative culturale a cui la società che si muove secondo le regole di Debord è condannata. E come ogni spettacolo, anche quello contemporaneo è governato attraverso le logiche dell'emozionale: Debord, non a caso, va letto in maniera complementare con Cristopher Lasch (La ribellione delle élite), critico della nuova casta di intellettuali militanti progressisti che dagli Anni Settanta-Ottanta ha dato struttura alla società dello spettacolo di nuova generazione, e Robert Hughes (La cultura del piagnisteo), che ha reso lampante la comprensione di come il politicamente corretto sia assurto, negli Usa prima e nel resto dell'Occidente poi, a strumento di governo della cultura contemporanea. Debord, Lasch, Hughes: tre pensatori eretici hanno contribuito a creare una cultura critica per la società dello spettacolo negli anni in cui la sua pervasività si amplificava. E la politica e la cultura vera perdevano spazio in tutto l'Occidente come fattori animanti della società. Nell'era della dittatura dei like, dell'istantaneità delle storie di Instagram, della memoria protesica e fuggente, riscoprire il pensiero del padre della critica a questo sistema è, ora più che mai, fondamentale. La riconquista di spazi autonomi per il libero pensiero, cioè per la profonda originalità dell'umano, è il presupposto per un maggiore equilibrio culturale e sociale nelle nazioni occidentali a regime democratico.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione. 

Dagoreport il 28 luglio 2021. Che delizia osservare i moralisti dei social alzare il ditino per biasimare Dagospia e, nello stesso tempo, riversare bile e offese da far vomitare una capra. L'imperdibile spettacolo è andato in scena sulla bacheca twitter della misconosciuta Agata Centasso, giocatrice del Venezia che milita nella serie C di calcio femminile.  Ieri le abbiamo dedicato un'apertura per elogiarne la bellezza con il titolo "Una figa di mediano", esaltando i suoi "palloni d'oro in bella vista" (ovvero il suo prominente décolleté messo generosamente in mostra dalla signorina sia su Instagram che su Twitter). Fin qui, una scoreggia nello spazio. Cioè il nulla. Dopo aver visto l'articolo, Agata Centasso è intervenuta sull'account twitter di Dagospia: "Vi ringrazio ma perdonatemi una piccola riflessione. Il passaggio [.. con i suoi "palloni d'oro" in bella vista] è piuttosto infelice e di pessimo gusto". Un commento critico ma garbato (persino con un ringraziamento iniziale). Poteva finire lì, con uno zero a zero. E invece interviene a gamba tesa il Venezia Calcio che, dal suo account twitter, ci intima di modificare immediatamente il titolo dell'articolo: "È una scelta editoriale becera che denota una grave mancanza di rispetto nei confronti della nostra atleta e, naturalmente, della figura femminile". A quel punto il vespaio degli eticamente corretti era stato scosso. Lo sciame di social-inquisitori, quelli che fiutano ogni polemicuccia per sversare il fiele in giacenza, ha tuonato contro di noi: "Subumani", "Infami", "Sciacalli", "Ritardati e falliti". Una smitragliata di offese pe' du' tette. Ci sta, è il gioco dei social. Non saremo certo noi a lagnarci, a frignare di essere colpiti dalla shitstorm (vero, purtroppo), a minacciare querele (ci sarebbero anche i margini) o a travestirci da vittime (il vestito ci andrebbe stretto). Conosciamo i meccanismi e ne siamo parte. Vogliamo solo segnalare al Venezia Calcio e ad Agata Centasso che aver dato la stura alla torma di insettini social e al loro odio contro di noi è molto, ma molto peggio del nostro titolo. Non c'è proporzione tra "Una figa di mediano", l'esaltazione di due tettone, con la fogna di commenti su di noi. Anche meno. Soprattutto perché, davanti al turpiloquio di questa manica di sfigatelli, il Venezia e la Centasso tacciono: non hanno preso le distanze né cancellato i commenti. Hanno lasciato montare la marea di liquame, indifferenti al lezzo che emanava. Dimostrando che le tanto esaltate battaglie sul "rispetto" valgono due spicci di ipocrisia e chi se ne riempie la bocca ha la coerenza di un moscerino della frutta. Chi vede patriarcato, sessismo, maschilismo, machismo e stronzismo in ogni ruttino ha seri problemi di diottrie. E ha bisogno di uno bravo. Ma di questo, a noi, poco importa. Vogliamo solo marcare la distanza: siamo fuori di testa ma diversi da voi.   

Tweet sulla bacheca di Agata Centasso contro Dagospia 

Outsider. Non ha sporcato lei. Si son solo dimostrati i soliti morti di fame. 

Outsider. Fortunatamente siamo anche in grado di distinguere chi fa satira da uno scarabeo stercorario. 

Diego Tomasoni. CHE SCHIFO, INDECENTE! Una donna non può postare una foto in costume che é subito oggetto di ste stronzate. RISPETTO parola sconosciuta per questi cani

Simone83. Ciao Diego, totalmente d’accordo con te Ok anche se più che cani avrei messo infami!!! 

J Devil. Piena solidarietà alla vostra tesserata e a tutte le donne vittime di subumani come il redattore di tale abominio. Da uomo, tutto ciò mi schifa parecchio. 

Fino alla fine. La vergogna è che ci dovrebbero arrivare da soli. Essendo recidivi, vien da pensare che lo facciano sperando che si parli di loro. Sciacalli 

MarcoDegi. Si fanno notare solo così. Ritardati e falliti 

Gabriele Viola. Infami oltretutto 

daus ??? #CeferinOut. non è che loro mancano di rispetto ad Agata e alla figura femminile, loro mancano rispetto al genere umano, anche perché non ne fanno assolutamente parte. 

GiòBandiera della Colombia. E pensare che in questa pseudo-redazione c'è qualcuno che ha il tesserino da giornalista. Non mi indigno per per il titolo ma per quel modo di fare subdolo e misero che non sposta di un millimetro la loro credibilità. Se non è per voi, fate altro... 

Fede Capellaro. Ci vorrebbe un bell’ergastolo per @_dagospia_

Gaddhura. Denunciate questi pezzenti!!! Non si può soprassedere a queste volgarità! #dagoschifo 

Antonio Tricarico. Dagospia deve solo chiudere i battenti e morire di fame... 

Who is Dark. Dagospia non perde occasione per dimostrarsi la cloaca che è.

Jovinco. Come al solito non perdono occasione per mettere in mostra il loro viscidume su qualsiasi argomento trattato. 

Kelevra. Trogloditi repressi

Matteo Sfolcini per calciotoday.it il 27 luglio 2021. In Italia il calcio femminile, seppur in continua espansione, è ancora poco conosciuto rispetto agli altri paesi. In tanti però si sono accorti di Agata Isabella Centasso, centrocampista del Venezia che sta incantando i social network. La sua popolarità è in continua crescita e già oggi può vantare oltre 12 mila fan sul suo profilo Instagram. La sua peculiarità è l’affascinante aspetto esteriore, apparentemente in contrasto con il ruolo ricoperto in campo. La bellissima Agata è un mediano vecchio stile, tutta grinta e fisicità soprannominata “La Belva”. Non si direbbe guardando le foto pubblicate sui social, dove appare con un volto angelico e un corpo da favola.

Agata Isabella Centasso, la dea del Venezia femminile. Nella Serie C femminile c’è una ragazza che sta facendo perdere la testa a tutti. È Agata Isabella Centasso, centrocampista classe ’90 del Venezia. L’anno di nascita è riportato anche sul numero della sua maglietta che, nell’ultimo scatto su Instagram, si intravede dietro le sue spalle. Da piccola ha coltivato la passione per il calcio grazie al padre e i due fratelli che la coinvolgevano nelle partitelle in famiglia. Da diversi anni gioca in squadre a livello dilettante, ma non ha mai smesso di inseguire la Serie A. Un sogno appena realizzato dal Venezia maschile di cui l’anno prossimo sarà una tifosa speciale. Nella vita privata due le passioni sportive oltre il pallone, la boxe e il tennis. La Centasso non è solo tecnica, classe e femminilità, si distingue anche per l’impegno come operatrice socio-sanitaria. Nello specifico si occupa di aiutare persone con disabilità intellettiva: “Mi piace stare con quelli che chiamo i miei “ragazzi”, ha raccontato in un’intervista a La Nuova Venezia. Una ragazza affascinante dall’animo dolce e gentile che diventa grintosa e aggressiva con il pallone tra i piedi. Il singolare contrasto attrae i tantissimi follower, tra i quali si nasconderanno di certo anche diversi ammiratori segreti. 

"Sul lavoro il divieto di velo islamico è legittimo". La decisione della Corte Ue. Gerry Freda il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. La Corte si era espressa già nel 2017 sul tema del velo islamico nei luoghi di lavoro, giungendo allora a conclusioni analoghe a quelle di oggi. La Corte di Giustizia dell'Unione europea si è espressa ieri sul tema del diritto a indossare il velo islamico nei luoghi di lavoro, con una sentenza che ha riconosciuto il diritto di licenziare o sospendere una dipendente che indossa l'hijab; tale diritto andrebbe esecritato dai datori di lavoro, ha però precisato la Corte, soltanto in presenza di determinate condizioni. Il verdetto che ha legittimato il divieto di velo islamico sul posto di lavoro è stato emesso in questi giorni dal supremo tribunale Ue su impulso di un ricorso che era stato presentato da due cittadine musulmane residenti in Germania. Nella loro istanza, le ricorrenti sostenevano di avere subito discriminazioni sul lavoro proprio per via della loro fede islamica. La prima delle due promotrici della causa era un'educatrice specializzata presso l'ente tedesco di assistenza ai minori Wabe eV, mentre l'altra era consulente di vendita e cassiera della compagnia Mh Muller Handels GmbH. Entrambe avevano denunciato ai giudici Ue di essere state sottoposte a misure disciplinari, a pressioni affinché cambiassero abbigliamento e, alla fine, alla sospensione dal lavoro; tutto a causa della loro scelta di indossare l'hijab in servizio. Le due hanno di conseguenza lamentato una palese violazione della libertà religiosa tutelata dal diritto europeo. Il ricorso delle due donne musulmane non ha però avuto esito favorevole, con la Corte di Giustizia che, sollecitata a intervenire sulla questione su impulso dei tribunali tedeschi adìti dalle cittadine in questione, ha infatti riconosciuto ai datori di lavoro la facoltà di interdire ai propri dipendenti l'uso di capi d'abbigliamento o di monili che rimandino a messaggi di natura religiosa o politica. Tuttavia, tali limiti alla libertà dei dipendenti possono essere imposti, ha evidenziato la sentenza emessa dal tribunale Ue, solamente in presenza di specifiche circostanze, tra cui l'esigenza, avvertita dai datori di lavoro, di offrire al pubblico un'immagine "neutrale" delle rispettive aziende: "Il divieto di indossare qualsiasi forma visibile di espressione di convinzioni politiche, filosofiche o religiose sul posto di lavoro può essere giustificato dalla necessità del datore di lavoro di presentare un'immagine neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali". La semplice volontà dell'azienda di presentarsi come "neutrale" non è però di per sé sufficiente, ha chiarito la Corte, a giustificare in modo oggettivo una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, dato che il carattere oggettivo di una siffatta giustificazione può ravvisarsi solo a fronte di un’esigenza "reale" del datore di lavoro, ossia capace di prevalere eccezionalmente sui diritti religiosi degli impiegati. Saranno così, ha stabilito inoltre il medesimo verdetto, i tribunali dei 27 Stati membri a valutare, caso per caso, se il divieto di hijab nei luoghi di lavoro sia davvero dettato da "reali esigenze" avvertite dai titolari delle aziende o dai responsabili del personale. La Corte europea era già intervenuta nel 2017 sul tema del velo islamico indossato nelle ore di servizio, riconoscendo anche allora il principio per cui le aziende possono, a determinate condizioni, vietare al loro personale di indossare l'hijab o altri simboli religiosi vistosi.

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

Gianluca Veneziani per "Libero Quotidiano" il 14 luglio 2021. Pensa un po' se l'avessero fatto al contrario, o meglio a rovescio, visto che parliamo di tennis. Se la finale di Wimbledon fosse stata una specie di Wimbledonna, ci fosse arrivata una fascinosa tennista azzurra e lei fosse stata sommersa da giudizi di lode per il suo aspetto e allusioni un po' osé, l'Italia tutta del politicamente corretto sarebbe scesa in campo (da gioco) per porre rimedio al vile affronto. Invece è successo a Matteo Berrettini, finalista perdente con onore e ragazzone moro di un metro e 92 centimetri con capelli ricci, sorriso da attore e sguardo tenebroso. Da qui la comprensibile reazione entusiasta, tempestata di ormoni, delle sue nuove fan. Sui social si leggevano messaggi che andavano dal perentorio apprezzamento fisico («Commento tecnico: bono», «Uno gnocco pazzesco», «Facciamolo patrimonio dell'Unesco», «2 metri di superfico»), alle avances sessuali («Le mie ovaie esultano», «Te la darei come si dà l'acqua alle piante») fino alle proposte romantiche («Ti prego, Matteo, sposami»). Né mancavano i propositi di conversione da parte di maschi alfa: «Questo ragazzo», scriveva un utente su Twitter, «sta facendo vacillare la mia eterosessualità». Non è la prima volta, del resto, che tennisti italici riscuotono i consensi delle spettatrici: anche Fabio Fognini viene reputato un bel manzo, e di Adriano Panatta, col suo capello lungo e la sua allure di vincente, si diceva fosse un grande tombeur de femmes. Nessuna sorpresa dunque per l'innamoramento collettivo nei confronti del vicecampione di Wimbledon: anzi, viva la possibilità di sbavare per un tennista al di là del modo in cui usa palle e racchetta. E tanto di cappello a Berrettini. L'unanime condivisione di questi apprezzamenti si trasformerebbe tuttavia in riprovazione se solo cambiasse il sesso della persona in questione. Anzi, ciò è già successo: quando a "Quelli che il calcio" il conduttore Luca Bizzarri si era permesso di commentare il ritiro della (affascinante) tennista Maria Sharapova con frasi di ammirazione e un po' di ironia («Bella, è bella», «Si sa che tira più una racchetta da tennis... che un carro di buoi»), era partita l'indignazione pubblica per quei commenti ritenuti forme di maschilismo da bar. E anche quest'anno, quando l'ex campione di tennis Boris Becker sulla Bbc si è limitato a giudicare l'aspetto della fidanzata del tennista Fucsovics con un complimento («È sicuramente molto carina»), si è scatenata l'ira delle femministe che hanno definito quella frase irrispettosa e inappropriata. Quanto ci vorrebbero, a riguardo, i commenti sapidi di Gianni Clerici che, durante le sue telecronache, si dilettava a fare battute sulle mutandine delle tenniste che lui chiamava «amazzoni». E anche sui grandi tennisti non risparmiava divertiti doppi sensi, dicendo ad esempio di McEnroe: «Anche senza essere gay, da uno che ha una mano così mi farei certamente accarezzare».

Alessandro Vinci per corriere.it il 16 luglio 2021. Bando ai termini «maschio» e «femmina» per non offendere la sensibilità dei cavi audio - o meglio, dei loro connettori - che non dovessero riconoscersi né in un genere né nell’altro. È la surreale frontiera politically correct a cui si è spinta nei giorni scorsi la Professional Audio Manufacturers Alliance (Pama), associazione statunitense dei produttori di materiale audio, che nei giorni scorsi ha inviato alle aziende affiliate un questionario volto a «raccogliere feedback sul linguaggio problematico e sollecitare suggerimenti su una terminologia alternativa e neutra». Scopo dell’iniziativa, come recita questo comunicato, è infatti quello di «affrontare problemi di linguaggio e terminologia obsoleti, identificati come sempre più scoraggianti rispetto allo spirito di inclusione». E poco importa che tale crociata in nome della gender neutrality venga combattuta in riferimento a meri oggetti inanimati e punti a fare tabula rasa di due termini – «maschio» e «femmina», per l’appunto – molto efficaci nel definire le caratteristiche dei due jack. 

Non solo sessismo. Non è tutto, perché tra i vocaboli finiti nel mirino di Pama ci sono anche «master» e «slave» («padrone» e «schiavo»), comunemente utilizzati per indicare un rapporto tra hardware in cui uno ha il pieno controllo dell’altro. Guai dunque a pronunciarli: qualsiasi informatico d’oltreoceano dovesse incappare nello scivolone darebbe evidente prova della sua nostalgia nei confronti del commercio triangolare, nonché delle sue simpatie sudiste. Si accettano dunque proposte da parte degli associati all’interno di un apposito documento di «nomenclatura audio professionale neutrale consigliata». In questo senso, al posto di «maschio» e di «femmina» c’è chi propone di utilizzare «spina» e di «presa», mentre «master» e «slave» potrebbero rispettivamente lasciare spazio a «primario» e «secondario». A quel punto sessismo e schiavismo (malgrado negli Usa sia stato abolito 156 anni fa) avrebbero senz’altro le ore contate. 

«Impresa straordinaria». «L’intento dei membri di Pama è quello di raccomandare l’adozione di una struttura all’interno delle loro organizzazioni per l’implementazione di una terminologia univoca in tutto il settore, in uno spirito di inclusività e uniformità – ha spiegato il presidente del consiglio di amministrazione Karam Kaul –. È questione di rispetto reciproco». Dawn Birr di Sennheiser, che al pari di Kaul fa parte del comitato per l’inclusione di Pama, ha poi aggiunto: «Spesso sono i piccoli passi che ci portano ai nostri obiettivi. Ci auguriamo quindi che, intraprendendo queste azioni, possiamo iniziare a realizzare cambiamenti significativi nel tempo». Entusiasta dell’iniziativa si è infine dimostrata anche Karrie Keyes, direttore esecutivo del network femminile e non binario SoundGirls.org: «Un ringraziamento a Pama per aver introdotto un linguaggio neutro nell’industria audio – ha dichiarato –. Si tratta di un’impresa straordinaria ed è importante continuare a lavorare per promuovere cambiamenti.

Così grandi aziende hanno ceduto al politcally correct. Roberto Vivaldelli il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Quello di Lufthansa, che abbandona il classico saluto "Signore e signori", non è affatto un caso isolato. Ford, Disney, Amazon, tutti i grandi marchi strizzano l'occhio alla correttezza politica. "Signore e signori, benvenuti a bordo": che formula desueta, arcaica, non rispettosa delle minoranze e inattuale rispetto al pensiero unico politicamente corretto. Mentre tutti i grandi marchi si colorano di arcobaleno strizzando l'occhio in maniera ossequiosa all'universo Lgbtq - con buona pace della lotta al capitale, non più di moda a sinistra - anche Lufthansa, la principale compagnia aerea tedesca, ha ben pensato di rincorrere la moda del momento tanto in voga fra le élites progressiste e i salotti benpensanti e abolire il classico saluto per accogliere i passeggeri a bordo dei propri aerei, adottando formulazioni neutre rispetto al genere. "Sehr geehrte Damen und Herren, herzlich willkommen an Bord" e la sua traduzione inglese, "Ladies and Gentlemen, welcome on board", saranno presto cose del passato sui voli Lufthansa. Sia mai che qualcuno si senta offeso in questa tragicomica cultura del piagnisteo imperante.

Sempre più aziende cedono al politicamente corretto. La mossa di Lufthansa è tutt'altro che isolata. Come spiega da Deutschewelle, sempre più aziende e organizzazioni internazionali abbracciano misure che promuovono l'inclusione di genere e la nuova fede del politicamente corretto: fra queste vi sono le Nazioni Unite e la Commissione europea, che hanno adottato delle linee guida ben precise in merito. Un manuale sulla neutralità di genere nella lingua pubblicato nel 2018 dal Parlamento europeo afferma che "il linguaggio inclusivo di genere è più di una questione di correttezza politica". "Lo scopo del linguaggio neutrale rispetto al genere - si legge -è quello di evitare scelte di parole che possono essere interpretate come pregiudiziali, discriminatorie o umilianti implicando che un sesso o genere sociale sia la norma". Fra le grandi aziende che hanno sposato questa visione del mondo c'è, ad esempio, la statunitense Ford, che la scorsa settimana ha adottato delle nuove linee guida in merito. Lo stesso ha fatto il Walt Disney World di Orlando, il più grande complesso di parchi a tema del mondo che, proprio come Lufthansa, ha eliminato il classico saluto "Signore e signori", sostituendolo con forme più "inclusive". Ma si cede al politicamente corretto un po' su tutti i fronti. Basti pensare poi a tutti i grandi marchi e alle multinazioni che nel mese di giugno hanno celebrato Pride Month, come Amazon: "Siamo insieme alla comunità Lgbtq sia all'interno che all'esterno di Amazon e stiamo lavorando a livello federale e statale sulla legislazione; questo include il nostro sostegno per l'approvazione dell'Equality Act" sottolineava Amazon in una nota di poche settimane fa. "Ci impegniamo costantemente per creare un luogo di lavoro equo e inclusivo e forniamo vantaggi per la transizione di genere basati sugli standard di cura pubblicati dalla World Professional Association for Transgender Health (WPATH). Siamo inoltre onorati di aver ricevuto un punteggio perfetto nel " Corporate Equality Index " della Human Rights Campaign Foundation negli ultimi tre anni". E come Amazon lo stesso hanno fatto la stragrande maggioranza dei marchi di ogni ambito e settore come Nike, Adidas, Apple, Facebook, Volkswagen, tanto per citarne alcuni, con davvero pochissime eccezioni. È il woke capitalism, bellezza. Un nuovo capitalismo, "consapevole", attentissimo ai diritti civili e perfettmanete inserito nello schema dell'identity politics. Un'ossessione verso le minoranze e l'inclusione che sconfina spesso e volentieri nella farsa e nel grottesco: è il caso della Professional Audio Manufacturers Alliance (Pama), società che ha deciso di eliminare la dicitura "maschio" e "femmina" dai cavi audio perché ritenuta sessista. E chi crede che il nuovo progressismo identitario si conceda dei limiti di decenza, si sbaglia di grosso. Questo è testimoniato dal fatto che solo qualche anno fa la decisione della Pama sarebbe stata accolta nella migliore delle ipotesi da pernacchie e risate, mentre ora è la nuova normalità ed è vista come un simbolo di progresso. 

Roberto Vivaldelli.

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali, è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali.

La teoria gender arriva pure in aereo: addio a "signore e signori". Francesca Galici il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Lufthansa ha deciso di cavalcare l'onda del politicamente corretto e sui suoi aerei non si verrà più salutati con "signora e signore". La deriva del politicamente corretto ha colpito anche le compagnie aeree, come dimostra la nuova policy Lufthansa sul saluto ai passeggeri quando questi varcano le porte degli aeromobili in ingresso o in uscita. Sia sui voli della compagnia madre che sulle consociate, infatti, a breve il personale di bordo non potrà più utilizzare il classico e universale "signori e signore, benvenuti a bordo". Il motivo? Non sarebbe abbastanza inclusivo per tutti i generi. Così ha deciso la compagnia aerea, invitando gli steward e le hostess a utilizzare un più generico e neutrale "benvenuti a bordo". Un saluto asettico, magari anche fatto col sorriso, ma che toglie quel piccolo elemento di cortesia che compiace i passeggeri che si accingono a varcare le porte dell'aeromobile. Non si tratta di una voce di corridoio che circola tra il personale di bordo e di terra ma di una novità che è stata confermata anche dalla portavoce della compagnia tedesca, Anja Stenger: "La diversità per noi non è una frase vuota, da ora vogliamo esprimere la nostra attenzione al linguaggio". Queste le dichiarazioni ufficiali della compagnia ai media tedeschi, anche se ancora non è stato reso noto da quando la compagnia aerea adotterà il nuovo saluto. Le consociate di Lufthansa che saranno tenute ad adeguarsi al nuovo standard politicamente corretto imposto dalla compagnia tedesca sono: Swiss, Austrian Airlines, Brussels ed Eurowings. Il linguaggio gender neutral prevede che il personale di bordo non si rivolgerà più ai passeggeri chiamandoli signora o signore in nessuna occasione, nemmeno durante il volo quando viene richiesto il loro servizio, quando vengono serviti i pasti o quando è previsto un loro intervento. Steward e hostess saranno tenuti a utilizzare un ben più neutrale "gentili clienti". Come spiegato dalla portavoce, sarà il personale di bordo a scegliere quale sarà il saluto da utilizzare di volta in volta con i passeggeri. Le opzioni sono l'informale "ciao", oppure il più professionale "buongiorno/buonasera" a seconda del momento della giornata. O ancora, come detto, un semplice "benvenuti a bordo". Un cambiamento che influisce sulle abitudini e porta la deriva del politicamente corretto a un livello superiore. Ora resta da capire se anche le altre compagnie aeree seguiranno la scia e, per non essere accusate di non essere abbastanza inclusive, adotteranno lo stesso metodo o se, invece, permarranno sulle loro posizioni. Resta anche il nodo dei biglietti dove, in molti casi, continuano a comparire le diciture "mr" e "mrs". Verranno modificati anche questi?

IL POLITICAMENTE CORRETTO HA UCCISO LA SATIRA! ALESSANDRO GNOCCHI per il Giornale il 10 luglio 2021. C'era una volta la satira ma non c'è più. Peccato, anche perché l'Italia aveva una vivace tradizione, anche letteraria, che ha iniziato a inabissarsi con l'avvento della televisione (naturalmente con tutte le eccezioni del caso). Oggi abbiamo ancora maestri, come Maurizio Milani, uno dei principali scrittori italiani, o figure emergenti, come il felpato Valerio Lundini. Entrambi a proprio agio con la pagina scritta (Era meglio il libro di Lundini è vicino al diventare un caso) e con la televisione (se solo la lasciassero fare a Milani, espulso dal giro giusto, Fabio Fazio e accoliti, per eccesso di libertà). Sul web la satira funziona eccome: Osho, spesso accusato di avere simpatie politiche sbagliate (cioè di destra), e Lercio.it, feroce nel ridicolizzare l'informazione tradizionale, sono due storie di meritato successo. Resistono anche i vignettisti su carta, il nostro Alfio Krancic o Alessio Di Mauro. Tuttavia, è innegabile: lo spazio della satira si è ristretto, a causa del politicamente corretto e della invadenza dei partiti nei media, non che non ci fosse in passato, ma forse non era così diretta e pressante. Qui vogliamo proporre una piccola storia, senza pretese di completezza, della satira affidata alla parola scritta, spesso firmata da grandi scrittori. Vedrete che ne volavano di tutti i colori. Lo scontro era vero scontro. Cattivo, anche tra amici o amici degli amici. C'erano nomi e cognomi, le polemiche non circostanziate, generiche, non erano ben accette. Un tempo c'era più coraggio, anche se a noi sembra che lo spazio riservato oggi alla satira sia enorme, e che si possano dire cose che un tempo erano proibite. Un tempo, non c'era la querelite, una battuta, una querela. Erano tutti più sportivi. Basta sfogliare le riviste Cuore o il Male per capire: pochi anni fa erano consentiti sberleffi che oggi scatenerebbero reazioni isteriche, richieste di scuse, boicottaggi e via di cultura (si fa per dire) della cancellazione. Cuore fece una prima pagina dove il ministro Guidi, paraplegico, vinceva le Olimpiadi di corsa con gli ostacoli. Guidi si fece una grande risata, placò ogni discussione e ringraziò per aver portato l'attenzione sul problema. Il Male pubblicò una finta prima pagina, modellata sul quotidiano Paese Sera, in cui annunciava l'arresto di Ugo Tognazzi, capo occulto delle Brigate Rosse. Qui ci fu un po' di indignazione, chiusa dal grande attore cremonese: «Rivendico il diritto alla cazzata». Novantadue minuti di applausi. Di fronte a due casi come questi, forse oggi la gente scenderebbe in piazza a protestare con i gessetti o cose del genere, tutte degne di satira, tra l'altro. La satira si paga cara. Gaio Fratini, per esempio, re dell'epigramma polemico-satirico, finì in povertà, ebbe la legge Bacchelli per iniziativa di Vittorio Sgarbi. Proprio Fratini, per anni redattore al Caffé di Giambattista Vicari, punto di riferimento per chi voleva evadere dal neorealismo e dalle avanguardie, compilò una esilarante antologia di poesia satirica, La rivolta delle muse. Epigrammi d'Italia (Vallardi, 1994). Vista la data? Un attimo prima della trasformazione del comico in tribuno della plebe in funzione politica di contrasto al centrodestra, una stagione davvero umiliante per la satira, con i giullari ridotti a camerieri del potere mediatico e culturale, fortemente sbilanciato a sinistra. Comunque, prendiamo La rivolta delle muse e utilizziamola come guida. Il critico cinematografico Gian Luigi Rondi stroncò Accattone di Pier Paolo Pasolini. Risposta in versi del poeta-regista: «Sei così ipocrita, che come l'ipocrisia ti avrà ucciso, / sarai all'inferno e ti crederai in paradiso». Altro biglietto pasoliniano, a Mario Luzi: «Questi servi (neanche pagati) che ti circondano / chi sono? A che vera necessità rispondono? / Tu taci dietro a loro, con la faccia di chi fa poesie: / ma essi non sono i tuoi apostoli, sono le tue spie». Alberto Moravia era noto per l'erotismo di certe sue pagine. Non a tutti piacevano. Mino Maccari: «Maggio ti mette in corpo la lussuria / ma a conservarti, o mia fanciulla savia / quando d'amor ti coglie troppa furia / ti basterà un romanzo di Moravia». Ancora Maccari sulla saletta di Carlo Levi alla Biennale di Venezia: «Levi questo! Levi quello! Levi tutto!». Il fenomeno dell'appellite risale agli anni Sessanta. Da lì, il diluvio, il più triste referto intellettuale degli anni Sessanta-Settanta resterà per sempre l'appello contro il commissario Calabresi pubblicato dall'Espresso. I firmatari compongono un ritratto del bel mondo paurosamente simile a quello attuale. Gaio Fratini, Avanti, popolo!: «Chi lo firma non legge / chi legge non lo firma / chi s' affranca dal gregge / quel manifesto infirma». Incredibili le bordate di Curzio Malaparte, la più cattiva riguarda l'Italia intera: «Se il cuore è forte e il sangue è rosso e cupo / anche in Italia l'uomo all'uomo è lupo. / Oggi che il sangue è giallo e il cuore inerme, / anche in Italia l'uomo all'uomo è verme». Provate a immaginare se Ennio Flaiano presentasse a una rivista un epigramma di tal fatta: «Rifiuto il cinema d'arte / che suscita tante discussioni. / Esteti e filosofi culattoni / non confondiamo le carte». Sarebbe linciato, dovrebbe ritirare il tweet, pardon, l'epigramma. Come questo sui filosofi marxisti: «Platone d'esecuzione» o questo sui tipi che si autodefiniscono creativi: «Oggi il cretino è pieno d'idee». Immaginiamo come sarebbero accolte queste micro-stroncature: «Bergman: tanto silenzio per nulla». «Antonioni: tempesta in un bicchier d'acqua minerale». Marcello Marchesi ha toccato tutte le corde. Politica: «La rivoluzione si fa a sinistra, i soldi si fanno a destra». Sociale: «La legge è uguale per tutti. Basta essere raccomandati» o «Mangiate merda, milioni di mosche non possono sbagliare». Esistenziale: «Due parallele si incontrano all'infinito, quando ormai non gliene frega più niente». Anche il cabaret ha una gloriosa tradizione comica, con punte satiriche, ne fanno parte a pari titolo Giorgio Gaber e Paolo Villaggio, Enrico Vaime e Nanni Svampa. Umberto Simonetta ne fece una bella antologia, La patria che c'è data (Bompiani, 1974). Leo Longanesi planava come uno Stuka sui luoghi comuni. Bomba numero uno: «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola». Bum! «Vissero infelici perché costava meno». Bum! Per finire con questa battuta tristemente attuale: «Alla manutenzione, l'Italia preferisce l'inaugurazione». Antonio Delfini prendeva in giro le località balneari della Versilia dove aspiranti scrittori, sedicenti industriali e nobili decaduti si trovavano seduti intorno ai tavolini dei caffè. Alfonso Gatto componeva Denigrammi, cioè epigrammi denigratori, massacrando colleghi (Carlo Levi, Mario Soldati) e critici (Bo, Falqui, Spagnoletti). Cesare Vivaldi commentava il carrierone del Pittore impegnato: «Realista socialista, se vuoi Montecitorio / non devi mai cambiare il repertorio». Sulle pagine del Caffè si dibatteva sulla natura della letteratura satirica. Il più radicale fu Giorgio Manganelli: «Un fondamentale elemento di disubbidienza governa gli impulsi della letteratura. Vede come rilutta, come accetta anche di morire, quando la si vuol fabbricare onesta. È ascetica e puttana. Possiamo forse vedere la letteratura come una satira totale, una pura irrisione, anarchica e felicemente deforme; una modulazione del blasfemo». Nel cuore della letteratura sta chiusa una risata tra l'olimpico e il demente, la risata «di Adamo morente» che lasciò Dio «profondamente sconcertato». Tutta la letteratura, dunque, è sovversione delle regole e delle idee, tutta la vera letteratura è satirica. Sembra di leggere pagine appartenenti ad altre civiltà e ad altre ere geologiche. Invece una discussione di questa profondità era possibile in Italia nel 1967. Qualcosa deve essere andato storto...

La dittatura del politicamente corretto. Carlo Lottieri il 3 Luglio 2021 su Il Giornale.  Nelle scorse ore molti utilizzatori di Facebook (tra cui il sottoscritto) hanno ricevuto la richiesta di segnalare chi tra le proprie conoscenze "stia diventando un estremista". Nelle scorse ore molti utilizzatori di Facebook (tra cui il sottoscritto) hanno ricevuto la richiesta di segnalare chi tra le proprie conoscenze «stia diventando un estremista». Nemmeno viene chiesto se si conosca qualche esagitato intollerante (che già sarebbe imbarazzante), ma addirittura se abbiamo tra i contatti chi a nostro giudizio starebbe radicalizzando la sua visione del mondo. Personalmente, lo devo ammettere, frequento numerosi «estremisti». Ad esempio, molti miei amici vorrebbero moltiplicare i redditi di cittadinanza e chiudere la bocca a quanti, a loro parere, sono portatori di una visione distorta delle cose. Non per questo li segnalerò a Zuckerberg; anche perché Facebook non ci contatta per sapere se conosciamo fanatici sostenitori di un «welfare state» illimitato o ultra-ideologizzati partigiani del «politicamente corretto». All'insegna del conformismo più stantio, quelli che dovrebbero essere segnalati sono invece coloro che non sono perfettamente allineati con un progressismo standard che unisce post-marxismo, relativismo morale, genderismo, intolleranza verso il pluralismo. Quella che sta emergendo, però, all'orizzonte è una minacciosa polizia del pensiero. E in questo senso è opportuno ricordare una formidabile frase di George Orwell: «Se libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alle persone ciò che non vogliono sentirsi dire». Dimenticarlo significa indirizzarsi verso una società totalitaria. Per giunta, questa non è una faccenda solo americana. Pure da noi vige un doppiopesismo in virtù del quale grillini e dintorni possono dire qualsiasi corbelleria e usare pure linguaggi violenti, mentre chi è al di fuori di una certa area rischia costantemente la gogna; e questo in virtù del fatto che s'imposta una visione delle cose, basti pensare al disegno di legge Zan, secondo la quale le costrizioni provenienti dagli autoproclamatisi «buoni» sarebbero giuste e necessarie. In una società nella quale teorie cospirative spesso infondate stanno moltiplicandosi, il miglior assist a favore di quanti diffondono idee strampalate sul mondo è proprio questo voler imporre le tesi che sono dominanti all'interno delle élite politiche e culturali, confinando ai margini della società quanti la pensano diversamente. Un tale «razzismo culturale» è quanto mai pericoloso e può aprire la strada a tensioni crescenti. Prima ci si rende conto di questo e si cambia, meglio è. Carlo Lottieri

Gli Stati Uniti e il prezzo della diplomazia dei diritti arcobaleno. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 2 luglio 2021. Mutano i mezzi, cambiano i volti e trascorrono gli anni, ma il fine degli Stati Uniti è uno, imperituro e inalterabile: la costruzione di un mondo che sia fatto a loro immagine e somiglianza. Profondamente e convintamente persuasi che il Divino avesse condotto i Padri pellegrini in America per una ragione – la fondazione di una Nuova Gerusalemme –, i Padri fondatori avrebbero gettato le basi per la trasformazione degli Stati Uniti in quell’Impero della Libertà (Empire of Liberty) operante nel mondo in veste di Poliziotto globale (Global policeman) e nel nome di un Destino manifesto (Manifest destiny), cioè chiaro ed evidente. Mutano i termini, cambiano le facce e si alternano le epoche, ma la logica dell’Impero della Libertà che combatte per il benessere dell’intera umanità è ancora lì, in piedi e in salute, grazie ad un’incredibile capacità di autorinnovamento che la rende in grado di resistere all’erosione degli agenti del tempo. E una delle grandi battaglie di quell’America che è tornata (America Is Back) al centro delle relazioni internazionali, dopo il breve e sui generis paragrafo simil-isolazionista che è stato il trumpismo, è rappresentata dalla questione arcobaleno, ovvero dai diritti LGBT. Il motivo per cui la questione arcobaleno sta infiammando l’Unione Europea – che lo scorso marzo è stata dichiarata dall’Europarlamento una “zona di libertà LGBTIQ” – è che in gioco, oltre a dei diritti, v’è l’esistenza stessa dell’agenda estera della Casa Bianca per il ventunesimo secolo. Un’agenda che vede nell’esportazione globale della questione arcobaleno uno dei pivot strategici dell’America, al di là del colore politico dell’inquilino dello Studio ovale, e che è stata perseguita con ardore, anche se in maniera differente, dalle varie amministrazioni che si sono susseguite nel dopo-Bush. Barack Obama è stato colui che, più di ogni altro, ha investito e creduto nel potenziale geopolitico della causa arcobaleno, trasformandola in una linea di faglia tra l’Occidente e il resto del mondo, in particolare l’Oriente a guida sino-russa. Questo è il motivo per cui, mentre in Russia veniva approvata la celebre legge contro la propaganda gay, negli Stati Uniti si assisteva ad una sequela di eventi che, in breve tempo, avrebbe provocato un terremoto culturale a livello di relazioni internazionali: La costituzionalizzazione del matrimonio omosessuale – che ha generato un effetto valanga nel mondo, come mostrato dalle legalizzazioni avvenute fra il 2011 e il 2016 in Brasile, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Nuova Zelanda, Regno Unito e Uruguay. La trasformazione di agenzie federali per la cooperazione allo sviluppo e sedi diplomatiche (ambasciate e consolati) in entità delegate “all’uso di diplomazia e aiuti esteri per promuovere e proteggere i diritti umani delle persone lgbt” – alla quale ha fatto seguito la pratica, totalmente inedita, di introdurre sanzioni e altre misure punitive nei confronti di quei governi rei di violare i diritti arcobaleno. La creazione della figura dell’inviato speciale per i diritti umani delle persone lgbti in seno al dipartimento di Stato – che ha accresciuto ulteriormente la centralità della questione arcobaleno nella conduzione di relazioni ed affari con l’estero. L’utilizzazione di cifre senza precedenti per la promozione dei diritti gay nel mondo – 41 milioni di dollari nel solo periodo 2012-15, ai quali va affiancata “una porzione” (dal volume ignoto) dedicata alle “cause e alle comunità omosessuali” e proveniente dai 700 milioni spesi nello stesso triennio per aiutare le “comunità marginalizzate”. Oggi, a distanza di dieci anni da quel fatidico 2011 che vide la Corte suprema degli Stati Uniti sentenziare a favore del riconoscimento dei matrimoni omosessuali sull’intero territorio federale, la questione arcobaleno continua a tenere banco in tutto il mondo, specialmente all’interno dell’Unione Europea, e non potrà che venire galvanizzata dal grande ritorno alla Casa Bianca dell’internazionalismo liberale. Perché quell’America Is Back era ed è da leggere anche come un “The Rainbow Diplomacy Is Back“; lo suggeriscono il memorandum di inizio febbraio sull’utilizzo dei corpi diplomatici all’estero per promuovere i diritti gay nel mondo, la promessa elettorale di condizionare l’erogazione degli aiuti allo sviluppo allo status delle comunità omosessuali e la recente nomina di Jessica Stern quale inviata speciale per i diritti umani delle persone lgbti – un posto che l’amministrazione Trump aveva lasciato vacante. Che il mondo si prepari ad un nuovo effetto valanga in materia di legalizzazioni di matrimoni omosessuali (e diritti annessi, in primis l’adozione) e che le forze conservatrici dell’Unione Europea si abituino a piazze in fermento: la diplomazia dell’arcobaleno è tornata.

Lgbt contro il Brasile: squadra omofoba, "nessuno usa il 24 perché associato alla comunità gay". Carlo Nicolato su Libero Quotidiano il 04 luglio 2021. La Confederación Brasileña de Fútbol (CBF), cioè la Federcalcio brasiliana, è accusata di omofobia e dovrà risponderne di fronte a un tribunale, così come prevede la legge brasiliana. Il torto della CBF sarebbe quello di essersi scientemente rifiutata di far indossare ai giocatori della nazionale verdeoro la maglia 24, numero che generalmente in Brasile viene associato spregiativamente all'omosessualità. Secondo la spiegazione più logica l'origine di tale associazione risale al "Jogo do bicho", un gioco d'azzardo molto popolare in Brasile, il quale prevede una tabella numerata e per ogni numero un animale. Al 24 corrisponde il cervo, che da noi potrebbe essere al massimo associato ai cornuti di ogni fede sessuale, mentre in Brasile dicendosi "veado" viene facilmente accostato alla parola "viado", la cui traduzione in italiano è superflua. Un'altra spiegazione è ancora più triviale e si gioca su un'altra assonanza, quella tra "vinte e quatro", cioè ventiquattro, e "vim de quatro", ovvero "vieni a quattro", nel senso di posizione sessuale.

STORIA E CULTURA

Quale che sia la spiegazione poco importa, secondo il Grupo Arco Iris (Arcobaleno), ovvero il gruppo della comunità LGBT brasiliana che ha sporto denuncia, «la possibilità che la numerazione della selezione brasiliana salti il numero 24, considerata la connotazione storica e culturale che circonda questo numero, associandolo agli omosessuali, deve essere intesa come una chiara offesa alla comunità LGBTI+ e come atteggiamento omofobo».

REATO DAL 2019

Val la pena ricordare che in Brasile l'omofobia è reato dal 2019, da quando cioè il Tribunale Superiore Federale con una sentenza molto contestata ha deciso a maggioranza di equipararla, insieme alla transfobia, al razzismo. Chi si macchia di tale reato può essere condannato a una pena fino 3 anni di carcere, che è quanto in teoria rischiano i responsabili della Confederación Brasileña de Fútbol qualora la Corte di giustizia di Rio de Janeiro stabilisca le eventuali condanne. Per il momento il tribunale ha ordinato alla CBF di dare una sua versione dei fatti, cioè di spiegare per quale motivo la nazionale brasiliana risulti essere l'unica partecipante alla Copa America che salta un numero di maglia dal 23 al 25. La versione dell'associazione calcistica dovrebbe arrivare a ore, ma pare ovvio che la motivazione sia che evidentemente nessuno tra i calciatori volesse indossare quella maglia. È anche vero che a molti è sembrata assurda la rigidità perfino antidemocratica con cui il tribunale di Rio ha accolto le richieste della comunità LGTB. Il giudice Ricardo Seifer ha spiegato che il calcio in Brasile è uno sport ancora tradizionalmente maschile e come tale permeato di cultura patriarcale. «Vista la sua popolarità» ha aggiunto, «sarebbe importante che questa cultura venga sostituita da un'altra» e per tale motivo «è importante adottare misure severe nel contesto delle competizioni più importanti».

Emmanuel Macron ne dice una giusta: "I bianchi poveri stanno peggio dei neri". Mauro Zanon su Libero Quotidiano il 02 luglio 2021. A inizio giugno, in occasione di una trasferta nel Lot, nel cuore della provincia francese, Emmanuel Macron, tra una chiacchierata e l'altra con gli abitanti locali, disse che la «cancel culture è un dramma». Nell'ultimo numero dell'edizione parigina del magazine Elle, l'inquilino dell'Eliseo ha ribadito tutto il male che pensa delle nuove ideologie modaiole provenienti da oltreoceano, razzialismo, decolonialismo e indigenismo, alla base della "cancel culture" che una certa gauche vorrebbe diffondere anche in Francia. «Vedo la società razzializzarsi progressivamente», ha detto allarmato il presidente francese, puntando il dito contro «la logica intersezionale che crea fratture ovunque», in ogni ambito.

SFIDA IDEOLOGICA - Secondo la teoria intersezionale, lanciata nel 1989 dalla giurista nera Kimberlé Crenshaw e diventata negli ultimi anni egemonica nei campus liberal americani, le diverse forme di diseguaglianza e di discriminazione si mischiano tra loro. Le donne afroamericane, sostengono gli adepti dell'intersezionalità, sono a prescindere più soggette a discriminazioni rispetto alle donne bianche. E se una donna è afroamericana e trans lo è ancora di più. La sinistra radicale francese, quella di Jean-Luc Mélenchon, leader di France insoumise, ma anche una parte del Partito socialista e dei Verdi, considera il pensiero intersezionale di matrice anglosassone come la nuova bussola intellettuale che dovrebbe orientare il mondo progressista, anche quello francese. Macron, invece, nonostante le pressioni dell'ala sinistra del suo partito, la République en marche (Lrem), non ha alcuna intenzione di cedere alle derive ideologiche americane: perché sono opposte ai valori della République. «Io sto dalla parte dell'universalismo. Non mi riconosco in una battaglia che riduce ogni persona alla propria identità o al proprio particolarismo», ha affermato Macron, rigettando in blocco l'approccio intersezionale, uno dei totem ideologici del movimento Black Lives Matter. Per il capo dello Stato francese, a differenza di quanto pensano gli aficionados dell'ideologia "woke" americana, «le difficoltà sociali non dipendono solamente dal genere e dal colore della pelle, ma anche dalle diseguaglianze sociali». Quando la giornalista di Elle ha citato a Macron la testimonianza della regista e afrofemminista Amandine Gay, secondo cui essere donna e nera «ha delle conseguenze nella vita reale», e in particolare nella ricerca di un lavoro, il presidente francese le ha risposto così: «Potrei presentarle alcuni giovani bianchi che si chiamano Kevin, abitano a Amiens o a Saint-Quentin, e che, per varie ragioni, hanno anch' essi difficoltà a trovare un lavoro». Secondo Macron, «le difficoltà strutturano la vita», ma «non costituiscono ciò che identifica ognuno di noi». Il modello francese, ha insistito l'inquilino dell'Eliseo, è quello universalista, che non ha nulla a che vedere con il razzialismo americano. «Ci eravamo affrancati da questo approccio ed ecco che le persone vengono nuovamente ridotte alla loro razza. Così facendo, vengono ghettizzate», ha spiegato Macron, prima di aggiungere: «Non si nasce cittadini, lo si diventa. Ciò che mi importa maggiormente è la parte che ho in comune con gli altri». 

CULTURA PERICOLOSA - L'ostilità del governo francese verso la "cancel culture" e l'ideologia "woke" era già stata espressa alcune settimane fa dalla ministra per le Pari opportunità, Élisabeth Moreno. Nera e di origini umili - padre muratore e madre che faceva le pulizie, entrambi originari di Capo Verde e analfabeti - la Moreno, in un'intervista a Bloomberg, aveva dichiarato che «la cultura "woke" è molto pericolosa e non bisogna importarla in Francia». Poi, incalzata dall'intervistatrice, aveva aggiunto che «l'universalismo francese è una filosofia che riconosce le persone per come sono, e non perché sono donne, Lgbt+ o di una diversa etnia». Una lezione sui valori repubblicani che anche il ministro dell'Istruzione, Jean-Michel Blanquer, ha impartito di recente ad alcuni deputati della sinistra radicale riuniti all'Assemblea nazionale, quando in riferimento all'incursione dell'ideologia "woke" nelle università ha parlato di «un nuovo maccartismo», di una «polizia del pensiero» che in Francia non è benvenuta. 

Letizia Tortello per “La Stampa” il 4 luglio 2021. Sebben che siano soldatesse, per l'esercito ucraino devono indossare il décolleté. Armi, divisa mimetica, disciplina delle combattenti per salvare la madrepatria minacciata dai separatisti filo-russi. Tutto come gli uomini. Ma mentre i colleghi maschi militari ai piedi indosseranno gli scarponi da battaglia, per le cadette l'ordine è ben differente: tacchi alti, intima il ministero della Difesa. Che ne ha anche fatto un vanto del diverso stile imposto, pubblicando foto sui social delle allieve di un collegio militare, mentre marciano a gamba tesa su calzature certo non adatte al combattimento: «Quelle scarpe fanno parte dell'uniforme regolamentare», afferma il governo. Travolto da una bufera di indignazione e critiche dovunque, dal Parlamento ai social network. L'occasione che impone alle soldatesse ucraine le scarpe alte e scollate è la parata che Kiev sta organizzando per il 24 agosto: una grande manifestazione militare per festeggiare i 30 anni di indipendenza, dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Appuntamento ricorrente, interrotto solo nel 2019 dal presidente Volodymyr Zelensky appena insediato, che decise di risparmiare e spendere una cifra equivalente a 11 milioni di dollari necessari per l'organizzazione dell'evento donando invece bonus ai soldati. Con l'ex leader Poroshenko, fino a tre anni fa, alla parata partecipavano anche rappresentanti di Paesi alleati dell'Ucraina, sfilavano 4500 soldati e 250 mezzi bellici. Tra le armi messe in mostra c'erano i missili anticarro Javelin, forniti al Paese dagli Usa. Quest'anno, invece, l'esibizione dell'orgoglio militare verrà ricordata soprattutto per le polemiche della marcia sui tacchi. «Oggi, per la prima volta, l'addestramento si svolge con queste calzature. È leggermente più difficile rispetto agli scarponi dell'esercito, ma ci stiamo provando», confessa sul sito del ministero la cadetta Ivanna Medvid. Alla Rada, il parlamento di Kiev, i deputati dell'opposizione, vicini a Poroshenko, polemizzano vistosamente: hanno portato al ministro Andriy Taran scarpe da donna, incoraggiandolo a indossarle in occasione della celebrazione. Inna Sovsun, membro del partito Golos, non va per il sottile: «È difficile immaginare un'idea più idiota e dannosa». Secondo la deputata, le soldatesse ucraine - 31.000 arruolate nell'esercito, incluse più di 4.100 donne ufficiali - stanno rischiando la vita come gli uomini e «non meritano di essere mortificate». Olena Kondratyuk, vicepresidente della Rada, vuole un'inchiesta. Online c'è chi parla di «mentalità medievale» che mira solo a solleticare gli alti ufficiali dalle tribune, e chi, come la parlamentare Iryna Gerashchenko, si chiede perché il ministero pensi che i tacchi siano più importanti della progettazione di giubbotti antiproiettile comodi per le donne. Ma le tante prese di posizione contro un'iniziativa considerata discriminatoria potrebbero sortire qualche effetto. Secondo il «Kyiv Post», la deputata del partito di maggioranza «Servo del Popolo» Maryna Bardyna avrebbe fatto intercessione con il ministro Taran, il quale le avrebbe assicurato che il 24 agosto «ci saranno scarpe differenti» da quelle viste nelle immagini delle prove della parata postate su Facebook. Le proteste rischiano di essere un boomerang, in un momento in cui il Paese cerca sempre di più un avvicinamento all'Occidente. Cosa accadrà, lo vedremo. Intanto, a rinfocolare l'orgoglio dell'esercito ucraino è, ancora, la presidente del parlamento Kondratyuk, che snocciola numeri volutamente parziali del conflitto del Donbass: in sette anni, più di 13.500 soldatesse ucraine hanno combattuto contro i separatisti filo-russi nell'Est del Paese. Come dire, l'indipendenza dell'Ucraina dipende egualmente da soldati e soldatesse. Senza differenza discriminatoria di calzature.

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 luglio 2021. Caro Dago, premetto che ai miei occhi tutti gli esseri viventi salvo gli imbecilli sono perfettamente eguali _ bianchi, neri, gialli, uomini, donne, troisième sexe, giovani, anziani, ed è questo il motivo per cui non mi appassiono alle vicende del decreto Zan che vorrebbe punire chi insulta quell’eguaglianza totale e assoluta ma che rischia di ledere in qualche misura i pensieri leggermente diversi dai miei dell’eventuale tizio o dell’eventuale caio. Detto questo ho ovviamente il massimo interesse alle particolarità di genere, al sottolineare che per fortuna ciascuno si porta appresso il suo sesso, la sua nazionalità, la sua lingua, la sua cultura originaria. Non ho ben capito perché in Ucraina in molti abbiano protestato contro il fatto che in un certo corteo ufficiale le soldatesse _ che nella loro sostanza militare non hanno ovviamente nulla di diverso dai soldati _ siano sfilate con delle scarpe femminili e relativi tacchetti anziché con gli stivaloni che fanno parte delle loro divise abituali. Ricordare per una volta, e per una volta sola, la particolarità del femminile mi sembrava assolutamente elegante e pertinente. Non è che per il fatto di indossare quei tacchetti erano meno soldati, è che erano anche donne. Una cosa in più, non una cosa in meno. Diciamo pure che uno vale uno (anche se non è affatto così), epperò è altrettanto vero che nessuno è uguale a nessun altro. Le ragazzine (o le ragazze) ad esempio non sono uguali ai ragazzini (o ai ragazzi). Quel fessacchiotto che non ricordo come e dove ha pronunziato che le ragazzine in shorts autorizzano le cupidigie dei maschi e tutto quel che ne consegue ha detto una boiata nuda e cruda. Resta che le ragazzine (o le ragazze) in shorts vale la pena sempre rimirarle, io lo faccio da quando ero ragazzo: guardare una donna che passa dal basso in alto, a valutarne la femminilità, l’espressività comunicativa. Alcune sono lucenti con addosso quegli shorts, altre un po’ meno, tutte hanno il diritto di indossarli quando e come vogliono. Se Dio le ha fatte così belle, figuriamoci se noi uomini non abbiamo il diritto di guardarle e ammirarle, e naturalmente non una virgola più che questo. Non una virgola, nemmeno un commento ad alta voce e a meno che non sia elegante quanto un verso di Giacomo Leopardi. Quelle ragazze/ragazzine indossassero tutte delle tute il mondo sarebbe più povero da vivere. Io le guardo, ammiro, se del caso cedo il passo. Una volta che la strada in cui stavo camminando s’era fatta stretta stretta e mi stava venendo incontro una gran bella ragazza, io mi sono ritratto vistosamente a cederle il passo. Lei è diventata rossa rossa, felice del silenzioso omaggio che le avevo fatto. Uomini e donne, diversissimi come siamo. Sto leggendo con ritardo l’ultimo libro di Pscal Bruckner, “Un coupable presque parfait” (tradotto in Italia da Guanda), dove lui se la prende con tutte le manifestazioni estreme del “politically correct”, tra le quali spicca una sorta di neo femminismo particolarmente arrogante la cui cialtroneria non ha limiti. Bruckner cita dai libri di una intellettuale francese secondo cui nell’atto sessuale il più normale c’è un fondo di violenza da parte dell’uomo sulla donna, una sorta di occupazione di un territorio altrui e seppure quell’occupazione sia avvenuta con il pieno consenso della donna. Sempre di una violazione si tratta. Nientemeno. Certo che come bestialità, ce ne sono poche di questo livello. Nel leggere queste righe mi sono ricordato di quel che mi accadde una volta che ero a metà strada tra i trenta e i quarant’anni. Una mia amica mi aveva invitato a passare la sera e la notte con lei. Sarà che ero stanco, o nervoso, o che in lei c’era qualcosa che non mi attirava, il fatto è che io non riuscii a “occupare” e dunque a “violare” il suo territorio. Agli uomini succede. Alla mattina lei mi disse di filar via e di non farmi vedere mai più. Mai più. Giampiero Mughini

I dirigenti politici a scuola di parità di genere: debutta “Femministi!” Ilaria Donatio, Giornalista freelance, su Il Riformista il 30 Giugno 2021. Ma davvero alle donne manca qualcosa per avere successo in politica o è, piuttosto, la politica, in particolare i partiti in quanto organizzazioni che selezionano la leadership, che funzionano secondo logiche che allontanano le donne? A questa domanda proverà a rispondere una scuola di formazione politica per la parità di genere rivolta a dirigenti politici uomini che debutta venerdì 2 luglio e prosegue il venerdì successivo, 9 luglio 2021, presso la sede dell’Istituto Luigi Sturzo, vicino al Pantheon a Roma. Dal nome provocatoriamente declinato al maschile, “Femministi! – Laboratorio per un altro genere di politica” è promosso da +Europa, grazie alla quota del 2×1000 che per legge tutti i partiti dovrebbero (il condizionale è d’obbligo!) destinare a iniziative dedicate alla promozione della parità di genere, e partecipato, per ora, anche da PD, Azione, Verdi, Italia Viva, M5S e Lista Sala. Un’iniziativa transpartitica, dunque, che fa seguito alla prima esperienza di formazione realizzata, lo scorso anno, da +Europa – “Prime Donne” – che aveva formato 23 aspiranti leader politiche. “Alla fine dell’esperienza dello scorso anno ci siamo rese conto che non sono le donne ad avere bisogno di una formazione specifica per fare politica” – spiega Costanza Hermanin, fellow dell’Istituto universitario europeo e fondatrice della scuola – “Ci sono prassi escludenti e politiche pubbliche che rendono difficile il raggiungimento della parità, soprattutto in politica. Questi elementi devono essere portati all’attenzione degli uomini politici, perché ne prendano coscienza e affianchino le donne nella battaglia per la parità in politica, su cui l’Italia sconta un ‘gap’ più grande che in qualsiasi altro settore”. La prima edizione di “Femministi!” prevede 15 ore di formazione, con laboratori che spaziano dalla valutazione d’impatto di genere delle politiche pubbliche – una metodologia richiesta dalla stessa Commissione europea per i programmi di spesa del Recovery Fund – all’applicazione della politica delle quote, passando per il “trattamento” che i media riservano alle campagne elettorali delle donne. “Parleremo di stereotipi e pregiudizi di genere che applichiamo inconsciamente e di come la comunicazione tradizionale e sui social media esiga più dalle candidate donne che dagli uomini”, prosegue Hermanin. “Ci occuperemo delle regole elettorali e di partito e di come queste siano costantemente aggirate riproducendo una leadership maschile. Affronteremo le questioni dell’analisi economica e dei bilanci di genere, nonché delle politiche pubbliche, mostrando dati, ricerche ed esempi concreti di come una leadership paritaria porti a risultati politici più efficaci e a politiche più efficienti”. Lo schema del laboratorio non sarà quello classico: la prima delle due giornate si aprirà con una performance di “forum teatro” – un genere di teatro dell’oppresso in cui si mette in scena una situazione che rappresenta una condizione oppressiva – in cui “i performer riprodurranno le dinamiche tipiche della politica attuale per aumentare la consapevolezza nei partecipanti”. A cui sarà richiesto, alla fine, un impegno preciso, volto a riprodurre i modelli condivisi durante il laboratorio, nell’ambito delle rispettive formazioni politiche. “Femministi! Lab” sarà l’evento finale, pubblico e in diretta streaming, che includerà anche le donne “per mettere in scena le dinamiche che vorremmo per un altro genere di politica, a partire proprio da spezzoni di dibattiti parlamentari e conferenze stampa tradizionali”. Il 9 luglio, dopo l’intervento della ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, saranno consegnati 10 riconoscimenti per la parità di genere. Tra i premiati, la direttrice del Giornale Radio Rai e Radio1 Rai Simona Sala, per la promozione della campagna “No Women No Panel – Senza donne non se ne parla”. A seguire, la senatrice Emma Bonino risponderà alle domande del conduttore radiofonico Carlo Pastore.

Il corso per farci diventare femministi convinti. Roberto Vivaldelli il 3 Luglio 2021 su Il Giornale. S'intitola "Femministi!" ed è la scuola di formazione nata "per colmare il divario di genere in politica". Ennesimo tentativo della sinistra italiana di importare l'Identity Politics. Femminismo, minoranze etniche ed Lgbt, politicamente corretto: sono i nuovi mantra ideologici di una sinistra italiana che, a dirla tutta, non è mai stata troppo originale né creativa, e che prende come modello e ispirazione tutto ciò che fa la sinistra liberal Usa. Nello specifico, sta tentando di importare e replicare nel nostro Paese il modello identitario che sta polarizzando il dibattito politico americano: come lo definisce Mark Lilla, si tratta di un credo professato da un'élite urbana, isolata dal resto del Paese, la quale vede i problemi di ogni giorno attraverso la lente dell'identità. Lilla, nel suo saggio di qualche anno fa L'identità non è di sinistra. Oltre l'antipolitica (Marsilio) accusava il "panico morale su razza, genere, identità sessuale che ha distorto il messaggio del liberalismo e impedito che divenisse una forza unificante". Anziché rafforzare il concetto di comunità, infatti, il progressismo identitario divide la società in tribù e minoranze in costante competizione fra loro, senza peraltro apportare alcun vantaggio specifico alle minoranze interessate da questo nuovo catechismo ideologico in salsa politically correct.

Il corso di femminismo di + Europa. È nell'ottica dell'identity politics, dunque, che va visto il corso di femminismo per i politici promosso da +Europa, il partito fondato da Emma Bonino. Seminari di economia o altri temi che potrebbero essere - davvero utili - per i nostri politici? No, +Europa pensa ad indottrinare i politici della sinistra italiana nel nome del femminismo chic. "Femministi! - si legge sul sito web del partito -nasce per colmare il divario di genere in politica. Cerchiamo uomini già impegnati in politica, per superare barriere e stereotipi spesso nascosti. Il laboratorio offrirà, grazie ad un programma innovativo, gli strumenti necessari per navigare attraverso l’arcipelago giuridico, organizzativo e semantico che ruota attorno alla parità di genere". E ancora: "Perché ci focalizziamo proprio sui partiti politici? I partiti, infatti, sono unanimemente identificati dalla letteratura scientifica come i principali canali inibitori della carriera politica di donne, persone Lgbt e minoranze etniche". Il progetto, prosegue la descrizione della scuola di formazione, è stato elaborato sulla base di esperienze dirette all’interno di partiti politici italiani ed europei e un focus group tra dirigenti ed elette di partito, un sondaggio su un campione di 1000 persone, e la conduzione di Prime Donne.

La sinistra italiana inciampa nell'Identity Politics. La prima giornata del seminario si è svolta ieri - 1° luglio - a Roma, mentre la seconda è in programma il 9 luglio, per un totale di cinque sessioni tutte dedicate alla parità di genere. Come riporta La Repubblica, "alla fine dell'esperienza dello scorso anno ci siamo rese conto che non sono le donne ad avere bisogno di una formazione specifica per fare politica- dichiara Costanza Hermanin, fellow dell'Istituto universitario europeo e fondatrice della scuola -. Ci sono prassi escludenti e politiche pubbliche che rendono difficile il raggiungimento della parità, soprattutto in politica. Questi elementi devono essere portati all'attenzione degli uomini politici, perché ne prendano coscienza e affianchino le donne nella battaglia per la parità in politica, su cui l'Italia sconta un 'gap' più grande che in qualsiasi altro settore". Hermanin, che è anche docente di politica e istituzioni europee al Collegio d'Europa di Bruges, ha collaborato anche con l'Open Society Foundations, la rete filantropica fondata da George Soros: questo tanto per far capire qual è l'humus culturale dietro questo tipo di iniziative. L'obiettivo è sempre il medesimo: imporre un'egemonia culturale politicamente correttissima secondo la quale il nemico è la società patriarcale e il maschio bianco - ovviamente eterosessuale - è il diavolo in carne e ossa. Esattamente ciò che sta tentando di fare la sinistra Usa. E la "nostra" sinistra che fa? Copia. La nuova religione della sinistra liberal è, infatti, la politica dell'identità e queste forme di rivendicazioni identitarie che di certo non contribuiscono a risolvere i problemi reali e rimangono sul piano retorico.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali, è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

La scultura in piazza della Malva. A Trastevere rivolta contro il monumento alla porchetta: fa infuriare romani e animalisti. Franco Pasqualetti su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Davvero un’idea poco brillante. In piazza della Malva, nel cuore di Trastevere, una delle più belle e caratteristiche piazzette di Roma, è spuntato il monumento alla porchetta. Una statua in travertino che rappresenta il celebre piatto romano: il maiale porchettato. Ottimo con la ciriola, perfetto per la pizza bianca, ma davvero poco edificante come opera d’arte. Un’opera d’arte culinaria in senso assoluto: di certo nulla di statuario.

TUTTI CONTRO. Un’iniziativa del I Municipio, col patrocinio del Campidoglio e del Mibac, che ha messo tutti d’accordo. Il municipio capitanato da Sabrina Alfondi (Pd) è riuscito nell’impresa di far arrabbiare tutti: i trasteverini, i romani in genere, che sui social hanno sonoramente bocciato la porchetta artistica e persino gli animalisti della Lav che stanno organizzano a mo’ di moti carbonari la rivolta. In effetti vedere la  di testa suina e incisioni sulla pietra a ricordare la cotenna legata e compattata è davvero poco edificante. Già perché i romani, almeno quelli veri (siamo rimasti in pochi…), detestano certe ostentazioni: tipo andare a pranzo e leggere “So’ ignorante” per indicare una fettuccina al sugo.

LE INTENZIONI. «Nelle intenzioni di Sabrina Alfonsi e Giuseppa Urso, rispettivamente presidente e assessora alla Rigenerazione urbana del Municipio Roma 1, la statua dovrebbe celebrare l’antica tradizione romana delle mangiate all’aperto- sottolinea la Lav – Ma così si offende la sensibilità dei 300 mila romani vegani e vegetariani, con un insulto al valore della vita degli animali, al loro sacrificio forzato in nome di una preferenza alimentare solo egoistica». Vegani o no la scultura della porchetta fa veramente schifo e sicuramente va ad alimentare un pregiudizio assurdo sulla cucina romana. Polemiche a parte, certe scelte andrebbero condivise prima di esser messe alla berlina di tutto il mondo. Franco Pasqualetti

Contro la nuova retorica dell’antifascismo bisogna rileggere l’opera di Renzo De Felice. Mario Bozzi Sentieri lunedì 21 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Dopo l’appello-denuncia “Libera parola in libero Stato”, a firma di Luca Ricolfi e Paola Mastrocola, contro il regime dell’artifizio e dell’ipocrisia, voluto dai legislatori del linguaggio “politicamente corretto”, cresce   il disagio del mondo culturale (quello vero) nei confronti della debordante (e volgare) deriva del “nuovo” antifascismo. In un recente articolo, intitolato “L’antifascismo è una cosa seria”, pubblicato sull’inserto ligure de “il Giornale”, Dino Cofrancesco, Professore Emerito dell’Università di Genova, intellettuale di estrazione liberal-socialista,  si è scagliato, senza mezzi termini,   «contro la stomachevole retorica  antifascista che è arrivata persino a proporre Bella ciao come inno nazionale da eseguire subito dopo Fratelli d’Italia» (e senza risparmiarsi la disgustosa ipocrisia che , in tal modo, si sarebbe fatto un passo avanti nell’unione spirituale di tutti gli Italiani). Cofrancesco, mentre  rivendica coloro che hanno segnato la sua vita di studioso e di cittadino  (Guido Calogero, Leo Valiani, Giuseppe Faravelli, Augusto Del Noce), pone l’accento  sulle distinzioni tra  gli “insopportabili settari” della più recente vulgata antifascista e la generazione di intellettuali e di “Maestri antifascisti”, “tanto intransigenti nella difesa della libertà quanto rispettosi dei nemici politici (Valiani, decisivo nell’esecuzione di Mussolini, dedicò le sue memorie, Tutte le  strade conducono a Roma,1947, ai caduti dell’una e dell’altra parte)”. A figura emblematica di questo scontro tra gli “ayatollah dell’antifascismo” e un “revisionismo storiografico serio” lo studioso genovese pone Renzo De Felice, un richiamo che va rimarcato. De Felice ci riporta ad una stagione straordinaria e troppo rapidamente dimenticata della nostra cultura nazionale. Nel 1975, a dieci anni dall’uscita del primo volume della monumentale biografia di Mussolini, la sua Intervista sul fascismo a Michael Ledeen fece scalpore e accese un grande dibattito, nella prospettiva di una comprensione più distaccata del nostro passato.  Al punto che venne perfino difesa da comunisti come Giorgio Amendola, la cui Intervista sull’antifascismo (1976), a cura di Piero Melograni, arrivò a confermare non poche tesi dell’altra. De Felice aprì scenari inusuali sulla distinzione fascismo-regime e fascismo-movimento, in esso individuando motivi di rinnovamento sociale, elementi di idealizzazione e modernizzazione e ben delineando la distinzione tra regimi conservatori ed esperienze propriamente fasciste. Amendola  rilanciò  una lettura problematica del fascismo e dell’antifascismo, entrambi immagini speculari di una complessità, insieme ideologica e politica  (Amendola si interrogò sulle contaminazioni rivoluzionarie del fascismo, rappresentate dall’anarco-sindacalismo, dall’interventismo rivoluzionario, dal corporativismo, dall’avanguardismo giovanile)  non riconosciuta però dalla vulgata antifascista, incapace di fare veramente i conti con la propria storia, “che è – parole di Amendola – storia di un movimento che ebbe, accanto a momenti di alta tensione morale e politica, brusche cadute. Si preferisce ignorare tali limiti e debolezze per mantenere una versione di comodo, retorica e celebrativa, che non risponde alla realtà”. De Felice riconsegnò il fascismo alla Storia dell’Italia, costringendo tutti, a sinistra e a destra, ad uscire dal tunnel delle incomprensioni e della retorica di parte, con un’unica preoccupazione: quella – disse in occasione della contestatissima Intervista, rilasciata a Ledeen – “di capire il fascismo, anche se qualcuno obbietta che così c’è il rischio di capirlo troppo”. Il paradosso è che, rispetto alla metà degli Anni Settanta e alle acquisizioni di scuola defeliciana, si sia purtroppo tornati indietro. Oggi, le “affermazioni apodittiche”, la “demonologia”, le “interpretazioni basate su un classismo rozzo ed elementare” – parole di De Felice – rischiano di farci arretrare sulla strada della verità storica e dell’integrazione nazionale. Il fascismo più che un problema storiografico è diventato il collante almeno per una parte dei vecchi partiti antifascisti ed il solo produttore di identità etico-sociale nella desertificazione dei valori. La Storia, quella vera, sembra interessare a pochi, laddove più facile è lasciare il campo alla retorica di parte.  Con il risultato che ora la vulgata corrente è in mano a mezze figure, più impegnate a lanciare anatemi che a fare una seria ricerca storica. Da Guido Calogero ed Augusto Del Noce … a Michela Murgia, non ci sembra un bell’acquisto per la cultura antifascista...

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 23 agosto 2021. Avevo previsto che all'inizio del campionato di calcio nessun giocatore si sarebbe inginocchiato per rendere omaggio agli afghani schiavizzati dai talebani. Il lettore ricorderà invece che agli Europei vinti dall'Italia, prima dell'inizio di ogni partita schiere di atleti si genuflettevano in segno di protesta contro il razzismo, ciò aveva scatenato qualche polemica aspra. In effetti nel mondo del pallone i neri sono tra i più bravi a tirare pedate, vengono addirittura idolatrati, applauditi in ogni stadio del continente, inclusa l'Italia.

Un esempio. Lukaku, attaccante dell'Inter, artefice dell'ultimo scudetto conquistato dai nerazzurri milanesi, è stato venduto a una squadra inglese e tutti i tifosi si sono stracciati le vesti per il dolore. Stimavano il puntero e non volevano privarsene. Cosicché hanno protestato con veemenza contro la società che per fare denaro ha ceduto il campione amato. Le maggiori equipe di ogni Paese calcisticamente evoluto schierano nelle loro formazioni ragazzi di colore stimatissimi e applauditi dal pubblico. Segno che il razzismo non esiste se non nella testolina bacata dei conformisti che lo sfruttano ai fini di speculazioni politiche di bassa lega. Gli inginocchiamenti cui abbiamo assistito lo scorso mese durante la competizione dominata dagli azzurri sono stati l'emblema di una mentalità che si fonda sul vuoto culturale dominante. E la dimostrazione che l'odio razziale è solo un pretesto evidente per denigrare i cittadini non di sinistra è plateale. I giocatori, che sono abili nel colpire con i piedi la cosiddetta sfera di cuoio, stanno fornendo la prova di avere il cervello di gallina. Infatti si prostrano ai loro colleghi di colore, ma se ne infischiano degli afghani trucidati e dei loro bambini scaraventati sugli aerei in partenza da Kabul nella speranza che possano avere un futuro. Certe scene strazianti non commuovono terzini e centrocampisti a cui non viene in mente di solidarizzare con genitori disperati che sperano, distaccandosene, di salvare i loro figli. Personalmente sono scandalizzato dal comportamento dei nostri giocatori ricchi sfondati, ai quali preme di più ricevere l'applauso degli antirazzisti immaginari che la vita e l'avvenire di tanti bimbi nati in un Paese disgraziato e reso infrequentabile anche col contributo degli occidentali.

Chi si inginocchia per le donne afghane? Serena Pizzi il 21 Agosto 2021 su Il Giornale. Nessuna lezioncina, nessuna tirata d'orecchie, nessuna condanna al fondamentalismo islamico. Dove sono finite le femministe e la sinistra? Il 15 agosto i talebani sono entrati a Kabul. In un attimo, ci siamo trovati di fronte a una drammatica crisi umanitaria, ingestibile con i soliti slogan. Dal 15 agosto, i giornali, i social, le tv stanno informando i cittadini su ciò che sta accadendo in Afghanistan. Fra corridoi umanitari e ritorno alla sharia, il Paese si trova ancora una volta nel caos più totale. Interpreti, collaboratori, giornalisti, civili, qualche migliaio di afghani e militari sono già riusciti ad abbandonare la terra dell'inferno, ma purtroppo sono molti di più quelli che si ritrovano fra le grinfie di invasati islamici. Come è ormai risaputo, a pagare il prezzo più alto di questo cambio di potere sono le donne. "Siamo impegnati a rispettare i diritti delle donne sotto il sistema della sharia", ha detto il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, durante la sua prima conferenza stampa in favor di telecamera. Una conferenza stampa fuffa, volta a ingannare tutto il mondo. Perché le loro intenzioni sono altre (le donne non possono più uscire di casa, andare a scuola, vestirsi all'occidentale etc) e perché il loro volto violento non è mai cambiato (giorno e notte ammazzano civili e funzionari di Stato come fossero mosche). Ma per capire la loro tattica da quattro soldi non ci vuole un genio. Solo sentendo pronunciare "donne", "sharia" e "diritti" nella stessa frase deve suonare più di un campanello d'allarme. Ma questo non è accaduto a Giuseppe Conte che ha creduto ai talebani ben accomodati nel Palazzo presidenziale. Giuseppi, infatti, ha trovato nelle loro parole, nelle fucilazioni, nei rastrellamenti un "atteggiamento abbastanza distensivo" tanto da sentirsi in dovere di intavolare un dialogo con questi soggetti. E se l'ex presidente del Consiglio per un attimo (ha fatto marcia indietro poi) ci ha creduto, i talebani no. Ci spieghiamo. Dopo "l'atteggiamento distensivo" - per non sembrare troppo buoni - hanno voluto precisare: "Sotto il dominio dei talebani, l'Afghanistan non sarà una democrazia ma seguirà la legge della sharia. Non ci sarà affatto un sistema democratico perché non ha alcuna base nel nostro Paese. Non discuteremo quale tipo di sistema politico dovremo applicare in Afghanistan perché è chiaro: è la legge della sharia e basta". Parole inequivocabili e vergognosamente vere. Ecco, tutto questo discorso per dire cosa? Per evidenziare un silenzio assordante. Da parte delle femministe e della sinistra sono arrivati solo pochi messaggi monotoni "aiutiamo le donne afghane", "apriamo a corridoi umanitari, "accogliamole". Messaggi sporadici. Eppure, eravamo convinti che le Boldrini di turno avrebbero iniziato a stracciarsi le vesti per le condizioni disumane nelle quali vengono costrette a vivere le donne. Eravamo convinti che dal 15 agosto in poi avremmo trovato su tutti i social mani scarabocchiate con l'hashtag Afghanistan. Addirittura, eravamo convinti di imbatterci nel Letta-maestrino che ci sgrida perché non ci siamo inginocchiati di fronte a tale tragedia. E invece... niente. Qualche condanna qua e là, qualche tweet di solidarietà, qualché pensierino della sera senza mai pronunciare quella parola: islam. Nessuno è stato in grado di dire che il fondamentalismo islamico sta ammazzando migliaia di persone. Nessuno si è inginocchiato per queste donne che vogliono solo essere libere. Che non vogliono più essere trattate come bestie. Ps: questa sera è ricominciato il campionato di Serie A. Non ho visto fasce con la bandiera dell'Afghanistan, non ho visto calciatori inginocchiati. Ma non ho nemmeno visto lo sdegno della politica per la mancanza di tutto ciò.

Serena Pizzi. Nasco e cresco a Stradella, un piccolo paese che mi ha insegnato a stare al mondo. Milano, invece, mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno più grande: fare la giornalista. Amo conoscere, osservare e domandare. Mi perdo nei dettagli delle cose e delle persone. Del resto sono i dettagli a fare

Così il calcio è diventato il nuovo terreno di scontro del politicamente corretto. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 23 giugno 2021. È quasi pleonastico sottolineare quanto incida il calcio sulla cultura popolare in Europa e quanto lo sport più bello e amato del mondo, seguito da milioni e milioni di persone, faccia discutere l’opinione pubblica: ne è un esempio eclatante il dibattito sorto in Italia fra leader politici dopo che solo metà della nazionale italiana ha deciso di inginocchiarsi per supportare la lotta ideologica di Black Lives Matter prima della partita Italia-Galles. È pertanto facile constatare come il calcio possa diventare un’arma dei leader al fine di supportare le proprie battaglie politico-ideologiche e fare pressione sui politici avversari. A tenere banco in queste ore è, infatti, un’altra crociata ideologica, questa volta contro l’Ungheria di Viktor Orban, nemico giurato dell’élite progressista europea e mondiale per le sue posizioni conservatrici in tema di diritti Lgbt e immigrazione. Come riporta l’agenzia Adnkronos, il premier magiaro ha cancellato il viaggio che doveva portarlo a Monaco di Baviera per la partita degli Europei Ungheria-Germania e ha deciso – nel pieno della polemica sulla legge anti-Lgbt approvata nel suo paese e sul rifiuto Uefa di illuminare nei colori arcobaleno lo stadio in occasione dell’incontro di stasera – di recarsi a Bruxelles. “Che lo stadio di Monaco o un altro in Europa siano o meno illuminati con i colori arcobaleno non è decisione dello Stato”, ha dichiarato Orban alla Dpa, chiedendo ai politici tedeschi di accettare il “no” della Uefa alla richiesta di illuminazione dell’Allianz Arena avanzata dalla Federcalcio tedesca e dalla municipalità di Monaco. Per Orban – riporta la Dpa – ciascuno deve “indiscutibilmente” essere libero di scegliere il suo percorso nella vita ma l’educazione dei bambini deve svolgersi in casa “e noi proteggiamo questo compito dei genitori”. “Nell’Ungheria comunista – ha dichiarato ancora all’agenzia di stampa – gli omosessuali venivano perseguitati. Oggi lo stato non solo garantisce i diritti degli omosessuali ma li protegge attivamente. La libertà dell’individuo è il bene più importante”. Come sottolinea IlGiornale.it, Germania-Ungheria, ultimo match del girone F degli Europei, si giocherà questa sera all’Allianz Arena di Monaco di Baviera ma per l’occasione l’impianto del Bayern non si colorerà di arcobaleno. A prendere questa decisione ci ha pensato direttamente l’Uefa dicendo no alla richiesta del sindaco Dieter Reiter, che avrebbe voluto sostenere il movimento Lgbt. L’Uefa vuole evitare che il mondo del calcio venga strumentalizzato dalla politica ma la classe politica tedesca prende posizione contro l’organizzazione. Heiko Maas si schiera con il sindaco della città bavarese: “È vero, il campo di calcio non ha nulla a che vedere con la politica. Si tratta di persone, di equità, di tolleranza. È per questo che l’Uefa manda un brutto segnale”. Secondo Reiter, la decisione dell’Uefa è “vergognosa” e la città risponderà decorando i suoi palazzi dei colori arcobaleno. All’iniziativa aderiranno peraltro anche altri stadi tedeschi, oltre a quello della Juventus. E dopo il “no della Uefa, oltre al club bianconero, altri club blasonati come il Milan e il Barcellona hanno deciso di colorare il proprio stemma di arcobaleno, pubblicando sui social media. Nel frattempo, la polemica non si placa e la sinistra tedesca protesta: “Vergognatevi!” ha osservato il segretario generale Spd Lars Klingbeil, mentre i verdi di Annalena Baerbock hanno chiesto ai cittadini di esporre le bandiere arcobaleno.”Alcune persone hanno interpretato come una scelta ‘politica’ la decisione della Uefa di rifiutare la richiesta della città di Monaco di Baviera di illuminare lo stadio di Monaco con i colori dell’arcobaleno per una partita di Euro 2020″ precisa la Uefa in una nota. “Al contrario, è stata la richiesta a essere politica poiché legata alla presenza della nazionale ungherese nello stadio per la partita di questa sera con la Germania”. Per la Uefa, “l’arcobaleno non è un simbolo politico, ma un segno del nostro fermo impegno per una società migliore e inclusiva”. Forse proprio per questo, e sotto molte pressioni internazionali il 23 giugno è arrivato una sorta di parziale retromarcia con la decisione di aggiungere i colori arcobaleno al proprio logo.  In un comunicato, la federazione europea ha quindi spiegato di essere “orgogliosa di indossare i colori dell’arcobaleno”. Alla luce del dibattito che ne è scaturito la decisione presa dalla Uefa sull’Allianz Arena appare assolutamente corretta e saggia: piaccia o meno il governo Orban, l’Ungheria è un Paese sovrano e fino a prova contraria democratico, e come tale esiste un principio generale di non ingerenza che va rispettato. Se la Uefa avesse ceduto alle pressioni tedesche, il calcio avrebbe seriamente rischiato di essere travolto dalle strumentalizzazioni della politica o meglio, di una parte che vuole imporre la sua egemonia politico-culturale anche nel mondo dello spettacolo e dello sport. Non esiste un’unica visione del mondo – quella liberal-progressista – e non è detto che tutti i Paesi la debbano sposare o, perlomeno, il calcio ne deve rimanere fuori. Altrimenti, per coerenza, Germania e gli altri stati “progressisti” dovrebbe rinunciare a partire al prossimo mondiale del 2022 in Qatar, sponsor della Fratellanza Musulmana e dell’Islam Politico – non certo un campione di diritti Lgbt. Ma c’è da scommettere che dinanzi a una potenza economica come il Qatar e ai molti interessi in ballo, molti leader che ora si schierano contro Orban se ne staranno zitti, come se nulla fosse.

Giovanni De Luna per “La Stampa” il 21 giugno 2021. Ora sono scese in campo le vittime del «politicamente corretto», quelli che si sentono oppressi da una moltitudine di gay, neri, femministe, immigrati, atleti e arbitri che si inginocchiano, tutti pronti a soffocare chiunque si opponga al loro strapotere. È una rappresentazione della realtà al limite del grottesco che arriva a considerare «eroico» il comportamento di quanti esprimono nel web il proprio odio, con un linguaggio in cui la scurrilità incredibilmente assume i contorni virtuosi della protesta anticonformista e trasgressiva. Gli «odiatori da tastiera», che da carnefici indossano le vesti delle vittime, sono gli ultimi arrivati sul grande palcoscenico della competizione vittimaria e il loro atteggiamento è davvero paradossale se è vero che, dagli ultimi anni del Novecento in poi, una tendenza inarrestabile ha portato progressivamente le democrazie occidentali a confondersi con i sistemi politici autoritari in cui (parlo della Russia di Putin o dell'Ungheria di Orban) i comportamenti ispirati al «politicamente corretto» sono stati spesso duramente repressi, trattati alla stregua delle opposizioni politiche mal tollerate in quei regimi. Donald Trump è stato un campione del «politicamente scorretto». Matteo Salvini, prima della sua svolta collaborazionista, lo è stato qui da noi in maniera eclatante. Ma non si tratta solo di una riedizione postnovecentesca della differenza tra destra e sinistra. Tutti, a qualsiasi schieramento politico appartengano, tendono a rappresentarsi come vittime; a dare forza alle proprie posizioni raccontandosi come una minoranza perseguitata, prigioniera di un senso comune descritto come ostile e pericoloso. È l'approdo ultimo di una competizione vittimaria che ha colonizzato lo spazio pubblico della memoria e della cittadinanza in molti Paesi occidentali, caratterizzata da una fortissima carica rivendicativa e da un'inesausta richiesta di risarcimento e di riparazione. Il conflitto è tra chi riesce a raccontarsi come più vittima delle altre vittime, in una soffocante presenza di emozioni (odio, vendetta, perdono, pietà, compassione) prima confinate nel privato degli interni domestici. Una competizione resa assordante dalla risonanza mediatica attribuita al lutto e al dolore. Per emozionare, commuovere, suscitare consenso, le sofferenze vanno gridate; e più si grida forte, più si sfondano le barriere dell'audience. Quasi che le emozioni siano merci e quasi che sia il mercato a imporre le sue regole, nel controllarne la domanda e l'offerta attraverso la «televisione del dolore» e, in modo ancora più massiccio, attraverso il web. In Italia è così: della mafia, del terrorismo, delle foibe, della Shoah, delle catastrofi naturali, ora del Covid o dei vaccini, vittime sempre e solo vittime, ognuna con la sua «giornata della memoria», i suoi rituali, le sue celebrazioni. Molte delle pulsioni che si agitano nel nostro universo vittimario nascono dai nodi irrisolti di un passato abbastanza recente, dagli anni Settanta delle stragi e dei tanti misteri irrisolti che ancora oggi gravano come una cappa oscura sul funzionamento delle nostre istituzioni. L'assenza di verità e di giustizia su episodi che hanno profondamente influenzato il corso della nostra storia lascia aperte troppe ferite, alimenta una spirale interminabile di rancori, rende impossibile recintare uno spazio comune: uno spazio in cui vittime e carnefici, colpevoli e innocenti possano confrontarsi all'insegna di una certezza e di una verità che non siano solo quelle delle loro storie personali, in cui sia finalmente consentito al passato di passare, in cui sia possibile offrire, a chi lo vuole, un colpevole da perdonare. Le nostre istituzioni non sono state abbastanza «virtuose» per riuscirci. Ed è per questo che, in Italia, la subalternità al mercato e la trasformazione delle emozioni in merci appaiono ancora più clamorosamente evidenti. Nell'assenza di una politica credibile e autorevole, affidata alle regole del mercato e della comunicazione mediatica, la «centralità delle vittime» posta come fondamento di una memoria comune alla fine divide più di quanto unisca. C'è un primo antidoto culturale a questa deriva ed è racchiuso in uno slogan - «più storia meno memoria» - che è anche il tentativo di distanziarsi dalla tempesta sentimentale che imperversa nel nostro spazio pubblico, recuperando un rapporto con il passato più problematico, più critico, più consapevole. Sarebbe bello poter guardare alla storia come all'asse portante di una formazione laica e democratica. Dopo il Covid, la cittadinanza che le istituzioni sono chiamate a rifondare è locale ed europea, nazionale e planetaria: una storia che rispetti le regole del gioco e rifiuti di schiacciarsi sul senso comune delle diverse pulsioni vittimarie è quella che meglio ci aiuterebbe a costruirla. Ma non basta. La conoscenza storica è la classica condizione necessaria ma non sufficiente. Ci vuole qualcosa di più, qualcosa che proponga un insieme di valori e di virtù, e anche di esempi, che possano rappresentare in modo efficace oggi cosa significhi riconoscersi compiutamente in una democrazia come la nostra, rilanciando quella che Piero Calamandrei chiamava «religione civile». Il termine religio definisce la «religione» come qualcosa che lega, che unisce; «civile» suggerisce che nel diventare cives gli individui accettino dei vincoli e si riconoscano in uno Stato legittimato anche da un insieme di narrazioni storiche, figure esemplari, miti, simboli che riescano a radicare le istituzioni non solo nella società ma anche nelle menti e nei cuori dei singoli individui. Si tratta di recintare uno spazio in cui gli interessi che tengono insieme un Paese si trasformano in diritti, in doveri civici, in valori consapevolmente accettati, nel nome dei quali i cittadini italiani sono sollecitati ad abbandonare le loro tradizionali nicchie individualistiche, condividendo un universo di simboli in grado di «legare» il singolo e la società in un rapporto di dipendenza e di identificazione. Ed è esattamente quello che non possiamo chiedere alle vittime, soprattutto se continuiamo a usarle strumentalmente per prevalere nello scontro con chi non la pensa come noi.

Sei azzurri (e tutto il Galles) in ginocchio: ecco perché. Marco Gentile il 20 Giugno 2021 su Il Giornale. Pessina, Bernardeschi, Toloi, Belotti, Emerson Palmieri e Chiesa inginocchiati in onore al Black Lives Matter, Donnarumma, Bonucci, Bastoni, Verratti e Jorginho restano in piedi. Sui social divampa la polemica. Italia-Galles non verrà ricordata solo per la vittoria della nazionale di Roberto Mancini ma anche per la polemica nata ad inizio gara e relativamente ad un tema caldo come quello del razzismo. Poco prima del fischio di inizio dell'arbitro rumeno Hategan, infatti, tutti i giocatori gallesi si sono inginocchiati per mostrare solidarietà e adesione al movimento Black Lives Matter, contro la violenza e ogni forma di discriminazione per il colore della pelle.

Tutti, ma non tutti. Tra le fila dell'Italia in sei si sono inginocchiati mentre in cinque hanno deciso di rimanere in piedi: Rafael Toloi, Ermeson Palmieri, Federico Chiesa, Matteo Pessina (autore del gol), Federico Bernardeschi e Andrea Belotti hanno deciso di inginocchiarsi mentre Gianluigi Donnarumma, Leonardo Bonucci, Alessandro Bastoni, Jorginho e Marco Verratti hanno deciso di restare in piedi e questa cosa ha scatenato un'aspra polemica sui social.

Leonardo Bonucci aveva spiegato così la questione di inginocchiarsi o meno durante la conferenza stampa: "Siamo tutti contro ogni forma di discriminazione e di razzismo, è una libera scelta delle singole federazioni". A onor del vero già contro Turchia e Svizzera nessun calciatore azzurro si era inginocchiato, solo oggi contro il Galles alcuni azzurri hanno deciso di farlo generando appunto una polemica.

Guerra social. Sui social network molti utenti si sono scatenati nei commenti in merito a questo avvenimento "Quelli che si sono inginocchiati sono pecore. Peggio di quelli che facevano il saluto romano al passaggio di Hitler oppure il pugno chiuso a quello di Stalin. Perché qui la vita non la rischia nessuno. Omini", e ancora: "Grande Bonucci, il capitano che non si è inginocchiato". E anche: "Onore a Bastoni, Bonucci, Verratti, Chiesa e Jorginho per non essersi voluti prostrare alla dittatura del pensiero unico e divenire così complici di una pagliacciata che ha completamente travalicato il significato iniziale". "Cinque giocatori non si inginocchiano contro la lotta al razzismo (NON FARLO NON VUOL DIRE ESSERE RAZZISTI) e mezzo Twitter pensa solo a #Bonucci, dimostrando (per l'ennesima volta) una profonda ossessione nei suoi confronti. Paese irrecuperabile", e ancora: "Bastoni, Bonucci, Verratti, Jorginho, Chiesa Semplicemente grazie", tutti a favore dei cinque giocatori azzurri a non essersi inginocchiati e "contro" coloro i quali lo hanno fatto.

Marchisio ci fa la morale: "Meglio tutti in ginocchio..." Marco Gentile il 21 Giugno 2021 su Il Giornale. Marchisio ha bacchettato i cinque giocatori dell'Italia che hanno deciso di non inginocchiarsi durante il match contro il Galles: "C’è libertà di scelta, ma questa è una protesta molto importante..." 17 inginocchiati, 11 gallesi e 6 italiani, e 5 rimasti in piedi: è questo il "resoconto" del prepartita di Italia-Galles con la maggior parte dei calciatori che ha deciso di mostrarsi solidale con il movimento Black Lives Matter e con cinque di loro, tutti azzurri, che hanno invece deciso di restare neutrali. "Siamo tutti contro ogni forma di discriminazione e di razzismo, è una libera scelta delle singole federazioni", queste le parole di Leonardo Bonucci in merito a questo delicato e scottante argomento.

La ricostruzione. Contro Turchia e Svizzera, prima del fischio d'inizio, nessun calciatore italiano si è inginocchiato mentre contro il Galles in sei hanno deciso di emulare i colleghi della squadra avversaria: Emerson Palmieri, Andrea Belotti, Federico Chiesa, Federico Bernardeschi, Rafael Toloi e Matteo Pessina, mentre Gigio Donnarumma, Leonardo Bonucci, Alessandro Bastoni, Jorginho e Marco Verratti sono rimasti in piedi. "Siamo tutti contro ogni forma di discriminazione e di razzismo, è una libera scelta delle singole federazioni", il commento di qualche giorno fa di Leonardo Bonucci in merito a questo tema che come sempre divide le opinioni.

L'appunto. Al termine del match negli studi Rai, Claudio Marchisio, l'opinionista, ex calciatore della Juventus e ora possibile futuro candidato come sindaco di Torino con il Pd ha criticato la scelta dei calciatori azzurri che non si sono inginocchiati: “C’è libertà di scelta, ma questa è una protesta molto importante e avrei preferito che si inginocchiassero tutti gli azzurri“, questo il Marchisio pensiero in merito a questa circostanza che ha spaccato totalmente i social network con commenti a favore e contro. Non è la prima volta che il "Principino", come veniva soprannominato ai tempi della Juventus, si imbatte in discorsi d'attualità, scottanti e molto delicati. In passato, infatti, era stato molto criticato per aver preso una posizione sul tema migranti, ricevendo un mare di critiche, ma anche più recentemente sulla liberazione di Silvia Romano e sul tema coronavirus in Italia per quanto concerne le limitazioni imposte dal governo. Per questa ragione, soprattutto da quando si è esposto politicamente, viene accusato di essere moralista, dopo aver ostentato ricchezza dal suo yacht, e di fare la paternale un po' a tutti in merito a temi scottanti, delicati e soprattutto contro chi non ha il suo stesso pensiero. Da opinionista a bacchettone il passo è davvero breve e anche questa volta il 35enne ex calciatore ha deciso di fare la morale su un tema d'attualità. Di certo a Marchisio non manca il coraggio anche perché nelle scorse settimane aveva espresso il suo pensiero sulla Juventus e sulla diatriba con il Napoli quando fu rinviata la partita per volere dell'Asl di Napoli attirando su di sè un mare di critiche da parte dei tifosi bianconeri delusi dalle sue parole in favore dei partenopei e delle istituzioni e "contro" il suo glorioso passato. 

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016.

Perché nessuno si inginocchia per la morte di #Saman? Serena Pizzi il 21 Giugno 2021 su Il Giornale. Da mesi i vip promuovono il ddl Zan con assurde scritte sulle mani. Ora ci vogliono tutti in ginocchio in nome dell'anti razzismo. Ma nessuno si mobilita per Saman. Per settimane abbiamo assistito a primi piani di mani con scritto ddl Zan. Soggetti sconosciuti, semi-conosciuti, noti, falliti e resuscitati si dilettavano nell'arte di colorarsi i palmi. Ddl Zan. Sei lettere diventate una moda per qualcuno, un disegno di legge per altri, un'imitazione o una battaglia esistenziale per altri ancora. Pochi, effettivamente, conoscono gli articoli che compongono il ddl nato su iniziativa del deputato piddino Alessandro Zan. Pochi sanno quanto il ddl sia scivoloso per la libertà d'espressione, che verrà così legata alla discrezionalità del giudice. Pochi ne hanno realmente capito il senso per rendersi conto della infida strumentalizzazione da parte di una determinata parte della società. Il motivo? In Italia, secondo le disposizioni del codice penale, chiunque commetta violenza ai danni di un'altra persona per motivi abietti è punito con una pena aggravata fino a 1/3 in più della pena prevista. La legge c'è, mancano le aggravanti. Non serve introdurre termini quali identità di genere o sesso biologico o anagrafico. Ai ragazzi non serve sapere che "la Repubblica riconosce il giorno 17 maggio quale Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la biofobia e la trasfobia al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell'inclusione". Fatte queste premesse, viene da pensare che quelle manone sfoggiate con orgoglio non siano una presa di posizione netta contro la violenza che da sempre viene condannata. Piuttosto, quelle manone colorate sono soltanto la moda dell'ultimo momento. Fa figo (ed è inclusivo) scattarsi un selfie con la mano segnata. E così tutti si sono accodati al pensiero unico, a quello che politicamente è più corretto. Ma è così che si lotta per le proprie idee? È così che si pensa di riscattare la comunità Lgbt? Qualcuno pensa di sì. Ecco perché vogliamo rivolgerci proprio a quel "qualcuno" parlando di Saman Abbas. Il corpo della 18enne pachistana, che voleva vivere all'occidentale, non è ancora stato trovato. Sono passati quasi due mesi e di Saman Abbas non c'è traccia. La sua triste storia è partita un po' sottotraccia: sembrava un allontanamento momentaneo di una adolescente in "guerra" con la famiglia. Piano piano le fragili scuse dei genitori hanno iniziato a scricchiolare, finché si è arrivati alla confessione del fratello: "Lo zio l'ha strangolata". Una famiglia di complici che decide di far fuori una ragazzina perché rifiuta un matrimonio combinato perché sarebbe "un disonore, come lo spieghiamo in Pakistan". Perché Saman - nata musulmana - non poteva essere libera di scegliere cosa diventare da grande. Su Saman si è detto e visto di tutto. E ancora una volta, quella determinata parte della società (quel "qualcuno") non riesce ad ammettere che la Abbas è stata ammazzata perché il fondamentalismo islamico porta anche a questo. Abbiamo sentito donne e uomini di sinistra dire che quello di Saman è stato un femminicidio. No, non è stato così. La 18enne non è stata uccisa dal suo compagno o da suo padre. Saman è stata ammazzata da tutta la famiglia. Dall'esecutore materiale alla "mente" dell'omicidio: tutti hanno voluto uccidere Saman. Pure la madre, che pochi giorni prima le aveva mandato un messaggio per chiederle di tornare a casa. Il caso di Saman è solo l'ultimo di una lunga serie (in questi anni - purtroppo - la sinistra avrebbe dovuto scarabocchiarsi il corpo più e più volte. Inginocchiarsi come ha fatto in parlamento per la morte di George Floyd o come hanno fatto alcuni calciatori della Nazionale ieri sera per il movimento Black Lives Matter). Ma perché non è stato fatto? Perché non abbiamo scritto sui nostri palmi "Saman" o "verità per Saman"? Se ragionassimo seguendo il politicamente corretto o le logiche conformiste, avremmo dovuto riempire i social di foto per Saman per sensibilizzare l'opinione pubblica. Perché così non è stato? La sua morte non è una causa abbastanza mediatica da diventare di moda? Forse Saman è un morto scomodo. Ucciso prima dai familiari, poi dall'indifferenza.

Serena Pizzi. Nasco e cresco a Stradella, un piccolo paese che mi ha insegnato a stare al mondo. Milano, invece, mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno più grande: fare la giornalista. Amo conoscere, osservare e domandare. Mi perdo nei dettagli delle cose e delle persone.

Jena per "la Stampa" il 22 giugno 2021 - Sei giocatori su undici non si sono inginocchiati, avevano paura di rompersi il menisco.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 22 giugno 2021. Se fossi un calciatore della Nazionale, domenica probabilmente non mi sarei inginocchiato e ora passerei un sacco di guai. Dico probabilmente perché forse avrei ceduto alla viltà e per risparmiarmeli, i guai, mi sarei inginocchiato come i più. Infatti i nostri rimasti in piedi devono ora rispondere dell'accusa di razzismo perché se ti inginocchi - a mimare l'assassinio di George Floyd - sei buono e antirazzista, ma se non lo fai sei razzista e cattivo. Come tutte le cose che non costano niente, inginocchiarsi non fa danno, specialmente a sé: è una facilissima autodichiarazione di irreprensibilità. Questo umiliante manicheismo di stampo liceale - ma senza lo slancio genuino dei quindicenni - nella vita interconnessa è diventato particolarmente invasivo e ricattatorio, ma è una via di fuga antica. In un suo bel libro (Il desiderio di essere come tutti), Francesco Piccolo raccontava della mania degli appelli: vuoi firmare un appello contro i bambini che muoiono in mare? Vuoi firmare un appello contro la violenza sulle donne? Vuoi firmare un appello contro la guerra e a favore della pace? Ne segue sempre uno scialo d'inchiostro, perché è molto brutto che i bambini muoiano in mare, o le donne siano violentate, o addirittura che la pace non abbia ancora trionfato, e se non firmi è perché sei fascista. Un gesto, una firma, un click, è quanto basta per mettersi a posto la coscienza e schierarsi dalla parte giusta del mondo, e per puntare il dito con l'infallibilità di un mirino sulla parte cattiva. Senza nemmeno doversi alzare dal divano. E questo mi sembra puro fascismo all'italiana.

Da "la Stampa" il 22 giugno 2021. «Lascio a Letta i suoi processi ai giocatori italiani. Il razzismo si sconfigge inginocchiandosi? Otto su 10 dicono di no. Quella è roba da radical chic alla Saviano». Così il leader della Lega, Matteo Salvini, ieri sera su Rete 4, commentando la scelta di alcuni giocatori della Nazionale di non inginocchiarsi per la campagna Black Lives Matter. Poco prima a La7, il leader pd Enrico Letta aveva fatto appello agli Azzurri: «Che si inginocchino tutti, perché francamente l'ho trovata una scena pessima. Se si mettono d'accordo sugli schemi di gioco, si mettano d'accordo anche su quello».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 22 giugno 2021. Mancava che la morale pubblica fosse affidata all'ex calciatore Claudio Marchisio, commentatore di RaiSport e rappresentante di quel banalismo che vorrebbe tutti i calciatori inginocchiati (tutti) a sostegno dello sconcertante scatolone conformista chiamato «Black Lives Matter», movimento «impegnato nella lotta contro il razzismo» al quale se non aderisci - ragionamento medio - al minimo sei razzista: che equivale a dire che se non stravedi per Greta Thunberg sei un inquinatore. Fortuna che Marchisio ha precisato che «c'è libertà di scelta», cioè: non siamo proprio tutti obbligati a inginocchiarci per via dell'ultima moda convenzionale imposta dal cretinismo globale. Ma davvero, sior Marchisio? Però, certo, i calciatori «sarebbe stato meglio vederli tutti inginocchiati»: e per sentenziarlo, per il servizio pubblico, diamo incarico a un ex centrocampista così intelligente da non capire che tutti inginocchiati equivale a nessuno inginocchiato, e che un'adesione civile scimmiesca, e a costo zero, è esattamente come il tifo per la nazionale: balneare, «una parte di casa nostra dove si passa, si pranza e non si paga», per dirla con Mario Sconcerti. Fateci sapere se tra le «libertà di scelta» sia rimasta quella di criticare le derive di «Black Lives Matters» (capace di rendere divisiva anche la causa più scontata) e ci sia ancora la libertà di chiedersi chi cazzo sia Claudio Marchisio.

Da Liberoquotidiano.it il 22 giugno 2021. Scintille a distanza tra Enrico Letta e Matteo Salvini. Il segretario del Pd, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, commenta quanto accaduto prima di Italia-Galles a Euro 2020, con 5 giocatori che si inginocchiano in segno di rispetto per il movimento Black lives matter: mentre i gallesi sono tutti piegati, 6 azzurri restano in piedi. "Inginocchiarsi? No a imposizioni dall'alto, ognuno è libero", ha spento la polemica il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina. "Vorrei fare un appello ai nostri giocatori - ha invece detto Letta dalla Gruber -: che si inginocchino tutti, perché francamente l'ho trovata una scena pessima. Se si mettono d'accordo sugli schemi di gioco, si mettono d'accordo anche su quello, è meglio anche perché i gallesi erano tutti inginocchiati, gli italiani no". Su Twitter, Salvini definisce "penoso" il segretario dem: "Fa il processo ai ragazzi della nostra Nazionale: non è con una inginocchiata che si combatte il razzismo". Lo scontro prosegue quando il leader della Lega va ospite di Nicola Porro a Quarta repubblica, su Rete 4. "Sono contento del parere del Cts" sulle mascherine, sottolinea Salvini, "per rispondere ai soloni come Letta, che ha avuto il pessimo gusto di dire che con Salvini al governo ci sarebbero stati centinaia di migliaia di morti, come in Brasile". Si tratta, prosegue l'ex ministro degli Interni, di "una mancanza di rispetto, è fare una politica brutta, è triste. In altri tempi l'avrei portato in tribunale, è una idiozia dire che con Salvini al governo ci sarebbero stati centinaia di migliaia di italiani morti". Le parole di Letta sono le stesse utilizzate qualche giorno fa dal neo-candidato sindaco di Roma dem Roberto Gualtieri. "Si è visto il deserto di partecipazione alle primarie - conclude Salvini -. Letta è un piccolo uomo. Che dopo un anno e mezzo di morte, di paura, di terrore, di lockdown sia lì a fare il calcolo politico sul sondaggio, sullo zero virgola...".

E l'Italia è pronta a non inginocchiarsi. Mario Tenerani il 25 Giugno 2021 su Il Giornale. Anche gli azzurri non hanno presentato richiesta all'Uefa. E il tempo è scaduto. Firenze La Nazionale che sta incantando l'Europa per la qualità del gioco e la personalità con cui lo propone, in queste ore di avvicinamento agli ottavi di finale a Wembley contro l'Austria, deve fare i conti anche con una decisione di natura etica: gli azzurri si inginocchieranno oppure no prima del fischio di inizio per la campagna contro il razzismo? Un tema che sta movimentando il dibattito generale e che ha scatenato anche polemiche e sottolineature da parte del mondo della politica, a cominciare dal segretario del Pd Letta che aveva parlato di «brutta scena» con il Galles e che «i calciatori italiani nella prossima partita avrebbero dovuto inginocchiarsi». Molto più sensibile, invece, il presidente federale Gravina che parlando di sfera personale di ogni singolo uomo aveva lasciato, come è giusto che sia, il libero arbitrio agli azzurri. In sintonia totale con Gravina anche il presidente dello sport italiano Giovanni Malagò. Ognuno fa quello che sente secondo le proprie sensibilità, altro che diktat politici. Oggi alla vigilia della sfida di Londra parlerà il capitano Bonucci (lui era tra quelli che non si erano inginocchiati) e probabilmente sapremo quale decisione finale avranno preso gli uomini di Mancini. Anche se l'orientamento, almeno contro l'Austria che non si è mai inginocchiata, pare chiaro: gli azzurri sono pronti a restare in piedi. Ne hanno discusso ieri in ritiro a Coverciano e lo rifaranno oggi. Fin qui gli scenari preponderanti erano stati due: inginocchiarsi o no ma sempre tutti insieme. Anche se a ieri sera non erano arrivate richieste al protocollo Uefa da parte della Figc né dai colleghi della federazione austriaca - la squadra infatti che decide di inginocchiarsi lo deve comunicare anticipatamente e i tempi scadevano proprio ieri - e questo lascerebbe intravedere la seconda ipotesi. Tramonta pure la possibilità che si riproduca la situazione prima del Galles quando solo 5 azzurri si sono inginocchiati e un altro a metà - Chiesa infatti aveva dato l'impressione di abbozzare il gesto -. Di sicuro la scelta collettiva in un senso o nell'altro cozzerà con le modalità delle singole prese di posizione, ma andrà a consolidare la filosofia del gruppo azzurro, un mono blocco granitico su qualsiasi terreno. Infine c'è da segnalare che la federcalcio austriaca ha pubblicato un tweet in cui si vede una bandiera arcobaleno affissa ad una tribuna dello stadio con i colori della nazionale: «Il nostro simbolo di solidarietà e diversità: il calcio è per tutti». Ora aspettiamo il campo. Mario Tenerani

Euro 2020, Giorgio Chiellini: "Combatteremo il nazismo", la gaffe dopo il "no" all'inginocchiamento. Libero Quotidiano il 26 giugno 2021. In ginocchio o no? Alla fine la nazionale italiana ha deciso per il no, chiudendo il caso relativo al gesto di sostegno al movimento Black Lives Matter. Alla vigilia dell’ottavo di finale con l’Austria a Euro 2020, Leonardo Bonucci aveva preannunciato una riunione di squadra per decidere il da farsi, dopo che contro il Galles cinque azzurri hanno deciso di aderire alla causa inginocchiandosi. Stavolta contro l’Austria sono rimasti tutti in piedi. Il motivo lo ha spiegato Giorgio Chiellini, capitano tenuto fuori da Roberto Mancini per un piccolo problema fisico: “Non c’è stata nessuna richiesta, quando capiterà e ci sarà la richiesta dell’altra squadra, ci inginocchieremo per sentimento di solidarietà e sensibilità verso l’altra squadra”. Quindi ciò che non è avvenuto a Wembley potrebbe in realtà verificarsi se l’Italia dovesse andare avanti nella competizione (a patto di riceverne richiesta). Poi però capitan Chiellini è incappato in una gaffe piuttosto clamorosa: “Cercheremo sicuramente di combattere il nazismo in altri modi, con iniziative insieme alla federazione nei prossimi mesi”. Ovviamente ha confuso nazismo con razzismo, ma la gaffe è perdonabile considerando che il difensore ha parlato pochi minuti del calcio d’inizio. Probabilmente la tensione, mista al peso politico che il caso ha avuto in Italia, ha giocato un brutto scherzo. 

Un calcio ai buonisti: gli Azzurri non si inginocchiano. Marco Gentile il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. "Non c’è stata nessuna richiesta e non ci inginocchieremo", questo il pensiero di Chiellini prima di Italia-Austria. Né gli azzurri, né gli austriaci si sono inginocchiati al fischio d'inizio. Alla fine nessuno si è inginocchiato a Wembley. I giocatori di Austria e Italia, prima del fischio d'inizio del match valido per gli ottavi di finale degli ottavi di finale, non si sono inginocchiati in sostegno a Black Lives Matter, il movimento attivista nato negli Stati Uniti e impegnato nella lotta contro il razzismo. Alla Uefa non sono arrivate richieste in tal senso né dalla Figc né dalla Federcalcio austriaca e i 22 giocatori in campo non si sono inginocchiati. Giorgio Chiellini non ci sarà questa sera, fisicamente, contro l'Austria negli ottavi di finale degli Europei ma il capitano si farà sentire da bordo campo con il suo carisma e la sua personalità. Il giocatore della Juventus un'ora prima del fischio d'inizio ai microfoni di Rai Sport ha voluto dire la sua sul fatto di inginocchiarsi o meno prima della partita in onore al movimento del Black Lives Matter: "Non c’è stata nessuna richiesta, quando capiterà e ci sarà la richiesta dell’altra squadra, ci inginocchieremo per sentimento di solidarietà e sensibilità verso l’altra squadra. Ma cercheremo sicuramente di combattere il razzismo in altro modo, con delle iniziative insieme alla Federazione nei prossimi mesi". Le sue parole hanno fatto il palio con quelle pronunciate ieri in conferenza stampa da Leonardo Bonucci, capitano di serata contro l'Austria.

Lo schiaffo e Letta e Boldrini. "Vorrei fare un appello ai nostri giocatori: che si inginocchino tutti, perché francamente l'ho trovata una scena pessima. Se si mettono d'accordo sugli schemi di gioco" - ha detto qualche giorno fa Enrico Letta ai microfoni di Otto e mezzo su La7. "Si mettono d'accordo anche su quello, è meglio anche perché i gallesi erano tutti inginocchiati, gli italiani no". Letta aveva poi rincarato la dose ai microfoni di Radio anch'io su Rai Radio1 ammettendo di aver provato fastidio vedendo tutti i giocatori del Gallles in ginocchio e solo la metà degli azzurri inginocchiati: "Non sono mai sufficienti i gesti e non c'è destra o sinistra, tutti siamo antirazzisti". A distanza di giorni, però, l'appello del segretario del Pd non è stato accolto dai giocatori azzurri che non si inginocchieranno contro l'Austria. Anche Laura Boldrini nei giorni scorsi aveva richiesto ai calciatori dell'Italia di inginocchiarsi in segno di solidarietà al Black Lives Matter: "I gesti simbolici sono importanti per affermare i valori. Per questo alcuni di noi decisero, in Parlamento, di inginocchiarsi per il Black Lives Matters. Per questo è giusto farlo anche sui campi di calcio. Tiferò gli Azzurri. Però dispiace per la loro scelta di non scegliere" tù, il suo tweet. Anche lei però rimarrà delusa questa sera dato che gli azzurri non si inginocchieranno.

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in

Euro 2020, il diktat di Laura Boldrini agli azzurri di Roberto Mancini: "Inginocchiatevi". Libero Quotidiano il 26 giugno 2021. Laura Boldrini, deputata del Pd, è di nuovo paladina del politicamente corretto. Ha infatti bacchettato i giocatori della Nazionale italiana che, in occasione della sfida di questa sera sabato 26 giugno contro l'Austria, potrebbero non inginocchiarsi. L'ex presidente della Camera sul proprio profilo Twitter ha voluto rimarcare la propria posizione: "I gesti simbolici sono importanti per affermare i valori. Per questo alcuni di noi decisero, in Parlamento, di inginocchiarsi per il Black Lives Matters". Ecco perché gli Azzurri sono stati bacchettati in vista del match degli Europei: "Per questo è giusto farlo anche sui campi di calcio. Tiferò gli Azzurri. Però dispiace per la loro scelta di non scegliere", ha twittato. Insomma, l'ordine della Boldrini agli azzurri di Roberto Mancini è chiaro: "Inginocchiatevi". Da parte dei calciatori però non è ancora arrivata una decisione ufficiale. Il capitano azzurro Leonardo Bonucci, intervenuto in conferenza stampa alla vigilia della partita valida per gli ottavi di finale contro l'Austria, non ha infatti comunicato una scelta definitiva. "Quando torniamo in hotel faremo una riunione. Lì decideremo tutti insieme come comportarci, come sarebbe dovuto accadere anche prima del match col Galles, e se fare eventualmente una richiesta alla nostra federazione in merito", ha spiegato. In precedenza, il "refrendum" in spogliatoio aveva visto passare la linea del "no" all'inginocchiamento. La polemica era nata proprio per questo, perché ieri era trapelata l'indiscrezione sul "no" dei giocatori all'ipotesi di inginocchiarsi in segno di solidarietà al movimento Black Lives Matters. Tuttavia. Ma sempre nella tarda serata di ieri sarebbe emerso l'orientamento del gruppo: i giocatori della Nazionale italiana sarebbero pronti a inginocchiarsi. All'Uefa però fino a due giorni fa non era stata presentata la richiesta per ottenere il via libera alla breve cerimonia anti-razzista prima del fischio d'inizio. La federazione è ancora in tempo per "riaprire" la procedura? Non è ancora chiaro. Infine la Boldrini ha chiesto di ricorrere all'utilizzo dei colori arcobaleno per sostenere la causa Lgbt, e ha chiesto di illuminare Montecitorio con quei colori. "Perché un segnale bisogna darlo. Sono gli stessi colori che campeggiano ora anche davanti al Parlamento Ue e che vorrei campeggiassero anche davanti a Montecitorio".

Adesso pure Saviano vuole che ci inginocchiamo. Antonio Ferrantino il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. Roberto Saviano ha deciso di prendere parola e di commentare il gesto simbolico contro la lotta al razzismo. E alla fine arriva Saviano il "moralista". Lo scrittore su Twitter ha voluto commentare il gesto della nostra Nazionale, quello avvenuto contro il Galles dove 5 azzurri hanno deciso di inginocchiarsi mentre altri 6 hanno ritenuto di non doverlo fare. Da quel momento, prima che prendesse parola il suddetto, non si è parlato d'altro e addirittura alcuni hanno provato a far passare quasi per razzisti coloro che non hanno seguito il gesto dei cinque. Ma è inginocchiandosi che si combatte il razzismo? Il "dibattito è per certi versi infame - scrive il "moralista" -. Si inginocchia chi vuole rendere rispetto a chi è vittima, segnare simbolicamente il proprio impegno perché le cose cambino. Quand'è che esattamente ha iniziato a farci schifo il buon esempio?". Roberto Saviano dopo essersi dilettato nella scrittura ha poi deciso di dar voce alle sue parole postando su Twitter un video a corredo del lungo messaggio. L'argomento e la morale è sempre la stessa. "Quel gesto così simbolico è un gesto pieno di rispetto e umanità. Si può prescindere dal rispetto e dall'empatia umana?". Dopo le considerazioni personali ha deciso di riesumare l'uomo simbolo contro la lotta al razzismo, assassinato il 4 aprile del 1968 a Memphis. "Quando ci inginocchiamo, ci ispiriamo a un gesto, quello che Marthin Luther King fece a Selma. Furono arrestati centinaia di attivisti perché chiedevano il diritto di voto per gli afroamericani. Luther King si inginocchiò per rispettare la sofferenza di chi sta subendo un'ingiustizia". Dopo Martin Luther King Saviano cita pure il Vangelo, affermando che il gesto simbolico contro la lotta al razzismo "si rifà ad un passo del Vangelo, quando Cristo si inginocchia per pulire e lavare i piedi degli apostoli". Antonio Ferrantino

La giornalista radical chic contro gli azzurri che non si inginocchiano: scimmie con un pubblico di scimmie. Francesco Severini sabato 26 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Processo social agli azzurri che non si inginocchieranno in campo. Una retorica a metà tra arroganza e piagnisteo cui si è subito accodato anche il capo del Pd Enrico Letta. Del resto c’è tutta una frangia di pensatori, opinion maker, giornalisti che ce l’ha con la Nazionale quando gioca e appassiona gli italiani.

Il tifo anti-italiano dei radical chic. In loro si insinua subito il dubbio che se ne possano avvantaggiare i nazionalisti, i sovranisti, Mario Draghi, il governo purtroppo non più guidato da Conte e in definitiva tutti quelli che considerano i nemici del Tribunale del Bene. Il Fatto di Marco Travaglio non ha forse scritto, qualche giorno fa, che sarebbe meglio se l’Italia non vincesse gli Europei per non dare la possibilità al governo Draghi di appropriarsi di una vittoria simbolica?

Antonella Rampino, la giornalista “anti”. Alla genìa sopra descritta appartiene a pieno titolo anche Antonella Rampino, ex inviata de La Stampa molto attiva sui social e un tempo anche in tv quando bisognava chiamare le truppe più agguerrite dell’antiberlusconismo. Di lei si ricorda un siparietto con Guido Crosetto. Rampino accusava il Pdl di candidare le spogliarelliste e Crosetto, a microfoni spenti, le diceva la battuta: “A te non ti spoglierebbe nessuno”. Immaginatevi le lagnanze, senza che si potesse poi stabilire chi aveva insultato chi. La Rampino contro le elette Pdl (a microfoni aperti) o Crosetto che replicava alla Rampino (a microfoni chiusi)?

Rampino come le bimbe di Conte. Rampino è, come le “bimbe di Conte”, una tifosa accanita dell’ex premier. Ma è soprattutto una “anti”. Antifascista, anti-Salvini, anti-Meloni, anti-Berlusconi, anti-Renzi. Contro il leader di Italia Viva ha sparato a zero accusandolo persino di sessismo. Ora Antonella Rampino è tutta infervorata per la questione di trasformare gli stadi in inginocchiatoi. Un po’ arcobaleno, alla bisogna, un po’ antirazzisti.  Con lei si spendono altri supporter del ginocchio piegato, da Riotta a Montanari, passando per l’immancabile Paolo Berizzi che paragona l’inginocchiarsi in chiesa con la genuflessione per George Floyd e il Black Lives Matter . Tutti quelli della scampagnata con le magliette rosse per dimostrare che loro erano più umani.

L’insulto agli azzurri e ai tifosi: scimmie. Solo che la Rampino non ama essere contraddetta. E insulta. Così prima parte dicendo che se la Nazionale non si mette in ginocchio è una vergogna. “Mica sono intellettuali, sono calciatori”, interloquisce un utente. E la Rampino la tocca piano: “Giusto. Meglio che si comportino da scimmie, considerando di aver un pubblico di scimmie!”. Una vera maestra di tolleranza, umanità, rispetto.

Euro 2020, Vittorio Feltri contro la sinistra: "Giocatori inginocchiati? Giù le mani dal calcio". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 26 giugno 2021. In questi giorni è scoppiata la polemica più vacua che si possa immaginare. Quotidiani e notiziari televisivi sono stati costretti ad occuparsene. Mi riferisco al fatto che prima della partita del campionato europeo di football fra il Galles e l'Italia si è assistito a una pantomima curiosa e abbastanza ridicola. I giocatori nordici prima del fischio di inizio si sono inginocchiati sul campo in segno di solidarietà al movimento Black Lives Matter, che si batte contro il razzismo, benché questo non ci sia in Europa come si evince dalla circostanza che la maggior parte delle compagini calcistiche sia imbottita di formidabili atleti di pelle nera, tutti applauditi, idolatrati, ammirati ed esaltati. Due casi esemplari nel nostro Paese: il belga Lukaku dell'Inter vincitrice dello scudetto è considerato a Milano, dal popolo nerazzurro, una divinità da portare in trionfo per via dei grappoli di gol che abitualmente segna con facilità irrisoria. Il dettaglio che sia scuro come la pece non importa un accidente a nessuno. Anzi, lo rende simpatico. Nell'Atalanta il centravanti si chiama Zapata, un volto che sembra di carbone, una punta di rara bravura e di alto rendimento che infiamma i bergamaschi letteralmente innamorati del campione. Ci sarebbe un altro calciatore nero, giocava anni fa nel Milan, Weah, il quale faceva impazzire i tifosi per la sua potenza unita a raffinata tecnica. Una figura emblematica di antirazzismo, dato che le folle lo consideravano un mito. Posto che qualunque studioso di antropologia afferma che le razze non esistono nell'umanità, di conseguenza il razzismo può solo fiorire nella testa di alcuni citrulli. E fare la guerra a un sentimento che non c'è è un esercizio di una totale stupidità, ispirato alle mode culturali diffuse dalla sinistra politica in mancanza di idee sensate da divulgare. Ciò detto, torniamo alla sceneggiata dell'inginocchiamento di tipo parrocchiale su cui è in corso un dibattito idiota. Anche cinque azzurri prima dell'incontro coni gallesi si sono piegati religiosamente sulle rotule, imitando presumo per conformismo gli avversari tutti giù per terra a implorare il perdono dei neri. Uno spettacolo comico non meritevole di sollevare del chiasso. Ora la discussione si è ulteriormente incendiata. Infatti stasera i nostri eroi affrontano a Londra gli austriaci quindi oltre all'attesa per l'esito della gara, c'è pure quella che riguarda l'inginocchiamento. Pare che stavolta gli azzurri rimarranno al completo in posizione eretta. Però vedremo. Se alcuni di essi si piegheranno le gambe non ci scandalizzeremo comunque. Ciascuno è libero di commettere perfino stupidaggini e di non essere criticato più di tanto.

Enrico Currò per repubblica.it il 28 giugno 2021. Gli azzurri si inginocchieranno venerdì, sul prato dell'Allianz Arena di Monaco di Baviera, prima di Italia-Belgio. L'indicazione filtra da Coverciano e fa seguito alle parole del capitano Chiellini nei minuti precedenti la partita di Londra con l'Austria, quando il veterano della squadra disse che il gesto sarebbe stato automatico, se gli avversari lo avessero fatto, in segno di solidarietà con loro. La Figc ribadisce ufficialmente che non si tratta comunque di un'adesione alla campagna Black Lives Matter contro il razzismo: sul tema la federazione ha lasciato libertà di scelta alla Nazionale e la scelta dei giocatori è stata appunto illustrata dal capitano prima dell'Austria: "La squadra si inginocchierà per solidarietà con gli avversari, non per la campagna in sé, che non condividiamo. I giocatori austriaci non si sono inginocchiati e i nostri sono rimasti in piedi. Se quelli del Belgio lo faranno, anche i nostri saranno solidali con loro". A Monaco, dunque, non sembrano esserci dubbi, perché Lukaku e i suoi compagni hanno aderito alla campagna. La scena prima del fischio di inizio sarà la stessa di Belgio-Portogallo, con i ventidue in ginocchio contro il razzismo. Che dopo l'Europeo, precisa ancora la Figc, "sarà al centro di iniziative apposite, messe in atto dalla Federcalcio".

Gli Azzurri già ci ripensano: in ginocchio col Belgio. Marco Gentile il 28 Giugno 2021 su Il Giornale. L'Italia di Mancini pare si inginocchierà contro il Belgio nei quarti di finale di Euro 2020. Questa scelta "fa a pugni" con quanto andato in scena nelle uscite precedenti. L'Italia di Roberto Mancini se la vedrà nei quarti di finale di Euro 2020 contro il Belgio di Roberto Martinez e la sfida si disputerà all'Allianz Arena di Monaco di Baviera e fin qui niente di strano. Secondo alcune indiscrezioni che trapelano da Coverciano e riportate da La Repubblica, però, gli azzurri sono pronti ad inginocchiarsi in favore del movimento Black Lives Matter sconfessando di fatto quanto fatto negli ottavi di finale contro l'Austria quando si era deciso di non inginocchiarsi non piegandosi così ai buonisti. Giorgio Chiellini era stato chiaro, con tanto di clamoroso lapsus, nei minuti precedenti alla partita contro l'Austria: "Non c’è stata nessuna richiesta, quando capiterà e ci sarà la richiesta dell’altra squadra, ci inginocchieremo per sentimento di solidarietà e sensibilità verso l’altra squadra. Ma cercheremo sicuramente di combattere il razzismo in altro modo, con delle iniziative insieme alla Federazione nei prossimi mesi".

Il Belgio in ginocchio. La nazionale belga si è inginocchiata ieri sera prima del fischio d'inizio contro il Portogallo e sicuramente ripeterà il gesto contro l'Italia nei quarti di finale e questo è segno di coerenza dato che l'ha sempre fatto dall'inizio della manifestazione. L'Italia, invece, non si è inginocchiata contro Turchia, Svizzera e Austria, l'ha fatto parzialmente contro il Galles e ora lo farà contro i Diavoli Rossi ma solo per dar seguito al gesto degli avversari. Secondo quanto riportato da La Repubblica, la Figc ci tiene a ribadire come questo non sia ufficialmente un'adesione alla campagna Black Lives Matter contro il razzismo:"Come ha spiegato Chiellini, la squadra si inginocchierà per solidarietà con gli avversari, non per la campagna in sé, che non condividiamo. I giocatori austriaci non si sono inginocchiati e i nostri sono rimasti in piedi. Se quelli del Belgio lo faranno, anche i nostri saranno solidali con loro".

Pressing da sinistra. Nei giorni scorsi il segretario del Pd Enrico Letta e Laura Boldrini avevano chiesto all'Italia di inginocchiarsi in segno di solidarietà verso un tema sensibile ed importante come il razzismo con la nazionale che pare aver colto il messaggio che seguirà dunque i diktat buonisti e di fatto quanto deciso dal Belgio che in maniera coerente con il suo pensiero l'ha sempre fatto dall'inizio dell'Europeo. Mancano solo 4 giorni alla partita ma il clima è già incandescente sull'Allianz Arena e non di cerrto per motivi calcistici.

Le parole di Salvini. Ospite di Rtl, il leader della Lega Matteo Salvini ha commentato così la volontà degli azzurri di inginocchiarsi contro il Belgio: "Non faccio pronostici sulla Nazionale perché non voglio portare sfortuna. Ieri non ho visto un Belgio fortissimo e spero di vedere tanti azzurri inginocchiati non prima della partita ma durante, come Chiesa dopo il gol".

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016.

Tony Damascelli per “Il Giornale” l'1 luglio 2021. L'aviere capo dell'aeronautica militare italiana, Andrew Howe Curtis, vola altissimo e salta in lungo da campione vero. L'ultimo stacco in avanti lo ha offerto dialogando con Emanuela Valente su Radio Cusano Campus, così sbrigando il tormentone dell'inginocchiamento a giorni alterni degli azzurri: «Secondo me i giocatori non si dovrebbero inginocchiare nella partita di domani, perché Black Lives Matter è una situazione molto americana. Ci sono situazioni anche qui in Italia ma quella è un'altra realtà, un altro mondo, lì un poliziotto ha ammazzato un uomo di colore, qui un poliziotto non ha quasi la libertà di agire, se fa male a un gatto lo mettono in galera. Io non ho mai subìto episodi di razzismo, forse qualcosa quando giocavo a calcio da piccolo, ma era più una questione di ignoranza, gente che mi insultava magari per provocarmi. Sicuramente è pieno di razzisti, ci sono molte persone che discriminano per ignoranza. Se poi ci dobbiamo inginocchiare nei confronti del razzismo nel mondo, quello è un altro discorso. Se dobbiamo inginocchiarci per un movimento specificatamente americano mi sembra una forzatura sotto tutti i punti di vista. Se mi trovassi in America lo farei ma sono italiano. Non possiamo inginocchiarci soltanto per essere politicamente corretti». Per chi non conoscesse Howe ricordo che il ragazzo è di colore, è californiano di Los Angeles, italiano agli effetti, immigrato all'età di cinque anni con la madre Renée Felton che aveva sposato in secondo nozze Ugo Besozzi di Castelbesozzo. Andrew fu detto «il Besozzi» da Carl Lewis ma per la gente di Rieti è Howe, di pelle nera e di cervello lucidissimo. Prevedo repliche stizzite contro questo Besozzi bianco. Perché lui non ha compreso il valore del ginocchio, non quello della lavandaia, ma il simbolo di denuncia che, invece è entrato appieno nel corpo e nella mente dei Lettiani and Savianisti, depositari in esclusiva del pensiero sano e giusto. Chi non si allinea e non protesta, genuflettendosi, è un pirla o qualcosa del genere ancora peggiore. Andrew Howe ha commesso l'errore di non indossare l'abito ben stirato delle persone, come quelle di cui sopra, fonti della verità e della giustizia. Va da sé che scattano in automatico, nei suoi confronti, la critica e la derisione. Questo è il vero razzismo. Delle opinioni.

Da lastampa.it l'1 luglio 2021. L'Associazione Italiana Calciatori «stigmatizza senza alcuna riserva la campagna diffamatoria e strumentale svolta nei confronti dei giocatori della Nazionale italiana. Tutti gli azzurri sono nostri iscritti; alcuni di essi sono membri nel nostro Consiglio Direttivo e parte attiva della vita e delle scelte associative. Tutti hanno prestato il loro volto e la loro immagine, rendendosi diretti protagonisti nelle numerose iniziative contro ogni forma di razzismo e discriminazione che da anni stiamo portando avanti insieme a decine di organizzazioni e associazioni impegnate sul tema». Lo afferma in una nota l'Aic, l'associazione italiana calciatori, riferendosi alle polemiche sorte al gesto dell'inginocchiamento in sostegno al movimento Black Lives Matter. «La nostra Associazione e gli associati - aggiunge Aic - sono da sempre attenti al tema della discriminazione tanto che, solamente tre mesi fa, é stato modificato il nostro statuto che ora recita testualmente, all'articolo 3, “L'AIC é un'associazione di diritto privato, apolitica e apartitica che si ispira ai principi dell'art. 3 della Costituzione Italiana contro ogni forma di discriminazione”». L'Assocalciatori ha aderito all'Osservatorio contro il razzismo nello Sport di Unar per rendere ancora più forte l'azione tesa al raggiungimento dei propri principi statutari. «Rifiutiamo da sempre e rifiuteremo per sempre - aggiunge l'associazione - ogni forma di discriminazione, certi e fieri che i nostri associati e le nostre associate sono e saranno esempio di integrazione e inclusione. Crediamo però che la lotta al razzismo non possa diventare oggetto di una contesa politica né di strumentalizzazioni come quelle che hanno seguito la partita Italia-Galles». «La Nazionale italiana deve unire e non dividere - dichiara Umberto Calcagno, Presidente dell'Associazione Italiana Calciatori – . Ora gli azzurri devono poter preparare in tranquillità la difficile sfida che ci attende domani, lontani da polemiche e da assurde accuse. Quando si tratterà di lottare contro ogni forma di razzismo e discriminazione, come sempre noi ci saremo, perché si possono fare molti gesti, non solo uno, per testimoniare questo impegno», conclude Calcagno.

La Nazionale e le violenze di Santa Maria Capua Vetere. Video dei pestaggi in carcere, i galeotti genuflessi siano una lezione per gli azzurri di Mancini. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 2 Luglio 2021. Le “flessioni”, per i carcerati non sono azioni di reperimento della forma fisica: il corpo eretto si flette, scende, si piega sopra le ginocchia, espone e apre gli orifizi più reconditi, svela segreti ai poliziotti penitenziari. “Piegati” è uno degli ordini più utilizzati in carcere, qualche volta porta alla luce un oggetto vietato; il più delle volte non porta a nulla. È un’ispezione corporale che qualche volta è necessaria, il più delle volte di routine, discrezionale. Un’invasione massiva dell’intimo, per detenuti e detenute. Esistono ormai strumenti elettronici in grado di evitare l’atto, o di posticiparlo a sospetti gravi. I detenuti, nella pratica lo vivono come atto di genuflessione. Il maestro Riccardo Muti dice, a ottant’anni, che vorrebbe lasciarsi morire: non si riconosce nel Paese, non ha punti di riferimento; elenca, in un’intervista ad Aldo Cazzullo, una serie di racconti che dovrebbero rafforzare il suo desiderio: la serietà dei maestri, dei padri, degli esempi, di un tempo che non c’è più. Una narrazione in cui si riconosceranno i più della sua generazione. Una storia che si ripete di generazione in generazione, quando il tramonto si annuncia: è lontano il tempo dei nemici da abbattere e incombono i mondi da difendere. Banalmente si potrebbe chiamare conservazione. Ma Muti è un idolo che sorge da uno spartito, si alza per chilometri sopra il resto dell’umanità, non è uno banale: descrive un posto alla deriva, deludente. L’impero della mediocrità. Il decadimento, in ogni senso e in ogni campo. Indiscutibile. Il fatto è, che quando hai avuto così tanto talento, quando comunque il Posto in cui vivi ha permesso che si esprimesse, hai il diritto di fare le tue valutazioni, e pure la facoltà di essere tu punto di riferimento; perché quelli che al tempo sono stati esempi tuoi, un po’, quella responsabilità se la sono assunta. E allora, anziché lasciarsi morire, si potrebbe essere il motivo ché altri non muoiano, abbiano un punto di riferimento durante la deriva. Quando molte delle istituzioni sociali vanno a zonzo, è necessario che altre aiutino a trovare la via, e non c’è una che sia meno importante di un’altra, quando l’importanza derivi dall’autorevolezza. La filosofia, la poesia, il cinema, la letteratura, il lavoro, la musica: possono stare sopra la politica nella misura in cui sappiano farsi ascoltare, lavorino per il miglioramento della società. Ogni campo può essere un campo giusto. L’importante è che arrivi la salvezza, non la direzione da cui provenga. In Italia lo sport è una delle istituzioni più importanti. Il calcio in particolare. La Nazionale. Non è un gioco, soltanto: è qualcosa in grado di scuotere più di altro il pozzo profondo della cultura del Paese. Per questo, per quanto ripetitivo, banalizzato, abusato, il gesto dell’inginocchiamento non è un’azione superficiale. E sta nel genio dei campioni sottrarsi al conformismo inventandosi un tocco inaspettato. Le vite dei neri valgono, le vite dei bianchi valgono. Tutte le vite valgono. Valgono pure le vite dei carcerati, quelle che sembra siano state violentate a Santa Maria Capua Vetere, quelle che potrebbero essere violentate ogni giorno, in qualunque altro carcere. È conformismo pure sottrarre il calcio all’importanza che riveste, tenerlo nell’ambito di un gioco. E non è così. La Nazionale italiana è, in questi campionati europei, soprattutto l’abbraccio fra Mancini e Vialli: che è molto molto di più che la vittoria di una coppa. E l’Italia, in questi giorni, lo stato della sua deriva, è tutta nelle immagini che gli italiani stanno vedendo sul carcere casertano. Sulla genuflessione dei detenuti.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Lo scudetto sulla maglia azzurra inventato da d'Annunzio e l'intollerabile abuso dell'Italia in ginocchio...Andrea Cionci Libero Quotidiano il 02 luglio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

In effetti siamo un po’ in ritardo, ma forse qualche “anima bella” politicamente corretta potrà ancora convincere, all’ultimo, la nostra Nazionale di calcio a cambiare la maglia. Ci sovviene, infatti, che lo scudetto tricolore sulla maglia azzurra fu inventato nientemeno, fra teschi, pugnali e gagliardetti neri, da d’Annunzio, durante l’epopea fiumana. Individualista per natura, il poeta abruzzese non amava troppo gli sport di squadra, ma, sempre attento alle novità, nel 1887, sulle spiagge di Francavilla (CH) giocava le sue prime partite. Il gioco del pallone stava prendendo piede in tutto il mondo, dall’Inghilterra, e il suo amico compositore Francesco Paolo Tosti aveva portato da “Albione” un nuovissimo pallone di gomma. Racconta Giammarco Menga in “Sportivamente d’Annunzio” (ed. Croce, 2016) che, durante uno scontro, il Vate perse due denti e con essi – prudentemente - l’abitudine di giocare a pallone. Passarono vent’anni finché, con la presa di Fiume, nel 1919, lo sport viene inserito come articolo fondamentale nella futuristica “Carta del Carnaro”: “Gli statuti guarentiscono (sic) a tutti i cittadini d’ambedue i sessi l’educazione corporea in palestre aperte e fornite”. L’esercizio fisico ha, per il Vate, importanza fondamentale e all’inizio del ’20, i legionari già si cimentano in gare di lotta, podismo e calcio. Per rinsaldare l’amicizia fra cittadini fiumani e militari occupanti viene così organizzata una partita che si disputa il 7 febbraio 1920 presso lo stadio di Cantrida. I primi indossano la maglia nero-verde di una squadra locale, l’Esperia, i legionari, invece, la maglia azzurra della nazionale italiana che, tuttavia, all’epoca recava sul petto lo scudo sabaudo con la croce bianca in campo rosso. Così il Vate, volendo dare un chiaro segnale a casa Savoia, lo fa sostituire con uno scudetto tricolore, semplice, senza simboli: Fiume doveva essere italiana, ma sotto il vessillo repubblicano. Da allora, lo scudetto bianco-rosso-verde ricomparve nel ’31, accanto al fascio littorio, e poi nel ’47, nudo e crudo, per una amichevole con la Svizzera. Ammirando ancor oggi quell’inconfondibile stemma, (chissà quanto durerà) inevitabile chiedersi che cosa avrebbe detto il Vate nel vedere, stasera, i giocatori italiani inginocchiati in omaggio a un problema d’oltreoceano cavalcato da gente che mette a ferro e fuoco le città e distrugge statue. Li avrebbe guardati come si guardano delle pulci. L’iniziativa sarebbe già intollerabile se fosse stata presa in modo autonomo. La nazionale di calcio, infatti, rappresenta l’Italia che, al momento, non ha fatto pervenire notizia di volersi inginocchiare davanti a chicchessia. Nemmeno di fronte al Milite Ignoto, di cui quest’anno ricorre il centenario, o alle più alte cariche dello Stato. Quei calciatori sono strapagati per giocare partite e portare dignitosamente il nome dell’Italia all’estero, NON PER PARTECIPARE A INIZIATIVE POLITICHE O IDEOLOGICHE di qualsivoglia genere, di destra, di centro, o di sinistra. Peraltro non è che chi non si inginocchia sia automaticamente un tesserato del Ku Klux Klan, quindi nulla lo giustifica. Si tratta di un vero e proprio abuso, di un affronto gravissimo alla dignità della Nazione, davanti al quale davvero in pochi hanno reagito. Il gesto di inginocchiarsi ha una valenza simbolica assoluta: è la sudditanza totale, la sottomissione completa. Paradossale come non si inginocchi più nessuno, nemmeno Bergoglio davanti al Santissimo Sacramento, e invece lo debbano fare dei calciatori di fronte alle cosette degli uomini. Tuttavia, se l’idea fosse venuta a Mancini, sarebbe stata una trovata, senz’altro grave e criticabile, ma almeno prodotta in modo autonomo: la creatività e la teatralità degli Italiani, per una volta, uscita male. No, neanche questo. Ci si inginocchierà imitando gli altri, in nome del più becero conformismo, solo per compiacere, come affettati cicisbei, la squadra avversaria e per evitare pavidamente qualche stolida critica sui giornali. Una vergogna, una banalità e uno squallore senza fine. Un Paese serio, di fronte a un'offesa del genere, dovrebbe non guardare mai più una partita di calcio e non andare mai più allo stadio. Impossibile? Impensabile? E allora l’umiliazione di stasera è quello che ci meritiamo. Buon inginocchiamento a tutti.

Alessandro Gnocchi per "il Giornale" il 4 luglio 2021. In Italia si è aperto un grave problema di scelta della razza della servitù. Nelle tavolate della piccola Atene, Capalbio, si discute accanitamente.

«Noi di sinistra possiamo avere camerieri?».

«Noi di sinistra possiamo avere camerieri neri?».

«Noi di sinistra possiamo avere camerieri neri pagati in nero?».

«Dobbiamo inginocchiarci ogni volta che il filippino porta il caffè?» «Black Lives Matter». 

«O vale solo per i calciatori?».

«Black Lives Matter».

«O vale solo per gli attori?». (...) (...) «Black Lives Matter». 

Gli intellettuali progressisti dovrebbero avere servitù bianca e di buon ceto sociale. Altrimenti in ginocchio, possibilmente sui ceci per espiare il peccato di tentato colonialismo.

«L' Italia poi si inginocchia contro il Belgio?».

«Solo se il Belgio si inginocchia».

«Ma non ha senso».

«Black Lives Matter».

Si scherza ma neanche troppo.

Non poteva che finire così. Tom Wolfe aveva previsto tutto, alla lettera, nell' immortale reportage Radical Chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto (1970, Castelvecchi). La parte centrale del racconto si svolge a casa di Lenny Bernstein, grande direttore d' orchestra, che organizza, nel suo attico con vista su Central Park, una raccolta fondi per le Black Panthers. Le «Pantere» sono un'associazione radicale che vuole passare dalla lotta pacifista contro il razzismo, stile Martin Luther King, alle maniere spicce, stile Ti-sparo-in-testa.

La polizia stende un nero? Un nero stenderà un poliziotto.

Occhio per occhio... Inoltre le Pantere vogliono abbattere la società capitalista e i suoi occulti finanziatori, gli ebrei. Già, le «Pantere», vittime del razzismo, sono razziste. Malcom X è il guru, fino a quando non viene abbattuto a raffiche di mitraglietta, da una fazione rivale. Le Pantere rinunciano alla lotta armata intorno alla metà degli anni Settanta. 

Black Lives Matter raccoglie l'eredità delle Black Panthers. Nato per protestare contro l'inaccettabile serie di ragazzi uccisi dalla polizia durante azioni più o meno di routine, il movimento è diventato un fenomeno di costume alla moda dietro il quale si cela un universo eterogeneo, in parte favorevole alle maniere forti.

Il problema del radical chic, «prima versione», era solleticare le Black Panthers e vivere, durante le feste di raccolta fondi, il brivido della vicinanza a un uomo vero, un selvaggio, un bruto. Il problema del radical chic, «revisione 2021», è misurare il proprio potere attraverso la sottomissione di star, sportivi, nazionali di calcio, politici e persone comuni. Si devono inginocchiare.

«Lo facciamo per mandare un giusto segnale: le vite dei neri sono importanti, guai a chi se lo scorda».

E giù lezioni di educazione civile, del tutto insensate: l'inginocchiarsi non è una pratica neutra anti-razzista ma un gesto militante in sostegno di Black Lives Matter, movimento, ormai s' è capito, non alieno alla violenza. Cediamo la parola al maestro indiscusso, Tom Wolfe: «Beh, alle persone istruite ovviamente si dice neri. Al momento è l'unica parola che sottintende la propria consapevolezza della dignità della razza nera. Ma, non si sa come, quando stai per usare quella parola con i tuoi domestici bianchi, esiti. Non riesci a cacciartela fuori dalla bocca.

Perché? Contro-senso di colpa! Sai che stai per pronunciare una di quelle parole fondamentali che divide i colti dagli incolti, gli intonati dagli stonati, i fichi dagli sfigati. Non appena la parola ti esce di bocca e te ne accorgi già mentre hai la prima sillaba sulla punta della lingua il tuo domestico ti ha già schedato come uno di quei progressisti in limousine, o comunque ti voglia definire, tutti impegnati a dedicare il proprio buon cuore bianco alla causa dei neri, e magari ne dedicassi un po' ai proletari bianchi, ai domestici dell'East Side, per esempio, e figurarsi, sahib. Negatelo pure! Ma sono queste le piccole deliziose agonie del Radical Chic. Così uno finisce per scegliere negro, sperando che per un attimo il grande dio Culturatus metta da parte il suo libro mastro. Comunque sia, se si è capaci di accettare questo piccolo compromesso, i propri domestici non sono più un problema. Ma il ragazzo dell'ascensore e il portiere Appena si accorgono che stai per dare uno di quei party, di riflesso cominciano a lanciarti occhiate fulminanti!». 

Sì, cancel culture, via gli ultimi quarant' anni, si torna al radical chic, che qualcuno, erroneamente confonde con lo snob. È l'esatto contrario.

Lo snob ostenta ridicola raffinatezza, il radical chic ama lo stile «romantico e rudemente vitale dei primitivi che abitano nelle case popolari», perché il proletario è bello, borghese può essere piccolo o grande ma è sempre brutto.

Tom Wolfe instillava il dubbio che il radical chic di radicale avesse soltanto lo stile. Il radical chic versione 2.0 è meno ambizioso del suo predecessore, che si sentiva il padrone del mondo. Il radical chic 2.0 si accontenta di essere il padrone dell'orticello della cultura, il consigliere delle case editrici da tinello, l'alfiere delle idee politiche vecchie e insepolte, il monopolista delle rubriche su settimanali a diffusione carbonara, lo «scrittore» di tweet acchiappa like, l'oratore da festival degli amichetti, l'editorialista indignato un tanto al chilo, il curatore di mostriciattole. 

Il radical chic si sente trasgressivo ma sfonda solo porte aperte, crede di essere controcorrente ma combatte solo battaglie già vinte. Tutto questo non lo preoccupa davvero, infatti il radical chic ha una sola vera paura: non belare allo stesso volume del gregge.

Marco Lombardo per “il Giornale” il 19 giugno 2021. Rino Gattuso una volta ha detto che, essendo lui un uomo di fede, il matrimonio è solo tra uomo e donna. Poi ha anche detto che è un uomo all' antica e che le donne nel calcio non le vede. E perfino che i buu razzisti fanno schifo, ma che quando li ha presi lui perché terrone era un po' lo stesso. Si vabbè, una volta ha anche preso per il collo l'allora allenatore del Tottenham, ma poi si è scusato e allora forse può andare. Negli altri casi invece ormai non si perdona nulla: una volta si poteva non essere d'accordo su affermazioni così (ed in effetti qualcosa da dire ci potrebbe anche essere), ma in tempi di politically correct tutto va a rotoli, compresa l'opinione personale. E il pallone, ovviamente. Insomma: Rino Gattuso non diventerà l'allenatore - appunto - del Tottenham, perché via social i tifosi hanno tempestato di proteste il club e il presidente. E quindi il neo Ds Fabio Paratici ha dovuto prendere atto del fatto che Rino sia violento, misogeno e razzista. Anche un po' bigotto, diciamolo. Paratici non lo sapeva, nonostante i tanti anni di conoscenza. Ma il tribunale del web ormai non ammette repliche in tempi in cui chi non si inginocchia (al calcio d' inizio) è perduto, nel momento in cui si fa a gara a spostare la Coca Cola dal banco per mettere al suo posto il trofeo di giornata. Che poi magari si scopre che è pure griffato da una birra. Ma che importa: c' è chi può e Gattuso non può. Sarà quella faccia sempre un po' ingrugnita e quell' espressione un po' così, ma certe cose non andranno mai perdute. Gli uomini crescono e possono cambiare idea, eppure nonostante siano passati anni da quello che avete letto all' inizio, le parole sono scolpite nel web. E finiscono pure per far saltare le panchine. D' altronde Rino è fatto così, non lo cambi: per esempio lo sentirete dire che a pallone si gioca solo in 11. Essendo anche poco inclusivo, pagherà pure questa.

Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 19 giugno 2021. #NoToGattuso, il popolo ha deciso. Di questi tempi, dopo la rivolta e le proteste scatenate dalla vicenda SuperLega, le società inglesi i tifosi vogliono tenerseli buoni. Quindi no, Rino Gattuso non potrà allenare il Tottenham: così ha deliberato la dirigenza degli Spurs guidata da Daniel Levy e sprofondata in uno psicodramma sulla scelta del nuovo allenatore, dopo la voragine lasciata dall' esonero di Mourinho e i buchi nell' acqua Ten Hag, Pochettino, Conte e ultimo Fonseca, abituato troppo bene agli sgravi fiscali italiani. Gattuso sembrava l'uomo giusto, anche per quel suo passato arcigno e roccioso ai Glasgow di Rangers. Ma i social non gli hanno perdonato alcune gravi, pesanti e controverse frasi passate, come «le nozze gay mi scandalizzano», o «le donne devono stare fuori dal calcio» riferito a Barbara Berlusconi. Dunque no, Mr Gattuso, lei è "unfit ": grazie comunque della disponibilità e buona fortuna. Certo, per uno come Maurizio Sarri, al Chelsea fecero finta di non ricordare qualche sua vecchia frase sessista e omofoba che sferrò anche all' attuale allenatore della nazionale Roberto Mancini, nella circostanza chiamato "fr.". Ma anche altri protagonisti dello sport oltremanica hanno ricevuto un trattamento diverso da quello di Gattuso. Di Ollie Robinson, nazionale inglese di cricket, di recente sono stati ritrovati vecchi commenti razzisti e sessisti sui social. Ma, quando li aveva postati non era ancora maggiorenne, quindi persino il primo ministro Boris Johnson lo ha assolto. Se l'è cavata anche Phil Neville, ex allenatore della nazionale femminile inglese, ex terzino del Manchester United e fratello del più famoso Gary, oggi commentatore tv: in passato, Phil Neville aveva detto che le donne avrebbero fatto meglio «a fare la spesa e badare ai figli». Ma anche lui si è successivamente scusato ed è stato perdonato. Come del resto José Mourinho, che nel corso della sua seconda esperienza al Chelsea venne accusato di sessismo per come trattò la dottoressa Eva Carneiro che aveva imposto la sostituzione di un giocatore per un infortunio secondo l'allenatore portoghese non così grave. C' è chi dice che nel Regno Unito e nel calcio inglese il politicamente corretto o il "movimento woke " come lo chiamano i suoi detrattori a volte scavalli i suoi ammirevoli e legittimi obiettivi: a inizio stagione, l'attaccante del Manchester United (ed ex Napoli) Edinson Cavani è stato squalificato per tre giornate per aver scritto su Instagram " negrito " a un suo follower. L' uruguaiano ha provato a spiegare che era un termine affettuoso, che quello era un suo amico, che nero in spagnolo si dice " negro ", ma niente: punito senza appello. Di sicuro, meglio l'eccesso di zelo odierno che il lassismo del passato in un'Inghilterra dove l'omosessualità è stata reato fino al 1967 e dove la violenza contro le donne è ancora oggi a livelli alti, se non scandalosi. Per molti restano leggende inscalfibili, ma oggi non sono più tollerati personaggi come Robbie Fowler che, oltre a sniffare la linea di fondo, prendeva in giro «l' omosessuale» (secondo lui) Graeme Le Saux sculettandogli davanti in campo, oppure lo sboccato allenatore Brian Clough: due Coppe Campioni col Nottingham Forest, incensato nel libro e nel film Il Maledetto United , ma anche lui autore di offese omofobe («Perché vai a prenderlo sempre in quei bar di checche? ») per esempio contro Justin Fashanu, primo giocatore dichiaratamente omosessuale in Inghilterra, che poi, travolto da continue offese e insulti, si pentì del "coming out" suicidandosi nel 1998. Ma forse la storia della cacciata preventiva di Gattuso è diversa. Anni fa, in un Milan-Tottenham di Champions League, "Ringhio" si permise una testata a Joe Jordan, assistente ma soprattutto totem sportivo dei londinesi (e tra l'altro pure ex Milan). Questo i tifosi degli Spurs a Rino non glielo hanno mai perdonato. E così oggi, in una vendetta consumata fredda, gliel' hanno fatta pagare. 

Vaffa, insulti e offese: ora spunta l'ipocrisia 5s. Francesco Curridori il 19 Giugno 2021 su Il Giornale. Il M5S, fondato con un "vaffa", ora, dà lezioni di lotta allo "hate speech" eppure, sin dalla sua nascita, ha fatto del disprezzo verso gli avversari la sua ragion d'essere. Ennesima giravolta del M5S. Il partito fondato con un "vaffa", ora, dà lezioni di lotta allo "hate speech". Il sottosegretario all'Interno, Cosimo Sibilia, oggi, ha pubblicizzato su Facebook l'evento dal titolo "Hate speech, il lato oscuro delle parole in libertà", sponsorizzato dall'associazione culturale "Italia più 2050". Sembrano essere passati secoli da quando Beppe Grillo chiamava Berlusconi "lo psiconano", Bersani "zombie", Renzi "l'ebetino" e Prodi "Alzheimer". E che dire di Paola Taverna che, in campagna elettorale, attaccava quelli del Pd (salvo poi redimersi con la nascita del Conte-bis) dicendo: “Mafiosi, schifosi, siete delle merde, ve ne dovete andare, dovete morire...”? È impossibile dimenticarsi il video in cui Luigi Di Maio giurava che mai e, poi, mai sarebbe andato al governo con "il partito di Bibbiano”, ossia con quel Pd con cui il M5S di Conte cerca di stringere un'alleanza strutturale. Ma sono innumerevoli gli insulti che i grillini hanno rivolto, in passato, ai democratici. “Il Pd è un punto di riferimento del crimine", disse Alessandro Di Battista nel 2018, anno in cui insultò Renzi affermando: "Il bugiardello toscano ormai è politicamente morto, ucciso dalle sue stesse menzogne". Roberta Lombardi, sempre in quello stesso anno, disse: "Il Pd prendeva soldi da Mafia Capitale". Quello è l'anno delle elezioni Politiche e, quindi, era anche naturale che il clima si surriscaldasse e, quando Silvio Berlusconi disse che i grillini non erano neppure capaci di pulire i cessi, Grillo replicò: “Questa è la sentenza ultima che sibila da dietro il cerone; sebbene il primo pensiero vada a quelle povere latrine, viene da chiedersi: da dove proviene questa ossessione per i cessi dell'ex badante? Ndr: prima di nipoti apolidi e poi di anziani a Cesano Boscone". Ma le dichiarazioni di odio del fondatore del M5S, nel lontano 2014, colpirono anche l'allora presidente della Camera. Un sondaggio sul blog delle Stelle recitava: "Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?”. Un quesito diede adito a risposte allucinanti che soltanto lasciamo immaginare. Sebbene siano passati già 7 anni (che per chi fa politica sono ere geologiche), alla luce di quanto ricordato finora, sembra davvero surreale che, oggi, i grillini vogliano dare lezioni di bon-ton. Un'ipocrisia che ha smascherato il comico Luca Bizzarri con un semplice tweet: “Buongiorno, tutto è nato quel giorno in cui abbiamo mandato tutti a fare in culo, poi abbiamo dato a tutti dei porci e dei mafiosi, abbiamo detto che erano morti. Ma ora parliamo di Hate Speech". 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di...

Matteo Persivale per il "Corriere della Sera" il 18 giugno 2021. Gli scrittori litigano per i motivi più vari: per questioni stilistiche (Hemingway contro Faulkner), di statura fisica (il compatto Keats contro Byron alto 1,80), di rispetto verso l'Islam (le Carré contro Rushdie), a volte per motivi banalmente umani (Hans Christian Andersen che passa a casa Dickens per un saluto e, trovandosi bene, decide di restare per cinque settimane). Quello tra Chimamanda Ngozi Adichie e l' ex amica-allieva Akwaeke Emezi non è il classico scontro tra allievi ingrati e maestri severi (genere Naipaul contro Theroux): assistiamo a un j' accuse di rara lucidità contro il bullismo via social media (con il pretesto della difesa dei diritti) e la cosiddetta «cancel culture» che commina pene gravissime a chiunque non si dimostri abbastanza fedele alla linea (come sempre succede tra moralisti inflessibili poi, alla fine arriva qualcuno più puro di te che ti mette sotto accusa, ma è un altro discorso). Qui c' è Adichie, nigeriana, 43 anni, grande scrittrice famosa in tutto il mondo, una delle voci più autorevoli di questi tempi difficili (non ha - ancora? - vinto il Nobel ma ha già avuto il titolo di un libro stampato sulle magliette di Dior, la stilista Maria Grazia Chiuri è una delle sue fan famose) contro la collega 34enne Akwaeke Emezi. Non si parlavano da anni: capita. Emezi ha insultato l'amica ma poi l'ha indicata come persona di riferimento per ottenere il visto americano: non bellissimo, ma capita anche questo, specialmente in tempi di restrizioni sull' immigrazione. Chimamanda Ngozi Adichie ha chiesto alla ex amica attraverso il suo sito (attirando tanto traffico da farlo andare in tilt per qualche ora e suscitando rimpianti nei giornali di mezzo mondo per non averlo proposto a loro): «Mi dai pubblicamente dell'assassina e ti senti ancora in diritto di usare il mio nome quando ti fa comodo?». La risposta, nell' era dei social media sui quali i processi sono sommari e l'espiazione è senza fine, è «certo che sì, perbacco». Perché Emezi ha giocato all' attacco fin dall' inizio, e sui social media chi picchia per primo picchia mille volte (Adichie è più grande come scrittrice, ma l'altra ha i follower più avvelenati). È una storia semplice: Adichie aiuta la giovane Emezi all'inizio della carriera, diventano amiche, ma quattro anni fa Adichie dice alla Bbc che «le donne trans sono donne trans» all' interno di un discorso leggermente più complesso («Penso che se hai vissuto nel mondo come uomo, con i privilegi che il mondo accorda agli uomini, e poi cambi genere, diventa difficile per me equiparare la tua esperienza con l'esperienza di una donna che ha vissuto fin dall' inizio nel mondo come donna, donna alla quale non sono stati concessi i privilegi degli uomini»). Una posizione sulla quale si può legittimamente discutere in modo civile, o che si può usare come pretesto per lanciarsi in accuse di transfobia. Emezi (non binaria, identifica se stessa usando il pronome «they») criticò immediatamente Adichie sui social, attirando su di lei l'ira funesta dei follower (metodo classico). Adichie aveva poi - scavandosi la fossa social - definito «ragionevole» l'articolo che scaraventò l'autrice della saga di «Harry Potter», J.K. Rowling, nel famelico tritacarne dei cancellatori di Twitter. È deprimente che l'autrice di libri importanti come «Metà di un sole giallo», «Americanah», «Dovremmo essere tutti femministi» (Einaudi) finisca tacciata di crimini orrendi contro l'umanità? Sì, ma è come lamentarsi del maltempo. Adichie si è ribellata, ha spiegato che la cultura del bullismo a fin di bene è «oscena», e ha fornito la definizione finora più bella mai data dei social media (Emezi usa con abilità le storie di Instagram) usati come manganelli: «Ci sono molte persone, sui social media, piene d' ipocrisia e prive di compassione, capaci di pontificare con facilità su Twitter se si parla di gentilezza ma non sono in grado di mostrare vera gentilezza. Persone le cui vite sui social media sono casi di studio di aridità emotiva. Persone per le quali l'amicizia - e le sue aspettative: lealtà, compassione e sostegno - non contano più». Non c' è bisogno d' aggiungere altro.

Matteo Persivale per corriere.it il 26 giugno 2021. È abbastanza bizzarro leggere, sulla homepage dello stesso giornale, il New York Times, nello stesso giorno oggi, l’articolo sulla condanna a 22 anni di reclusione per il poliziotto che uccise George Floyd accanto al commento sulla piaga sociale del «lookism», la discriminazione ai danni dei brutti. Perché da una parte ci sono voluti 13 mesi per arrivare al verdetto: ebbene sì, stare per nove minuti inginocchiato su trachea e carotide di un uomo ammanettato che chiede pietà, e restarci anche quando non respira più e non parla più e il suo cuore ha smesso di battere, è omicidio. Invece il verdetto è immediato se si tratta di «lookism», «aspettismo», una delle poche branche della discriminazione sulle quali manca al momento una mobilitazione via social media. Brooks illustra alcuni studi secondo i quali le persone di bell’aspetto hanno maggiori probabilità di essere chiamate a un colloquio di lavoro, più probabilità di essere assunte dopo il colloquio, più probabilità di essere promosse rispetto a individui meno attraenti. È più probabile, secondo altri studi citati da Brooks, che ricevano prestiti, e più probabile che ricevano tassi di interesse più bassi su questi prestiti. Certo chi cinicamente andasse a cercare su Google le foto dei ceo delle aziende di Fortune 500 non vedrebbe necessariamente una rassegna di divi del cinema e modelle, l’uomo più ricco del mondo — Jeff Bezos — non è mai stato scambiato per Jude Law, l’importante però è sottolineare che contro il «lookismo» non c’è al momento rimedio legale, al contrario di quel che accade per quasi tutte le altre forme di discriminazione. «Gli effetti discriminatori del lookismo sono pervasivi — sostiene Brooks —. Una persona poco attraente perde quasi un quarto di milione di dollari di guadagni nel corso della vita rispetto a una attraente». «Una società che celebra la bellezza in modo così ossessivo», scrive, «è destinata a essere un contesto sociale in cui chi è meno bello viene sminuito: l’unica soluzione è quella di cambiare norme e pratiche. Un esempio positivo arriva, bizzarramente, da Victoria’s Secret, che ha sostituito i suoi «angeli» con sette donne con caratteristiche fisiche le più diverse. E se è Victoria’s Secret a rappresentare la punta avanzata della lotta contro il lookism, significa che tutti noi abbiamo parecchio lavoro ancora da fare». È, ovviamente, insensato prima ancora che ingiusto sostenere che un piacevole aspetto fisico (a giudizio di chi, peraltro? Spesso la bellezza è soggettiva) sia indicativo di altre caratteristiche — le persone razionali sanno che i belli non sono più intelligenti, non sono più buoni, eccetera. Ma legiferare in materia diventerebbe complicato: e vista la fatica che fanno i tribunali a intervenire quando si tratta di discriminazioni palesi — razza, genere, orientamento sessuale, etc — per non parlare delle difficoltà dei legislatori (vedi il percorso a ostacoli del ddl Zan), pare avventuroso immaginare un futuro nel quale una persona di aspetto «normale» – drammaticamente, lo siamo quasi tutti, più o meno: chi ha l’aspetto di Jude Law e Monica Bellucci ha semplicemente vinto al momento del concepimento una lotteria del Dna nella quale le probabilità per tutti sono minime — sarà in grado di fare causa per le difficoltà derivanti dal proprio aspetto. Andy Warhol — che non era bellissimo ma era un genio — diceva che in futuro saremo tutti famosi per 15 minuti. Ma prevedere che saremo tutti belli per 15 minuti sarebbe stato troppo anche per lui.

Angeli caduti sotto i colpi del politically correct. Davide Bartoccini il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. Il brand di lingerie statunitense cerca la rottura e propone un collettivo di donne per "merito" e non per merito delle curve. La prosopopea del politicamente corretto non si ferma davanti a nulla. Il mercato, anche quello dei reggicalze, risponde. Alla fine ci sono riusciti. Hanno alzato il tiro a livello massimo e hanno impallinato i nostri angeli preferiti. In nome dell'ipocrisia di questo progresso coatto, verrà sostituita la prova dell'esistenza di Dio in terra, le modelle di Victoria's Secret, con un "collettivo" inclusivo. Perché certe battaglie fondamentali non lasciano quartiere, si combattono ogni giorno, su ogni campo, anche sul campo delle giarrettiere. A quanto pare. Il colosso di lingerie americano fondato nel 1977 da Roy Raymond e Gaye Raymond, con gentile riferimento alla bacchettona regina Vittoria, ha deciso di piegarsi alle mode del tempo. Mandando in pensione i suoi famosi angeli - tra cui abbiamo annoverato per anni le super top model più incantevoli della terra - per sostituirle con sette signore e signorine (non hanno ancora risposto signori all'appello), più o meno famose per i loro meritati traguardi. Ma si badi bene "non per le loro curve". Sebbene debbano posare e sfilare sempre comunque in mutande e mutandoni (dato che sempre questo vendono), al fine di conformarsi e seguire l'onda alta del cambiamento che il mondo intero - ma soprattutto il mercato - sembra voler imporre. Perché il denaro non dorme mai. "Dobbiamo smetterla di essere quello che vogliono gli uomini", pare abbia affermato Martin Waters, amministratore delegato di Victoria's Secret (fino a prova contraria anche lui uomo; per cui sarebbe da chiedersi se è un plurale maiestatis, un senso figurato, o una deriva non binaria dell'ultimo momento). Proseguendo in un'intervista rilasciata al New York Times: "Quando il mondo si stava evolvendo, noi siamo stati troppo lenti nel rispondere.", e a cercare - sempre secondo "loro" - una sensazionale svolta nel tentativo di "riconquistare il pubblico femminile", da anni "in calo e in cerca di nuove alternative", all'insegna di un nuovo motto, ossia quello di proporre ciò che "vogliono le donne". E qui mi taccio, perché in vero non possiedo un utero. Ma allo stesso tempo m'intrigo. Perché da uomo giuro vorrei saperlo anche io "What Women Want". Anche se non avendo trovato risposta alla domanda il professor Freud, deduco sia fortemente improbabile la trovi Mr. Waters. Ecco allora come le grandi speranze per questa lapalissiana operazione di marketing, e non particolarmente richiesta "ridefinizione del sexy", finiscano per essere riposte nei corpo molto normali di Megan Rapinoe, calciatrice trentacinquenne e ovviamente attivista della parità di genere (lo suggerisce il taglio e il tinta scelta per i capelli); Eileen Gu, adolescente sciatrice freestyle cino-americana; Paloma Elsesser, modella quasi trentenne che vanta il primato di essere apparsa su Vogue in una taglia 50; e Priyanka Chopra Jonas, attrice indiana e investitrice nel settore tecnologico. Certo, sarebbe da domandarsi se questa scelta di rottura non sia un po' figlia della scomoda posizione che aveva assunto il brand nel 2018. Colpevole non solo di non aver coinvolto al momento propizio - secondo i dettami della moda - qualche modella transessuale nel famoso show annuale; ma di aver sentito dichiarare all'allora presidente Ed Razek, in un'intervista rilasciata a Vogue, opinioni negative sul tema. Il contraccolpo nel sindacato modelli (che sa fare molto Zoolander) e nella costellazione dell'attivismo militante - che è sempre sul piede di guerra, e i cui membri sembrano altresì interessanti ad acquistare mutande, corpetti, giarrettiere e quant'altro - fu immediato. Come anche le scuse del signor Razek. Pervenute come copione per necessità di mercato. Ad ogni modo, e fino a nuovo ordine, niente più Alessandra Ambrosio, o Heidi Klum o Taylor Hill. Niente più "The perfect body” come nella vecchia campagna che potremmo ormai considerare "medievale" del 2014. Ma largo ai collettivi inclusivi per le donne che vogliono le donne. E che forse inizieranno pure a regalarsi l'intimo da sole. Per mettere finalmente termine a quell'imbarazzante e screanzato cliché dell'amante che entra in un negozio e prova a scegliere qualche completito per mettere un pizzico di pepe a una serata speciale. Medioevo. Sebbene non sia stata detta l'ultima parola, a giudicare dalle premesse la prossima sfilata di Victoria's Secret potrebbe finire per essere una sorta di “cura Ludovico” kubrickiana per il mondo di ieri. Qualcosa da guardare costretti, con le pupille spalancate e buone dosi di collirio, nell'obiettivo di redimerci dalle nostre malefatte passate, osservando "crimini" recenti, come quello della sostituzione degli "angeli". Anche se a pensare bene, una cosa dovrebbe pur consolarci. Sull'onda lunga di questa moda, l'avvento di una paritaria sostituzione dei modelli super palestrati stile Dolce & Gabbana. Da avvicendarsi con collettivi di pensionati leggermente sovrappeso. Oppure campioni di curling, vincitori di tornei intercontinentali di Bridge, scacchisti, famosi ornitologi. Già me li immagino, mentre si esibiscono in pose plastiche al largo dei faraglioni di Capri, oliati con costumi a mutanda bianco sparato. Sarebbe tra le altre un'occasione di lavoro per mio papà, che da pensionato si è messo a dieta e punta di arrivare alla taglia 50. Proprio come quella modella apparsa su Vogue, ora selezionata per scalzare gli angeli di Victoria.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

Alessandro Ruta per “il Giornale” il 19 agosto 2021. Volano gli stracci nella nazionale femminile Usa di calcio, una squadra che negli ultimi tempi si è molto esposta mediaticamente. E che l'ha fatto specie con Megan Rapinoe, fuoriclasse della squadra ma sempre in prima fila nelle critiche all'ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, anche dopo la vittoria al Mondiale del 2019. Proprio la Rapinoe è finita nel mirino di una delle sue ex compagne, un'altra delle stelle della squadra, il portiere Hope Solo: «Arrivava a usare atteggiamenti intimidatori pur di costringerci ad inginocchiarci durante l'inno nazionale», l'accusa della Solo durante un podcast sull'emittente Goal.com. Mettersi in ginocchio durante l'inno Usa è diventato un modo per solidarizzare con le violenze nei confronti delle persone di colore; una pratica inaugurata dal giocatore di football americano Colin Kaepernick nel 2016 e diventata abituale con le più recenti proteste del movimento Black lives matter. Sempre il 2016 è stato l'ultimo anno da professionista della Solo, portiere titolare della nazionale femminile statunitense e compagna della Rapinoe anche nel club, I Seattle Reign. Insieme hanno vinto, tra le altre cose, due ori olimpici, nel 2008 e nel 2012, e il Mondiale del 2015. Adesso, le accuse della Solo di «bullismo» nei confronti della Rapinoe, che «obbligherebbe le compagne con l'intimidazione ad assecondare le sue battaglie, anche quelle che non vogliono inginocchiarsi, perché quel gesto è altamente divisivo». Le parole della Solo, però, faticano a combaciare con i tempi, visto che appunto le proteste in ginocchio erano iniziate quando il portiere aveva già smesso. Non è da escludere, tuttavia, che la Solo abbia riportato voci arrivatele da altre giocatrici. Di sicuro c'è che la Rapinoe, leader in campo e fuori della nazionale femminile Usa, paladina del movimento Lgbt, finisce puntualmente nell'occhio del ciclone.  È storia recente l'ennesima polemica con Donald Trump, che dopo la deludente prova ai Giochi di Tokyo (gli Usa hanno vinto il bronzo) aveva apostrofato lei come «la donna coi capelli fucsia» e la squadra «un gruppo di maniache di sinistra poco attaccate alla patria».

Il Tar di Lecce «fa giustizia» della discriminazione al maschile. «L’obiettivo della parità di trattamento e opportunità tra donne e uomini dev’essere assicurata in tutti i campi, anche in una procedura di gara». Marzia Baldari su La Voce di Manduria giovedì 17 giugno 2021. In un concorso pubblico è giusto favorire un’impresa solo perché femminile? Per i giudici del Tribunale amministrativo regionale di Lecce la risposta è no. Assegnare un punteggio in più al lavoro rosa sarebbe illegittimo perché opporrebbe, al contrario, discriminazione al sesso maschile. È questa la decisione presa oggi dai giudici che, per la prima volta in Italia, hanno annullato un’aggiudicazione pubblica perchè premiava l’imprenditoria femminile. A presentare il ricorso è stato un venditore ambulante salentino che con gli avvocati Francesco Romano, Leonardo Maruotti e Salvatore Ponzo ha richiesto (e vinto) l’annullamento del provvedimento di assegnazione delle concessioni per il commercio su aree pubbliche del Comune di Salve, in provincia di Lecce. La contesa dell’esposto ha riguardato la domanda di partecipazione alla gara per la stagione estiva 2020 che aveva visto vittoriosa per un solo punteggio in più, la ditta Carbone Alessandra perché impresa femminile. E come tale, avevano pensato gli amministratori di Salve, aveva bisogno di sostegno. Sono davvero poche, infatti, le donne che decidono di investire in un'impresa e che ottengono dalle banche i corrispettivi finanziamenti. Per questo il Fondo per l’imprenditoria femminile 2021 tenta di cambiare questa rotta piantando le prime radici di cultura imprenditoriale femminile e introducendo contributi a fondo perduto, finanziamenti a tasso zero e sgravi contributivi per le assunzioni di donne. Se questi incentivi dirottano un orientamento che vuole scommettere sulle imprese rosa rispetto ad un mercato molto labile, quasi inesistente come quello femminile, per il Tar di Lecce le pari opportunità di un uomo, quanto per una donna, sono imprescindibili, soprattutto in una procedura di gara. L’attribuzione ingiustificata di un altro punteggio solo perché impresa femminile diventa, quindi, illegittima perché “viola il divieto, normativamente imposto a livello costituzionale, di ogni discriminazione sulla base del sesso, oltre che la regola della parità di trattamento tra i partecipanti di un confronto concorrenziale”.

Caterina Belloni per “La Verità” il 17 giugno 2021. Anche la Banca d'Inghilterra cede alla sirena della «cancel culture», la nuova tendenza che rimuove immagini ed effigi di personaggi storici che hanno avuto a che fare con lo schiavismo o il colonialismo, per evitare di sembrare connivente con le idee che hanno caratterizzato questi periodi storici. Nelle scorse settimane sono state spostate da luoghi dove erano visibili al pubblico dieci opere d'arte, che ritraevano storici governatori o direttori della Bank of England, coinvolti in qualche modo con la tratta degli schiavi. Si tratta di otto dipinti ad olio e di due busti, sulla cui sorte si è cominciato a discutere lo scorso anno, quando la cultura del boicottaggio di individui connessi a gesti razzisti si è diffusa a macchia d'olio, a seguito del movimento Black Lives Matter. Uno dei personaggi «cancellati» è Gilbert Heathcote, tra i fondatori della Banca d'Inghilterra, che è stato collegato direttamente allo schiavismo, sulla base delle informazioni raccolte dal progetto «Eredità dello schiavismo» condotto dall'University College di Londra. Secondo questa fonte, considerata da molti tra le più autorevole in materia, Heathcote fu un mercante impegnato sul fronte delle colonie, con connessioni con l'iniziale tratta dalla Giamaica, benché non abbia mai posseduto direttamente terre o schiavi. Lo stesso database è stato utilizzato, in realtà, per verificare la posizione anche di altri personaggi ritratti nei dipinti esposti negli uffici della Banca d'Inghilterra. Sulla base dei riscontri è stato fatto scomparire, ad esempio, il ritratto di Robert Clayton, direttore dell'istituzione tra il 1702 e il 1717, perché fu uno dei dirigenti della Royal African Company, che trasportò circa 150.000 schiavi in America. Per ragioni simili sono stati poi riportati in magazzino, ad esempio, i dipinti di James Bateman, governatore tra il 1705 e il 1707; Robert Bristow, direttore tra il 1713 e il 1720; William Dawsonne, suo predecessore; John Pearse, governatore tra il 1810 e il 1812 e William Manning, che rivestì un incarico analogo tra il 1812 e il 1814. La decisione della Banca d'Inghilterra ha mandato su tutte le furie i responsabili del movimento «Save Our Statues», letteralmente «Salvate le nostre statue», nato dopo le gesta eclatanti dei sostenitori del Black Lives Matter, che la scorsa estate abbatterono la statua di Edward Colston a Bristol e minacciarono persino il simulacro di Winston Churchill a Londra e il bronzo raffigurante Baden Powell, il fondatore degli Scout, collocato sul molo di Poole, nel Dorset. Secondo il movimento, la Bank of England dovrebbe occuparsi di altre questioni e non perdere tempo a discutere del passato per compiacere coloro che «vogliono ripensare la storia guardandola attraverso la sola lente della schiavitù». A loro parere queste decisioni non sono altro che una «purga delle collezioni artistiche» di istituzioni e musei, che si sta diffondendo a tutti i livelli e che ha coinvolto nei mesi scorsi persino la British Library. Nei giorni scorsi, poi, si è arrivato al caso estremo, con il ritratto di sua Maestà la Regina Elisabetta che è stato rimosso da un'aula di studio del Magdalene College, uno dei più prestigiosi di Oxford, dopo che gli studenti avevano votato per il suo trasferimento, giudicando la regina come un simbolo del «dominio coloniale». Fondato nel 1458, il Magdalene College ha ospitato menti eccelse come lo scrittore Oscar Wilde, eppure il vento della «cancel culture» non lo ha risparmiato.

Ora l'Ong prende a schiaffi pure la lingua italiana: ecco perché. Giuseppe De Lorenzo il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Mediterranea Saving Humans si accoda alla moda dei Murgia nostrani: addio desinenza maschile universale, arriva la "schwa". In principio fu il Comune di Castelfranco Emilia. Poi s’è accodata la mai doma Michela Murgia. E ora tocca alla Ong dell’ex no global Luca Casarini. Direte: cosa accomuna questi tre soggetti del panorama politico, mediatico e istituzionale italiano? La passione per il perbenismo linguistico. O meglio per il politicamente correttissimo fluidismo di genere applicato al dizionario e alla grammatica italiana. Un paio di mesi fa il sindaco (ovviamente del Pd) del paesino nel Modenese ha dato il “la” all’uso della “schwa” nei comunicati ufficiali del Comune. In pratica il malcapitato redattore dell’ufficio stampa (spero che nel frattempo si sia dimesso) s’era trovato a redigere ogni benedetto testo declinando al neutro le parole di genere maschile universale. Nella pratica, un inferno in cui le pene hanno la forma di questo segno fonetico “ə” a metà tra le “a” e la “e”. Tipo: “buongiorno a tuttə”, “gentilissimə”, “carə concittadini” e orrori linguistici simili. Uno sgorbio. Che aveva come obiettivo - sentite un po’ - quello di “plasmare” il “modo in cui pensiamo, agiamo e viviamo le relazioni”. Plasmare, capito? Volevano (e probabilmente vogliono ancora) modificare il pensiero in favore di una irragionevole neutralità di genere. Che ha come unico effetto immediato quello di rendere praticamente incomprensibile un testo. E visivamente fastidiosa la lettura dei giornali. Già, perché sulla scorta di quanto creato dal geniale sindaco di Castelfranco, qualche giorno fa la sempre informatissima Murgia ha ben pensato di copia incollare l’idea sulle pagine di un quotidiano nazionale. Il direttore Massimo Giannini forse non l’avrà visto prima, o forse sì e sarebbe pure peggio, ma alla fine La Stampa è finita sulle rotative con un testo pieno zeppo quel simbolo della barbarie radical chic. Una roba inutile, che col femminismo e il superamendo del gender gap c’entra come il cavolo a merenda, ma che fa fighissimo. Ed è di tendenza. Tanto di moda che ieri in un tweet passato quasi inosservato, anche Mediterranea Saving Humans ha sposato la stessa banale battaglia. “Duecento donne, uomini e bambini DEPORTATƏ illegalmente in #Libia", ha scritto su Twitter. E non si capisce se quel maiuscolo serva a sottolineare la presunta “deportazione” oppure far notare la schwa. Fatto sta che l’Ong travolta dalle indagini, nell’attesa di rimettere in acqua la Mare Jonio in vista dell’estate, intanto si prodiga a posizionarsi nel podio dei radical linguistici. Ci attendiamo nei prossimi giorni comunicati con l’abuso di “migrantə”, “richiedentə asilo”, “profugə” e via con altre storpiature dello stesso calibro. Perché dal buonismo migratorio al fluidismo letterario è un attimo. E i Casarini Boys non si sono fatti sfuggire l’occasione.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong…

La Rai sacrifica la meritocrazia per il politicamente corretto. Francesca Galici il 14 Giugno 2021 su Il Giornale. Danielle Madame è un'atleta di getto del peso ma ora si trova a commentare gli Europei di calcio per la Rai: perché? Danielle Madam è bella, è intelligente, ha voglia di imparare e ha quell'educazione che in tv è diventata merce rara. Detto questo, perché la Rai ha sentito l'esigenza di chiamare una campionessa di getto del peso a commentare gli Europei calcio? Ci sarebbero tantissime calciatrici pronte a fare il loro debutto televisivo e sarebbe potuta essere l'occasione di dare visibilità su un palcoscenico importante anche al calcio femminile, snobbato dai più. Invece no, la scelta per Notti europee è caduta sì su un'atleta, ma di uno sport "sbagliato". E si vede. Danielle ce la mette tutta, per carità, ma è come mettere Giorgio Chiellini a commentare una gara di getto del peso: più che stupirsi per la distanza raggiunta dallo strumento di gara cosa può fare? Danielle fa coppia con Marco Lollobrigida, uno dei giornalisti della redazione Rai Sport, e in molti momenti di Notti europee l'atleta sembra più una valletta che una co-conduttrice. Appare spesso non a suo agio in questo ruolo ma d'altronde chi non lo sarebbe? Per questo motivo il sospetto di molti utenti che hanno commentato il programma di seconda serata è che la scelta di affidare la conduzione a Danielle Madam da parte della Rai sia stata più di tipo politico che pratico. Danielle Madam è di origini camerunensi e recentemente ha ricevuto la cittadinanza italiana, che le permetterà (tra le altre cose) di vestire la maglia azzurra della nazionale di atletica. Ponendo il fatto che la giovane pesista non sia stata scelta per le sue competenze calcistiche, e questo è evidente, il dubbio di tanti è che Danielle sia stata scelta solo per lanciare uno di quei messaggi di inclusione che piacciono ai benpensanti. La meritocrazia pare sia stata definitivamente sacrificata sull'altare del politicamente corretto, con il risultato che agli occhi del pubblico la presenza di Madam appaia più una forzatura che un valore aggiunto nel commentare gli Europei. Più che parlare positivamente della sua bellezza e della sua educazione non si può fare. "Su Rai 1 hanno messo a condurre una ragazza che non è all’altezza e temo sia lì solo per lanciare messaggi politici. La citazione a Mattarella giusto per parlare della cittadinanza è roba pessima", ha scritto qualcuno durante la prima puntata del programma, andato in onda dopo Italia-Turchia. I suoi interventi sono avulsi dal calcio, materia che in studio è ad appannaggio degli uomini e tra loro non c'è nemmeno un commentatore di origine straniera o italiano di seconda generazione. Forse non avrebbero fatto notizia come la bella atleta di origine camerunense? Poi, certo, il problema di Notti europee non è la scarsa conoscenza del calcio da parte di Danielle, ci mancherebbe. Il programma è obsoleto e noioso di suo, ma Danielle non apporta un contributo tangibile e concreto. E la colpa, va detto, non è sua.

Da lastampa.it il 13 giugno 2021. La staffetta della torcia olimpica, simbolo di pace e integrazione, risale alla Grecia antica. Ma fu in preparazione delle Olimpiadi di Berlino del 1936 che nacque l'idea di creare un percorso che attraversasse diverse città per unire i Giochi Olimpici dell'antichità a quelli dell'era moderna. E proprio in quanto rito inaugurato dalla propaganda del Nazismo, secondo alcuni la torcia della staffetta oggi dovrebbe spegnersi.

Paolo Del Debbio per "la Verità" il 13 giugno 2021. «L'ignoranza non è una virtù». Lo disse Barack Obama, senza citarlo, riferendosi a Donald Trump in un discorso per l'inizio dell'anno accademico alla Rutgers University. Era il 2016. Ora siamo nel 2021 e parte dell'intellighenzia dei democratici americani, la stessa parte politica di Obama, vuole abolire gli studi classici latini e greci, quelli che là vengono chiamati «Classics». Sapete perché? Udite, udite: la cultura classica sarebbe all'origine della cosiddetta «white culture», la cultura dell'uomo bianco, dalla quale sarebbero derivati il colonialismo, il nazismo, il fascismo e soprattutto il razzismo. Non è servito a nulla neanche quello che ha detto uno dei più grandi studiosi afroamericani, Cornel West, che ha ricordato che «Martin Luther King leggeva Socrate». Niente da fare, l'università di Howard di Washington e nientepopodimeno che Princeton hanno decretato che queste materie vanno abolite per favorire una cultura non razzista e della diversità. In particolare, la facoltà di studi classici di Princeton ha deciso di eliminare l'obbligo, per i laureati in materie classiche, di conoscere il greco e il latino per poter poi accedere ai corsi di specializzazione, i «concentrations». Uno storico di Princeton, tale Dan-el Padilla Peralta, un classicista, ha dichiarato che spera che i greci e i romani siano tolti dal loro piedistallo pur a costo di distruggere la disciplina. Ora, anche all' ignoranza c' è un limite. Soprattutto se viene da università così prestigiose come Howard e Princeton. Tra l'altro a Princeton ci insegnò tale Albert Einstein che magari il nostro Padilla Peralta (da oggi in poi almeno nella nostra concezione sarà Padella Perbassa) considererà un minore, ma gli vorremmo ricordare che detto Einstein ripetute volte si rifece ad una cultura umanistica interrogandosi sul senso di ciò che stava facendo e sul senso del mondo. Per carità, Peralta forse da piccolo ha giocato al piccolo chimico e ha pensato di essere anche uno scienziato, a noi francamente ci pare poco più di uno stupido. Ma scusate, allora perché non vietare lo studio in tutte le facoltà teologiche americane del Vecchio Testamento perché in esso è rintracciabile un Dio della guerra o un Dio degli eserciti? Non è forse questa una evidente radice culturale guerrafondaia e antipacifista? Chissà se alla università di Howard e a quella di Princeton sanno che nello scorso secolo si sono moltiplicati gli studi sul Vecchio Testamento di tipo esegetico, filologico, ermeneutico? Detto in parole povere: studi che mirano a far capire cosa significano quelle cose nel tempo in cui sono state scritte e quindi a relativizzarle all' epoca della loro origine? Si dice che si vogliono togliere di mezzo i classici perché sarebbero all'origine della cultura dell'uomo bianco e quindi del razzismo. Chissà, se sanno che in Grecia è nata la filosofia e a Roma è nato il diritto? Perché la risposta a queste domande equivale ad un ko di Mike Tyson al primo round nei confronti di questi sapientoni democratici americani. In Grecia nacque la filosofia nell' agorà, nelle piazze, dove si discuteva usando la ragione e non appellandosi alla mitologia. Usare la ragione significa difendere le idee non per autorità (questo è il fascismo, questo è il nazismo e questo è il comunismo che stranamente non è citato) ma per autorevolezza, per ragionamento ad armi pari, la tua ragione contro la mia ragione: tu devi dimostrare che io ho torto non perché lo ha detto una divinità ma perché mi devi dimostrare che quello che dico è illogico, irragionevole, privo di senso. Il dissenso, la varietà di opinioni, sono la radice della democrazia che per l'appunto, guarda caso, è nata in Grecia ed è coeva dello sviluppo della filosofia antica. A Roma è nato il diritto ed è nato anche quello che si chiama diritto individuale, cioè il diritto di tutti indipendentemente dalle singole situazioni e dalle singole appartenenze, cioè il diritto che il cristianesimo chiamerà diritto della persona. Qui sono le radici dei diritti umani, Giustiniano è nato prima di Thomas Jefferson. La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d' America del 1776 viene dopo la Dichiarazione della Rivoluzione francese e viene anche dopo la Magna Charta del 1215. Non c' è storico del diritto che non riconosca le ascendenze greco-romano-cristiane di questa storia millenaria dei diritti individuali. Certo lo sappiamo tutti che in Grecia ci fu la schiavitù, lo sappiamo tutti che a Roma ci fu la schiavitù, e ci furono le persecuzioni dei cristiani di Nerone e Diocleziano perché non volevano sottomettersi ad uno Stato che si riteneva divino, la Statolatria. Sappiamo tutti la guerra che la chiesa fece a Galileo e della quale Giovanni Paolo II si scusò nei confronti dell'umanità intera. Quello che preoccupa è dover ricordare queste cose a due prestigiose università americane e ad alcuni dei loro esponenti. Da ora in poi personalmente comprerò qualsiasi abito senza le maniche perché Padilla, detto Padella, mi ha fatto cadere le braccia che di solito sono resistenti più di un'altra parte del corpo che però, comunque, mi ha personalmente messo a dura prova. Mi sono permesso un po' di ironia finale perché questa gente è a mala pena degna delle barzellette.

Dagotraduzione dal DailyMail il 13 giugno 2021. Il Guardian è stato deriso per aver bollato come razzista la tipica torta di mele. Uno dei suoi giornalisti che si occupa di cucina, Raj Patel, in un editoriale, ha scritto che il dessert americano è frutto del colonialismo e della schiavitù. Il pezzo incriminato si intitola «L’ingiustizia alimentare ha radici profonde: cominciamo con la torta di mele americana» e sostiene che la torta «ha origini sanguinose» ed è «americana come lo è la terra, la ricchezza e il lavoro che hanno rubato». Patel è un autore e documentarista indiano britannico che in passato si è descritto ha come «simpatizzante anarchico». È noto soprattutto per il suo libro "Stuffed and Starved: The Hidden Battle for the World Food System" che approfondisce le ingiustizie alimentari in tutto il mondo. Spiegando più dettagliatamente i suoi problemi con la torta di mele, Patel ha scritto su The Guardian: «Le mele hanno viaggiato nell'emisfero occidentale con i coloni nel 1500 in quello che veniva definito lo scambio colombiano, ma ora è meglio compreso come un vasto genocidio di popolazioni indigene». L'autore ha continuato dicendo che i colonizzatori inglesi usavano i meli «come indicatori di civiltà, vale a dire di proprietà» nelle nuove terre in cui si stabilirono. Ha aggiunto: «John Chapman, meglio conosciuto come Johnny Appleseed, ha portato questi segni di proprietà colonizzata alle frontiere dell'espansione statunitense, dove i suoi alberi simboleggiavano che le comunità indigene erano state estirpate». Rivolgendo la sua attenzione alla crosta della torta, Patel continua: «Non che lo zucchero sulla crosta sia unicamente americano». Ha poi spiegato come l'arrivo dello zucchero negli Stati Uniti nel 1700 sia stato indissolubilmente legato al commercio di schiavi francesi a New Orleans e che il Big Easy «era diventato un hub concomitante del commercio degli schiavi» mentre la popolarità dei piatti dolci cresceva. E allo sguardo di Patel non sfugge nemmeno il panno a quadretti su cui tradizionalmente si lascia raffreddare una torta di mele, secondo il giornalista risultato di un'appropriazione culturale. Ha spiegato che i nativi americani indossavano già il cotone quando Cristoforo Colombo sbarcò in America nel 1492. Patel ha bollato il commercio del cotone dell'Impero britannico come «capitalismo di guerra» e ha affermato che «ha schiavizzato e commesso atti di genocidio contro milioni di indigeni nel Nord America e milioni di africani e dei loro discendenti attraverso il commercio transatlantico degli schiavi». Ha aggiunto: «Nel processo, il cotone ha posto le basi della finanza, della polizia e del governo che hanno creato gli Stati Uniti». Il lungo pezzo di Patel ha continuato a prendere di mira «la violenza, lo sfruttamento, la povertà e il profitto», coinvolto nella produzione di oggetti innocui come una tavoletta di cioccolato, un panino al tonno o un bocconcino di pollo. Lo scrittore ha anche preso di mira il sistema di mance americano, dicendo che è stato originariamente creato per perseguitare i neri, così come le industrie di manzo e noci pecan, che secondo Patel sfruttavano i loro lavoratori. Ha concluso: «La storia del sistema alimentare statunitense è sempre stata, tuttavia, una storia di lotte. "Giustizia alimentare" è un termine comprensibile solo perché le comunità oppresse e sfruttate si sono organizzate per vendicarsi contro le predazioni del capitalismo statunitense», si legge. Gli utenti dei social media hanno continuato a prendere di mira il pezzo, pubblicato il mese scorso, con una scritta: «Secondo il quotidiano The Guardian (Londra), anche la torta di mele è razzista. Queste persone sono matte», ha twittato una persona.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 13 giugno 2021.

GENDER FLUID Altra espressione che è lecito rifiutare o neppure conoscere. Oltre vent'anni fa è stato coniato l'eterno neologismo metrosexual, passato alla storia come definizione di un uomo non gay ma attento alle mode, alla cura di sé, che si profuma, mette creme e insomma capito. In precedenza è roba che non c'era: c'erano direttamente i gay o dei fantasmi che comparivano solo sulle riviste di moda. A spingere, ovviamente, c'era un mercato che non vedeva l'ora di raddoppiare determinate entrate, con l'editoria e il mondo fashion a raccontarti che la donna disdegnava il bruto ed era orientata all'uomo ben curato, addirittura al narcisista. È nata anche così una generazione in parte soporifera e noiosa, con barbe inutili già a vent'anni, oppure, ecco, senza un pelo, sempre al centro estetico a farsi depilare il sedere e la schiena e le gambe e le braccia e l'ascella e il petto e le orecchie e le nocche e pure il pene. Il residuo di virilità è ricercato nello sport inteso come fabbrica per scolpire il corpo. Se qualcuno vuol parlare o scrivere di frocizzazione dell'uomo, dovrebbe essere libero di farlo.

GUERRA La sostanziale soppressione del termine «guerra» resta una formidabile vittoria della sinistra dalemiana: di volta in volta è divenuta missione di pace, intervento umanitario e operazione di polizia internazionale. Le discussioni su una cosiddetta resistenza irachena (altri l'hanno chiamata terrorismo) ne sono state la mera conseguenza.

GRASSO Si dice sovrappeso. 

GREASE, FILM È finito sotto accusa il verso della canzone Summer Nights che recita «Tell me more, teli me more/did she put up a fight?», ossia «dimmi di più, dimmi di più, lei ha fatto resistenza?».  Bullismo maschilista riguarderebbe invece una scena in cui un ragazzo si corica a terra per spiare sotto la gonna di due studentesse. 

HANDICAPPATO/DISABILE Qui è un casino. La prima espressione faceva fico negli anni Ottanta, l'altra ha fatto breccia dai Novanta. Nel 1999 l'Organizzazione mondiale della sanità ha deciso che «disabilità» era un termine positivo mentre «handicap» no, eliminando quest'ultimo da ogni documento. Da allora è stato un susseguirsi di espressioni e contro-espressioni, come se tutti potessero star loro dietro. «Invalido» è diventato offensivo, secondo alcuni anche «inabile», offensivo anche «menomazione» o secondo alcuni anche «disabilità». Spiegazione: non si deve dire «malato di» e «soffre di», perché la disabilità non è una malattia; non si deve dire neanche menomato e appunto handicappato e neppure «portatore di», perché «portare» indica un vincolo e quindi uno svantaggio, e tra l'altro chi porta qualcosa dovrebbe avere la possibilità di lasciarla quando vuole. Avete imparato a memoria?

HUME, DAVID Noto pensatore illuminista il cui nome, dopo le pro-teste del movimento Black Lives Matter, è stato tolto da una Torre dell'Università di Edimburgo perché definito «razzista» e «schiavista». Si segna, a futura memoria, che Pier Paolo Pasolini ebbe rapporti con minorenni, Pablo Neruda confessò lo stupro di una donna delle pulizie in Sri Lanka, Paul Verlaine sparò ad Arthur Rimbaud e cercò di dare fuoco a sua moglie, lo stesso Rimbaud fu mercante d'armi e acquirente di schiavi, Benvenuto Cellini fu assassino reo confesso.

IDENTITÀ DI GENERE Pronti, via: i cisgender sono quelli che si riconoscono nel loro sesso biologico (vagina uguale donna, pene uguale uomo) ma possono comunque dividersi in eterosessuali e persone omosessuali; i transgender si riconoscono nel genere opposto (ho il pene, sono una donna) o in un genere intermedio; i transessuali di norma sono cisgender che si sono operati; i non-binari non riconoscono che esistano solo due sessi; i genderqueer, un po' come quelli di prima, ritengono di costituire un personalissimo mix tra uomo e donna; i genderfiuid a volte si sentono uomo, a volte donna o si stanno ancora facendo delle domande; gli agender rifiutano di essere identificati in un genere; gli intersessuali biologicamente non sono né maschio né femmina (stando a cromosomi, ormoni e genitali). Chiedetevi quanto sia stato semplice compilare questa voce. 

IDIOTA Occhio, perché è una sindrome psichica che - unitamente all'imbecillità - fa parte di un gruppo di malattie mentali. Come per il cretino (cretinismo) prima o poi salterà fuori un'associazione di genitori di idioti che lamenterà offesa e discriminazione. 

INTEGRAZIONE Bisogna dire «inclusione», anche se non sono sinonimi manco per niente. Se poi dite «interazione» e «assimilazione», quelli di Emergency vi stendono la passatoia.

LESBICA Suona male ma si può dire: solo in Italia, però. Nel mondo anglofono si dice gay anche per le donne, da noi no, le donne non sono d'accordo, così la denominazione di Arcigay (1985) dopo qualche anno riconobbe il nome di Arcigay-donna che poi divenne Arcigay-Arcilesbica fino alla scissione in Arcigay e Arcilesbica. 

LGBT Espressione infelice e pochissimo musicale che è l'adattamento di Lgb che sostituiva «gay» che secondo alcuni non rappresentava bene tutti i gay. L'acronimo Lgbt doveva enfatizzare la diversità delle culture basate su sessualità e identità di genere, o essere usato per distinguere chi fosse non-etero-sessuale e non-cisgender (cominciano i casini) rispetto a chi fosse solo lesbica, gay, bisessuale o transgender. Infatti molti gay rifiutano Lgbt e aggiungono una Q per identificarsi anche nei «queer» o in coloro che stanno ancora «interrogando» la propria identità: da qui la sigla Lgbtq, che esiste da 12 anni anche se altre persone denominate «intersessuali» suggeriscono di estendere l'acronimo a Lgbtqi. Le varianti insomma lottano tra loro e Lgbt e Glbt sono i termini più comuni (Lgbt è più femminista, perché la L sta per lesbica) ma tutto si riduce a Lgb quando non include i transessuali. Ma nel mondo ci so-no un sacco di varianti linguisti-che, sennò era semplice.

LGBT/2 Il solito «Manifesto delle giornaliste» eccetera ha invitato a utilizzare «il corretto linguaggio di genere come raccomandato dalla comunità Lgbt». Va da sé che del corretto linguaggio di genere raccomandato dalla comunità Lgbt ce ne si può anche fottere. 

LORO Un gruppo di donne statunitensi (perlopiù cantanti e amici) ha deciso che per «superare la fluidità di genere» vogliono che gli si dia del «loro» (they) in quanto persone non binarie, ciò che in Italia è un'antiquata allocuzione di cortesia che oggi adottano («loro cosa prendono?») solo i vecchi camerieri. 

MANICOMIO Dovete dire centro di salute mentale. 

MALATO Questa parola è stata abolita perché è da insensibili. Bisogna sempre «persona affetta da», «persona colpita da». 

MALINTESO Abolito. Non c'è nessun malinteso, sei un razzista.

METOO Movimento d'importazione degli Stati Uniti più moralisti e protestanti; corrisponde alla denuncia di una donna che negli ultimi 50 anni abbia fatto concessioni sessuali per fare carriera, spiegando d'aver capito solo a posteriori che avrebbe preferito fare carriera senza concessioni sessuali. L'esito, oltre a far processare dei personaggi indifendibili che però hanno favorito centinaia di carriere femminili, è stato quello di adombrare sospetti su ogni donna che ne abbia fatta una, nonché di mettere su uno stesso irrispettoso piano gerarchico donne gravemente violentate e attricette un po' puttanelle. 

MONGOLOIDE ECC Non si deve dire ritardato, handicappato mentale oppure down perché è sbagliato identificare una persona con la sua disabilità o la sua sindrome. Mongoloide viene considerato dispregiativo e la relazione tra la popolazione mongola e le persone con sindrome di Down (i mongoloidi) è arretratezza culturale. Si deve dire «persona con disabilità intellettiva» o «persona con sindrome di Down». Marco Travaglio, in tv dalla Gruber, disse «mongoloidi» facendo un discorso sugli elettori grillini, poi dovette precisare: «Intendevo far notare che si stava trattando otto milioni di elettori come altrettanti handicappati mentali», ma si cacciò in un altro guaio (vedi voce).

MOZART Secondo il Guardian, ripreso dal Messaggero, gli insegnamenti musicali universitari in Gran Bretagna sono sotto pressione affinché modifichino gli insegnamenti decolonizzando i corsi di studi e cancellando autori e opere considerate suprematiste: ridimensionamento per Mozart, Beethoven e Bach. Secondo il Telegraph, la musica insegnata a Oxford è stata ritenuta dallo stesso collegio dell'università «il prodotto di una concezione colonialista dell'arte, troppo concentrata sulla musica europea bianca del periodo degli schiavi». Gli spartiti (in realtà s'intendono le partiture) sono considerati un «sistema rappresentativo colonialista» e si aprirà a musicisti di origine coloniale. Quali? L'unico citato è Joseph Boulogne, violinista e compositore francese di origi-ne africana vissuto nel Settecento. L'obbligatorietà di alcune abilità come suonare la tastiera o dirigere un'orchestra, dicono, causa «gran-de disagio agli studenti di colore».

NEGRO Qui andiamo ai pazzi. Negro un tempo andava bene (vedi un sacco di canzoni) e nessuno pensava che la negromanzia fosse una tratta schiavista o che le celebri carte «Dal Negro» fossero roba da Ku Klux Klan. La parola negro nelle diverse regioni italiane è usata, ed è presente nella maggioranza dei vocabolari. Il complatore, alle medie, fu costretto a leggere «Ragazzo Negro» di Richard Wright (Black Boy). Poi si passò a «nero» che ricordava l'anglo-americano black («Black power») e a «di colore» che veniva da «coloured». «Il 24 per cento degli italiani non vorrebbe avere una relazione sentimentale con un negro», scriveva il settimanale Epoca nel 1987. Oggi è vituperio. L'espressione «di colore», per contro, è derisa dai neri-negri secondo i quali di colore siamo solo noi bianchi: rosa alla nascita, rossi al sole, blu al freddo e grigi da morti. Negli Usa ci sono state commissioni per eliminare la parola «negro» dai libri di Mark Twain e da altri ancora. Qualcuno ha tentato d'introdurre «afroasiatico» o «afroamericano» (sette sillabe) prima di acquietarsi - da noi - sull'evasivo extracomunitario o immigrato di colore, inteso quasi sempre come color marrone. Se i bianchi li chiamassimo «biancri» risolveremmo ogni problema. 

NEGRO/2 In California il professor Greg Patton dell'università Usc è stato sospeso perché durante una lezione di comunicazione aziendale ha spiegato il significato dell'intercalare cinese «nei ge» il cui suono ricorda un'espressione razzista in inglese. 

NEGRO/3 Alla Bbc, il direttore della diversità Miranda Wayland (esiste tale carica) ha detto che il dramma poliziesco Luther (10 milioni di spettatori, venduto in 200 paesi del mondo) «non sembra autentico» perché il protagonista, Idris Elba, «non ha amici neri e non mangia cibo caraibico». La casa di produzione ha difeso formalmente il personaggio. 

NON C'è stato un moto contro-rivoluzionario e il «non» davanti a qualcosa è diventato scorretto. La comunità dei sordi, ad esempio, si dichiara appunto sorda anziché «non-udente», così come i ciechi si autodefiniscono «ciechi» anziché «non-vedenti». Si sono stufati. Ma i maestrini della parola insistono: si deve dire «persona con disabilità sensoriale», «persona con disabilità visiva (o disabili visivi)», «persona con disabilità uditiva», «persona con deficit visivo» e «persona con deficit uditivo». Due palle. Dicono così perché non devono fare i titoli sui giornali. 

ODIO In teoria non si può scrivere di odiare qualcosa. Se si additasse qualcuno, si può capire: sarebbe istigazione. Ma a quanto pare non si può odiare neppure un movimento religioso e culturale come l'Islam. Lo scrivente, per quest'ultimo caso, fu sospeso per 3 mesi da professione e stipendio, pena poi riconvertita in semplice ammonimento. 

PARALITICO Si dovrebbe dire «non deambulante». 

PERVERTITO Gli ignoranti lo usano come sinonimo di omosessuale, ma il pervertito è un malato interessato a pratiche di pedofilia, zoofilia, necrofilia, feticismo, esibizionismo eccetera. Oggi comunque si dice «affetti da parafilia».

PATRIA La scrittrice femminista supercorretta Michela Murgia ha sostenuto che dovremmo chiamarla «Mania»: dice che Patria «è l'estensione del maschile genitoriale» (ius sanguinis e ius soli) che coi suoi patriarcati, nazionalismi e patriottismi squalifica lo stare insieme. La «Mania», invece, è la prima cosa amata, nutre e si prende cura, non evoca autorità ma gratitudine. Ora: a parte che non sapremmo collegare questa visione col fatto che la Murgia è favorevole all'indipendenza della Sardegna, alla scrittrice sfugge che nulla è già più femminile del concetto di Patria, cioè di «terra». Si dice, non a caso: la Madre Patria.

PEPPA PIG Divenne celebre una mozione del Parlamento europeo che attaccava il cartone animato «Peppa Pig» perché infastidiva i musulmani e perché i bambini restavano ignari dei maltrattamenti riservati alle bestie.

PIO E AMEDEO, CASO Sono due comici che in televisione hanno detto che non contano le parole ma le intenzioni che hai nell'usarle, quindi hanno rivendicato la libertà di parlare di neri o gay con termini ritenuti offensivi e discriminatori. La frase chiave è questa: «Se vi chiamano ricchioni, voi ridetegli in faccia perché la cattiveria non risiede nella lingua e nel mondo ma nel cervello: è l'intenzione. L'ignorante si ciba del vostro risentimento». 

POVERO Si dovrebbe dire «di modeste condizioni sociali».

QUOTA Pretesa di affidare incarichi in base a doti non meritocratiche. In realtà non ne parla più nessuno tranne Rula Jebreal (buon per voi, se non sapete chi è) che infatti non si capisce che professione svolga. In concreto ci sono molti lavori (magistrati, avvocati, medici) in cui le donne stanno raggiungendo la parità da sole o in virtù di un riequilibrio fisiologico. Non mancano settori in cui le quote si applicano agli uomini: per esempio in Germania, dove mancano lavoratori maschi nel campo dell'educazione: scuola, università e asili. In compenso nessuno reclama quote rosa per professioni ingrate che salvaguardano le donne da cantieri, cave, miniere, fonderie e pozzi petroliferi, laddove risultano uomini il 97 per cento dei morti sul lavoro. RAZZISMO Espressione usatissima che andrebbe abolita perché è ormai provato che le razze non esistono, anche se sopravvivono come creazioni simboliche a ridosso di etnie e culture. Molto meglio parlare di xenofobia. 

RICCO Se è un amico, è benestante.

ROTH, PHILIP La casa editrice Norton and Company ha ritirato un'attesa biografia del notissimo scrittore Philip Roth (scritta da Blake Bailey) su cui erano emerse accuse di abusi sessuali: avrebbe danneggiato l'immagine della casa editrice, hanno detto. In Italia l'ha pubblicato Einaudi.

“Un popolo che difende la propria identità non è razzista” sulle bustine di zucchero: è polemica. Valentina Mericio il 09/06/2021 su Notizie.it. Una frase dallo sfondo sovranista scritto su alcune bustine di zucchero ha creato particolarmente scalpore. Si tratta di bustine fuori produzione. “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”, questa la frase riportata su alcune bustine di zucchero che sono state riprese in un noto bar di Manduria in provincia di Taranto. Stando a quanto appreso dal quotidiano “La Repubblica” la scritta incriminata fa parte di una serie di bustine con aforismi presi da internet che non sarebbe più in produzione. Nel frattempo la bustina con la stessa frase è stata avvistata anche in altre città come Palermo, Roma e Cagliari. “Ma è normale; serviamo un numero di bar enorme ed esportiamo che negli Stati Uniti”. La scritta dallo sfondo sovranista ha fatto scatenare non poche polemiche, grazie anche agli avvistamenti degli utenti di bustine simili in molte altre parti d’Italia. L’azienda produttrice in questione è la Royal Sugar, un’azienda con sede posta a Manduria in provincia di Taranto. Interpellata dal quotidiano “La Repubblica” la titolare di Royal Sugar Valentina Troiano ha reso noto che si tratta di aforismi presi da internet. e pertanto senza colore politico. Ad ogni modo la titolare di Royal Sugar ha messo in evidenza come la frase in questione a suo dire non sarebbe razzista, mettendo in evidenza quanto il problema piuttosto possa essere un altro. “Non vedo nulla di razzista nella frase incriminata il problema, semmai, è che quelle stampe risalgono a qualche tempo fa, lo zucchero potrebbe essere scaduto” ha spiegato al proposito la titolare di Royal Sugar. “Si tratta di una vecchia serie di stampe ora fuori produzione” […] ha spiegato la titolare aggiungendo come tutte le frasi non sarebbero altro che presi da internet aggiungendo quindi come “serviamo un numero di bar enorme ed esportiamo che negli Stati Uniti”. Nel frattempo sono moltissimi i commenti dalla parte delle persone che hanno voluto dire la propria. “Se loro possono fare questi accostamenti, allora si può fare pure l’accostamento tra “informazione” e “propaganda”, ha scritto un utente su Twitter, mentre c’è chi ha scritto: “Identità non corrisponde a razzismo ma corrisponde a comunità territorio tradizione cultura, il razzismo è un’altra cosa, il razzismo lo subisce chi viene etichettato”

“Popolo che difende la propria identità non è razzista”/ Bustine zucchero sovraniste? Alessandro Nidi su Il Sussidiario l'08.06.2021. Il caso delle bustine di zucchero “sovraniste” scuote il web: si tratta di una frase a sfondo politico o di una sfortunata casualità? Polemica a Manduria, in provincia di Taranto, per una frase impressa su alcune bustine di zucchero: “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”. A dare la notizia dell’accaduto è il quotidiano “La Repubblica”, che ha deciso di indagare sulla questione, contattando direttamente l’azienda produttrice, la “Royal Sugar”, specializzata proprio nel packaging delle bustine di zucchero distribuite poi in tutto lo Stivale. Essa ha sede in provincia di Potenza, più precisamente a Muro Lucano, e per bocca della sua titolare, Valentina Troiano, ha reso noto che quello slogan è già stato rimosso dalla nuova “collezione”. Come ha precisato l’intervistata, si tratta in particolare di una serie di stampe effettuate in passato e andate già fuori produzione, riportanti aforismi estrapolati dal web e non riconducibili a una particolare ideologia o a uno specifico pensiero di matrice politica. Peraltro, bustine analoghe sono state ritrovate anche in altre zone del nostro Paese, come Palermo, Cagliari e Roma, ma la cosa non deve sorprendere: “Royal Sugar” rifornisce un numero importante di bar in tutta Italia ed esporta i suoi prodotti anche all’estero, con particolare riferimento agli Stati Uniti d’America. Il caso della frase “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”, riportata su alcune bustine di zucchero rintracciate nei bar di diverse città d’Italia, inclusa Manduria, in Puglia, ha scatenato un ampio dibattito in rete, ma Valentina Troiano, titolare della “Royal Sugar”, ha affermato ai microfoni de “La Repubblica” di non rilevare nulla di razzista nella frase incriminata, aggiungendo che, semmai, il vero problema risiede nel fatto che quelle stampe risalgono a qualche tempo fa e, di conseguenza, lo zucchero potrebbe essere scaduto. Intanto, non si riesce a risalire con esattezza all’autore di questa citazione, di questo aforisma: “La Repubblica” scrive che, effettuando una rapida ricerca in rete, i risultati restituiti da Google “conducono a pagine Facebook di estrema Destra”.

“Un popolo che difende la propria identità non è razzista”: è polemica sulle bustine di zucchero. Clarissa Valia l'8 Giu. 2021su tpi.it. “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”. È la scritta stampata su alcune bustine di zucchero “sovraniste” fotografate a Manduria, in provincia di Taranto, finite nella polemica. A riportare la notizia è Repubblica. Il quotidiano ha chiesto spiegazioni all’azienda produttrice, la Royal Sugar, azienda di Muro Lucano (in provincia Potenza). La titolare Valentina Troiano ha risposto che lo slogan che inneggia alla difesa della razza è stato rimosso dalla nuova linea di bustine di zucchero, aggiungendo: “Si tratta di una vecchia serie di stampe ora fuori produzione” […] che spiega come tutte le frasi siano “aforismi presi da internet”, più che manifestazioni di un pensiero politico. Altre bustine con la stessa frase sono state fotografate anche a Cagliari, Palermo e Roma, “ma è normale”, spiega ancora la titolare, “serviamo un numero di bar enorme ed esportiamo che negli Stati Uniti”.

CLARISSA VALIA. Nata il 26 aprile 1991 da Milano si trasferisce a Roma. Ha studiato presso l'Università statale di Milano. Dal 2018 lavora a TPI dove si occupa di produzione contenuti pop e news.

Taranto, al bar le bustine di zucchero inneggiano alla difesa della razza. Simone Fontana su La Repubblica l'8 giugno 2021. Lo slogan dall'inconfondibile sapore sovranista è opera della Royal Sugar, azienda di Muro Lucano che si difende: "Aforismi presi da Internet". "Un popolo che difende la propria identità non è razzista": le bustine da zucchero 'sovraniste' arrivano dalla Lucania. Il caffè espresso è una delle eccellenze italiane più conosciute al mondo ma qualcuno deve aver preso questo tratto distintivo decisamente troppo sul serio, come testimoniano alcune bustine di zucchero rinvenute a Manduria, in provincia di Taranto. Lo slogan dall'inconfondibile sapore sovranista è opera della Royal Sugar, azienda di Muro Lucano (in provincia Potenza) specializzata nella produzione e nel confezionamento delle bustine di zucchero destinate ad addolcire i caffè di tutta Italia.

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia l'8 giugno 2021. Caro Dago, basta, la misura è colma, anche il recalcitrante tenutario di questa rubrica sceglie di dire qualcosa di Politicamente Corretto, perché di fronte alla barbarie manifesta bisogna prendere atto e reagire. Che spettacolo gretto, questo vicepresidente degli Stati d’Uniti America che, in visita nel povero Guatemala, con alle spalle tutta l’opulenza del capitalismo yankee e la sicumera del complesso militare-industriale, si rivolge in quel modo agli ultimi, ai diseredati, ai dannati della terra. “Voglio parlare molto chiaro con chi sta pensando di fare quel pericoloso viaggio tra Stati Uniti e Messico”. E già qui sguazziamo in un pericolo equivoco sovranista, quei disgraziati non “stanno pensando” di migrare, sono obbligati a farlo, per impellenti motivi economici, sociali, perfino climatici, che ormai solo i pochi miscredenti del Vangelo secondo Greta negano. Ma il peggio viene ora: “Non venite. Non venite”. Scandito così, due volte, con pausa scenica e una durezza d’animo che nemmeno “Salvini&Meloni”, ormai un unico sintagma per indicare l’abiezione umana e politica, come da sacrosanto utilizzo sdoganato da Roberto Saviano. Insiste, il vicepresidente, e sicuramente da qualche parte deve ancora tenere gelosamente custodita la tessera del Ku Klux Klan: “Gli Stati Uniti continueranno a far rispettare le nostre leggi e a proteggere il nostro confine”. Questo è davvero inaudito, la persuasione razzista che la legge oltre che per i cittadini del proprio Paese debba valere anche per gli immigrati clandestini e i loro “organizzatori”, come se una Carola Rackete non fosse libera di forzare blocchi, speronare motovedette militari e mettere a rischio la vita di uomini in divisa, siamo davvero alla notte della civiltà. “Esistono modi legali con cui la migrazione può e deve avvenire”, è il virgolettato a rinforzo, di chiara ispirazione trumpiana. E poi la sottolineatura ridondante, tipica di una nazione buzzurra costruita sulla Colt: “Se verrete al nostro confine, sarete rimandati indietro”. Teorizza il respingimento sistematico dei clandestini, questo vicepresidente, siamo all’instaurazione del fascismo in America. E quando cerca di indorare la pillola è perfino peggio, perché rispolvera la retorica tipica di tutte le destre nazionaliste, quella dell’ “aiutiamoli a casa loro”. “L’amministrazione Usa vuole aiutare i guatemaltechi a trovare spazio in patria”. Chiude proprio così, con la parola proibita, maledetta, bandita dagli aperitivi arcobaleno della gente che piace, “patria”, questo pseudoconcetto etnicista, novecentesco, in odor di mai sopite nostalgie nazionalsocialiste. Come dici, caro Dago? Il vicepresidente in questione è una vicepresidentessa? Una vicepresidentessa di colore, di madre indiana e padre di origini giamaicane (per stare all’obsoleta distinzione reazionaria precedente a genitore 1/ genitore 2)? È la vicepresidentessa di colore nuova star indiscussa del Partito Democratico, l’ala sinistra e patinata rispetto a quell’attempato maschio bianco di Joe Biden, così indietro sui tempi? La Madonna Pellegrina del politically correct globale, quella che risplende al riparo dalla critica e dall’ironia (chiedere a quel becero del professor Marco Bassani, sospeso dalla Statale di Milano perché aveva condiviso spiritosaggini social sulla vicepresidentessa), quella che a detta del Giornalone Unico avrebbe spalancato un’era di magnifiche sorti e progressive e inclusiviste dopo l’orrenda stagione dell’orco Trump (un altro che voleva contrastare l’immigrazione di massa e presidiare le frontiere, ma senza alcuna grazia e con la stampa contro), insomma stiamo parlando di Kamala Harris? Chiedo venia, cancella tutto, mi scuso e sollevo questo sito da ogni responsabilità. 

Da Adnkronos.com l'1 giugno 2021. Nome in codice: Alpha. Dietro questa lettera non si nasconde un agente segreto, ma la nuova “identità” della variante inglese di Sars-CoV-2 (B.1.1.7). La sudafricana (B.1.351) da oggi è Beta. La brasiliana (P.1) Gamma. Una delle sub-varianti di quella indiana (B.1.617.2) è Delta. Sono le nuove etichette assegnate dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha deciso di “ribattezzare” le varianti - sia quelle classificate come “preoccupanti” (Voc) che quelle d'interesse (Voi) - utilizzando le lettere dell'alfabeto greco. Motivo della scelta? Avere etichette «semplici, facili da citare e ricordare per le varianti chiave del virus che causa Covid-19», spiega l'agenzia Onu per la salute informando sulla novità. «Queste etichette sono state scelte dopo un'ampia consultazione e una revisione di molti potenziali sistemi di denominazione». L'Oms ha convocato un selezionato gruppo di partner di tutto il mondo per farlo, incluso esperti che si occupano di sistemi di denominazione esistenti, esperti di nomenclatura e tassonomia dei virus, ricercatori e autorità nazionali. «Queste etichette - viene precisato - non sostituiscono i nomi scientifici esistenti (ad esempio quelli assegnati dalle organizzazioni Gisaid, Nextstrain e Pango), che trasmettono importanti informazioni scientifiche e continueranno ad essere utilizzati nella ricerca».  Ma questi nomi scientifici, fa notare l'Oms, «possono essere difficili da pronunciare e ricordare e sono soggette a inesattezze nel modo in cui vengono riportate». Le lettere dell'alfabeto greco con cui vengono rinominate hanno anche un'altra missione: tentare di slegare la variante dalla localizzazione geografica. Proprio per la difficoltà di usare codici numerici, spesso «le persone ricorrono alla scelta di chiamare le varianti in base ai luoghi in cui vengono rilevate, il che è stigmatizzante e discriminatorio - osserva l'Oms - Per evitarlo e per semplificare le comunicazioni pubbliche, l'Oms incoraggia le autorità nazionali, i media e tutti ad adottare queste nuove etichette».

DAGONEWS l'1 giugno 2021. I genitori di una scuola privata d’elite di New York sono furiosi dopo aver scoperto che ai figli di sette anni sono stati mostrati dei video educativi in cui si parlava di “pene in erezione” e "masturbazione". Gli alunni della prima elementare della Dalton School hanno guardato clip del cartone animato sull’educazione sessuale AMAZE durante una lezione. In uno dei filmati un bimbo chiede: «Ehi, come mai a volte il mio pene diventa grande e punta in aria?». Dopo che un personaggio adulto spiega cos’è un’erezione, il piccolo risponde: «A volte mi tocco il pene perché mi fa sentire bene». Una bimba aggiunge: «A volte, quando sono nella vasca da bagno o quando la mamma mi mette a letto, mi piace toccarmi la vulva». A finire nella bufera sono stati anche gli insegnanti e il loro modo di spiegare ai bambini il consenso: ai piccoli è stato detto di non lasciare che i loro genitori o nonni li tocchino senza prima chiedere il permesso. I genitori della scuola che pagano una retta annulae di 55.210 dollari sono furiosi. Una mamma ha detto al New York Post: «Sto pagando 50.000 a questi stronzi per dire a mio figlio di non lasciare che suo nonno l'abbracci quando lo vede?». Un'altra mamma ha detto che i genitori erano "incazzati" e "inorriditi nell'apprendere che questi filmati sono stati mostrati ai bambini di prima elementare di sei e sette anni senza che noi lo sapessimo e senza il nostro consenso». Gli insegnanti hanno spiegato che la parola "masturbazione" non è utilizzata esplicitamente nei video e che le lezioni hanno lo scopo di aiutare gli alunni a conoscere il proprio corpo e il proprio genere. Un portavoce della scuola ha dichiarato: «Come parte del curriculum completo della Dalton sulla salute degli studenti, la lezione su Gender & Bodies includeva due video appropriati per bimbi dai quattro anni in su».

Ezio Greggio asfalta così il politicamente corretto. Francesca Galici l'1 Giugno 2021 su Il Giornale. Diretto e sincero come sempre, Ezio Greggio ancora una volta ha criticato il politicamente corretto e l'assurdità della censura moderna. Ezio Greggio è uno dei senatori della televisione commerciale italiana, una delle colonne della comicità del nostro Paese. Il suo nome è legato da oltre 30 anni a quello di Striscia la notizia ma in realtà l'attore e conduttore è anche il patron del Montecarlo Film Festival de la comédie, un evento che quest'anno celebra il suo 18esimo compleanno. Non si può certo dire che Ezio Greggio sia un amante del politicamente corretto, anzi. La sua comicità e la sua ironia sono da sempre pungenti e taglienti, tanto che in due interviste rilasciate al sito Leggo e al quotidiano Libero, l'attore si lascia andare a una critica non certo velata contro la deriva della comunicazione. "Il politically correct è 'scorrect', secondo questo principio dovrebbero prendersela anche con le vignette quotidiane di Giannelli sul Corriere della sera: una simile censura è sbagliata. Io difendo l’umorismo e la libertà d’espressione", ha dichiarato Ezio Greggio a Leggo riferendosi alla polemica montata poche settimane fa contro Michelle Hunziker e Gerry Scotti a Striscia la notizia. Per giorni si è parlato della gag sugli occhi a mandorla e sull'aver volutamente parodiato la pronuncia cinese modificando la "erre" con la "elle". Un siparietto che al programma e ai due conduttori è costato la gogna social internazionale. E a Libero, a tal proposito, ha dichiarato: "Suvvia, stiamo parlando di una battuta sugli occhi a mandorla! Ormai siamo a un livello di censura che manco negli anni '20... Ho molti amici cinesi, persone fantastiche e ironiche, che non si sono affatto offesi. Anzi, uno di loro scherzando mi ha detto: "Ma se allora sentissero le battute che facciamo noi sugli italiani, ci caccerebbero dal Paese..."". Ezio Greggio ampliando il discorso con il sito Leggo, ha condannato i paletti e i limiti imposti dal politicamente corretto alla libertà di espressione: "È un’esagerazione che tende ad imprigionarci. A mio avviso Striscia non ha fatto nulla di male, ormai ce la prendiamo per le sciocchezze ma io e Antonio Ricci abbiamo sempre scherzato su tutti e non era mai irriverente. Ora invece troviamo i soliti quattro censori del cavolo che vogliono tapparci la bocca e farci vestire tutti uguali". Ezio Greggio dalle pagine di Libero ha criticato con decisione il concetto delle quote rosa: "Io me ne fotto del numero di registe donna o delle quote rosa nei Festival. Se un film è terribile, non lo seleziono: non c'è regista che tenga! La scelta deve essere di merito, non politica".

Michela Proietti per il "Corriere della Sera" l'1 giugno 2021. «La nuova Velina Bruna è stata finalmente trovata. Si chiama Elisabetta Canalis. È una splendida ragazza di Sassari, ventenne, figlia di un primario radiologo». Era il 1999 e Claudio Sabello Fioretti, sulle pagine di 7, scriveva con il tono da fumata bianca la fenomenologia di Elisabetta Canalis. Svelando, tra le altre cose, che Antonio Ricci l' aveva scelta non perché palesemente bellissima, ma «per la faccia da polla», ovvero per quello sguardo che davanti a telecamere e obiettivi sembrava voler dire: «Dove sono? Che ci faccio qui? Dove devo guardare»? Oggi, che la ragazza fosse tutto fuorché «polla», è stato dimostrato dai fatti: la più longeva delle veline italiane, sineddoche vivente, la parte per il tutto, è diventata il simbolo eterno della professione più ambita da tante ragazze, almeno fino all' avvento delle influencer. Ma nel frattempo lei ha cambiato pelle più volte, ed è diventata anche influencer da 2,8 milioni di follower su Instagram, a cui ha sommato gli altri 1,4 milioni di Twitter. Un tesoretto che Elisabetta Canalis, 42 anni, naturalizzata americana, non ha dissipato, ma ha saputo far fruttare, facendo e dicendo cose dell' altro mondo. Dall' America, dove vive con il marito Brian Perri, luminare dei tumori spinali, e la figlia di 6 anni Skyler Eva, è intervenuta in difesa dei rifugiati (che ha ospitato a casa sua), del corretto stile di vita e dei diritti degli animali (è stata testimonial della Peta, posando nuda). E ora ha deciso di parlare per svegliare la coscienza degli italiani che, osservati a distanza, le sono sembrati intruppati in un gregge. È bastato un tweet per trasformarla nella nuova maître à penser, con endorsement non secondari come quelli di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. «Penso che la direzione che stiamo prendendo è quella del dovere esprimere un pensiero a senso unico, censurando e censurandoci per il terrore di essere bollati come misogini, omofobi o razzisti. L' Italia è un Paese libero e così dovrebbe rimanere», ha scritto su Instagram. Un punto di vista reso ancora più controcorrente perché maturato in America, la patria del politically correct, della surrogata e del #metoo. «Non penso che l' Europa debba omologarsi alle follie del politically correct che si vedono sempre più spesso altrove, anche perché a livello di diritti umani e di umanità in generale abbiamo tanto da insegnare a molte nazioni». Parole che non sono passate inosservate, anzi, c' è già qualcuno che a destra grida «Elisabetta for President», elogiata perché «chiara e coraggiosa» e stimata perché «non sceglie la via facile delle superstar in ginocchio per la nuova religione Lgbt pro ddl Zan». Forse neppure lei - impegnata in adozioni nei canili e a sostituire Cindy Crawford nella campagna mondiale dell' acqua San Benedetto (per la quale si parla di ingaggio record) - avrebbe immaginato un' eco simile. La figlia della buona borghesia di Sassari, che nel 1999 giurava che mai e poi mai avrebbe sposato un calciatore, «piuttosto un fantino» (promessa in parte mantenuta), oggi è pronta al ritorno in patria, con famiglia al seguito. Quasi una Meghan Markle, che si è fatta giurare dal marito americano di invecchiare in Italia, a Milano o in Sardegna, dove la prima volta che lo ha invitato l' ha messo in guardia: «Non vieni a Porto Cervo, è una Sardegna diversa, più bella». E che ora, mentre ha messo a fuoco il proprio inglese e le proprie idee si candida - come una duchessa emancipata - a ritagliarsi un posto nel dibattito sociale e forse politico.

Dagotraduzione dal DailyMail l'1 giugno 2021. Secondo il Charleston Trust, che gestisce il ritrovo in campagna di John Maynard Keynes, il grande economista era razzista e sostenitore delle teorie eugenitiche sull’allevamento selettivo della razza.Keynes, morto nel 1946, diede il suo nome al "keynesismo" – un ramo dell'economia basato sulla convinzione che l'intervento del governo possa migliorare le condizioni economiche. Tuttavia, informazioni suggeriscono che Keynes - considerato un pensatore di sinistra - aderisse a opinioni velenose secondo cui le guerre razziali e la segregazione globale sarebbero necessarie per «proteggere il nostro standard di vita da attacchi per mano di razze più prolifiche», riporta il Telegraph. L'inquietante storia è venuta alla luce in seguito a un riesame delle convinzioni del Bloomsbury Group "liberale", un circolo di amici "bohémien" dei primi del '900, frequentato da Virginia Woolf, EM Forster e dal critico Lytton Strachey. Il gruppo si formò quando alcuni ex studenti del Trinity’s and Kimngs Colleges di Cambridge iniziarono a incontrarsi in una casa vicino Bloomsbury Square, nel centro di Londra, per poi spostarsi dalla sorella di Virginia Woold, Vanessa Bell, nella Charleston Farmhouse, nel Sussex. Qui sfidarono le convenzioni edoardiane scioccando la società londinese con un giro di amanti, affari e figli illeggittimi. Ma oggi quello che è venuto alla luce è un lato più oscuro della storia. All’ingresso della casa del Sussex, oggi riaperta al pubblico, il Charleston Trust ha fatto scrivere: «Sebbene molte delle idee e delle teorie di John Maynard Keynes siano ancora oggi rispettate, dobbiamo affrontare il lato più oscuro delle sue convinzioni. Era un attivo sostenitore dell’eugenetica, una teoria razzista e classista secondo cui la qualità genetica della razza umana poteva essere migliorata attraverso la selezione di alcuni e la sterilizzazione di altri. Era particolarmente preoccupato per il numero crescente di persone non bianche». Il Charleston Trust ha aggiunto che riconoscere le «credenze problematiche» degli individui è l'unico modo per «valutare accuratamente il loro impatto sulla storia». Quand’era presidente della Lega Malthusiana per la pianificazione familiare, Keynes ha dichiarato che dovrebbe essere considerata la «qualità» delle popolazioni future. Critico al riesame lo storico di Cambridge, il professor Robert Tombs: «Keynes è il più importante economista moderno, i suoi argomenti sono il fondamento di politiche economiche progressiste per combattere povertà e disoccupazione». «Era anche interessato all'eugenetica, come molti leader progressisti: era un aspetto del sogno utopico di una società perfetta. Forse ci renderemo presto conto che non tutte le opinioni discutibili provengono dai conservatori».  

Da "Ansa" il 9 giugno 2021. Monta la polemica nel Regno Unito per la decisione di un gruppo di studenti della celebre università inglese di Oxford, fra cui diversi figli di minoranze etniche, di rimuovere da un'ambiente comune autogestito all'interno dell'ateneo il quadro con l'immagine di rito della regina Elisabetta: considerata, in quanto rappresentante della monarchia, un simbolo del passato coloniale britannico. L'episodio ha scatenato oggi la reazione furiosa della stampa di destra, prime pagine di alcuni tabloid in testa. Ed è stato definito "semplicemente assurdo" da Gavin Williamson, ministro dell'Educazione nel governo Tory di Boris Johnson, che in un tweet ha rivendicato alla sovrana attuale di aver "illustrato al meglio" il Paese nei suoi quasi 70 anni di regno e di aver "lavorato senza risparmio per promuovere i valori britannici di tolleranza, apertura e rispetto nel mondo". Stando ai media, gli studenti del comitato che gestisce la Middle Common Room nello storico Magdalen College di Oxford hanno votato per la rimozione del ritratto sulla base del fatto che, "secondo alcuni" iscritti, "le immagini della monarca e della monarchia britannica rappresentano la storia coloniale recente". Accuse e iniziative del genere si sono susseguite negli ultimi mesi, alimentate anche dalla protesta dei movimenti anti-razzisti di Black Lives Matter riprodotti in Europa e nel Regno sulla scia degli Usa. Dinah Rose, avvocata e presidente del Magdalen College, ha precisato che l'ateneo non è coinvolto nella decisione, ma ha aggiunto di voler rispettare "il diritto alla libertà di espressione e di dibattito" degli studenti. Mentre il giornale filo-conservatore Daily Telegraph ha condannato l'episodio presentando in un commento la regina come "ultima vittima della cancel culture". "Vergogna a Oxford", è insorto da parte sua il populista Daily Mail; a cui ha fatto eco non meno indignato un altro tabloid, il Daily Express, titolando a tutta pagina: "Come osano! Gli studenti di Oxford cancellano la nostra Regina".

Chiara Bruschi per "il Messaggero" il 10 giugno 2021. Un ritratto che raffigura la regina Elisabetta è stato rimosso dalla sala riunioni del Magdalen College, uno dei più prestigiosi di Oxford. La decisione è stata presa dagli studenti del comitato Mcr (Middle common room) che ha approvato una mozione proposta dal loro presidente, l'americano 25enne Matthew Katzman, laureato a Stanford e dottorando in Informatica nella cittadina inglese. Secondo il giovane quell' immagine rappresenta «un'istituzione responsabile del colonialismo» e pertanto la sua presenza metteva «a disagio alcuni studenti». Katzman ha anche proposto di vendere il quadro all' asta si tratta di una riproduzione di un ritratto del 1952 per raccogliere fondi da destinare a chi sta soffrendo ancora oggi le conseguenze del colonialismo. LA DECISIONE «La decisione è stata presa dopo un dibattito relativo a una sala di uso comune - ha spiegato il giovane luogo che dovrebbe essere uno spazio neutro, dove tutti devono sentirsi bene, indipendentemente dalla provenienza o dalle opinioni. La famiglia reale è già ampiamente rappresentata in molte altre aree del college pertanto ci siamo trovati d'accordo nel ritenere che questa stanza potesse farne a meno». Lo studente ha poi descritto la ristampa come una «riproduzione della regina di scarso valore, che era stata appesa al muro della sala alcuni anni fa». Il Magdalen College, fondato nel 1458, era stato visitato dalla sovrana nel 2008, in occasione del 550esimo anniversario ed è uno dei più prestigiosi della cittadina inglese. Tra i suoi ex studenti annovera, oltre a personalità di spicco della politica, anche lo scrittore Oscar Wilde. E proprio per la rilevanza dell' istituzione, la notizia ha scatenato il dibattito in tutto il Regno Unito. Se la preside del College Dinah Rose QC ha difeso la decisione del comitato, che deve avere «libertà di parola e di dibattito politico», non sono della stessa opinione il pro-rettore di Oxford, Lord Patten, che ha definito gli studenti «offensivi e ignoranti», e il ministro dell' Istruzione britannico, Gavin Williamson, che ha descritto come «assurda» la rimozione del quadro: «La regina è ciò che di meglio c' è nel Regno Unito ha spiegato nel suo lungo regno è stata portatrice di messaggi di tolleranza, coesione e inclusione». Ospite al programma televisivo Good morning Britain, invece, il professor Kehinde Andrews dell' università di Birmingham ha sottolineato come la regina non rappresenti solo il colonialismo ma sia anche il «simbolo numero uno della supremazia bianca». Soffermandosi sul dipinto in questione, poi, ha messo in evidenza i gioielli indossati dalla sovrana, «rubati a popolazioni di colore di diverse parti del mondo». Anche la regina, dunque, è finita nel vortice della cancel culture, quella cultura della cancellazione che sta portando sempre più spesso alla rimozione di statue dai luoghi pubblici e di nomi storici da prestigiosi istituti: il bronzo a figura intera di Edward Colston, lodato per le sue attività di filantropo fino allo scorso anno, era stato gettato in acqua a Bristol perché mercante di schiavi, durante le proteste del movimento Black Lives Matter scatenate dalla morte di George Floyd. E sempre a Oxford ha rischiato lo stesso trattamento la statua del colonizzatore d' Africa Cecil Rhodes davanti all' Oriel College, oggetto di numerose proteste da parte degli studenti.

L'ULTIMO CASO L' ultimo caso riguarda invece la Business School della City University di Londra, che dal prossimo settembre non sarà più intitolata a Sir John Cass, anche lui accusato di essersi arricchito con la tratta degli schiavi, ma a Thomas Bayes, teologo e matematico. Personalità fino a oggi acclamate dunque stanno finendo una a una sul muro della vergogna. Una caccia alle streghe che nel Regno Unito non sta risparmiando nessuno, nemmeno sua maestà.

"Filippo era razzista e sessista, non lo ricordiamo". La protesta del college. Mariangela Garofano il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. Il King's College di Londra si è dovuto scusare con i professori del suo staff, i quali si sono "lamentati" per aver ricevuto una foto del principe Filippo in ricordo della sua scomparsa. Arriva dalla Gran Bretagna l’ultima follia figlia della così definita “cancel culture”. Il King’s College di Londra si è scusato con i membri dello staff per un motivo che ne ha dell’incredibile, in nome della cultura della cancellazione. Come riporta il Daily Mail, a seguito della morte del principe Filippo, il celebre college ha inviato un’email a tutti i professori con una foto del duca di Edimburgo, nel giorno dell’apertura della biblioteca Maughan nel 2002. Un gesto assolutamente normale, che la direzione di uno dei più prestigiosi college inglesi, che ha fatto la storia accademica britannica, ha pensato di fare per ricordare il principe consorte. Ma qualcuno sembra non averla presa bene. I membri più progressisti dello staff, “indignati”, sono insorti, definendo inammissibile “commemorare un razzista e sessista” come il principe Filippo. La diatriba circa l’email della discordia è andata avanti finché la direttrice della biblioteca del King’s non si è trovata costretta a scusarsi con gli “indignados” per il “danno causato”, inviando loro una semplice foto in ricordo del principe appena deceduto. “La foto è stata inclusa come referenza storica, per la morte del principe”, si legge nella nota di scuse, che prosegue affermando che “con l’inclusione dell’immagine non si intendeva commemorarlo”. La lettera va avanti con le scuse nei confronti di quei membri dello staff “sensibili” alla storia di razzismo e sessismo di Filippo. “Dopo confronti e conversazioni abbiamo realizzato il danno che questo ha causato ad alcuni membri della nostra comunità, a causa della sua storia di razzismo e sessismo. Siamo dispiaciuti per il danno arrecato". Ma il gesto del college non è stato per niente apprezzato da diversi politici ed esponenti del diritto alla libertà di parola, che hanno fortemente criticato il gesto del King’s College, definendolo l’ultimo esempio di sottomissione alla “cancel culture”. Anche gli esperti reali si sono sollevati contro la pretesa irrazionale dei professori di “eliminare” la figura di Filippo. L’esperto reale Hugo Vickers ha condannato le scuse dichiarando: “Il principe Filippo e la Regina hanno passato le loro vite a difendere il Commonwealth. Il principe potrà aver detto cose che hanno provocato reazioni nelle persone, ma è il meno razzista di tutti”. Vickers prosegue ricordando come Filippo si sia speso a favore di una società multirazziale fin dagli anni 50, affermando che “queste persone al King’s College non sanno di cosa parlano”. In un mondo ormai piegato dalla violenza del politicamente corretto, anche uno dei baluardi della libertà di espressione e della cultura, quarta università più importante d’Inghilterra, si inginocchia davanti a chi chiede di cancellare le tradizioni, che non rispetta nemmeno la morte. La cultura si prostra di fronte ai paladini dei diritti, ai "buoni" che ormai assomigliano sempre più ai personaggi dell'universo orwelliano.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una...

Il calendario è razzista. Barbara Di il 29 maggio 2021 su Il Giornale. Mi rifiuto di accettare la data di oggi, di tutti i giorni passati e tutti quelli a venire. Non mi posso identificare nel calendario che ci ha imposto questa becera società patriarcale, razzista, maschilista, bianca e dominatrice. L’anno non può essere il 2021 perché si fonda sulla nascita di un uomo bianco eterosessuale, Gesù Cristo, per di più nato da una religione sionista e oppressiva che pratica l’apartheid nei confronti dei non ebrei che vivono in una terra non loro. Come se non bastasse, questo numero imposto ci ricorda ogni giorno chi ha fondato una religione che ha oppresso per oltre due millenni tutti gli altri popoli pretendendo di convertirli, imponendo il proprio credo e i propri valori senza accettare che ognuno fosse libero di credere nei propri dei o rituali. Non parliamo poi dei mesi e dei giorni. Chi li ha scelti, decisi, nominati? Prima Caio Giulio Cesare, un altro maschio bianco oppressore, imperialista, guerrafondaio, conquistatore di popoli e terre. Se non fosse che girano da sempre voci false sulla sua presunta bisessualità, ci sarebbe da inorridire all’idea che Luglio sia Luglio, ma su Agosto proprio non posso transigere. Aggiungiamoci pure le modifiche che hanno portato all’attuale calendario gregoriano e l’orrore è palpabile. Vi rendete conto che le ha fatte un altro maschio bianco? Gregorio XIII era persino un Papa, sempre di quella religione oppressiva e misogina che si rifiuta da millenni di concedere il sacerdozio alle sacre donne, che non permette ai codici fiscali di sposarsi, che è contraria a indispensabili pratiche e conquiste di civiltà come l’utero in affitto o l’aborto. Mi sento svenire all’idea che i mesi, le settimane, i giorni siano cadenzati e nominati in base a regole imposte da questi fascisti. Basta! Da adesso in avanti non accetto più di considerare qualsiasi data che non sia rispettosa di tutti i popoli, religioni, credi, opinioni e usanze esistenti al mondo, noti e non noti. Anzi, meglio ancora, pretendo che ognuno si senta libero di identificarsi con la data che più gli aggrada la mattina quando si alza. Per prendere un appuntamento, poi, una soluzione la troveremo.

Barbara Di. Scesa dai monti a Roma, scelta per la sua bellezza, passando per Milano a prendere una laurea in giurisprudenza. Faccio l’avvocato, ma sto cercando di smettere. Scrivo, scrivo tanto, scrivo perché sono egoista ed esprimo così il mio altruismo, scrivo per passione, scrivo dove mi piace, anche in un libro In difesa dell’egoismo. Ora scrivo qui.

Gerry Freda per ilgiornale.it il 29 maggio 2021. È polemica negli Usa per il fatto che una scuola superiore ha "ritoccato" le foto di alcuni alunni, soprattutto di ragazze, perché considerate "troppo sexy". Le immagini incriminate, raccolte nell'annuario scolastico on-line, sarebbero state infatti corrette dai vertici dell'istituto in nome del codice di abbigliamento seguito in quel liceo. I dirigenti della struttura, dopo avere effettuato le correzioni grafiche, hanno messo in vendita l'annuario della discordia al prezzo di 100 dollari a copia. La scuola in questione è la Bartram Trail High School, nella contea di St. Johns, nel nordest della Florida. Studenti e genitori sono di conseguenza indignati per la scelta del liceo di ritoccare digitalmente 80 immagini dell'annuario scolastico, senza il consenso dei ragazzi, con lo scopo di censurare quanto ritenuto "non confome al codice di abbigliamento". Tra le modifiche oggetto di critiche vi è stata, ad esempio, l'aggiunta, nella foto di una studentessa, di porzioni digitali di vestiario alla zona del petto e delle spalle della ragazza, allo scopo di "coprirne la scollatura". Adrian Bartlett, ossia la madre dell'alunna che ha subito tale ritocco della foto, ha quindi tuonato: "Penso che ciò mandi il messaggio che le nostre ragazze dovrebbero vergognarsi dei loro corpi in crescita, e penso che sia un messaggio orribile da mandare a queste ragazze che stanno attraversando dei cambiamenti". Altre alunne che si sono viste modificare le proprie foto sull'annuario hanno invece reagito con ironia evidenziando la scarsa qualità dei ritocchi grafici effettuati dai responsabili del liceo per temperare la "carica sessuale" degli scatti delle prime. I rappresentanti della Bartram Trail High School, sommersi dalle polemiche, hanno alla fine reagito difendendo il loro operato e ribadendo di essersi semplicemente riservati la possibilità, come alternativa all'esclusione dall'annunario degli scatti "fuori dal regolamento", di correggere digitalmente le immagini che presentavano criticità. Le autorità locali preposte ai servizi educativi sono quindi intervenute sulla vicenda chiarendo: "Le linee guida del codice di abbigliamento sono nel nostro codice di condotta studentesco, ma l'applicazione del codice di abbigliamento avviene a livello scolastico e differisce da amministrazione ad amministrazione". Proprio il codice di abbigliamento applicato ultimamente dal liceo della Florida per ritoccare le foto era stato, durante la scorsa primavera, già oggetto di contestazioni. I genitori di alunni dell'istituto avevano infatti segnalato allora alla direzione scolastica il fatto che il codice fosse sostanzialmente rivolto a disciplinare per lo più il vestiario delle studentesse, invece che degli alunni di entrambi i sessi.

Lettera di Perluigi Panza a Dagospia il 30 maggio 2021. Uefa conformista ma smemorata. Prima dell’inizio della finale di Champions tra Chelsea e Manchester City giocatori in ginocchio per ricordare il caso G.P.Floyd. Peccato che proprio lo stesso giorno, il 29 maggio del 1985, avvenne la più grande tragedia in una competizione Uefa e finale di Coppa dei Campioni, la strage dell’Heysel, con 39 morti, forse tutti bianchi: questa Ceferin preferisce cancellarla che ricordarla? Chi aveva scelto lo stadio? Pierluigi Panza

(ANSA-AFP il 3 giugno 2021) Non è stato un bell'inizio quello della nazionale inglese che oggi ha giocato la sua prima amichevole di preparazione a Euro 2020. Avversaria della nazionale del ct Southgate era l'Austria, sconfitta per 1-0 con gol del 19enne Bukayo Saka, mentre Jude Bellingam, con i suoi 17 anni e 338 giorni, è diventato il più giovane giocatore della nazionale a essere stato schierato dall'inizio dal 2003 a oggi. Ma ciò che preoccupa, oltre all'infortunio di Alexnder-Arnold che ora rischia di essere "tagliato", è stato il comportamento del pubblico, specie in prospettiva Europei e delle partite che si giocheranno a Wembley. Avrebbe dovuto essere una festa, perché l'Inghilterra tornava a giocare davanti a dei tifosi, nello specifico gli oltre ottomila presenti al Riverside Stadium di Middlesbrough. Ma i sonori ululati rivolti ai 22 giocatori quando questi si sono inginocchiati in campo, prima del fischio d'inizio in segno di solidarietà con la campagna "BlackLivesMatter", fanno capire che gli appelli contro il razzismo e ogni forma d'intolleranza non sono stari recepiti da tutti, e dopo la gara anche Southgate se n'è rammaricato.

Da calciomercato.com il 4 giugno 2021. “Italiani razzisti". Su Twitter diversi utenti francesi hanno scatenato una polemica legata alla foto della nazionale azzurra. “Nessuno vi sosterrà, banda di razzisti”, “Provate a dire che questo paese non è razzista”, “E’ la squadra del Ku Klux Clan”, “Fascisti, Mussolini sarebbe orgoglioso”, “Remake della marcia delle camicie nere su Roma”, “Zero neri, è pazzesco”, “Schiaffo razzista”. Un impressionante novero di commenti di questo genere, in particolare sotto il post pubblicato dal profilo in francese della nazionale italiana.

Anna Guaita per “Il Messaggero” il 4 giugno 2021. Era il 1920 quando la squadra degli Akron, membro della National Football League, assunse il primo giocatore afro-americano. Era Frederick Douglass Fritz Pollard, già star della Brown University nonché eroe della Prima Guerra Mondiale. Ci vorranno però altri 27 anni prima che anche il baseball accetti i neri nelle proprie squadre e 30 prima che lo faccia anche il basket. Ma quel primato di uguaglianza che il football poteva vantare, negli anni si è andato diluendo al punto che solo in questi giorni la Lega ha annunciato che rinuncerà a una procedura che molti neri accusano di essere la prova dell'esistenza di un «razzismo sistemico». Fino ad ora infatti la Lega ha gestito le cause per commozione cerebrale intentate da giocatori in pensione secondo due metri diversi a seconda se il giocatore era bianco o nero, e per gli afro-americani veniva utilizzata una formula che attribuiva loro funzioni cognitive più basse dei bianchi. Se dunque un bianco partiva da un livello più alto, diciamo da un valore 100, e dimostrava di essere sceso a 70, a lui sarebbe andato un compenso piuttosto sostanzioso. Ma siccome con un nero si partiva automaticamente da un livello più basso, diciamo 80, se anche lui fosse sceso a 70, il suo compenso sarebbe minimo o forse inesistente. Che si tratti di un criterio squisitamente razziale lo dice lo stesso nome: «race norming», cioè «adeguamento razziale». Che si tratti di una procedura discriminatoria è trasparente. La Nfl ha accantonato nel 2015 un miliardo di dollari per ripagare i giocatori che possano dimostrare di aver perso capacità cognitive nel corso di anni e anni sul campo. Protetti da caschi e spalliere, rimane il fatto che questi atleti sono sottoposti a violenze che possono davvero lasciare danni irreparabili. E difatti il fondo è stato creato dopo che migliaia di giocatori pensionati hanno protestato e nel Paese è nato un movimento d'opinione a loro favorevole. Sono più di 20 mila gli ex giocatori di football negli Usa, e più della metà sono neri. Di questi, 3 mila hanno presentato richieste di risarcimenti, e solo 600 li hanno ricevuti. Tre ex giocatori Kevin Henry, Najeh Davenport e Ken Jenkins hanno fatto ricorso pochi mesi fa, dopo che era stato loro negato un risarcimento proprio sulla base del «race norming». La giudice Anita Brody ha deciso che gli atleti e la Nfl dovevano negoziare privatamente, ma ha anche ordinato che venga fatto uno studio del sistema di «race norming». Lo studio dovrebbe portare alla luce numeri e nomi finora tenuti segreti e far capire quanto effettivamente discriminatoria la pratica sia. Nel frattempo comunque è arrivata la decisione delle NFl di abbandonarla e cercare diversi metodi di valutazione dei danni cognitivi riportati dai giocatori. Ken Jenkins protesta: «Solo perché sono nato nero, non significa che io abbia meno cellule cerebrali». La protesta dei tre ex giocatori interessa uno sport i cui appassionati negli Usa sono in genere considerati più conservatori che non ad esempio quelli del basket. Difatti, quando nel 2016 il giocatore Colin Kaepernick cominciò a inginocchiarsi nel momento dell'inno nazionale, per protestare, pur in modo rispettoso, contro il razzismo nello sport e nella società americana, il pubblico non la prese bene e Colin da allora non ha trovato altre scritture, nonostante il gesto si sia esteso moltissimo non solo ad altre squadre di football ma anche agli altri sport.

Francobolli politically correct. Ma quello "afro" vale meno. Roberto Vivaldelli il 4 Giugno 2021 su Il Giornale. Per commemorare la tragica scomparsa di George Floyd, il sistema postale spagnolo ha messo in commercio francobolli in diversi colori che corrispondono alle tonalità della pelle degli abitanti del Paese. Ma è polemica. E se l'antirazzismo posticcio e ipocrita di certe istituzioni che provano a strizzare l'occhio al politicamente corretto fosse, in realtà, quanto di più razzista - e veramente - offensivo esista sulla faccia della Terra? L'ultimo cortocircuito del politically correct arriva dalla Spagna, dove Correos, la società statale responsabile della fornitura di servizi postali nella penisola iberica, ha lanciato una serie di francobolli per ricordare la tragica morte dell'afroamericano George Floyd, a un anno di distanza. Problema: il francobollo più scuro è anche quello che costa meno. La caratteristica è infatti quella di scendere di valore, da 1,60 euro a 0,70 euro, mano a mano che la tonalità diventa più scura. Motivo? Secondo l'azienda riflette il razzismo sistemico della società: "In Correos crediamo che il valore di una persona non debba avere colore, ecco perché abbiamo lanciato #EqualityStamps - Una collezione di francobolli in cui più scuro è il colore del timbro, minore è il valore. Riflettendo così una realtà ingiusta e dolorosa che non dovrebbe esistere" scrive l'azienda su Twitter, sposando le tesi di Black Lives Matter.

Correos ricorda George Floyd ma qualcosa va storto. Una scelta curiosa che però ha suscitato non poche polemiche sui social. "Ecco perché le campagne antirazziste vanno male" commenta un utente, mentre altri si scagliano contro la decisione di far pagare meno il francobollo più scuro: "Se tutti i francobolli avessero lo stesso prezzo, andrebbe bene. Quindi si sta solo evidenziando una separazione tra le razze. Dovete capire che finché continueremo a menzionare il colore della pelle delle persone continuerà ad esserci razzismo, trattiamo le persone come persone, non come colori" osserva un altro. "Abbiamo fatto qualcosa di orribile per mostrare quanto (la realtà) sia orribile è un concetto che richiede un po' di sviluppo prima del lancio" si legge ancora fra i commenti all'iniziativa che non è stata granché apprezzata dall'opinione pubblica iberica. In effetti, difficile dare torto alle critiche emerse in queste ore: nel ricordare George Floyd, Correos mette su un piano diverso rispetto agli altri le persone di colore, come se, per l'appunto, le persone potessero essere assimilabili a dei colori. Il dato di fatto è che, senza volerlo, l'azienda spagnola ha messo in campo un'iniziartiva altamente discriminatoria. Tanrt'è che a confermare lo scarso successo dell'iniziativa, come riporta Italia Oggi, ripreso da Dagospia, anche la sezione madrilena di Sos Racismo ha attaccato i francobolli colorati con un comunicato secondo il quale l'episodio "sottolinea la necessità di creare una più forte coscienza anti-razzista in Spagna", accusando Correos di "perpetuare l'idea della gerarchia razziale" e di esibire pertanto "negrofobia". Inevitabili cortocircuiti del politicamente corretto.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali, è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

(ANSA il 28 maggio 2021) La co-fondatrice di Black Lives Matter ha annunciato che lascerà il movimento dopo otto anni. Lo riporta la Bbc. Patrisse Cullors era stata recentemente accusata di aver sfruttato le donazioni alla fondazione per arricchire il suo patrimonio, in particolare per l'acquisto di diverse case. Ma l'attivista 37enne ha sottolineato che la decisione risale a un anno fa e non ha nulla a che vedere con quelli che ha bollato come "tentativi della destra di screditarla". Adesso, ha fatto sapere, vuole concentrarsi sul suo libro in uscita, 'An Abolitionist's Handbook', e su alcuni progetti televisivi con la Warner Bros. "Con tutte le persone intelligenti, esperte e impegnate che supportano l'organizzazione so che Black Lives Matter è in buone mani", ha dichiarato in un comunicato. sottolineando che "l'agenda della fondazione rimane la stessa: sradicare la supremazia bianca e costruire istituzioni che danno valore alla vita".

Giorgio Gandola per “La Verità” l'1 giugno 2021. Black House Matter. Alla fine ha dovuto andarsene, Patrisse Cullors, cofondatrice del Black Lives Matter, inseguita dai fantasmi dello scandalo immobiliare che un mese fa aveva fatto tremare il movimento no profit più famoso del mondo. Lei si è difesa con le consuete armi dell'indignazione nei confronti dei media con due peccati originali, bianchi e di destra; ha versato lacrime di rabbia davanti alla Tv, ha incassato la solidarietà di facciata del gruppo dirigente. Ma alla fine domenica ha salutato la compagnia e ha fatto un passo indietro, adducendo a ferree motivazioni come la realizzazione del suo secondo libro (Il manuale dell'abolizionista) che sarà pronto a fine anno e un accordo con Warner Bros per la produzione televisiva di contenuti per «voci nere storicamente emarginate». Il realtà le è caduto in testa il tetto, dopo che un'inchiesta del New York Post aveva portato alla luce i curiosi affari nel mattone conclusi dalla più marxista delle attiviste americane, con l'accusa di averli concretizzati con i fondi del movimento. Incrociando i dati fiscali suoi e di alcune società, il quotidiano ha scoperto che recentemente la Cullors, 37 anni, ha acquistato una villa da 1,4 milioni di dollari a Topanga Canyon (vicino a Malibu) che andrebbe ad aggiungersi ad altre quattro proprietà immobiliari a South Los Angeles, Inglewood, Conyers in Georgia (un ranch) e New Providence alle Bahamas, quest' ultima in comproprietà con la sua compagna Janaya Khan, guerriera del mondo queer. La stessa Cullors ha più volte dichiarato di voler combattere per distruggere la famiglia tradizionale, «iprocrisia suprema della società capitalista bianca». L'inchiesta del Post sbagliato - quello mitico e politicamente corretto, il Washington Post di Jeff Bezos, mai avrebbe messo il dito dentro il formicaio - ha destabilizzato il Blm e fatto vacillare qualche certezza. I genitori di Michael Brown e Breonna Tyler, due ragazzi afroamericani morti per mano di agenti di polizia bianchi e quindi eroi della resistenza black, hanno subito protestato davanti al portafoglio immobiliare della cofondatrice, rilasciando interviste nelle quali denunciavano che «l'organizzazione non ha fatto niente per aiutarci economicamente». Il clamore ha costretto i vertici di Black Lives Matter a precisare che erano state fatte donazioni anonime alle famiglie delle vittime e che avrebbe avviato un'indagine interna per verificare se Cullors avesse sottratto fondi indebitamente. Risultato, una dichiarazione nella quale si dichiara che alla regina delle attiviste nere, dal 2013 al 2019, sono stati liquidati solo 120.000 dollari. Una pezza giustificativa che non spiega tutto perché il fiume di denaro al gruppo è arrivato nell'estate del 2020 dopo la morte di George Floyd e l'incendio sociale avvampato in molte città americane, tenuto acceso con astuto fervore politico proprio da Blm. Il saldo di fine anno per la fondazione è stato di oltre 90 milioni di dollari. Riguardo a quella che per una parte della stampa americana è «l'abbuffata immobiliare», la Cullors spiega in politichese: «Ogni volta che un uomo o una donna di colore acquista una casa c'è clamore perché si interrompe la supremazia bianca». È curioso annotare che le abitazioni sono tutte o quasi in quartieri wasp e questo ha fatto irritare non poco i militanti più radicali della causa nera. Al culmine delle polemiche, Cullors ha dato le dimissioni sperando che il gesto contribuisca ad abbassare i toni. «Sono soltanto attacchi della destra» ha sottolineato andandosene, accompagnata verso il cono d'ombra dalla processione compìta dei media progressisti e dei tycoon dei social media silico-valligiani. Facebook impedisce a chiunque volesse farlo di condividere il reportage del New York Post e un giornalista di colore ha denunciato di essersi trovato l'account di Twitter bloccato dopo avere pubblicato l'articolo. Non si mette in dubbio la versione di una signora.

Alessandra Benignetti per ilgiornale.it il 28 maggio 2021. Basta con le istituzioni e i partiti di "razza bianca" e via libera ai "nuovi italiani" in politica. È la proposta di Livia Turco, ex parlamentare ed ex ministro, oggi presidente della fondazione Nilde Iotti. Una sorta di Black Lives Matter "all’amatriciana", quello invocato dall’esponente del centrosinistra. E poco importa se in America il fenomeno sta prendendo contorni inquietanti. A dimostrarlo è l’ultima uscita della sindaca afroamericana di Chicago, Lori Lightfoot, la quale ha annunciato che per il secondo anniversario della sua inaugurazione concederà interviste a tu per tu soltanto a giornalisti di colore, perché quelli "bianchi" sono troppi. Anche in Italia ora la sinistra sembra voler puntare sulle "quote nere". "È necessario che le persone immigrate partecipino attivamente alla polis, alla dimensione pubblica, alla politica", ha detto Livia Turco intervenendo al dibattito le "Parole che non ti aspetti", organizzato qualche giorno fa nella Capitale da Prossima, la nuova corrente zingarettiana, che include anche le Sardine ed esponenti del mondo delle associazioni, come Arci e Libera." Cominciamo – incalzava ancora l’ex ministro - a fare in modo che le agorà abbiano una forte partecipazione mescolata di italiani e di nuovi italiani. Facciamo in modo che alle prossime elezioni ci siano candidati italiani e nuovi italiani. Costruiamo degli strumenti di partecipazione attiva dei nuovi italiani perché solo attraverso questa fatica del conoscersi e riconoscersi e promuovendo la partecipazione attiva di tutti i cittadini potremmo davvero costruire la società della convivenza". "Vogliamo essere un Paese in cui la politica continua ad essere di razza bianca, in cui il nostro partito è di razza bianca, in cui le istituzioni sono di razza bianca?", è la domanda retorica formulata dell’esponente Dem. Anche se a sentire la parola "razza" in un discorso pubblico, nel 2021, viene la pelle d’oca e rischiano di innescarsi pericolosi corto circuiti. Cos’è, ad esempio, quello della sindaca Lightfoot se non "razzismo al contrario", osserva qualcuno dall’altra parte dell’Oceano. In Italia, ricorda ancora la Turco, ci sono "cinque milioni di persone che sono immigrate, che ci aiutano a vivere meglio, cui sono stati riconosciuti diritti come previsto dalla Costituzione: studio, minori, maternità". "Però – va avanti - continuiamo a considerare questi concittadini solo forza-lavoro e abbiamo una modalità di stare gli uni accanto agli altri, senza fare la fatica di conoscersi e riconoscersi". "Questo - prosegue - alla lunga porta a conflitti e non valorizza il capitale umano che abbiamo tra di noi". "Se ci pensiamo bene sono rarissimi i casi di consiglieri comunali nuovi cittadini", osserva. "Letta – conclude - è stato l'unico a proporre un ministero per l'integrazione con una donna Cecilie Kyenge ministra del nostro Paese". Oggi, però, ironia della sorte, l’unico parlamentare di colore della Repubblica siede tra i banchi della Lega.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 28 maggio 2021. Pregiudizi maschilisti tipici della società italiana. È una decisione durissima contro l'Italia quella emessa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha condannato il nostro Paese per avere violato, con una sentenza, la sfera personale della presunta vittima di stupro, utilizzando argomenti estranei alla vicenda. La Cedu ha sottolineato, nelle sue motivazioni, «i passaggi che non hanno rispettato la vita privata e intima» della ragazza, «i commenti ingiustificati» e un «linguaggio e argomenti che veicolano i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana». La vicenda riguarda l'assoluzione, davanti alla Corte d'appello di Firenze, di sette giovani accusati di violenza sessuale di gruppo. Una decisione che risale al 2015. Secondo l'accusa, i sette avevano abusato della giovane donna il 26 luglio 2008. Sei di loro, in primo grado, erano stati condannati ma, in appello, era arrivata l'assoluzione per tutti. Su questa seconda sentenza adesso la Corte di Strasburgo, accogliendo il ricorso della vittima, ha condannato l'Italia a risarcirle un danno di 12mila euro per aver violato aspetti della sua vita privata. Il pronunciamento della Cedu non entra nel merito dell'assoluzione, ma censura i contenuti sessisti delle motivazioni di secondo grado.

LE MOTIVAZIONI. «Ingiustificato - affermano i giudici europei - il riferimento alla biancheria intima che la ricorrente indossava la sera dei fatti, come i commenti sulla sua bisessualità, le sue relazioni sentimentali o i rapporti sessuali che aveva avuto prima dei fatti presi in esame». I giudici di Strasburgo, inoltre, giudicano «inappropriate le considerazioni fatte sull'attitudine ambivalente rispetto al sesso della ricorrente».

LA VICENDA. Per l'accusa dopo aver passato la serata insieme al gruppo di giovani, che l'avevano fatta ubriacare, la ragazza era stata accompagnata in un parcheggio vicino alla Fortezza da Basso di Firenze dove, in auto, sarebbe avvenuto lo stupro. Dopo la denuncia, gli imputati erano stati arrestati. Il processo di primo grado si era concluso il 14 gennaio 2013, con sei condanne a 4 anni e 6 mesi di reclusione e un'assoluzione. Due anni dopo, il 4 marzo 2015, la corte di Appello aveva assolto tutti perché il fatto non sussiste. La procura generale di Firenze non ha mai presentato ricorso in Cassazione, ponendo fine di fatto alla vicenda giudiziaria. Nelle motivazioni, i giudici di appello avevano fatto riferimento a una vicenda «incresciosa» e «non encomiabile per nessuno» ma «penalmente non censurabile». Per la corte, con la sua denuncia, la ragazza voleva «rimuovere» quello che riteneva essere stato un suo «discutibile momento di debolezza e fragilità». Un giudizio, che aveva spinto la vittima a rivolgersi ai giudici di Strasburgo e che adesso la Corte definisce «fuori contesto e deplorevole». Così come tutti i riferimenti alla «sua vita non lineare» contenuti della sentenza che, già all'epoca, aveva suscitato molte reazioni e proteste anche sui social. La stessa giovane aveva reso pubblica una lettera in cui sosteneva che a essere giudicata era stata lei e non l'episodio che aveva denunciato. La Corte di Strasburgo afferma che questa violazione della vita privata e dell'immagine della ricorrente non può essere considerata «pertinente per vagliare la credibilità dell'interessata e la responsabilità penale degli accusati». Né può essere giustificata «dalla necessità di garantire il diritto alle difesa degli imputati».

LA REAZIONE. L'avvocato Titti Carrano, che ha rappresentato a Strasburgo la ragazza si è detta «soddisfatta». È stato riconosciuto, sottolinea, che la dignità della sua assistita era stata «calpestata dall'autorità giudiziaria» che aveva emesso la sentenza di secondo grado. «La sentenza di appello - ha aggiunto - ha riproposto stereotipi di genere, minimizzando cosi la violenza, e ha rivittimizzato la ricorrente usando anche un linguaggio colpevolizzante. Purtroppo, questo non è l'unico caso in cui la non credibilità della donna si basa sulla vivisezione della sua vita personale e sessuale. Questo succede spesso nei tribunali italiani».

«Nella sentenza pregiudizi sulle donne»: la Cedu condanna l’Italia. Commenti in giustificati da parte dei giudici della Corte d'appello di Firenze nella sentenza di assoluzione per un presunto stupro di gruppo: «Dai giudici considerazioni riprovevoli e irrilevanti». Simona Musco su Il Dubbio il 27 maggio 2021. «La Corte considera che la lingua e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolino preconcetti sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare l’effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza contro le donne, nonostante un quadro legislativo soddisfacente». Sono parole pesanti quelle della Cedu contro l’Italia, condannata per aver esposto una donna, attraverso le motivazioni di una sentenza assolutoria per il reato di violenza sessuale di gruppo, a vittimizzazione secondaria, con valutazioni arbitrarie circa le scelte sessuali e i comportamenti personali non rilevanti per la sua attendibilità. Una decisione che, dunque, per la Cedu cristallizza un problema culturale del nostro Paese, che spesso emerge anche nelle aule di giustizia. Il caso riguardava un procedimento penale contro sette uomini accusati di stupro di gruppo alla Fortezza di Firenze, sei dei quali condannati in primo grado e poi assolti dalla Corte d’appello di Firenze. Una decisione legittima, ma assunta attraverso «ingiustificati commenti» riguardanti la bisessualità della presunta vittima, le sue relazioni e le relazioni sessuali occasionali intrattenute prima del presunto stupro di gruppo. Proprio i procedimenti penali per casi simili, secondo i giudici europei, giocano un ruolo fondamentale nel superamento dei pregiudizi e per la risposta istituzionale contro le diseguaglianze di genere, motivo per cui è «quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria, formulando commenti che inducono il senso di colpa e giudizi in grado di scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario». I giudici d’appello avevano assolto gli imputati ritenendo che fossero troppe le incongruenze nel resoconto degli eventi da parte della giovane, tali da minare la sua credibilità nella sua interezza. Nel luglio 2015 la donna ha chiesto all’ufficio del pubblico ministero di presentare ricorso in Cassazione, contestando le ragioni della sentenza della Corte d’appello, ma il pm non ha impugnato la sentenza, che è dunque diventata definitiva. La donna, rivolgendosi alla Cedu, ha puntato il dito contro le autorità nazionali, che non sarebbero state in grado di tutelare il suo diritto al rispetto della vita privata e della sua integrità personale nel contesto del procedimento penale, lamentando anche una discriminazione fondata sul sesso. Per la Cedu sarebbero ingiustificati i riferimenti alla biancheria intima rossa “mostrata” dalla ricorrente nel corso della serata, così come i commenti riguardanti la sua bisessualità e le sue precedenti relazioni. Allo stesso modo sono inadeguate le considerazioni riguardanti «l’atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso» della ricorrente, che la Corte d’appello ha rilevato, tra le altre fonti, dalle sue decisioni artistiche, definendo discutibile il suo consenso a prendere parte ad un cortometraggio in cui interpretava una prostituta sottoposta a violenza. Inoltre, per i giudici d’appello la donna avrebbe presentato denuncia per il desiderio di «ripudiare un momento di fragilità e debolezza che era aperto alla critica», commenti ritenuti dalla Cedu «deplorevoli e irrilevanti», così come il riferimento alla «vita non lineare» della donna. Considerazioni e critiche non rilevanti né giustificate «dalla necessità di garantire che gli imputati potessero godere dei loro diritti di difesa». Ma c’è di più: da Strasburgo arriva un monito alle autorità, ricordando come l’obbligo di proteggere le presunte vittime di violenza di genere imponga anche il dovere di proteggere la loro immagine, dignità e vita privata, anche attraverso la non divulgazione di informazioni personali e dati estranei ai fatti. «Di conseguenza, il diritto dei giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni, che è una manifestazione dei poteri discrezionali della magistratura e del principio di indipendenza giudiziaria – sostiene la Cedu -, è limitato dall’obbligo di proteggere l’immagine e la vita privata delle persone che si presentano dinanzi ai tribunali da qualsiasi ingiustificata interferenza».

Da open.online il 25 maggio 2021. Sono stati allontanati i due membri dello staff della Nazionale cantanti responsabili di aver cacciato Aurora Leone dalla cena tra la Nazionale cantanti e la squadra dei Campioni della ricerca in occasione della Partita della Cuore che si giocherà questa sera all’Allianz Stadium di Torino. Dopo i tanti messaggi di solidarietà già arrivati all’attrice dei The Jackal, anche Fedez ha espresso la sua vicinanza alla 21enne. «Sconcertante che un evento benefico si trasformi nella saga del machismo», ha scritto l’artista su Instagram. «Onestamente fa specie il silenzio dei partecipanti all’iniziativa che hanno assistito alla scena. Ciro Priello organizziamoci noi una partitella di basket benefica, quando volete». La Partita del Cuore è da anni organizzata per raccogliere fondi a favore della ricerca sul Cancro. Per questo Fedez ha invitato Ciro Priello, vincitore tra l’altro del programma LOL, presentato proprio dal rapper milanese, a partecipare a una partita di basket benefica in cui, fa intendere Fedez, potrà giocare anche Aurora Leone.

Da corrieredellosport.it il 25 maggio 2021. Quanto successo ad Aurora Leone dei The Jackal alla cena della Nazionale Cantanti ha suscitato e sta suscitando reazioni durissime da parte di protagoniste del mondo dello spettacolo, della politica e dello sport. Da Elodie a Levante, da Rula Jebreal alla Boldrini, in tante hanno scelto di denunciare l'accaduto, commentandolo in ogni modo possibile.

Elodie, Levante, Noemi e Alessandra Amoroso. Scrive Elodie: "Onesta... Se fossi stata presente avrei ribaltato il tavolo, almeno ci sarebbe stato un motivo valido!". Secco il commento di Levante ("Malissimo") e Noemi ("Inaccettabile"). Più lungo lo sfogo di Alessandra Amoroso: "Sono davvero amareggiata e incredula per quello che è successo ad Aurora Leone. Non è più tempo di parole, servono i FATTI. Il rispetto delle donne e la parità di genere passano dalle azioni quotidiane, passano anche da una partita di calcio!!! Mi dispiace che un evento benefico così bello e dedicato a cause tanto importanti possa essere sporcato in questo modo".

Laura Boldrini, Rula Jebreal e CamiHawke. Laura Boldrini si rivolge ai negazionisti: "A tutti coloro che dicono che nel Paese non esistono misoginia e maschilismo, ecco che puntuale arriva l'ennesima vicenda a smentirli. Le donne vogliono giocare in ogni ambito da protagoniste. Mettetevi l'anima in pace. Non molliamo".

Così, invece, Rula Jebreal: "Aurora Leone viene invitata ma allontanata perché DONNA. La discriminazione delle donne in Italia è una pandemia che contagia tutti. Ho suonato l'allarme, per aiutare a riconoscere e risolvere questa grave ingiustizia". Anche CamiHawke non le ha mandate a dire: "Ridicoli. Benvenuti nel Medioevo. la mia massima solidarietà ad Aurora leone, guardate le sue storie e fatevi questo triplo carpiato nel 1500. Che amarezza e schifo".

Le calciatrici Cecilia Salvai e Cristiana Girelli. Cecilia Salvai, difensore della Juventus femminile, è un fiume in piena: "Era stato chiesto anche a me di partecipare a questa partita, ma poi alla fine non se n'è fatto niente perché non c'erano abbastanza "quote rosa" da poter giustificare la mia presenza a quanto pare, perché noi possiamo partecipare solo quando c'è un numero minimo di noi, quando c'è abbastanza spazio per noi, oppure quando la nostra presenza non dà fastidio. E allora perché non la organizziamo noi una partita di beneficenza, chiamandola magari La Partita del Rispetto, invitando un po' di donne, ma anche gli uomini che si sono dissociati o solitamente lo fanno, perché a noi discriminare non piace! E tu caro uomo saresti il primo invitato, così potremo farti vedere che noi donne possiamo fare quello che vogliamo e che le piccole persone come te non devono permettersi di dire certe cazzate". Cristiana Girelli, capocannoniere della Serie A femminile e compagna di squadra della Salvai, non è da meno: "Io non so più che dire, mi sembra sempre di fare SOLO passi indietro. Vergognatevi. Gianluca Pecchini, ti aspetto volentieri a Torino per fare una partita, poi vediamo chi non gioca a calcio".

La polemica. Chi è Aurora Leone dei The Jackal, l’attrice che accusa la Partita del Cuore: “Cacciata perché donna”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Maggio 2021. Aurora Leone è stata prima invitata e poi esclusa e cacciata dalla Partita del Cuore. Perché donna. Questa la denuncia dell’attrice e del collega Ciro Priello, entrambi volti e membri del collettivo comico napoletano The Jackal. Il caso ha scatenato un’enorme polemica. Durante la cena la sera prima dell’incontro l’episodio denunciato: a escludere Leone sarebbe stato Gianluca Pecchini, il direttore generale della Nazionale Cantanti. Priello e Leone hanno deciso di non partecipare al match, che si terrà all’Allianz Stadium di Torino e andrà in onda per la prima volta su Canale 5 martedì 25 maggio. Aurora Leone è considerata un talento della scena comica. È nata a Caserta il 18 maggio 1999. Ha studiato Lettere Moderne all’Università Federico II di Napoli. La passione per la recitazione l’ha ereditata dal padre, autore di monologhi. È stata selezionata per il concorso Campania Actor Studio e iniziato una serie di collaborazioni con il Colorado Lab alla Speranza Fest. A farle fare il salto di qualità Quotidiana mente – una famiglia a pretesto, monologo scritto da lei, portato in tre spettacoli andati sold out nel 2018. Lo stesso monologo l’ha resa nota al grande pubblico: lo ha recitato allo show Italia’s Got Talent, edizione numero nove, in onda su Sky e Tv8 nel 2019. Quello spettacolo poi lo ha portato in altre date ed è entrata quindi nei The Jackal, il collettivo comico e satirico napoletano, tra i più quotati e seguiti a livello nazionale.

IL CASO – Leone e Priello dovevano fare parte della squadra dei Campioni per la Ricerca, capitanati da Andrea Agnelli, presidente della Juventus, che dovrà sfidare la Nazionale Cantanti. Un’iniziativa di beneficenza per sostenere l’Istituto Candiolo – Fondazione Piemontese per la ricerca sul cancro. Il racconto in alcune storie sui social network: “Io e Ciro ci siamo seduti al tavolo con la Nazionale Cantanti — ha raccontato Leone — ma il direttore generale Gianluca Pecchini ha detto non potevamo stare seduti lì”. E Priello ha precisato: “O meglio, che Aurora non poteva”. I due hanno pensato fosse dovuto al fatto che facevano parte della squadra avversaria. E invece Priello poteva restare: “Sei una donna, non puoi stare seduta qui”. Leone ha detto di essere stata convocata come giocatrice della partita, di non essere un’accompagnatrice. E il dg a quel punto avrebbe replicato: “Non mi far spiegare perché non puoi stare seduta qua, alzati e basta”. L’attrice ha quindi detto di avere la convocazione stampata, di aver dato la taglia per il suo completino. “Eh, il completino te lo metti in tribuna. Da quando in qua le donne giocano?”. A quel punto i due attori si sono alterati e sono stati cacciati dall’albergo. A scusarsi con loro il cantante Eros Ramazzotti. I due hanno comunque sottolineato le buone premesse dell’iniziative, la beneficenza, e hanno ricevuto solidarietà suo social. Leone, in un’ultima storia, ha mostrato la mascherina dell’evento con una scritta: “Stop alla violenza sulle donne”.

LA NAZIONALE  – “Non accettiamo arroganza, minacce e violenza verbale”, ha commentato la Nazionale Cantanti nel comunicato ufficiale. “Alessandra Amoroso, Madame, Jessica Notaro, Gianna Nannini, Loredana Bertè, Rita Levi di Montalcini, sono solo alcuni dei nomi delle tantissime donne che, dal 1985 (anno in cui abbiamo giocato a San Siro, per la prima volta , contro una compagine femminile), hanno partecipato e sostenuto i nostri progetti. Il nostro staff è quasi interamente composto da donne, come quest’anno sono donne le conduttrici e la terna arbitrale della Partita del Cuore. La Nazionale Italiana Cantanti, non ha mai fatto discriminazioni, di sesso, fama, genere musicale, colore della pelle, tipo di  successo, e followers. C’è solo una cosa nella quale non è mai scesa a compromessi: Noi non possiamo accettare arroganza, minacce, maleducazione e violenza verbale dai nostri ospiti”. E quindi conclude: “Non è la prima volta – conclude la Nazionale Cantanti – che qualcuno cerca pubblicità ( e followers….) distorcendo, sfruttando e manipolando  40 anni di storia”. Enrico Ruggeri, Presidente e Capitano della NIC, ha detto che due persone, due volontari, sono state allontanate per “l’incidente” dopo aver “avviato un’inchiesta interna”, e ha mostrato una maglietta con il nome di Aurora, invitandola a partecipare comunque alla partita.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Gennaro Marco Duello per fanpage.it il 25 maggio 2021. Atti di maschilismo e nervi tesi alla vigilia della Partita del cuore, la prima targata Mediaset in onda martedì 25 maggio, tra Nazionale Cantanti e Campioni per la Ricerca. Tutto è accaduto al J Hotel, l’albergo al centro del J Village, nei pressi dell'Allianz Stadium, dove Aurora Leone dei The Jackal, convocata insieme a Ciro Priello per essere parte integrante della squadra e quindi scendere materialmente in campo, è stata allontanata dal direttore generale della Nazionale Italiana Cantanti, Gianluca Pecchini, mentre era a cena al tavolo con il resto del gruppo: “Ti devi alzare perché le donne non possono stare al tavolo delle squadre”. Eppure Aurora Leone era stata ufficialmente convocata per La Partita del Cuore – come dimostra lo scambio di mail tra gli organizzatori dell’evento e i manager dei due artisti dove viene anticipata la garanzia di giocare alcuni minuti oltre all'atto ufficiale di convocazione, tutti documenti in nostro possesso. Gianluca Pecchini aveva evidentemente idee diverse. Così, i due The Jackal si sono ritrovati a vivere una situazione surreale, estremamente denigratoria per Aurora come per Ciro. Arrivati nel pomeriggio di oggi, lunedì 24 maggio, dopo un viaggio di 800 chilometri, erano a cena quando il direttore generale in persona si è avvicinato al tavolo di squadra dove erano seduti i due – quello della Nazionale Italiana Cantanti – invitando Aurora Leone a sedersi a un tavolo diverso, composto da sole donne. “Ma io sono stata convocata” avrebbe risposto l’attrice ma la risposta severa del direttore generale non avrebbe ammesso repliche: “Ti devi alzare da qui”. 

"Le donne non giocano a calcio". È la stessa Aurora Leone a raccontare a Fanpage.it come è andata: "Gli abbiamo fatto presente che non ero un'accompagnatrice, ma giocatrice. Lui mi ha risposto "non farmi spiegare perché non puoi stare seduta qui, tu non puoi e basta". A quel punto, Ciro Priello e Aurora Leone hanno creduto di dover lasciare il tavolo solo perché facenti parte dell'altra squadra, quella dei Campioni per la Ricerca, ma non era così: "Aurora si deve alzare perché è donna e non può stare seduta qui secondo le nostre regole. E quando gli ho detto che avevo ricevuto la convocazione e avevo dato anche le misure del completino, lui ha risposto: "Ma tu il completino te le puoi mettere pure in tribuna, che c'entra. Le donne non giocano. Queste sono le nostre regole e se non le volete rispettare dovete uscire da qua". E siamo stati cacciati dall'albergo per questo motivo". 

Le scuse di Eros Ramazzotti. Ciro Priello è a quel punto intervenuto per sottolineare che lo spirito delle parole di Pecchini era all'esatto opposto dei valori della Partita del Cuore, ma a nulla è servito. Poche ore dopo, i due The Jackal ricevono la solidarietà e le scuse di Andro dei Negramaro, di Eros Ramazzotti, di Stefano Fisico (smm della Nazionale Cantanti) e di Andrea Bettarelli, a nome della Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro.

L'amarezza di Aurora Leone. Aurora Leone e Ciro Priello avevano partecipato sin dal loro arrivo alle attività social per sensibilizzare alla raccolta fondi per la Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro. D'altronde, la loro stessa partecipazione era in assoluta sintonia con i valori messi in campo storicamente dalla Partita del Cuore. La stessa Aurora è una grande appassionata e conoscitrice di calcio, tanto è vero che è spesso protagonista di gag e commenti sul canale Instagram dei The Jackal (ultimo, quello sulla Superlega). Proprio per questo si dice ancor più amareggiata: "Vorrei solo che quanto successo non metta in cattiva luce l'importanza della ricerca sul Cancro e di quanto fa la Fondazione".

Da tgcom24.mediaset.it il 25 maggio 2021. La maglietta per Aurora Leone è pronta, con tanto di nome e numero 30 sulla schiena. A mostrarla, in diretta al Tg4, è Enrico Ruggeri, capitano e presidente della Nazionale Italiana Cantanti che, nella Partita del Cuore, stasera sfiderà i Campioni per la Ricerca: "Se qualcuno la conosce ditele che la stiamo aspettando in campo". Una convocazione ufficiale, insomma, "per cercare di porre rimedio - spiega Ruggeri - a questo incidente per il quale abbiamo già preso provvedimenti".  La cosa importante, adesso, è ritrovarsi tutti insieme: "Aurora - conclude il capitano - se vuoi, noi siamo pronti, abbiamo un posto per giocare e renderci utili". Intanto si è dimesso Gian Luca Pecchini, dirigente della Nazionale. Le parole di Ruggeri arrivano a calmare il tam tam social nato da una serie di stories su Instagram nelle quali Aurora Leone e Ciro Priello dei The Jackal hanno denunciato un episodio di misoginia da parte degli organizzatori durante la cena che precede l'incontro. “Ci siamo seduti al tavolo con la Nazionale - dicono - e l’organizzatore ci ha detto che non potevamo stare seduti lì. O meglio – ha raccontato Aurora -, ha detto che io non potevo stare seduta lì”. Poi è intervenuto Ciro: “Quando facciamo per alzarci dice “no, no, tu puoi restare. È solo lei che non può rimanere al tavolo dei giocatori”. 

Il passo indietro. Alla luce dell'accaduto, nel primo pomeriggio è arrivata la nota di Gian Luca Pecchini, dirigente della Nazionale: "Mi assumo la responsabilità di quello che è accaduto dimettendomi dal mio incarico in attesa di parlare personalmente con Aurora Leone. Ci tengo però a sottolineare, a scanso di equivoci, che nessun artista si è reso conto dell'episodio in questione. I presenti si sono accorti di quello che stava accadendo nel momento in cui Aurora e Ciro si sono alzati per andarsene via".

Il sessismo alla Partita del cuore? Una costruzione social. Francesca Galici il 31 Maggio 2021 su Il Giornale. Le versioni dei protagonisti del caos della Partita del cuore tra Pecchini e The Jackal sono diverse ma c'è un aspetto che inquieta: il ruolo dei social. Al giorno d'oggi una qualunque persona, meglio se con un minimo di riscontro in termini di follower, può sfogarsi sui social e denunciare di essere stata "vittima" di un episodio contrario al politicamente corretto per scatenare l'ira contro presunto "colpevole". E non servono prove. Si crea un clima da "branco", che mastica e sputa il presunto responsabile. È quanto accaduto con la Partita del cuore: due dei The Jackal hanno raccontato la loro versione su Instagram sull'onda dell'emotività ed è scoppiato il finimondo. La versione dell'accusato, ossia Gianluca Pecchini, è completamente diversa rispetto a quella dei suoi accusatori ma nessuno ormai interessa. Per il tribunale virtuale, Aurora Leone è la vittima, Ciro Prillo il sodale solidale e Gianluca Pecchini il misogino. I ruoli sono stati già assegnati con un sommario processo social che ha già scritto la sua condanna incontrovertibile. Ma vediamo i fatti: Aurora Leone e Ciro Prillo dovevano partecipare alla Partita del cuore nella squadra dei Campioni per la ricerca. Non erano parte della Nazionale cantanti (che organizza l'evento). Questo è un dettaglio fondamentale da tenere a mente. Il giorno dello "scandalo" al ristorante avrebbe dovuto cenare solo la Nazionale cantanti, perché l'altra squadra sarebbe arrivata il giorno successivo. Aurora e Ciro, invece, sarebbero arrivati con un giorno di anticipo. Da qui iniziano le due versioni divergenti. Quella di Aurora Leone e Ciro Priello affidata a un video subito dopo la cena: "Io e Ciro ci siamo seduti al tavolo con la Nazionale cantanti, e una volta seduti lì l’organizzatore Pecchini è venuto e ci ha detto che non potevamo stare seduti lì. O meglio, ha detto che io non potevo stare seduta lì. Abbiamo pensato che ce lo stesse dicendo perché siamo della squadra avversaria. Quando facciamo per alzarci l’organizzatore Pecchini dice: ‘No, no, tu puoi restare. È solo lei che non può rimanere al tavolo dei giocatori'. Mi dice: 'Sei una donna, non puoi stare seduta qui, queste sono le nostre regole'". E il putiferio social è servito. Dopo alcuni giorni di silenzio, Gianluca Pecchini ha rilasciato un'intervista a Selvaggia Lucarelli per Tpi: "Vedo due persone che non conosco perché non le avevo invitate io: Ciro e Aurora. Di questo mi assumo la colpa: non sapevo chi fossero, forse da lì è scattato il reato di lesa maestà. Ho detto: ‘Questo è il tavolo della Nazionale Cantanti, vi potete mettere a un altro tavolo?’. Un tavolo che era a un metro eh, non chissà dove. [...] Ci sono delle piccole regole, dei riti, non so come li vogliamo chiamare. Da sempre la sera prima della partita la squadra è al tavolo insieme, prepara la partita con l’allenatore. [...] Io sono uno ruvido a volte, ma non so manco cosa vuol dire essere sessista. Potete decidere che sia un’usanza medievale quella dei calciatori tutti seduti a un tavolo, ma se io se vengo a casa tua mi siedo dove mi dici tu o dove decido io?". (Va detto che Gianluca Pecchini, in quanto organizzatore dell'evento, ha scelto una terna arbitrale tutta al femminile e che lo scorso anno il capitano della Nazionale cantanti era Alessandra Amoroso). La diatriba tra Pecchini e The Jackal si risolverà in tribunale per dar seguito a una querela dell'ex (forse) dirigente della Nazionale cantanti nei confronti di Aurora Leone. Era davvero necessario arrivare a questo? L'attrice non poteva alzare il telefono e fare una chiamata a Pecchini o a chi l'aveva invitata alla manifestazione per chiarire? Sarebbe stato tutto più semplice. Certo, meno rumoroso e meno clamoroso. E forse il "rumore social" era l'obiettivo del primo video condiviso per denunciare il presunto sessismo. Purtroppo, e molti episodi ne sono una dimostrazione, tutto ormai diventa argomento social, soprattutto quando si ha la certezza di riscuoterne i favori. E pazienza se si mette alla gogna un soggetto senza nemmeno aver ascoltato la sua versione, rovinandone spesso reputazione e carriera. Gianluca Pecchini, in una delle interviste rilasciate nelle ultime ore, ha sollevato anche un dubbio: "Ieri sera (domenica, ndr) loro hanno presentato un libro dal titolo "Non sono bravo a giocare a calcio" a "I Soliti Ignoti", spero sia una casualità". Tempismo decisamente perfetto. Per molti i social hanno preso il sopravvento sulla realtà, sono diventati il tribunale unico di colpevolezza. È qui che si celebra l'inquisizione del politicamente corretto e che si decide, senza possibilità di appello, chi è la vittima e chi il carnefice. Anche perché, purtroppo, le smentite e le voci dei "dissidenti" non hanno mai la stessa eco.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Da leggo.it il 27 maggio 2021. «Ciro, Aurora ed io abbiamo interagito per pochi minuti prima della cena. Mi sono preso la responsabilità per il bene dell'evento e della raccolta fondi ma oggi, a freddo e a seguito dei numerosi attacchi e insulti ricevuti ci tengo a chiarire categoricamente che io non ho mai detto ad Aurora e a Ciro niente di sessista. Si è scatenata su di me, sulla mia famiglia e sul nome dell’Associazione Italiana Cantanti una gogna mediatica. Chiedo a Ciro e ad Aurora dei The Jackal di essere sinceri e di chiarire che, nel nostro rapidissimo dialogo, prima della cena, io non ho mai pronunciato assolutamente nulla di sessista». Sono le parole pronunciate da Gianluca Pecchini, Direttore generale della Nazionale Cantanti, coinvolto nel caso della partita del cuore, accusato di aver pronunciato parole di stampo sessita "Sei donna non puoi sedere qui" da Aurora Leone, attrice dei The Jackal. «Se non dovessero farlo - aggiunge - dovrò tutelare la mia immagine da questa macchina mediatica del fango che mi hanno scatenato contro, sia a titolo personale che dell'Associazione a cui ho dedicato 40 anni di vita e che ha raccolto 100 milioni di euro compresi i 300mila euro di ieri sera». «Io e i The Jackal non giochiamo ad armi pari -sottolinea- io non ho neanche Facebook. Loro usano una macchina mediatica contro cui io non posso competere. Vorrei che loro fossero sinceri e che dicessero come sono realmente andate le cose, questo caos mediatico rischia di rovinare la mia immagine, la mia reputazione e la mia famiglia visto che ho anche tre figlie. Ieri mattina per senso di responsabilità mi sono beccato tutti gli insulti e ho dato le dimissioni perché sennò rischiava di saltare la manifestazione. Ma ora è il momento di fare chiarezza». Pecchini all'Adnkronos racconta così la sua versione dei fatti su quanto accaduto al J Hotel: «Eravamo tutti nella sala del ristorante del J Hotel e io stavo andando a controllare dove si sarebbero seduti Mogol, che è il nostro fondatore, Donna Allegra Agnelli e tutti gli altri ospiti. Tradizionalmente -spiega- al tavolo della Nazionale Cantanti ci si siedono solo i calciatori e i cantanti. In quel momento i cantanti smettono di essere artisti e diventano una squadra di calcio che il giorno dopo deve scendere in campo per raccogliere fondi». «I The Jackal venivano da Napoli e mi avevano spiegato che avevano chiesto, vista la distanza che dovevano percorrere in treno, di poter anticipare il loro arrivo che era previsto per il giorno dopo e quindi verso di loro era stata fatta una agevolazione -racconta ancora Pecchini- Io sono andato lì e ho semplicemente detto loro: “Ragazzi questo è il tavolo della Nazionale Cantanti” e gli ho chiesto se gentilmente si potevano sedere in altri tavoli e così hanno fatto visto che hanno mangiato nel tavolo a fianco». «Non so perché Aurora abbia raccontato questa storia -aggiunge il direttore generale della Nazionale Italiana Cantanti- l'ho vista un pò stizzita quando le ho detto che quello era il tavolo della Nazionale Cantanti ma non mi sarei mai immaginato un caos del genere. Loro (i The Jackal) continuano a dire che io ho detto frasi sessiste e a infangare il mio nome nonostante io li abbia visti forse per 46 secondi». «Lavoro in questo settore da 40 anni -ribadisce Pecchini- non abbiamo mai fatto discriminazioni verso nessuno, se per Aurora la discriminazione è che la nostra squadra deve porter stare seduta al tavolo insieme per poter parlare delle proprie cose allora sì, sono sessista», conclude ironico.

Dagospia il 31 maggio 2021. Dal profilo Facebook di Enrico Ruggeri. Aurora e Ciro sono stati invitati dalla squadra avversaria. Abbiamo deciso comunque di ospitarli nel nostro albergo. Non so quando, ma evidentemente a un certo punto viene detto loro che solo Ciro avrebbe giocato: presumo che, non essendo noi riusciti a trovare nessuna cantante donna disposta a giocare con noi, come invece altre volte era successo, anche i nostri avversari abbiano pensato di schierare una squadra solo maschile...Per onestà dico che non so quando questa decisione sia stata comunicata ad Aurora, in realtà io non la conoscevo, ma va detto che il problema non era di nostra competenza. Per fortuna noi avevamo da tempo scelto di dare comunque un segnale chiamando a dirigere la partita una terna arbitrale femminile (ci piaceva che una donna decidesse e noi fossimo costretti ad ubbidire...) Da 40 anni la nostra abitudine è quella di allestire un tavolo per la squadra, uno per lo staff e altri per gli ospiti, di qualunque sesso siano: ci vediamo solo alle partite, siamo sottoposti a sollecitazioni di ogni tipo e ci sembra bello parlare tra noi per un’ora per cementare la nostra unione. Quindi ESCLUDO NEL MODO PIÙ ASSOLUTO che una persona pacata, intelligente ed avveduta come Gianluca Pecchini abbia pronunciato una frase suicida come “non puoi sederti perché sei una donna”! Purtroppo non ero a tavola, mi è stato raccontato di un alterco tra Ciro e un membro dello staff, una deprecabile lite tra DUE UOMINI: non so chi avesse ragione, non c’ero, ma mi è stato detto che si è trattato di un momento molto antipatico da ambo le parti, conclusosi con un “adesso sono cazzi vostri”...relata refero...Quando esplode “la bomba” ci spaventiamo, cerchiamo di capire e porre rimedio, parlando tra noi fino a notte fonda. La mattina scopriamo che Eros, senza dirci nulla, è partito abbandonando la nave: si diffonde il panico. Inizia una riunione che si protrae per 8 ore, mentre arrivano notizie e pressioni di ogni tipo. “Non giochiamo!” “Dissociamoci!” Perché, dico io, non abbiamo nessuna colpa, siamo qui per raccogliere fondi! “Io ho il singolo in uscita!” “Sono fuori con la prevendita!” “Ho chiesto a tizia un feat e magari adesso mi dice di no!” Nel frattempo, mi dicono che devo dire qualcosa al TG4, sono agitato, voglio salvare la partita a tutti i costi, tutti mi stanno addosso...e sbaglio una frase: invece di dire “se non vede questo TG qualcuno glie lo dica” mi esce un infelicissimo “se qualcuno la conosce”, che probabilmente suona come un “non so chi sia”. Non era quello che volevo dire, ma peggioro ulteriormente la situazione. Poi uno di noi ha un’idea: “se Pecchini si dimette e si prende tutte le colpe noi giochiamo” Pecchini per salvare l’evento accetta, rovinando la vita a se stesso e alla sua famiglia (qualche giorno dopo sua figlia avrà un attacco di cuore da stress). La stessa persona che lo getta nel precipizio cambia idea e decide comunque di non giocare, seguito da altri... Provo a usare parole come “amicizia” “valori” “lealtà “, ma trovo molti sguardi rivolti al pavimento. Andiamo allo stadio su un pullman semivuoto, io e una decina di persone vere, li ringrazierò per tutta la vita. In albergo c’è perfino uno che dice “vado in bagno e arrivo subito”, si nasconde nei corridoi e stacca il telefono. Questo è quello che è successo, nulla di più e nulla di meno e la cosa che più mi rattrista è che per “un fatto” che nella realtà non era neppure “un fatto” sia stata rovinata un’iniziativa bella come quella della partita del cuore che in questi anni aveva reso felici molte persone, me per primo. RUGGERI

Da open.online il 31 maggio 2021. «Bravo Enrico, dovremmo mostrare quando alla Partita del Cuore del 2020 erano con noi la Moroso, Madame e Roberta Vinci (tra le altre). Tutti questi ebeti da social meriterebbero 2 o 3 carciofi in c*lo per svegliarsi». È il commento di Bugo, nome d’arte di Cristian Bugatti, al post di Enrico Ruggeri, che ha riacceso la polemica sul caso Aurora Leone. Le parole del cantante hanno provocato diverse reazioni da parte degli utenti su Twitter, dove è avvenuto lo scambio di messaggi. «Quando dici ebeti ce l’hai con noi o coi Jackal?», scrive un utente sulla piattaforma, «Bisogna rivalutare Morgan», scrive un altro rievocando il litigo tra il cantautore e Morgan, avvenuto a Sanremo 2020. «Inizio a pensare che avesse ragione su di te», sentenzia un altro contro Bugo. Ruggeri, capitano della Nazionale Italiana Cantanti, aveva postato una foto di una tavolata pre-partita del Sona Calcio, compagine veronese di serie D, facendo riferimento alla vicenda che ha visto accusare di sessismo l’ex direttore generale Gianluca Pecchini. «Pranzo pre-partita del Sona Calcio. I giocatori sono in un tavolo a parte. Funziona così in tutto il mondo», aveva scritto Ruggeri nella didascalia. Dopo le accuse, l’uomo ha denunciato l’attrice dei The Jackal Aurora Leone, che lo aveva accusato di averle chiesto di alzarsi dal tavolo dei giocatori convocati in quanto donna. 

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 25 maggio 2021. «Ma quale cacciata dal tavolo perché donna, questa è tutta una bufala per avere più follower». Non ha dubbi Sandro Giacobbe, storico appartenente della Nazionale italiana Cantanti e da sempre nell’organizzazione degli eventi di raccolta fondi per la ricerca con le Partite del Cuore. Uno sfogo, che si riferisce alla denuncia di Aurora Leone, attrice comica dei The Jackal - supportata dal collega Ciro Priello -, che ha raccontato di essere stata allontanata dal tavolo in cui ieri era in corso la cena precedente al match in quanto donna. Nel frattempo Gianluca Pecchini, il dirigente della Nazionale cantanti che avrebbe pronunciato le frasi sessiste, ha deciso di dimettersi in attesa di chiarimenti. Ma Giacobbe, che abbiamo raggiunto telefonicamente, ci ha spiegato perché da parte degli organizzatori dell'evento sono sicuri che sia tutta una montatura.

Sandro, qual è la posizione dell’organizzazione di cui fai parte dopo queste accuse?

Uscirà a breve un comunicato in cui facciamo fronte alle nostre responsabilità, ma la maggior parte delle notizie che sono state riportate non hanno nessun fondamento. Ci difenderemo rispetto a una grande offesa che ci viene fatta dopo 40 anni di impegno sociale.

Però Aurora e Ciro dicono che quelle frasi sono state dette.

No, qui c’è solo la volontà di far nascere un caso.

Quindi smentisci che Aurora sia stata allontanata dal tavolo in quanto donna e che le sia stato detto “da quando in qua le donne giocano a calcio?”

Assolutamente! L’unica cosa certa è che questa persona (Aurora), con il suo amico (Ciro) sono stati fatti arrivare il giorno prima perché distanti (venivano da Napoli) e quindi per alleggerire la trasferta. Loro tra l’altro giocavano nella squadra della Ricerca, però si sono seduti al tavolo della Nazionale cantanti, per cui gentilmente gli è stato fatto notare che quel tavolo non era il loro e sono stati fatti accomodare all’altro tavolo. Si sono seduti e hanno mangiato. Poi, probabilmente in quella situazione qualcuno ha pensato di cavalcare l’onda per far scoppiare un po’ di rumore mediatico.

Eppure, dicono di aver avuto un diverbio con Gianluca Pecchini, il dirigente della Nazionale cantanti, che li avrebbe apostrofati con quelle frasi.

No, a un certo punto dopo la cena hanno cominciato a dire che non era giusto essere trattati così e qualcuno avrà risposto per le rime. Forse ci sarà stato uno scontro verbale e hanno deciso di andarsene. Però è tutto strumentale.

Vi hanno accusato di sessismo.

Ma dai, siamo stati i primi a far giocare le donne con noi, abbiamo affrontato formazioni femminili, portato chiunque a giocare e ci dicono che siamo sessisti e razzisti? È una bufala tremenda.

Come ti spieghi quel che è accaduto?

Oggi basta una parola sbagliata e con i social ti trovi improvvisamente a essere un delinquente o un assassino, razzista, omofobo e sessista. Per quanto ci riguarda è una situazione irreale.

Cosa ti senti di dire ad Aurora e Ciro, che vi hanno accusato?

Adesso loro hanno la forza dei follower e stanno facendo un gran tam tam, ma noi abbiamo la nostra storia, con tutte le persone che hanno partecipato, con tutte le donazioni e le persone che abbiamo aiutato. È solo una polemica che finirà presto, ma sono certo che farà qualche ferito soprattutto fra chi l’ha provocata.

Speriamo serva almeno a portare più fondi per la ricerca.

Stiamo cercando di capire, perché stasera doveva essere la festa dei nostri 40 anni e dei 100 milioni di euro donati in tutto questo tempo e davvero non ci voleva. Io come artista, calciatore e appartenente a questa associazione mi sento davvero offeso. Per una stupidaggine non si può far scoppiare un caso del genere.

Stefano Graziosi per “La Verità” il 23 maggio 2021. Il delirio del politicamente corretto prosegue imperterrito la sua cavalcata. Le ultime notizie ci giungono da Chicago, dove il sindaco dem Lori Lightfoot - prima donna afroamericana e apertamente omosessuale a ricoprire questa carica - se n'è uscita con una «interessante» novità. In occasione del suo secondo anniversario come prima cittadina, ha stabilito di rilasciare interviste individuali esclusivamente a giornalisti di colore. La decisione, ha spiegato in una lettera, è nata dal fatto che la maggioranza dei giornalisti di Chicago che seguono il Comune sarebbe di etnia bianca. Le polemiche sono arrivate abbastanza presto. È per esempio il caso di Gregory Pratt, reporter ispanico del Chicago Tribune, che ha deciso di cancellare un'intervista già fissata con il sindaco, dopo aver invano chiesto la rimozione di questa nuova regola. Non solo: la Lightfoot ha anche affermato che in città non ci sarebbero giornaliste di colore che si occupano di politica comunale. Un'affermazione smentita dalla radio pubblica Wbez, che ha sottolineato come, tra i suoi tre reporter, vi siano due donne (una ispanica e una asiatica). Duro il commento del Wall Street Journal che ha accusato la prima cittadina di razzismo: una posizione fatta propria anche dal giornalista di Fox News, Tucker Carlson. Pur plaudendo alla «sensibilità» del sindaco in materia di diversità, la National association of black journalists ha tuttavia reso noto di non sostenere l'«esclusione di giornalisti». La polemica ha ben presto assunto dei contorni politici, con la deputata samoana Tulsi Gabbard (una dem spesso poco allineata al suo partito) che ha criticato la Lightfoot, parlando di «abominevole razzismo anti-bianco» ed esortando Joe Biden e Kamala Harris a chiedere le dimissioni della prima cittadina. Effettivamente la questione è incresciosa. In primis, la pretesa del sindaco evidenzia - una volta di più - come un certo mondo politico anteponga fattori quali etnia e sesso alle competenze e al merito individuali. Il valore e la dignità non sono più, cioè, legati alla persona, ma alla sua categoria di appartenenza: un tipo di mentalità che balcanizza la società, alimenta il conflitto e che, nel Novecento, ha finito col produrre delle mostruosità inenarrabili. In secondo luogo, si scorge un ulteriore elemento inquietante: e cioè quello di un potere politico che pretende di intromettersi nell'attività della stampa. Il che è strano, visto che, negli anni della presidenza Trump, il Partito democratico non ha fatto che ribadire la necessità di un giornalismo libero dalle interferenze del potere. Qualcuno magari obietterà che, nel caso presente, la Lightfoot lo faccia a fin di bene, per salvaguardare la «diversità». Peccato che le cose non stiano così: in una democrazia liberale il fine non giustifica i mezzi (questo semmai succede nei regimi) e, soprattutto, il potere politico (a qualunque livello) non dovrebbe permettersi di sindacare su come una testata giornalistica debba comportarsi (dalla sua linea editoriale alle assunzioni). C'è quindi da chiedersi se, dietro la questione etnica, non si celi in realtà un obiettivo di intimidazione nei confronti dei media. Del resto, che il sindaco tema una stampa guardinga è comprensibile. Negli scorsi giorni, si sono verificate proteste da parte di associazioni che, a partire dai sindacati di insegnanti e polizia, sono scontente del suo operato. E attenzione: perché alcune di queste organizzazioni, come United working families, gravitano attorno al Partito democratico. Problemi, poi, si registrano anche in materia di sicurezza. Secondo quanto riferito venerdì dal Chicago Sun-Times, le sparatorie in città sarebbero aumentate del 36% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, mentre gli omicidi avrebbero registrato un incremento del 19%. In tutto ciò, a gennaio, il sindaco ha tacciato di razzismo un consigliere comunale del suo stesso partito, che si era opposto al rafforzamento della protezione per gli immigrati clandestini. Veniamo poi al «capitolo iconoclastia». Nel 2020, in piena smania da Cancel culture, la Lightfoot ha fatto rimuovere ben tre statue di Cristoforo Colombo: una rimozione che sostenne essere temporanea e che la portò a creare una commissione per la revisione dei monumenti nel nome di una «guarigione razziale». Ad aprile, un'associazione italoamericana si è fatta avanti, chiedendo al Comune che (almeno) una delle tre statue del navigatore venga ripristinata. Sorge quindi il «vago» sospetto che, con le interviste etniche, la Lightfoot abbia puntato a gettare fumo negli occhi, per evitare i riflettori sui suoi guai politico-amministrativi. Eppure il problema resta una mentalità di fondo che crede di poter garantire il progresso sociale a suon di quote e ghettizzazioni. L'esatto opposto di quello in cui credeva il reverendo Martin Luther King, che concepiva il superamento del segregazionismo all'interno di un discorso di unità nazionale: non soffiando sul fuoco della conflittualità. Una lezione che certo attivismo odierno sembra aver dimenticato, in un delirio neo-puritano che abbatte monumenti e che divide le persone in base al colore della pelle.

"Celebrare Colombo è razzista": la follia liberal che nega la storia. Stefano Magni su Il Giorale il 12 ottobre 2021.  Il secondo martedì di ottobre è il Columbus Day, negli Usa, come da tradizione da 129 anni. La festa della scoperta dell’America da parte del navigatore genovese, però, a Philadelphia, si celebra con la sua statua coperta da un box. Un po’ come le statue dei Musei Capitolini fatte coprire dal governo Renzi in occasione della visita del presidente iraniano Rouhani. In questo caso, la copertura non è motivata dalla religione, o dal pudore: la statua di Colombo non riproduce un corpo nudo. Ma, secondo le motivazioni della Corte del Commonwealth di Pennsylvania, mostrarla potrebbe dare origine a gravi disordini. "Rimuovere la copertura durante il fine settimana di questa celebrazione, potrebbe porre un serio pericolo alla sicurezza pubblica". Questo pronunciamento della Corte ribalta la decisione della Corte delle udienze comuni di Philadelphia che, il giorno prima, aveva ordinato di “liberare” la statua dalla sua gabbia. Il sindaco Jim Kenny si era rifiutato di eseguire l’ordine e lunedì, all’ultimo minuto, la Corte del Commonwealth gli ha dato ragione. 

La campagna contro le statue

Se Philadelphia fosse un caso singolo, sarebbe semplicemente un fatto curioso. Ma non lo è. Quest’anno, infatti, ben 25 Stati degli Usa, la metà dei governi locali americani, hanno rimosso la celebrazione del Columbus Day. Nella maggior parte dei casi, l’hanno sostituita con l’Indigenous Peoples Day, quest'anno celebrato l'11 ottobre: il giorno dei popoli indigeni, dei nativi americani. Lo scopo di questa sostituzione, nell’anno delle contestazioni di Black Lives Matter, è ovviamente l’antirazzismo, un omaggio a chi, la colonizzazione europea, la subì. Già 33 fra statue, monumenti e busti sono stati distrutti dai manifestanti. Altri monumenti come quelli di Columbus (che porta il nome del navigatore), sono stati rimossi per volontà delle autorità locali. Se non altro per quieto vivere, comuni come Philadelphia preferiscono nascondere.

A fronte di questa ribellione, il presidente Joe Biden, quest’anno, ha fatto l’equilibrista. Ha infatti proclamato il Columbus Day, come tutti i predecessori, ma ha anche riconosciuto le ragioni dei suoi contestatori: "Oggi riconosciamo la storia dolorosa dei torti e delle atrocità che molti esploratori europei hanno inflitto alle nazioni native e alle comunità indigene. È una misura di grandezza della nostra nazione quella di non seppellire questi vergognosi episodi del passato".

L'origine del Columbus Day

Se però la causa dell’Indigenous Peoples Day contro il Columbus Day è motivata dalla memoria dei crimini ed è contro il razzismo, di quale razzismo parliamo? Nei confronti di chi? Cristoforo Colombo, a partire dal 1892 (a 400 anni dalla scoperta), è stato celebrato come un simbolo della comunità italiana in America. Un anno prima, undici italo-americani, accusati ingiustamente dell’uccisione di un ufficiale di polizia (e assolti per non aver commesso il fatto) erano stati barbaramente trucidati dalla folla a New Orleans. Benché i linciaggi nell’America dell’Ottocento non fossero così rari, il massacro degli italiani a New Orleans fece scalpore e divenne un caso internazionale (l’Italia, allora governata da Giolitti, richiamò l’ambasciatore).

Per motivi di pubbliche relazioni, nonostante buona parte della stampa di allora arrivasse a sostenere il linciaggio, il presidente Benjamin Harrison aveva annunciato una celebrazione nazionale del giorno di Colombo. Il primo Columbus Day fu quello del secondo martedì di ottobre nel 1892, poi divenne consuetudine negli anni Trenta, dal primo mandato del presidente Roosevelt (che era fortemente sostenuto dagli elettori italiani di New York) e infine fu istituzionalizzato, a livello nazionale, nel 1968, sotto il presidente Johnson.

Abolire il Columbus Day, dunque, è quantomeno un atto di disprezzo nei confronti della comunità italiana e delle sue vittime: vittime del razzismo. Però, evidentemente, c’è una gerarchia anche nel razzismo. Come constata il ricercatore James Brown dell’Intercollegiate Studies Institute, "Cristoforo Colombo è una triplice minaccia: bianco, maschio e cattolico, proveniva dalla Spagna dell’era dell’Inquisizione, come se non bastasse".

La rilettura della storia

Il Giorno dei Popoli Indigeni è praticamente un’invenzione di Berkeley, l’università di San Francisco dove iniziarono sia il movimento per la pace che il ’68 americano. Berkeley fece sua la battaglia, che durava già da anni, del movimento indigenista internazionale, sia del Nord che del Sud America. L’idea venne proposta, a mo’ di provocazione, il 12 ottobre 1992, in occasione dei 500 anni della scoperta dell’America. Lo scopo è la completa rivisitazione della storia del Nuovo Mondo. Secondo questa visione del passato, Colombo fu il “primo dei genocidi” e il “primo degli schiavisti”.

Una condanna che ha un certo fondamento nella storia, considerando che il grande navigatore genovese governò col pugno di ferro Hispaniola la primissima colonia europea in terra americana. Per questo venne rimosso dalla corona spagnola e arrestato dopo la sua terza spedizione. Fu una dimostrazione di civiltà non comune: la Spagna cristiana dimostrava di riconoscere i crimini come tali, anche se commessi contro nativi americani. Purtroppo nella rilettura della storia compiuta alla fine del Novecento, questo merito non viene riconosciuto. Si riconosce solo la brutalità del colonialismo europeo, senza neppure volerlo confrontare con la violenza estrema e sistematica degli imperi americani pre-colombiani.

Celebrare i popoli nativi e non Colombo, vuol dire anche riabilitare gli imperi aztechi e maya? Già sta succedendo, come dimostrano certi piccoli (ma significativi) fatti nel mondo dell’istruzione pubblica. Come la scelta del Dipartimento dell’istruzione della California, per questo anno scolastico, di proporre programmi scolastici di studi etnici (Ethnic Studies Model Curriculum, ESMC) che includono canti comunitari inneggianti agli dei aztechi. La proposta (facoltativa), include l’insegnamento ai ragazzi di inni basati su In Lak Ech che insegna “amore, unità, rispetto reciproco” e Panche Be che descrive il “trovare le radici nella verità”.

Sono concetti nobili ed eterni, che però nascondono una realtà storica e religiosa estremamente crudele. Secondo i proponenti del nuovo programma di studi, nomi come Tezkatlipoca e Huitzilopochtli verranno presentati solo come concetti che, nei popoli indigeni, racchiudevano il significato di riflessione e di azione. Ma, se le parole hanno un senso, Tezkatlipoca è anche il nome di una divinità azteca, potentissima quanto capricciosa, che chiedeva sacrifici umani. In suo nome, prigionieri venivano sacrificati in grotteschi combattimenti gladiatorii. Huitzilopochtli era il dio azteco del Sole e della guerra. E nei riti si estraeva il cuore della vittima sacrificale. Insomma, se l’eredità della colonizzazione europea e cristiana, con Colombo, viene sepolta e dimenticata, eredità crudeli di altri popoli torneranno inevitabilmente alla ribalta. Perché la storia non ammette vuoti.

Giuseppe Sarcina per il "Corriere della Sera" il 12 ottobre 2021. In bilico tra storia e scontro politico. Tra i conquistadores del Cinquecento e il movimento Black Lives Matter. Il Columbus Day è la festa più controversa d'America. Sempre più Stati decidono semplicemente di ignorarla. Oggi sono 25, dalla California al Minnesota; dall'Alaska alla Louisiana. In altri territori, come il South Dakota, il 12 ottobre (o dintorni) è diventato l'«Indigenous Day», il giorno dedicato alla memoria dei nativi sterminati dagli esploratori europei. Joe Biden prova a mediare, a tenere insieme la grande impresa del navigatore genovese e il revisionismo promosso non solo dalle comunità di indigeni e dalle tribù. Nel 2020 il movimento di protesta per l'uccisione dell'afroamericano George Floyd guidò la «strage delle statue», abbattendo in diverse città, specie nel Sud, i simboli del passato schiavista. La contestazione si allargò anche alle origini «dell'oppressione coloniale». Una catena che inizia, secondo questa logica, con Cristoforo Colombo. A oggi sono 33 i suoi busti o i suoi monumenti distrutti,da Boston a Richmond in Virginia. Oppure rimossi dai comuni come a Columbus in Ohio o, ancora, «impacchettati» come accade a Philadelphia. Ecco perché la «proclamazione» di Biden, diffusa l'8 ottobre, è soprattutto un esercizio di equilibrio: «Colombo è stato il primo di molti esploratori italiani ad arrivare in questa terra, il 12 ottobre del 1492, che saranno conosciute come Le Americhe. Molti italiani seguiranno il suo percorso nei secoli successivi, rischiando la povertà, la fame, la morte. Oggi milioni di italo-americani...danno un grande contributo al Paese. ...Oggi, vogliamo anche ricordare la storia dolorosa dei misfatti e delle atrocità che molti europei hanno inflitto alle Tribù e alle comunità indigene». La conclusione è in puro stile Biden: «Facciamo in modo che sia un giorno di riflessione, sullo spirito americano di esplorazione, sul coraggio e il contributo degli italo-americani attraverso le generazioni, sulla dignità e la capacità di reazione delle tribù dei nativi e delle comunità indigene, sul lavoro che ci resta da fare per realizzare la promessa di una Nazione per tutti». Il messaggio della Casa Bianca allude anche alla genesi e al significato profondo del Columbus Day. Nel 1892 il presidente Benjamin Harrison decise di celebrare l'anniversario come un'occasione per ricucire lo strappo diplomatico con il governo italiano, l'anno dopo che a New Orleans erano stati linciati 11 italo-americani ingiustamente accusati di aver partecipato all'omicidio del capo della polizia David Hennessy. Erano gli anni, come ha raccontato il giornalista e scrittore Brent Staples, in cui «gli immigrati italiani cominciarono a diventare bianchi». L'8 giugno del 1912 il presidente repubblicano William Taft inaugurò il monumento tuttora più importante: «la Columbus Fountain», la prima cosa che un viaggiatore vede uscendo dalla Union Station di Washington dc. Nel 1934, infine, Franklin Delano Roosevelt istituì formalmente il Columbus Day a livello federale. Le organizzazioni degli italo-americani, riuniti nella «Conference of presidents» hanno protestato, ricordando l'eccidio di New Orleans e sottolineando come la storia degli Stati Uniti sia segnata dalla schiavitù degli afroamericani e dal confinamento dei nativi nelle Riserve. Ieri, comunque, le celebrazioni sono filate via lisce. Una delegazione dell'Ambasciata italiana ha deposto una corona alla Columbus Fountain nella capitale; a New York nessun problema nella tradizionale parata, di nuovo per le strade dopo la pandemia. 

Gabriele Gambini per "la Verità" il 12 ottobre 2021. Il Black lives matter perde colpi. Il movimento statunitense che, soprattutto in ambito sportivo, si è intestato il ruolo di capofila nella lotta alla discriminazione etnica attraverso la ritualità scenografica dell'inginocchiarsi prima di ogni competizione, non è più un blocco monolitico. Forse non lo è mai stato, ma domenica, in occasione della partita valevole per il terzo posto di Nations league tra Italia e Belgio, il suo condizionamento ideologico è stato scalfito da un atleta che, in teoria, dovrebbe rappresentarne le istanze. Mentre tutti giocatori in campo si prostravano come da copione in attesa del calcio d'inizio, Michy Batshuayi, ventottenne attaccante della nazionale belga, è rimasto all'impiedi, la testa alta e lo sguardo orgoglioso. Batshuayi è un virgulto di 185 cm, soprattutto è di carnagione nera, ascendenze congolesi più volte sbandierate con fierezza identitaria. Non è la prima volta che accade, a dirla tutta. A fine febbraio scorso, durante il match di Premier league tra Crystal Palace e West Bromwich Albion, Wilfried Zaha, ivoriano in forza al Palace ed ex compagno di squadra proprio di Batshuayi, inaugurò un precedente destinato a far discutere. Rifiutò il siparietto della prostrazione simbolica, dribblando le forzature a costo di essere tacciato di collaborazionismo sovranista, per poi ammettere schiettamente in un'intervista rilasciata a The Judy Podcast: «Secondo me inginocchiarsi è degradante, i miei genitori mi hanno sempre detto di mostrarmi orgoglioso di essere nero». Continua Zaha: «Dovremmo rimanere in piedi, non inginocchiarci. È una cosa che facciamo sempre prima delle partite, ma la facciamo così, giusto per farla, e per me non è sufficiente. Non mi inginocchierò e non indosserò una maglietta con la scritta Black lives matter. Si cerca di dire che siamo tutti uguali, ma la verità è che ci stiamo isolando con questi gesti, secondo me non stanno nemmeno funzionando. Questa è la mia posizione sulla vicenda». Il cortocircuitò è evidente. Mentre la nazionale italiana durante gli Europei aveva dapprima lasciato libertà di scelta ai suoi calciatori sull'adesione alla ritualità del Black lives matter, poi si era corretta, proponendo di inginocchiarsi solo se l'avessero fatto anche gli avversari, e domenica scorsa vi ha aderito in toto per evitare polemiche, sono proprio gli atleti di colore a manifestare perplessità sull'utilità del gesto, al netto del plauso di prammatica dei social media. Sottolineando un aspetto essenziale della faccenda: la lotta a ogni forma di discriminazione non può essere appannaggio di un'unica area politica sorta per di più in un contesto storico e culturale preciso come quello degli Stati Uniti d'America, che hanno una storia diversa rispetto ad altre nazioni europee. In più, proprio la valorizzazione di ogni tipo di identità dovrebbe obbligare a rifuggire da una forma globale di conformismo ideologico. Con parole simili si era già espresso di recente il difensore spagnolo in forza al Chelsea Marcos Alonso: «Sono contro il razzismo e mi oppongo a ogni tipo di discriminazione», ha spiegato a Sky Sport «ma preferisco solo mettere il dito sullo stemma che dice no al razzismo, come si usa fare in altri sport e nel calcio di altri Paesi. Ribadisco molto chiaramente che rispetto tutti e non discriminerò mai nessuno». Alonso non gradisce essere tirato per il bavero in questioni di squisita tenzone politica, spesso inerti davanti alle misure doverose anti emarginazione: «Penso che il mettersi in ginocchio stia perdendo forza simbolica, quindi preferisco solidarizzare in altra maniera». La scelta non ha generato alcun attrito con Romelu Lukaku, suo compagno nei Blues e alfiere delle istanze Blm: «Quando ci troviamo negli spogliatoi, siamo una famiglia. Ho un ottimo rapporto con tutti, amo tutti e fino a ora non abbiamo affrontato la questione. Non credo che ce ne sia bisogno, ma, naturalmente, se devo confrontarmi con qualcuno, dirò la stessa cosa che ho appena affermato e non credo sorgeranno problemi». Il suo allenatore Thomas Tuchel lo difende: «Tutti noi sportivi vogliamo dare un contributo decisivo per frenare ogni ghettizzazione. A volte occorre fare qualcosa di diverso per spezzare la routine, penso che Marcos intenda questo con le sue parole. Di sicuro posso assicurarvi al cento per cento che non è affatto razzista, anzi». Il succo è: libertà di scelta e di coscienza nel decidere come comportarsi all'inizio delle partite, lotta concreta alle discriminazioni, ma rifiuto deciso di assecondare la foga all'incasellamento tipica di quest' era. Una fregola che punta a uniformare comportamenti e gesti secondo dogmi universali e che va a braccetto con la cultura della cancellazione, quella che spinge molti dei militanti Black lives matter ad abbattere le statue di Cristoforo Colombo o di Winston Churchill, a far passare i libri inediti sotto al vaglio della censura, magari a cancellare i classici dai programmi universitari perché non conformi al modo di pensare corrente. Insomma, quell'ideologia che, con la scusa di valorizzare le libertà, alimenta le misure coercitive che di quelle libertà sono la loro perfetta negazione.

Vuoi laurearti? Segui un corso sull'antirazzismo. Gerry Freda l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il corso antirazzismo introdotto dalla legge californiana punterà a fare maturare negli studenti una maggiore coscienza delle iniquità sociali. Una legge appena entrata in vigore nello Stato americano della California stabilisce che gli studenti, per conseguire il diploma di liceo, dovranno frequentare un "corso obbligatorio antirazzismo". La normativa in questione è stata varata da Gavin Newsom, governatore democratico del Golden State, dopo oltre un anno di dibattito sulla giustizia razziale acceso dall'uccisione dell'afroamericano George Floyd. L'approvazione di questa legge, la cui prima bozza risale al 2018, è stata subito commentata da molti analisti Usa come "un unicum" a livello nazionale. Nel provvedimento si legge che i corsi antirazzismo obbligatori si chiameranno formalmente "studi etnici" e punteranno a fare conoscere meglio agli studenti le diverse comunità etniche che popolano la California e che ne costituiscono la ricchezza economica, culturale e accademica. Lo scopo dichiarato dell'insegnamento in questione è promuovere negli studenti "una consapevolezza sociale", affrontare "le iniquità del sistema" e le forme di intolleranza verso afroamericani, ebrei e immigrati. La legge appena varata non descrive nel dettaglio il programma del corso antirazzismo, ma si limita a delineare una cornice generale inerente ai principi e agli scopi connessi all'innovativa attività didattica. Saranno quindi i distretti scolastici e le singole scuole a definire autonomamente il contenuto dei corsi, che saranno offerti a partire dal 2025, mentre l'obbligo per il diploma scatterà dal 2029. Il governatore Newsom ha salutato l'introduzione del percorso didattico antirazzismo presentandolo come una sorta di "vaccino contro le discriminazioni". Tuttavia, la sua decisione ha innescato subito feroci polemiche nel Paese. A tuonare contro il provvedimento è stato innanzitutto il fronte conservatore, con in testa l'ex presidente Donald Trump. Il tycoon ha infatti bollato la legge incriminata come "propaganda tossica della sinistra" e come esempio di "Cancel culture". A esprimere critiche verso la normativa sono state però anche associazioni ebraiche e arabe, per cui i corsi antirazzismo rischiano di non essere sufficientemente calibrati sul tema dell'odio verso le comunità giudaiche e musulmane. I sostenitori della riforma la difendono invece evidenziando la crescente "emergenza intolleranza" nelle scuole americane, la cui ultima dimostrazione sarebbe la petizione online "per ripristinare la schiavitù" fatta circolare da alcuni studenti del Missouri.

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

 

Sintesi dell'articolo di Chiara Pizzimenti per "Vanity Fair" pubblicata da "la Verità" il 3 giugno 2021. Indecente, sessista, diseducativa. Sono alcuni degli aggettivi usati dagli abitanti di Palm Springs, in California, per descrivere una statua gigante di Marilyn Monroe che sarà collocata di fronte a un museo locale. La statua in acciaio e alluminio, alta oltre 8 metri e costata 1 milione di dollari, rappresenta Marilyn nella scena del film Quando la moglie è in vacanza, di Billy Wilder, in cui il vento creato dal passaggio della metropolitana alza la gonna e scopre le gambe dell'attrice mentre passa su una griglia di ventilazione. Parte della popolazione non la vuole perché spinge il pubblico a guardare sotto la gonna dell' attrice. Anche il direttore del Palm Springs Art Museum, Louis Grachos, è contrario: «Trovo che sia estremamente offensiva per i ragazzi che escono dal nostro museo e la prima cosa che si trovano davanti è la biancheria intima di Marilyn».

Simona Bertuzzi per “Libero quotidiano” il 20 maggio 2021. Comincio a pensare che la dittatura del politically correct entrerà di soppiatto nei nostri armadi e ci sfilerà senza indugi la sottana. Non potremo più andar vestite con abiti smilzi e svettare su tacchi vertiginosi perché correremmo il rischio di destare le ire di qualche neofemminista assetata di censura e indumenti castigati. Esagerazioni? Niente affatto se pensate che persino la povera Marilyn Monroe - lei che ha costruito un mito sulle sue curve, le sue gonne e la sua vocina da bionda svampita - è finita nel mirino di un moralismo bigotto che ha gli occhi foderati di sessismo e vede in tutto, compresa l'arte, un indicibile sfruttamento del corpo delle donne. La statua di Marilyn Monroe "incriminata" si trova in California ed è alta circa sette metri La sua statua - alta sette metri, esposta a Palm Springs in passato e ora sul punto di essere issata all'ingresso dell'Art Museum della città californiana - traballa e scricchiola sotto i colpi della censura e di una petizione popolare che ha già raccolto 40mila firme e ha come promotrice una certa Elisabeth Armstrong, ex direttrice del museo. Costei ha definito l'opera dell'artista Seward Johnson «pura misoginia, sotto le spoglie della nostalgia una fantasia antiquata o un'illusione di pochi uomini che ricordano i bei vecchi tempi a Hollywood, quelli che però non erano bei tempi per le donne... Un'opera palesemente sessista, costringe quasi le persone a fare Upskirting (guardare sotto le gonne, ndr). Sollecitiamo la città a trovare modi più appropriati per onorare la vera eredità di Marilyn e la sua memoria». Armstrong ha anche organizzato una manifestazione a fine aprile per opporsi all'iniziativa con tanto di slogan e cartelli. La statua, acquistata per 1 milione di dollari dalla catena Ps Resorts, raffigura Marilyn nella famosa scena del film «Quando la moglie è in vacanza». C'è l'aria leggera e frizzantina di un'America vorace e un tantino bigotta e Marilyn che si ferma sulla grata della metropolitana e lascia che l'aria proveniente dal sottosuolo le alzi la sottana. Ecco, la posizione della diva, la veste alzata con malizia e la mutandina (da educanda) in bella mostra, secondo i nuovi censori indurrebbero il maschio medio a guardare sotto le sottane per sbirciare le parti intime di una donna (upskirting appunto). E non avrebbe nulla a che vedere con lo spirito che anima il museo. Non a caso il neo direttore si è opposto. E l'artista Nathan Coutts ha tuonato: «Come opera d'arte è di cattivo gusto e mostra solo il deficit di alfabetizzazione culturale e artistica di coloro che sono coinvolti nell'erigere questo monumento alla misoginia».  Oddio, sull'opera d'arte si può anche discutere ma che la posa di Marilyn, anzi della statua, sia un inno al machismo è follia ed esasperazione di un'epoca politicamente corretta (solo la definizione comincia a dare sui nervi) in cui si tende a pensare che le donne siano tutte prede senza nerbo da proteggere come animali in via d'estinzione e gli uomini dei personaggi lascivi (maiali rende meglio l'idea?) che sbirciano sotto le sottane con la bava alla bocca. Forse alcuni sono così ma non fanno certo caso all'arte e ai monumenti. E poi scusate. Neppure il pubblico di allora ebbe l'ardire di bacchettare una pellicola del grande Billy Wilder in cui la borghesia statunitense veniva raffigurata alle prese con desideri repressi e tentazioni che dagli indiani d'America in poi (cito il film) costellano la vita di ogni individuo. Il protagonista, ricordate, era il tipico "esemplare" di marito di Manhattan la cui famiglia parte per la villeggiatura, dovrebbe lavorare tranquillo ma si frega le mani pregustando il bicchiere di whisky dopocena e la sigarettina che fumerà senza reprimende muliebri. Intanto legge il libro di psicanalisi sulle scappatelle del settimo anno di nozze e ascolta la voce focosa della nuova dirompente vicina. Il film con qualche escamotage (il tema dell'adulterio non era ancora metabolizzato pubblicamente) superò le perplessità e il moralismo di quegli anni lontani, e dovremmo essere noi a scandalizzarci per una statua che lo celebra? Di questo passo non si salverà più nulla. E come annunciato, verranno eliminate prima le gonne - quelle aderenti sui fianchi e anche quelle corte e infine le sottanone lunghe che chissà mai che pensieri destano nei maschi lascivi - e poi Marilyn, l'attrice e pure il mito, che come è noto faceva impazzire gli uomini, si esibiva per i soldati e cantava Happy Birthday al presidente. Intanto perdiamo tempo prezioso. E l'occasione di condurre più nobili battaglie. Ci fermiamo alle apparenze e non andiamo alla sostanza. Nomignoli che finiscono con la a, statue con le gonne alzate, quote rosa nei dibattiti televisivi e forse anche davanti al banco dei surgelati. E quelle povere principesse Disney, che erano tanto belle da raccontare ai bimbi, prese a calci nel sedere e censurate perché si facevano baciare e salvare a piacimento dei maschi. Adesso è la volta di Marilyn. Lei che ci ha messo una vita, anche dopo che è morta, a far capire chi era veramente e che ora si ritrova sulla graticola di un magmatico e ottuso metooo e di una corrente puritana e sciocca che si indigna e fa battaglie su un paio di mutandine di marmo. Ps. A sto' punto viene voglia di mettersi la gonna.

“Vietato dire Signore e signori….”. Le ferrovie inglesi eliminano l’annuncio per non offendere gli Lgbt. Laura Ferrari domenica 16 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Una compagnia delle ferrovie inglesi ha ordinato ai propri conducenti di evitare di salutare i passeggeri con le parole “signore e signori, ragazzi e ragazze” dopo le proteste da parte di un passeggero “non binario”. La London North Eastern Railway ha infatti annunciato sui Social di avere incoraggiato il personale a parlare “senza menzionare il sesso” per evitare di offendere i passeggeri che non si identificano come “né maschi né femmine”. La decisione arriva dopo che un passeggero, anche lui un dipendente ferroviario, ma della South Western Railway, si è lamentato di un capotreno che ha salutato i viaggiatori a bordo del treno con il classico “signore e signori”. Chi ha formalizzato la protesta è Laurence Coles, che è anche un rappresentante LGBT del sindacato ferroviario e membro del partito laburista. Ha scritto sui Social che lui e altri passeggeri a bordo del treno in quel momento, si erano sentiti esclusi dall’annuncio. Laurence aveva scritto nel suo post di protesta: «Buon pomeriggio, signore e signori, ragazzi e ragazze… Quindi come persona “non binaria” questo annuncio in realtà non si applica a me, quindi non lo ascolterò». Dopo la protesta ufficiale e altri commenti indignati di altri utenti gender, la compagnia delle ferrovie inglesi ha promesso di intervenire. La London North Eastern Railway è una compagnia di proprietà pubblica e la scelta “politicamente corretta” ha provocato un’ondata di proteste. Molti passeggeri britannici hanno accusato la LNER di essere “ridicola” e di assecondare richieste senza senso. Le scuse di LNER, che gestisce i servizi sulla East Coast Main Line tra Londra King’s Cross e il nord-est e la Scozia, hanno suscitato infatti, un’ondata di critiche. Mark Jenkinson, deputato conservatore di Workington in Cumbria, ha osservato: “Pensate a far andare i treni in orario anziché assecondare queste richieste assurde”. Altri utenti, invece, hanno chiesto quali termini alternativi dovrebbero essere usati se i capotreni volessero accogliere i loro passeggeri in modo “inclusivo”.

Massimo Arcangeli per "il Giornale" il 25 giugno 2021. C' è un pensiero profondo, radicato a destra come a sinistra, sulla percezione della diversità sessuale. Va ben oltre la nota vaticana sul ddl Zan e investe in modo pesante la scuola, l'università e l'editoria. Il discorso prende avvio dall' antica Grecia, col suo modello «tanto invocato dai difensori della libertà omosessuale», e prosegue bellamente. L' omosessualità maschile può focalizzarsi «su un adolescente, su un uomo maturo, su un uomo anziano, o ancora, nel caso della pulsione pedofila, su un bambino impubere». Le relazioni omosessuali fra uomini «si riducono, nella maggior parte dei casi, a brevi incontri con un partner sconosciuto che non si vedrà mai più. Queste relazioni maschili furtive sono caratterizzate dalla clandestinità e assomigliano ai comportamenti degli adolescenti quando temono di essere rimproverati dai genitori. Pochi omosessuali stringono relazioni passionali». L' omosessualità femminile? È «diretta a rimarginare una ferita ancora troppo minacciosa». La donna, opponendosi al desiderio del maschio, sconterebbe il trauma prepuberale di essersi arrestata «a uno stadio dello sviluppo affettivo che precede quello della differenziazione sessuale». L' ingombrante immagine paterna, che «può suscitare paura, odio, essere rifiutata oppure troppo amata», finirebbe per farla regredire e ostacolare in lei la «possibilità di amare un altro uomo». Intanto quella donna, onde «evitare» l'altro sesso, potrebbe aver intrattenuto «relazioni incestuose con un padre o con un fratello». Gay anaffettivi, immaturi e potenziali pedofili e povere lesbiche traumatizzate da bambine. Pensi a Mario Adinolfi, oppure a Silvana De Mari, e scopri invece trattarsi di un noto psichiatra e sessuologo francese. Gli estratti provengono dalla voce «omosessualità» (2000) redatta da Philippe Brenot per L' Universo del corpo (1999-2000), un'opera in 6 volumi liberamente consultabile in rete. È edita da quella stessa Treccani che ultimamente, accogliendo le rimostranze di una lettera pubblica (107 i firmatari), ha depennato dalla voce «donna» dei suoi Sinonimi e contrari (2003), anch' essi on line, un bel po' di equivalenti volgari di buona donna, donna da marciapiede, ecc. (da cagna a zoccola), lasciando sopravvivere solo prostituta. Bardassa, buco, checca, culattone, culo (rotto), finocchio, frocio, invertito, recchione. Sono i più «fioriti» corrispondenti di omosessuale snocciolati in quel repertorio. L' Istituto della Enciclopedia Italiana potrebbe dotare il termine omosessuale delle opportune avvertenze, come ha fatto per «donna» in varie sue opere, compresi i Sinonimi e contrari, sottolineandone la «caratterizzazione negativa o offensiva», o potrebbe decidere di cassare quelle voci denigratorie. Sarebbe però, in questo caso, l'ennesimo cedimento agli eccessi del politically correct, avendo un dizionario il preciso compito di registrare l'esistente. L' incredibile contenuto della voce «corpo» redatta da Brenot, frutto di una precisa impostazione teorica «medico-scientifica», è ovviamente tutt' altra faccenda. Lo studioso, peraltro, è recidivo. L' 8 aprile 2011, rispondendo sul quotidiano Le Monde a una domanda di un internauta, sostenne che la psicanalisi considerava l'omosessualità una perversione: «ciò che la maggior parte degli omosessuali non accetta perché non si ritiene malata». Sull' affaire Brenot, cara Treccani, non ci sono scusanti. Quel corpo deve sparire.

Dagonota il 14 maggio 2021. L'Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani ha deciso di cambiare il sinonimo di donna dal suo "Vocabolario dei sinonimi" dopo che due mesi fa, sulle pagine di Repubblica, si era aperto un dibattito tra un gruppo di attiviste guidate da Maria Beatrice Giovanardi e scaturito in una lettera firmata da 100 donne e inviata alla Treccani. Nella lettera l'Istituto veniva invitato a rivedere le espressioni che, alla voce eufemismi, elencavano termini ritenuti offensivi, tra cui "cagna" o "zoccola", tutte legate all'espressione "buona donna". Valeria Della Valle, direttrice del vocabolario Treccani e condirettrice, con Giuseppe Patota, del Nuovo Treccani, ha spiegato a Repubblica che «non è stata una decisione improvvisa: fin dalle origini la Treccani si è rinnovata in base ai cambiamenti del costume e della società». E che «pur non avendo io né diretto né lavorato mai a questo dizionario, ho condiviso con alcune delle firmatarie della lettera la necessità di fare qualche cambiamento e qualche taglio. I dizionari devono testimoniare l'uso scritto e parlato, buono e cattivo, rispettoso e volgare, naturalmente avvertendo quando si tratta di usi offensivi». Toni completamente diversi da quelli utilizzati il 6 marzo 2021, quando, rispondendo all'appello delle firmatarie sul sito della Treccani, Della Valle spiegò che «[...] negli anni ’70, quando ero una giovane redattrice del Vocabolario Treccani, oltre a impegnarmi nelle nuove definizioni di voci come “donna” e “femminismo”, per citare solo le due che mi stanno più a cuore, eliminai con grande soddisfazione l’espressione “angelo del focolare”. Me ne sono pentita, e ho fatto in modo che la locuzione, anni dopo, tornasse al suo posto. Eliminandola, avevo commesso un grave errore, perché quell’espressione, presente nell’uso parlato, in romanzi e articoli giornalistici, e oggi usata ormai solo scherzosamente e ironicamente, non deve essere cancellata, ma spiegata [...]». E oggi dichiara su Repubblica che «un prossimo vocabolario sarà al passo coi tempi. I dizionari devono fotografare la realtà linguistica del proprio tempo, ma conservare anche gli usi legati a un passato che non possiamo censurare. Impossibile produrre vocabolari asettici e politicamente corretti. Insomma, i dizionari sono tutt'altro che cimiteri di parole: per fortuna oggi se ne discute civilmente, in un confronto che non è più, come nell'Ottocento, una discussione tra lessicografi barbuti, maschi e misogini». Solo due mesi fa invece scriveva che «pur apprezzando le ragioni di principio che hanno spinto cento donne a firmare la lettera, vorrei condividere una riflessione con loro. Siamo sicure che eliminando “puttana”, “cagna”, “zoccola” e “bagascia” dal vocabolario dei sinonimi contribuiremmo a migliorare l’immagine della donna? Al contempo, allora, sempre nel “Dizionario dei sinonimi”, in una visione bipartisan dovremmo fare piazza pulita, alla voce “uomo”, di “uomo delle caverne”, che in senso figurato, scherzoso o spregiativo può indicare chi è (cito) barbaro, cafone, incivile, maleducato, primitivo, screanzato, selvaggio, tanghero, troglodita, zotico». E sempre due mesi fa: «Sono convinta che non sarà invocando un falò (non solo simbolico) per bruciare le parole che ci offendono che riusciremo a difendere la nostra immagine e il nostro ruolo. Anzi, vorrei che le espressioni più detestabili e superate continuassero ad avere spazio nei dizionari, naturalmente precedute dal doveroso avvertimento che segnala al lettore quando le espressioni o le frasi proverbiali citate corrispondono a un pregiudizio o a un luogo comune tramandato dal passato ma non più condivisibile. Secondo qualcuno i dizionari sono “cimiteri di parole”: lo sarebbero se si limitassero a registrare una lingua plastificata, politicamente corretta, che rappresenti una realtà come la vorremmo. Credo, al contrario, che il nostro sforzo comune debba essere quello di fare in modo che la lingua del disprezzo esaurisca il suo corso, rimanendo però come testimonianza sociale, storica, letteraria, del passato. Con la speranza, questo è il mio augurio non solo da lessicografa, che la realtà (e poi la lingua) cambi, perché le parole non siano più solo femmine, i fatti non più solo maschi».

Da "gossipetv.com" il 14 maggio 2021. Annuncio in pompa magna di Propaganda Live, che nelle scorse ore ha reso noti gli ospiti attesi per la puntata di stasera del programma in onda su La7 e condotto da Diego Bianchi, noto anche con lo pseudonimo Zoro. Peccato che uno degli invitati, non appena ha appreso chi fossero gli altri ospiti, ha detto ‘grazie e arrivederci’. Di chi si tratta? Della giornalista Rula Jebreal. La Jebreal, non appena ha scoperto che gli altri ospiti previsti per la puntata del 14 maggio a Propaganda Live erano tutti uomini, ha rifiutato di intervenire in trasmissione. Tutto si è consumato in tempo reale via social. Lo show di La7 ha pubblicato un post su Instagram, informando il suo pubblico che nell’appuntamento del 14 maggio 2021 sarebbero intervenuto Rula Jebreal, Michele Serra, Elio, Caparezza, Colapesce e Dimartino, Valerio Aprea, Fabio Celenza, Claudio Morici, Memo Remigi e il maestro Enrico Melozzi per ricordare Ezio Bosso. Nel momento in cui ha letto il suddetto post, Rula ha preso la decisione di sfilarsi immediatamente dal programma, spiegando il perché attraverso un commento ‘tostissimo’ riferito all’annuncio della trasmissione di Diego Bianchi: “7 ospiti… Solo una donna! Come mai? Con rammarico devo declinare l’invito, come scelta professionale non partecipo a nessun evento che non implementa la parità e l’inclusione”. Una risposta secca e dura, che non sembra lasciare spazio a repliche, che, al di là che arrivino o no, non faranno certo cambiare idea alla Jebreal.

“C’è solo una donna, non vengo”. Figuraccia di Rula Jebreal, smentita da “Propaganda Live”. Monica Pucci venerdì 14 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Più che al politicamente corretto, ormai siamo al cabarettismo di genere. In nome della parità di genere, la giornalista Rula Jebreal si sfila dagli ospiti di “Propaganda Live” perché non vuole essere l’unica donna in studio. Peccato che non sia vero, come qualche ora dopo le ricordano i responsabili del programma condotto da Diego Bianchi, detto “Zoro”. Intanto, però, per tutta la giornata si è parlato di lei e del suo gran rifiuto in nome della causa femminile. Ha vinto, in ogni caso, Rula Jebreal: ha fatto parlare di sé.  La giornalista Rula Jebreal era stata invitata per la puntata di questa sera a parlare dell’escalation nel conflitto israelo-palestinese. Ma poi ha letto il tweet partito dall’account della trasmissione: “Questa sera torna Propaganda Live. Saranno con noi Rula Jebreal, Michele Serra, Elio, Caparezza, Colapesce e Dimartino, Valerio Aprea, Fabio Celenza, Claudio Morici, Memo Remigi e il maestro Enrico Melozzi per ricordare Ezio Bosso. Ci vediamo alle 21,15 su La7”. Era solo l’annuncio di un ufficio stampa, sui nomi più conosciuti, ma Rula Jebfreal ne ha approfittato per sollevare un bel polverone. “7 ospiti… solo una donna. Come mai?? Con rammarico devo declinare l’invito, come scelta professionale non partecipo a nessun evento che non implementa la parità e l’inclusione”. “Mi sembra solo un grande equivoco – commenta con l’Adnkronos il direttore di La7, Andrea Salerno – dovuto a un tweet che all’occhio di una persona che non conosce il nostro programma può essere stato fuorviante. Spero che l’equivoco rientri prima della diretta di questa sera perché ci tenevamo a parlare con lei del conflitto arabo-israeliano”, ha aggiunto Salerno. Nel frattempo, un nuovo tweet dall’account del programma sottolinea che il parterre prevede come sempre anche altre presenze femminili: “Saranno con noi, come ogni settimana, anche Constanze Reuscher, Francesca Schianchi, Marco Damilano e Paolo Celata”. Chissà se questo convincerà Rula a tornare sui suoi passi, magari pensando al tema della trasmissione, un po’ più rilevante delle sue ossessioni di genere, peraltro immotivate, come dimostra il parterre della trasmissione. “Le mie parole al festival di Sanremo e il mio impegno per la parità e l’inclusione sono principi morali che guidano la mia vita. Non sono solo parole, sono scelte! La sottorappresentazione femminile nei media italiani è parte centrale del problema”. Così Rula Jebreal torna ad intervenire su Twitter spiegando perché ha declinato l’invito a partecipare questa sera a ‘Propaganda Live’, dove era l’unica ospite in scaletta. Un Tweet che non sembra preludere affatto ad un ripensamento, come invece auspicato con l’Adnkronos dal direttore di La7, Andrea Salerno.

"Non partecipo": il rifiuto tv della Jebral che scatena le polemiche. Federico Garau il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. La nota giornalista di origini palestinesi non accetta che in studio non ci siano altre ospiti di sesso femminile. Non c'è un numero sufficiente di ospiti femminili in studio, quindi declino l'invito, firmato Rula Jebreal. L'inatteso rifiuto a partecipare alla trasmissione televisiva Propaganda Live arriva proprio dalla arcinota "paladina dei diritti femminili", probabilmente troppo zelante in questa circostanza, visto che ha scelto di dare buca per la puntata di stasera del programma in onda su La7 condotto da Diego Bianchi, alias Zoro, a causa di una disparità numerica di genere. La Jebreal, nota giornalista di origini palestinesi, aveva ottenuto le luci della ribalta in particolar modo sul palco del Festival di Sanremo (edizione 2020), quando si rese protagonista di un monologo a favore delle donne. Non si tratta comunque dell'unica ospitata per quest'ultima, dal momento che in più di un'occasione ha preso parte a trasmissioni telvisive e talk show di vario genere, da quelli più specificamente di contenuto politico a quelli cronachistici. Alla base della sua scelta di respingere la proposta d'invito da parte della trasmissione in onda su La7 ci sono motivazioni di orgoglio femminile, forse un tantino spinte, dato che anche gli autori del programma avevano già diffuso i nomi dei vari ospiti che sarebbero stati presenti stasera, compresa la stessa giornalista. Un affondo arrivato pubblicamente, ma tramite social network. Propaganda live aveva infatti scelto Instagram per avvisare i propri follower che nella puntata del 14 maggio, oltre a Rula Jebreal, ci sarebbero stati anche Michele Serra, Elio, Caparezza, Colapesce e Dimartino, Valerio Aprea, Fabio Celenza, Claudio Morici, Memo Remigi e il maestro Enrico Melozzi per ricordare Ezio Bosso. Apriti cielo. Come può accadere che in studio vi sia spazio per una sola donna? E come mai gli uomini sono più numerosi? Dopo aver letto il post sul celebre social, Rula Jebreal è trasalita ed ha subito scelto di non partecipare ad una trasmissione evidentemente da lei ritenuta troppo sessista. "7 ospiti… Solo una donna! Come mai? Con rammarico devo declinare l’invito, come scelta professionale non partecipo a nessun evento che non implementa la parità e l’inclusione", ha infatti sbottato la giornalista palestinese, che non pare lasciar spazio ad eventuali ripensamenti. "Mi sembra solo un grande equivoco", ha dichiarato ad Adnkronos il direttore di La7 Andrea Salerno, "dovuto a un tweet che all'occhio di una persona che non conosce il nostro programma può essere stato fuorviante. Spero che l'equivoco rientri prima della diretta di questa sera perché ci tenevamo a parlare con lei del conflitto arabo-israeliano".

Rula Jebreal risponde a Propaganda Live (e a Fiorella Mannoia). Vera Monti il 15/05/2021 su Notizie.it. Continua la querelle tra Rula Jebreal e Propaganda Live. La giornalista non si lascia sfuggire nemmeno il commento di Fiorella Mannoia. Non cenna a placarsi la querelle tra Rula Jebreal e Propaganda Live. La giornalista condivide un post nelle storie instagram a commento dell’intervento di Diego Bianchi sulla sua mancata partecipazione e risponde al commento di Fiorella Mannoia. Dopo l’annuncio social di Rula Jebreal di non voler partecipare alla puntata di Propaganda Live di venerdì 14 maggio, Diego Bianchi aveva aperto la puntata proprio sulla questione che aveva tenuto banco sui media per tutto il giorno. Visibilmente rammaricato per la mancata partecipazione della giornalista – non solo per la sua competenza nel commentare quanto sta accadendo tra Israele e Palestina ma anche per difendere la sua trasmissione che della parità e dell’integrazione ha fatto la sua bandiera  – ha affermato che gli ospiti vengono scelti di volta in volta a commentare i fatti della settimana, in base alla  stretta competenza sull’argomento e non sul sesso. Un’affermazione che invece di chiarire ha suscitato una nuova – e piccata- risposta della giornalista. Tra un intervento e l’altro nelle tv internazionali, proprio a commentare la pesante situazione tra Israele e la Palestina – Rula ha condiviso un post nelle sue stories come risposta all’intervento di Diego Bianchi. La giornalista infatti ha condiviso il post di una collega newyorkese che riprendeva in via ironica quanto aveva affermato Michele Serra- anche lui ospite della puntata alla quale avrebbe dovuto partecipare la Jebreal – all’inizio del suo intervento riguardo la questione del conflitto tra Israele e Palestina. “Non so niente di Palestina” aveva infatti affermato e tanto è bastato per suscitare l’ironia della giornalista, con tanto di emoticon di una donna che si mette le mani tra i capelli. Ovviamente con riferimento ironico alla frase di Diego Bianchi sulla scelta degli ospiti in base alla competenza. In realtà la frase   di Michele Serra sulla Palestina va contestualizzata al suo discorso piuttosto articolato e il suo contributo è stato in realtà spunto di riflessione per i tanti che hanno seguito la puntata. Oltre a condividere il post della collega su instagram Rula ha poi pubblicato su twitter la sua risposta a Diego Bianchi, riprendendo sempre la sua frase sulla competenza degli ospiti scelti a commentare le news in trasmissione: “Il problema di sottorappresentanza delle donne – in politica, e nei Media – segnala che la competenza non basta….Salvo pensare che gli uomini siamo statisticamente più competenti”. Risposta che in effetti, non può che far riflettere anche i più accesi sostenitori di Propaganda Live.

La risposta a Fiorella Mannoia. Rula Jebreal non si è limitata solo a questo ma ha anche risposto a Fiorella Mannoia. La cantante infatti si era schierata a favore della trasmissione, ritenendola di certo non sessista. Secondo la cantante quindi, non era intervenuta nella trasmissione dato il tema scottante sul quale avrebbe dovuto dire la sua. Affermazione oggettivamente priva di fondamento dato che la Jebreal non si è di certo mai tirata indietro a commentare simili notizie, anzi. Infatti la risposta è arrivata puntuale: “Cara Fiorella Mannoia vado quasi tutti i giorni a parlare di questo TEMA nelle TV USA, vado dove la parità, la diversità e l’inclusione NON sono una esclusiva per poche ma principi saldi che vengono Rispettati e Realizzati sempre. Ecco il cambiamento che meritiamo!” Aggiungendo a corredo di questo commento, l’immagine che la ritrae in studio di un’altra trasmissione con altre donne in studio.

Rula Jebreal e Propaganda Live: le fazioni social. Intanto, sui social si scatenano le diverse fazioni di chi si schiera a favore di Propaganda Live e chi invece sostiene la presa di posizione della Jebreal. C’è chi fa notare che già in passato la giornalista aveva partecipato a una trasmissione dove gli ospiti erano per la maggior parte uomini. E chi, invece, riscontra nell’atteggiamento dello staff di Propaganda Live le tipiche contraddizioni della sinistra italiana. Peccato che una questione così importante finisca con la solita rissa social che non stimolando una riflessione pacata e seria, finisce con l’esaurirsi in un picco di interazioni per poi scemare nuovamente nell’oblio. 

Da “ilgiornale.it” il 16 maggio 2021. La reazione al «no» di Rula Jebreal di partecipare alla puntata di Proganda Live di venerdì sera perché unica donna - non si è fatta attendere. Il conduttore del programma di La7, Diego Bianchi, alias Zoro, ha rispedito al mittente le accuse di sessismo mosse dalla giornalista di origini palestinesi: «Di base cerchiamo di chiamare un ospite perché competente in una determinata materia, senza soffermarsi troppo sul suo sesso». Ieri la nuova replica della giornalista: «Il problema di sottorappresentanza delle donne - in politica e nei media - segnala che la competenza non basta... Salvo pensare che gli uomini siano statisticamente più competenti».

Claudio Sabelli Fioretti per “Il fatto Quotidiano” il 16 maggio 2021. Rula Jebreal. L'argomento è scivoloso e sento che alla fine di queste righe qualcuno dirà che ho pestato - come dire - una boassa. Rula ha una regola. E lo ha spiegato molto bene. "Come scelta professionale non partecipo a nessun evento che non implementa la parità e l'inclusione", ha spiegato. E quindi ha declinato l'invito di Diego Bianchi a partecipare a Propaganda Live. Come darle torto? Ognuno è libero di andare dove vuole. E se sceglie come norma un comportamento che aiuti la gente a capire che è necessario non fare discriminazioni non possiamo che applaudire. Ovviamente bisogna stare attenti a usare il buon senso. Se in un talk show che abbia come tema la politica economica vengono invitate dieci persone e una sola è una donna è ovvio che siamo in presenza di un comportamento discriminatorio. E spesso ciò è successo. Ma anche Rula non può non essere d'accordo con me che il principio non va applicato con rigida determinazione. Per esempio all'evento Roma-Lazio, tutti hanno visto che sono scesi in campo calciatori. Tutti uomini. D'accordo è una provocazione. Ma mica tanto. Può capitare che in una trasmissione io debba invitare quattro persone. Una che racconti la vita delle suore di clausura. Una che spieghi che cosa spinge alcune ragazze verso la prostituzione. Una terza che ci ricordi la dura esistenza delle mondine. Una quarta che racconti la tremenda avventura di una ragazza stuprata. Ecco, Rula, come la mettiamo? Invitiamo quattro donne senza paura di essere accusati di aver discriminato gli uomini? Un caso estremo? Allora la faccio più facile ancora. Se Rula avesse detto: a La7 la somma totale degli invitati è nettamente a favore degli uomini, allora la sua posizione sarebbe stata più comprensibile. Alla trasmissione di Zoro volevano ricordare Mattia Torre attraverso le parole del suo migliore amico e hanno invitato Valerio Aprea. Che cosa avrebbero dovuto fare per non scontentare Rula? Insomma, buon senso. Non sarò io a dire che è finito il tempo di lottare duramente. Ma ci vuole buon senso perché il buon senso è di sinistra. O almeno lo era. PS : Propaganda Live ha postato un ultimo tweet per sottolineare che il parterre prevedeva come sempre anche altre presenze femminili: "Saranno con noi, come ogni settimana, anche Constanze Reuscher, Francesca Schianchi, Marco Damilano e Paolo Celata". Era una battuta?

Quando femminismo e politicamente corretto offuscano la mente. Francesca Galici il 17 Maggio 2021 su Il Giornale. Rula Jebreal ha rifiutato l'invito a Propaganda Live perché si è accorta di essere l'unica donna presente: quando l'integralismo ideologico va in tilt. Partiamo dai fatti, ormai noti. Rula Jebreal ha rifiutato l'invito a Propaganda Live perché lei sarebbe stata in un parterre con solo uomini. Nel programma di La7 l'avrebbero voluta per parlare del conflitto tra Palestina e Israele, non per disquisire delle nuances di colore dei rossetti. Ma no, lei ha sbandierato sui social che non sarebbe andata. Evidentemente per lei la forma assume più importanza del contenuto. Rula Jebreal ha innescato un cortocircuito a sinistra che rischia di far implodere i cervelli degli intellò. Mentre noi sgranocchiamo i pop-corn in attesa di capire come usciranno da questo impasse mica da ridere, nei salotti buoni si discute di informazione sessista e si propongono le quote rosa. Ah, che bella la mentalità dei politicamente corretti: urlano alla discriminazione di genere e poi chiedono la discriminante di genere. A Rula Jebreal non interessava discutere dell'argomento con persone competenti, lei voleva discuterne con altre donne. L'integralismo ideologico è ormai diventato un ostacolo e Diego Bianchi, conduttore (sinistramente schierato), si è stupito: "Siamo diventati noi la notizia". Il femminismo a tutti i costi è stato anteposto da Rula Jebreal all'importanza del dibattito sulla crisi tra Israele e Palestina. Poteva dimostrare di avere qualcosa di più intelligente da dire rispetto ai colleghi uomini ma ha preferito frignare perché non c'erano altre donne. Ha usato il pretesto (perché di questo si tratta) per tornare a far parlare di sé come paladina di una battaglia non rilevante. E non è rilevante nemmeno per lei a quanto pare, visto che un anno fa era attovagliata nel programma di Corrado Formigli insieme ad altri uomini, senza nessun'altra donna. Superando l'integralismo ideologico telecomandato di Rula Jebreal, la donna contro le discriminazioni che apostrofò Nicola Porro come "uomo bianco" che in quanto tale non avrebbe potuto parlare, esistono dei ragionamenti che si possono fare in tal senso. Saremmo dei folli a negare la disparità di genere in termini di presenza televisiva tra esperti di sesso maschile ed espert... Un attimo, prima di proseguire mettiamoci d'accordo: esperte, espertesse o direttamente espert*? Mentre ci aiutate risolvere questo dilemma, riprendiamo il filo. Dicevamo, è vero che la presenza maschile e quella femminile non sono egualitarie ma davvero è più importante chi dice cosa? Veramente l'informazione ha bisogno di quote rosa e non di persone competenti, al di là del loro sesso? E noi che pensavamo che per fare informazione e far capire a chi ascolta quello che si ha da dire bastasse conoscere l'argomento. Che ingenui che siamo, noi che prediligiamo il contenuto al contenitore. Come siamo retrogradi noi che non ci preoccupiamo di verificare, calcolatrice alla mano, se la radice quadrata nel numero di uomini presenti in un dibattito sia uguale alla radice quadrata del numero di donne. Eppure, noi crediamo di essere dalla parte del giusto. Di donne competenti ne esistono tantissime, Rula Jebreal ne è probabilmente un esempio. Però sapere di essere state inserite in un dibattito culturale, o in ogni altra posizione, solo perché è stato imposto un numero minimo di donne, non è oltremodo svilente per l'intelligenza e la battaglia per l'affermazione femminile?

Massimo Falcioni per "tvblog.it" il 17 maggio 2021. La tv è davvero maschilista? Il discorso rispunta ciclicamente e l’ultima ad aver riacceso la miccia è stata Rula Jebreal. La giornalista, che ha rifiutato l’invito di Propaganda Live in quanto unica donna tra gli invitati, si è soffermata sugli ospiti. Ma si sa, l’ospite lo si convoca in base al contesto, alle esigenze del momento e alle storie che si intendono raccontare. Il discorso al contrario cambia, e di molto, se l’occhio di bue si accende sui conduttori. Questi offrono una fotografia stabile e molto più nitida della reale situazione. Ecco allora che si torna al quesito di partenza: la tv è davvero maschilista? La risposta è no. Basta darle una sbirciata in lungo e largo, dalla mattina alla sera, sette giorni su sette. Prendiamo il sabato sera, giorno in cui si concentrano le principali sfide del piccolo schermo: da anni il duello riguarda Milly Carlucci e Maria De Filippi. Mutano i programmi – Ballando con le stelle e Cantante Mascherato da una parte, Amici e C’è posta per te dall’altra – eppure il risultato non cambia. Sì, c’è Tu si que vales, show a guida corale, ma anche qui l’impronta di Maria sembra predominante, al pari di quella di Gerry Scotti. La musica non cambia la domenica: scavallato il pranzo, parte l’invasione femminile: Mara Venier a Domenica In, Barbara D’Urso a Domenica Live, Lucia Annunziata a Mezz’ora in più, Camila Raznovich a Kilimangiaro e Francesca Fialdini a A ruota libera. Tinte rosa pure al mattino, nei feriali: è il caso di Luisella Costamagna ad Agorà, di Gaia Tortora e Alessandra Sardoni a Omnibus, di Eleonora Daniele a Storie Italiane, di Barbara Palombelli a Forum, di Antonella Clerici a E’ sempre mezzogiorno, di Myrta Merlino a L’Aria che tira e di Adriana Volpe a Ogni Mattina. E quando l’uomo appare lo fa quasi sempre in coabitazione con una collega, vedi Uno Mattina, Mattino Cinque e Mi manda Rai 3. Si prosegue al pomeriggio: a Oggi è un altro giorno e Detto Fatto ci sono Serena Bortone e Bianca Guaccero (entrambe subentrate a Caterina Balivo), a Geo c’è Sveva Sagramola, a Tagadà c’è Tiziana Panella, mentre su Canale 5 è staffetta tra la De Filippi (Uomini e Donne) e la D’Urso (Pomeriggio Cinque). L’eccezione è rappresentata da Alberto Matano a La vita in diretta, dove però la doppia guida uomo-donna è stata portata avanti per ben due lustri fino al giugno scorso. Un’altra fascia dove per il maschio l’ingresso è off-limits è il talk di access prime time. A Otto e mezzo, Stasera Italia e Tg2 Post regnano infatti quattro donne: Lilli Gruber, Barbara Palombelli, Veronica Gentili (nei weekend) e Manuela Moreno. Stesso discorso, o quasi, per i reality. Da Ilary Blasi ad Alessia Marcuzzi, passando per Simona Ventura, Daria Bignardi, Paola Perego e la stessa D’Urso, il genere è stato poco battuto dagli uomini (riciclati semmai come ‘valletti’ e inviati), con Alfonso Signorini che ha infranto una sorta di tabù con le ultime due edizioni del Grande Fratello Vip. Prima di lui, si ricordavano a malapena Nicola Savino all’Isola (l’ultima targata Rai) e Carlo Conti al timone del dimenticato – e dimenticabile – Ritorno al presente. Da notare, inoltre, come su La7 la figura maschile sia ripetutamente accostata a quella del "supplente", con Francesco Magnani e Alessio Orsingher fanno spesso le veci della Merlino e della Panella. A sorpresa, le donne hanno saputo gradualmente imporsi in un settore storicamente ‘maschilista’ come quello del calcio. Pertanto, non fanno più notizia le conduzioni di Ilaria D’Amico, Anna Billò, Giorgia Rossi, Diletta Leotta, Simona Rolandi e Paola Ferrari. Giusto per citarne alcune. Se c’è invece un campo in cui il gentil sesso non riesce a sfondare è quello dei giochi e dei quiz. Motivo per cui non troviamo donne nel preserale delle ammiraglie (L’Eredità, Avanti un altro, Caduta Libera, Reazione a catena) e nemmeno nei vari game piazzati altrove (Soliti Ignoti, Affari tuoi). A memoria, oltre alle fugaci esperienze di Clerici e Ventura ad Affari Tuoi e Le tre scimmiette, non si registrano altri esperimenti. Ci siamo concentrati sulla quantità, volutamente. Perché su quello si è soffermata la Jebreal con la sua protesta. Il discorso, tuttavia, non ci entusiasma. Le donne ci sono e non per rispettare delle quote, o una sorta di immaginaria par-condicio. Ci sono dove è giusto che ci siano, dove c’è domanda. In televisione vanno analizzati i contenuti, a prescindere da chi li veicola. Nessuno dovrebbe ispirarsi al manuale Cencelli, almeno per il sesso. E anche un palinsesto riempito al 99 per cento da soli uomini – o sole donne – sarebbe ampiamente giustificato, qualora la scelta fosse basata sulla professionalità e la preparazione.

Da "adnkronos.com" il 16 maggio 2021. Selvaggia Lucarelli si inserisce nella polemica sull'invito a "Propaganda Live" rifiutato da Rula Jebreal in nome della parità di genere (sarebbe stata l'unica ospite donna della puntata), per sollevare un altro 'caso' legato al tema dei diritti e ad un ospite fisso dello stesso programma. "Ieri - scrive su Facebook Lucarelli - mentre ci si accapigliava per Rula, sfuggiva un fatto ben più emblematico sullo stato della sinistra che riguarda sempre un protagonista di 'Propaganda Live': Roberto Angelini, il cantante nel cast fisso di Propaganda Live postava un video in cui raccontava che ha un ristorante di sushi e una sua amica (che chiama "pazza incattivita"), che faceva lavorare in nero per farle un favore, l’ha denunciato. La Finanza gli ha fatto una multa di 15.000 euro. Lacrime, dramma, solidarietà al cantante-imprenditore di Emma, Jovanotti, Elodie e altri vip. E insulti alla lavoratrice. Insomma, la sinistra che ci piace: solidarietà all’imprenditore, mica al lavoratore". Su Facebook Angelini aveva raccontato ieri mattina di avere appena scoperto di essere stato denunciato da un’'amica' alla guardia di finanza. "Dopo un anno di sacrifici per non chiudere cercando di limitare al massimo il ricorso alla cassa integrazione per i miei dieci dipendenti (visti i tempi biblici). Ho comprato un furgoncino per le consegne e fatto lavorare amici che avevano bisogno. Mi sono indebitato per pagare i fornitori. Ho resistito con i ristori evidentemente inadeguati. Non avendo uno spazio all’aperto sto facendo i salti mortali per allestirne uno al volo. E poi... 15 mila euro di multa per lavoro in nero". E ancora: "Per colpa di una pazza incattivita dalla vita sarei stato costretto a chiudere e mandare a spasso 10 persone", aveva aggiunto, lamentando "il tradimento ricevuto da una presunta amica che ha mangiato e dormito a casa mia. Che mi confidò che aveva bisogno di soldi e io pensai bene di aiutarla". Proprio la Lucarelli però pubblica nei commenti della sua denuncia una ricostruzione della vicenda (ricevuta sempre via social da una sedicente amica dell'amica 'traditrice' di Angelini): la ragazza non avrebbe denunciato nulla, in realtà, ma sarebbe stata fermata dalla finanza durante il lockdown duro (zona rossa) dello scorso anno mentre faceva consegne per il ristorante del musicista. Poi sarebbe stata ricontatta dalla Finanza che voleva vederci chiaro e che l'ha interrogata sul suo rapporto di lavoro. Di qui la multa della Finanza ma anche la perdita del lavoro per la ragazza. La persona che ha scritto la ricostruzione sottolinea che l'amica "traditrice" ("un’amica che colta in flagranza di reato, mentre si spostava durante un turno di lavoro in zona rossa per fare le consegne a domicilio senza un regolare contratto, non lo avrebbe coperto e non avrebbe magari mentito per lui!") "è stata messa alla gogna mediatica senza possibilità di difendersi". E, aggiunge, Angelini "sfruttando ancora una volta la sua visibilità di personaggio pubblico, dopo aver sfruttato la sua compassione da amico che ti fa lavorare in nero, ha ben pensato di fornire la sua versione dei fatti ammettendo candidamente di aver commesso un reato". "Sì, il lavoro nero è un reato! Non ci sono giustificazioni di sorta per un simile atteggiamento! Ma in questo caso no, c’è il plauso della folla". "Caro Angelini - scrive ancora chi ricostruisce la vicenda - nessuno ti ha denunciato: il vittimismo e la mistificazione della realtà sono totalmente fuori luogo in questa circostanza! Il suo post sta riscuotendo le pacche sulle spalle e il supporto di tantissimi personaggi dello spettacolo italiani (io li citerei tutti). Voglio solo urlare a gran voce quanto questa ipocrisia mi faccia male". Qualche ora più tardi, ieri, Angelini era tornato su Facebook per ringraziare della solidarietà ricevuta e chiedere ai suoi follower di smettere di insultare la ragazza: "Voltiamo faccia. Ci tengo davvero a ringraziarvi tutti per l’abbraccio e il sostegno ricevuto. Ho scritto un post di pancia. E forse avrei potuto evitarlo. Mi dispiace però leggere insulti verso la ragazza e mi rendo conto di essere in una posizione privilegiata. Non avevo previsto tutto questo. Per favore non insultatela più, mi fa sentire in colpa, quando in realtà vorrei tenermi l’incazzatura ancora per un po'". "A chi mi parla di "mai lavoro in nero" dico che sono d’accordo e ho sbagliato. E infatti pago. Ma sicuramente non è questo il luogo per approfondire. E insomma, tutto si risolverà nei modi e nelle sedi adatte. In tutto questo, a dimostrazione della mia coglionaggine, mi sono dimenticato che oggi sarebbe uscita una mia nuova canzone. Ho incasinato la giornata di tutte le persone che lavorano da mesi al mio progetto. E poi penso, e se il mio brano si fosse chiamato "rider" o "lavoro nero"... Cazzo sarei stato un genio. Che trovata promozionale! E invece no. Si chiama L’Era Glaciale e non c’entra niente". Ma c'è chi tra i follower non ha apprezzato affatto: "L'incipit 'Voltiamo faccia' è perfetto. Ti descrive bene. Si vede che sei abituato a cambiare faccia: da comunista difensore dei diritti dei lavoratori a caporale a base di uramaki contro i lavoratori", scrive una utente.

Giuliana Sias per "tpi.it" il 17 maggio 2021. “Quello che non c’è stato è il rispetto. Io vorrei solo rispetto. Ci sarebbero tante cose da dire su quello che è successo ma sarebbe come incappare nello stesso errore che ha fatto lui. Purtroppo è facile dire che io non sono riconoscibile, ma chi mi conosce ha capito chi sono, mi ha causato problemi questa cosa, è stato brutto essere etichettata come lui ha scritto e la cosa triste è che tanti mi hanno detto che lui per salvarsi la faccia ha sacrificato una che non conta niente, che in questo caso sono io. Ma io per rispetto, nonostante tutto, non lo voglio mettere alla gogna come ha fatto lui con me. Perché non me la sento, io non sono fatta così. Per me la morale di tutto questo è che alla fine la giustizia si è fatta un po’ da sola, la verità in qualche modo è venuta fuori a prescindere da un mio intervento”. A parlare, chiedendo di mantenere l’anonimato, è la ragazza che negli ultimi giorni è finita suo malgrado al centro di un uragano per essere stata insultata malamente dal suo ex datore, Roberto Angelini, frontman della Propaganda Live Orchestra di La7, che la faceva lavorare in nero nel suo ristorante e che per questo è stato multato dalla Guardia di Finanza per 15mila euro. Riuscire a contattarla è molto difficile perché lei non vuole parlare di quello che è successo. Ripete semplicemente di essere molto dispiaciuta e di desiderare che sulla vicenda cali al più presto il silenzio, con una maturità ammirabile e una delicatezza che dovrebbe insegnare molto a tutti. “Mi dispiace per Bob Angelini, mi dispiace che abbia fatto questa stupidaggine, che abbia messo in pubblica piazza una cosa che riguardava lui come datore di lavoro e non lui come personaggio pubblico. Quindi io non voglio a mia volta mettere alla gogna il personaggio pubblico quando io il problema l’ho avuto con il datore di lavoro e non con il musicista di Propaganda Live. Io mi sento pulita a non infangare l’immagine pubblica di Bob Angelini, io non ho avuto a che fare con lui come musicista ma come proprietario di un ristorante”. Insomma, la versione della ragazza è che non vuole fornire versioni. L’unico aspetto per il quale vuole esporsi senza remore riguarda le condizioni di lavoro dei rider. “Io vorrei denunciare la condizione dei fattorini, dire a cosa vanno incontro tutte le sere quando lavorano per strada. Questo lo faccio volentieri perché l’ho fatto e so cosa significa. Se posso sensibilizzare su quanto sia coraggioso fare questo lavoro di questi tempi, lo faccio. E a questo riguardo vorrei dire una cosa che non si dice mai: le donne che fanno consegne sono pochissime, perché è molto duro e rischioso”. Dopo la rabbia e le lacrime, un tentativo maldestro di riconciliazione rispetto a quanto accaduto (“Non insultatela, altrimenti mi sento in colpa”), infine la rimozione. Roberto Angelini domenica era tornato a parlare su Instagram della multa salata con la quale il suo ristorante – il Kiko Sushi Bar di Roma – è stato sanzionato per lavoro nero dalle Fiamme Gialle. Il musicista del programma di La7 aveva ringraziato per la solidarietà ricevuta e sottolineato che il post nel quale dava della “pazza incattivita” all’amica che lo avrebbe “tradito” – cioè denunciato – era stato “scritto di pancia” e forse “avrei potuto evitarlo”. Ma soprattutto Angelini era tornato sul luogo del misfatto perché, tutto preso dai 12mila like di apprezzamento per aver insultato la sua ex dipendente, si era scordato di avvisare che sabato usciva la sua nuova canzone: “L’era glaciale”. Un titolo che potrebbe diventare la colonna sonora perfetta per descrivere la mancata reazione, a questo giro, di tutti i colleghi che giovedì gli avevano invece dato una pacca bonaria sulla spalla per aver fatto lavorare una dipendente senza contratto e senza assicurazione. Diversi i personaggi molto noti, citati nel dettaglio dal Corriere dello Sport: “Jovanotti ha scelto di rispondere con il simbolo di un cuore rosso, come Elodie che ne ha digitati ben tre. Elio, invece, ha scritto: ‘Ci vediamo domani e ci divertiamo moltissimo’. Emma ha consolato l’amico commentando: ‘Bello mio'”. Tra gli altri c’era anche il cuoricino di Ambra Angiolini, cioè la presentatrice del concertone del Primo Maggio, il cui commento era tuttavia stato cancellato dopo ventiquattr’ore. Sembrerebbe perché ritenuto in seconda battuta poco opportuno, ma senza fornire alcuna spiegazione rimane il dubbio che ad animare la retromarcia sia stata la speranza di essere passata inosservata, più che una presa di posizione netta. Ecco, a proposito di prese di posizione sulla vicenda occorre anche constatare che a sinistra, nel corso dell’ultimo weekend, tutti si sono finti morti: né tra i partiti di quella parte politica per la quale il lavoro dovrebbe essere uno dei principali campi di battaglia né tra le sigle sindacali, nessuno si è minimamente speso in difesa della lavoratrice crocifissa per 72 ore dall’imprenditore famoso che la faceva lavorare in nero. Mentre Angelini, questa mattina, ha rimosso dalle sue pagine i post incriminati e annunciato di aver lasciato la direzione del suo ristorante. Comunque, per un commento (di Ambra) e due interi post (quelli di Angelini) che scompaiono, una versione dei fatti molto diversa da quella fornita dal musicista è invece comparsa: “C’era una volta un’amica che durante una sera di zona rossa, mentre era in giro a fare consegne a domicilio oltre l’orario del coprifuoco, veniva fermata dalla Guardia di Finanza”. A far circolare in rete questa ricostruzione sono una serie di amiche della dipendente accusata da Angelini di essere una squilibrata. Tra le altre c’è Flaminia, autrice del post originario, alla quale chiedo se Angelini si sia fatto vivo in questi giorni per scusarsi: “No, perché io penso che lui sapesse che lei non aveva la minima risorsa per ribattere al suo racconto. Per questo le ho detto guarda che lo faccio io un post se tu non parli coi giornalisti”. E così la storia diventa un’altra, rispetto a quella data in pasto ai social dal proprietario del Sushi Bar con l’occhio languido. Secondo quanto riportato dalle amiche, infatti, una delle sere in cui faceva le consegne per il ristorante, la ragazza è stata fermata dalla Finanza per un controllo mentre era alla guida di un furgoncino. Dopo poche settimane è stata convocata ufficialmente in una caserma. “A quel punto le è stato chiesto di specificare che turni facesse al Kiko, che contratto avesse, quante altre persone lavorassero come lei in nero”. Ma allora perché Angelini l’ha accusata di essere una traditrice? “Lui le ha dato della ‘pazza incattivita’ perché crede che lei si sia vendicata per il fatto che lui le aveva ridotto i turni di lavoro dopo che si era presa il Covid”. Mentre prestava servizio in nero per il ristorante, la dipendente è infatti anche stata positiva per qualche settimana al Coronavirus e una volta rientrata a lavoro avrebbe peraltro scoperto di essere stata sostituita da un altro fattorino, vedendosi dimezzare senza preavviso i turni, e quindi la paga: “Ma lui non ha capito che queste due cose sono slegate: lei di fronte alle autorità non poteva certo mentire”. Rimane il fatto che la ragazza non vuole rilasciare ulteriori dichiarazioni, fornire una sua versione più dettagliata delle condizioni di lavoro in cui si è trovata ad agire per molti mesi senza tutele pur essendo esposta a numerosi rischi dovendo peraltro spostarsi di fretta da una parte all’altra della città, ribattere agli insulti. Sembra molto intimorita, nonostante Angelini abbia infine pienamente riconosciuto le sue responsabilità, si sia scusato pubblicamente e abbia ammesso di aver sbagliato su tutti i fronti. Come mai secondo te? “Perché ha molta paura che possano farle terra bruciata attorno. Considera che lei non ha nemmeno i soldi per pagare un avvocato”.

Michele Serra per “la Repubblica” il 22 maggio 2021. Se mi sequestrano la patente per una grave infrazione stradale, devo smettere di scrivere l'Amaca? Se un calciatore ha lo sfratto perché non ha pagato l'affitto, deve essere espulso dall' arbitro e messo fuori squadra? Me lo sono chiesto dopo avere letto la storia di Roberto Angelini, musicista a Propaganda Live. Multato per non avere messo in regola una sua dipendente (multa salata, e dovuta) in un suo ristorante, ha scelto di interrompere il suo lavoro televisivo perché non reggeva più le furibonde polemiche social. Qualcosa non quadra, davvero non quadra, nel rapporto tra il peccato e il peccatore. Le multe, le sanzioni, nei casi più gravi le reclusioni, sono state inventate apposta perché il concetto di colpa abbia una sua equa misurazione. Lo smisurato stigma social che si abbatte sui colpevoli, anche se rei confessi, e dispiaciuti di esserlo, non ha invece confine, né ambito, né scadenze: segno inequivocabile che a quelle turbe nevrasteniche non interessa sanare il peccato, interessa linciare il peccatore. È una caccia all' uomo costante e quotidiana, in un fiorire di "vergogna!" e "sparisci!" che non ha parentela alcuna con il bisogno di giustizia, e ha molto a che fare con la voglia di forca. Angelini ha detto di avere sbagliato, pagherà la multa: che accidenti c' entra, con tutto questo, il suo lavoro in televisione? Forse che il solo spettacolo che si confà al nuovo puritanesimo da tastiera è una processione di immacolati?

Io ve lo dico fin da ora: guido piano, e dunque è difficile che mi sequestrino la patente. Ma se me la sequestrano, l'Amaca la scrivo lo stesso. Forza Angelini, paga la multa, non leggere i social e torna a suonare.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 22 maggio 2021. Roberto Angelini, dopo essersi fatto la spia da solo come Fantozzi (pagava in nero una collaboratrice del suo ristorante romano), e quindi suppliziato via social da quegli irriducibili contribuenti che sono gli italiani, ha deciso di lasciare Propaganda Live dove suonava la chitarra. Se lo è già chiesto Michele Serra: che c' entrano le questioni musicali con quelle fiscali, di cui risponderà nelle sedi deputate? Beh, c' entrano per l'ulteriore tributo di pubblica umiliazione richiesto al tempo dell'etica di massa. Qualche giorno fa su Facebook è stata ripubblicata una vignetta di Makkox, altro ospite di Propaganda, risalente al 2015 e ora giudicata sessista, per dare prova dell'antica tradizione di machismo e suprematismo bianco dello show. La nuova formidabile arma del tribunale etico di massa sono gli archivi personali. Gli inquisitori del web conservano tutto e al momento giusto, zac, ti inchiodano. Il New York Times raccontò della ragazza che a quindici anni aveva scritto nigger (negro), e quando entrò al college un vecchio compagno fu lieto di riesumare il crimine: la ragazza venne immediatamente espulsa. Comincia a funzionare alla grande pure da noi. In morte di Franco Battiato, a sinistra hanno ritirato fuori antichi improperi di Matteo Salvini («piccolo uomo», nel frattempo diventato «Grande Maestro») e a destra le sprezzanti critiche di Michela Murgia ai testi delle canzoni. Bisogna trarne due insegnamenti. Primo, non si può più parlare male dei vivi perché un giorno saranno morti. Secondo, alla lunga l' ha avuta vinta Davigo: siamo tutti colpevoli in attesa di essere scoperti.

Da leggo.it il 22 maggio 2021. Roberto Angelini ha deciso di prendersi una pausa da Propaganda Live e Diego Bianchi è intervenuto sulla polemica nella puntata di ieri. Il programma si è aperto proprio con un discorso di Zoro sul musicista: «Ha sbagliato tutto, ma qui è casa sua... Lo ha scelto lui, noi non siamo giudici di nessuno, quando vorrà questo è il suo posto e noi siamo qua». Il conduttore del programma, Diego Bianchi (Zoro) ha dedicato l'apertura alla vicenda che ha messo in imbarazzo la produzione dopo il rifiuto di Rula Jebreal. «Il nostro titolare della band è incappato in una spiacevole circostanza personale - ha detto Zoro - ma la cosa nulla ha a che fare con questo programma. Roberto ha sbagliato gravemente, ha continuato a sbagliare, tutti gli errori che poteva fare li ha fatti, come non fosse con noi da otto anni». Roberto Angelini è finito al centro di una polemica perché per il suo ristorante avrebbe fatto lavorare in nero una sua amica. «Lui si è scusato più volte con la persona protagonista purtroppo di questa vicenda... Mi è molto dispiaciuto di quello che è accaduto, per la nostra storia, e lui ha deciso di stare a casa, fare un passo indietro, riporre la chitarra nella custodia. Abbiamo rispettato la sua decisione, non l'abbiamo presa noi, pur essendo noi i più incazzati di tutti non siamo i giudici di Roberto Angelini, né tantomeno i social. È un amico che ha sbagliato, ma lui sta su questo palco dalla prima puntata di questo programma e non lo dimentichiamo. Sta su questo palco dalla prima puntata di questo programma, quando vorrà questo è il suo posto e noi siamo qua».

La sinistra chic solidale con chi sfrutta il lavoro nero. Massimiliano Parente il 17 Maggio 2021 su Il Giornale. Il chitarrista multato per la denuncia di una dipendente. E i vip, da Jovanotti a Gazzè: "Pazza". Ma quanto è meravigliosa, tutta la sinistra dello spettacolo stretta intorno al povero compagno Roberto Angelini, chitarrista comunista di Propaganda Live, il programma del comunista Diego Bianchi dove sono tutti comunisti, una trasmissione molto pluralista. A me ogni volta che mi capita di guardarlo per caso facendo zapping mi viene una tristezza, mi sembra un ritrovo di aspiranti artisti della Cgil, tutto un giovanilismo di ex sessantottini incanutiti con la puzza sotto al naso che si divertono tra loro, e mentre Elon Musk lancia razzi per andare su Marte lì è un'Odissea nell'ospizio di veteromarxisti che devono sbarcare il lunario. Questo Angelini, per dire, il lunario sulla Terra lo sbarca non solo come chitarrista comunista, ma anche come cantautore comunista, e ha pure un locale (mica è una colpa, per carità, anzi), un sushi-bar a Roma nel quartiere comunista San Lorenzo (un quartiere pieno di giovani smandrappati finto-alternativi fighetti sgualciti con i soldi di papà), e dunque in teoria dovrebbe essere comunista pure il locale, ma non penso, visto che ha preso una multa di 15mila euro perché pagava una dipendente in nero. Ok, predica bene e razzola male, non è il primo né l'ultimo, ma siccome è comunista lui ha la faccia tostissima di pubblicare su Instagram un post strappalacrime in cui definisce la sua lavoratrice in nero «una pazza incattivita», e si giustifica anche con un «mi sembrava pure di fare del bene, pensa te». Pensa te invece se fosse successo, che so, a Briatore, quanti monologhini morali avrebbero fatto a Propaganda Live, quante vignettine di Makkox (o Maxxox o Marxoc o come cavolo si chiama) ci avrebbero campato un mese. Invece Angelini si aspettava perfino un premio, un premio Karl Marx, un premio San Francesco, un'onorificenza di Mattarella per la bontà dimostrata a fronte dell'ingratitudine di questa razza di pazza isterica fuori controllo. In ogni caso un premio l'ha avuto, tutto uno sdilinquimento di solidarietà non per la lavoratrice pazza pagata in nero (fra l'altro io abito a Roma e frequento molti bar e ristoranti e sono amico di molti camerieri, e vi assicuro che è la regola) ma per lui, per il compagno Angelini: da Jovanotti a Elio, da Elodie a Ambra e Max Gazzè, tanti, tantissimi like, in pratica da tutti coloro che vanno a predicare i diritti dei lavoratori e avanti popolo alla riscossa e o bella ciao dal palco del Primo maggio (dove il primo maggio si trasferiscono tutti i suddetti smandrappati di San Lorenzo). Il musicista Leo Pari la butta giù così: «la gente a volte è orrenda», riferendosi alla lavoratrice. Questa orrendissima scriteriata presuntuosa, vogliamo dirlo? Che pretendeva di lavorare facendosi versare i contributi e con tutti i diritti dei lavoratori annessi e connessi, per esempio, ma dove si crede di essere? Non so, vogliamo linciarla, mandarla in un gulag? Che si fa? Di certo è veramente una brutta persona una che ti sputtana un comunista, come la colf della Boldrini. Tant'è che non è scoppiata neppure una polemica di quelle femministe per averle dato della pazza incattivita, se qualcuno avesse osato dirlo alla Murgia sarebbe stato immediatamente messo al bando come maschilista, misogino, etero, bianco, cis, ecc. È bello essere socialmente impegnati, soprattutto rende bene, e se ti beccano sono gli altri a essere stronzi. E poi vi chiedete perché Fedez ha parlato del Ddl Zan (io sono pure a favore, figuriamoci) e non dei lavoratori di Amazon, di cui è sponsor, sennò come farebbe a essere l'amico dei lavoratori in una casa di un chilometro quadrato?

Vanessa Ricciardi per "editorialedomani.it" il 16 maggio 2021. Adesso Roberto Angelini, musicista del cast del programma tv Propaganda Live, parlando con Domani, si scusa con tutti: «Ho sbagliato a scrivere quel post, mi scuserò anche con lei, personalmente. Devo mettere in regola la rider, chi fa le consegne. Meglio che suono la chitarra e basta. Lascio l’amministrazione del ristorante. Propaganda e Zoro? Mi dispiace anche per loro, sono un coglione che assume in nero». Solo giovedì scorso aveva dato della «pazza incattivita dalla vita» a una ragazza che aveva assunto per fare le consegne nel suo ristorante di sushi a Roma. In nero. Nello stesso post aveva scritto l’artista, lo aveva «tradito» e «denunciato», costringendolo a pagare una multa di 15mila euro. Una balla. Come appurato da Domani, la ragazza non ha tradito nessuno: semplicemente la Guardia di Finanza, dopo averla fermata di notte per un normale controllo mentre consegnava sushi, aveva fatto un autonomo accertamento (anche attraverso accessi all’Inps), scoprendo che la rider lavorava in nero da mesi per Angelini. (…)

LA VICENDA. Più fonti autorevoli spiegano a Domani che nel mese di marzo, quando la Regione Lazio era classificata “zona rossa”, la ragazza era stata fermata da militari della Guardia di Finanza di Roma per verificare come mai fosse in giro oltre l’orario del coprifuoco. Come d’obbligo, la rider firma l’autodichiarazione prevista da decreti e Dpcm, dove spiega «che lavorava come fattorino per la consegna a domicilio per conto di un'attività di ristorazione». La Guardia di finanza, i giorni successivi, fa ulteriori verifiche partendo dall’autocertificazione. E scopre che la “traditrice” lavorava in nero addirittura dall'estate del 2020, ed era «pagata in contanti». Il ristorante è quello di Angelini. Dopo aver fatto ulteriori accertamenti nella banca dati dell'Inps, parte così la multa da 7.200 euro. Una sanzione “in diffida” prevista se il dipendente in nero viene poi assunto dal datore di lavoro pizzicato a commettere irregolarità. Se invece il titolare si rifiuta di regolarizzare la posizione del lavoratore in nero, si sale a 14.400 euro. La cifra denunciata dal post di Angelini che – dunque – non sembrava fino a giovedì voler assumere l’amica.

LA REPLICA DI ANGELINI. Ora, dopo che Domani gli ha spiegato di conoscere i dettagli della vicenda, ha deciso di fare un passo indietro. Riconoscendo «tutti gli errori. Sono stato ingenuo, è colpa mia» dice Angelini al telefono. «Ho avuto la “sensazione” di essere stato denunciato, ma anche questo è stato un errore, mi scuso anche di questo». Poi, a chi gli chiede se fosse così arrabbiato con la rider perché ha solo detto la verità durante i controlli della Finanza, dice: «No, non le avrei mai chiesto di mentire. Mi dispiace… mi dispiace…il “tradimento” è che non mi ha detto di essere stata contattata dalla Guardia di Finanza qualche giorno dopo aver avuto il controllo per strada. In un’attività con nove persone che ci conosciamo tutti, mi sarei aspettato questo». Ancora non le ha scritto: «Non l’ho sentita ma è una cosa che vorrei fare a breve… Rileggendolo a mente lucida ho messo alla gogna questa ragazza. Mi dispiace, ho proprio sbagliato. Ogni riga del mio post è sbagliata, dalla foto all’ultima parola». Adesso dice che il ristorante «lo devo fare gestire a qualcuno che non fa cazzate. Uno si sopravvaluta e pensa di poter fare tutto». All’amica proporrà di continuare a lavorare: «Da parte mia non ci sarà alcun comportamento strano. È stata una botta nel cervello. Propaganda? Mi hanno detto “Ma perché non suoni e basta?”. Praticamente in coro. Li ho messi in cattiva luce, con tutti i servizi di Diego (noto anche come Zoro, ndr)… e poi c’è un coglione che assume in nero».

Vanessa Ricciardi per editorialedomani.it il 20 maggio 2021. «Chiedo scusa. Ho sbagliato e mi dispiace. Ripongo la chitarra nella custodia e mi prendo una pausa». Attraverso un nuovo post su Instagram il musicista Roberto Angelini – dopo che Domani ha rivelato le bugie dal musicista sul caso della rider del suo ristorante che ha lavorato per mesi nero - ha comunicato di aver deciso di lasciare Propaganda Live, la trasmissione de La 7 di cui era ospite fisso. Sui social la scorsa settimana aveva scritto di essersi sentito «tradito» dalla sua dipendente e amica, e aveva dato della «pazza incattivita dalla vita» alla lavoratrice accusandola di averlo «denunciato» alla Guardia di finanza. Da parte di cantanti e artisti erano subito partiti cuori e frasi di incoraggiamento, e finora nessuno ha spiegato perché aveva solidarizzato con un collega che insultava, di fatto, una rider che non aveva regolarizzato. Anche dopo che le bugie di Angelini sono state evidenziate dai rapporti della Gdf e confermate dallo stesso musicista, rockstar e vip assortiti hanno preferito trincerarsi con Domani (che ha provato a contattarli uno a uno) con una raffica di no comment. Dopo lo sfogo di Angelini, Domani aveva evidenziato che il musicista-ristoratore non era mai stato denunciato di sua iniziativa da nessuno: la Finanza aveva scoperto infatti che l’amica era in nero da luglio 2020, dopo un controllo anti Covid a sorpresa. Messo alle strette, Angelini ha fatto un passo indietro: «Ho sbagliato a scrivere quel post, mi scuserò anche con lei, personalmente. Devo mettere in regola la rider, chi fa le consegne. Meglio che suono la chitarra e basta. Lascio l’amministrazione del ristorante. Propaganda e Zoro? Mi dispiace anche per loro, sono un coglione che assume in nero», ha spiegato a questo giornale qualche giorno fa. Il musicista nel primo post si era lamentato anche della multa da 15mila euro, ma la somma è così alta solo quando il responsabile decide di non assumere regolarmente la lavoratrice. In quel caso scende della metà. «Rileggendomi a mente lucida, ho messo alla gogna questa ragazza. Mi dispiace, ho proprio sbagliato. Ogni riga del mio post è sbagliata, dalla foto all’ultima parola». «Il ristorante? Devo farlo gestire a qualcuno che non fa cazzate. Uno si sopravvaluta e pensa di poter fare tutto». All’amica proporrà di continuare a lavorare: «Da parte mia non ci sarà alcun comportamento strano. È stata una botta nel cervello». Di fronte al post di Angelini il caso è esploso sui social. Il musicista aveva deciso di accompagnare le sue parole con una foto di lui in lacrime. L’ammissione di aver assunto una dipendente in nero non ha fermato la solidarietà degli amici vip. Domani ha provato così a contattare alcuni di loro. Nessuno ha voluto spiegare come mai aveva solidarizzato via social con chi aveva ammesso di fare lavorare personale in nero, né fare dichiarazioni a favore della rider insultata. Dagli uffici stampa, solo no comment. Da quello di Niccolò Fabi: («Niccolò non ha nulla da aggiungere o dichiarare sull’argomento») allo staff della cantante Elodie, che aveva messo tre cuori al post pieno di balle: «Avendo Angelini stesso già ammesso di aver sbagliato, non abbiamo interventi ulteriori da fare» dichiara il suo ufficio stampa. Il cantautore Motta «preferisce lasciar perdere la questione». Diodato, vincitore di Sanremo 2020 e organizzatore del concerto del Primo Maggio di Taranto «non rilascia dichiarazioni» riferisce l’ufficio stampa, evidenziando che «si tratta solo di un cuore sotto a un post». Altri cuori e commenti pro-Angelini sono lì senza spiegazione: da Elisa a Rodrigo d’Erasmo, musicista degli Afterhours. L’ufficio stampa di Lorenzo Cherubini, alias Jovanotti, ha preferito non rispondere nulla.

Enrico Mingori per tpi.it il 20 maggio 2021. Roberto Angelini lascia Propaganda Live e si ritira per un po’ dalle scene, dopo le polemiche che lo hanno investito nell’ultima settimana. “Chiedo scusa. Ho sbagliato e mi dispiace. Ripongo la chitarra nella custodia e mi prendo una pausa”, ha annunciato il musicista sul suo profilo Instagram postando appunto la foto di una chitarra all’interno della custodia. Era stato lo stesso Angelini, una settimana fa, a rivelare di aver ricevuto una multa da 15mila euro dalla Guardia di Finanza per aver fatto lavorare in nero un’amica nel suo ristorante a Roma. Angelini aveva definito la ragazza “pazza incattivita” e l’aveva accusata di averlo tradito. Nei giorni successivi il musicista – volto noto del programma tv Propaganda Live, su La7 – aveva fatto marcia indietro e si era scusato. Ma le polemiche non si erano placate. La lavoratrice, intervistata in esclusiva da TPI, si era detta “dispiaciuta” per l’accaduto: “Roberto mi ha messo alla gogna ma io non farò lo stesso con lui”, aveva detto. Oggi, giovedì 20 maggio, l’annuncio di Angelini: “Ho sbagliato, chiedo scusa, mi prendo una pausa”.

Da leggo.it il 5 giugno 2021. Roberto Angelini torna a Propaganda Live dopo la polemica sul lavoro in nero e la decisione di abbandonare la televisione. Diego Bianchi aveva lasciato la porta aperta al musicista, ma sui social in molti hanno criticato il rientro avvenuto in occasione dell'ultima puntata del programma in onda su La7. Il musicista, da anni nella band del programma, aveva deciso di prendersi una pausa dopo essersi trovato al centro di un caso: lui stesso aveva rivelato di essere stato multato per aver fatto lavorare in nero una sua amica nel suo ristorante. «Chiedo scusa. Ho sbagliato e mi dispiace. Ripongo la chitarra nella custodia e mi prendo una pausa», aveva scritto sui social, ma ieri sera era di nuovo presente in studio e le critiche non sono mancate. «Peccato per il finale... con un Angelini di troppo», si legge tra i commenti al post del conduttore Diego Bianchi che su Twitter salutava il suo pubblico e lo ringraziava. «Vi ho difeso per tutto, ma far ritornare Angelini, per me è sbagliato. Spero vivamente che ci siano delle scuse: tipo che è tutto risolto con la lavoratrice», si legge ancora. «Angelini che torna a Propaganda Live dopo appena una settimana fa capire che non siete diversi dagli altri, tante chiacchiere e pochi fatti», scrive un altro utente. Angelini gestisce un ristorante giapponese a Roma e dopo aver ricevuto inizialmente supporto era stato ampiamente criticato e si era scusato optando per il “ritiro”. Ieri è tornato in studio e il conduttore Diego Bianchi ha portato avanti i soliti temi come se nulla fosse.

Da “il Giornale” il 6 giugno 2021. È durata pochissimo la pausa di riflessione di Roberto Angelini, il chitarrista di Propaganda Live (La7), dopo la polemica scoppiata quando ha dovuto ammettere di sfruttare una lavoratrice in nero nel suo ristorante a Roma. Ma a sinistra i processi vanno per direttissima e finiscono con l'assoluzione piena quando si tratta degli amici della stessa confraternita politica (officiante è il conduttore Diego Bianchi, nella foto). Infatti Angelini, dopo aver annunciato sui social che si sarebbe ritirato per un po', è riapparso come se nulla fosse successo. I fan però non hanno affatto apprezzato. «Peccato per il finale... con un Angelini di troppo», si legge tra i commenti al post del conduttore Diego Bianchi che su Twitter salutava il suo pubblico e lo ringraziava. «Vi ho difeso per tutto, ma far ritornare Angelini, per me è sbagliato. Spero vivamente che ci siano delle scuse: tipo che è tutto risolto con la lavoratrice», si legge ancora. «Angelini che torna a Propaganda Live dopo appena una settimana fa capire che non siete diversi dagli altri, tante chiacchiere e pochi fatti», scrive un altro. E ancora: Questa scelta di far tornare Angelini mi ha fatto cadere le braccia. Mi vergogno per loro. Che ipocrisia». Tutto subito perdonato ai compagni di sinistra, alla velocità di Zoro.

Lorenzo Nicolini per romatoday.it l'1 luglio 2021. Studenti universitari tra i 22 e i 25 anni, padri di famiglia, persone che erano in difficoltà con il lavoro e chi voleva mettere da parte qualche soldo durante il periodo del lockdown. Questo l'identikit dei 32 rider, sottopagati, che portavano a domicilio il cibo dai ristoranti di Roma nord e del centro. A intercettarli è stata la Guardia di Finanza con un'operazione che ha permesso di multare 21 imprenditori della Capitale, tra questi anche Roberto Angelini, cantautore e chitarrista, visto in tv nella band di Propaganda Live su La7 e multato dai baschi verdi per 15mila euro con l'accusa di aver fatto lavorare in nero delle persone a lui vicine con un furgoncino per le consegne a domicilio. Le indagini sono iniziate a marzo 2020, con la concomitanza del lockdown. Nel verificare quando dichiarato dalle persone fermate in strada nelle ore serali e di notte, a bordo di furgoni, scooter, monopattini e bici, le Fiamme Gialle del 3° Nucleo Operativo Metropolitano hanno scoperto un vero e proprio giro di rider in nero che, in concomitanza con il notevole incremento delle consegne a domicilio, venivano di fatto sfruttati. Dagli approfondimenti svolti è emerso che i rider erano impiegati da ristoranti, pizzerie e rosticcerie senza la "prescritta comunicazione telematica al Sistema Informativo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali", spiegano dalla Finanza che aggiungono: "Nella maggior parte dei casi i fattorini utilizzavano biciclette, monopattini elettrici e scooter, pur essendo privi di ogni tutela in caso di infortunio". Al termine dell'operazione i militari hanno comminato agli esercenti la cosiddetta 'maxi-sanzione' per un importo complessivo di oltre 800.000 euro, suscettibile di riduzione in caso di regolarizzazione dei lavoratori. Stando a quanto emerso, inoltre, i rider "guadagnavano" meno di sei euro l'ora e tutti erano sottoposti ad orari massacranti. Nel corso degli accertamenti, inoltre, è stato appurato che 5 addetti percepivano il Reddito di Cittadinanza, facendo così scattare la segnalazione all'Inps per l'adozione dei provvedimenti di competenza. 

A Propaganda Live sinistra in tilt tra Rula Jebreal e la rider sfruttata. Benedetta Frucci il 17 maggio 2021 su iltempo.it. Il Cortocircuito progressista è andato in onda lo scorso venerdì su La7, a Propaganda Live, fortissimo punto di riferimento della gauche caviar, quella che pensa, conta e distribuisce patenti di legittimità politica e intellettuale. Rula Jebreal, giornalista di origine palestinese, rifiuta l’invito a partecipare al programma tv contestando il fatto di essere l’unica donna presente. Normalmente ci si sarebbe aspettati una levata di scudi da parte della sinistra in suo favore e invece, questa volta, guarda un po’, le critiche piovono copiose sulla giornalista. La difesa di Zoro, il conduttore, sembra quella di un fiero conservatore colpito dall’ascia del politicamente corretto: noi invitiamo sulla base della competenza, dice, non del sesso. Dichiarandosi quindi, di fatto, contrario alle quote rosa. Non osiamo immaginare cosa sarebbe accaduto se una simile polemica non avesse investito un conduttore del sacro gotha di Propaganda, ma uno come Nicola Porro o Massimo Giletti. In questo caso invece, silenzio, come a dire: va bene la Jebreal, ma Propaganda non si tocca. Stesso programma, nuovo cortocircuito. Una rider assunta presso un ristorante romano viene fermata oltre l’orario del coprifuoco. Da un controllo della guardia di finanza, risulta che la ragazza non è contrattualizzata. Lavoro nero, insomma. Il proprietario del ristorante è Roberto Angelini, musicista del team di Propaganda Live. Verrebbe da pensare che gli intellettuali molto radical e molto chic, se pure si sono fermati davanti alla questione femminile e ai diritti civili, non possano tacere di fronte a una palese lesione dei diritti sociali. Loro sono La sinistra, l’unica che può dirsi legittimata a difendere i lavoratori, tutto il resto è destra. Come potrebbero dimenticare l’impegno della trasmissione tv contro il precariato, i voucher, in favore dei diritti e l’evidente mancanza di coerenza fra le parole e i fatti? E invece no. Piovono commenti di solidarietà al ristoratore, da Jovanotti, a Elodie, a Max Gazzè. La vicinanza viene espressa su Instagram, con cuoricini ed emoticon affettuose, sotto al post-difesa di Angelini che definisce, fra l’altro, la rider “una pazza incattivita dalla vita”. I ristoratori d’improvviso non sono più gli evasori, untori, che dovrebbero chiudere e cercarsi un lavoro da dipendenti, come suggerì Corradino Mineo in un illuminante post su Facebook, ma lavoratori in difficoltà, a cui si può perdonare perfino la mancata regolarizzazione di un dipendente. Niente di cui stupirsi. Da Tangentopoli, quando prendere fondi provenienti dall’ Unione sovietica era tollerabile, mentre il resto era marcia illegalità, la sinistra postcomunista ha affidato la sua sopravvivenza e la sua egemonia culturale alla politica della doppia morale. Quello che conta non sono le donne, i lavoratori o gli omosessuali. Quello che conta è la difesa militarizzata del proprio patentino di moralità. Lo ha messo bene in evidenza Enrico Letta, quando ha usato la questione femminile per sostituire i due capigruppo Pd a lui sgraditi, Marcucci e Del Rio, per poi non riuscire a proporre un candidato sindaco donna alle prossime amministrative. E non è un caso, se gli unici governi che hanno visto l’aumento effettivo dei posti di lavoro, si sono visti scendere in piazza i sindacati che si stracciavano le vesti in difesa dell’articolo 18. Non è neppure un caso che le misure di sostegno alla famiglia, le uniche che sarebbero in grado di risolvere in modo sostanziale il problema della parità di genere, vengano guardate con occhio sprezzante da quel gotha intellettuale che a un assegno familiare o a un asilo nido in più preferisce, senza dubbio, chiamare un Direttore d’orchestra Direttrice o un Presidente Presidenta. È la degenerazione del politicamente corretto, che guarda alla forma e mai alla sostanza, ergendosi su un palco di superiorità morale oramai solo presunta.

La sinistra tifa Hamas che vessa gli omosessuali: l'ultima contraddizione dei progressisti. Giovanni Sallusti Libero Quotidiano il 19 maggio 2021. La bandiera arcobaleno e il vessillo verde-islamista di Hamas. Le maratone inclusive su Twitter e i razzi contro i civili. Il Gay Pride e il Corano. In mezzo a questi due poli inconciliabili, sta tutta la confusione delle armate progressiste italiche. Accade infatti che i sostenitori del Ddl Zan si schierino dalla stessa parte della barricata di un gruppo terrorista espressamente ed orgogliosamente omofobo, quel "Movimento Islamico di Resistenza" di cui Hamas è l'acronimo arabo.  Nella Striscia di Gaza governata da costoro l'omosessualità è un reato, spesso punito con la pena di morte. Precisamente, la fucilazione sulla pubblica piazza al culmine di svariate torture esercitate sul "colpevole". Perfino uno dei capi militari più in vista dell'organizzazione, Mahmoud Ishtiwi, nel 2016 fu giustiziato dopo sevizie inenarrabili a causa della sua "turpitudine morale". Ma anche la Cisgiordania controllata dalla più "moderata" Autorità Nazionale Palestinese ha vietato ogni attività dei movimenti per i diritti Lgbt, in quanto irrimediabilmente «contro i valori palestinesi tradizionali». Eppure, le majorettes del pensiero unico filo-Zan in questi giorni hanno un obiettivo polemico solo: l'unica società aperta, laica, democratica del Medio Oriente. Quel paraguru di Fedez, dalla piattaforma su cui costruisce l'egemonia culturale contemporanea (il suo profilo Instagram), esordisce: «Non voglio accodarmi al coro delle tifoserie». Salvo poi aggiungere: «Vi voglio presentare la persona che da adolescente mi ha aperto gli occhi, Vik». Vik è Vittorio Arrigoni, attivista brianzolo nella Striscia di Gaza, ucciso nel 2011 da una banda salafita ultraradicale. Una fine tragica e una storia d'impegno rispettabile, ma certamente tutta sbilanciata da una parte, ben piantata nella "tifoseria" palestinese, visto che accusò reiteratamente Israele di «crimini», di «apartheid», di scarso «valore dato alla vita». Michela Murgia, quest'Erinni del Politicamente Corretto che scorge inequivocabili segnali di omofobia nell'alzata di sopracciglio di qualunque politico di destra, rilancia tweet completamente sdraiati sulla narrazione degli omofobi bombaroli di Hamas: «Il problema è un Paese guidato da una destra ultranazionalista, suprematista e razzista» (lo Stato ebraico in cui imperdonabilmente accade che ogni tanto i partiti conservatori vincano le elezioni, per il suprematismo islamico e antisemita dei terroristi ripassare). Laura Boldrini almeno riesce a nominare Hamas come parte in causa, ma se la ridimentica quando tuona: «La comunità internazionale imponga al governo di Netanyahu di fermarsi!» (cioè di subire passivamente i missili sparati da gentiluomini non esattamente avvezzi a trattare gli omosessuali con canoni boldriniani). Ma la débâcle simbolica definitiva è quella delle insuperabili Sardine, che sui loro social alternano inviti alle manifestazioni pro-Zan con inviti alle manifestazioni contro «l'apartheid» praticato da Israele, esattamente la parola d'ordine dei fondamentalisti in kefiah che col Ddl dell'onorevole piddino ci accenderebbero un bel falò. È il controsenso che in questi giorni è andato in scena in molti eventi tenuti lungo lo stivale (Aosta, Bologna, Roma) dalla variegata comunità Lgbt, tra cui l'Arcigay: la battaglia per i "diritti di genere" insieme alla battaglia per la resistenza palestinese, la fluidità sessuale e la fissazione sessuofoba, il gender e la jihad. A tutti costoro bisognerebbe ricordare che gli omosessuali palestinesi non aderisco ai loro teoremi, visto che in questi anni sono scappati a migliaia in Israele per salvare la pelle dagli aguzzini islamisti. Del resto, Tel Aviv è considerata tra le metropoli più "gay friendly" del mondo e ospita uno dei Pride più attrattivi e partecipati, tanto che il governo israeliano da anni ha incentivato la costruzione di pacchetti turistici di grande successo destinati specificatamente alla clientela Lgbt. Lo sanno bene persone come Payam Feili, giovane poeta iraniano gay che è fuggito dalla teocrazia omofoba degli ayatollah e ha coronato il sogno di rifugiarsi a Tel Aviv, tatuandosi una stella di David sul collo: «Per me, questo è il posto migliore sulla Terra». Non lo sa la sinistra nostrana in fregola da censura, che coerentemente sta con i suoi persecutori.

Ddl Zan, pagheremo a caro prezzo il relativismo etico: una società sempre più instabile. Mario Bozzi Sentieri lunedì 24 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Ciò che sconcerta, nell’attuale confronto sul Progetto di legge Zan, in tema di omotransfobia, è la capacità “semplificatoria” di un sistema di potere che si insinua nelle vite di ciascuno e di tutti, ma senza darlo a vedere. E’ ciò che il sociologo Niklas Luhmann identificava come la forza smaterializzata della coercizione, capace di produrre simboli tanto più efficaci quanto in grado di persuadere spontaneamente chi vi è sottoposto. Su questa linea l’omologazione oggi passa anche attraverso il tentativo di silenziare le voci “dissonanti”. Lo vediamo nell’azione sistematica di censura e di “demonizzazione” dell’avversario. Con livelli sofisticati di “espulsione” di chi non si allinea. Al punto da negare perfino il diritto al confronto.

Ddl Zan, il diritto di fare domande. Perciò – non sembri un paradosso – la nuova frontiera dei diritti è quella di “fare domande”. Dalla loro formulazione passa la verifica di quelli che possiamo definire le “verità” inculcate ed i “costi sociali” del relativismo etico: cioè le conseguenze sociali delle suggestioni filosofiche, antropologiche, sociologiche, politiche che stanno alla base del relativismo etico, oggi dilagante. Esistono dei diritti non negoziabili, attraverso i quali è possibile garantire una crescita ordinata dell’uomo e dunque della società? Dove e come individuarli? Quali conseguenze ha il relativismo etico sull’organizzazione della società? Il suo manifestarsi, radicalizzarsi e radicarsi può essere ridotto alla sfera meramente privata dell’individuo? Non sono domande retoriche. Nella permanente discussione sulla natura dell’uomo, sui suoi diritti, ad indebolirsi è il senso stesso dell’esistenza, con dei costi individuali e sociali altissimi, pagati dalle fasce più deboli della popolazione, quindi dalla sua maggioranza. E’ perciò un errore credere che il “relativismo etico” sia un semplice problema intellettuale, da analizzare e da discutere all’interno dei circoli filosofici, tanto lontano dalla sensibilità collettiva da essere incomprensibile ai più, o una questione tutta religiosa, da rinchiudere nelle sacrestie e da lasciare all’attenzione del solo magistero della Chiesa e di una coraggiosa pattuglia di credenti.

Spezzare la catena della tradizione. Il tema è rivestito da un’armatura intellettuale, che sembra impedire l’esatta comprensione della sua essenza. D’altra parte esso facilita il punto di vista semplificatorio (la forza smaterializzata della coercizione), consegnandosi alla banalizzazione di massa, veicolo di una inconsapevolezza diffusa e rassicurante. L’approccio culturale al problema si muove partendo da una considerazione molto facile e diretta: la verità come possibilità del pensiero non esiste, quindi è inutile cercarla ed ancor più informarsi ad essa. E’ una posizione filosofica che bene si sposa con lo spaesamento dell’uomo contemporaneo, offrendogli le giustificazioni intellettuali per tale spaesamento. Ne consegue – secondo i relativisti – che ogni verità è il prodotto della cultura ricevuta. Spezzare la catena della tradizione, intesa come trasmissione di verità, è dunque possibile e necessario – secondo tale orientamento – per realizzare una piena liberazione dell’uomo. Le conseguenze di tale “rottura” poco interessano e ancora meno vengono valutate. Il fine è la liberazione, fine che si fa verità autosufficiente ed assoluta, contraddicendo la scelta di partenza, secondo cui la verità non esiste e non va cercata.

Dove inizia e dove finisce il pluralismo? Per tornare al dibattito in corso, innescato dalla proposta di legge Zan, che si colloca all’interno delle più ampie problematiche relative al relativismo etico, è allora necessario chiedere: la “natura umana”, per definizione l’insieme delle caratteristiche distintive che gli esseri umani tendono naturalmente ad avere, indipendentemente dall’influenza della cultura, può essere riscritta “per legge”? Dove inizia e dove finisce il pluralismo, base del confronto libero e democratico? Ed il diritto al dissenso? Perché instillare nella società, in particolare tra le giovani generazioni, l’idea che declinare l’umanità al maschile e al femminile è – di fatto – un reato? Non c’è il rischio del “testacoda sociale” con l’uscita di strada di larghe porzioni della società?

Una società destinata all’estinzione. Dei rischi a cui viene esposto dall’espandersi del relativismo il cittadino non viene allertato. Non ci sono cartelli indicatori che lo avvisino. Non ci sono campagne informative che lo mettano in guardia. Al contrario, egli è quotidianamente sottoposto ad una costante opera di indottrinamento inconsapevole, in grado di rendere dolce il processo di depotenziamento collettivo, di resa, di assuefazione. E tutto questo senza che le conseguenze concrete di tale deriva siano ben chiare a chi le farà sue. Senza che i costi sociali e personali siano chiaramente indicati. Accade così che, riempito il ricco carrello del relativismo, l’ignaro cittadino arrivi alla cassa senza sapere il prezzo da pagare, convinto anzi che tutto gli è dovuto gratuitamente. Con il risultato che le conseguenze di tali scelte ricadono sul malcapitato, al punto da stravolgere la sua vita e quella di chi gli sta intorno. Proviamo a moltiplicare queste conseguenze per milioni di volte ed avremo il quadro della società “relativizzata”, scricchiolante e sempre più instabile, piegata su se stessa ed in balia di una crisi profonda. In estrema sintesi: una società destinata all’estinzione (ed il crollo demografico ne è il sintomo più evidente) priva come appare di autentiche aspettative di vita, portato di una “naturalità” che si vuole precludere. A colpi di norme.

“Io, gay, mai discriminato a destra”. Il suo tutor politico è stato un ex missino, Altero Matteoli. Riccardo Angelini lunedì 24 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Gay, ma di destra. Dunque contro di lui ogni insulto vale, ogni discriminazione è lecita. Alessandro Santini, 47 anni, consigliere comunale della Lega a Viareggio, ex Forza Italia, racconta la sua vicenda a la Verità.  E’ bastato che affermasse sui social il suo NO all’utero in affitto per far partire una «valanga di fango». La comunità Lgbt ha stabilito di colpirlo con lo stigma del “tradimento”. Perché Santini non ama esibire l’orgoglio gay e pensa che un bambino deve crescere con un padre e una madre. Una discriminazione verso gli omosessuali esiste?, chiede la Verità. «La chiamerei piuttosto stupidaggine di chi ha un cervello piccolissimo. Scusi ma insisto: non sarebbe forse meglio fare lotte in Parlamento perché ci siano reali pari opportunità per tutte le lavoratrici che perdono il posto di lavoro dopo essere diventate mamme, o che meritano uno stipendio parificato a quello dei colleghi maschi? Le leggi vanno scritte quando riguardano tutti, non perché istituiscano differenze. E poi non mi pare una priorità, vista la situazione italiana». Inoltre Santini pensa che il ddl Zan voglia mirare all’utero in affitto: «Se non è lì che si vuole mirare – ma penso che sia invece il punto di arrivo – vorrà dire che avrò solo espresso un mio pensiero. Le offese ricevute mi fanno pensare invece di aver toccato il culo alle vespe, come si dice da queste parti: di aver cioè toccato degli interessi che, in modo illiberale, non si vuole che vengano affrontati. Posso o non posso essere libero di esprimere il mio pensiero? Pare di no». Nega, inoltre, che la Lega abbia pulsioni omofobe: «Ho conosciuto Salvini nel 2015 perché gli ho fatto da cicerone al Carnevale e camminando accanto a lui ho sentito il bisogno di dirgli chi ero. “Matteo, io sono gay, qual è la tua visione dei gay nel centrodestra?”, gli chiesi. Mi rispose che il problema non esiste, che aveva tanti amici come me e che non ci saremmo dovuti occupare di questo, ma dei problemi delle persone». Non solo, in tutta l’area della destra Santini non ha trovato atteggiamenti ostili verso la sua omosessualità. «Guardi che è un falso problema la comprensione della destra: è la sinistra che ha sempre gridato “al lupo” per assicurare una presunta protezione, per intimorire. Discriminano gli stupidi, e stanno a destra come a sinistra. La cattiveria di chi ha poca cultura non ha colore politico. Altero Matteoli sapeva e mi ha sempre sostenuto, è stato il mio padrino politico. Ricordo l’ultima volta in cui l’ho abbracciato: Matera, un convegno sulla famiglia». Convegno dove ha preso la parola per dire che, anche se gay, la famiglia è quella composta da un uomo e una donna.

Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 24 maggio 2021. È finita che è dovuto andare dai carabinieri per sporgere denuncia per diffamazione. «Sono passati all' attacco della mia credibilità, capisce? Sono arrivati a scrivere che ho preso soldi pubblici, inaccettabile». Chi mena fendenti ha un identikit preciso: è gay come lui e vota dichiaratamente a sinistra. Alessandro Santini, 47 anni, è un consigliere comunale della Lega a Viareggio ed è omosessuale.  Il che, di per sé, non sarebbe una notizia, non fosse che da quando ha preso posizione contro il ddl Zan è stato «massacrato», come dice lui, con diversi epiteti e attaccato al punto che è partita la denuncia. «Discriminato perché di destra», racconta. Mentre tanti vip si scrivevano sulla mano «ddl Zan», lei ha pubblicato sui social una foto con la scritta «no utero in affitto». «Da lì è partita la valanga di fango. Mi hanno scritto che stavo tradendo la comunità Lgbt. Fabio Canino parlando di me ha detto: "Questo qui è gay di destra". Mi hanno offeso in diversi modi. Un uomo mi ha contattato online e mi ha chiesto: "Ma sei un gay della Lega?". A mia risposta affermativa, mi ha scritto che c' è un passaparola: se si trova un "gay di destra" bisogna bloccarlo sui social».

Lei si è mai sentito parte della comunità Lgbt?

«Sono uguale a tutti gli altri, non voglio appartenere a un club chiuso, non aperto alle idee. Negli anni si è creata una sacca morbosa di paura, in modo artificiale. Così, il ddl Zan esalta la diversità degli omosessuali e discrimina, in nome di un presunto orgoglio gay».

Che non andrebbe rivendicato?

«Ma figuriamoci. Io ancora mi chiedo perché sia stata istituita la festa della donna l' 8 marzo. Le donne vanno forse difese soltanto quel giorno? Il 7 e il 9 marzo non le si sostiene?».

Una discriminazione verso gli omosessuali esiste?

«La chiamerei piuttosto stupidaggine di chi ha un cervello piccolissimo. Scusi ma insisto: non sarebbe forse meglio fare lotte in Parlamento perché ci siano reali pari opportunità per tutte le lavoratrici che perdono il posto di lavoro dopo essere diventate mamme, o che meritano uno stipendio parificato a quello dei colleghi maschi? Le leggi vanno scritte quando riguardano tutti, non perché istituiscano differenze. E poi non mi pare una priorità, vista la situazione italiana».

Ha ufficializzato il suo «no» all' utero in affitto, ma di questo nella legge esplicitamente non si parla.

«Lo ritengo aberrante. Se non è lì che si vuole mirare - ma penso che sia invece il punto di arrivo - vorrà dire che avrò solo espresso un mio pensiero. Le offese ricevute mi fanno pensare invece di aver toccato il culo alle vespe, come si dice da queste parti: di aver cioè toccato degli interessi che, in modo illiberale, non si vuole che vengano affrontati. Posso o non posso essere libero di esprimere il mio pensiero? Pare di no».

Lei è anche contro le adozioni da parte di coppie dello stesso sesso?

«Io non sono "contro" niente, davvero. Difendo il mio diritto ad avere l'opinione che un bambino debba crescere con un padre e una madre. Voglio poterlo dire senza che che qualcuno mi denunci, senza dovermi pagare un avvocato e stare in ballo due anni in attesa del verdetto di un giudice. Io stesso sarei potuto essere un buon padre, mai una buona madre. Fisicamente e chimicamente non sono una donna. Lo Stato dovrebbe agevolare l'iter per le adozioni e voglio poter continuare a dire che preferisco venga scelta una coppia etero. Ho due coppie di amici omosessuali che hanno adottato bambini, sono straordinari padri, punto».

Le è mai capitato di celebrare qualche unione civile?

«Molte volte, ci mancherebbe. Da cattolico, semplicemente, non le equiparo al matrimonio tra un uomo e una donna».

Cattolico praticante?

«Vado a messa la domenica e cerco di seguire al meglio la Chiesa. Ho un padre confessore che sa tutto di me».

Libero di non rispondere: qual è la sua situazione sentimentale attuale?

«Ho un compagno».

Da quanto fa politica? Toscana terra rossa.

«È iniziata quasi per caso, poi è diventata una passione: degli amici mi convinsero a candidarmi in un quartiere storicamente rosso di Viareggio. Avevo 24 anni, studiavo scienze politiche con il sogno di fare il carabiniere. Era il '96 e fui invece eletto. Da allora sono sempre stato votato. Sono stato vicesindaco a Camaiore, Comune qui vicino della Versilia, e presidente della Fondazione del carnevale di Viareggio, una vera e propria istituzione del posto, che muove 60 milioni di euro di indotto».

E quando ha fatto coming out?

«Nel 2016 il Giornale pubblicò il Mein Kampf di Hitler e fu criticato. Ma bisogna conoscere, perché certe cose non si ripetano più. Ho scritto online che nei campi di concentramento nazisti mi avrebbero messo il triangolo rosa sulla casacca, e i giornali locali mi hanno chiesto se fossi gay. Famiglia e amici ne erano già a conoscenza da tempo».

Perché dirlo a tutti? Le ha fatto guadagnare o perdere voti?

«Mi muovo sempre d' istinto. Una volta a Viareggio staccarono il gas nelle case popolari e senza pensarci mi ci incatenai davanti la mattina dopo. Se c' è una battaglia da fare non mi tiro indietro. Con il coming out forse qualcuno l'ho perso per strada, ma non era un vero amico nemmeno prima. È stato come passare al setaccio la farina».

Prima era di Alleanza nazionale, poi di Forza Italia, poi della Lega. Ha attraversato tutto il centrodestra.

«Il primo passaggio è stato interno all' allora Pdl, il secondo perché non riuscivo a digerire che Fi appoggiasse la rielezione dell'attuale sindaco viareggino, estrazione di sinistra, mio avversario da anni».

Scelta opportunistica?

«Non direi, sono passato all' opposizione. Ho conosciuto Salvini nel 2015 perché gli ho fatto da cicerone al Carnevale e camminando accanto a lui ho sentito il bisogno di dirgli chi ero. "Matteo, io sono gay, qual è la tua visione dei gay nel centrodestra?", gli chiesi. Mi rispose che il problema non esiste, che aveva tanti amici come me e che non ci saremmo dovuti occupare di questo, ma dei problemi delle persone».

In Forza Italia sapevano?

«Guardi che è un falso problema la comprensione della destra: è la sinistra che ha sempre gridato "al lupo" per assicurare una presunta protezione, per intimorire. Discriminano gli stupidi, e stanno a destra come a sinistra. La cattiveria di chi ha poca cultura non ha colore politico. Altero Matteoli sapeva e mi ha sempre sostenuto, è stato il mio padrino politico. Ricordo l'ultima volta in cui l'ho abbracciato: Matera, un convegno sulla famiglia».

Lei invitato a parlarne?

«Come ragazzo omosessuale, esatto».

E cosa disse?

«Quello che dico anche oggi: sono credente e ho dei valori, per me la famiglia è quella che anche dalla mia religione è riconosciuta, composta da un uomo e da una donna».

Amici di destra e gay ne ha?

«Forse più di destra che di sinistra, sa? C' è lo stereotipo indotto dalle giornate come il Gay pride, ma la realtà è molteplice. Riconosco alla comunità Lgbt di aver combattuto per battaglie importanti e meritevoli, credo però che ci abbiano marciato sopra».

Un gay di destra è diverso da un gay di sinistra?

«Ha forse un'attitudine diversa. Così come a destra non si fa sciopero, ma si combatte in altri modi per i diritti. Mi dicono "non sembri gay", "sei un gay atipico" in nome di chissà quale idea preconfezionata. L' ostentazione non mi rappresenta».

Nella Lega ci sono altri gay oltre a lei?

«Ma certamente, come in tutti i partiti».

Anche ad alti livelli?

«Ovunque».

E perché non fanno coming out secondo lei?

«Non si dichiarano perché posso comprendere tutte le difficoltà che ci sono, in primis nelle famiglie. Ad alcune persone non manca l'amore per i propri figli, ci mancherebbe, ma hanno paura di quello che potrebbe accadergli. Io sono stato accettato senza problemi, mi hanno sostenuto e compreso, ma sono una mosca bianca. E comunque io stesso non so se questa intervista la farò leggere a mio papà di più di 80 anni e a mia mamma. Per pudore, non per altro. C' è chi poi si nasconde, chi non si accetta, chi vive una doppia vita. In Italia è così».

L' attenzione mediatica sul ddl Zan può modificare la percezione della questione negli italiani?

«Solo nella misura in cui si riescano ad ascoltare le opinioni di tutti. E che non vinca nel comunicare chi è più incattivito. Sa che in questi tempi mi hanno dato anche del kapò, del collaborazionista? L' offesa più grande. Quando non si sa come combattere l'avversario si crea il mostro. Ha visto cosa sta accadendo a Platinette, o a Dolce e Gabbana, solo perché esprimono il proprio pensiero?».

Caso Fedez. Le frasi che ha citato dal palco sono forti, contro i gay, e pronunciate da leghisti.

«Fedez ha commesso la scorrettezza di non dire quando quelle frasi sono state dette: anni fa. La Lega è cambiata, e molto, in meglio. Forse alcuni di quei leghisti oggi si scuserebbero, come Fedez ha avuto la possibilità di fare per certe sue canzoni di gioventù. Il Carroccio alcuni temi li ha digeriti e affrontati nel tempo, quando prima semplicemente non ne parlava. Probabilmente perché era ritenuto un non problema. Il mio segretario federale non è contro i gay, questo mi basta, comunque. Un uomo che sa essere vicino alla gente, che parla il linguaggio quotidiano della strada e che è per aiutare i migranti, ma chiede che l'Europa faccia la sua parte nell' accoglienza».

G. Guz. per "la Verità" il 25 maggio 2021. La sensazione che il ddl Zan non serva era già nell' aria, ma ora ne abbiamo la prova. Si tratta di una sentenza della Corte di cassazione - la numero 19359/2021 - con cui si è stabilito che dare del «frocio» è diffamazione. I giudici hanno così rigettato il ricorso di Efe Bal, condannata in appello per avere sostenuto su Facebook la presunta omosessualità di un esponente leghista, con il quale avrebbe avuto un rapporto sessuale, apostrofandolo appunto come «frocio». In realtà, l'imputata era stata condannata pure per altre espressioni («schifoso»), ma è senza dubbio per quelle di matrice omofobica che il pronunciamento della Cassazione fa riflettere; quelle parole, per i giudici, «costituiscono, oltre che chiara lesione dell'identità personale, veicolo di avvilimento dell'altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana». Ora, pur non volendo criticare un verdetto di terzo e ultimo grado, è difficile non cogliere in tale sentenza dei profili almeno problematici. Infatti, come testimoniato giorni fa ad Anni 20 da Platinette, al secolo Mauro Coruzzi, non è infrequente che in certi ambienti ci si possa appellare, senza volersi denigrare, col termine censurato dalla Cassazione. In secondo luogo, colpisce che con tale pronunciamento passi per «omofoba» Efe Bal, che è una trans: un cortocircuito logico. Tuttavia, come terzo e ultimo rilievo, la condanna della magistratura un'utilità l'ha. Prova che la legge contro l'omotransfobia, checché ne dicano Alessandro Zan e gli influencer, non serve; perché se si usano certi termini, poi si paga. Già oggi.

Alessandro Rico per "la Verità" il 31 maggio 2021.

Efe Bal, lo chiediamo a lei, che è una donna trans: l'Italia è un Paese omofobo?

«No, no e no. Perciò non abbiamo bisogno di una legge così stupida, come il ddl Zan. Ma si sa perché i piddini vogliono quella e lo ius soli».

Perché?

«Perché gli italiani non li votano più. E allora sperano nei gay e negli stranieri».

Il ddl Zan è una legge stupida?

«Senta, io sono nata in Turchia e, anche se ho il passaporto italiano da 15 anni, sono un'extracomunitaria. Vivo in questo Paese da 21 anni e faccio la prostituta. Dovrei essere già morta, se fosse vero quello che dicono i sostenitori del ddl Zan».

Cosa dicono?

«Che l'Italia è un Paese omofobo, transfobo, razzista, che si respira odio nell' aria».

Non è vero?

«No. Io vivo felicemente in pieno centro a Milano, nello stesso palazzo da 21 anni. Tutti mi conoscono. E tutti mi hanno accettata. L' Italia è un Paese meraviglioso, in cui basta veramente poco per vivere tranquillamente».

Non c'è un' emergenza odio?

«Mi dà fastidio chi parla dell' Italia in questi termini. A partire da Vladimir Luxuria, che dovrebbe ringraziare questo Paese per avergli consentito di essere il primo transgender in Europa eletto in Parlamento».

C'è un pezzo d' Italia che Luxuria l'ha coperta d'insulti.

«Sì? Be', se i gay non sono felici, prendano un aereo e vadano nei Paesi musulmani Magari si vergogneranno di parlar male dell' Italia. Sa che c' è? Dovremmo essere tutti dei populisti».

Dei populisti?

«Nel senso che dovremmo amare questo Paese, in cui viviamo liberamente e senza tabù».

Quanti padri di famiglia, che fanno i tradizionalisti, poi vengono a «divertirsi» con lei?

«E allora?».

Allora, non saremo un Paese omofobo, ma di sicuro ipocrita.

«Succederà sempre che uomini sposati vadano con prostitute o transessuali».

Lei è scesa in piazza, a Milano, con uno slogan: «Restiamo liberi di esprimerci». Il ddl Zan mette in pericolo la libertà d' espressione?

«Sì. Quando vedo un bambino, voglio poter chiedere se somiglia a mamma e papà. Ricordiamoci di una cosa».

Cosa?

«Che tutti i froci, gli omosessuali, transessuali, bisessuali, tutte le lesbiche del mondo sono nati da una famiglia tradizionale. Io ho una mamma e avevo un papà, che purtroppo è morto di Alzheimer. E anche Vladimir Luxuria è nato da un papà camionista e da una mamma casalinga».

Sì, ma esistono anche le famiglie «arcobaleno».

«E chi le tocca? Io vedo un grande rispetto nei confronti di queste persone».

Dice?

«Architetti, attori, cantanti: in molti fanno coming out, e noi li amiamo a prescindere. Avrei capito 30 anni fa. Ma ora queste persone hanno tutto».

Tutto cosa?

«Applicazioni come Grindr per trovare un compagno o semplicemente per farsi una scopata. Hanno locali, alberghi, ristoranti, villaggi, stradine, quartieri. Che altro vogliono?».

Più rispetto?

«Guardi che molto spesso sono proprio gli omosessuali a litigare e a offendersi tra di loro. Che facciamo? Li puniamo perché sono omofobi? Si figuri che io non sono riuscita ad avere nemmeno un' amica trans. E invece non ho mai avuto problemi con gli etero».

In 21 anni che sta in Italia, non ha mai subito discriminazioni?

«Assolutamente no. E se mi permette, su questo tema ho titolo per esprimermi».

Sbaglio, o poco fa ha usato la parola «frocio»?

«Sì».

È un insulto. L' hanno condannata per averlo detto a un leghista.

«Per me, dare del "frocio" non è un insulto omofobo. È come dire "stupido". Io in primis sono un frocio».

Ci sorprende: con gli standard degli attivisti Lgbt, lei sarebbe proprio un' omofoba.

«Stanno prendendo di mira molti omosessuali che non sono d' accordo con il ddl Zan. Poi io sostengo la destra e Matteo Salvini, sono stata due-tre volte a Pontida».

Pure?

«C'è questo pregiudizio da ignoranti, per cui se sei omosessuale o immigrato devi odiare la Lega. Certo, se un omosessuale va in giro mezzo nudo, è chiaro che lo guardano male».

Allude al gay pride?

«Non partecipo a quelle manifestazioni. Non è che al gay pride si presentino in modo da far capire che sono degni, che so, di adottare un bimbo e farlo crescere bene. Ho una foto che parla da sola».

Che foto?

«Un ragazzo al gay pride che ha una bandiera ficcata nel c…Ho paura di pubblicarla su Twitter, perché ogni volta mi bannano per incitamento all' odio».

I social bannano lei, trans, perché incita all' odio contro i gay?

«Ho dovuto creare otto profili su Instagram. Il nono me l'hanno disabilitato un mese fa».

Ossignore

«Io sono in pace con tutti, non litigo con nessuno. Ma ogni società ha delle regole ed è bene adeguarvisi. Se gli omosessuali non rispettano la società in cui vivono, nessuna legge li proteggerà dalle critiche».

La manifestazione di Milano cui lei ha partecipato era targata Pro vita: un'associazione contraria alle nozze gay, contraria all' ideologia gender e per la quale i bambini hanno diritto a una mamma e un papà. Lei è d'accordo con loro?

«Mi preoccupa quello che può succedere, a scuola, a un bambino che non ha una famiglia normale».

Scusi, ma se il problema è che il figlio di due gay verrebbe preso in giro, hanno ragione i sostenitori del ddl Zan: in Italia si discrimina.

«I giovani adulti possono sicuramente essere sensibilizzati. Anche se le discriminazioni, tra di loro, sono sempre meno frequenti e tanti ragazzi fanno coming out serenamente. Quello che non va bene, è che si cerchi di fare il lavaggio del cervello ai bambini».

Pensa alla Giornata contro l'omotransfobia e ai programmi scolastici richiesti dal ddl Zan?

«Avevano già cominciato prima che si parlasse di ddl Zan. E qualche giorno fa, è uscita la notizia delle linee guida gender nel Lazio. Poi si sono dovuti rimangiare tutto. Secondo me, più fanno così, più sortiscono l' effetto contrario».

È giusto far gareggiare gli atleti trans con le donne?

«No, no e no. Sei nato uomo, gareggi con gli uomini. Come sosteneva Donald Trump».

Tira fuori anche Trump? Allora se le cerca...

«Be', geneticamente noi siamo uomini. Lo dico a chi si opera e crede di diventare una donna: donna si nasce, non si diventa».

Messa così, sembra un'ovvietà.

«Lo è. Lo sguardo, il cervello, il modo in cui si reagisce, o in cui si gode Io sono un uomo: e sa quando me ne rendo bene conto?».

Quando?

«Quando m' incazzo. Divento proprio un uomo».

E se qualcuno si rivolge a lei con il pronome maschile, s'incazza?

«L' unico pirla che lo fa è il custode del mio palazzo. E non è italiano».

Le dà fastidio, ma lo manderebbe in galera?

«Ma va' E non mi dà nemmeno fastidio. Ho creato un impero sembrando una donna, però sfruttando il mio lato maschile. Anzi, su questi argomenti, ormai condivido le idee di Mario Adinolfi».

Addirittura?

«Ho postato sul suo profilo Facebook alcune vignette. Un bimbo che dice: "Se chiedo dove sono mamma e papà sono omofobo?"».

Quest' intervista sta prendendo una piega pericolosissima.

«Ho scritto a Giuseppe Cruciani: "Ultimamente condivido le idee di Adinolfi. Mi devo preoccupare?". Mi ha risposto: "Io pure"» (risata).

Siamo al paradosso.

«La gente ha perso il lavoro, tra poco ricominciano licenziamenti e sfratti. Dovrebbero essere queste le priorità: se non hai soldi per mangiare, che ti frega del ddl Zan?».

Che ne pensa di Fedez?

«Chapeau per i 40 milioni che i Ferragnez hanno raccolto nel periodo più buio della pandemia. Però non li sopporto. E il primo maggio, come ha detto Giorgia Meloni, è stata un' occasione persa».

In che senso?

«Milioni di italiani non hanno un lavoro: forse, quest' anno, dovevamo dare più importanza a loro. E invece, gente che prende migliaia di euro per una foto, va in piazza a parlare di omosessuali e ad attaccare la Lega. Un partito che è stato votato da oltre il 30% degli italiani: almeno, portino rispetto nei confronti degli elettori».

Efe, lei è davvero agguerrita.

«Mi hanno bannata cinque volte da Twitter. Asia Argento, invece, ha lanciato l' hashtag #Salvinimerda ed è diventata un' eroina. Viviamo in un mondo in cui se sostieni la destra sei una merda, un omofobo, un razzista che incita all' odio e non ha diritto di esprimersi; se sei di sinistra, invece, vai in tv a parlar male dell'Italia e degli italiani».

A questo punto, perché non si candida con la Lega? Potrebbe diventare la Luxuria di destra.

«La Lega mi ha bandita».

Anche la Lega? Come i social?

«Eh, anni fa appesi dei manifesti a Milano usando il loro simbolo e i vecchi leghisti mi cacciarono. Ma io sposo tutte le idee di Salvini. Ho partecipato alla scuola di formazione politica della Lega e ho ricevuto il certificato direttamente da lui».

Lui potrebbe perdonarla, no?

«Temo che, dentro la Lega, abbia meno potere di quanto si crede».

E Fratelli d' Italia?

«Non so come potrebbe guardarmi la Meloni. Sono pur sempre una prostituta. Tra l' altro, se entrassi in politica, dovrei smettere di esserlo. E non voglio: mi diverto, godo, guadagno. Ma per portare avanti una battaglia, mi candiderei con chiunque mi appoggiasse».

Quale battaglia?

«Regolarizzare la prostituzione e dare alle escort la possibilità di offrire un contributo fiscale all' Italia e di avere una pensione. Di trans, gay e lesbiche non mi frega nulla: ci sono 100.000 prostitute senza tutela, ignorate anche durante il Covid. E questi pensano al ddl Zan».

Antonio Socci contro il ddl Zan: l'ipocrisia degli odiatori di sinistra che vogliono vietare l'odio. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 18 maggio 2021. Dopo gli arresti, a Parigi, di alcuni latitanti italiani, si torna parlare degli "anni di piombo" e di come fare i conti con quella sciagurata stagione. Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della sera, scrive che è assurdo dibattere così di quell'epoca, quarant' anni dopo, perché sarebbe come se nel 1980 si fosse accesa una disputa fra politici e intellettuali sull'entrata in guerra del 1940. In effetti, l'Italia di Mussolini non esisteva più. Ma oggi possiamo dire la stessa cosa degli anni Settanta? Chi ritiene ancora degno di riflessione quel passato è Walter Veltroni, che ha scritto un libro su "Il Caso Moro e la Prima Repubblica". La sua idea è che «Moro fu ucciso dalle BR, ma qualcuno lavorò perché quello fosse l'esito». Secondo Veltroni «le due grandi potenze», Usa e Urss, «avevano entrambe nel mirino» il compromesso storico. In sostanza, a suo avviso, avversavano il Pci berlingueriano al governo. Quindi - secondo il titolo di una sua intervista a Repubblica - "«l terrorismo fu usato dai poteri marci. Si può dare clemenza solo in cambio della verità». Invece Gianni Oliva sulla Stampa osserva che per «fare i conti» con quel passato «non basta chiarire le dinamiche di un attentato o di un omicidio», ma «bisogna risalire alle derive» di quegli anni. Oliva nota che, finito il terrorismo, si passò oltre, di fatto rimuovendo tutto. Uno dei fondatori delle Brigate Rosse, Alberto Franceschini, un giorno dichiarò: «Noi, allora, eravamo quelli che facevano ciò che tanti altri dicevano si dovesse fare».

VERITÀ ETICA. Oliva ricorda la militanza di massa di quegli anni e «gli slogan che fin troppi abbiamo scandito nei cortei» forse senza neanche rendersi conto: "Fascista, basco nero / il tuo posto è il cimitero", "Se vedi un punto nero spara a vista / o è un poliziotto o un fascista", "Attento poliziotto / è arrivata la compagna P38", "Fascisti, borghesi/ ancora pochi mesi". Certo, le parole non sono atti: «La stragrande maggioranza di noi - osserva Oliva - non ha sparato, non ha neppure lanciato bottigliette molotov o cubetti di porfido, ma a riempire le piazze con i cortei dell'ultrasinistra eravamo in molti». È ovvio che dei fatti di violenza o di terrorismo sono responsabili solo coloro che li perpetrarono. Non esistono colpe collettive. Ma oltre alla verità giudiziaria e alla verità storica, secondo Oliva, c'è la "verità etica" che si è dimenticata. Chi da anni invita a ripensare tutto con lealtà è Paolo Mieli, che nei giorni scorsi, in televisione, ha dichiarato: «Io mi vergogno» di aver firmato cinquant'anni fa, il famoso manifesto contro il commissario Calabresi, sottoscritto da centinaia di intellettuali. Ci fu anche, in quel periodo, una famosa "lettera aperta" di intellettuali «al procuratore della Repubblica di Torino che aveva denunciato direttori e militanti di Lotta Continua per istigazione a delinquere», come riferisce Michele Brambilla in un suo libro. La lettera fra l'altro diceva: «Quando i cittadini da lei imputati gridano"'lotta di classe, armiamo le masse", lo gridiamo con loro. Quando essi si impegnano a "combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento", ci impegniamo con loro». Buona parte dell'attuale classe dirigente si è formata nel clima di quegli anni, perlopiù immersa nel conformismo marxista. Pur avendo poi superato quell'ideologia (se non altro perché il comunismo è crollato), si può dire che la Sinistra abbia davvero superato anche certi istinti intolleranti come la demonizzazione del Nemico e l'odio ideologico?

NUOVI BERSAGLI. Negli ultimi decenni la demonizzazione e l'odio sono dilagati: prima contro Berlusconi, poi contro Salvini e Meloni. E curiosamente oggi proprio da quella Sinistra arrivano le prediche (e perfino le leggi) contro l'odio. Ma con quale credibilità? Due piccoli fatti avvenuti in queste ore sono illuminanti. Sabato ci sono state molte manifestazioni di Sinistra a favore del ddl Zan che nessuno ha disturbato. Invece all'unica manifestazione cattolica contro il ddl Zan, a Milano - riferisce il Corriere - sono arrivati contestatori con «bandiere arcobaleno, fumogeni e striscioni» e «hanno urlato insulti» contro Salvini. A Sinistra dà fastidio la libera espressione degli altri? E tutto questo in nome della tolleranza? Secondo episodio: Salvini in questi giorni ha preso posizione in favore di Israele ed è stato investito da messaggi di insulti e «minacce che abbiamo ricevuto io e i miei familiari». Il leader leghista ha rilevato, con stupore e amarezza, che (oltre alla Sinistra) il segretario del Pd Letta non ha ritenuto di esprimere nessuna solidarietà. Tutto questo non merita una riflessione?

Ddl Zan, ecco perché la nuova legge negherebbe i diritti degli altri: quale pericolo corriamo. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 18 maggio 2021. Visto che la favola del ddl Zan avversato solo da omofobi e sessisti che reclamano la libertà di bastonare i gay e l'impunità per il marito che frusta la moglie non regge più tanto bene, e visto che qualche ragionevole motivo di critica verso quel disegno di legge è venuto anche da alcuni che era un po' difficile infilare nel gruppo degli istigatori all'odio, allora dall'esercito dei forsennati, quelli che il ddl Zan va approvato subito, senza se e senza ma, perché altrimenti l'Italia resta ai margini delle comunità civilizzate, si stacca la falange della soluzione compromissoria: miglioriamolo, dicono. Se si trattasse solo di grammatica, l'intendimento sarebbe anche buono perché tra le altre cose che squalificano quelle norme c'è pure che sono scritte in un italiano da far piangere. Ma il fatto è che non si tratta solo di grammatica, e non si vede come si possa migliorare, se non seppellendolo sotto una valanga di voti contrari, un proposito di riforma che - almeno in ottica liberale - ha presupposti sbagliati, finalità sbagliate e strumenti anche più sbagliati per perseguirle. Nei presupposti, infatti, è sbagliato perché rinnega esattamente la causa per cui occorre proteggere chi è vittima di violenza o discriminazione: e la causa è il diritto dell'individuo di fare quel che gli pare sino a che non molesta gli altri, un diritto che ha in quanto persona, non in quanto bianco o nero, maschio o femmina, omosessuale o eterosessuale o altro. Poi sono sbagliate le finalità di quella riforma sconsiderata, finalità che persino nelle dichiarazioni dei sostenitori si rivolgono a "educare" la società dividendola in corporazioni sessualmente orientate, ciascuna col suo orto di micro diritti inseminati di retorica da webinar pluralista. E infine sono sbagliati gli strumenti attuatori di quei presupposti e di quelle finalità, cioè la multa e la galera, il presidio penale posto a incivilire la società che sgarra affidandola alle cure del magistrato che decide se sei stato dentro o al di fuori del "purché" (libera manifestazione delle idee, dice questo capolavoro, "purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti"), che è il confine democratico tra le cose permesse e quelle vietate nel bel mondo che ci regalerà questa legge imperdibile. Che cosa c'è da "migliorare", in un simile scempio? C'è da dire no, e basta.

Gaia Cesare per "il Giornale" il 13 maggio 2021. Fresco di vittoria elettorale alle amministrative del 6 maggio e con il vento in poppa per essersi distinto a livello internazionale nella campagna vaccinale anti-Covid, Boris Johnson veste ora i panni del guerriero impegnato in una campagna tanto simbolica quanto cruciale, quella per la libertà di espressione. Noto per le sue uscite poco ortodosse e controcorrente, l' irriverente premier inglese ha deciso che il free speech va difeso nelle università britanniche e sui social network, anche quando sconfina nella scorrettezza politica, e che è il momento di impegnarsi concretamente contro la cancel culture, quel pensiero dilagante che ha generato la crociata per l' abbattimento di decine di statue di figure storiche e punta a rimuovere pezzi di storia e personaggi del passato, giudicandoli senza considerare le circostanze socio-storico-culturali in cui certe idee e quei personaggi si sono sviluppati. Ecco che tra i circa trenta disegni di legge annunciati martedì nel Discorso della Regina, in cui Sua Maestà legge il programma del governo per l' anno in corso, sono spuntate due proposte normative, approdate in Parlamento già ieri, con la solita efficienza british. La prima prevede un obbligo legale per le università e per la prima volta anche per le Students' Unions - le organizzazioni che rappresentano gli studenti nei college e nelle università e spesso organizzano dibattiti su temi di interesse e di attualità - di proteggere la libertà d' espressione, pena il rischio di essere trascinate in tribunale se a qualche studente, oratore o accademico venisse messo il bavaglio, al punto da poter consentire a chi è stato censurato di chiedere un risarcimento. Il ministro dell' Istruzione Gavin Williamson ha definito l' Higher Education (Freedom of Speech) Bill un disegno di legge «storico», «una pietra miliare» per contrastare «gli effetti agghiaccianti della censura nei campus» su studenti, personale e relatori «che non si sentono liberi di poter dire la loro». Chi viola gli obblighi, rischierà multe e sanzioni. Per dimostrare la bontà dell' approccio governativo, il ministro dell' esecutivo Johnson cita il caso delle 500 sterline di costi che il Bristol Middle East Forum ha dovuto affrontare per garantire la sicurezza dell' ambasciatore israeliano invitato a parlare a un evento. E poi la lettera di oltre un centinaio di accademici, che hanno lanciato un attacco pubblico a Nigel Biggar solo perché il docente di Oxford ha osato dire che gli inglesi possono sentirsi «orgogliosi» dell' Impero tanto quanto possono vergognarsene. Come prevedibile, la linea Johnson è già sotto attacco, accusata di «aggiungere complessità alla governance universitaria» e nuovi requisiti di conformità. Rischia di insistere sull' ovvio - è l' obiezione - visto che le università sono già tenute a proteggere la libertà di parola e le libertà accademiche. Ma il governo tira dritto. E con un altro disegno di legge vuole affrontare la questione anche sui social network. Facebook e Twitter - è l' intenzione - dovranno fornire agli utenti strumenti per ricorrere contro la rimozione dei propri messaggi. Ma la battaglia sul web, ben più ampia, è appena cominciata.

Ilaria Ravarino per "ilmessaggero.it". A ciascuna voce un colore, un’età e un orientamento sessuale: bianchi doppiati solo da bianchi, neri da neri, omosessuali da omosessuali, e così via nella folla corsa del politicamente corretto a ogni costo. Sembra una distopia, e invece è una realtà contro cui si sta scontrando il mondo del doppiaggio italiano. «Le major americane stanno esportando la logica dell’inclusività a priori – denuncia Daniele Giuliani da Roma, voce di Jon Snow ne Il Trono di Spade e presidente ANAD (Associazione Nazionale Attori Doppiatori) – si fanno pressioni con richieste esplicite: omosessuali doppiati dagli omosessuali, neri dai neri, età anagrafica più rilevante di quella vocale. Non solo si rischia la ghettizzazione, ma si viola l’articolo 3 della Costituzione». Come già accaduto in letteratura, con il caso della poetessa Amanda Gorman tradotta, su richiesta della casa editrice, da una scrittrice «preferibilmente di colore» (ci sono state polemiche e problemi in particolare nei Paesi Bassi e in Spagna), anche il doppiaggio si adegua alle regole imposte da piattaforme come Netflix e Amazon. «Una volta mi hanno chiesto doppiatori solo neri: gli ho risposto che in Italia non ci sono, e il lavoro lo ha preso una società che se li è inventati – racconta Fiamma Izzo, direttrice del doppiaggio de Il principe cerca figlio e Crudelia – Un’altra volta mi hanno chiesto un doppiatore “liquido” per dare voce a un attore non binario, nel rispetto della sua scelta identitaria. Ho chiamato una persona molto giovane, con una voce eterea da ragazza. Niente da fare. Non andava bene». Le piattaforme, specifica Giuliani, «non si comportano tutte allo stesso modo. L’ingresso dei loro ricchi cataloghi nel mercato del doppiaggio – un migliaio di professionisti, quasi tutti a Roma – resta comunque positivo anche se i problemi non sono pochi. Hanno portato milioni di euro nella filiera. Oggi un doppiatore può coprire fino a una ventina di serie e una decina di film all’anno». Nel giro di cinque anni le società di doppiaggio sono più che raddoppiate, passando dalle 10 “storiche” alle 25 di oggi, scatenando però una corsa al ribasso: «Se le società prima chiedevano alle major un costo di 210$ al minuto, oggi arrivano anche offerte a 120». E il potere di persuasione delle major, inserito in un mercato diverso da quello americano, genera cortocircuiti imbarazzanti. «Quanto possono lottare le società di doppiaggio contro i loro maggiori clienti?», si chiede Chiara Gioncardi, voce della supereroina Sharon Carter nei film di Capitan America. Sconfortata anche Letizia Ciampa, voce di Emma Watson in Harry Potter: «Non abbiamo mai escluso nessuno e il rischio è cominciare a farlo. Doppiare secondo il colore della pelle è una follia. Se uno come Michael Jackson fosse stato un attore, oggi da chi lo faremmo doppiare?». Per David Chevalier, voce del supercattivo Loki nei kolossal Marvel, «le piattaforme hanno gravi problemi con il razzismo, ma dobbiamo sgonfiare questa bolla puritana che ci sta travolgendo». Il percorso di reclutamento di una voce, oggi, parte dalle società di doppiaggio, che propongono i doppiatori al cliente (la piattaforma). È il cliente, a quel punto, a inviare le sue richieste particolari. «Ma le piattaforme non conoscono il mercato italiano, dove i doppiatori neri non esistono – spiega Laura Romano, voce di Viola Davis - ho visto chiamare una modella colombiana a doppiare un’attrice colombiana ed è stato un disastro». Se per Luca Ward, doppiatore di Samuel L. Jackson, «l’importante è non alzare barriere», per Flavio Aquilone, voce dell’afroindiano Dev Patel, «la voce non ha razza, orientamento politico e religioso». E nemmeno età: «Io ho 80 anni, doppio i 60enni e mi pagano per farlo – dice Michele Gammino, voce di Harrison Ford – l’età della voce è una stupidaggine». Eppure anche su questo punto le piattaforme sono intransigenti: «Ti richiedono il curriculum, l’anno di nascita e a volte pure il mese – denuncia Ilaria Stagni, voce di Scarlett Johansson – e io, che ho cinquant’anni, ho paura di perdere il lavoro. Servono referenti. Ma non c’è un signor Netflix con cui parlare».

Il politicamente corretto è un nemico immaginario. Michela Murgia su L'Espresso il 10 maggio 2021. Politici, editorialisti, qualche comico. Il gruppo dominante si dipinge come assediato da censori liberticidi. Ma vuole solo difendere il proprio potere. C’è una linea diretta che collega le svarionate televisive alla Pio e Amedeo, gli editoriali che strillano alla dittatura del politicamente corretto e le polemiche sul presunto revisionismo di Biancaneve. Questa linea è il potere che attribuiamo alle parole, ma soprattutto il potere che le parole attribuiscono a noi; non a tutti però, ma solo chi può permettersi di sceglierle, per se stesso e per gli altri. Lungo quella linea, tutt’altro che sottile, chi lavora con le parole sa che controllare il linguaggio vuol dire controllare il mondo e che la battaglia più importante è impedire all’altro - all’antagonista ideologico - di levarti di bocca le tue parole e metterci le sue. La cosiddetta libertà di continuare a dire ricchione, bella figa, handicappato e negro non è altro che la pretesa di tenere in piedi un mondo in cui le parole per dire chi sono gli omosessuali, le donne, i disabili e le persone di altra etnia siano solo quelle scelte dagli eterosessuali, dai maschi, dai bianchi e dagli abili, che si ergono a norma e lasciano agli altri il folkloristico compito di essere l’eccezione. Per proteggere la rivendicazione di questo dominio, da anni assistiamo alla costruzione di fantasmi lessicali che esistono solo in forza della frequenza con cui vengono nominati. Le espressioni “cancel culture” e “politically correct” sono un buon esempio di questa attitudine a dare per reali fenomeni che nella realtà non esistono. Entità concettualmente misteriose anche solo per il fatto di essere state generate in contesti culturali che non sono quelli italiani, la cancel culture e il politically correct assumono da noi la forma di nebulose minacce censorie che ci assalgono da ogni cespuglio, indefinibili e quindi più temibili. Come accaduto con il fantomatico gender, con i mai trovati anarco-insurrezionalisti o altri oggetti lessicali non identificabili, l’uso di queste espressioni per proteggere il proprio sistema di potere rivela però un ritardo dello sviluppo intellettuale. Se infatti i bambini a un certo punto dismettono la pratica di farsi compagnia rivolgendosi all’amico immaginario, quelli che non hanno superato lo stadio del pensiero puerile li riconosci perché da adulti parlano ancora con la sua versione incancrenita: il nemico immaginario. Autorevoli editorialisti che occupano da anni le prime pagine dei quotidiani si dipingono come fragili voci minacciate da una misteriosa congrega censoria, che però così potente non deve essere, dato che essi continuano indisturbati a scrivere. Comici televisivi da prima serata si ergono a vittime perseguitate da un’invisibile polizia linguistica, che però non appare mai sul palco a sanzionarli mentre definiscono gli altri usando il proprio privilegio come parametro di normalità. Politici che della ferocia hanno fatto la propria cifra comunicativa dichiarano di sentire violentato il proprio bambino interiore ogni volta che si scorge all’orizzonte un minimo tentativo di riflettere - non modificare, basta volerci riflettere - sull’immaginario delle fiabe. Il gruppo dominante, per proteggersi, non ha alcuno scrupolo a dipingersi come fragile e in pericolo, decretando le sue vittime come perniciosi liberticidi ogni volta che provano a minare il rapporto di potere consolidato. Vorrei dire loro che non esiste alcuna minaccia alla supremazia del maschio bianco eterosessuale senza disabilità e che forse dovrebbero smettere di descriversi come cuccioli di visone davanti ai feroci pellicciai, ma non sarebbe del tutto vero. La minaccia alla pretesa di lasciare le parole del potere esattamente dove sono già esiste, solo che non si chiama cancel culture e nemmeno politically correct. Si chiama evoluzione sociale, inclusione e allargamento dei diritti. Se la libertà diventa l’opposto della sensibilità e del rispetto, se rivendicarla significa negare ad alcuni il riconoscimento di cui godono tutti gli altri, il problema non sono le parole, ma le intenzioni che ci stanno dietro. Con la parola si creano mondi e per capire che occorre sceglierle bene basterebbe ricordare che in quei mondi dobbiamo andare ad abitarci.

“Politically correct”, meno male che esiste da poco: ci avrebbe negato pure Totò e Celentano. Marzio Dalla Casta sabato 8 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. È una vera fortuna che la “diversamente censura” del politically correct sia un fenomeno relativamente recente. Pensate un po’ quante cose ci saremmo persi se il suo rogo ardesse già da tempo. Quanti film non avremmo visto e quante canzoni non avremmo ascoltato. Ci pensi bene, perciò, Adriano Celentano prima di buttarsi a corpo morto addosso a Fedez mentre il rapper digrignava tutti i suoi denti (ma quanti ne ha?) contro una presunta sforbiciata Rai alla sua invettiva anti-Salvini dal  Concertone del 1° maggio. Ci pensi bene e poi ci dica se oggi sarebbe libero di cantare «e uno schiaffo all’improvviso le mollai sul suo bel viso rimandandola da te» senza passare per potenziale femminicida.

La nuova censura colpisce ora per allora. E già che c’è, consigli prudenza ad un progressista doc come Roberto Vecchione, cui oggi non perdonerebbero versi («e una negra grande come un ospedale da aspettare») come questi cantati in Arthur Rimbaud. Un testo del 1984, ma che sembra la fotocopia di «Siamo i Watussi» del 1963 con i suoi «altissimi negri». A conferma che in oltre vent’anni di musica leggera e impegnata nessuno aveva dato importanza a quel «punto G» che oggi scatena l’eccitazione del politically correct ogni qualvolta diciamo “negro” anziché “nero”. E ve lo immaginate il duo Mogol-Battisti sommerso da dislike e insulti social per «donna tu sei mia, mia e quando dico mia dico che non vai più viva»? Oggi sarebbe roba da Anonima sequestri. Ma ora tenetevi forti sapendo che al rogo della nuova inquisizione non sfuggirebbe neanche la compagna Fiorella Mannoia. E mica per quisquilie e pinzillacchere. Tutt’altro. Già, cos’altro è il suo «e dalle macchine, per noi, i complimenti del playboy noi non li sentiamo più se c’è chi non ce li fa più» se non nostalgia canaglia di un tempo in cui il maschio poteva impunemente tentare di abbordare una donna? Resta invece sub judice il «Non ho l’età» della prodiana Gigliola Cinquetti. Quando la cantò (1964), era minorenne. Ma a complicare la sua posizione potrebbe ora l’intervento abbassamento a 18 anni della maggiore età.

Un pretesto la lotta a odio e discriminazione. Già, perché come il «treno dei desideri» di Celentano, la censura politically correct «all’incontrario va». Il rischio che colpisca retroattivamente ora per allora c’è, eccome. E nulla impedirebbe allo Zan di turno di scorgere in quel testo apparentemente poetico e innocente l’indizio di un’apartheid sentimentale per sole ragazze. A quel punto, delle due l’una: o rogo o versione maschile del testo interpretato da Peppino di Capri. E fermiamoci qui e risparmiamoci lo spezzatino cui gli odierni iconoclasti ridurrebbero, ad esempio, i film di Totò così ricchi di battute ardite. Dipendesse solo dai nuovi moralisti, trasformerebbero volentieri il Principe della risata nell’abominevole Re del politicamente scorretto. Pronti – in nome della lotta all’odio e alla discriminazione – a confinarlo nel più triste e malinconico degli esili.            

Dagotraduzione dal Miami Herald il 5 luglio 2021. Nei parchi divertimento Disney torneranno domenica i fuochi d’artificio, ma ad annunciarli non sarà il solito messaggio registrato che recitava: «Buona sera, signori e signore, ragazzi e ragazze, sognatori di tutte le età», bensì una sua versione ristretta: «Buona sera, sognatori di tutte le età», senza riferimenti di genere. La nuova formulazione riflette i recenti cambiamenti della politica Disney che promuovono l’inclusività, e fanno parte di «uno sforzo più ampio». «Non si tratta di una o due cose» ha spiegato un portavoce Disney. Ma quando mercoledì, durante alcune prove, i visitatori hanno ascoltato il nuovo annuncio, non tutti sono stati d’accordo. «La Disney diventa ogni giorno più ridicola», hanno scritto su Twitter.

DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 4 maggio 2021. Una versione rinnovata della famosa attrazione incentrata su Biancaneve a Disneyland sta suscitando critiche per aver interpretato la scena del “bacio del vero amore”, che secondo alcuni mina le lezioni sul consenso poichè il principe azzurro bacia Biancaneve mentre dorme. Il parco a tema di Anaheim in California è stato riaperto venerdì dopo essere stato chiuso per più di un anno a causa della pandemia e ha sottoposto la classica giostra di Biancaneve a un significativo restyling. Precedentemente incentrato sulla regina malvagia e noto come "Il viaggio spaventoso di Biancaneve", la versione aggiornata ha un approccio più spensierato al racconto e presenta nuovi animatronics e scene completamente nuove. La corsa termina con la scena del "bacio del vero amore", in cui il principe, credendo che Biancaneve sia morta, la bacia, spezzando la maledizione della regina. "Un bacio che le dà senza il suo consenso, mentre lei dorme, il che non può essere vero amore se solo una persona sa che sta succedendo", hanno osservato i recensori di SFGate. “Il consenso nei primi film Disney è una questione importante. Insegnare ai bambini a baciarsi, quando non è stato stabilito se entrambe le parti sono disposte a impegnarsi, non va bene" hanno scritto i critici. “È difficile capire perché la Disneyland del 2021 scelga di aggiungere una scena con idee così antiquate su ciò che un uomo può fare a una donna.", continuava la recensione. Non è la prima volta che la scena del bacio di Biancaneve del film del 1937 ha suscitato preoccupazione per il messaggio che invia ai giovani. Nel 2018, Kazue Muta, professore all'Università di Osaka in Giappone, ha affermato che l'atto di baciare una donna addormentata può essere paragonato a un'aggressione sessuale su una persona priva di sensi.

Mentre difendete Biancaneve non fate altro che ingrassare un’informazione distorta. Giulio Cavalli su Notizie.it il 05/05/2021. Non state discutendo di “politicamente corretto” e nemmeno di “cancel culture”. State vivendo il brivido di una narrazione dopata: è questa la mela avvelenata. Attenti: mentre animatamente discutete di cancel culture e nei vostri profili social state prendendo le difese di Biancaneve oppure avete la sensazione di ergervi a difensori della libertà di continuare a raccontare le favole nella loro versione originaria se avete la sensazione di essere immersi nel “traffico” di un dibattito mondiale sappiate che quel traffico siete voi e con il vostro traffico e soprattutto con i vostri clic state ingrassando un’informazione distorta che anche oggi ha trovato una leva per alzare l’indignazione quotidiana e l’isteria collettiva. Perché no, da nessuna parte del mondo nessuno ha mai pensato di “chiudere la nuova attrazione di Disneyland dedicata a Biancaneve” per il bacio non consensuale del principe. È accaduto che sul sito SFGate (un sito di news di San Francisco che per quanto grande e importante rimane comunque la parte web del quotidiano San Francisco Chronicle) ha pubblicato un articolo di opinione (un editoriale, sostanzialmente) in cui la direttrice del sito e una cronista raccontano della riapertura di Disneyland e della nuova attrazione di Biancaneve (descrivendola come bellissima) e riportando infine in poche righe un’osservazione su quel bacio non consenziente. Solo i siti e i quotidiani più populisti d’America hanno ripreso quelle poche righe (da un sito di San Francisco) conoscendo bene i nervi scoperti sull’argomento e intravedendo il possibile bottino di clic che avrebbe portato ottimi risultati pubblicitari. Il fremito indignato, soprattutto in questo caso in cui ci si può prendere la grassa soddisfazione di indignarsi dell’indignazione degli altri godendo quindi del sollazzo di un’indignazione al cubo, ha subito fatto venire l’acquolina in bocca anche ai giornali nostrani (quelli a cui senza polemiche toccherebbe addirittura dedicarsi alle analisi e alle notizie) assumendo sembianze ridicolmente mostruose con incipit come “l’America si interroga” o “censura contro Biancaneve” che lascerebbero immaginare un esercito di legionari pronti a decapitare il principe e che ovviamente hanno eccitato gli sfinteri di certa destra (concimata dall’immancabile tweet di Salvini). La notizia in realtà avrebbe potuto essere: “Due giornalisti di un sito di news locale di San Francisco hanno notato che quel bacio non era consensuale”. Capite la tragica mancanza di proporzioni? Immaginate qualche leader politico e la stampa internazionale e la comunità scientifica discutere dell’idea di vaccinarsi con la nutella rilanciata da un editoriale di Vattelapesca News. E il gioco è talmente diabolico che perfino questo articolo, pensandoci bene, non fa nient’altro che ingrossare l’argomento e contribuire alla moltiplicazione di clic e di hashtag. Però almeno potrebbe tornare utile per rendersi conto che spesso quando l’informazione (e la politica) decidono di abbandonare i contenuti per inseguire la propaganda (e magari una riflessione seria sulla propaganda giornalistica prima o poi cominceremo a farla in questo Paese) allora non servono più le notizie reali, basta semplicemente rovistare nei cassonetti per trovare qualcosa di utile a innescare la polarizzazione arrabbiata. Tecnicamente (e un po’ volgarmente) si potrebbe parlare di “merda nel ventilatore”. È un’immagine un po’ forte ma rende perfettamente l’idea. Non state discutendo di “politicamente corretto” e nemmeno di “cancel culture”. State vivendo il brivido di una narrazione dopata che punta alla pancia illudendovi di occuparvi di temi serissimi: è questa la mela avvelenata.

Fabiana Salsi per "vanityfair.it" il 6 maggio 2021. Poteva non diventare un meme l’argomento del momento? No, non poteva: mentre imperversa la polemica sul bacio con cui il principe ha svegliato Biancaneve le bacheche dei social si stanno riempendo di immagini (ne vedete alcune nella gallery sopra) in cui lui cerca modi diversi e creativi per farla destare dal sonno: ci prova con il defibrillatore, con la tromba da stadio, con il caffè, le chiede perfino di firmare una liberatoria per essere certo di avere il suo consenso. Il consenso: è il motivo per il quale uno dei baci più iconici della storia della letteratura e del cinema è diventato una notizia. Tutto è cominciato perché Disneyland, nel restyling durante il lockdown del suo parco di Anaheim (California), ha scelto di cambiare il finale della corsa della sua giostra Snow White’s Enchanted Wish: non è più la scena della morte della matrigna Grimilde ma quella, appunto, del bacio con cui il principe risveglia la principessa dell’incantesimo. Nel recensire la giostra due giornaliste del San Francisco Gate (una piccola testata locale) hanno criticato la scelta scrivendo che «Biancaneve dorme e dunque il bacio non è stato consensuale» sostenendo che andrebbe rimosso per rispetto alle donne. In poche ore la loro recensione è stata ripresa dai tabloid, e poi dalle testate di tutto il mondo, e in questo modo è diventata un caso globale. Un caso con tutte le carte in regola per finire sulle bacheche dei social: c’è la fiaba popolare che conosciamo tutti, si parla di sensibilità femminile, di politicamente corretto e scorretto, di cancel culture. I post si stanno sprecando, e i meme non potevano mancare. 

Politicamente corretto: ora finisce sotto attacco Biancaneve. Gerry Freda il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. L'attacco woke, che ha avuto risonanza anche in Italia, ha messo nel mirino il "bacio non consensuale" del classico datato 1937. Negli Usa si è abbattuta ultimamente una nuova tempesta di polemiche sul mondo Disney, in particolare contro Biancaneve, promossa dai promotori del politicamente corretto, impegnati a tacciare di imperialismo, razzismo e maschilismo ogni capolavoro o classico della cultura occidentale. A causare le invettive è stata stavolta un'attrazione del parco divertimenti californiano Disneyland, recentemente rinnovata e dedicata al cartone animato del 1937 Biancaneve e i sette nani. Tale attrazione, denominata Snow White’s Scary Adventure, è un percorso d'avventura, svelato al pubblico durante la riapertura del parco la scorsa settimana, che presenta nuovi effetti audio e visivi, come proiezioni laser e luci a LED e che richiama la storia dell'eroina Disney. Ma c'è un aspetto dell'attrazione che non è stata affatto ben accolta dalla stampa woke e radicale: il finale del tragitto, in cui è riprodotta la scena del cartone che immortala il principe azzurro mentre bacia Biancaneve addormentata per svegliarla con "il bacio del vero amore". Proprio tale effusione ha fatto indignare Katie Dowd e Julie Tremaine, firme del quotidiano online San Francisco Gate.

L'affondo sui "bacio non consensuale". In una recensione della nuova attrazione Disneyland, pubblicata il primo maggio sul sito citato, le due hanno innescato la polemica contro i responsabili del parco divertimenti tuonando contro la natura “non consensuale” del bacio tra il principe e Biancaneve. A detta di Dowd e Tremaine, tale scena finale dell'attrazione e del cartone sarebbe assolutamente diseducativa, in quanto equiparabile a un inno ai soprusi di genere, invocando di fatto la censura verso quell'effusione tra i due protagonisti del racconto fantastico: “Lui la bacia senza il suo consenso, mentre lei dorme, il che non può essere vero amore se solo una persona sa che cosa sta accadendo. Non siamo ancora d'accordo sul fatto che il consenso nei primi film Disney sia una questione importante? Che insegnare ai bambini a baciarsi, quando non è stato stabilito se entrambe le parti sono disposte a impegnarsi, non va bene?".

In passato nel mirino anche altre attrazioni. Le due giornaliste hanno quindi proseguito il loro affondo dichiarando: “È difficile capire perché la Disneyland del 2021 scelga di aggiungere una scena con idee così antiquate su ciò che un uomo può fare a una donna, soprattutto considerando l’attuale enfasi della società sulla rimozione di scene problematiche da giostre come Jungle Cruise e Splash Mountain. Perché non reimmaginare un finale in linea con lo spirito del film e il posto di Biancaneve nel canone Disney, ma questo evita questo problema?”. Le due attrazioni citate da Dowd e Tremaine, ossia Jungle Cruise e Splash Mountain, erano state in precedenza a loro volta oggetto delle critiche woke per il fatto che erano, a detta dei detrattori, piene di raffigurazioni dispregiative di popolazioni indigene e minoranze etniche. I vertici Disney non hanno ancora replicato alle accuse relative a Snow White’s Scary Adventure, ma il caso ha avuto risonanza sul web, fino a irrompere nel dibattito politico italiano, con la Lega e Matteo Salvini che hanno subito presentato sui social il caso-Biancaneve come l'ultima follia del politicamente corretto.

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

Silvia Renda per huffingtonpost.it il 13 maggio 2021. Checco Zalone è incredulo quando viene proclamato vincitore ai David di Donatello. Il brano originale premiato non è quello di Laura Pausini, che ha trionfato ai Golden Globe e corso agli Oscar, ma “Immigrato”, la canzone politicamente scorretta e volutamente provocatoria che accompagna il film “Tolo Tolo”. Ride la cantante emiliana, che probabilmente a quell’esito non ci crede tanto quanto Zalone. Mantiene il sorriso mentre la telecamera indugia su di lei, che continua ad applaudire seduta nello studio, di fucsia vestita. L’attore comico non è invece presente in sala per ritirare la statuetta - lo fa per lui il produttore Pietro Valsecchi - né tantomeno ha indosso gli abiti che dresscode imporrebbe. La notizia la apprende in collegamento video e regala un breve sketch comico agli spettatori da casa. È un film nel film: con Carlo Conti a fare da spalla, Zalone firma il momento più divertente della serata, nonostante i problemi di audio del collegamento abbiano reso alcune stralci della conversazione incomprensibili, costringendo il pubblico ad allungare l’orecchio verso lo schermo. “Se lo sapevo venivo” esordisce, parlando dal salotto di casa sua, con indosso jeans e maglietta e sullo sfondo il pianoforte, da sempre suo alleato sul palco, lì dove forse ha composto la canzone che lo ha portato al trionfo. “Non te l’aspettavi?” chiede Conti all’attore. “No, la mia famiglia sta dormendo”, dice prima di alzarsi in piedi per richiamare la compagna all’ordine, urlando: “Mariangela! Ho vinto”. Nessun segnale. “Non sono venuti lì a festeggiare?” lo esorta il conduttore. “Non gliene frega niente”, sentenzia lui sorridendo. Poi arriva il momento del discorso ufficiale del vincitore. “Io sono timido nella vita, mi sono preparato delle parole. Posso leggerle?” chiede Zalone, aprendo un foglietto bianco. Ed esordisce: “La solita cricca di sinistra che premia i soliti...no, aspetta. Questo era se perdevo”. Poi quello corretto: “Voglio ringraziare l’Accademia che con metodo meritocratico mi ha voluto riconoscere questo premio che dedico alla mia famiglia che dorme, ai miei amici Antonio e Giuseppe, all’immigrato Maurizio che ci sta seguendo”. Per Zalone è l’ennesimo riscatto. La canzone “Immigrato” era stata presentata come trailer di “Tolo Tolo” (campione d’incassi, neanche a dirlo) e ne era seguita una lunga polemica. I detrattori criticavano il contenuto, ironico su alcuni stereotipi sugli immigrati, accusando il film, che ancora doveva essere distribuito nelle sale, di razzismo. La pellicola al contrario aveva tutto un altro intento. Lo hanno capito gli spettatori che lo hanno visto al cinema, contribuendo a farlo diventare il quinto film col maggior incasso in Italia. La polemica era inutile? Ora alla domanda risponde anche il David.

Da baritoday.it il 6 maggio 2021. "Sono stata entusiasta che il mio amico e ammirato collega, Checco Zalone, mi abbia chiesto di comparire insieme a lui in un video per promuovere l'assunzione del vaccino. Lavorare con un uomo di tale eleganza e genialità è davvero un onore e sono molto felice che ci sia stata una risposta così forte al nostro lavoro insieme": sono le parole dell'attrice premio Oscar Helen Mirren sulla fortunata collaborazione con l'attore e regista barese per il video de "La Vacinada", il nuovo brano di Zalone diventato un vero e proprio tormentone delle ultime settimane. Lo riporta l'agenzia Dire. "La Vacinada" è stata lanciata sui social il 30 aprile scorso: il video è ambientato in Puglia e mostra Zalone e Mirren danzare al ritmo di bachata tra le campagne e le masserie del Salento per un messaggio di sensibilizzazione verso la campagna vaccinale per sconfiggere il Covid-19.

Da gqitalia.it l'1 maggio 2021. Irriverente quanto irresistibile, Checco Zalone ce l'ha fatta un'altra volta, espressione che vale sia per la sua capacità di fare regolarmente centro e sfornare block-buster e tormentoni, sia per l'abilità tutta personale di riuscire a farsi gioco di noi, dei nostri tic e stereotipi, dei nostri tabù e paure. La sua ultima creatura umoristica si chiama La Vacinada e al ritmo di una bachata ci invita a vaccinarci facendo leva su un tormentone della pubblicità e pure del lockdown. Da un lato, (quasi) non esiste spot che non voglia rendere sexy il suo “prodotto” (qui la vaccinazione). Dall'altro, da oltre 14 mesi, quasi nessuno riesce più a flirtare, rimorchiare, innamorarsi o godersi una fiamma di passione improvvisa per colpa della pandemia e delle rigide regole igieniche e di distanziamento a cui ci obbliga, se non vogliamo ammalarci e agevolare la diffusione del virus. La canzone (viralissima e super condivisa in poche ore) è supportata da un videoclip che potrebbe essere l'apertura di una nuova commedia dell'autore di Tolo Tolo e Quo Vado?, con tanto di superstar coprotagonista (una splendida Helen Mirren, artista da sempre ironica che si presta volentieri al gioco di Zalone). A rendere irresistibile La Vacinada, però, è un'altra cosa, la stessa che fa di ogni brano di questo “cantattore” un successo e un tormentone: il testo.

«La Vacinada» di Checco Zalone, testo e significato. Allo spirito burlone di Checco si perdona tutto, anche quando rischia di diventare offensivo. La canzone in cui un latin lover si innamora (alla prima vista del segno della puntura del vaccino) di una signora over 75 lo dimostra fin dalla prima strofa. «Tiene la zinna un pochito calada, ma non fa nada, non fa nada e la caviglia un pochito gonflada e non fa nada, non fa nada, quando se mueve suave y sensual, pare che il femore sia original». La prima a non prendersela e a comprendere il suo umorismo è la dama, anzi The Queen, Helen Mirren, sua complice in questa love story sullo sfondo del Salento, che trasforma lo spot per la campagna a sostegno del vaccino, anche in un'ottima réclame per la regione Puglia. La comicità di Zalone sembra cattiva, a volte, ma non lo è. Anzi, mira proprio a stigmatizzare chi appiccica etichette e non ama a tutto tondo la vita e, con lei, chi la popola, gli esseri umani, tutti e di qualsiasi età. Checco non è il latin lover di bocca buona, Checco si prende gioco di chi pone limiti d'età all'amore e alla bellezza, che è in tutti fin dal primo respiro (come ben dimostrano le tante dive perennial, di cui la Mirren fa parte, e il successo di serie comedy come Grace & Frankie, con due protagoniste dive che insieme fanno 160 anni ma si muovono tra nuovi amori e sex toys). Zalone ironizza sui veri cattivi usando proprio i loro stereotipi e gli argomenti di chi certe cose semplici, come la libertà di viversi appieno sempre, non la capisce. Per questo, poi, può continuare tranquillo anche con versi come «A me mi gusta bailare con tigo, oh vacinada, io faccia a faccia e sta veccia muchacha immunizadaa» o come «Y non mi importa se trovo al mattino il suo sorriso sul mio comodino, sei la regina, sei l'unica dea».

TESTO LA VACINADA

Tiene la zinna un poquito calada

ma non fa nada e non fa nada

e la caviglia un pelito gonfiada

ma non fa nada e non fa nada

quando se mueve suave e sensual

parre che il femore è original

A mi me gusta bailare contigo

oh vacinada

io faccia a faccia sta veccia muchachaimmunizada

miro al tu cuerpo da cineteca

con l'anticuerpo dell'AstraZeneca

stanoche se freca

Vacinada

E non me importa che dice la gente

anche porque tanto tu non lo siente

no, non mi importa si trovo al mattino

el tu sorriso sul mi comodino

sei la regina, sei l'unica dea

porque si sa che a la guerra

ogni buco è trincea

Oh vacinada

io faccia a faccia sta veccia muchacha

immunizada

A mi me gusta bailare contigooh vacinada

io faccia a faccia sta veccia muchacha

già richiamada

Giuseppe Candela per Dagospia il 4 maggio 2021. Il caso Fedez, esploso al Concertone del 1°Maggio, continua a tenere banco. La querelle con la Rai, il caso politico, le parole a favore della legge Zan. I detrattori hanno ricordato al rapper le sue contraddizioni attraverso alcuni testi dal sapore omofobo che figurano nel suo passato. Caso principe l'ormai nota "Tutto il contrario": "Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing. Ora so che ha mangiato più wurstel che crauti. Si era presentato in modo strano con Cristicchi. "Ciao sono Tiziano, non è che me lo ficchi?"". Un vero e proprio scivolone. Uno scivolone che ritorna. Polemiche che il marito di Chiara Ferragni ritiene pretestuose: “Amici leghisti, ho peccato anche io. Da giovane ho sicuramente detto delle cose omofobe. Mi fa strano dover rendere conto di una canzone che ho scritto dieci anni fa, a 19 anni si è delle persone completamente diverse e ci si esprime con termini e toni completamente diversi. Certe cose oggi non le rifarei uguali. Non c’è mai stata nel quartiere in cui sono cresciuto educazione in tal senso ma poi ho cercato di migliorarmi. Ho sbagliato per cose dettate dall’ignoranza; ho fatto un testo recentemente che è stato giudicato transfobico (Le feste di Pablo, ndr), ma non era voluto: ho invitato una ragazza trans al mio podcast, abbiamo affrontato il tema e ho imparato un sacco di cose perché non mi voglio dare preclusioni”, ha spiegato nelle stories pubblicate sul suo profilo Instagram. Tradotto: ho sbagliato, non lo rifarei, andiamo avanti. C'è un però. Dagospia può dimostrare che solo due anni fa, a metà del 2019, nel suo ultimo tour Paranoia Airlines, Fedez sul palco cantava ancora il discusso brano "Tutto il contrario". Non dieci anni fa, solo due anni fa. Il Fedez post XFactor, già influencer, già sposato con la Ferragni, già attivo sui social, già attivo su temi di attualità e civili. È sufficiente consultare la scaletta del tour per ritrovare il brano tra quelli eseguiti, rilanciamo due video che dimostrano il tutto. Uno realizzato al Forum di Milano, proprio dal suo produttore Michele Canova, l'altro alla data di Torino. 

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 4 maggio 2021. «Amici leghisti, ho peccato anche io. Da giovane ho sicuramente detto delle cose omofobe». In una giornata più «pigra» rispetto alle concitate 48 ore precedenti, Fedez affida ancora una volta ai social — la piattaforma del suo reality permanente — il compito di fare da volano alle sue idee che nell’istante del «pubblica» raggiungono in un attimo più di 12 milioni di potenziali spettatori. Una delle accuse che circola contro di lui è che da una parte difende ad alta voce il ddl Zan contro le discriminazioni, ma dall’altra avrebbe invece manifestato posizioni omofobe nelle sue canzoni. Il riferimento principe è al brano Tutto il contrario, scritto 10 anni fa («Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing, ora so che ha mangiato più wurstel che crauti»). Agli amici ha confessato che trova certe polemiche pretestuose: «Mi fa strano dover rendere conto di una canzone che ho scritto dieci anni fa, a 19 anni si è delle persone completamente diverse e ci si esprime con termini e toni completamente diversi. Certe cose oggi non le rifarei uguali». Ma poi siccome pensa che è meglio che il suo pensiero non circoli solo tra le quattro mura (in realtà qualche stanza in più) domestiche, si arma di cellulare per diffondere il suo pensiero: «Non c’è mai stata nel quartiere in cui sono cresciuto educazione in tal senso — spiega nelle sue stories — ma poi ho cercato di migliorarmi. Ho sbagliato per cose dettate dall’ignoranza; ho fatto un testo recentemente che è stato giudicato transfobico (Le feste di Pablo, ndr), ma non era voluto: ho invitato una ragazza trans al mio podcast, abbiamo affrontato il tema e ho imparato un sacco di cose perché non mi voglio dare preclusioni». Prima si difende, ammettendo di aver sbagliato. Ma poi attacca. Nel mirino sempre la Lega: «E volete andare a rimestare nel mio passato proprio voi, quando il vostro leader (Salvini, ovviamente, ndr) qualche tempo fa fece un video in cui cantava “Napoli m..., Napoli colera, sei la vergogna dell’Italia intera”. E oggi va a Napoli a chiedere i voti ai napoletani...». Se a inizio giornata il rapper voleva evitare di agitare ulteriormente acque molto mosse, sul far della sera ha cambiato idea. Le ore precedenti le aveva passate a casa, con moglie e figli, impegnato sul video-podcast che pubblica due volte alla settimana. Giusto qualche intervento su Twitter che gli era servito per mettere le cose in chiaro. A una giornalista che lo incalzava sul famigerato video di Grillo e gli chiedeva se «i diritti delle donne non contano quando si tratta di politici che ha sostenuto?» Fedez aveva risposto senza giri di parole: «Grillo ha detto cose terribili ed aberranti, non esiste giustificazione. Ma esiste una lista di temi a cui devo dare una risposta prima di esprimere una mia opinione. Mi spieghi, ora che le ho chiarito il punto su Grillo ho ottenuto il permesso di parlare di altro? Funziona così?». Il punto per lui è questo, lo dice pubblicamente e in privato agli amici. Il fatto che lui sposi una battaglia non significa che prima debba esprimersi anche su tutte le altre, così come il fatto che abbia una Lamborghini non dovrebbe rendere meno sincera la sua battaglia («Allora vendo la Lamborghini e mi compro una Panda»). Da qui i molti like a chi lo sosteneva con richieste paradossali. Uno su tutti: «Ma sui principi di Newton non hai mai detto niente? E sul rapporto fra Svevo e Pirandello? Assurdo. Cioè come puoi parlare del ddl Zan se non hai affrontato prima tutti gli argomenti dello scibile umano. Le basi». Mentre Chiara Ferragni ha trascorso la giornata tra incontri di lavoro, allattamento e qualche stories sui figli e sul suo look, Fedez ha avuto anche il tempo di un mezzo battibecco con Guido Crosetto che si era rivolto a lui per sollevare interesse «sulla magistratura e sul Csm, sulle oltre 30.000 ingiuste detenzioni e sulle carceri italiane». Perché ormai sembra che il messaggio passa solo se hai milioni di follower sui social. Fedez risponde piccato: «Mi chiedo una cosa: un uomo politico che non riesce a sollevare interesse su battaglie che gli stanno a cuore al punto da dover chiedere ad un povero ignorante come me, sta forse sbagliando qualcosa?». Il ping pong prosegue con Crosetto che assicura che l’intento era altro: «Il mio non era un messaggio condito di disprezzo, la sua risposta sì. Era semplicemente un modo per far risaltare l’incapacità della politica di sollevare temi. Cosa che invece lei fa. Ora potrebbe scusarsi». Fedez lo fa e chiude la partita. Ma poi ne inizia subito un’altra: «I politici si decurtino una parte del 2x1000 per darla ai lavoratori dello spettacolo». E ammonisce: «Vi do uno scoop incredibile: io non sono un vostro collega». Ma a molti di loro fa già paura così.

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia il 4 maggio 2021. Caro Dago, non so davvero cosa sia preso a Pio D’Antini e Amedeo Grieco, non so se avessero da subito piena coscienza di tutte le implicazioni insite nel calpestare in prima serata tutti i dogmi dell’unico bigottismo sopravvissuto, quello Politicamente Corretto (a chi ironizza sui due comici foggiani come eroi improbabili della battaglia antimainstream ricordo che il mainstream progressista è passato in pochi lustri da Sartre a Fedez). Quello che so è che, come amavano sentenziare i sessantottini oggi diventati in gran parte gli ammaestratori del circo mediatico politically correct, il loro problema è a monte. Non nella loro satira (che può far ridere o no, ma vige la libertà di telecomando), non nelle loro idee (condivisibili o no, ma vige la libertà d’espressione), bensì, molto più radicalmente, nel loro essere. Per dirla con un parolone una volta di moda nei corsi di laurea in quella materia reazionaria e suprematista che è la filosofia (non a caso sotto attacco in molti campus anglossasoni perché insopportabilmente monopolizzata dagli “uomini bianchi”, un pugno di cretini da Platone a Heidegger), la colpa di Pio&Amedeo è una colpa ontologica. Coerentemente a tempi intellettualmente dominati da Fedez, la prima a gettare sul tavolo l’argomento è stata Stefania Orlando, recente terza al Grande Fratello Vip. La quale ha impugnato l’account Twitter, e cinguettato: “Ma cosa ne sanno gli uomini bianchi del disagio che possono provare gli uomini neri nell’essere chiamati n***i, e che ne sanno gli uomini eterosessuali del disagio che provano gli uomini omosessuali nell’essere chiamati f***i?”. Ma che ne sanno Pio e Amedeo, irrimediabilmente condannati al sottoscala dell’umano dalla loro pigmentazione chiara, dal loro cromosoma maschile e dalle loro preferenze sessuali “etero”, ormai poco meno che una parolaccia nell’era in cui la principale agorà contemporanea, Facebook, certifica l’esistenza di 58 identità di genere differenti? Va ancora più piatto Pasquale Videtta, blogger de L’Espresso con alle spalle un curriculum da social media manager per Sinistra Italiana e L’Altra Europa con Tsipras: “Che bellezza vedere ancora una volta due maschi, rigorosamente maschi ed eterosessuali, spiegare cosa sia discriminante e cosa non lo sia”. Il sottinteso è che bruttezza, ovviamente, che volgarità questi due pugliesi sudaticci e ancora in balìa di retrive pulsioni erotiche verso l’altro sesso (che poi non esiste, com’è noto, esiste solo il sesso che mi sento su misura stamattina) che non chiedono nemmeno scusa per la loro esistenza. “Ci sono parole che sono discriminanti solo per il fatto di essere state create”- continua il Videtta- “Un eterosessuale è sempre un eterosessuale, perché il linguaggio non è neutro ed è una manifestazione del potere”. Purtroppo, non è ancora implementata un’adeguata rieducazione di Stato che renda un eterosessuale non più tale, non siamo ancora in pieno maoismo gender, anche se col ddl Zan ci stiamo senza dubbio portando avanti. Anche la piattaforma iper-arcobaleno Globalist ci regala un saggio di doppiopesismo eterofobo, visto che in un articolo a firma di Giuseppe Cassarà scrive: “L’insulto detto in maniera confidenziale è una cosa che è sempre esistita. È il motivo, per esempio, per cui è perfettamente normale tra gli afroamericani chiamarsi ‘nigga’, come lo è il dirsi ‘froc*o’ tra persone omosessuali. Ma questa cosa funziona all’interno di una comunità, dove quella parola acquisisce significati diversi. Il maschio, bianco eterosessuale questa cosa non può capirla”. È l’addio a ogni parvenza di oggettività fisica del linguaggio, a favore della sua riscrittura ideologica. Le parole non valgono in sé, ma a seconda di chi le enuncia. Ci sono insulti più insulti di altri, constaterebbe Orwell di fronte a quella caricatura della sua distopia che è la realtà odierna, sono quelli pronunciati dai visi pallidi e da coloro che non vanno a letto con individui del loro sesso. È una chiamata in correo generalizzata, al maschio-bianco-eterosessuale, un tipo (dis)umano unico e reietto. Lo bacchetta ad esempio su Twitter Daniele Viotti, attivista Lgbt ed ex europarlamentare del Pd: “Vedo pochissimi maschi bianchi eterosessuali indignarsi per lo schifo andato in onda su Canale 5”. L’Inquisizione social funziona come il vecchio processo staliniano: non ti dissoci dai controrivoluzionari (dai maschi/bianchi/etero, nella versione postmoderna del Soviet)? Sei colpevole. Chiunque non abiuri di fronte al mondo la propria condizione di persona dotata di pene, di epidermide chiara e di inclinazioni sessuali poco trendy, è colpevole. Serve urgentemente un Ddl Zan a tutela di Pio&Amedeo e di questa creatura braccata, il maschio bianco etero, dannazione.

Pio e Amedeo nella bufera per "Felicissima Sera": "Da buttare", chi li ha criticati. Libero Quotidiano il 29 maggio 2021. “Da buttare”: così Fabio Canino, giurato di Ballando con le Stelle, ha definito la trasmissione di Pio e Amedeo, andata in onda di recente su Canale 5, Felicissima Sera. Ospite a Tv Talk su Rai 3, in merito ai due comici pugliesi ha dichiarato: “Sono molto faciloni, niente di nuovo. Non hanno rivoluzionato niente giocando a fare i giullari di corte sapendo i limiti oltre i quali non andare”. “A me non sono piaciuti”: questo il giudizio finale dato da Canino. A difendere la coppia e il loro show, invece, è stato il padrone di casa, Massimo Bernardini, che ha affermato: “Hanno avuto uno scivolone ma non vuol dire che non hanno portato qualcosa di nuovo.” Il riferimento è al noto monologo dei comici di Foggia contro il politicamente corretto. Un discorso che ha fatto molto discutere nelle scorse settimane. Nel corso di Tv Talk, poi, sono stati “consegnati” anche alcuni premi importanti per la trasmissione. In particolare, sono stati premiati come miglior programma rivelazione dell’anno Oggi è un altro giorno di Serena Bortone e come miglior fiction rivelazione dell’anno Il commissario Ricciardi con Lino Guanciale, presente in collegamento. Come personaggio rivelazione dell’anno, invece, ha trionfato Tommaso Zorzi, che ha subito ringraziato per il riconoscimento sui social.

Pio e Amedeo contro il politically correct. Sinistra in tilt: "Pessimi". Luca Sablone il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. I due comici nel mirino della sinistra: "Pensano di farci ridere sdoganando le parole negro e ricchione". Il Pd prepara un'interrogazione al governo. Guai a schierarsi contro il politically correct: la sinistra potrebbe fraintendere l'ironia di uno show e andare sulle barricate per denunciarne i contenuti. È esattamente ciò che è accaduto a Pio e Amedeo, a cui di certo non si può muovere l'accusa di essere sostenitori leghisti. I due comici, nel corso dell'ultima puntata di Felicissima sera in onda su Canale 5, hanno tenuto uno sketch di circa 20 minuti contro il politicamente corretto arrivando dritti al punto senza giri di parole: "Ci vogliono far credere che la civiltà sta nelle parole, ma è tutto qua, nella testa. Fino a quando non ci cureremo dall’ignoranza di quelli che dicono con fare dispregiativo, che è quello il problema, ci resta un'unica soluzione". Che a loro giudizio è appunto l'autoironia.

Il "duetto" di Pio e Amedeo. Nell'ultima puntata di Felicissima sera Amedeo ha iniziato a puntare il dito verso alcuni stereotipi del politically correct, partendo dagli omosessuali per arrivare alle persone di colore: "Nemmeno ricchione si può dire più, ma è sempre l'intenzione il problema. Così noi dobbiamo combattere l'ignorante e lo stolto. Se vi chiamano ricchioni, voi ridetegli in faccia perché la cattiveria non risiede nella lingua e nel mondo ma nel cervello". Il problema risiede proprio nell'intenzione nel momento in cui una determinata parola viene pronunciata: "L'ignorante si ciba del vostro risentimento". E a sostegno della sua tesi ha portato un semplice esempio di vita quotidiana: "Se dici a un tuo amico 'Ué negro, andiamo a mangiare?' non lo offendi. Se gli dici 'nero torna a casa tua!' sì". Insomma, il loro messaggio è chiaro: bisogna poter scherzare sui luoghi comuni, stop con il politicamente corretto. "Perché ai genovesi se sono tirchi puoi dirlo e agli ebrei no?", si è chiesto Amedeo. Che poi ha ironizzato pure su Hitler: "Si dice fosse gay, e lui mica era sensibile". Non è stato risparmiato neanche Alessandro Cecchi Paone: "È un pezzo di m****. Stavamo a Mediaset un giorno, fuori diluviava. Noi usciamo, eravamo senza macchina ovviamente, neppure i soldi per il taxi, poi passa Cecchi Paone, noi lo chiamiamo. Lui si ferma e gli chiediamo un passaggio e lui: ‘No, io vado dall’altra parte!'".

Rivolta contro Pio e Amedeo. Il siparietto di Pio e Amedeo ovviamente non è andato giù alla sinistra, che non ha perso tempo per attaccare i due comici e i contenuti da loro espressi. Da Fabrizio Marrazzo, portavoce del Partito gay per i diritti Lgbt, è arrivata una durissima accusa: "Nel duetto di Pio ed Amedo abbiamo visto un pessimo esempio di comicità che vuole sdonagare le parole 'negro', utilizzata per definire gli schiavi, i pregiudizi sugli ebrei, che servivano ad alimentate l'odio durante il nazismo". Marrazzo si è soffermato anche sull'utilizzo della parola "ricchione", che a suo giudizio rientra in quel grande insieme di sostantivi dispregiativi nei confronti degli omosessuali. Infine, in relazione a quanto accaduto, ha chiesto l'intervento dell'Agcom e di Piersilvio Berlusconi per evitare che "si ripetano show di questo tipo razzisti ed omotransfobici". Il Partito democratico si è spinto oltre: presenterà un'interrogazione parlamentare al governo. Ad annunciarlo è stato il senatore Tommaso Cerno, secondo cui lo show di Pio e Amedeo riporta il nostro Paese agli anni '30. L'esponente del Pd si è appellato al presidente del Consiglio Mario Draghi affinché intervenga per parlare dei diritti Lgbt: "Non esiste un'Italia del domani se non siamo tutti in corsa per il domani". Anche il cantante Michele Bravi, in occasione del Concertone del Primo maggio, ha voluto replicare allo sketch dei due comici foggiani: "Le parole sono importanti tanto quanto le intenzioni, le parole scrivono la storia, anche quelle più leggere possono avere un peso da sostenere enorme". Più dura la presa di posizione di Aurora Ramazzotti: "Questa cosa che si continui imperterriti ad avere la presunzione di decidere cosa sia offensivo che una categoria di cui non si fa parte e e di cui non si conoscono le battaglie, il dolore, le paure, il disagio, la discriminazione, rimane a me un mistero irrisolvibile".

"Solamente i massoni", "Ti tolgo la pelle in tribunale": rissa tra Adinolfi e Cecchi Paone. Francesca Galici il 13 Maggio 2021 su Il Giornale.  Sono volate parole grosse tra Alessandro Cecchi Paone e Mario Adinolfi, intervenuti a Zona bianca per commentare il ddl Zan. Zona bianca è il nuovo programma di informazione e approfondimento politico del mercoledì sera di Rete4. Condotto da Giuseppe Brindisi, nel corso dell'ultima puntata è stato il teatro dello scontro tra Alessandro Checchi Paone e Mario Adinolfi sul ddl Zan. I due sono notoriamente su posizioni diametralmente opposte in merito all'argomento e l'hanno dimostrato anche in quest'ultima occasione, con uno scambio di battute acceso e molto animato. "Voglio usare il mio tempo provando a difende questo sacerdote e a difendere la posizione dottrinale della Chiesa cattolica che ha espresso con un responso firmato da Papa Francesco il no alla benedizione delle coppie omosessuali", ha affermato Mario Adinolfi quando è stato il suo momento di parlare. Il giornalista ed esponente del Popolo della famiglia ha quindi difeso il matrimonio eterosessuale e attaccato la pratica "dell'utero in affitto", che nel nostro ordinamento "è punita dalla legge e dalle sanzioni". Mario Adinolfi ha, quindi, aggiunto: "Queste sono conquiste di civiltà che uomini di sinistra dovrebbero garantire. Solamente i massoni possono sperare in una società in cui i bambini siano comprati e venduti". Alessandro Cecchi Paone, presente in studio a differenza di Mario Adinolfi, ha contrattaccato: "Vigliacco miserabile, questa è da querela. Fascista clericale, stai zitto. [...] ti faccio togliere la pelle in tribunale per quello che hai detto". Gli animi si sono scaldati rapidamente nello studio di Zona bianca, finché Giuseppe Brindisi non è riuscito a riportare i due contendenti alla calma. Finita la puntata. Mario Adinolfi ha commentato su Facebook: "Nulla mi toglie dalla testa che l’operazione ddl Zan sia un’operazione con finalità anticattolica ispirata dalla massoneria. Gli attacchi ieri sera in tv anche a un sacerdote hanno visto solo noi difendere la Chiesa, i vescovi, la verità delle parole di Francesco e alla fine la libertà di tutti. Attenti a quelle facce, sono le facce di oppressori". Non è la prima volta che i due arrivano allo scontro, già in passato tra loro c'erano stati screzi, anche importanti. Intervistato da La Zanzara nel 2015, Alessandro Cecchi Paone non utilizzò il guanto di seta per definire Mario Adinolfi, che aveva da poco fondato il giornale La Croce: "Un ciccione, clerico fascista. Dice cose terrificanti. [...] Mica ci saranno dei volontari che sostengono le spese per fare uscire un giornale così".

Dagospia il 13 maggio 2021. Dall'account facebook di Mario Adinolfi. “I massoni non parlino del Papa”. E da lì gli è cambiata la faccia, ha cominciato a sbraitare e minacciare di “togliere la pelle”, con altre piacevolezze annesse. Nulla mi toglie dalla testa che l’operazione ddl Zan sia un’operazione con finalità anticattolica ispirata dalla massoneria. Gli attacchi ieri sera in tv anche a un sacerdote hanno visto solo noi difendere la Chiesa, i vescovi, la verità delle parole di Francesco e alla fine la libertà di tutti. Attenti a quelle facce, sono le facce di oppressori.

Da gayburg.com il 13 maggio 2021. Cecchi Paone ha giustamente osservato che molti dei gravi insulti che Mario Adinolfi ha vomitato durante la trasmissione "Zona bianca" risultano asserzioni passibili di querela. Ed è preoccupante pensare che in Italia ci sia uno 0.6% di omofobi che si sentono rappresentati da una persona capace di pronunciare frasi simili. Le premesse già non erano state delle migliori, dato che Adinolfi si è presentato in trasmissione ed ha iniziato ad atteggiarsi come un bullo che prova piacere nell'insalare gli interlocutori e nel cercare di impedire potessero esprimere opinioni. Ma è dopo vari atteggiamenti maleducati e violenti che ha cercato di difendere i sacerdoti che incitano all'odio contro i gay dicendo: Voglio usare il mio tempo provando a difende questo sacerdote e a difendere la posizione dottrinale della Chiesa cattolica che ha espresso con un responso firmato da Papa Francesco il no alla benedizione delle coppie omosessuali, ripeto responsum della Congregazione della dottrina della fede firmato da Papa Francesco. Quel sacerdote non ha certo parlato fuori dalla linea della Conferenza Episcopale Italiana. Quel sacerdote è un sacerdote coraggioso che rappresenta, non la destra post fascista e clericale, rappresenta l'anima popolare di questo Paese che fa sì che questo sia il paese dove non c'è altro matrimonio che tra uomo e donna, non c'è altra adozione che quella che riconosce al bambino il diritto avere un papà e una mamma, c'è una condizione per cui la tratta dei bambini per transazione finanziaria e commerciale, chiamata "utero in affitto", è punita dalla legge e dalle sanzioni. E queste sono conquiste di civiltà che uomini di sinistra dovrebbero garantire. Solamente i massoni possono sperare in una società in cui i bambini siano comprati e venduti. Ovviamente nel suo caso il matrimonio ha previsto un uomo e due mogli, la seconda delle quali è stata sposata in un casinò di Las Vegas ed esibita davanti al Papa nonostante la Congregazione per la Dottrina della Fede condanna quella relazione, la considera contraria i progetti di Dio e non riconosce quell'unione matrimoniale. Però il signorino sostiene che lui debba poter fare ciò che vuole, arrivando a sostenere che l'amore di una famiglia gay sarebbe «tratta di bambini». Inutile, poi, è osservare con quanta malafede il signor Adinolfi non sappia far altro che insultare le famiglie gay nonostante il ddl Zan non parli neppure lontanamente di GpA (che è lui chiamare "utero in affitto", peraltro distorcendo di molto i fatti nel raccontare un qualcosa che non gli era mai interessato quando ad accedervi erano solo coppie eterosessuali). A proposito, lui è proprio certo che sia più importante fare discrimini sui genitali dei genitori piuttosto che preoccuparsi di quei bambini che vengono stuprati in famiglia, costretti alla prostituzione o fatti vivere in stato di abbandono? Davvero crede che l'unico senso della sua idea di "cristianesimo" sia quella di poter usare la religione come strumento d'offesa? E davvero non pensa si essere blasfemo nel diffamare Dio in diretta televisiva nominandolo invano per fini elettorali?

Vauro: "Attaccato da benpensanti di sinistra per aver difeso il monologo di Pio e Amedeo". Novella Toloni il 6 Maggio 2021 su Il Giornale. Dopo l'intervista all'Adnkronos, in cui difendeva il monologo del duo comico e diceva basta al politically correct, il vignettista ha raccontato di esser stato bersaglio di pesanti critiche dai suoi sostenitori di sinistra.  "Pio e Amedeo? Mi sembrava piuttosto chiaro che si scagliassero contro questa dittatura del politically correct''. Vauro Senesi è tornato a chiarire la sua posizione dopo le critiche ricevute sul web in seguito alla sua difesa in favore del duo comico. Non è bastata la sua visione sulla polemica a far tacere i "benpensanti di sinistra", ha sottolineato lui, e così l'artista si è visto costretto a replicare pubblicamente contro i suoi stessi sostenitori.

Il vignettista satirico Vauro si era speso in difesa del monologo di Pio e Amedeo subito dopo lo scoppio delle polemiche. In un'intervista rilasciata all'Adnkronos, pubblicata anche sui suoi canali social, Vauro aveva spiegato: "La satira è scorretta per definizione. La polemica che si è scatenata sul monologo di Pio e Amedeo è ipocrita". Ma per quelle parole il vignettista è stato travolto dalle critiche: "Dopo aver difeso il monologo satirico di Pio e Amedeo e aver postato la mia intervista rilasciata all'Adnkronos sul mio profilo facebook, sono stato tempestato da oltre 700 commenti di critiche, soprattutto da parte di gente di sinistra''. In un nuovo video Vauro è tornato per chiarire la sua posizione e ai "compagni", come li ha definiti lui stesso nel filmato, ha spiegato: ''Io non ho difeso il duo comico, non so neanche come si chiamano, ho visto il loro monologo e mi sembrava piuttosto chiaro che si scagliassero contro questa dittatura unilaterale del politically correct. La satira non è comicità, la satira ha un suo linguaggio, che è quello del paradosso, del grottesco, delle esasperazioni anche delle contraddizioni del conformismo ma noi a sinistra ormai pensiamo solo a fare grandi battaglie di forma e nessuna battaglia di sostanza. Continuate così Compagni, continuate!'". Nel suo intervento sui social, però, Vauro è tornato a puntare il dito contro la politica come aveva già fatto in passato e non si è risparmiato l'attacco e "Non mi stupiscono invece della sdegnata reazione di un sacco di benpensanti, spesso di sinistra o quello che la sinistra era. Siete convinti davvero che parole come 'frocio' o 'negro', messe in un contesto che chiaramente è grottesco e satirico, siano offensive? Quando quelle stesse parole vengono usate da leader politici, quelli sì capaci, e con la volontà di parlare ai peggiori istinti della pancia? Politici che parlano di 'invasioni', di 'clandestini', distinguendo i clandestini dagli immigrati? Però lì siamo nella piena correttezza?''.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” l'8 maggio 2021. È un ossimoro tonante, è il politicamente corretto del politicamente scorretto. Anche solo accostare l'omofobia ad Achille Lauro, l'uomo che ha fatto del transgenderismo e della fluidità dell'identità sessuale una battaglia civile (e una strategia di marketing), è una discussione che ha un che di surreale. La foto a corredo del post pubblicato nella giornata di ieri da Achille Lauro (30 anni) sul suo profilo Instagram Ora, personalmente sulla parabola artistica di Achille Lauro copia sgualcita di David Bowie e Renato Zero, sulle sue esauste provocazioni e sul suo talento cantautorale, be', si potrebbe aprire un dibattito. Epperò, onestamente, accusare lui di essere omofobo è come accusare Martin Luther King di razzismo, il Papa di paganesimo o Susan Sontag di svilire anni di battaglie femministe. Eppure, è accaduto. Dopo la partecipazione a Felicissima sera!, il programma Mediaset di Pio e Amedeo che ha fatto molto discutere per lo sketch sul «politicamente corretto» (con le parole "negro" e "frocio" sbattute in faccia al benpensantismo galoppante), Lauro pare abbia subito attacchi feroci sui social. Al punto che, dopo aver interpretato con una certa autoironia in tv il brano Rolls Royce trasformato per l'occasione in Fiat Punto, il cantante romano ha voluto entrare nel merito di un'autodifesa assai apprezzabile: «Nella mia interpretazione artistica la musica non è solo musica. È spettacolo, è uno stato d' animo, è un ideale, è libertà estrema, è il rifiuto nei confronti di coloro che credevano che io non fossi libero, o non fossi all' altezza, è conseguenza di anni di umiliazioni e vergogna. L' ho capito quando per un commento riferito alla solidarietà su lavoratori dello spettacolo mi hanno dato dell'omofobo, dopo anni che mi danno del frocio ciò pensando di offendermi!». E ancora ha aggiunto: «Da anni investo denaro, tempo e impegno per la tutela dei diritti umani (...), per chiunque abbia bisogno di aiuto e per essere artefice e partecipe, nel mio piccolo, di una rivoluzione per cui la condizione sociale, culturale e umana delle classi deboli e discriminate possa cambiare (...) Lo faccio da quando non avevo una lira, perché sono cresciuto tra gli emarginati e i reietti, perché so che vuol dire sentirsi diverso, mai compreso, solo...». Si tratta di una tranche di vie personale emersa dal confessionale della Rete che ci spiazza in senso nobile; anche se la leggenda del "figlio del popolo" e della disperazione, raccontata dall' erede di un alto magistrato e di un amministratore delegato suona un tantino esagerata. Ma, insomma, non si può dire, alla luce di tutto questo che Achille Lauro - al di là della sua musica - non sia persona dabbene e non lotti a favore delle minoranze, in uno sfarfallio continuo di pirotecnie musicali, cromatismi e difese finanche coreografiche del diverso. E, anche se molti critici e alcuni colleghi, come lo stesso Renato Zero ebbero a che dire sullo slancio artistico di Lauro («Con le piume e le pailettes non giocavo certo a fare il clown della situazione ma cercavo di attirare l'attenzione su di me per permettere alle mie canzoni, che trattavano argomenti delicati e pesanti, di fare breccia»), è indubbio, nel ragazzo, un approccio sincero a questi temi. I tableau vivant di Lauro, i suoi piumaggi, il rimmel colato e mescolato ai pianti di sangue delle Madonnine di Civitavecchia di tutto il mondo possono essere sì un deja vu; ma riconducono comunque ad un'idea di denuncia sociale. Sicché due sono le reazioni da opporre a questi attacchi: ignorare gli haters di ogni latitudine (ma per chi vive di social ci rendiamo conto sia difficile) e Pio e Amedeo che prendono posizione: «Achille Lauro non odia i ricchioni!». La provocazione che spazza tutte le altre...

Da adnkronos.com il 5 maggio 2021. "Cari Pio e Amedeo, siete dei comici brillanti ma avete fatto una stupidaggine. Con una risata non si possono seppellire anni di discriminazione: “ricchione” al sud significa persona che non può procreare, è una parola molto pesante e offensiva, c'è un ragazzo (il 15enne romano Andrea Spaccacandela, ndr) che rispondeva sempre col sorriso a questo insulto, poi ha preso una corda e si è impiccato". Sono le parole all'Adnkronos con cui Fabrizio Marrazzo, Partito Gay per i diritti Lgbt+ Solidale, Ambientalista e Liberale, sceglie di rivolgersi a Pio e Amedeo, mentre imperversano le polemiche per il loro monologo sul politically correct andato in onda a 'Felicissima sera' su Canale 5, che ha chiuso con uno share altissimo. "La risata di chi subisce l'insulto non è contentezza ma è per non mostrarsi deboli", sottolinea Marrazzo, che aggiunge: "Hanno commesso un'azione molto grave, e scorretta. Abbiamo chiesto all'AgCom di intervenire, perché devono essere garantiti i diritti delle persone, non si può far passare che l'insulto è qualcosa di banale che si stempera con una risata. Perché queste frasi vanno a seminare un odio che poi sfocia nell'isolamento e nella depressione". "Anche personalmente - si sfoga Marrazzo - sentirsi chiamare ricchione o qualcos'altro, non mai una sensazione positiva, se stai vivendo una situazione personale con il tuo compagno e ti senti apostrofare così. Non sono cose che divertono. In privato con un amico fai quello che vuoi, ma in televisione in prima serata col 22,5% di share non è accettabile". Per concludere, "Pio e Amedeo hanno fatto una stupidaggine e mi auguro che ritornino sui loro passi, e non si schierino con un partito come Salvini che ha commentato dicendo che dava loro la sua solidarietà", conclude.

Lo schiaffo di Pio e Amedeo alla sinistra: "Ce l'hanno con noi? Per Salvini..." Francesca Galici il 5 Maggio 2021 su Il Giornale. Metà del duo comico di Pio e Amedeo ai microfoni di DiMartedì ha affondato ancora una volta i ben pensanti di sinistra. Il weekend a cavallo tra aprile e maggio ha visto lo scontro (forse) finale tra il politicamente scorretto e il politicamente corretto. Da una parte Pio e Amedeo e il loro show Felicissima Sera in onda su Canale5, durante il quale il duo comico ha fatto ironia sul diktat imperante che vede l'offesa in ogni affermazione. Dall'altra Fedez e Michele Bravi dal palco del Concertone del primo maggio. Il primo ha scatenato la polemica sul ddl Zan, il secondo ha replicato alle parole di 24 ore prima di Pio e Amedeo senza mai menzionarli. I due pugliesi sono rimasti in silenzio per qualche giorno e poi hanno replicato alle accuse, senza fare le loro scuse, con un lungo post sui social. Amedeo Grieco, metà del duo, è stato inoltre intercettato dai giornalisti di DiMartedì, ai quali ha ribadito la loro posizione e il motivo degli attacchi feroci ricevuti negli ultimi giorni. "Ci dispiace per chi si è sentito offeso ma ci dispiace semplicemente che non siamo stati capiti", ha detto Pio D'Antini in collegamento telefonico con Amedeo durante la telefonata. Con la giornalista del programma di La7, Amedeo Grieco non fa un passo indietro: "Ma hai capito in che Paese viviamo? Noi alla fine dobbiamo essere liberi di prendere per il culo la gente. Noi abbiamo semplicemente detto che le parole hanno un peso ma non è niente il peso delle parole in confronto al peso delle intenzioni. Ciò che è incredibile è che si faccia la guerra alla grammatica e non la guerra all'educazione". Amedeo Grieco difende ancora la loro scelta di portare sul palco termini politicamente scorretti per denunciarne l'assurdità. E alle accuse di omofobia, l'attore non esita un attimo a ricordare il loro impegno concreto contro l'omofobia: "Noi siamo stati in Russia con Vladimir Luxuria a proposito di diritti. Mentre gli altri mettono le bandierine arcobaleno sui profili Instagram noi siamo stati lì in Russia. Quello è un Paese dove si adescano i ragazzini omosessuali su Facebook, si incontrano, si pestano questi ragazzi senza dire la parola incriminata, sai ricchione e frocio". L'attore, poi, sottolinea quale fosse il vero intento di quello sketch: "Il monologo parte dall'idea di disinnescare la carica emotiva di quella parola. Il problema è ancora l'autoproclamarsi comunità. Noi vediamo le persone non vediamo i generi perché non è più tempo di guardarli. Quello è il volano della discriminazione, autoclassificarsi in generi e in categorie". La metà di Pio e Amedeo, quindi, cerca di spiegare il loro intento con una metafora: "L'ignoranza è come un acquazzone. Tu fermi l'acquazzone con l'ombrello? No, l'ironia è come l'ombrello durante l'acquazzione. Può proteggere alcuni ma a volte l'acquazzone è così forte che non regge manco l'ombrello". Amedeo Grieco ai microfoni di La7 ha difeso la leggerezza a la voglia di intrattenimento "per le persone che stanno vivendo un periodo di merda". Amedeo, quindi, sferra un affondo definitivo ai loro detrattori: "La sinistra intelligente lo sai perchè ci dà contro? Perché Matteo Salvini ci ha retwittato. È anche sparare sulla croce rossa prendere in giro tutta la classe politica, però Salvini evidentemente è una persona intelligente. Mi hanno chiamato persone di sinistra, anche importanti, perché c'è una maggioranza silente che dice 'oh finalmente dite delle cose che tutti vogliono dire'".

"Il caso Pio e Amedeo? Che cosa penso..." Ignazio Riccio il 5 Maggio 2021 su Il Giornale. Il duo comico, nell'ultima puntata di Felicissima sera su Canale 5, aveva lanciato una provocazione: peggio le parole o le intenzioni? “La satira è scorretta per definizione. La polemica che si è scatenata sul monologo di Pio e Amedeo è ipocrita. Ogni linguaggio è comprensibile nel suo contesto”. A difesa del duo comico, finito nell’occhio del ciclone per un discusso intervento in televisione, si schiera il vignettista Vauro Senesi, che spiega: “Nel linguaggio satirico che può essere vicino a quello comico il politicamente scorretto è un ingrediente essenziale, il portare certi luoghi comuni fino al loro paradosso è uno dei meccanismi della satira”. Il vignettista continua: “Nel contesto satirico il linguaggio è chiaro, chi ne usufruisce sa benissimo che quello è un linguaggio volutamente alterato, grottesco è paradossale. Altra cosa invece è il linguaggio politico. Se nel linguaggio politico si usano termini come ‘negro’ o ‘frocio’ il significato, essendo il contesto diverso, è del tutto stravolto”. Una difesa a spada tratta quella di Vauro, che lancia strali nei confronti della politica. “Mentre il linguaggio satirico può provocare addirittura l'effetto di stigmatizzare questi luoghi comuni – conclude – nel linguaggio politico invece c'è spesso la volontà di perpetrarli (i luoghi comuni, ndr) per rincorrere le famose pance”. Pio e Amedeo, nella loro ultima puntata di Felicissima sera su Canale 5, avevano lanciato una provocazione: peggio le parole o le intenzioni? “Nero torna a casa tua è meglio o peggio di negro vengo a prenderti e andiamo a cena insieme? Non basta togliere la ‘g’ al centro per lavare le coscienze dei cretini, bisogna combattere i cretini con le loro stesse armi. Vi dicono negro? Ridetegli in faccia, li disarmate", aveva detto Amedeo. Pio aveva provato a fermarlo (per finta) e a dirgli che si stava addentrando in un terreno pericoloso e che certi concetti possono essere fraintesi: “Mi dissocio”. Ma Amedeo ha continuato: “Il politically correct ha rotto. Bisogna poter scherzare su tutto, anche sull'avarizia degli ebrei, per esempio. Perché ai genovesi invece si può dire?”. Il comico ha insistito: “Non si può dire la parola ricchione, devi dire per forza gay. Ci stanno educando che la lingua è più importante della mente. Ma è la cattiveria e l'intenzione il problema. Se vi chiamano ricchione o frocio per ferirvi voi ridetegli in faccia. L'ignorante e lo stolto non saprà cosa fare. E basta col fatto che solo i gay sono sensibili. Hitler! Si dice che fosse gay. Secondo voi era sensibile?”. A chiudere era stato Pio: “Amedeo, non ti devi mai esporre e lo sai perché? Perché siamo in Italia. Domani qualcuno ci critica e noi siamo spariti nel vuoto. Perciò chiedi scusa”. Ma queste scuse non sono mai arrivate, perché i due comici ritengono di non aver fatto nulla di scorretto, nonostante le tante proteste del portavoce del Partito Gay per i diritti Lgbt e della comunità ebraica di Roma.

In Italia non si può più dire nulla. Il branco contro #PioAmedeo. Roberto Vivaldelli il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. La sinistra difende il suo beniamico Fedez, ma attacca Pio e Amedeo dopo il coraggioso monologo contro il politicamente corretto, invocando la censura contro il duo comico. In Italia, ogni tanto, si torna a parlare di censura, sempre a senso unico. Come nel mondo anglosassone, anche in Italia non si può più dire nulla che i crociati del politicamente corretto si rivoltano e invocano la censura contro chi non si adegua. Mentre la sinistra, vip del mondo dello spettacolo, attori, influencer, esprimono solidarietà nei confronti del rapper/influencer Fedez e chiedono seri provvedimenti contro la Rai per un presunto tentativo di censura da parte dei vertici dell'azienda pubblica, dall'altra la stessa sinistra e il mondo delle associazioni Lgbt chiedono di tappare la bocca al duo comico Pio e Amedeo dopo lo "sfogo", coraggioso, contro la follia e l'ipocrisia del politicamente corretto. E anche sui social network un vero e proprio branco di "tolleranti" si scaglia contro il duo comico pugliese. Perché la libertà di pensiero e di critica è sempre a senso unico. Non solo: nel mirino del branco e dell'odio radical chic finiscono tutti i vip che difendono il duo comico o che hanno la "colpa", come Noemi, di essere stati ospiti allo stesso programma. Sul patibolo finiscono, fra gli altri, Antonella Clerici, che su Instagram si complimenta con Pio e Amedeo per aver "destrutturato lo show contro il politically correct dilagante", oltre al conduttore Nicola Savino. Cos'hanno fatto di male? Sono fan, amici, o seguono i due comici. Gravissimo, per i nuovi censori. I due politicamente scorretti devono essere esclusi, messi da parte o addirittura denigrati. Devono anche essere insultati (guardare per credere i social). "Nel duetto di Pio ed Amedo nella trasmissione Felicissima Sera su Canale 5 abbiamo visto un pessimo esempio di comicità che vuole sdonagare le parole 'negro', utilizzata per definire gli schiavi, i pregiudizi sugli ebrei, che servivano ad alimentate l'odio durante il nazismo", arriva addirittura ad affermare Fabrizio Marrazzo, portavoce Partito Gay per i diritti LGBT+, Solidale, Ambientalista e Liberale. Marrazzo chiede inoltre "alla Agcom ed anche a Piersilvio Berlusconi di intervenire al fine che non si ripetano show di questo tipo razzisti ed omotransfobici". Il senatore Tommaso Cerno promette un'interrogazione sulla performance di Pio e Amedeo: "Farò una interrogazione parlamentare al Governo - annuncia Cerno - e mi aspetto che il Presidente del Consiglio Mario Draghi, cosi ferrato sui temi economici e sui temi della ripartenza si renda conto che una ripartenza senza tutti non è una ripartenza". Finito qui? Ma va, potremmo andare avanti per chilometri di righe. Insomma, la censura contro Fedez è deprecabile, quella che si chiede contro Pio e Amedeo è giusta e sacrosanta perché ciò che hanno affermato (i secondi) è "offensivo", sempre per i dogmi della nuova religione politicamente corretta. Ecco qui la doppia morale di una sinistra bigotta che non può tollerare che la sua egemonia culturale venga messa in discussione. Ma tollera bene l'odio contro due comici che ora non hanno nemmeno più il diritto di fare satira e ironia.

Dagospia il 4 maggio 2021. Dal profilo Instagram di Pio e Amedeo: Siamo alla Folliaaaa. Qualcuno forse da questo post si aspetta delle SCUSE e lo avvisiamo subito che rimarrà deluso. Pensiamo che moltissime persone che hanno attaccato il nostro monologo non l'abbiano nemmeno visto per intero e che tanti lo abbiano guardato già prevenuti. Bene, ci rivolgiamo a loro, a "voi". Non fate finta di non capire quello che abbiamo detto perché "vi" fa comodo trasformarlo nella solita querelle politica da quattro soldi. La politica non ci appartiene. La politica ci omaggia di spunti e personaggi senza distinzioni di partiti per fare quello che vogliamo fare, SATIRA, come abbiamo sempre fatto. Mentre alcuni di "voi" erano impegnati a mettere l'arcobaleno nella foto profilo sui social, i sottoscritti qualche anno fa, sono andati in Russia a respirare la puzza dell'omofobia. Ci siamo messi in prima linea in uno Stato dove non badano troppo ai modi, perché insieme a Vladimir Luxuria eravamo lì per far sentire la voce per il diritto di uguaglianza, e di buona risposta siamo stati spinti in una macchina con violenza da energumeni e siamo stati buttati fuori fisicamente a calci da quel paese dove gruppi di imbecilli adescano ragazzi gay su internet per incontrarli, pestarli e fare un video per postarlo con fierezza sui social... il tutto senza gridare nessuna parola "politicamente scorretta", incredibile! Le persone cattive purtroppo possono fare anche a meno dei "vostri" divieti linguistici. LE PAROLE HANNO LA LORO IMPORTANZA! Eccome se ce l'hanno... ma non SONO NULLA IN CONFRONTO ALL'INTENZIONE! È logica: "le parole non valgono quanto l'intenzione!" Questo abbiamo detto! NON CI PROVATEQ Si può fare così schifo anche usando solo termini "politicamente corretti". Passiamo al nostro suggerimento di usare l'ironia: l'utilizzo dell'ironia laddove si può, è chiaro, è solo quello di tentare di disinnescare l'offesa. NESSUNO HA DETTO CHE l'IRONIA DISINNESCA LA VIOLENZA! La risata è solo un palliativo all'ignoranza, perchè se l'ignoranza è come il covid, il sorriderci su e non dare troppa importanza ai vocaboli è il vaccino. E IL VACCINO NON È LA CURA! Sorriderci su è solo l'ombrello sotto l'acquazzone. CURA all'ignoranza è l'EDUCAZIONE CIVICA, che prescinde dalla lingua. NON CI PROVATE "voi" A METTERCI IN BOCCA CONCETTI NON NOSTRI PERCHÉ CASCATE MALE! La più grande sciocchezza che abbiamo sentito volete sapere quale pensiamo sia? Che bisogna appartenere ad una comunità per capirne le debolezze, che bisogna aver sofferto per capire. Ma noi stiamo parlando di affrontare un problema che non riguarda la "comunità", bensì chi LA DENIGRA , LA OFFENDE e LA OSTEGGIA. SONO I CRETINI IL PROBLEMA, non la comunità...per risolvere il problema non bisogna essere della "comunità" ma conoscerne gli "aguzzini", gli ignoranti intorno. Esistono le PERSONE, non le categorie, LE PERSONE! Esistono i cattivi, i vili, gli schifosi... quelli che adottano la violenza, è contro di loro che ci dobbiamo concentrare. PERCHÈ OGNUNO È LIBERO DI FARE CIÒ CHE VUOLE, SEMPRE MA NEL RISPETTO DEL VIVERE CIVILE! Questa è Democrazia. Non fermiamoci alla grammatica delle parole, OGGI PURTROPPO NON BASTA...EDUCHIAMO ANCHE LA TESTA E NON SOLO IL LINGUAGGIO! Quando diciamo "VOI" ci rivolgiamo a quelli clic non hanno capito il nostro messaggio. Perchè fortunatamente, di gay, neri ed ebrei che hanno capito il senso di quello che abbiamo detto ce ne sono tanti, tantissimi, e sono quelli, come noi, a cui basterebbe raggiungere LA VERA UGUAGLIANZA. Per chiudere sappiate che noi abbiamo appena cominciato la nostra battaglia ai luoghi comuni e all'ipocrisia. Il nostro obiettivo è sempre e sempre sarà quello di scardinare questa OPINIONE UNICA che vogliono imporci!Q Stay Tuned

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 4 maggio 2021. Di Pio e Amedeo si dicono tante cose. Tra le tante che vorrebbero essere bravi quanto Checco Zalone (non a caso l’ex regista di Zalone Gennaro Nunziante dirige il loro prossimo film). Checco Zalone che sul politicamente scorretto ha costruito una carriera, perché è una materia scivolosa e complessa che sa maneggiare con talento e intelligenza. Beh, non vorrei uccidere in culla il sogno di Pio e Amedeo, ma i due non sono né Zalone né politicamente scorretti. Sono volgarmente corretti, perché usano la volgarità in maniera prevedibile e conformista. Corretti perché la loro comicità somiglia di più alla risata grassa e convenzionale da Cinepanettone, non certo a quella che sgorga dal guizzo imprevedibile e scorretto del comico di razza. C’è però qualcosa che è ben peggiore della loro comicità ed è il tentativo di nobilitarla. Di spacciarla, appunto, per politicamente scorretta, un’etichetta che si sono dati da soli un po’ come quelli che si definiscono “artisti” perché hanno fatto un remix reggaeton dell’ultimo singolo di Tommaso Paradiso. Il loro discusso monologo a “Felicissima sera” racconta bene non tanto quale sia il loro tipo di comicità, ma quali siano i loro strumenti culturali a supporto. Venti minuti di battute da bar avrebbero dovuto spiegarci – nelle loro intenzioni- che questa rincorsa ossessiva del politicamente corretto impedisce ai comici di fare serenamente il loro lavoro e a noi tutti di sdrammatizzare un insulto o un evento con la giusta dose di auto-ironia. E voglio dire, il discorso potrebbe pure filare, ma perché fili davvero sono necessari due presupposti: che loro sappiano cosa significhi “politicamente scorretto” e che riescano a sostenere un tema così complesso con una scelta accurata dei temi e delle parole. Ed è proprio sulla loro idea di cosa rappresentino le  “parole”  nella società e nella storia che l’apologia tv del politicamente scorretto sprofonda in una arrampicata becera e sgangherata per cui secondo Pio e Amedeo: “oggi contano più le parole che le intenzioni, contano più le parole del significato che ci metti dentro. Conta la cattiveria! Che problema c’è se dico nero o negro, ora il problema è la g in mezzo, se dicono itaGliano io mica mi offendo!”. O anche: “È peggio se dico che i neri devono stare a casa loro, o se dico “Ohi negro, andiamoci a mangiare una pizza!”? . Secondo Pio e Amedeo uno che si sente dire “ricchione” dovrebbe farsi due risate. Un ebreo non dovrebbe offendersi se diciamo “ebreo” nell’accezione di tirchio, perché i genovesi non si offendono. Argomenti che dovrebbero far ridere o forse riflettere, nelle loro intenzioni, e che invece sono la fotografia della loro ignoranza. Un’ignoranza amplificata e arrogante, per giunta, dunque pericolosa. Le parole, cari Pio e Amedeo, salvano, uccidono, insegnano, espandono la mente o al contrario la atrofizzano. Le parole accompagnano l’evoluzione dell’umanità, ne nascono di nuove, ne muoiono di vecchie, sopravvivono quelle che continuano a raccontare il reale, quelle che ci camminano accanto. “Frocio”, “Ricchione”, Negro” raccontano periodi bui della storia antica e recente, pregiudizi, denigrazioni, discriminazioni. In quelle parole, cari Pio e Amedeo, ci sono esattamente le cattive intenzioni di cui parlate. Affermare, inoltre, che “ohi negro andiamoci a fare una pizza” detto a un amico è una frase innocua, è una scemenza colossale. Certo che è innocua. Con gli amici i confini della confidenza sono altri, si decidono insieme, sono allineati. Il linguaggio familiare e colloquiale si avvale di un registro unico e concordato, spesso scorretto, che non è replicabile altrove. Oggi Fabio Canino mi diceva: “Prova a entrare in un bar e a dire “Ehi ricchione fammi un caffè” e vediamo se quel registro è compreso, o se ti arriva un pugno in faccia”. Ed è una scemenza colossale, pure, spostare l’attenzione sulla vittima anziché sul carnefice. Non è, secondo i due “comici”,  chi urla un insulto o porta avanti un pregiudizio con le parole a essere il problema, ma chi non è capace di disinnescare il problema con una risata. Capito? Sei tu, frocio, il problema, non chi ti dice frocio. Quello che sfugge a Pio e Amedeo perché non hanno intelligenza e cultura è che le parole non sono altra cosa rispetto alle intenzioni. Anzi. Sono più delle intenzioni. Sono azioni. Le parole agiscono sulla realtà. Sono slogan, ferite, proteste, verità, inganni, rivelazioni, fotografie, accuse, morte, rivoluzioni. Le parole sono la realtà. Siamo noi. Sono la nostra identità. E quando dico che sono la storia, cari Pio e Amedeo, intendo dire che “ebreo” per dire “tirchio” richiama uno dei tanti pregiudizi che hanno contribuito a creare un clima d’odio nei confronti degli ebrei. E quei pregiudizi hanno fatto, purtroppo, la storia. Lo stesso non vale per i genovesi. Infine, anche un cretino capirebbe che “fatti una risata” come invito a volare leggeri sulle offese è, come risposta a un problema, al livello di “sei obeso? E  magna di meno!”. Andatelo a dire a un ragazzino che si scopre omosessuale e ha vergogna di dirlo, che ha paura dei genitori o che viene deriso dai coetanei, “fatti una risata”. “A Malgioglio posso dire “Cristiano ma tu quando eri piccolo scappavi quando ti facevi mettere la supposta o te la facevi mettere di proposito?” e lui ride perché Malgioglio è una persona intelligente e auto-ironica”, avete detto a supporta della tesi. A parte che la battuta è penosa e Malgioglio forse non riderebbe per quello, anche solo l’idea che Malgioglio rappresenti tutti gli omosessuali e non esistano sensibilità, percorsi individuali, età, contesti familiari e culturali, la dice lunga sull’intelligenza dei due. Oppure, visto che Pio e Amedeo sono fan pure del catcalling, che vadano a dirlo ad una ragazzina a cui sono appena spuntate le tette e sta prendendo confidenza con la sua femminilità, con gli sguardi degli uomini, che quel “che ti farei” sull’autobus da un gruppetto di maschi è un complimento. Il vero problema di Pio e Amedeo, in effetti, non sono le parole. Nel loro caso, sì, sono proprio le intenzioni. E la spiego facile, partendo da chi- sbagliando- li paragona a Checco Zalone. Checco Zalone è una maschera. Lui, nei suoi film, interpreta, è un personaggio pavido, cinico, ignorante, razzista. Un personaggio che nel film viene smascherato nella sua ignoranza e nella sua grettezza da altri personaggi e dallo spettatore stesso. Un personaggio che si evolve e si rivela. Alla Sordi. Pio e Amedeo l’ignoranza la rivendicano. La sdoganano. Lasciano passare il messaggio che il politicamente scorretto sia una materia semplice, sguaiata, alla portata di tutti. Quando esistevano pagine di odio alla Sesso droga e pastorizia con milioni di seguaci, che ai tempi feci chiudere, pagine con meme e post su disabili, donne, ebrei, neri e altro, la replica più frequente che veniva mossa ai detrattori di quella pagina era “Noi facciamo satira, facciamo black humor”. Il problema è che lo diceva non Louis C.K. o Ricky Gervais, lo dicevano degli ignorantelli furbi e pericolosi (talvolta dei tredicenni) che non facevano ridere nessuno, che non avevano alcun talento e capacità di maneggiare la materia, ma che agivano in una direzione ben precisa: sdoganavano l’ignoranza, il bullismo, con l’aggravante del branco, del cameratismo. Sdoganavano, anche, la mancanza di empatia. Lo sdoganamento dell’ignoranza, l’esaltazione del contadino, del “pastore” nell’accezione superata di individuo genuino e ruspante che chiama le parole col loro nome (frocio, negro, cagna…) è stato il solco, in quegli anni, di una comunicazione politica e non solo politica che ha travolto e (dis)educato le masse (l’immagine del contadino sul trattore così di moda su quelle pagine è diventata in quegli anni Rovazzi sul trattore che va a comandare e poi il Capitan Salvini sulla ruspa che va a comandare e che è nemico dei “professoroni”, di chi ha studiato). Pio e Amedeo sono una diramazione di quelle pagine e di quella comunicazione. E anche quando i due, nel loro disastroso monologo, portano il discorso su un binario politicamente corretto per far capire che non hanno pregiudizi ma che scherzano, dicono- badate bene- non che ognuno è libero di essere ciò che vuole, ma che “Ognuno nella camera da letto fa quello che vuole”, argomento becero di chi interpreta l’omosessualità come un tema, appunto, da camera da letto. Da sfera invisibile e privata, che non disturbi gli sguardi. Tant’è che poco dopo si lamentano dei gay pride perché, affermano, “nel 2021 c’è ancora un corteo di gente che ostenta, io etero mica faccio il corteo urlando viva la figa, magari con in mano la figa di cartone. E bastaaaaa!”. Neppure uno straccio di autore amico, non necessariamente gay ma almeno con la terza media, che spieghi ai due la differenza tra ostentazione e rivendicazione, conquista, libertà. Confondono, Pio e Amedeo, l’indignazione scema e pretestuosa di questi tempi irrespirabili in cui i social decidono la loro battaglia del giorno con la critica a una comicità- la loro- che fa semplicemente pena. E no, non è neppure vero che “non si può più dire niente”, visto che loro “non si può più dire niente” lo hanno detto durante una prima serata di Canale 5. Loro, per quel che mi riguarda, potranno continuare a dire quello che vogliono. Così come io potrò continuare a dire che mi fanno cagare. Senza cattiveria eh. Tanto loro non giudicano le parole, ma le intenzioni, se non ricordo male. E le mie intenzioni sono buone. Sono quelle di chi dà loro un suggerimento prezioso: studiate. O trovatevi un paio di autori che abbiano studiato più di voi.

Pio e Amedeo rilanciano: "Macché omofobi. Noi in Russia con Vladimir Luxuria per i diritti dei gay".  Giovanni Gagliardi su La Repubblica il 4 maggio 2021. I due comici su Instagram ribadiscono la loro posizione contro il politically correct e raccontano del loro impegno per tutelare le persone omosessuali. "Nessuno ha detto che l'ironia disinnesca la violenza". "Qualcuno forse da questo post si aspetta delle scuse e lo avvisiamo subito che rimarrà deluso". È chiaro fin dalle prime parole il post Instagram di Pio e Amedeo. I due comici parlano, o meglio, scrivono per la prima volta dopo la  bufera che si è scatenata un minuto dopo il monologo dello scorso venerdì sera, nell'ultima puntata del loro show Felicissima sera: oltre diciassette minuti contro il "politically correct", per andare dritto al cuore della materia: "Ci vogliono far credere che la civiltà sta nelle parole, ma è tutto qua nella testa", aveva detto Amedeo, "fino quando non ci cureremo dall'ignoranza di quelli che dicono con fare dispregiativo, che è quello il problema, ci resta un’unica soluzione: l'autoironia". "Pensiamo che moltissime persone che hanno attaccato il nostro monologo non l'abbiano nemmeno visto per intero - scrivono ora nel post - e che tanti lo abbiano guardato già prevenuti. Bene, ci rivolgiamo a loro, a 'voi'". "Non fate finta di non capire quello che abbiamo detto perché 'vi' fa comodo trasformarlo nella solita querelle politica da quattro soldi", dicono prendendo le distanze da ogni schieramento. "La politica non ci appartiene. La politica ci omaggia di spunti e personaggi - sottolineano - senza distinzioni di partiti per fare quello che vogliamo fare, satira, come abbiamo sempre fatto". “Nemmeno ricchione si può dire più, ma è sempre l'intenzione il problema - avevano detto durante lo show - Così noi dobbiamo combattere l'ignorante e lo stolto. Se vi chiamano ricchioni, voi ridetegli in faccia perché la cattiveria non risiede nella lingua e nel mondo ma nel cervello: è l'intenzione. L'ignorante si ciba del vostro risentimento”. Parole che, da più parti, avevano fatto gridare all'omofobia, con i due comici accusati di non aver capito la profondità del problema, di aver mancato di sensibilità e aver dimostrato poca conoscenza del problema, non considerando che dalle parole spesso si parte per arrivare ai fatti, alle violenze fisiche e mentali. "Mentre alcuni di 'voi' erano impegnati a mettere l'arcobaleno nella foto profilo sui social - ribattono ora Pio e Amedo con orgoglio - i sottoscritti qualche anno fa, sono andati in Russia a respirare la puzza dell'omofobia. Ci siamo messi in prima linea in uno Stato dove non badano troppo ai modi, perché insieme a Vladimir Luxuria eravamo lì per far sentire la voce per il diritto di uguaglianza, e di buona risposta siamo stati spinti in una macchina con violenza da energumeni e siamo stati buttati fuori fisicamente a calci da quel paese dove gruppi di imbecilli adescano ragazzi gay su internet per incontrarli, pestarli e fare un video per postarlo con fierezza sui social... il tutto senza gridare nessuna parola 'politicamente scorretta', incredibile! Le persone cattive purtroppo possono fare anche a meno dei 'vostri' divieti linguistici". Anche dal palco del Concertone del Primo Maggio Michele Bravi, al termine dell'esecuzione di Mantieni il bacio aveva sottolineato che "le parole sono importanti tanto quanto le intenzioni, le parole scrivono la storia, anche quelle più leggere possono avere un peso da sostenere enorme". E aveva aggiunto: "Io ci ho messo tanti anni a trovare le parole giuste per raccontare il mio amore per un ragazzo, e per me è un onore essere su questo palco per continuare a dare il giusto peso alle parole". "Le parole hanno la loro importanza! Eccome se ce l'hanno - replicano i due comici - ma non sono nulla in confronto all'intenzione! È logica: Le parole non valgono quanto l'intenzione! Questo abbiamo detto! Non ci provate. Si può fare così schifo anche usando solo termini “politicamente corretti”". Ma per la presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello "non è vero che il problema sia l'intenzione che si mette dell'usare certe parole - aveva detto commentando il monologo - il tema sono proprio le parole per il significato che assumono e per ciò che contribuiscono a creare nell'ambiente in cui viviamo". Per Ruth Dureghello i due comici hanno "voluto affrontare un tema importante con eccessiva superficialità dicendo che basta ridere in faccia a chi ti insulta. Non basta perché le parole sono il preludio della violenza". Ma per Pio e Amedeo "l'utilizzo dell'ironia laddove si può, è chiaro, è solo quello di tentare di disinnescare l'offesa - dicono attraverso il social - Nessuno ha detto che l'ironia disinnesca la violenza! La risata è solo un palliativo all'ignoranza, perché se l'ignoranza è come il Covid, il sorriderci su e non dare troppa importanza ai vocaboli è il vaccino. E il vaccino non è la cura! Sorriderci su è solo l'ombrello sotto l'acquazzone".

Luxuria a Le Iene: “La Legge Zan? Se il problema è il tempo, andassero un giorno in più in Parlamento”. Le iene News il 04 maggio 2021. Insieme hanno fatto un viaggio in Russia proprio per Le Iene contro l’omofobia. Oggi Pio e Amedeo sono finiti nel mirino per un loro sketch. Luxuria ci parla di loro, ma anche del disegno di legge Zan e di Fedez dopo il Concertone del Primo Maggio. “Ho conosciuto il significato di omofobia quel giorno in cui sentì una brusca frenata. Da una macchina uscirono quattro ragazzi con delle spranghe di ferro. Mi davano del ricchione picchiando con odio e cattiveria”. Luxuria ci racconta la prima aggressione omofoba ricevuta e insieme parliamo anche del disegno di legge Zan dopo le polemiche di questa settimana. “Ai tempi non si denunciava perché non ne parlavano né giornali né televisioni. Sembravano botte che quasi ci meritavamo…”. Oggi però i tempi sono cambiati. “Oggi è possibile mettere delle aggravanti per reati legati a motivi etnici, nazionalità o religiosi. Chiediamo di fare altrettanto per orientamento sessuale e identità di genere”. Ma parte della politica sembra aver tirato il freno a mano sul suo percorso di approvazione: “Se manca il tempo andate un giorno in più in Parlamento a lavorare”, dice Luxuria. Dopo il discorso di Fedez sul palco del Concertone del Primo Maggio l’attenzione si è accesa ulteriormente: “È come se alla parola omofobia ha fatto una traccia con un evidenziatore”. Con Luxuria commentiamo anche lo sketch di Pio e Amedeo per cui ci sono state polemiche. “Li conosco da tanto tempo. Con loro siamo andati in Russia da Putin a urlare ‘Gay is ok’ in russo. Hanno provato con me che cos’è l’omofobia, quando ci hanno acciuffati portandoci via a folle velocità in macchina. Li ricordo piangere, si sono cagati sotto. Ora li vediamo ridere”, racconta ricordando quel viaggio.

“Lo so che non sono omofobi, nello sketch che hanno fatto sembra che alla parola "frocio o ricchione" ci si possa ridere sopra. Posso farlo io che sono autoironica: un adolescente non ci ride, piange. Si sentirebbe ferito”, commenta Luxuria. “Loro non volevano giustificare la parte violenta, ma non basta una risata. Ci siamo sentiti anche dopo lo sketch, ci siamo sentiti ma non riesco a non volergli bene”. Insieme sfatiamo anche qualche luogo comune, ma soprattutto ci ribadisce l’importanza di una legge contro l’omontransfobia: “Una legge non estingue ma farebbe sentire più punito chi commette azioni e più protette le vittime”.

Da Fedez a Pio e Amedeo, due modelli in antitesi nella guerra del “politicamente corretto”. Il Quotidiano del Sud il 2 maggio 2021. Le schermaglie del rapper influencer con mamma Rai per le accuse alla Lega; le provocazioni del duo comico in nome della libertà d’espressione: la riflessione di Fanpage.it. L’affaire Fedez – che dal palco del Primo maggio fa i nomi e i cognomi degli esponenti della Lega che sono “scivolati” sul tema dell’omofobia – alimenta il mai sopito dibattito sui diritti civili e sulle discriminazioni di cui le minoranze sono da sempre oggetto. Ma, a ben vedere, le parole del rapper influencer (e le polemiche con mamma Rai per la censura preventiva che l’azienda avrebbe tentato ai suoi danni) ripropongono anche la questione del “politicamente corretto” in tv e delle sue distorsioni. Un interessante riflessione, da questo punto di vista, viene offerta da Francesco Cancellato che, dalle pagine di Fanpage.it, accosta – per contrasto – proprio il profilo e lo stile del protagonista della bufera del Primo maggio a quelle del duo comico Pio e Amedeo, conduttori del varietà Mediaset Felicissima sera. Questi ultimi vengono additati a “piccoli conformisti” che, in nome della lotta alla “dittatura del politicamente corretto” non fanno altro che “difendere la libertà dei tanti e dei forti di insultare e irridere i deboli e i pochi”. Fedez, di contro, diventa un simbolo della “libertà d’espressione”. “La differenza tra Pio e Amedeo e Fedez non è di poco conto – scrive Cancellato -. I primi difendono la maggioranza, il secondo difende una minoranza. I primi si allineano al pensiero dell’opinione pubblica e del potere politico per convenienza, il secondo va nella direzione opposta, scegliendo anche di pubblicare un tentativo di censura. Nella sua invettiva-monologo contro la presunta “dittatura del politicamente corretto” ha fatto, semmai, quello che i piccoli conformisti fanno da sempre: difendere la libertà dei tanti e dei forti di insultare e irridere i deboli e i pochi. Perché di questo stiamo parlando quando parliamo di omosessuali (il 2,5% della popolazione italiana), di neri (1,9%) ed ebrei (0,075%): di minoranze quasi irrisorie dell’opinione pubblica, sovente discriminate in quanto tali”. Quindi, la firma di Fanpage aggiunge: “Andiamo avanti, se volete: il 24% degli omosessuali, uno su quattro, ha dichiarato di essere stata vittima di discriminazioni. E nel corso degli ultimi due anni – 2019 e 2020 – ci sono state oltre 300 aggressioni fisiche a persone “colpevoli” solamente di avere un orientamento sessuale diverso a quello della maggioranza degli italiani. È a causa di ultimi numeri, e non per colpa della dittatura del politicamente corretto che qualcuno, in Parlamento, ha pensato fosse il momento di proporre una legge contro l’omotransfobia”. Cancellato chiarisce: “Quella proposta di legge si chiama Ddl Zan, ed è quella in favore della quale si è schierato Fedez nel suo monologo durante il concerto del Primo Maggio, anch’egli in diretta televisiva su Rai Tre. Un monologo sottoposto a censura preventiva dalla direzione di Rai Tre, anche in questo caso per pura e semplice convenienza. La differenza tra Pio e Amedeo e Fedez sta tutta qua. I primi si allineano al pensiero dell’opinione pubblica e del potere politico per convenienza, il secondo commette una duplice sconvenienza – il monologo coi nomi e i cognomi, la pubblicazione della telefonata di censura – che probabilmente gli chiuderà in faccia le porte della Rai pure un bel po’. E a questo giro, si è dimostrato migliore di noi, perché ha esercitato da vivo il privilegio dei morti”.

La banalità di Fedez e il coraggio di Pio e Amedeo. Andrea Indini il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. Al Concertone Fedez recita il suo solito pamphlet anti leghista. A Felicissima sera Pio e Amedeo si scagliano contro il politicamente corretto. I soloni della sinistra lodano il rapper e condannano i comici. Sai che novità il Concertone del Primo maggio? Sai che novità i cantanti di sinistra che usano il palco per mandare messaggi politici contro il centrodestra? Sai che novità il profluvio di polemiche che ingrassano il day after della kermesse? Era tutto già scritto ancora prima che Fedez prendesse il microfono in mano. Non bisognava nemmeno supporre contro chi si sarebbe scagliato e quale visione del mondo avrebbe portato avanti. Così è stato: mega spot al ddl Zan, attacchi a testa bassa contro la Lega e un mix (scontato) del pensiero radical chic. Niente di diverso dai post con cui riempie i social. A differenza del solito ha usato il servizio pubblico come cassa di risonanza. Non è certo il primo. In passato lo hanno fatto in tanti prima di lui. E così ieri, come in uno dei tanti déjà vu a cui sono costretti gli italiani ogni anno (l'altro lo abbiamo subito giorni fa con l'ennesimo 25 aprile segnato da divisioni e banalità), i problemi dei lavoratori sono passati in secondo piano e ha vinto la propaganda politica. Se ve lo siete persi, ecco un rapido riassunto: Fedez che si schiera per i diritti degli omosessuali; Fedez che sbraita Matteo Salvini; Fedez che punzecchia il Vaticano accusandolo di aver sovvenzionato una casa farmaceutica che produce la pillola del giorno dopo. Ci siamo dimenticati qualcosa? Non credo. Forse, in un anno tristemente segnato da 945mila posti di lavoro andati in fumo, una disoccupazione giovanile al 33% e una crisi economica devastante, ci saremmo aspettati uno sforzo maggiore. Ma tant'è. A rileggere l'intervento, che ha messo tanto in ansia i vertici Rai prima ancora di pronunciarlo, non c'è nulla fuori posto. È tutto lì dove deve essere. Dopo un breve preambolo, con un appello a Draghi affinché tuteli il settore dello spettacolo "decimato dall'emergenza Covid", ecco il rapper (fresco del secondo posto al Festival di Sanremo) sfoderare gli artigli contro la Lega. Cosa c'è di nuovo? Nulla, appunto. Forse sarebbe persino passato inosservato se la vice direttrice di Rai 3, Ilaria Capitani, non gli avesse telefonato per metterlo in guardia e ne fosse scaturita l'ennesima polemica (stucchevole) sulla libertà di espressione. "Il coraggio di Fedez dà voce a tutte quelle persone che ancora subiscono violenze e discriminazioni per ciò che sono", ha subito commentato il deputato piddì Alessandro Zan, padre del ddl promosso da Fedez. "Il Senato abbia lo stesso coraggio ad approvare subito una legge per cui l'Italia non può più attendere". In realtà, tutto sto coraggio sul palco del Concertone non si è visto. I social sono pieni di vip, cantanti e artisti che difendono il ddl Zan. Avete presente le manine che spuntano ovunque su Facebook? Ecco. Da giorni lo stesso Fedez ingaggia scontri (verbali) con Salvini o con altri leghisti sullo stesso argomento. Persino lo smalto per unghie è diventato un campo minato (e un'occasione di business). Se, invece, volete vedere qualcosa di veramente coraggioso, prendetevi venti minuti di pausa e, se venerdì sera ve lo siete persi, ascoltate qui: è lo sketch di Pio e Amedeo contro il politicamente corretto. Venti minuti di provocazioni fuori dal coro per spiegare che il problema non sono le parole ma le intenzioni. Si possono dire tranquillamente negro o ricchione senza esser per forza razzisti. "Ci vogliono far credere che la civiltà sta nelle parole, ma è tutto qua, nella testa", hanno spiegato i comici venerdì sera nell'ultima puntata di Felicissima sera su Canale 5. "Fino a quando non ci cureremo dall'ignoranza di quelli che dicono con fare dispregiativo, che è quello il problema, ci resta un'unica soluzione". E cioè: l'autoironia. Al giorno d'oggi per dire quello che hanno detto Pio e Amedeo ci vuole coraggio. Se lo fai, rischi il linciaggio. E così è stato: lo sketch (per quanto chiarissimo ai più) non è stato capito dalla sinistra. Il Partito democratico, che in queste ore sta cavalcando lo scontro tra Fedez e la Rai gridando alla censura, si è addirittura spinto a presentare un'interrogazione parlamentare per stigmatizzare la comicità del duo pugliese e pretendere da Draghi un intervento in difesa dei diritti degli omosessuali. Il tutto perché i due comici provano a spiegare agli italiani che la cattiveria non sta nelle parole ma in quello che le persone hanno dentro. Le cattive intenzioni, appunto. "Se dici a un tuo amico 'Ué negro, andiamo a mangiare?', non lo offendi. Ma, se gli dici 'nero torna a casa tua!', sì". Non è una lezione semplice da afferrare per chi ha sempre deciso, in nome di tutto il Paese, cosa è giusto e cosa non lo è. Mettersi contro queste persone, che si sentono i padroni della verità (da anni si arrogano questo diritto), è il vero coraggio. Pio e Amedeo lo hanno avuto. E hanno dimostrato di essere dei giganti. A differenza di molti altri.

Alberto Dandolo per Dagospia il 2 maggio 2021. Italia "frociona". Italia ricchiona. Italia che investe e perde il suo tempo ad alimentare l'egocentrismo e il vittimismo senza limitismo del "mondo gays". Come se poi ci fosse un "mondo etero". L' Italia di Felicissima sera e dei sermoni populisti del 1 maggio. Come se l'unicità di privati orgasmi, retroattivi o convenzionali che siano, si dissolvesse nella necessità di categorizzare persino il più intimo degli impulsi. La più personale delle tensioni. Eh si, perchè ieri il nostro disgraziato Paese si è inoculato una dose massiccia di anacronistiche e perbenistiche elucubrazioni. Prima tra tutte la moralistica disamina di uno dei monologhi più onesti e sinceri che siano mai andati in onda in tv: quello di Pio e Amedeo sul senso delle parole. In realtà i due tamarrissimi intellettuali pugliesi hanno semplicemente fatto la cosa più eversiva a cui potessero ambire: dire la verità. Scardinandola con un cinismo spiazzante. Tenero e spietato nella sua rincorsa alla libertà. Un cinismo che prende per il culo, pur rispettandolo, quel gratuito dolore che spesso la medietà dei luoghi comuni genera. Uno spudorato, maldestro e aurorale tentativo di mettere in luce la relatività che la parola assume se svuotata o riempita del senso che le si infonde. Un monologo eversivo per la sua trasparente buona fede e la sua manifesta, complessa e purtroppo non ancora scontata autenticità. "Ci vogliono far credere che la civiltà sta nelle parole, ma è tutto qua nella testa”, ha detto Amedeo, “fino quando non ci cureremo dall’ignoranza di quelli che dicono con fare dispregiativo, che è quello il problema, ci resta un’unica soluzione: l'autoironia”. E da lì in poi i due comici hanno puntato il dito contro tutti gli stereotipi del politicamente corretto, passando per donne, ebrei, neri, ed arrivare agli omosessuali: “Nemmeno ricchione si può dire più, ma è sempre l'intenzione il problema. Così noi dobbiamo combattere l'ignorante e lo stolto. Se vi chiamano ricchioni, voi ridetegli in faccia perché la cattiveria non risiede nella lingua e nel mondo ma nel cervello: è l'intenzione. L'ignorante si ciba del vostro risentimento”. Apriti cielo! In Italia ti perdonano tutto. Ma non la cipolla nella amatriciana e i punti di vista politicamente "scorretti" sull' omosessualità. Degli omosessuali non si può esprimere alcun giudizio. Alcun pensiero che non sia strumentale alla loro adulazione, esaltazione e tutela. Quasi godessero a sentirsi una razza protetta. Senza minimamente comprendere che la libertà è banalmente anche la capacità di riconoscere all' altro la libertà di non accettarti perché gay. O perché hai capelli tinti di rosso o perché hai l'alluce smaltato di blu ...e via dicendo. E mentre la rete e i gay ultra ortodossi si dimenavano a crocifiggere Pio e Amedeo per aver tentato di demolire la comoda ferocia dei luoghi comuni in contemporanea iniziavano a santificare Federico detto Fedez. Che infojato e spavaldo dalla piazza del 1 maggio con gli stessi luoghi comuni dissacrati da Pio e Amedeo rinnovava il patto di sangue del politicamente corretto.

Bufera su Pio e Amedeo per le frasi su omosessuali, ebrei, neri: "Il politically correct ha rotto". La Repubblica l'1 maggio 2021. Il duo comico, nell'ultima puntata del loro gettonatissimo programma 'Felicissima sera', ha scandalizzato con un monologo che ha sollevato polemiche. Fan (e politici) si dividono. E Michele Bravi dal palco del Concertone: "Le parole sono importanti". Una bufera si è scatenata dopo che venerdì sera Pio e Amedeo, nell’ultima puntata del loro show Felicissima sera, si sono lanciati contro il "politically correct" con un lungo pezzo, una ventina di minuti, che ha puntato dritto al cuore della materia: “Ci vogliono far credere che la civiltà sta nelle parole, ma è tutto qua nella testa”, ha detto Amedeo, “fino quando non ci cureremo dall’ignoranza di quelli che dicono con fare dispregiativo, che è quello il problema, ci resta un’unica soluzione: l'autoironia”. E da lì in poi i due comici hanno puntato il dito contro tutti gli stereotipi del politicamente corretto, passando per donne, ebrei, neri, ed arrivare agli omosessuali: “Nemmeno ricchione si può dire più, ma è sempre l'intenzione il problema. Così noi dobbiamo combattere l'ignorante e lo stolto. Se vi chiamano ricchioni, voi ridetegli in faccia perché la cattiveria non risiede nella lingua e nel mondo ma nel cervello: è l'intenzione. L'ignorante si ciba del vostro risentimento”. Il dibattito si è immediatamente scatenato su Twitter e sui social, e molti commenti da parte del mondo Lgbt hanno criticato l’esibizione dei due comici, accusati di non aver capito la profondità del problema, di aver mancato di sensibilità e aver dimostrato poca conoscenza del problema, non considerando dalle parole spesso si parte per arrivare ai fatti, alle violenze fisiche e mentali. Durante la trasmissione ironicamente Pio aveva avvertito Amedeo delle possibili polemiche che sarebbero seguite: “Amedeo, ma hai capito che noi qua stiamo in Italia? Tu ti devi fare i ca**i tuoi. Hai detto delle parole e dei concetti che possono essere fraintesi. Perché l'hai fatto? Non ti devi mai esporre e lo sai perché? Perché siamo in Italia. La gente ci vede in un determinato modo, non dire una cosa che possa essere fraintesa. Fatti i ca**i tuoi. Ti ricordi tutti i sacrifici che abbiamo fatto? Domani qualcuno ci critica e noi siamo spariti nel vuoto. Pensa a Gerry Scotti. Tu hai mai sentito dire qualcosa fuori posto a Gerry Scotti? E allora tu ti devi fare i ca**i tuoi. Perciò chiedi scusa”. Ma le scuse e l’ironia non bastano, sui social le proteste non si contano (tra le quali anche quella di Aurora Ramazzotti). “Lo show di Pio e Amedeo è stato omofobo”, ha dichiarato Fabrizio Marrazzo, portavoce Partito Gay per i diritti Lgbt+, Solidale, Ambientalista e Liberale, “Nel duetto di Pio e Amedeo nella trasmissione Felicissima sera su Canale 5 abbiamo visto un pessimo esempio di comicità che vuole sdoganare le parole negro, utilizzata per definire gli schiavi, i pregiudizi sugli ebrei, che servivano ad alimentate l’odio durante il nazismo”. “E non poteva mancare la parola "ricchione"”, conclude Marrazzo, “che fa parte di quel grande insieme di sostantivi dispregiativi nei confronti degli omosessuali, utilizzata soprattutto nel Meridione questa è la definizione non altre. Pessimo esempio di comicità che banalizza la discriminazione”. Anche dal palco del Concertone del Primo Maggio è arrivata una risposta al monologo del duo comico: Michele Bravi al termine dell'esecuzione di "Mantieni il bacio" ha sottolineato che "le parole sono importanti tanto quanto le intenzioni, le parole scrivono la storia, anche quelle più leggere possono avere un peso da sostenere enorme". E ha aggiunto: "Io ci ho messo tanti anni a trovare le parole giuste per raccontare il mio amore per un ragazzo, e per me è un onore essere su questo palco per continuare a dare il giusto peso alle parole". Presa di posizione anche della Comunità Ebraica di Roma, la cui presidente Ruth Dureghello commenta: "Non è vero che il problema sia l'intenzione che si mette dell'usare certe parole, il tema sono proprio le parole per il significato che assumono e per ciò che contribuiscono a creare nell'ambiente in cui viviamo". Il giudizio su Pio e Amedeo e il loro monologo è tranchant: "Penso che abbiano voluto affrontare un tema importante con eccessiva superficialità dicendo che basta ridere in faccia a chi ti insulta. Non basta perché le parole sono il preludio della violenza". Duro anche il giudizio su Mediaset: "Non dovrebbe permettere che, nella propria rete di punta in prima serata, vengano affrontati temi complessi con ragionamenti da bar".

Da repubblica.it il 2 maggio 2021. Una bufera si è scatenata su Internet dopo che ieri sera Pio e Amedeo, nell’ultima puntata del loro show Felicissima sera, si sono lanciati contro il 'politically correct' con un lungo pezzo, una ventina di minuti che ha puntato dritto al cuore della materia: “Ci vogliono far credere che la civiltà sta nelle parole, ma è tutto qua nella testa”, ha detto Amedeo, “fino quando non ci cureremo dall’ignoranza di quelli che dicono con fare dispregiativo, che è quello il problema, ci resta un’unica soluzione: l'autoironia”. E da lì in poi i due comici hanno puntato il dito contro tutti gli stereotipi del politicamente corretto, passando per donne, ebrei, neri, ed arrivare agli omosessuali: “Nemmeno ricchione si può dire più, ma è sempre l'intenzione il problema. Così noi dobbiamo combattere l'ignorante e lo stolto. Se vi chiamano ricchioni, voi ridetegli in faccia perché la cattiveria non risiede nella lingua e nel mondo ma nel cervello: è l'intenzione. L'ignorante si ciba del vostro risentimento”. Il dibattito si è immediatamente scatenato su Twitter e sui social, e molti commenti da parte del mondo Lgbt hanno criticato l’esibizione dei due comici, accusati di non aver capito la profondità del problema, di aver mancato di sensibilità e aver dimostrato poca conoscenza del problema, non considerando dalle parole spesso si parte per arrivare ai fatti, alle violenze fisiche e mentali. Durante la trasmissione ironicamente Pio aveva avvertito Amedeo delle possibili polemiche che sarebbero seguite: “Amedeo, ma hai capito che noi qua stiamo in Italia? Tu ti devi fare i ca**i tuoi. Hai detto delle parole e dei concetti che possono essere fraintesi. Perché l'hai fatto? Non ti devi mai esporre e lo sai perché? Perché siamo in Italia. La gente ci vede in un determinato modo, non dire una cosa che possa essere fraintesa. Fatti i ca**i tuoi. Ti ricordi tutti i sacrifici che abbiamo fatto? Domani qualcuno ci critica e noi siamo spariti nel vuoto. Pensa a Gerry Scotti. Tu hai mai sentito dire qualcosa fuori posto a Gerry Scotti? E allora tu ti devi fare i ca**i tuoi. Perciò chiedi scusa”. Ma le scuse e l’ironia non bastano, sui social le proteste non si contano (tra le quali anche quella di Aurora Ramazzotti). “Lo show di Pio e Amedeo è stato omofobo”, ha dichiarato Fabrizio Marrazzo, portavoce Partito Gay per i diritti Lgbt+, Solidale, Ambientalista e Liberale, “Nel duetto di Pio e Amedeo nella trasmissione Felicissima sera su Canale 5 abbiamo visto un pessimo esempio di comicità che vuole sdonagare le parole negro, utilizzata per definire gli schiavi, i pregiudizi sugli ebrei, che servivano ad alimentate l’odio durante il nazismo”. “E non poteva mancare la parola ‘ricchione’”, conclude Marrazzo, “che fa parte di quel grande insieme di sostantivi dispregiativi nei confronti degli omosessuali, utilizzata soprattutto nel Meridione questa è la definizione non altre. Pessimo esempio di comicità che banalizza la discriminazione”.

Da corrieredellosport.it il 2 maggio 2021. Aurora Ramazzotti è intervenuta nel dibattito sul politicamente corretto sollevato da Pio e Amedeo nell'ultima puntata di Felicissima Sera su Canale 5. La figlia di Michelle Hunziker non si è persa la puntata trasmessa venerdì 30 aprile che ha visto tra gli ospiti il padre Eros. Aurora ha sorriso per gli sketch tra il cantante e Pio e Amedeo mentre non ha gradito il monologo dei due comici sulle N Word. "Non dobbiamo vergognarci di dire la parola ‘neg*o' perché conta la cattiveria nella parola, conta l'intenzione. Se l'intenzione è cattiva, allora è da condannare. Il politically correct ha rutt'o ca**", hanno dichiarato i due comici, che sono stati seguiti da quasi cinque milioni di telespettatori vincendo così la sfida contro Carlo Conti. Di tutt'altro avviso è però la Ramazzotti, che si è lasciata andare ad un lungo sfogo sui social network.

Le parole di Aurora Ramazzotti contro Pio e Amedeo. "Questa cosa che si continui imperterriti ad avere la presunzione di decidere cosa sia offensivo che una categoria di cui non si fa parte e e di cui non si conoscono le battaglie, il dolore, le paure, il disagio, la discriminazione, rimane a me un mistero irrisolvibile. Mi dispiace ma dovevo dirlo. Fare distinzione tra l’eccesso di ‘politicamente corretto’ (che infastidisce anche me) e l’uso di parole che hanno assunto connotazioni prettamente spregiative e discriminatorie è d’obbligo", ha scritto Aurora Ramazzotti su Instagram. "Si parla di ‘intenzione’ buona o cattiva ma oggigiorno utilizzarle (in televisione poi) diventa già l’intenzione sbagliata. Lo si fa ignorando che chi fa parte delle categorie in questione ha espresso chiaramente di non volerle sentire. Perché gli fanno male. Punto", ha aggiunto. Di recente Aurora Ramazzotti è stata vittima di cat calling: il suo sfogo continua a far discutere ancora oggi.

La bufera dopo "Felicissima sera". Pio e Amedeo travolti dalle critiche: per il duo “se vi chiamano neg*i o fro*i” basta “ridergli in faccia”. Fabio Calcagni su Il Riformista l'1 Maggio 2021. Avevano annunciato che avrebbero trattati temi spinosi già prima della messa in onda della trasmissione, ma il lungo monologo di circa 17 minuti che il duo comico Pio e Amedeo ha recitato venerdì 30 aprile su Canale 5, nell’ultima puntata di “Felicissima sera”, è stato letteralmente travolto dalle polemiche. Un discorso sul politicamente corretto, senza peli sulla lingua, diventato però un autogol buttando “in caciara”, come si direbbe a Roma, argomenti sensibili. Secondo il duo comico foggiano formato da Pio D’Antini e Amedeo Grieco, diventato noto al grande pubblico col programma Emigratis, “il problema non è l’uso delle parole ma l’intenzione, va condannata la cattiveria. Se dici “i neri devono stare a casa loro” è peggio di “neg*o, ti vengo a prendere e ci mangiamo una cosa insieme”. Il problema qual è? La G in mezzo? Non basta la G al centro per lavare le coscienze dei cretini. Bisogna combatterli con le stesse armi. Quando vi chiamano “neg*o” ridetegli in faccia, disarmateli così”. Non solo. Stesso discorso secondo i due è valido anche per gli omosessuali. “Se vi dicono “ricchi*ni” o “fro*i” per ferirvi, ridetegli in faccia. L’ignorante non saprà cosa fare. La cattiveria è il male e non risiede nelle parole, bensì nella testa. Il Gay Pride? Ma a cosa serve nel 2021? A me, etero, mi avete mai visto in un corteo a dire “evviva la fi*a”? Non serve più, non c’è bisogno, siamo tutti uguali”. Invettiva che poi si è allargata ai cinesi, “terroni” ed ebrei, per concludersi con un “il politicamente corretto ha rotto il ca**o”. Un discorso che non ha fatto ridere chi quelle offese le ha subite o le subisce ancora oggi in Italia, dove per la calendarizzazione del ddl Zan, che combatte proprio l’omotransfobia, ha scatenato una battaglia politica all’insegna delle fake news, con tanto di intervento della Conferenza episcopale italiana. C’è chi ha fatto notare al duo comico su Twitter che “a 24 anni io ho sorriso a chi mi ha urlato “Frocio di merda” durante una fiera, mentre ero con i miei amici. Poi mi sono ritrovato in un’ambulanza, poi all’ospedale. Però ho sorriso eh…”. Alberto quindi si rivolge a Pio e Amedeo e chiede: “Se quando mi chiamano “ricchione” per strada, se quando ho paura di camminare mano nella mano col mio ragazzo perché magari qualcuno potrebbe mettermi le mani addosso, scusate se in queste circostanze non rido. Sto sbagliando io”. Ma a scagliarsi contro le parole dei due comici è anche Aurora Ramazzotti, col padre e cantante Eros che era venerdì sera tra gli ospiti della trasmissione. “Questa cosa che si continui imperterriti ad avere la presunzione di decidere cosa sia offensivo per una categoria di cui non si fa parte e di cui non si conoscono le battaglie, il dolore, le paure, il disagio, la discriminazione, rimane a me un mistero irrisolvibile”.

Roberto Pavanello per "la Stampa" il 3 magio 2021. Quella di Pio e Amedeo, venerdì, non è stata una Felicissima sera, come invece recita il titolo del loro programma su Canale 5. Benché premiati dall'audience, sono finiti al centro di dure polemiche per il loro monologo a due voci sul politicamente corretto. Volevano essere divertenti, ma lo sono stati ben poco per una buona fetta dell'opinione pubblica. Il loro pensiero, in estrema sintesi, è che non contano le parole ma l'intenzione con cui le dici. E che, in buona sostanza, basta una risata per disarmare chi vuole offendere: «L'ignorante si ciba del vostro risentimento». Quindi per gli ex "emigratis" che della cafonaggine hanno fatto il veicolo per raggiungere il successo, «negro» o «ricchione» non sono di per sé offensive. Anzi, hanno detto rivolgendosi ai gay: «Se vi dicono frocio, voi ridetegli in faccia». Evidentemente la lezione di Nanni Moretti che in Palombella rossa urlava furente che «le parole sono importanti» non è stata fatta loro. Il regista e attore romano diceva «le parole» e non «le intenzioni». E dire che eravamo nel 1989. Venerdì sera le repliche, tra l'incredulo e l'indignato, non hanno tardato ad arrivare. Subito su Twitter è stato un profluvio di interventi, in particolare della comunità rainbow, molti dei quali citavano episodi in cui erano stati oggetto di derisione e di violenza, altro che risate per demolire l'odiatore. Ai comici pugliesi ha risposto anche Michele Bravi, dal palco del Concertone. Era ormai quasi mezzanotte quando il cantante, senza alzare la voce ma con fermezza, ha ricordato che «le parole sono importanti tanto quanto le intenzioni, le parole scrivono la storia, anche quelle più leggere possono avere un peso da sostenere enorme». Bravi ha portato alla loro attenzione la sua esperienza personale: «Io ci ho messo tanti anni a trovare le parole giuste per raccontare il mio amore per un ragazzo - ha detto con un sorriso appena accennato ma gli occhi scintillanti -, e per me è un onore essere su questo palco per continuare a dare il giusto peso alle parole». Al coro di chi non ha apprezzato il "duetto" di Pio e Amedeo si è unita la voce di Ruth Dureghello, presidente Comunità Ebraica di Roma: «Le parole sono il preludio della violenza - ha scritto su Facebook -. Questa è la difesa della libertà di tutti, non razzismo al contrario o difesa di alcune minoranze. Anche quella di un bambino del Sud che si trasferisce al Nord e non deve accettare gli insulti contro i meridionali solo perché così lo hanno deciso Pio e Amedeo». «Si può scherzare su tutto? - è la riflessione di Dureghello -. Certo, lo hanno fatto comici veri e di livello, consapevoli dell'importanza della parola e degli effetti che ha prodotto nella storia». Ma attenzione: «Sdoganare l'aggettivo ebreo con il significato di tirchio, per esempio, può sembrare rivoluzionario solo agli ignoranti che non conoscono le cose».

Emiliana Costa per leggo.it il 3 magio 2021. Michele Bravi contro Pio e Amedeo: «Ci ho messo anni per raccontare il mio amore per un ragazzo. Le parole hanno un valore». Non solo Fedez. Ieri, durante il concertone, un altro monologo ha scosso le coscienze di molti telespettatori. Si tratta di quello di Michele Bravi, il cantante di Città di Castello, grande amico del rapper milanese. Michele Bravi, senza citarli, ha risposto alle controverse parole di Pio e Amedeo pronunciate nel corso dell'ultima puntata di Felicissima Sera. I comici pugliesi avevano recitato un monologo contro il politically correct, con il rischio però di sdoganare insulti omofobi «Nemmeno ricchione si può dire più - hanno detto - ma è sempre l'intenzione il problema. Così noi dobbiamo combattere l'ignorante e lo stolto. Se vi chiamano ricchioni, voi ridetegli in faccia perché la cattiveria non risiede nella lingua e nel mondo ma nel cervello: è l'intenzione. L'ignorante si ciba del vostro risentimento». A stretto giro, dal palco del concertone, è arrivata la risposta di Michele Bravi: «Le parole sono importanti tanto quanto le intenzioni, le parole scrivono la storia, anche quelle più leggere possono avere un peso da sostenere enorme. Io ci ho messo tanti anni a trovare le parole giuste per raccontare il mio amore per un ragazzo, e per me è un onore essere su questo palco per continuare a dare il giusto peso alle parole». Trash Italiano ha postato il discorso del cantante di Mantieni il bacio. Immediati i commenti dei fan: «Non esiste persona più dolce di te». E ancora: «La satira si fa sugli oppressori e non sugli oppressi». Concludono i follower: «Un mondo di Michele Bravi e di Fedez».

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 3 magio 2021. I veri comici non sono coloro che fanno ridere di più, ma quelli che ci svelano un modo nuovo di ridere. Ancora una volta, tocca a Checco Zalone regalarci un po' di felicità, parlando di cose serie. Il suo ultimo «messaggio» si chiama «La Vacinada», un video interpretato con la splendida e spiritosissima Helen Mirren. In tempi di pandemia, di distanziamento e di astinenza, un sussulto ormonale può nascere da un refolo di vento che lascia intuire qualcosa: «Tiene la zinna un pochito calada, ma non fa nada, non fa nada e la caviglia un pochito gonflada e non fa nada, non fa nada, quando se mueve suave y sensual, pare che il femore sia original». Luca Medici, qui nelle vesti di Oscar Francisco Zalon, è attratto da una sovrana vegliarda senza dover spiegare che cos' è il politicamente scorretto. Si fa e non si teorizza. Al contrario di quanto hanno fatto i pur ottimi Pio e Amedeo, nell' ultima puntata di «Felicissima sera», con una tiritera di venti minuti sulle parole proibite. Il «popolo dei social» e Aurora Ramazzotti non l' hanno presa bene, accusando i due di non aver capito la profondità del problema (avrebbero dovuto accusarli, in quel caso, di non aver fatto ridere, e basta). Checco Zalone strappa irrefrenabili risate con uno di quei suoi lampi di genio che non hanno bisogno di format, a differenza di «Lol». Per giustificare il «grande successo» del programma (le grandi piattaforme di streaming non forniscono il numero degli ascolti, bastano mille interventi sui social per generare meme e per far gridare al «fenomeno virale»), si è scritto che «Lol è la nuova comicità popolare funziona perché unisce la comicità di situazione al format del reality show di montaggio. Un po' sitcom, da questo punto di vista, senza le risate finte». Con «La Vacinada» c' è poco da spiegare e molto da godere: «A me mi gusta bailare con tigo, oh vacinada, io faccia a faccia e sta veccia muchacha immunizadaa».

Maria Rosa Tomasello per "la Stampa" il 3 magio 2021. Una coppia più improbabile avremmo fatto fatica a immaginarla, ma l' amore, come il talento dissacrante di Checco Zalone, non conosce età né barriere e così eccoli i due innamorati folgorati sulla via della lotta al coronavirus, a scambiarsi tenerezze all' ombra dei limoni e a mangiare pasticciotti a colazione in un video di tre minuti che spopola sul web. Uniti, più che dalla magia del cinema, dal vaccino. Lui è l' attore e regista pugliese protagonista di record al botteghino e inventore di folgoranti tormentoni, qui nei panni di Oscar Francisco Zalon, turista di presunte origini iberiche che si smarrisce mentre viaggia lungo le strade sterrate del Salento e dietro un muretto a secco incontra la donna che gli rapisce il cuore. Lei è Helen Mirren, la grande attrice inglese premio Oscar per "The Queen", che smessi gli abiti della sovrana indossa quelli modesti della contadina e che, rivelando sulla spalla scoperta i segni dell' iniezione, sconvolge i sensi del giovane viandante al ritmo di bachata. Perché lei è "la vacinada". «Quando se muove suave e sensual pare che el femore è original» canta Checco-Oscar alla sua bella «vecia muchacha immunizzada», la donna «da cineteca» che lo ha conquistato grazie all'«anticuerpo di AstraZeneca». «Sono una grande fan di Checco Zalone, l' ho scoperto guardando un suo film sull' aereo. È divertente, ma è anche dotato di un grande cuore. Con lui girerei subito un film, ma c' è un problema: è più bravo di me» aveva rivelato lo scorso anno l' attrice, che con la Puglia e i pugliesi ha grande feeling, tanto da aver preso casa (una splendida masseria del XVI secolo) a Tiggiano, in provincia di Lecce. L'occasione è arrivata, grazie a un inno all' immunizzazione che probabilmente non vincerà la statuetta ma che su YouTube ha totalizzato in poche ore centinaia di migliaia di visualizzazioni. Con una Helen Mirren ironica, splendida e sexy nei suoi 75 anni mentre balla abbracciata al suo irriverente toy-boy sotto il sole del Sud.

Stefania Ulivi per il "Corriere della Sera" il 3 magio 2021. Lo aveva anticipato lei stessa, nel febbraio 2020 al festival di Berlino. «Vorrei lavorare in qualunque film ambientato in Puglia, adoro anche Checco Zalone». Sabato scorso Helen Mirren e Luca Medici (vero nome di Checco Zalone) hanno mandato in tilt la Rete (non solo in Italia) grazie alle visualizzazioni del video La vacinada . Lui nei panni di Francisco Oscar Zalon, turista ispanico in cerca della grotta Zinzulusa, lei in quelli di una soave e svolazzante contadina neovaccinata. Un concentrato di ironia e intelligenza, inaspettata arma formidabile a favore della campagna di vaccinazione. «A mi me gusta bailare contigo, o vacinada, con l' anticuerpo dell' Astrazeneca». Lo hanno girato la settimana scorsa, nelle campagne del basso Salento. Il giorno successivo Mirren, «The Queen of Apulia», - come la definisce la stampa britannica quando parla della sua passione per la sua patria di adozione, dove anni fa con il marito, il regista Taylor Hackford, ha comprato una masseria - è partita per gli Usa, per un altro set. Quello de La vacinada , è stato piuttosto artigianale, il video è stato girato con i cellulari. Ma non per questo meno meticoloso, almeno come preparazione. Ci teneva Luca Medici a avere Mirren nel video, che già conosceva grazie a comuni frequentazioni. A facilitare il tutto è stato il procuratore in Italia dell' attrice. Scelte location e costumi, lei è stata volentieri al gioco. In totale sintonia con il comico all' idea di fare qualcosa, insieme, di divertente e utile. Dall' altro del suo (multiplo) trip lete tra cinema, teatro e tv, - oltre all' Oscar, Tony Awards e Emmy - Mirren non è una che si tira indietro. Né sul piano professionale né delle battaglie che le stanno a cuore. Da quando ha scoperto il Salento («Una notte ho visto il mare con la luna piena ed è stato per me un colpo di fulmine», ha raccontato), si è fatta carico delle sue bellezze e contraddizioni. «La cosa più importante è l' ambiente: se ogni persona pulisse il proprio spazio vicino a casa, tutto migliorerebbe in fretta». Lei lo fa e lo racconta volentieri. Come si batte per la salvaguardia degli ulivi dalla Xylella, per far conoscere i prodotti local. E non si tira indietro di fronte a inviti a festival e manifestazioni culturali. E partecipazioni straordinarie. Come quella del 2014 per Palloni e Meloni , dove recita con il marito nei panni di una severa assaggiatrice di cocomeri.

Bufera sullo scienziato di fama mondiale Richard Dawkins: "Deride i trans". Gerry Freda il 22 Aprile 2021 su Il Giornale. Dawkins, alfiere dell'ateismo, ha finora provato a difendersi dalle accuse scatenate da un suo tweet, ma gli è già stato revocato il premio "umanista dell'anno". Richard Dawkins, uno degli scienziati più famosi al mondo nonché autore di best-seller come Il gene egoista e L’illusione di dio, è finito nella bufera a causa di un suo tweet interpretato come denigratorio ai danni delle persone transessuali. Dawkins, etologo, biologo e divulgatore scientifico nonché alfiere dell'ateismo, ha finora provato a difendersi dalle accuse scatenate dal messaggio incriminato, ma quest'ultimo gli è già costato la revoca di un premio. A fare esplodere le contestazioni ai danni dell'accademico britannico è stato un tweet di sabato 10 aprile, scritto dallo scienziato nella forma di un tema da sottoporre ai suoi studenti. Nel messaggio pubblicato allora sul web, Dawkins paragonava i transgender a Rachel Dolezal, un’attivista per i diritti civili bianca che per anni ha finto di essere afroamericana: "Nel 2015 Rachel Dolezal, una bianca presidente della National Association for the Advancement of Colored People, una delle prime e più influenti organizzazioni per i diritti civili degli afroamericani, è stata denigrata perché si definiva nera. Alcuni uomini decidono di identificarsi come donne, alcune donne decidono di identificarsi come uomini. Chi nega che essi sono letteralmente quello con cui si identificano viene denigrato. Discutere". Lo studioso, con tale tweet polemico e ironico, mirava a denunciare il fatto che ci sono due pesi e due misure: una bianca che si spaccia per nera viene criticata da tutti, mentre è proibito criticare un uomo che si presenta come donna o una donna che si presenta come uomo, ossia i transessuali. L'accademico britannico, a causa del cinguettio in questione, è stato immediatamente accusato di deridere i trans e, di conseguenza, ha provato a difendersi affermando: “Non intendevo discriminare le persone transgender. Capisco che il mio quesito accademico sia stato equivocato e me ne rammarico. Non era nemmeno mia intenzione allearmi con i bigotti repubblicani degli Usa che stanno ora cercando di strumentalizzare la questione”. Nonostante le precisazioni fornite da Dawkins, quel tweet gli è già costato la perdita del premio di "umanista dell'anno" conferitogli nel 1996 dalla American Humanist Association, associazione impegnata nella promozione del rigore razionalista nella società. Il riconoscimento in questione era stato attribuito al divulgatore britannico per il suo “significativo contributo” alla comunicazione di concetti scientifici tra l’opinione pubblica. In un recente comunicato, l'associazione americana ha motivato la revoca del premio a Dawkins puntualizzando: "Da vari anni Dawkins ha accumulato una storia di dichiarazioni che, sotto l’apparenza del dibattito accademico, sminuiscono gruppi marginalizzati, un approccio antitetico con i nostri valori umanisti. Il suo ultimo commento lascia intendere che l’identità di individui transgender è fraudolenta, attaccando al tempo stesso l’identità nera come qualcosa che si può assumere quando è conveniente. I suoi tentativi di chiarificazione sono inadeguati e non trasmettono né sensibilità né sincerità". Contro lo scienziato britannico si è schierata anche l'Associazione degli Atei Americani, con la sua presidente, la trans Alison Gill, che ha appunto tuonato: "Spero che il professor Dawkins tratti in futuro la questione con maggiore comprensione e rispetto". Le dichiarazioni sui transessuali erano costate a Dawkins feroci critiche già nel 2015, quando aveva rilasciato il seguente commento: “Una donna trans è una donna? Questione puramente semantica. Se la definisci in base ai cromosomi, no. In base all’auto-identificazione, sì. La chiamo con il pronome femminile per cortesia”.

Filippomaria Pontani per "il Fatto quotidiano" il 18 aprile 2021. "Stai in ginocchio, culona: mi fracassi i coglioni". Questo non è un euroleak di turbolente conversazioni diplomatiche del 2011, ma la didascalia di una scena erotica (una focosa penetrazione a tergo) rappresentata su un vaso di Gaio Valerio Verdullo, ceramista attivo nel Nord-Est della Spagna alla fine del I secolo d. C. Chi abbia letto il recente volume di Sarah Levin-Richardson Il lupanare di Pompei (Carocci 2020), denso di affreschi postribolari, fellationes e parolacce in area vesuviana (si ricorderà fra gli altri l' emistichio "voglio spaccare i fianchi di Venere", memore di Tibullo), non si stupirà certo della presenza di graffiti "sboccati" e di rappresentazioni esplicite di atti sessuali nella cultura visuale romana. Tuttavia il caso di Verdullo è particolare. Prolifico ceramista di vasi rossi a parete fina, Verdullo è un mezzo grafomane: non solo firma ostinatamente le sue creazioni, prodotte in larga parte dalla figlina de La Maja, poco lontano dall' odierna Calahorra (le campagne di scavo sono iniziate nel 1987, e i ritrovamenti proseguono fino a oggi un po' in tutta la valle dell' Ebro, con punte fino a Saragozza e Tarragona), ma soprattutto ama corredare di doviziosi commenti scritti le scene che rappresenta. Quelle erotiche, certo (in un' altra si legge "per quanto m' insegna la vecchiaia, questa maniera è la migliore": il vaso è rotto, ma sembra che la coppia fosse impegnata nel missionario), ma anche quelle di soggetto più neutro: su oggetti funerari non esita ad apporre un esplicito (e un po' epicureo) cave fossam! (attenti alla fossa, ndr), mentre quando, su decine di vasi, mette in scena i gladiatori in lotta o in posa da vincitori (mirmilloni, traci, oplomachi, reziarii), consegna all' eternità sia i loro nomi sia la data dei combattimenti sia gli sponsor - un po' come le sciarpe-souvenir che si portano via dallo stadio dopo una partita di Champions. Lo stesso vale per le gare del circo: molti vasetti destinati al consumo di vino (anzi, di quel miscuglio di vino e miele noto come mulsum) durante lo svolgimento delle corse recano i ritratti degli aurighi delle varie fazioni, tutti raffigurati di profilo tranne il vincitore, che è di faccia. (...) La Spagna di quest' epoca è infatti un luogo eccezionale: Verdullo è concittadino e contemporaneo di colui che diventerà il più importante retore (e pedagogista) della latinità, ovvero Marco Fabio Quintiliano; ma a cento chilometri da Calahorra sorge Bilbilis (oggi Calatayud), la cittadina dove proprio Marco Valerio Marziale nacque e visse prima e dopo i fasti dei suoi soggiorni romani, durante i quali conobbe ogni anfratto della società della capitale. Ecco allora che quando Verdullo parla di circo e di gladiatori in termini che ricordano il Liber de spectaculis dedicato da Marziale all' erezione del Colosseo (80 d. C.), o quando le scritte oscene dei vasetti mostrano qualche evidente eco dai fortunati epigrammi marzialiani (per esempio nella lapidaria sentenza pseudo-esametrica lascivae ludunt semper voluptate puellae; "le ragazze, lascive, giocano sempre per il loro piacere"), è difficile che si tratti di una coincidenza: Giulia Baratta (Università di Macerata), l' archeologa italiana che ha meglio studiato questi materiali e che insieme a Marc Mayer (Barcellona) ne sta preparando l' edizione, giunge a ipotizzare addirittura una parentela tra Verdullo e Marziale, che erano entrambi della gens dei Valerii. Ed ecco allora che non deve stupire che il sullodato "culona" sia detto con un prezioso aggettivo mai attestato (naticosa), né che quando su un vaso con il mito di Ippolito si legge vestigant canes ("i segugi cercano"), il riferimento testuale preciso sia alla Fedra di Seneca e alla scena molto pulp (e mai rappresentata altrove) in cui i cani rintracciano i brandelli del corpo del defunto Ippolito: forse la memoria di una rappresentazione della tragedia dell' andaluso Seneca in forma di mimo? Sesso, sport e letteratura, in un crogiolo straordinario - l' Iberia di questo scorcio di I secolo - in cui l' alto e il basso si contaminavano e in cui, secondo un grande imperatore spagnolo, "le scuole risentivano degli svaghi della provincia" (Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano).

Le sette vite di “Harlem”, film razzista girato dal fascismo e trasmesso in tv fino a trent’anni fa. Torna alla luce la controversa avventura di un kolossal di propaganda, antisemita e antiamericano, girato tra il ’42 e il ’43. Una pagina della storia del cinema da riscoprire. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 19 aprile 2021. Ci sono film che col tempo diventano la classica punta dell’iceberg. In superficie appare solo ciò che autori e produttori hanno deciso di mostrarci, intreccio e personaggi, testo e sottotesto. Ma in profondità balenano luci e ombre che una volta messe a fuoco raccontano tutt’altra storia. Una storia più tragica, più imprevedibile, soprattutto più vera. E mille volte più istruttiva di qualsiasi sceneggiatura. Anche perché destinata, nel tempo, a incrinare vecchie certezze e luoghi comuni. Dietro la sagoma sinistra di “Harlem”, kolossal di regime diretto tra il 1942 e il 1943 dal navigato Carmine Gallone, si intravede infatti un’epopea gloriosa e miserabile. Una saga in cui si riflette la fine di un’epoca popolata da protagonisti autarchici e maneggioni, da comprimari che tentano di afferrare la grande occasione, o almeno di portare a casa la pelle. E da un esercito di comparse, in senso letterale stavolta, prelevate senza tanti complimenti dal campo profughi allestito durante la guerra proprio a Cinecittà, l’unico luogo in cui allora si potevano trovare africani in abbondanza e a basso costo. In accordo con un progetto nato all’insegna del più sfacciato razzismo e antisemitismo, e di una campagna contro gli Usa che in quel fatidico 1943 si sarebbe rivelata un’arma a doppio taglio. A resuscitare quel film oggi noto solo agli storici, ma negli anni ’80 regolarmente proposto dalla Rai come innocua pellicola d’evasione, è Luca Martera, studioso, documentarista e soprattutto straordinario setacciatore di archivi, in un volume che farà discutere per la massa di documenti trascurati o addirittura inediti con cui illumina i retroscena di quel progetto che oggi riapre piaghe con cui non abbiamo mai fatto i conti davvero, a partire dal razzismo e dal periodo coloniale. Senza dimenticare la clamorosa lista d’epurazione compilata nel ’44 da un comitato in cui siedono fra gli altri Visconti e Mario Soldati, che vede fra i nomi da epurare anche Rossellini e Sergio Amidei, futuro sceneggiatore di tanti capolavori del Neorealismo (“Harlem - Il film più censurato di sempre”, La Nave di Teseo/Centro Sperimentale di Cinematografia, 352 pagine, 22 euro). Interpretato da divi dell’epoca come Amedeo Nazzari, Osvaldo Valenti, Vivi Gioi, Elisa Cegani più un esordiente Massimo Girotti, non ancora consacrato da “Ossessione” di Visconti, “Harlem” fu soprattutto fortemente voluto dall’arcifascista Luigi Freddi, potente Direttore generale della Cinematografia, fedelissimo di Mussolini dai tempi della Marcia su Roma e secondo alcuni storici coinvolto perfino nel delitto Matteotti. Fu Freddi infatti a mettere in cantiere questa storia di boxe e gangsterismo con match all’ultimo sangue fra un pugile italoamericano e un campione afro ambientata in una New York tutta ricostruita nel Teatro 5 di Cinecittà, quello che molti anni dopo diventerà la casa di Fellini, mentre per gli esterni vennero (autarchicamente) saccheggiati cinegiornali Usa, stando ben attenti a non mostrare mai la Statua della Libertà. Ed era stato sempre Freddi, ras dei telefoni bianchi e ispiratore dei film coloniali di impianto avventuroso-hollywoodiano girati negli anni ’30, “Equatore”, ”Abuna Messias”, “Lo squadrone bianco”, “Luciano Serra pilota”, a intuire il potenziale di quella vicenda ambientata negli Usa del 1935, dunque gonfia di allusioni alla guerra d’Etiopia e a un passato che il pubblico allora coglieva al volo. Dietro il match fra Girotti e un campione di colore c’era infatti il vero incontro per il titolo mondiale dei pesi massimi «tra il gigante in camicia nera Primo Carnera e l’afroamericano Joe Louis», disputato davvero allo Yankee Stadium nel giugno 1935, dunque alla vigilia dell’invasione italiana dell’Abissinia, con «tafferugli tra italoamericani filofascisti e neri di Harlem, appoggiati nella loro protesta anche da un gruppetto di fuorusciti italiani comunisti e antifascisti», come riassume Martera. Da qui alla scelta di rappresentare in tutto il film i tifosi afroamericani come belve schiumanti di rabbia contro gli italiani, soffiando sul fuoco di un razzismo che così trapassava in odio antiamericano, il passo era breve. Ma il bello, come il libro non smette di sottolineare, è che nelle recensioni dell’epoca, anche quelle firmate da nomi illustri come Giuseppe De Santis e Antonio Pietrangeli, futuri grandi registi, tutte puntualmente riportate, di questo non c’è quasi traccia. Come se il sottotesto politico, il razzismo trionfante, insomma il contesto più bruciante di quegli anni, fosse qualcosa che non meritava commento o che forse non conveniva sottolineare. Mentre era senz’altro più elegante (e meno rischioso) strapazzare il film per la sua scarsa finezza, sorvolando sul messaggio. Curiose omissioni, nota con malizia Martera, che del resto non perde occasione per sottolineare i tanti nomi illustri arruolati dal generalissimo Freddi nel suo kolossal di propaganda. Bocciato perché troppo cauto il primo soggetto di Steno e Lucio De Caro, che avevano retrodatato tutto al 1934, il plenipotenziario del duce nel cinema aveva infatti assunto come sceneggiatori un plotone di grandi firme, alcune delle quali piuttosto sorprendenti: da Emilio Cecchi e Giacomo Debenedetti (non accreditato per via delle leggi razziali) a Sergio Amidei, futuro sceneggiatore di “Roma città aperta” e “Ladri di biciclette”, celebre per il caratteraccio e per il cuore a sinistra, ma pur sempre sceneggiatore (svogliato, si difendeva lui) di film di ogni genere durante il Ventennio, spesso con l’aiuto proprio di Debenedetti che non potendo firmare faceva volentieri da “negro”, come si diceva allora (con attacchi furibondi sui fogli di regime anche a firma di Giorgio Almirante, futuro segretario Msi). Freddi infatti doveva compensare la ritirata strategica del più grande regista in servizio, Alessandro Blasetti, che con una lunga missiva tutta tormenti e salamelecchi riesce a sfilarsi in extremis da quel progetto imbarazzante. L’arrivo alla regia di un uomo per tutte le stagioni come Carmine Gallone, detto “Sciupone l’africano” per via di un altro kolossal di regime di scarso successo, taglia la testa al toro. Ma “Harlem” è solo all’inizio di un percorso imprevedibile. Ancor prima del suo arrivo in sala, il Minculpop cerca di bloccarlo, temendo un antiamericanismo che nella primavera del 1943 suona come minimo avventato, specie agli occhi di quella cospicua fetta di regime che sta già pensando a come scaricare Mussolini e gestire l’inevitabile disfatta. Sbloccato da Freddi con abili manovre di palazzo, “Harlem” esce finalmente il 24 aprile 1943. Il pubblico applaude, la stampa storce il naso ma solo un po’, intanto arriva il 25 luglio, Freddi viene arrestato ma viene rilasciato a settembre e prende la strada di Salò. Nel frattempo il film prosegue la sua marcia trionfale risultando il primo incasso nella stagione 1943-44, fin quando arrivano gli americani e con essi Pilade Levi, ebreo torinese fuggito negli Usa nel 1938 e ora sbarcato ad Anzio con il grande regista William Wyler. Alla testa della sezione cinema del PWB, la sezione stampa e propaganda delle forze alleate, il futuro capo della Paramount Italia sarà uno degli uomini chiave per la riconquista del nostro mercato nel dopoguerra. Per ora impone il sequestro di tutte le opere di propaganda e “Harlem”, che ha nel cast Osvaldo Valenti, chiacchieratissimo divo di regime destinato a essere fucilato dai partigiani, non sfugge alla mannaia. Siamo insomma al centro del vortice più torbido di un periodo che pochi, in seguito, avranno voglia di esplorare. Ma su cui Martera, che dal suo libro trarrà un documentario, continua a indagare. «Non è un soggetto locale ma una storia profondamente internazionale che coinvolge americani, tedeschi, inglesi. Solo che in Italia siamo seduti da decenni su miti e concetti invecchiati. Freddi è morto nel 1977, dopo aver ricominciato a produrre negli anni ’50 con Rizzoli, ma nessuno è andato a intervistarlo. Così come nessuno ha scavato davvero negli intrecci economico-politico-militari tra il Neorealismo e quel mondo cattolico americano che lo favorì in chiave anticomunista. O ha visto il famigerato “Piazza Sansepolcro” di Gioacchino Forzano, un concentrato di antisemitismo girato nel 1943 ma mai uscito e letteralmente sparito nel nulla». A differenza di “Harlem”, che nel ’47 tornò tranquillamente in sala dopo un robusto maquillage con il titolo di “Knock-Out” per favorire quei finanziatori che perfino nel periodo di Salò non avevano smesso di batter cassa. Oltre ai 30 minuti di tagli operati già nel 1944 per defascistizzarlo almeno un po’, il film fu infatti ampiamente ridoppiato. Anche se a ricordarci la continuità tra il Ventennio e l’Italia repubblicana, gli afroamericani che in originale avevano voci normali, nell’edizione del dopoguerra parleranno tutti come tanti zio Tom.

DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 18 aprile 2021. John Cleese si è scusato per aver preso in giro gli "inglesi bianchi" in un beffardo tweet nei confronti dell'attore dei Simpson Hank Azaria. Il signor Azaria, che è bianco ma interpretava il personaggio indiano Apu dal 1989, è stato oggetto di polemiche nel 2017 dopo l'uscita del documentario intitolato “The Problem with Apu”, diretto dal regista indiano-americano Hari Kondabolu. Recentemente Azaria si è scusato con "ogni singola persona indiana" per aver dato voce all'impiegato del Kwik-E-Mar, scaturendo un dibattito su come la figura di Apu avesse avuto un impatto sulla discriminazione della comunità indiana negli Stati Uniti. Il comico ha abbandonato il cartone animato nel 2020 in seguito alle accuse di razzismo riguardanti il suo personaggio. Il signor Cleese, il leggendario attore inglese celebre per i suoi ruoli in “Monty Python” ha preso in giro le sue scuse di Azaria, scusandosi per "qualsiasi angoscia" causata dal ritratto degli inglesi bianchi twittando: 'Non volendo essere superato da Hank Azaria, vorrei scusarmi a nome di Monty Python per tutti gli sketch dove abbiamo preso in giro gli inglesi bianchi. Ci scusiamo per l'angoscia che possiamo aver causato." In un altro tweet mercoledì sera, mentre il signor Cleese discuteva il fenomeno dell’emergenza della cultura "woke" ossessionata con il politcally correct, ha detto: "è Iniziata come una buona idea fondata sul concetto di “Siamo gentili con le persone "- ma è stata sopraffatta una massa di persone senza un senso dell'umorismo che prendono tutto alla lettera, ora è diventata un’idiozia atta a censurare le persone.”

Matteo Ghisalberti per "la Verità" il 17 aprile 2021. L'inizio del ramadan ha scatenato in Francia una tempesta in un bicchier d' acqua, quella della marca Evian. I produttori delle celebri bottiglie che rappresentano uno dei simboli del made in France sono stati costretti a scusarsi dopo un tweet che non è andato giù all'«islamosfera» che imperversa Oltralpe sui social network. Martedì pomeriggio, sull' account Twitter @evianFrance, è stato pubblicato questo messaggio: «ritwittate se oggi avete già bevuto un litro d' acqua!». Voler trovare in questo breve testo un contenuto islamofobo era un' impresa praticamente impossibile, eppure una parte degli utenti musulmani del social dell' uccellino si è sentita offesa. Il motivo? Martedì era il primo giorno del ramadan, il mese sacro dell' islam, durante il quale i musulmani non mangiano né bevono dall' alba fino a dopo il tramonto del sole. Non appena il messaggio ha iniziato ad essere ritwittato, in molti hanno accusato Evian di essere «razzista». Vari utenti, verosimilmente di fede islamica, hanno twittato messaggi inequivocabili: «perché proprio oggi? È pretestuoso» ha scritto uno. Un altro ha reagito invece dicendo: «Ecco perché non compro la vostra acqua puzzolente». C' è chi invece ha affermato con un tono velatamente minaccioso: «Oggi in Francia siamo milioni a digiunare, o no?». Un altro utente ha invece scritto: «state esagerando, è il ramadan». Oltre ai testi sono stati pubblicati vari tweet accompagnati dalle fotografie di due personalità francesi accusate - dalla sinistra e dalla galassia islamo-gauchista - di essere islamofobe se non addirittura fasciste. I due sono il giornalista e polemista Eric Zemmour e Jean Messiha, ex membro del Rassemblement National, il partito di Marine Le Pen. Va detto che il primo è di religione ebraica, il secondo è invece un cristiano ortodosso nato in Egitto e cresciuto in Francia, Paese del quale ha anche ottenuto la cittadinanza. Insomma, entrambi fanno parte di minoranze ma non piacciono al mondo dei giornaloni francesi e ai radical-chic della sinistra d' Oltralpe. Così essere associati a Zemmour e Messiha, significa finire su una lista di proscrizione. Di fronte al polverone alzato dal primo tweet, i responsabili del community management di Evian hanno pensato di dover rimediare allo scivolone. Così, qualche ora dopo, è apparso un nuovo messaggio su Twitter, nel quale si leggeva: «Buonasera, siamo il team Evian, siamo desolati per il tweet maldestro che non è un invito ad alcuna provocazione!». Dopo queste scuse non richieste, varie personalità della cultura e del giornalismo d' Oltralpe hanno sottolineato, più o meno ironicamente, l' assurdità della situazione. Tra questi, il filosofo Raphaël Einthoven che, va detto per capire meglio il suo messaggio, è di confessione ebraica. «Farò causa alla prima marca che mi parla di cibo nel giorno del kippur» ha twittato il filosofo. È stata più dura invece la giornalista di Le Figaro, Eugénie Bastié che ha postato questo messaggio «Evian si scusa per aver invitato a bere dell' acqua nel primo giorno del ramadan. Non si capisce cosa sia più desolante: le persone offese dopo il tweet iniziale o questa pietosa messa a punto che è un cedimento davanti al vortice vittimistico». La deputata europea Nadine Morano - appartenente al partito di destra Les Républicains - ha reagito ricordando che «al tramonto i musulmani bevono acqua durante il ramadan. Presentare delle scuse come fa Evian rappresenta una sottomissione inaccettabile nei confronti degli islamisti» e poi ha concluso con un' esortazione: «Non pensate solo ai soldi, pensate al vostro onore». La burrasca su Evian sembra essere passata ma non è da escludere che altre marche, d' ora in poi, faranno molta attenzione onde evitare di essere potenzialmente fraintese dai musulmani più ortodossi. La trama del libro Sottomissione di Michel Houellebecq sembra che stia trasformandosi in realtà al di là delle Alpi.

DAGONEWS il 20 aprile 2021. Malika Chalhy è finita al centro della scena mediatica perché insultata dai genitori, cacciata di casa dopo aver rivelato di essere lesbica. In diversi programmi, da Le Iene al Maurizio Costanzo Show, ha raccontato la sua storia che ha suscitato parecchia indignazione, è stata avviata anche una raccolta fondi che ha già raggiunto ben 130 mila euro. Una domanda sorge spontanea: che rapporti ha la ragazza toscana con la Match Picture, agenzia di management e ufficio stampa che fa capo a Giuseppe Carriere (storico amico del giornalista e autore Gabriele Parpiglia)? Malika li tagga per l'ospitata al Maurizio Costanzo Show, la pagina a sua volta rilancia articoli su di lei o il servizio de Le Iene che la vede protagonista. Stando alle nostre fonti le ospitate della Chalhy per ora hanno previsto solo un rimborso spese e non un vero cachet.

Chi è Malika Chalhy, la 22enne cacciata di casa dai genitori perché lesbica. Elisabetta Panico su Il Riformista il 15 Aprile 2021. La 22enne Malika Chalhy, originaria di Castelfiorentino, in provincia di Firenze, è diventata protagonista di un caso doloroso che sta avendo enorme attenzione mediatica. E’ stata brutalmente cacciata di casa dai propri genitori, con i quali ha sempre avuto un buon rapporto. Almeno fino al suo coming out: Malika è lesbica. Lo scorso gennaio i suoi genitori non le hanno più aperto la porta di casa. A suo favore si sono esposti anche personaggi noti del mondo dello spettacolo. Malika si è innamorata di una ragazza e a “causa” di questo amore da gennaio ormai non ha più un tetto sotto il quale dormire. I genitori si sono rifiutati di ridarle anche i vestiti lasciandola completamente sola, senza neanche una maglietta di ricambio. Nel tentativo disperato di ottenere qualcosa da indossare, Malika si è presentata sotto casa scortata dalle forze dell’ordine. Ma una volta bussato alla porta di casa, la mamma si è affacciata alla finestra e ha esclamato davanti al carabiniere: “Io non conosco questa persona“. Malika si descrive come una ragazza sensibile e caparbia, attaccata molto alla famiglia. Da sempre ha avuto un ottimo rapporto con i genitori, specialmente con la mamma e non si aspettava assolutamente una reazione del genere da parte della famiglia che, come ha detto alle telecamere de Le Iene, si è sempre fatta in quattro per lei. Malika, durante l’adolescenza, è stata anche fidanzata con un ragazzo, ma durante una festa ha incontrato quella che oggi è la sua attuale ragazza. Da subito ha capito di provare un sentimento diverso. Le due sono fidanzate dalla notte del 27 agosto, quando su una panchina si sono dichiarate il loro amore. Essendo ormai una coppia di fatto, era arrivato il momento per Malika di rivelare a tutti i suoi affetti di essersi innamorata di un’altra ragazza. La prima persona con la quale ha fatto coming out è la sua migliore amica Gaia, che la sta aiutando soprattutto ora che non ha neanche un letto. Anche quest’ultima e ha tentato di parlare con la mamma di Malika, che le ha detto che non si dovevano mai più far vedere, per nessun motivo al mondo. Per Malika, il momento di parlare con i suoi genitori per dire di essere gay, è arrivato dopo diversi tentativi sempre rimandati al “giorno dopo”. Poiché terrorizzata di parlare con i propri genitori, la ragazza ha scelto di fare coming out con una lettera nella quale chiedeva di starle accanto. Dunque ha scritto la lettera e l’ha lasciata nel cassetto della mamma, la mattina prima di uscire per andare a lavoro. Una volta tornata da lavoro però i genitori non le hanno aperto più la porta di casa. Da quel momento non ha più visto gli occhi della mamma né tantomeno ha avuto un abbraccio. Tra le tante note audio la mamma ha minacciato la figlia e la fidanzata, augurandole il cancro. Ora Malika è spaventata e non sa più come chiedere aiuto. La sua storia fortunatamente ha avuto un riscontro mediatico enorme e Malika, abbandonata dalla propria famiglia, sta trovando la forza di andare avanti grazie all’affetto che moltissime persone le stanno dimostrando. Ha ricevuto solidarietà anche da grandi personaggi, come Fedez, Elodie, Mhamood, Alessia Marcuzzi o Tommaso Zorzi. E’ stata ospite del Maurizio Costanzo Show. La cugina ha avviato una raccolta fondi su Go Found Me per aiutarla che ha già raggiunto una somma di oltre 120 mila euro. La ragazza ha fatto sapere che parte del ricavato lo donerà a diverse strutture che hanno bisogno d’aiuto proprio come lei.

Elisabetta Panico. Laureata in relazioni internazionali e politica globale al The American University of Rome nel 2018 con un master in Sistemi e tecnologie Elettroniche per la sicurezza la difesa e l'intelligence all'Università degli studi di roma "Tor Vergata". Appassionata di politica internazionale e tecnologia.

La raccolta fondi per la ragazza di Castelfiorentino. Il caso di Malika Chalhy, raccolti oltre 120mila euro per la 22enne cacciata di casa perché gay. Elisabetta Panico su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Dopo esser stata cacciata di casa, Malika Chalhy, 22enne, di Castelfiorentino, in provincia di Firenze, è rimasta senza vestiti né un tetto sotto il quale dormire. Con i pochi soldi che guadagna dal lavoro è riuscita a comprare due tute e un paio di scarpe. La sua storia è divenuta celebre in tutta Italia: è stata cacciata dai genitori perché è lesbica, e quindi per il suo rapporto con la sua fidanzata. Una raccolta fondi per aiutarla ha raggiunto oltre 120mila euro. Per fortuna Malika non è sola, come ha raccontato in un’intervista a Le Iene. Sta andando a dormire o dalla sua migliore amica o dalla sua attuale fidanzata. Nello stesso servizio, andato in onda il 12 aprile, Malika ha fatto ascoltare le note audio ricevute dalla mamma. Parole dure, troppo forti, soprattutto se dette da madre a una figlia. Malika ha raccontato di aver sempre avuto un ottimo rapporto con la madre, almeno fino al giorno del coming out. “Fai schifo, sei morta, meglio una figlia drogata che lesbica“, e ancora molte altre, urlate con odio. Dopo il vano tentativo dell’inviata del programma di parlare con i genitori di Malika, la giornalista ha ricevuto una chiamata del fratello della ragazza che ha aggiunto un’altra notizia, sconosciuta anche alla stessa protagonista della vicenda. I genitori hanno iniziato la pratica per il disconoscimento. La storia di Malika ha quindi avuto un riscontro mediatico enorme. Sono state innumerevoli le testate giornalistiche che hanno raccontato il caso e la ragazza ha ricevuto solidarietà anche da grandi personaggi, come Fedez, Elodie, Mhamood, Alessia Marcuzzi o Tommaso Zorzi. E’ stata invitata anche da Maurizio Costanzo, al suo programma serale Maurizio Costanzo Show. Lo stesso conduttore ha preso le difese della ragazza dicendo che lui “sarà sempre dalla parte di chi viene picchiato perché si bacia con un uomo o di una donna che viene cacciata di casa perché ama un’altra donna. Non è tollerabile che nel 2021 ancora devono succedere queste cose. A me dispiace molto per lei, ha solo 22 anni e spero che abbia la forza di reagire e vivere“. La ragazza ha lanciato un appello alla famiglia dicendo: “Fatevi aiutare, chiedete aiuto“. Per aiutare Malika, ormai rimasta senza neanche una maglietta di ricambio, la cugina ha creato una raccolta fondi su Go Found Me con la quale ha già raggiunto una somma di oltre 120 mila euro. La ragazza sottolinea che parte del ricavato lo donerà a diverse strutture che hanno bisogno d’aiuto proprio come lei.

Elisabetta Panico. Laureata in relazioni internazionali e politica globale al The American University of Rome nel 2018 con un master in Sistemi e tecnologie Elettroniche per la sicurezza la difesa e l'intelligence all'Università degli studi di roma "Tor Vergata". Appassionata di politica internazionale e tecnologia.

La vicenda. Chi è Malika Chalhy, la 22enne cacciata di casa dai genitori perché lesbica. Elisabetta Panico su Il Riformista il 15 Aprile 2021. La 22enne Malika Chalhy, originaria di Castelfiorentino, in provincia di Firenze, è diventata protagonista di un caso doloroso che sta avendo enorme attenzione mediatica. E’ stata brutalmente cacciata di casa dai propri genitori, con i quali ha sempre avuto un buon rapporto. Almeno fino al suo coming out: Malika è lesbica. Lo scorso gennaio i suoi genitori non le hanno più aperto la porta di casa. A suo favore si sono esposti anche personaggi noti del mondo dello spettacolo. Malika si è innamorata di una ragazza e a “causa” di questo amore da gennaio ormai non ha più un tetto sotto il quale dormire. I genitori si sono rifiutati di ridarle anche i vestiti lasciandola completamente sola, senza neanche una maglietta di ricambio. Nel tentativo disperato di ottenere qualcosa da indossare, Malika si è presentata sotto casa scortata dalle forze dell’ordine. Ma una volta bussato alla porta di casa, la mamma si è affacciata alla finestra e ha esclamato davanti al carabiniere: “Io non conosco questa persona“. Malika si descrive come una ragazza sensibile e caparbia, attaccata molto alla famiglia. Da sempre ha avuto un ottimo rapporto con i genitori, specialmente con la mamma e non si aspettava assolutamente una reazione del genere da parte della famiglia che, come ha detto alle telecamere de Le Iene, si è sempre fatta in quattro per lei. Malika, durante l’adolescenza, è stata anche fidanzata con un ragazzo, ma durante una festa ha incontrato quella che oggi è la sua attuale ragazza. Da subito ha capito di provare un sentimento diverso. Le due sono fidanzate dalla notte del 27 agosto, quando su una panchina si sono dichiarate il loro amore. Essendo ormai una coppia di fatto, era arrivato il momento per Malika di rivelare a tutti i suoi affetti di essersi innamorata di un’altra ragazza. La prima persona con la quale ha fatto coming out è la sua migliore amica Gaia, che la sta aiutando soprattutto ora che non ha neanche un letto. Anche quest’ultima e ha tentato di parlare con la mamma di Malika, che le ha detto che non si dovevano mai più far vedere, per nessun motivo al mondo. Per Malika, il momento di parlare con i suoi genitori per dire di essere gay, è arrivato dopo diversi tentativi sempre rimandati al “giorno dopo”. Poiché terrorizzata di parlare con i propri genitori, la ragazza ha scelto di fare coming out con una lettera nella quale chiedeva di starle accanto. Dunque ha scritto la lettera e l’ha lasciata nel cassetto della mamma, la mattina prima di uscire per andare a lavoro. Una volta tornata da lavoro però i genitori non le hanno aperto più la porta di casa. Da quel momento non ha più visto gli occhi della mamma né tantomeno ha avuto un abbraccio. Tra le tante note audio la mamma ha minacciato la figlia e la fidanzata, augurandole il cancro. Ora Malika è spaventata e non sa più come chiedere aiuto. La sua storia fortunatamente ha avuto un riscontro mediatico enorme e Malika, abbandonata dalla propria famiglia, sta trovando la forza di andare avanti grazie all’affetto che moltissime persone le stanno dimostrando. Ha ricevuto solidarietà anche da grandi personaggi, come Fedez, Elodie, Mhamood, Alessia Marcuzzi o Tommaso Zorzi. E’ stata ospite del Maurizio Costanzo Show. La cugina ha avviato una raccolta fondi su Go Found Me per aiutarla che ha già raggiunto una somma di oltre 120 mila euro. La ragazza ha fatto sapere che parte del ricavato lo donerà a diverse strutture che hanno bisogno d’aiuto proprio come lei.

Elisabetta Panico. Laureata in relazioni internazionali e politica globale al The American University of Rome nel 2018 con un master in Sistemi e tecnologie Elettroniche per la sicurezza la difesa e l'intelligence all'Università degli studi di roma "Tor Vergata". Appassionata di politica internazionale e tecnologia.

Giovanni Sallusti per "Libero quotidiano" il 15 aprile 2021. La cronaca non esiste più, esiste solo la propaganda, in questa versione peggiorativa dell' incubo orwelliano che sono i tempi in cui ci è dato vivere. Non è che il Media Unico politicamente corretto deformi la realtà, siamo oltre: non esiste nessuna realtà, se non quella che conferma i tic, le pose, l' ideologia perbene e pettinata del suddetto Media Unico. Prendete la storiaccia di Malika Chalhy, la ventiduenne di Castelfiorentino cacciata di casa perché lesbica. Insultata, minacciata di morte, diseredata. Tra il campionario offerto dai famigliari gentiluomini: «Se torni ti ammazziamo, meglio 50 anni di carcere che una figlia lesbica» (i genitori); «ti taglio la gola» (il fratello); «io non so chi sia questa persona» (la madre, dopo che la ragazza è tornata a casa in compagnia dei Carabinieri per ritirare almeno qualche effetto personale). Grande e sacrosanto baccano mediatico attorno a Malika, giustamente presentata a testate unificate come vittima di un'omofobia cieca, fanatica, bestiale. Scatta una gara di solidarietà tra i vip arcobaleno, la cantante Elodie lancia una raccolta fondi in sostegno della giovane che ha già superato i 30mila euro (applausi), Vladimir Luxuria definisce, con tutte le ragioni, «contronatura» i genitori che bandiscono la figlia, i sostenitori della legge Zan ne approfittano per inondare le agenzie di dichiarazioni sulla retriva e patriarcale inclinazione italica all' omofobia. Chi non resiste a buttarla direttamente in politica è Fedez, che nella veste di opinionista riesce a essere perfino più mediocre che in quella canora, e se la prende con «i vari Pillon, associazioni cattolico-estremiste, antiabortisti» (la colpa è di senatori leghisti e Chiesa cattolica, in sintesi). Tutto bene, anzi no, perché nessuno cita un lievissimo, infinitesimale dettaglio, quello per cui i famigliari di Malika, gli odiatori contro il diritto e perfino contro il proprio stesso sangue, sono di cultura islamica. Lo ha ricordato il portale FeministPost, non esattamente un covo di fascio-sovranisti. Che racconta come il padre si chiami Aberrazak e sia di origine marocchina, il fratello si chiami Samir, e soprattutto sul profilo Facebook del primo circolino foto di tutta la famiglia con le donne velate. Come riporta lo stesso sito, è impossibile stabilire il livello di ortodossia religiosa di quella casa, ma quel che è certo è che la tragedia di Malika ha come sfondo un contesto (pseudo)culturale musulmano. Spiace, editorialisti e musicanti che vi retwittate a vicenda, ma in questa storia inascoltabile non c' entra l' associazionismo cattolico, non c' entra nemmeno la tessera della Lega, c' entra invece quella che la grande scrittrice e dissidente somala Ayaan Hirsi Ali ha definito «la più pericolosa forma di omofobia ai giorni nostri»: quella «islamica». Del resto, per quanto non sia mai un tema gettonato negli appelli filo-gender della buona società nostrana, i gay vengono decapitati nella sunnita Arabia Saudita, impiccati nello sciita Iran, gettati dai tetti nei territori ancora controllati dall' Isis. Dove c' è Islam, spesso c' è persecuzione omicida e fondata teocraticamente delle persone omosessuali. Una lunga scia di odio, che può prolungarsi anche fino a un piccolo borgo sui colli fiorentini. Ma, statene certi, non arriverà mai sulle prime pagine dei giornaloni.

Dagospia il 16 aprile 2021. Da La Zanzara - radio24.ilsole24ore.com. Intervista bomba a La Zanzara su Radio 24 di Samir Chalhy fratello di Malika, la ragazza ventiduenne di Castelfiorentino cacciata di casa perché lesbica.Samir smentisce tutto quello che è stato detto finora e attacca la sorella: “Ha sputtanato la famiglia davanti a tutta la nazione per quattro note audio, non voglio rivederla”. “Non la voglio più vedere perché è un’infame, non perché è lesbica”. “La raccolta fondi l’ha organizzata lei prima di mettere il video, ha fatto tutto per soldi. Ha tradito la famiglia per denaro”. “Minacciata da mamma? Ma che dite? E’ uno sfogo di cinque secondi, mia madre non l’avrebbe mai toccata, non le avrebbe fatto niente, in 22 anni le abbiamo fatto solo del bene”. “Due giorni dopo il coming out ha chiamato le Iene e le portate sul posto di lavoro di mio padre, ha messo benzina sul fuoco, non ha dato tempo ai miei genitori di assimilare la cosa”. “Io non approvo, sarei stato più contento se fosse arrivata a casa con un ragazzo. Non è una dittatura. Ma le ho scritto: ti appoggio in ogni scelta, in ogni cosa”. “Sono libero di pensare e dire a mia sorella: non approvo, essere lesbica sarà una vita più tortuosa”. “Mia madre ha reagito male, quelle cose non si dicono, ma non l’avrebbe mai toccata. Certe cose si dicono anche per fare del male”. “Tagliare la gola? L’ho detto a Malika quando ha minacciato di venire a casa coi carabinieri e gli avvocati. Allora ho risposto: venite e vi taglio la gola, ma sono conversazioni tra fratello e sorella”. “Ho sempre detto e scritto a mia sorella che ero il suo bastone, che poteva contare su di me”. “Diffondere gli audio è la cosa più orribile che si possa fare” “Nessuno l’ha cacciata perché lesbica, è uscita una mattina per andare a lavorare e non è più tornata, ha cavalcato l’onda delle note audio di mia madre per raccogliere soldi. Non sono omofobo, stanno istigando all’odio contro di noi. I miei non l’hanno mai cacciata di casa, è una balla che ha detto lei”. “Mia madre spesso mi ha detto: come ti ho fatto ti disfò, come ti ho fatto ti disfò. E’ fatta così, ma non le avrebbe mai fatto nulla”. “Ha cavalcato le note audio di mia madre per intenerire la gente, è una furba, una viscida. Ma l’ha spiazzata su Italia 1 per farla infamare da un popolo intero”. “Non abbiamo nulla contro il fatto che è lesbica, puoi dirlo forte, ci siamo rimasti male, ma le cose sarebbero andate come per le altre lesbiche o gay, sarebbero andate bene. Ma uno non va via da casa, non chiama i carabinieri, le telecamere, aggrappandosi a quattro note audio”. “Noi islamici? Macchè, mangiamo anche i morti, la religione non c’entra nulla. manco mio padre è islamico”. "Per me è normale se lei è lesbica, è chiaro che ci vuole tempo per accettarlo. Se portava un ragazzo a casa ero contento al cento per cento". "Amore? Si è seduta sulla panchina con questa ragazzina, si sono guardate e le ha detto: sono innamorata di te. L'amore è altro". "Stanno istigando all'odio dandoci degli omofobi". “Lesbica? Due anni fa ha conosciuto un ragazzo e dopo dieci giorni voleva lasciare lavoro e famiglia. E’ fatta così”. “Siamo talmente violenti che mio padre dopo la tv si è sentito male, è svenuto. L’omofobia non c’entra nulla, il problema è una ragazza che registra la voce della mamma e la mette in diretta nazionale”. "Le denunce? Non mi importa, so quello che ho fatto e quello che ho detto". "Malika ha voluto speculare su questa cosa qui, voglio vedere quanto darà in beneficenza. A casa non ha mai tirato fuori un euro, servita e riverita, la conosco bene la mia sorella". "Ha sputtanato i miei genitori in tutta Italia per quattro messaggi".

Il politicamente corretto che indigna solo gli italiani. Francesca Galici il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. Se per una banalissima ironia sugli occhi a mandorla Striscia la notizia è finita nella polemica internazionale, quale sarà la prossima vittima? Che bell* l'Itali*! "Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori", si diceva un tempo. Oggi l'Italia, per la quale rivendichiamo il femminile, ma avremmo fatto lo stesso in caso di maschile, senza asterischi denigranti per la gloriosa lingua di Dante Alighieri, si è riscoperta come Paese dei politicamenti corretti. Lo hanno capito a loro spese i conduttori di Striscia la notizia, Michelle Hunziker e Gerry Scotti, nuovamente protagonisti delle cronache per essere finiti nel mirino dell'eccesso di politicamente corretto che da troppo tempo soffoca il nostro Paese. E, come se non bastasse, si sono (e ci siamo) dovuti sorbire la ramanzina dalla comunità social internazionale, tutto per una gag. Vecchia? Sì. Inutile? Anche. Offensiva? No.

La gag. Partiamo da un presupposto: il mondo si evolve e anche la lingua è giusto segua lo stesso corso. L'italiano è una lingua viva e lo dimostrano i cambiamenti avvenuti dal volgare di Dante ai giorni nostri. Ma esiste un limite tra evoluzione e senso del ridicolo e noi, purtroppo, lo stiamo valicando. Pensate che grave colpa possono aver avuto i conduttori di Striscia la notizia quando, nel lanciare un servizio riguardante Pechino, hanno storpiato la "erre" di Rai con la "elle", trasformandola in "Lai". Ma, colpa ancora più grave, hanno tirato gli angoli degli occhi per simulare i tratti somatici asiatici. Che affronto! Esiste un problema di razzismo contro gli asiatici? Sì. Ma la spasmodica ricerca da parte dei social dell'elemento sul quale montare la polemica per trovare i capri espiatori di una battaglia ideologica rischia di ridicolizzare la vera battaglia contro un'emergenza reale.

Lo stupore dei cinesi. Ma il problema, il più delle volte, siamo proprio noi italiani con la nostra smania esterofila. La generazione social trasmette continuamente sul web l'immagine di un'Italia retrograda, razzista, omofoba. Una narrazione, spesso viziata e appiattita proprio dal germe del polticamente corretto, che dà il diritto a perfetti sconosciuti stranieri di darci lezioni, com'è accaduto con il caso di Striscia la notizia. E noi? Gli italiani non hanno minimamente pensato di difendere due professionisti come Gerry Scotti e Michelle Hunziker, simboli impegnati in vere e importanti campagne sociali. Scorrendo i commenti sul post del profilo americano che ha rilanciato la polemica si scorgono tantissimi utenti italiani che si scusano per il comportamento dei conduttori. Italiani che puntano il dito contro due pilastri della nostra tv colpevoli solo di aver messo in piedi una gag che non faceva ridere. E ce lo dicono pure gli asiatici che quanto fatto da Gerry Scotti e Michelle Hunziker poteva essere solo tacciato di banalità ma non di razzismo. "Non mi sono offeso, per noi è uno scherzo", ha detto Leo Li ai microfoni di Striscia la notizia. Non un cinese qualunque, ma il direttore e co-fondatore del Centro culturale cinese di Milano. Se nemmeno i cinesi si sono offesi, perché si devono offendere gli europei o gli americani?

L'Italia (non) s'è desta. Allora iniziamo a smettere di parodiare l'accento romanesco. Finiamola di rappresentare i sardi come un popolo di pastori, i liguri come persone estremamente tirchie. Dobbiamo smetterla di ironizzare sui tedeschi che mangiano i crauti e i francesi che mettono la baguette sotto l'ascella. Perché continuiamo a stereotipare i campani come pizzaioli? Evviva le peculiarità che ci rendono unici, evviva il toscano senza la "ci" e gli occhi a mandorla degli asiatici! Ridateci la satira, la voglia di ridere e di prenderci in giro senza dover pesare ogni parola! Ridateci il sano e vero politicamente scorretto! Se ai tempi di Goffredo Mameli "l'Italia s'è desta", ora è tornata a dormire, travolta dalla deriva del politicamente corretto e succube della dittatura dell'asterisco.

Da rollingstone.it il 14 aprile 2021. Nelle ultime ore l’Italia è tornata a far parlare di sè nel mondo, ma non positivamente. Infatti una puntata di Striscia la Notizia è finita nel mirino di Diet Prada – uno dei più noti e influanti account Instagram del mondo con 2,7 milioni di follower, che si occupa di moda e gossip – per un siparietto in cui i due conduttori Gerry Scotti e Michelle Hunziker, introducendo una rubrica in cui si parla della sede Rai in Cina, si fanno gli occhi a mandorla con le dita e sostituiscono le “r” con le “l”.  “Gerry Scotti, ex membro del Parlamento italiano, e Michelle Hunziker, attrice e modella italo-svizzera, hanno iniziato deridendo la pronuncia cinese della lettera R, chiamando la rete ‘LAI’ invece di ‘RAI’. I conduttori hanno quindi continuato alzando gli angoli degli occhi alla maniera dei comuni gesti razzisti intesi a caricaturizzare i lineamenti asiatici. A un certo punto, con gli occhi alzati, Hunziker ha parlato in modo incomprensibile”, si legge nel post di Diet Prada. Che poi prosegue: “L’episodio è stato seguito da 4.662.000 spettatori secondo Auditel, società che misura i dati della TV italiana. Striscia la Notizia va in onda su Canale 5, un canale televisivo di Mediaset, società di mass media di destra di proprietà dell’ex premier Silvio Berlusconi”. Il post riprende anche alcune storie di Louis Pisano, scrittore e critico di moda statunitense che vive a Milano e che si occupa anche di questioni sociali. “Per favore, parla con tua madre. Questo è troppo”, scrive Pisano in una storia, taggando Aurora Ramazzotti. “È così disturbante che queste persone continuino a essere presenti su media seguiti da milioni e milioni di italiani che vengono influenzati e informati da questo tipo di comportamento”, continua. La polemica arriva solo pochi giorni dopo #CambieRAI, un’iniziativa organizzata da movimenti sociali e italiani di seconda generazione per protestare contro la frequenza e la normalizzazione del razzismo nella televisione italiana, dove compaiono di frequente cose inaccettabili come la black face e la n word.

(ANSA il 15 aprile 2021) "Come ha detto qualcuno, la denuncia fa più ridere del siparietto improvvisato dai due conduttori. Striscia non chiede scusa perchè è, e resterà, una trasmissione satirica e, come le trasmissioni satiriche e comiche di tutto il mondo, politicamente scorretta. Scorretta, ma non quanto le iniziative pretestuose di chi pensa di ricattare aziende e marchi internazionali". Così l'ufficio stampa di Striscia la Notizia in merito alle polemiche sorte dopo la puntata di lunedì 12 aprile quando lanciando un servizio sulla sede Rai a Pechino, Michelle Hunziker e Gerry Scotti hanno mimato gli occhi a mandorla pronunciando la lettera "elle" al posto della "erre". I due conduttori in un'intervista a "Il Corriere della Sera" hanno chiesto scusa dicendosi allibiti per gli insulti e le minacce subite a seguito della puntata.

Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera" il 15 aprile 2021. Un incubo. Così Michelle Hunziker descrive quello che lei e Gerry Scotti stanno vivendo da quando, a Striscia la Notizia , lanciando un servizio sulla sede Rai di Pechino hanno fatto gli occhi a mandorla e detto qualche parola con la elle al posto della erre. Ne è nata una bufera internazionale, specie dopo che il potente account Diet Prada, su Instagram, ha rilanciato la vicenda. Ieri in puntata, hanno ribadito che loro e Striscia sono contro ogni forma di razzismo. Ma, ammettono: «Aver urtato qualcuno ci fa male. Però quello che sta succedendo è spaventoso: un' ondata di odio strumentale».

Un passo alla volta. Da dove iniziamo?

H: «Dalle scuse. Le ho anche postate. Se capisci di fare male a qualcuno, la prima cosa è scusarsi, senza riserve».

S: «Lo faccio anche io: se ho involontariamente offeso la cosa mi fa riflettere. Ma che, in un momento così, si produca tanto odio mi allibisce. Non sono un ingenuo ma la violenza che si riesce a veicolare mi sgomenta».

Non immaginavate una simile reazione?

H: «Da 25 anni mi batto contro ogni discriminazione.

Ho dato vita a una fondazione che alimento con impegno e ho sempre comunicato l' importanza dell' inclusione. Poi succede una cosa così e non solo tutto sembra cancellato, ma da ore ricevo minacce di morte, messaggi in cui dicono di voler bruciare i negozi di mio marito Tomaso (Trussardi, ndr ). Dicono di boicottarlo, ci scrivono che dobbiamo morire noi, le nostre figlie. Un incubo. Tutto questo odio, poi, a cosa porta? A combattere per i diritti umani?».

S: «Sono avvezzo al bene e al male della vita, ma una cosa del genere non mi era mai capitata e mi lascia sbigottito».

Avete parlato di odio veicolato. In che senso?

H: «Ormai ci sono gli strumenti per indagare e sappiamo che ci sono gruppi specializzati che vogliono seminare odio e strumentalizzare certe tematiche per avere visibilità.

Questo deve essere chiaro. Succede spesso, a prescindere dal tema: l' importante è infondere odio. Tra l' altro, questi messaggi non sono quasi mai arrivati dalla comunità cinese, ma da chi per avere like cavalca l' hashtag del momento. E così siamo qui a parlare degli occhi a mandorla fatti da me e Gerry quando in Cina succedono cose inenarrabili, su cui ci dovremmo concentrare, se parliamo di diritti».

S: «Io ho diversi amici cinesi e nessuno mi ha detto nulla.Se ho offeso allora ho sbagliato, ma anche io vorrei dire di non lasciarsi strumentalizzare da chi semina odio. E di stare anche attenti all' obbligo del politicamente corretto che sta investendo la comunicazione: mi spaventa, suona di dittatura, di fascismo».

Ma le sensibilità sono cambiate. Davvero mentre facevate gli occhi a mandorla pensavate di urtare nessuno?

H: «Un secondo dopo ci siamo detti: avremo mica offeso qualcuno? La risposta è stata: ma nooo, si capiva che era un gioco, una cosa innocente. Non solo: io e mia figlia Aurora ancora di più, abbiamo gli occhi a mandorla. Mia mamma dice che è di famiglia, nel nostro dna perché avevamo un bisnonno asiatico. Mia figlia è stata oggetto di bullismo per questo, figuriamoci se pensavo che quel gesto potesse essere un' offesa. È surreale. Lo vedevo una caricatura, come quando imito il siciliano di Stefania Petix. La bellezza del mondo è nei colori».

C' è anche chi non ritiene la n' word un' offesa.

H: «Invece lo è. Altra cosa è giocare con una caratteristica. Abbiamo comunque sbagliato. Mi sono sempre schierata dalla parte dei cinesi, ora al centro di episodi di razzismo gravi. E sono donna: ho vissuto la discriminazione sulla mia pelle. Poi sono bionda e quindi scema, oca e anche iena ridens. So che c' è una differenza tra l' offesa e l' ironia. E mi fa arrabbiare che qualcuno possa brillare seminando odio. Stiamo vivendo un nuovo medioevo e la caccia alle streghe viene perpetrata da gente senza faccia».

S: «Per vent' anni sono stato descritto come il presentatore cicciottello e pelato. Abbiamo chiesto scusa. Ora speriamo ascoltino le nostre parole».

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 15 aprile 2021. Che cos'è Diet Prada, salito in questi giorni alla ribalta italiana per aver attaccato Striscia la Notizia e i suoi conduttori Michelle Hunziker e Gerry Scotti, e prima di loro Dolce & Gabbana qualche anno fa, costringendoli a cospargersi il capo di cenere di fronte a tutto il mondo? Quello che molti ritengono erroneamente il nome di una linea legata a Prada, in realtà, appartiene al sedicente "account Instagram più temuto dal mondo della Moda" ed è gestito da due trentenni, Lindsay Shuyler e Tony Liu. Incontratisi a lavorare dalla modista Eugenia Kim, hanno poi aperto - da principio anonimamente e per gioco - l'account Diet Prada su Instagram (strizzando l'occhio all'omonima azienda di moda ma anche alla Diet Coke). Il primo post risale al dicembre 2014 e nel 2016 l'account contava mille seguaci, aumentati poi esponenzialmente negli anni successivi sino a diventare i 2,7 milioni di oggi. Lo scopo che si prefiggeva inizialmente Diet Prada era quello di "sbugiardare" in tono irriverente i colossi della Moda rivelando le imitazioni più o meno palesi da parte dei marchi altisonanti ai danni di altri marchi altrettanto noti o di esordienti. La nuova borsa di X veniva messa a confronto con la borsa di Y, e così spolverini, bluse, accessori, abiti in passerella e via dicendo, massacrando spietatamente la creatività di stilisti e designer. Il gioco, rimasto anonimo fino al 2017 quando il sito indipendente The Fashion Law svelò chi erano le due menti dietro al sito, aveva spesso l'encomiabile valore di "servizio pubblico" nel momento in cui un celebrato stilista copiava un collega meno noto, donando a quest'ultimo visibilità e risonanza internazionale, nel caso volesse rivalersi contro il plagio. Oltre ad aiutare a spendere più oculatamente il proprio denaro. Con il passare del tempo, Diet Prada è divenuto sempre più politicizzato, tanto da cavalcare con fervore l'onda del movimento #MeToo ai tempi dello scandalo Weinstein, e nel 2018 la loro crociata politicamente corretta si scatenò contro tre spot pubblicitari di Dolce&Gabbana contenenti - a detta di Schuyler e Liu - stereotipi offensivi e macchiettistici nei confronti della cultura cinese. Travolti dalle polemiche innescate dal sito americano, che diedero il via a proteste e boicottaggi del marchio in Cina con conseguenti cancellazioni di sfilate-evento, i due stilisti italiani furono costretti a girare un video di scuse, mentre alcuni messaggi privati di Stefano Gabbana indirizzati a una collaboratrice di Diet Prada, nel quale il designer rispondeva con ulteriori offese alla Cina, venivano resi pubblici da Schuyler e Liu. Dolce&Gabbana ha successivamente citato in tribunale Diet Prada per diffamazione chiedendo risarcimenti faraonici: tre milioni di euro nei confronti dell'azienda, un milione nei confronti di Stefano Gabbana e oltre cinquecento milioni per i danni dovuti ai boicottaggi. Dopo i nostri D&G, ecco finire nel mirino di Diet Prada anche Striscia la Notizia, per una gag introduttiva al servizio di Pinuccio sulla sede Rai di Pechino, gag nella quale Michelle Hunziker e Gerry Scotti hanno preso in giro l'accento cinese con tanto di occhi allungati per imitare quelli a mandorla. Shuyler e Liu hanno pubblicato un post tacciando di razzismo la gag e tirando in ballo i trascorsi parlamentari di Scotti e Silvio Berlusconi proprietario di Mediaset ("azienda di Destra", cit. Diet Prada), che trasmette Striscia. Che c'entra tutto questo con la moda, che dovrebbe essere l'argomento principale del sito? Semplice, Michelle Hunziker è moglie di Tomaso Trussardi, la cui azienda - citata nel post in questione - è stata costretta a pubblicare un post di scuse, e la stessa showgirl un video nel quale ha mostrato rincrescimento per l'accaduto, corredandolo con queste parole: «Nella mia carriera vi ho sempre ascoltato con attenzione e ho imparato dai vostri feedback giorno dopo giorno. Sono profondamente dispiaciuta per ciò che è accaduto ieri sera e per tutte le persone che ho offeso. Non era mia intenzione farlo. Ribadisco che sono sempre stata contro qualsiasi forma di discriminazione. Grazie». Anche i duri e puri Shuyler e Liu hanno tuttavia dovuto confrontarsi con infuocate polemiche e accese controversie che hanno intaccato la loro attendibilità. Nella loro crociata antirazzista, hanno finito talvolta per ottenere l'effetto contrario. Come quando, scagliandosi contro la decisione di Gap di collaborare con Kanye West, criticatissimo da Shuyler e Liu per le sue simpatie pro-Trump, Diet Prada ha innescato una campagna denigratoria della linea di abbigliamento creata in tandem con il rapper. Danneggiando però in ultima analisi la giovane stilista anglo-nigeriana Molawola Ungulesi, alla quale West aveva assegnato il ruolo di design director per la partnership con Gap. Il mondo della Moda non pullula certo di giovani donne stiliste di colore, e i danni indiretti subiti dalla Ongulesi dopo gli attacchi di Diet Prada suscitarono l'indignazione generale, tanto da indurre Shuyler e Liu a cancellare senza spiegazioni il post denigratorio da Instagram e a pubblicarne su Twitter un altro di scuse rivolte alla stilista. Ma anche la scelta di Shuyler e Liu di collaborare con alcuni marchi in passato presi di mira, come Gucci o Ferragamo, divenendo così da censori integerrimi a "influencer retribuiti", li ha deprivati almeno in parte dell'aspetto di "terzietà" che li aveva fino ad allora contraddistinti, finendo tacciati di "incoerenza". "L'account Instagram più temuto dal mondo della Moda" è oggi sempre meno temuto, e ormai da molti giudicato "non attendibile". Nell'eterna tradizione di chi nasce incendiario e si avvia a morire pompiere.

Marina Valensise per “Il Messaggero” il 12 aprile 2021. Dopo i neri, le donne, gli omossessuali è il momento dei calvi. E col racconto di Julien Dufresne-Lamy, scrittore trentaquattrenne, colpito da precoce alopecia androgenica, salgono sulla rampa di lancio del grande lamento universale a scopo terapeutico che accomuna i frustrati, gli sbeffeggiati e l'infinita schiera dei vilipesi e offesi. Vittime del progressivo diradamento del cuoio capelluto, anche i calvi ormai possono rivendicare a testa alta le umiliazioni, i complessi di inferiorità, le frustrazioni inflitte dal mondo degli zazzeruti. Anche loro, hanno diritto al rispetto in nome della diversità, tricologicamente parlando. Non solo perché questa è la direzione di marcia del nostro mondo d'oggi, fondato sull'eguaglianza, la libertà e il rispetto dei diritti umani. Ma perché gli artifici della tecnica e della medicina estetica hanno fatto tali passi da gigante che, dopo le sessantenni botoxate, con labbra a canotto, glutei scolpiti e seni da ninfetta, ormai anche i calvi, i pelati integrali, i sor Maiolica come li chiamano a Roma, hanno la possibilità di contrastare il corso naturale della fisiologia. E forse sbaglia chi si ostina a ritenere che il calvo, lungi dall'essere un diverso, rappresenti un vantaggio nell'evoluzione della specie e addirittura l'acme della civilizzazione, rispetto ai primitivi con clava. È vero che l'alopecia androgenetica è causata da un eccesso di testosterone, il che forse non è senza rapporto con la buona reputazione della calvizie, simbolo di virilità e di autocontrollo, apprezzata addirittura in quanto afrodisiaco, donde la fortuna presso il genere femminili di molti calvi fieri di esserlo come Bruce Willis a Sean Connery, da Zidane a Jas Gawronski. Ma oggi giorno, e questo libro ne è la prova, inizia a serpeggiare l'idea opposta, e cioè che la calvizie possa essere anche l'espressione di un disagio dell'io, di un'inadeguatezza psicologica e morale, e addirittura di un'indifferenziazione di genere che rende problematica la stessa preferenza sessuale. Julien Dufresne - Lamy non ha dovuto scervellarsi molto per dimostrare questa tesi. Gli è bastato guardarsi dentro, ripensare alla sua infanzia di bambino delicato e ipersensibile, e raccontarne gli incubi da figlio di una madre alcolizzata e depressa, e da vittima di un padre maniacale, che lo costringeva a praticare ogni sport, cavallo, tennis, nuoto, vela, per poi arrendersi iscrivendolo a un corso di ceramica. Divorziati i genitori, il virgulto della famiglia disfunzionale abbandona l'idea di diventare magistrato o notaio, accetta la sua omosessualità e si mette scrivere. Ma è allora che inizia a perdere i capelli, e a cercare nella caduta il segno della propria inadeguatezza con tutti gli stratagemmi necessari a occultarla: lunghe sedute di posa allo specchio per creare con certe ciocche laterali un riporto strategico sul diradamento, uso della lacca per fissarlo al meglio, cura scrupolosa nell'astenersi da macchine decapottabili per evitare il vento e le gite al mare. Ma sarà solo la cognizione del dolore a spingerlo all'estrema ratio del trapianto. L'operazione, descritta minuziosamente in tutte le sue fasi, avviene in Turchia, a Istanbul, capitale contemporanea del turismo estetico, presso la clinica Elithairtransplant del dottor Abdulaziz Balwi, grande specialista della FUE, una tecnica di estrazione dei follicoli piliferi che vengono poi trapiantati uno per uno, con una penna speciale, nella zona della calvizie. È così che l'autofiction trova la sua epica e il senso di impotenza il suo riscatto, anche se alla fine, grazie alla gioia della ricrescita, Julien Dufresne-Lamy sente il bisogno di confessare di non aver fatto il trapianto per obbedire all'ideologia viriloide, ma solo per realizzare la sua personale rinascita, e raccontarla in prima persona per smantellare i costrutti identitari che ancora ci condizionano.

Da liberoquotidiano.it il 13 aprile 2021. Una vera e propria notizia: Lucia Annunziata ha redarguito Nicola Zingaretti. Proprio così. Su Rai Tre la conduttrice di Mezz'ora in più ha lanciato una frecciatina a quello che ancora chiama "segretario" del Partito democratico. Il motivo è spiegato dal Tempo che nell'edizione del 13 aprile ricorda come la Annunziata non abbia bacchettato il governatore del Lazio per "gli scandali", né "per la linea del partito", ma perché Zingaretti ha evocato il detto popolare "volere la botte piena e la moglie ubriaca". Per la Annunziata si tratta infatti di un modo di dire veteromaschilista, vecchio e politicamente scorretto. Quanto è bastato al dem per fare un passo indietro, parlando di "marito ubriaco". Spazio durante l'ospitata anche agli attacchi a Matteo Salvini: "Ha condiviso tutte le scelte del governo Draghi. La differenza è tra chi ha il coraggio di dialogare ma di assumersi responsabilità e la furbizia di chi gestisce il potere nel governo e poi va a fare demagogia nelle piazze a dire, avete ragione - ha attaccato nel salotto della Annunziata -. La demagogia cavalca i problemi, la bella politica deve avere il coraggio di assumersi le proprie responsabilità". E ancora: "Salvini e la Lega hanno condiviso tutte le scelte governo, quindi si assumano le loro responsabilità. O si fa come me che mi assumo le mie responsabilità: li ascolto, ma dico che riaprire sarebbe una catastrofe o si ha la furbizia di condividere le scelte e poi si va nelle piazze a dar loro ragione. La Lega deve decidere: non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca". "Per fortuna - a detta giusto di Zingaretti - il Pd non è un partito personale, che rischiano di diventare delle sette. Mi auguro che rimanga per sempre un partito plurale. Che ci siano delle aree è normale, la patologia è la gestione del potere, che è un problema. Se c’è la moria delle idee, se è solo gestione del presente, c’è epilogo non felice". Ma Zingaretti non si è dimesso da segretario proprio perché i dem pensavano solo alle poltrone?

Carlo Verdelli per il “Corriere della Sera” il 23 aprile 2021. Le metafore vanno tutte in direzione bellica. Guerra al virus. Battaglia sulle ripartenze. E mettiamoci pure la lotta nel fango per un diritto civile che renderebbe meno facile prendersela con chi ha l'unica colpa di non essere eterosessuale, e quindi non «normale», oppure disabile, e quindi «anormale». Questo principio è contenuto in un disegno di legge, che si chiama Zan dal cognome del suo relatore e che è rimasto impigliato nel passaggio di governo tra Conte e Draghi. Sul suo contenuto si sta consumando una tensione sotterranea ma crescente nella maggioranza, un braccio di ferro sull'identità dell'esecutivo non così trascurabile. Non è un tempo di pace quello che stiamo faticosamente vivendo. I partiti stentano a resistere alle sirene elettorali, per quanto lontane, e non perdono occasione per marcare il territorio. Eppure è proprio in questa stagione delicatissima che si stabilirà come saremo tra qualche mese, nei prossimi anni. In gioco ci sono decisioni cruciali. La più strategica riguarda i fondi attesi dall'Europa: a vantaggio di quale idea dell'Italia verranno ripartiti? Si punterà ad accorciare le distanze sociali, divaricate dalla pandemia, oppure si investirà di più sulle potenziali locomotive, sperando che trascinino il resto del treno? Due strade opposte, un bivio fatale per la politica, e per i cittadini. Che diritto hanno i diritti umani per infilarsi in una congiuntura tanto complessa? È l'argomento usato da Giorgia Meloni, leader del principale partito d'opposizione, quando dice che il Parlamento dovrebbe occuparsi di cose più importanti dell'omofobia. Sulla stessa linea, anche se con altri argomenti, Matteo Salvini, leader del principale partito di maggioranza (per i sondaggi, non per i voti del 2018): «Ognuno è libero di amare chi vuole e chi aggredisce va punito con forza, come già prevede il codice penale. La legge Zan è solo una battaglia ideologica che rischia di limitare la libertà di parola e di pensiero». Vero, e ci mancherebbe, che ognuno è libero di amare chi vuole, anche se rischia di fare la fine del cinquantenne picchiato ad Augusta perché gay, dei due ragazzi presi a schiaffi a Roma mentre si baciavano, della ventiduenne Malika di Castelfiorentino cacciata di casa quando ha confessato di essere lesbica («fai schifo, sei la rovina della famiglia»). Meno vero che una norma contro l'intolleranza possa limitare qualsivoglia libertà. Il deputato Alessandro Zan è del Pd. Il neosegretario del partito Enrico Letta gli ha appena ribadito il pieno sostegno, garantito anche dai 5 Stelle e dalle forze che sostenevano il Conte bis, durante il quale la legge era già passata alla Camera il 4 novembre 2020. Da allora aspetta di approdare al Senato. Ma nel frattempo il governo è cambiato, con la Lega dentro è un'altra cosa, e il caso Zan ha le caratteristiche per diventare una simbolica e insidiosa pietra d'inciampo. In un Paese che ha saputo imboccare strade molto più divisive, per le singole coscienze e per il clima generale dell'epoca (divorzio 1970, aborto 1978), sembrerebbe scontato offrire maggiori protezioni a chi viene emarginato, vuoi per inclinazione o scelta sessuale vuoi per fragilità fisica e psicologica. Paesi come la Francia ci sono arrivati nel 2004 (e governava la destra di Chirac), gli Stati Uniti nel 1974. Secondo uno studio di Vox, Osservatorio italiano sui diritti, le categorie più bersagliate dall'odio sono sei. Prima le donne (che meriterebbero un voluminoso corpo di tutele a parte); a seguire, ebrei e musulmani, migranti, omo e transessuali, disabili. Le minoranze religiose hanno lo scudo, almeno teorico, della legge Mancino del 1993; i migranti neanche quello, tolleranza sotto zero, per quelli che vengono dal mare come per i residenti senza l'onore della residenza. Quanto alle tre ultime fasce, ad altissimo tasso di vulnerabilità, le garanzie di incolumità e di pari trattamento sono generiche e in sostanza assenti, quasi che la relazione tipo, maschio-femmina-eventuali figli (e tutti in salute), fosse l'unica opzione prevista, lecita e benedetta. Nella vita reale non è più così da decenni, ma per il legislatore lo è ancora, con le diversità relegate a storture da sopportare con fastidio, o meglio da correggere, invece di considerarle come differenze da accogliere e rispettare. Il lodo Zan, il disegno di legge rimasto sospeso a metà, prevede più o meno questo: riconoscere l'esistenza di queste differenze, prendere atto della loro condizione di maggiore fragilità, e applicare delle aggravanti a chi ne attenti alla dignità. In aggiunta, consentirebbe un po' di educazione civica al rispetto, cominciando dalle scuole, rimettendo sulla via della tolleranza un Paese che al momento è al 35° posto in Europa per accettazione della vasta e variegata comunità non eterosessuale, cinque posizioni davanti alla Polonia di Duda, che ha appena vietato l'aborto, o all'Ungheria medievale di Orban. Il Rinascimento da tanti invocato, da ultimo proprio da Salvini («Stiamo lavorando a un'estate da boom economico, post bellica, l'inizio di un Rinascimento sociale e mentale»), non passa né da Budapest né da Varsavia. Ne siamo stati culla una volta. Peccato sarebbe lasciarlo sbocciare altrove. Del tunnel della pandemia si intravede la fine. Che però non è domani. Siamo terz' ultimi in Europa per vaccinazioni ai settantenni (peggio di Grecia e Portogallo) e con una media di più di 3 mila morti a settimana (contro i 200 della Gran Bretagna). Ma il Paese preme, la parte più rumorosa ha deciso che basta così, la parte più responsabile è angosciata dal dopo che verrà. E il dopo, l'Italia da ricostruire quando il fantasma del Covid sarà davvero alle spalle, passa anche dall'applicazione concreta, e adeguata ai tempi, dell'articolo 3 della nostra Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali». Un vaccino a copertura totale contro l'odio. L'omofobia, una voce per tutte, è una paura trasformata in aggressione. Una feroce paura verso chi è altro: gay, lesbo, transgender, bisex, disabile. Andrea Camilleri aveva trovato una buona formula per disarmarla: non bisogna mai temere l'altro, perché tu rispetto all'altro sei l'altro.

Perché il ddl Zan fa impazzire i Pillon d’Italia. Michela Murgia su L'Espresso il 12 aprile 2021. Il cuore del disegno di legge è la giornata contro le discriminazioni sessuali e di genere: a spaventare chi non vuole che passi è la condanna a scuola, non in tribunale. La coincidenza è curiosa, ma rivelatoria: mentre in Italia ci si chiede ancora se il disegno di legge Zan sia da considerarsi più o meno liberticida perché limiterebbe l’espressione di opinioni omotransfobiche, misogine e abiliste, Facebook quatto quatto cancella la pagina del Primato Nazionale, la voce di stampa di CasaPound. Era già successo con la rimozione della pagina di CasaPound stessa, di Forza Nuova e di vari dei loro esponenti, perché – testualmente – «le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram». I ricorsi delle due organizzazioni politiche hanno dato esito opposto: CasaPound ha vinto in primo grado, ma Forza Nuova ha invece perso e la sua pagina non esiste più. Bastano queste due sentenze opposte ad annunciarci quanto sarà complicata, se pure passasse, l’applicazione della legge Zan alla realtà delle persone, perché rivelano come l’obiettivo di questa battaglia alla fine sia più simbolico che pratico. Con il cosiddetto reato ideologico i tribunali sono stati infatti sempre più che garantisti, anche nei casi in cui la fattispecie era di un’evidenza accecante. A dispetto delle denunce che ogni anno vengono rivolte alle decine di neofascisti col braccio teso che vanno a celebrare i caduti della Repubblica di Salò, nessuno di loro è mai stato condannato per apologia. La legge Scelba, quella che dovrebbe impedire la ricostituzione del partito fascista, è stata applicata una sola volta con lo scioglimento dell’organizzazione Ordine Nuovo, mentre a CasaPound e Forza Nuova, pur ripetutamente denunciate per lo stesso motivo, nessun tribunale ha mai impedito di presentarsi alle elezioni ogni volta che lo abbiano voluto. Dati questi precedenti, le possibilità che un giudice riconosca il movente d’odio sono talmente basse che nella pratica non possiamo aspettarci che un balordo che picchi un omosessuale in quanto tale prenda un solo giorno di carcere in più di chi malmeni il suo vicino di casa per rumori molesti. Anche le sentenze sui moventi d’odio già inseriti nel codice penale – quelli della legge Mancino Reale, razzismo e antisemitismo – parlano chiaro: dimostrare che qualcuno agisca violenza per ragioni ideologiche è possibile solo se il movente era stato reso esplicito dal colpevole medesimo. Il caso oscuro, ma giuridicamente il più luminoso, è quello di Andrea Cavalleri, 22enne di Savona, arrestato a gennaio di quest’anno perché progettava attentati alle manifestazioni femministe e sulla rete si autodefiniva incel, celibe involontario, una categoria di uomini che sviluppano odio verso le donne per frustrazione sessuale. Se il ddl Zan fosse già legge, a quell’uomo sarebbe stato facile applicare l’aggravante per odio misogino, ma non mi vengono in mente molti altri casi in cui il colpevole vada in giro con un cartello incriminante così fluorescente. Perché dunque lottare per fare approvare una legge con così poche speranze di diventare uno strumento efficace di lotta ai crimini di odio? Perché i nomi delle cose sono importanti. Se non esiste uno strumento giuridico che nomini l’odio per le persone Lgbtq, per le donne e per i disabili, l’omobitransfobia, la misoginia e l’abilismo continueranno formalmente a non esistere e nessuno si porrà il problema di imparare a riconoscerne i segnali. Se continuiamo a discutere della necessità di riconoscere i marcatori attuali del fascismo, è perché la legge Scelba si trova ancora nel nostro codice ed esercita una silenziosa pedagogia sociale. Se siamo in grado di affermare che l’odio razziale è socialmente distruttivo è perché esiste la legge Mancino, altrimenti razzisti e antisemiti continuerebbero a poter dire - come oggi accade per le persone Lgbtq, le donne e i disabili - che l’odio razziale è un’invenzione dei neri e degli ebrei per capitalizzare sul vittimismo. Il vero cuore del ddl Zan è quello che istituisce una giornata nazionale di formazione istituzionale e scolastica contro l’odio verso gli orientamenti sessuali e di genere. È essere condannati a scuola, non in tribunale, che fa impazzire i Pillon di questo mondo.

La legge contro l’omofobia ci porterebbe fuori dall’inciviltà. Ma al momento è solo un sogno. Che ancora oggi si metta in dubbio la reale necessità del ddl Zan sembra fantascienza. Piergiorgio Paterlini su L'Espresso il 5 aprile 2021. La legge Zan? Cos’è? A cosa servirebbe? Dai, ditemi che è uno scherzo. Va be’, io abbocco sempre, mi conoscete, sono ingenuo e ci casco come un pollo e poi mi prendete in giro. Vi divertite così, pazienza. Ma questa volta no, dai. Questa è troppo grossa anche per me. Servirebbe una legge perché due uomini o due donne che si amano non vengano pestati per strada, in metropolitana, di giorno, di notte, in periferia o in peno centro, a Bologna o a Roma o a Napoli, in piazza o sotto casa, da un adulto fuori di testa, da un adulto apparentemente in sé, da una banda di ragazzotti, a pugni nudi o, per esempio, con un coltello in grado di squarciare la carne? Servirebbe una legge perché due uomini che si amano, due donne che si amano, due ragazzi che si amano, due ragazze che si amano non vengano insultati a scuola o ancora per strada, o con scritte sui muri o con infinite serie di post sui cosiddetti social? Dai, mi state facendo uno dei vostri soliti scherzi spazio-temporali. Sapete che le storie distopiche mi piacciono, ma so ancora distinguere fra una storia di fantasia e la realtà. In genere abbocco, ma questa volta no, questa volta è troppo grossa.

Sarebbe come voleste farmi credere che ci sono quelle che si chiamano chiese o fedi o religioni (dell’amore, in genere) che si rifiutano di benedire - con i loro arcaici riti - queste persone, queste coppie, queste famiglie, queste quello-che-vi-pare.

Sarebbe come voleste farmi credere che ci sono medici, psicologi, gruppi di autoaiuto che li “guariscono”.

Sarebbe come cercaste di farmi credere che ci sono testi o blog o forum in cui si parla di natura contronatura normalità anormalità.

Sarebbe come pensare fosse utile, magari cercate pure di farmi credere importante o addirittura indispensabile, che famosi calciatori o sportivi in genere, famose rockstar, attrici, blogger da milioni di follower, influencer, astri del cinema e della televisione dichiarassero pubblicamente di essere gay. Sarebbe come pensare che questo toglierebbe un mare di sofferenza a dei ragazzi come loro, farebbe risparmiare una montagna di tempo, e dubbi problemi paure. Sarebbe addirittura come pensare che una cosa così sarebbe importante per aiutare le loro famiglie, i compagni, i loro preti e professori a non discriminarli o peggio.

Ma dai. Ma chi potrebbe credere ancora a simili bestialità? Ditemi che vi siete inventati tutto. Anche questo Zan. Non avete molta fantasia, perfino sul nome potevate sforzarvi un po’ di più, questo sa di eroe di un vecchio fumetto. Mi fate davvero così citrullo? Già dal suono - Zan - si capisce che avete inventato tutto. Tra l’altro, ricordo di aver letto in Rete qualche riga su queste situazioni davvero ridicole. Le avrete pescate lì anche voi, e dove se no? Solo che io leggo mezza pagina poi ci mollo perché sono davvero così noiose, ma così noiose e insulse. Non è detto che sempre agli sciocchi piacciano le cose sciocche. Voi mi credete sciocco, e forse un po’ lo sono, ma le storie sciocche mi ammazzano di noia. Quelle storie di parlamentari che la menano per anni su delle cazzate così, che trovano mille scuse per rinviare e rinviare. Non è che mi irrito o mi arrabbio, muoio proprio di noia e lascio perdere. È la noia che vi ha fregato. Potete farmi credere qualunque cazzata, ma non deve essere noiosa. Sarò anche ingenuo ma non riuscirete a farmi bere che siamo improvvisamente precipitati tra quei buzzurri di italiani, ignoranti e razzisti, tra quei cavernicoli del ventunesimo secolo. Su, adesso dateci un taglio. Per fortuna, è da un pezzo che noi viviamo su Marte.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” l'11 aprile 2021. Questa tediosa storia della legge Zan, che dovrebbe tutelare i gay più di quanto già non siano protetti dal codice penale, sta diventando una pagliacciata. Confesso di non aver letto il testo integrale della nuova norma, essendomi annoiato a morte già a metà. Ma il senso complessivo l' ho percepito. L' intento dei compagni mi pare quello di punire severamente chi aggredisce gli omosessuali per il fatto che sono tali e quindi gli stanno sul gozzo, non si capisce perché. Si dà però il caso che già il codice penale non tollera la violenza contro nessuno, e la punisce severamente, a prescindere dalle preferenze sessuali di chi la subisce. E allora viene spontaneo chiedersi che bisogno ci sia di aggiungere un castigo speciale per chi abbia la cattiva idea di menare quelli che un tempo non era peccato definire froci o checche, fate voi. Se la legge è uguali per tutti, come è scritto in qualsivoglia tribunale della Repubblica, è ingiusto creare un articolo speciale, e discriminatorio, per difendere un cittadino italiano che, invece di amare (si fa per dire) una donna ama un tizio del suo stesso genere. Scusate, ma io non afferro il concetto. Quando mi trovo davanti a una persona, talvolta mi capita di pesarne l'intelligenza e il garbo, non mi sono mai chiesto quali fossero le sue esigenze carnali. Qualsiasi esse siano giuro non me ne frega niente. Sono affari suoi. Ammetto: sono abbastanza indaffarato a tenere a bada ciò che accade sotto le mie lenzuola, figuriamoci se ho tempo e voglia di occuparmi di quello che succede nel letto altrui. Non è importante, per carità. Ogni individuo è un pianeta a sé stante e ha il diritto di comportarsi, sia pure secondo le regole della civile convivenza, come gli garba. Se un maschio frequenta altri maschi o una femmina altre femmine, la cosa mi lascia nella più totale indifferenza. E ci mancherebbe altro. Poi so che fra gli umani abbondano i cretini che davanti a un gay arricciano il naso e manifestano in vari modi insofferenza o peggio. Ma è scontato che se il loro comportamento sconfina nella aggressività devono ovviamente essere repressi, in base alle disposizioni vigenti, più che sufficienti per tenere a freno gli abusi. Ciò detto vanno aggiunte alcune considerazioni. Nei rapporti sociali si registrano spesso fenomeni disdicevoli, ma non così gravi da richiedere l'intervento della magistratura. Mi riferisco al dileggio, agli sfottò che rientrano nel costume nazionale. Preciso. Gli interisti prendono sanguinosamente in giro i milanisti e viceversa, gli juventini vengono chiamati addirittura gobbi, se un soggetto si veste in modo stravagante o particolarmente volgare viene additato al pubblico ludibrio. Tutto questo è tollerato sia pure a fatica. Ormai i soli che non possono essere scherniti sono proprio i gay, quand'anche il loro modo di porsi talvolta, spesso, sia fuori dagli schemi usuali. Questo dimostra paradossalmente che gli omosessuali godano di un privilegio: chiunque può essere preso per il posteriore, anche il Papa o il presidente della Repubblica, tranne loro. Tanto è vero che perfino il vocabolario della lingua italiana è stato censurato in base alla intoccabilità dei gay, termine inglese dolce ma che ha lo stesso significato di pederasta, invertito eccetera. Ciò sconfina nel ridicolo. Se siamo convinti che la parità fra generi sia fuori discussione, occorre anche sopportare che il dileggio, la celia, lo sberleffo siano forme non condannabili - a chiunque siano rivolte - di comunicazione, per quanto aspre. Quando ero un ragazzino delle elementari, ero talmente magro che i compagni mi chiamavano scheletro. Avrei dovuto denunciarli? Non mi è mai passato per la mente. Ora che sono vecchio, continuo a essere magro e me ne sbatto. Onore ai froci e anche a noi che non lo siamo. Si lascino perdere i tomi di giurisprudenza.

Giuliano Guzzo per “la Verità” il 2 aprile 2021. Non serve essere grandi esperti di musica né dell'opera per sapere che le voci variano da una persona all'altra, ma soprattutto che sussiste una netta distinzione tra i sessi, con le voci maschili che vengono solitamente divise in tenore, baritono, basso e quelle femminili invece, di registro più acuto, in soprano, mezzosoprano, contralto. Bene, quest' arcinota distinzione va completamente abolita, rimossa, pena l'accusa di transfobia. Parola del queer Jessye DeSilva, attore e insegnante di canto che è convinto che la distinzione vocale non abbia ragion d'essere. Sul sito singinginpopularmusics.com DeSilva, che si definisce «un guastafeste del genere», ha infatti firmato un intervento dedicato proprio a criticare la distinzione tra le voci maschili e femminili, definita retaggio di quelli «cresciuti e socializzati in una società occidentale, suprematista bianca». Beninteso, lo stesso DeSilva si riconosce, anche se un po' vergognandosene, figlio del mondo occidentale che oggi attacca: «Io per primo non sono venuto a conoscenza dell'idea della fluidità di genere prima dell'età adulta, ma essa non è una "nuova tendenza", bensì rinascita di idee ed esperienze umane che esistono da quando esistiamo su questo pianeta». Un po' artista un po' antropologo, costui è tuttavia convinto che ora sia arrivato il momento di voltar finalmente pagina, se non si vuole rimanere ingabbiati in arcaiche quanto odiose discriminazioni: «La divisione dell'esperienza umana in "maschile" o "femminile" è un costrutto del colonialismo bianco tanto quanto lo è la razza». E questo, per venire al punto, vale anche per il canto. «Dobbiamo capire», argomenta DeSilva, «che ogni voce è diversa indipendentemente dall'identità di genere. I cantanti trans, intersessuali, non binari e persino cis hanno una diversa gamma di capacità vocali». In realtà si potrebbe far notare che è disonesto esaltare la differenza tra ogni singola voce - che nessuno peraltro ha mai discusso - per negare quella tra il canto maschile e femminile, frutto di differenze anatomiche rispetto a laringe e corde vocali. Anche perché far cantare un uomo come fosse una donna o viceversa, oltre che ridicolo, sarebbe musicalmente insostenibile. Tutte storie, secondo DeSilva, che invita tutti e tutte a «combattere l'elitarismo della comunità musicale», scardinando una «nozione obsoleta» come quella del «genere». Nel commentare questo ragionamento, posto che tale possa essere in realtà definito, sull'American Conservative Rod Dreher ha ironizzato: «Chi sei per dire a quel baritono con le tette che "lei" non sa cantare la parte di soprano? Bigotto!».«Questi progressisti rovineranno la musica per affermare la loro idea di giustizia sociale», ha poi aggiunto Dreher, sottolineando che il loro problema è quello di «rifiutarsi di vedere il mondo così com' è. Quando finirà tutto questo? Prima o poi succederà. Ma solo dopo molta follia e molta distruzione». Il canto transgender altro non è, dunque, che il canto del cigno occidentale.

Razzismo sul libro per bambini? L'editore sbotta: "Decontestualizzata una frase. Polemica inaccettabile". Il politically correct dei social si abbatte su un altro libro per bambini accusato di stereotipi sulla comunità cinese. La replica dell'editore. Francesca Galici - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. Ancora una volta un libro per bambini è finito nel mirino del politically correct per alcune frasi presenti al suo interno, che sarebbero veicolo di bullismo e razzismo per i più piccoli. Stavolta a puntare il dito, rigorosamente sui social dove è facile scatenare l'indignazione del politicamente corretto, è stata una docente e ricercatrice dell'università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il post è diventato rapidamente virale dando il via a una serie di commenti contro il volume, che ha ripreso il testo da una novella per bambini sulla quale, però, nessuno ha posto l'accento. Tutto nasce dalla segnalazione di Ilaria Maria Sala, che ha mostrato il fattaccio a Lala Hu, insegnante presso una delle più prestigiose università di Milano. Appurato il tutto, Lala Hu ha riversato la sua indignazione su Twitter, dove vanta un discreto seguito di follower: "'Non si offende quando la prendiamo in giro' che ne sa @GiuntiEditore del trauma dei bambini quando vengono bullizzati? A parte gli stereotipi sui bambini di origine cinese come esser bravi in matematica, “glazie, plego” e “facciamo plesto”? E comunque non si chiamerebbe Lee". Dopo il primo post, e dopo aver ringraziato per la segnalazione, visto il successo del suo tweet, nel pomeriggio Lala Hu ha aggiunto: "Non è la prima volta che i testi di didattica per bambini rappresentano una mentalità retrograda, talvolta sessista e razzista. Una causa può essere l’assenza di diversity nel settore editoria. Con questo tipo di narrazione, continueremo a vivere di pregiudizi e discriminazione". Ha risposto a numerosi commenti scaturiti dal suo tweet e in una delle repliche lasciate a un commento ironico, ha puntualizzato: "Se ci si informasse, si imparerebbe che la trascrizione fonetica di nomi e parole per la Cina continentale è stata modificata durante il secolo scorso, quindi il nome della bambina di questo brano dovrebbe essere Li al posto di Lee". Alla dottoressa Lala Hu, però, tramite il Corriere della sera ha replicato Stefano Cassanelli, editore del libro incriminato: "Sono esterrefatto. Ammetto che nel testo ci possano essere stereotipi sulla cultura orientale, ma a quel punto i rilievi andrebbero fatti all'autrice del libro, che è Paola Reggiani, che ha scritto 'Duccio e il mostro della musica telepatica', edito da Feltrinelli nel 2013, come noi riportiamo correttamente alla fine del brano". L'editore, quindi, spiega che "il testo è stato inserito nel volume Leggermente in quanto è il diario di un bambino, e il nostro intento era proporre delle attività sul diario, appunto: estrapoliamo brani di letteratura che possano aiutarci a far comprendere i concetti relativamente ai generi letterari presentati".

Stefano Cassanelli, quindi, non ci sta che un suo libro venga marchiato: "Ora che qualcuno, decontestualizzando completamente una frase dal resto del brano possa accusarci di fare apologia del bullismo, o di non avere empatia per i bambini bullizzati, come fa la professoressa, per me è inaccettabile e offensivo". Già in passato, per altro, i volumi Giunti sono stati messi sotto accusa: "Quando ci sono stati casi di testi effettivamente vecchi e discutibili, o quando ci sono stati errori, siamo stati i primi ad ammettere le nostre responsabilità e a intervenire. Ma in questo caso faccio fatica a trovare il problema". Infatti, come spiega Cassanelli, "il testo parla di un bambino che è innamorato della bambina cinese, e la racconta con leggerezza da bambino".

Il caso. La bimba orientale dice “Glazie, plego, facciamo plesto”: bufera sul libro per le elementari. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Aprile 2021. La bambina dai tratti orientali, Lee, dice nel testo  "glazie, plego" e "facciamo plesto". Ma soprattutto “non si offende mai quando la prendiamo in giro”. L’imbarazzante contenuto fa parte del sussidiario dei linguaggi "Leggermente plus", dedicato ai bambini delle ultime classi delle scuole elementari, dell’editore Giunti Del Borgo.

A sollevare il caso su Twitter è stata la docente di marketing all’Università Cattolica di Milano e scrittrice Lala Hu: “Che ne sa Giunti Editore del trauma dei bambini quando vengono bullizzati? A parte gli stereotipi sui bambini di origine cinese come esser bravi in matematica, "glazie, plego, facciamo plesto"? E comunque non si chiamerebbe Lee”. Secondo Lala Hu “non è la prima volta che i testi di didattica per bambini rappresentano una mentalità retrograda, talvolta sessista e razzista. Una causa può essere l’assenza di diversity nel settore editoria. Con questo tipo di narrazione, continueremo a vivere di pregiudizi e discriminazione”. Un caso che ha spinto lo stesso editore a reagire. “In questo caso faccio fatica a trovare il problema – spiega Stefano Cassanelli, editore di Giunti – Siamo attentissimi ai testi che possano generare obiezioni su questioni di genere, soprattutto” aggiunge e poi conclude “qui non ci vedo niente che abbia a che fare con il bullismo”, ha spiegato al Corriere della Sera. “Ammetto che nel testo ci possano essere stereotipi sulla cultura orientale, ma a quel punto i rilievi andrebbero fatti all’autrice del libro, che è Paola Reggiani”, ha replicato l’editore che ha pubblicato il libro. Non è la prima volta che viene sollevato un problema simile nei libri destinati ai piccoli studenti. Un episodio di questo genere era stato denunciato lo scorso settembre per una vignetta del  libro "Rossofuoco" di Ardea Editore, destinato alle prime tre classi di scuola primaria. In quel caso un bambino si avvicinava ad una bambina dalla pelle scura e le chiedeva: "Sei sporca o sei tutta nera?".

Da liberoquotidiano.it l'1 aprile 2021. Fermi tutti, perché Lilli Gruber così non la abbiamo davvero mai vista. Siamo abituati a vederla elegantissima, con look aggressivi, nel suo studio tendenza-sinistra, quello di Otto e Mezzo, il programma che alla sera, da anni, conduce su La7. E, insomma, non siamo certo abituati a vederla così come ce la mostra Chi, con l'ennesimo scoop fotografico del settimanale a tutto gossip diretto da Alfonso Signorini. Ecco Lilli la rossa impegnata a fare fitness, in bici, insieme al marito Jacques Charmelot. E vestita così come il fitness impone. Si scopre così una Gruber sportiva e molto muscolosa. Ma anche dolce: al termine dell'allenamento, la coppia viene paparazzata mentre si scambia un appassionato bacio, seduti su un muretto. Lilli sfoggia una giacca e pantaloncini cortissimi, che mettono in mostra le gambe atletiche, ai piedi scarpe da tennis. Insomma, lanciatissima in mountain-bike, e il fisico sta lì a dimostrarlo. Il tutto in una bella giornata di sole a Roma: la coppia si allena all'interno di un parco. E come detto, dopo la fatica ecco scoppiare la passione. Prima Lilli e Jacques si sdraiano su una panchina per prendere un po' di sole, dunque i baci, catturati dai fotografi del rotocalco. La Gruber e il giornalista francese si sono sposati nel 2000 e le indiscrezioni parlano di una coppia solidissima ed affiatata. Le foto di Chi altro non fanno che dimostrarlo: piena sintonia. E non solo sul fitness e la bicicletta...

Gruber e Boschi, chi di mascherina ferisce di mascherina perisce? Le Iene News il 09 aprile 2021. Lilli Gruber risponde a Filippo Roma a proposito delle foto con la mascherina abbassata, uscite dopo che, qualche mese fa, la giornalista aveva incalzato Maria Elena Boschi proprio per degli scatti con il compagno e la mascherina tirata giù. È finita al centro delle polemiche in questi giorni la conduttrice di “Otto E Mezzo” Lilli Gruber, dopo essere stata immortalata in una foto sul settimanale Chi mentre bacia il marito al parco con la mascherina abbassata. La giornalista è stata criticata dopo che, a dicembre, aveva incalzato l’onorevole Maria Elena Boschi su alcuni scatti pubblicati sempre dal settimanale Chi di effusioni con la mascherina tirata giù tra l’onorevole e il suo fidanzato. In quell’occasione avevamo assistito a un confronto senza esclusione di colpi tra Lilli Gruber e Maria Elena Boschi. Ma stavolta, a finire al centro dei riflettori è stata proprio la giornalista. Insomma, chi di mascherina ferisce di mascherina perisce? Così Filippo Roma è andato a chiedere spiegazioni alla giornalista. “Signora Gruber, pure lei mi è caduta sul bacio senza mascherina!”, dice la Iena alla giornalista. “No ma lei mi cade sul pisello scusi”, risponde la giornalista riferendosi alla frase leggendaria che è stata attribuita al mitico Mike Bongiorno durante il Rischiatutto, peraltro mai andata in onda. “Io stavo facendo sport isolata con mio marito”, risponde Lilli Gruber alla Iena. Ma anche la Boschi diceva di essere sola con il fidanzato. “Io stavo facendo sport ed è consentito fare sport senza mascherina, non stavo prendendo il sole”, dice la Gruber. Ma la Iena le fa notare che nella foto sembra che stesse prendendo il sole senza mascherina. “Stavo facendo gli addominali”, continua la Gruber. Quindi non possiamo dire che è stata un po’ severa con la Boschi? “No, non possiamo dire niente. Io faccio il mio lavoro come lei fa il suo”, dice alla Iena. “Pure lei è un personaggio pubblico”, dice Filippo Roma, “è il primo che deve dare l’esempio”, ripetendo testualmente la critica che qualche tempo fa in trasmissione la Gruber aveva rivolto all’onorevole Boschi. Ma questa volta la conduttrice è di diverso avviso: “Lei sta scherzando?”, risponde la Gruber. “Ma io do l'esempio, rispetto tutte le regole e non ho infranto nessuna regola chiaro?”. “Però”, fa notare Filippo Roma, “pure lei come la Boschi si è data il bacetto senza mascherina, ma va bene viva l’amore e abbasso le mascherine!”. “Ma no, ma no, lei non deve dire delle sciocchezze, sia buono dai”, dice la giornalista.

Francesca Michielin: "Bisogna parlare paritario. No a "la Gruber", sì a Gruber". Il tweet sulla parità di genere che la cantante ha pubblicato attraverso il suo account ha acceso una forte discussione sul web tra sostenitori e contrari. Novella Toloni - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. Di questi tempi cinguettare opinioni su Twitter può scatenare accese discussioni. È quello che è successo alla cantante Francesca Michielin reduce dalla partecipazione al festival di Sanremo in coppia con il rapper Fedez. Il suo tweet sulla parità di genere ha aperto un dibattito infuocato tra fautori del pensiero paritario e sostenitori di ben altre battaglie. Attraverso Twitter Francesca Michielin ha invitato i suoi follower a riflettere su quanto accaduto nell'edizione preserale del tg di Enrico Mentana in onda su La7. Il giornalista, prima di chiudere il telegiornale, ha annunciato i programmi seguenti, introducendo i colleghi: "Ora Gruber, poi Floris" . Nessun articolo, nessuna indicazione di genere. Una scelta quella di Mentana, voluta o casuale, che la cantante ha portato all'attenzione del popolo del web per parlare dei diritti paritari: "Mentana chiude il tg e dice "Ora Gruber, poi Floris". Non dice "La Gruber", non dice "Lilli" o "la nostra Lilli". Non è una cosa di poco conto: parlare in maniera paritaria è riflesso di un pensiero paritario e abbiamo bisogno anche di questo linguaggio per fare la differenza". Le parole della Michielin hanno infiammato la discussione soprattutto in un'epoca il cui il politically correct spunta da ogni parte e "non si può più dire niente che qualcuno si indigna", sbotta un utente sotto il tweet. E allora la polemica è servita. Se in tanti hanno sposato le parole dell'artista, per molti altri invece la discussione è fuorviante: "Però abbiate pazienza signore, certi automatismi sono complicati da cancellare, soprattutto nel linguaggio", "Io credo che conti più la sostanza della forma. Spesso parlare in maniera paritaria è frutto semplicemente di un politicamente corretto che lascia il tempo che trova". Fino ai commenti più diretti e polemici: "Le cose che fanno la differenza sono altre e non è certo dire sindaca o ministra o non mettere l’articolo", "Quindi abbiamo bisogno di togliere gli articoli femminili per fare la differenza??? Oppure mettere gli asterischi sull'ultima vocale che identifica il maschile dal femminile? siete da analisi immediata".

Enrico Mentana, "linea a Gruber". La frase del direttore e il commento della Michielin: robe da matti, scatta il delirio. Libero Quotidiano il 02 aprile 2021. Enrico Mentana ancora una volta sotto ai riflettori. Questa volta a elogiarlo è Francesca Michielin. La cantante reduce da Sanremo ha apprezzato le parole usate dal direttore del TgLa7 per congedarsi e passare la linea alla collega Lilli Gruber e, dopo ancora, a Giovanni Floris. "Mentana chiude il tg e dice ‘ora Gruber, poi Floris’. Non dice ‘La Gruber’, non dice ‘Lilli’ o ‘la nostra Lilli’. Non è una cosa di poco conto: parlare in maniera paritaria è riflesso di un pensiero paritario e abbiamo bisogno anche di questo linguaggio per fare la differenza". Insomma, per la Michielin una donna deve essere presentata allo stesso modo di un uomo. Ma se l'uscita, probabilmente non voluta, di Mentana è stata ammirata. Lo stesso non si può dire per la cantante. Sui social, dove ha cinguettato il suo pensiero, la Michielin è stata investita da pesanti critiche soprattutto in un'epoca il cui il politically correct spunta da ogni parte e "non si può più dire niente che qualcuno si indigna", sbotta un utente. "Però abbiate pazienza signore, certi automatismi sono complicati da cancellare, soprattutto nel linguaggio", spiega un altro mentre un internauta gli fa eco: "Io credo che conti più la sostanza della forma. Spesso parlare in maniera paritaria è frutto semplicemente di un politicamente corretto che lascia il tempo che trova". Ma c'è anche chi ci va giù più pesante: "Le cose che fanno la differenza sono altre e non è certo dire sindaca o ministra o non mettere l’articolo". E ancora: "Quindi abbiamo bisogno di togliere gli articoli femminili per fare la differenza??? Oppure mettere gli asterischi sull'ultima vocale che identifica il maschile dal femminile? Siete da analisi immediata", "Se dice ‘Gruber’ e non ‘la Gruber’ giova solo alla grammatica italiana, senza dover scomodare tanta filosofia". 

Da repubblica.it il 31 marzo 2021. "Professore, vorrei che lei non usasse con me il termine Sir o Mr quando si rivolge a me, ma usasse un termine femminile". La richiesta era arrivata da una studentessa transgender al corso di filosofia politica della Shawnee State University, ateneo pubblico nell'Ohio. Nicholas Meriwether, docente da oltre vent'anni, non conosceva la studentessa, che negli atti processuali è identificata come Jane Doe, ma non aveva avuto dubbi su come rispondere: non l'avrebbe chiamata Sir o Mr ma neanche Miss e non avrebbe usato altri pronomi femminili, perché i suoi convincimenti cristiani glielo proibivano. La storia risale a tre anni fa, ma adesso è diventato un caso legale negli Stati Uniti dopo che il giudice ha dato ragione al docente: potrà avviare causa di risarcimento danni contro l'Università che aveva minacciato di sospenderlo per essersi rifiutato di riconoscere l'identità di genere. La Corte di appello federale dell'Ohio ha riconosciuto a Meriwether il diritto a usare un termine neutro, in nome del primo emendamento della Costituzione americana, che sancisce la libertà di espressione e di religione. Il suo credo cristiano non permetteva al professore di "riconoscere un'identità biologica ritenuta falsa". Quello che poteva essere lo spunto per un confronto accademico in un corso di filosofia politica, è diventato il primo atto di una lunga disputa legale. La direzione dell'università aveva avviato un'indagine interna, durata un mese, al termine della quale era emerso come il corso fosse caratterizzato da un "ambiente ostile". Il board aveva inviato a Meriwether un avvertimento scritto, in cui lo minacciava di sospensione senza paga, se non avesse accettato di trattare da ragazza la studentessa transgender. Il docente si è ribellato e ha deciso di fare causa all'università, appellandosi al primo emendamento. In quanto cattolico, hanno sostenuto i suoi legali, doveva essere rispettata la posizione personale. Il giudice, Amul Thapar, nominato dall'ex presidente Donald Trump, gli ha dato ragione. Nella sentenza, composta da trentadue pagine, si sottolinea come la posizione di Meriwether rappresenti un caso perfetto di libertà d'espressione. "Se i professori non potessero avere questo diritto quando insegnano - ha spiegato il giudice - un'università potrebbe costringerli a sottomettersi dal punto di vista ideologico. "Nessuno - ha commentato un legale della Alliance Defending Freedom, che ha difeso il docente - dovrebbe essere forzato ad abiurare il proprio credo solo per conservare il posto di lavoro". Per alcuni, la sentenza segna la "vittoria della libertà di espressione". Per altri, è un passo indietro nel rispetto dell'identità di genere, proprio nell'epoca in cui per la prima volta nella storia americana una transgender, la psichiatra Rachel Levine, è entrata a far parte di un governo federale, come vicesegretario per la Salute. Gli effetti della sentenza verranno misurati in altri casi legali. In Virginia un insegnante di francese ha fatto causa al liceo: è stato licenziato perché si era rifiutato di usare pronomi maschili nei confronti di una ragazza avviata alla transizione di genere.

Antonio Calitri per “il Messaggero” il 29 marzo 2021. Dopo il cinema, la letteratura e le statue, la decolonizzazione della cultura arriva alla musica. E parte dalla Gran Bretagna, e da una delle istituzioni accademiche più prestigiose del mondo come l' Università di Oxford. Qui infatti per i corsi musicali che partiranno con il nuovo anno accademico, quando probabilmente si tornerà in presenza, i professori dell' accademia inglese stanno lavorando a numerose modifiche in chiave politicamente corretta dei programmi e dei metodi di insegnamento, e tra gli aspetti più eclatanti c' è il ridimensionamento dello spazio da dedicare ai grandi musicisti classici occidentali: meno Mozart, meno Beethoven, meno Bach. Non solo, ma si ipotizza anche l' eliminazione degli spartiti musicali, visto la musica scritta è considerata una pratica esclusivamente occidentale e dunque colonialista. L' escalation delle proteste del movimento Black Lives Matter, è particolarmente sentita in un paese diventato potenza mondiale grazie allo sfruttamento delle colonie e della schiavitù come la Gran Bretagna. Così la pressione sulle università perché modifichino i loro insegnamenti decolonizzando i corsi di studi, ridimensionano o addirittura cancellando autori e opere considerate suprematiste e aprendo alla cultura di autori di colore, sta facendo strada. Secondo un' indagine effettuata lo scorso anno dal quotidiano The Guardian, 24 delle 128 università britanniche ha già provveduto ad aggiornare gli studi in questa direzione. Un' operazione che non sta mancando di suscitare forti proteste da una parte degli accademici così come è avvenuto all' inizio di quest' anno all' università di Leicester dove diversi professori si sono dimessi dopo che sono stati rimossi dai corsi di inglese medievale testi come I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer e il poema epico anonimo Beowulf, con la professoressa Isabel Armstrong dell' Accademia Britannica che ha polemicamente restituito il suo dottorato onorario. Al di là delle rimostranze individuali però, il movimento continua ad avanzare e a piegare le istituzioni alle sue idee. E se il mese scorso proprio il professor Vincent Gillespie dell' Università di Oxford, ha organizzato una protesta di 18 borsisti di studi medievali all' Accademia Britannica per denunciare a livello internazionale quanto è accaduto a Leicester, spiegando che «una laurea inglese sarebbe materialmente impoverita escludendo così tanta letteratura», adesso l' ondata del corretto ha investito proprio la sua università. A partire proprio dai corsi di musica. Secondo i documenti che dichiara di aver letto il quotidiano The Telegraph, la musica insegnata ad Oxford è stata ritenuta dallo stesso collegio dell' università il prodotto di una concezione colonialista dell' arte, troppo concentrata sulla musica europea bianca del periodo degli schiavi». E gli stessi spartiti sono considerati un «sistema rappresentativo colonialista» e uno «schiaffo in faccia» ad alcuni studenti. Per tutte queste ragioni non saranno più obbligatori i vari Mozart e Beethoven, che comunque verranno affiancati da sempre più musicisti di origine coloniale. A partire da personaggi come Joseph Boulogne, violinista e compositore francese di origine africana vissuto nel Settecento. Inoltre perderanno l' obbligatorietà anche alcune abilità come quella di suonare la tastiera o dirigere un' orchestra perché incentrate su repertori di «musica europea bianca» che causano, «un grande disagio agli studenti di colore» anche perché, come conclude un report interno, «la maggior parte dei tutor per le tecniche sono uomini bianchi». Ma cosa si studierà ad Oxford dal prossimo anno accademico, nel tempo che verrà sottratto ai classici europei, agli spartiti e alle abilità che in qualche modo si possono ricondurre alle tradizioni bianche? Tra i nuovi generi destinati sicuramente a conquistare spazio ci sono innanzitutto l' hip hop e il jazz. E poi, nelle proposte in valutazione ci sono gli studi delle musiche africane, le musiche popolari e le musiche globali.

Mozart troppo bianco e Beethoven invece era troppo... nero. Musica tra bufale e suprematismi: la riflessione dopo la smentita dell'Università di Oxford. Ugo Sbisà su La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 aprile 2021. Se Mozart può creare imbarazzo per il suo essere troppo marcatamente «bianco», di Beethoven è stata troppo a lungo tenuta sotto silenzio la componente... nera! Ora che la notizia diffusa dal britannico Telegraph - e ripresa con una certa enfasi anche in Italia - si è ridimensionata e che l’Università di Oxford ha negato di aver mai messo all’indice (almeno ufficialmente) lo studio di Mozart in quanto compositore in grado di creare «imbarazzo» negli studenti extraeuropei (ma resta aperta la questione suprematista sulla notazione...), qualche riflessione diventa necessaria anche per capire dove ci stia portando la follia del «politically correct». È notizia tutto sommato recente quella che in alcune accademie musicali americane sia stato suggerito di non eseguire più composizioni definite nei titoli come «danze negre» (povero Gottschalk...) perché, al di là del loro eventuale, intrinseco valore musicale, sarebbero rievocatrici dell’epoca dello schiavismo e risulterebbero offensive per i cittadini afroamericani. Per lo stesso motivo, ci si è spinti oltre, arrivando a ritenere che persino i celebrati Children’s Corner del francese Claude Achille Debussy sarebbero una pagina sconveniente: la raccolta pianistica include infatti Golliwog’s Cakewalk, il cui titolo fa rirerimento a una danza di schiavi in voga negli Stati Uniti fra il Sette e l’Ottocento. E l’elenco potrebbe proseguire a lungo, abbracciando la storia, il cinema, la letteratura e tutte quelle espressioni, quegli eventi che fino a oggi abbiamo considerato fondanti della nostra civiltà, della storia del pensiero occidentale. Tornando a Mozart, vera o falsa che sia la notizia, la sua circolazione la dice lunga su molte cose, a cominciare appunto dalla profonda crisi di identità che affligge l’emisfero occidentale, che da una parte professa il credo dell’inclusione, ma poi invece finisce per escludere. In questo caso, anziché aprire allo studio - tecnico e teorico - dei linguaggi di derivazione extraeuropea, si «impoverisce» quello che appartiene al Dna del Vecchio continente in una sorta di assurdo mea culpa, quando invece basterebbe vedere quanti interpreti di origine afroamericana o mediorientale, dalle leggendarie cantanti liriche Shirley Verrett e Leontyne Price al pianista iraniano Ramin Bahrami, si siano misurati con autori lontani mille miglia dalle radici dei loro paesi di nascita, ottendendo risultati eccezionali. E Beethoven nero? Una provocazione ovviamente, ma fino a un certo punto: «Beethoven era nero», fu infatti uno degli slogan della protesta afroamericana degli Anni ‘60 che domandava provocatoriamente di quale fama il compositore avrebbe goduto nella storia della musica se mai avesse avuto la pelle scura. Una provocazione, ma non solo, considerato che c’è persino chi si è spinto a sostenere che il volto del musicista avesse dei tratti irregolari vagamente negroidi, arrivando persino a ipotizzare che i suoi avi fiamminghi potessero essersi meticciati con donne di colore. (Del resto, non era forse nero Alexandre Dumas, il «padre» di D’Artagnan? E in quanti lo ribadiscono?). Ma su «Ludovico Van» (chi ha l’età per ricordare Arancia Meccanica capirà il nomignolo), c’è una storia molto piùsuccosa che riguarda una delle sue pagine più note, ovvero la Sonata per violino e pianoforte in la maggiore n. 9 op. 47, universalmente nota come Sonata a Kreutzer e immortalata anche dall’omonima novella di Lev Tolstoj. Il suo titolo originario era di Sonata mulattica, perché Beethoven la compose e la dedicò a George Bridgetower un violinista di padre europeo e madre africana col quale la eseguì anche in pubblico. I due furono in grande amicizia, fino a che le attenzioni di entrambi non ricaddero sulla stessa fanciulla, che però ebbe il torto di preferire il violinista. La qual cosa indusse Beethoven a cambiare rabbiosamente la dedica in favore del virtuoso francese (bianco) Rodolphe Kreutzer che però si rifiutò sempre di eseguire l’opera, giudicandola incomprensibile. Di quella dedica originaria non si parla frequentemente; in questo caso però l’imbarazzo non sta nell’evitare di imporre un suprematismo bianco, ma nel rimuovere accuratamente un... elemento nero. Un motivo in più per considerare certe sortite in apparenza «politicamente corrette», come frutto di una inutile, ma forse comoda ipocrisia.

"La mia cagna", Instagram rimuove il post di Icardi. Wanda lo difende. È finita nel peggiore dei modi la polemica sul post in cui il calciatore ha chiamato "cagna" la moglie. Instagram ha rimosso il contenuto e Wanda si è vista costretta a giustificarlo. Novella Toloni - Sab, 03/04/2021 - su Il Giornale. "La pubblicazione infrange le nostre norme comunitarie in materia di molestie e bullismo". Ci ha pensato Instagram a mettere la parola fine (forse) alla polemica sul post-scandalo pubblicato da Mauro Icardi negli scorsi giorni. Il celebre social network ha rimosso la foto in cui il calciatore del Psg definiva "cagna" la sua compagna Wanda Nara. Tutta colpa della traduzione dello spagnolo all'italiano della frase a descrizione del post ("Mi perro e mi perra"), che non lo ha risparmiato dalle critiche e dalla censura del web. La scelta di Mauro Icardi di pubblicare uno scatto di lui insieme a sua moglie Wanda e al cane di famiglia ha procurato non pochi grattacapi al campione. La traduzione del post, infatti, ha fatto finire nel mirino delle critiche l'ex centravanti dell'Inter. "Il mio cane e la mia cagna", non è infatti piaciuto al popolo del web e neppure a Wanda Nara che, tra le prime a commentare il post, ha replicato al marito con un laconico: "Come sei divertente". Migliaia i commenti accumulatisi sotto al post in pochissime ore tra frasi ironiche e pesanti critiche nei confronti di Icardi. Una polemica infuocata a tal punto da indurre molti utenti a segnalare il post e a convincere Instagram a rimuovere la foto dal profilo dello sportivo per "molestie e bullismo". La descrizione dello scatto, per i vertici del popolare social, avrebbe infranto le norme comunitarie e quindi da sottoporre a censura. È stato Mauro Icardi a spiegare l'accaduto nelle sue storie Instagram dopo che i follower avevano pensato che a cancellarlo fosse stato lui stesso dopo le numerose critiche ricevute. In difesa del marito è arrivata però Wanda Nara che, attraverso il suo account personale, ha risposto alla domanda di un utente, che le chiedeva se fosse stata lei a "denunciare" Icardi al celebre social network. Replica pubblica e difesa servita: "Io no. Lui scrive in spagnolo e non è responsabile della traduzione in altre lingue. Mai per una persona come Mauro cane/cagna potrebbe essere un insulto perché lui ama troppo gli animali. Alcune persone sono troppo ridicole". Peccato che Wanda sia stata la prima a commentare in modo non troppo divertito e felice il post del marito.

Mahmood nella bufera, difende il Ddl Zan ma scatena le ire Lgbt: essere gay non è una scelta. Giulia Melodia sabato 3 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Mahmood difende il Ddl Zan ma scatena le ire del mondo Lgbt: non deve dire che essere gay è una scelta e che, a volte, ci si nasce. È un decalogo complesso, quello dell’universo arcobaleno. E guai a uscire dal seminato di regole e precetti che ne disciplinano appartenenza e manifesto. Peggio mi sento se poi, in giorni come questi, in cui giovani artisti e proseliti del rito omotransgender, si sono scatenati a protestare contro la diffidenza, a partire dalla tempistica, di parte del parlamento nei confronti del disegno di legge sull’omofobia. Che, invece, Pd, Movimento 5 stelle, Italia viva, gruppo Misto e quello delle Autonomie, chiedono che venga calendarizzato a breve. Un tema divisivo che ora, dunque, rischia di spaccare lo stesso universo Lgbt che ne rivendica l’urgenza, in spregio di problemi impellenti su cui il Paese attende da troppo risposte e risoluzioni. E così, dopo gli interventi di Elodie e Fedez, anche Mahmood ha fatto la sua parte. Tuonando a sua volta contro un ulteriore rinvio della discussione parlamentare, prodromica all’approvazione della legge contro l’omotransfobia. E in un’intervista a Repubblica, in linea con chi lo ha preceduto, inveendo a sostegno della necessità urgente di una norma che disciplini e sanzioni la situazione, richiama al centro del dibattito le recenti aggressioni denunciate da coppie omosessuali e rileva: «Che ancora una norma così manchi nell’ordinamento italiano è semplicemente allucinante. Da vergognarsi». E fin qui, tutto come da protocollo. Nella stessa intervista, però, Mahmood si abbandona anche ad altri rilievi. Compiendo il passo falso che la comunità Lgbt – se non unanimemente, comunque in buona parte, almeno stando ai social – non gli perdona. Quando, commentando l’affermazione secondo cui la legge Zan negherebbe la possibilità di criticare l’omosessualità, il cantautore dichiara: «È giusto che accada. Chi è contro l’omosessualità, cioè dice di esserlo o addirittura passa all’azione, va punito. Essere omosessuali è una scelta indipendente e libera, a volte ci si nasce proprio». Apriti cielo: dalla volta arcobaleno piovono strali. Le cui bordate deflagrano anche sui social. Dove gli utenti bersagliano il malcapitato artista di tweet e post al vetriolo. «Dite a Mahmood che non si sceglie di essere omosessuali o eterosessuali», esordisce qualcuno. Che poi prosegue: «Nessuno si sveglia al mattino per decidere se essere attratto da uomini, o donne, o da entrambe». L’orientamento non si sceglie, sottolineano a gran voce gli internauti furibondi scesi online sul piede di guerra. «Mahmood ha le idee molto confuse sull’omosessualità. Troppo confuse. Forse fare una chiacchierata con la sua amica Elodie gli farebbe bene», twitta qualcun altro. E giù con sberleffi e reprimende che inchiodano il cantautore, facendo addirittura retrocedere il senatore leghista Pillon, bersagliato dalle critiche per aver definito la discussione sul ddl Zan «non prioritaria», al secondo gradino del podio delle invettive.

Per non offendere gli islamici adesso si censura pure Dante. "In Dante, Maometto subisce un destino crudo e umiliante, solo perché è il precursore dell’Islam". È un caso la nuova traduzione politicamente corretta della Divina Commedia di Dante che circola in Belgio e Olanda. E dalla Germania danno al poeta del "plagiatore e arrivista". Roberto Vivaldelli - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. Dante "rivisto" in Belgio e Olanda per non offendere gli islamici e attaccato duramente da un giornale tedesco. Mentre oggi in Italia si celebra il Dantedì, la giornata nazionale dedicata al Sommo Poeta Dante Alighieri (1265-1321), in Belgio e Olanda una nuova traduzione in fiammingo politicamente corretta della Divina Commedia evita di citare il nome del Profeta dell'islam, Maometto, per non offendere gli islamici. Dante, infatti, lo colloca tra i seminatori di discordie della IX Bolgia dell'VIII Cerchio dell'Inferno, la cui pena consiste nell'essere fatti a pezzi da un diavolo armato di spada. Maometto compare nel Canto XXVIII, vv. 22-63, e appare tagliato dal mento all'ano, con le interiora e gli organi interni che gli pendono tra le gambe. Il caso, riportato dal quotidiano belga De Standaard, e citato dal giornalista Giulio Meotti nella sua newsletter, fa discutere: nella traduzione in fiammingo dell’opera, a cura di Lies Lavrijsen, il nome di Maometto viene infatti rimosso per per non essere "inutilmenti offensivi", come ha sottolineato l’editore Blossom Books. Come sottolinea l'editore Myrthe Spiteri, che ha rimosso i riferimenti al Profeta dell'Islam, "in Dante, Maometto subisce un destino crudo e umiliante, solo perché è il precursore dell’Islam". Trattasi dell'ennesima - e questa sì, umiliante - sottomissione culturale dell'Occidente all'Islam, che rinuncia ai suoi maestri - come Dante - pur di non rischiare di offendere gli islamici. Sottomissione dettata non solo da un atteggiamento ma anche dai numeri: a Bruxelles i musulmani sono il 25,5 % della popolazione, in Vallonia il 4,0 % mentre nelle Fiandre il 3,9%, mentre nei vicini Paesi Bassi i musulmani rappresentano il 4,9% della popolazione. Come nota Avvenire, va sottolineato che la posizione di Dante nei confronti della cultura arabo-musulmana è molto complessa e comporta una fitta serie di scambi, come ha documentato fin dal 1919 lo studioso e sacerdote spagnolo Miguel Asín y Palacios nel classico L’escatologia musulmana nella Divina Commedia. Sul tema interviene l'eurodeputata della Lega, Silvia Sardone: "Oggi è la Giornata nazionale dedicata a Dante, il sommo poeta. Purtroppo in Europa invece di celebrarlo si arriva persino a censurarlo. In Belgio, infatti, una nuova traduzione dell’Inferno della Divina Commedia di Dante, tradotta in fiammingo, ha rimosso Maometto per non essere inutilmente offensivi" osserva l'esponente del carroccio. "Ma per i buonisti di oggi bisogna cancellare persino la storia della letteratura. Dante, per qualcuno, è razzista, islamofobo e poco inclusivo. Ma ci rendiamo conto? In un’Europa sempre più sottomessa agli islamici, si arriva a fare le pulci a una pietra miliare della nostra storia, alla più grande opera mai scritta in italiano. Il tutto per non urtare i musulmani, ormai sempre più padroni a casa nostra. Nulla che sorprenda, sottolinea Silvia Sardone, "visto che alcuni estremisti di un gruppo salafita tentarono anni fa un attentato nella chiesa di San Petronio a Bologna dove c’è un affresco di Maometto all’inferno".

L'attacco shock della Germania a Dante. E nel giornata in cui si celebra Dante, dalla Germania, e in particolare dal Frankfurter Rundschau, in un articolo a firma dello scrittore e commentatore Arno Widmann, arriva un incredibile e sconcertante attacco contro la figura di Dante e contro l'Italia. Secondo lo scrittore, in Italia oggi si celebra un poeta medievale "anni luce dietro a Shakespeare", egocentrico e arrivista, che ha poco a che fare con la nascita della lingua italiana. Widmann osserva, fra mille inesattezze, che "l’Italia lo loda perché ha portato la lingua alle altezze della grande letteratura: si è costruito la lingua per la sua opera e da questa lingua è nata la lingua dei suoi lettori e poi dell’Italia". Per lo scrittore tedesco Dante è un plagiatore: secondo Widmann, infatti, meglio "non fare un torto a Dante, sottovalutando la sua spregiudicata ambizione", perché in realtà "potrebbe aver sognato, col suo viaggio cristiano nell’Aldilà, di fare un colpaccio ai danni del poema arabo". Come riporta La Repubblica, Widmann riprende la tesi - smentita - dello studioso spagnolo Asín Palacios, il quale nel 1919 affermò che la Divina Commedia si basava su un poema mistico arabo in cui si narra l’esperienza dell’ascesa al Cielo. Accuse shock alle quali il ministro ai beni culturali Dario Franceschini replica con un tweet: "Non ragioniam di lor, ma guarda e passa" ,afferma l'esponente del governo Draghi, che cita il terzo canto dell'Inferno per replicare, nel giorno del Dantedì, all'attacco a Dante Alighieri da parte del giornale tedesco Frankfurter Rundschau.

Napoleone, l’ultima vittima della cultura della cancellazione. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 22 marzo 2021. La furia iconoclasta degli indefessi guerrieri della cultura della cancellazione (cancel culture), dopo aver colpito i Padri fondatori degli Stati Uniti, Leopoldo II in Belgio e le grandi opere letterarie e artistiche dell’antichità greco-romana, ha trovato un nuovo nemico: Napoleone. L’imperatore francese, le cui doti di condottiero e il cui impatto culturale senza tempo sono riconosciuti universalmente da due secoli, è entrato nel mirino dei cultori dell’antistoria perché sarebbe stato un’icona del suprematismo bianco, nonché un genocida e un sessista, perciò chiedono alle autorità francesi di de-sacralizzarne la figura e annullare il bicentenario della sua morte, che cadrà il prossimo 5 maggio.

La Francia divisa. Quest’anno, 2021, ricorre il duecentesimo anniversario della morte di uno dei più grandi condottieri di ogni tempo: Napoleone Bonaparte. Le sue gesta sono conosciute in tutto il mondo, la sua esistenza ha cambiato profondamente il corso della storia in quattro continenti (Europa, Asia, Africa, Americhe), il suo nome è sinonimo di grandezza e la sua memoria continua a influire mitopoieticamente sul modus cogendi et agendi degli inquilini dell’Eliseo, da Charles de Gaulle a Emmanuel Macron. Napoleone, nel 2021 come nel 1821, continua ad essere ritenuto l’uomo che la Provvidenza avrebbe inviato alla Francia per ricordarle di essere stata predestinata alla grandeur universale ed è colui che, più di ogni altro, ha tentato di esportare l’idée française nel mondo. A lui una parte del pianeta deve il proprio Codice civile, a lui gli Stati Uniti devono la Louisiana ed è sempre a lui che i latinoamericani devono (indirettamente) l’indipendenza. Alcuni segnali, però, lasciano presagire che l’epoca della mitizzazione imperitura sia giunta al termine. I festeggiamenti per il bicentenario della morte dell’imperatore, infatti, stanno venendo macchiati e investiti dal moto polemico degli attivisti francesi della cultura della cancellazione, tra i quali risalta la professoressa franco-haitiana Marlene L. Daut. La Daut, che il 18 marzo ha firmato un editoriale per il New York Times dal titolo “Napoleone non è un eroe da celebrare”, ha messo a conoscenza il pubblico mondiale del dibattito che sta dividendo la Francia e lo stesso mondo politico. Hubert Védrine, ministro degli esteri durante l’era Chirac, ha suggerito di “commemorare, ma [di] non celebrare”, mentre l’attuale titolare del Ministero per le Pari opportunità, Elisabeth Moreno, ha criticato la decisione della presidenza Macron di organizzare il bicentenario perché l’imperatore sarebbe stato “uno dei più grandi misogini della storia”. Nessuno è stato più critico, però, della professoressa Daut, la quale ha attaccato sia l’attitudine di Macron nei confronti della cultura della cancellazione, verso la quale si è mostrato intransigentemente ostile sin dagli albori, sia l’aver voluto dedicare l’intero 2021 ad un “tiranno, un’icona del suprematismo bianco […] un architetto del moderno genocidio e […] un razzista, un sessista e un despota”.

Argomentazioni fallaci. L’invettiva della Daut è dura e debole al tempo stesso. Dura nel modo in cui inveisce con fare umorale contro la memoria del fu imperatore, tentando di sminuire l’effettivo impatto dell’età napoleonica, debole perché l’intero editoriale è sorretto da sofismi ingannevoli soltanto per i digiuni di storia e di facile confutazione per chiunque abbia una conoscenza approfondita dei fatti. Qui non si contestano la storicità del Napoleone saccheggiatore e le violenze delle truppe francesi ad Haiti, ma si chiede onestà intellettuale alla professoressa. Perché gli insegnanti sono chiamati a istruire, ma lei sta circuendo, cavalcando l’onda dell’iconoclastia antioccidentale del momento e approfittando dell’ignoranza e della malleabilità psicologica dell’ascoltatore medio. Napoleone non è stato né più né meno depredatore, despota e tiranno degli omologhi a lui contemporanei, essendo stato un figlio legittimo del suo tempo, e men che meno può essere considerato un proto-nazista o un suprematista bianco – perché mancano, molto semplicemente, tutti i caratteri ideologici utili a farlo rientrare all’interno di tali categorie. Sbarcò ad Haiti per ripristinare il controllo sull’isola, facente parte dell’impero, e non per sterminare la popolazione. Ed è verità storica, oggettiva e comprovata, che furono gli haitiani – non i francesi – a servirsi del genocidio per raggiungere l’uniformità etnica, uccidendo tra i 3mila e i 5mila coloni francesi nel solo 1804, per un totale di 25mila durante l’intero periodo della rivoluzione (1791–1804). Altrettanto illogiche e prive di evidenze fattuali sono le accuse riguardanti l’utilizzo di camere a gas ante litteram da parte dei francesi durante la campagna haitiana. La Daut non presenta prove a supporto delle proprie accuse (gravissime), ma si limita a rilanciare una tesi pseudostorica formulata da Claude Ribbe nel libro “I crimini di Napoleone” (2005) e ampiamente smentita già all’epoca. Secondo Ribbe, un attivista di estrema sinistra di origini creole, i soldati francesi avrebbero impiegato anidride solforosa per gassare 100mila haitiani durante la repressione dei moti antischiavisti, ma le ricerche successive degli storici hanno confutato per intero l’impianto accusatorio e determinato la caduta nel dimenticatorio dello stesso autore.

Dalla parte di Napoleone. Commemorare un personaggio storico non è mai stato così complicato e divisivo come nell’epoca della cultura della cancellazione. Tutti peccatori e con una trave nell’occhio, ma nessuno che voglia desistere dallo scagliare la pietra o che voglia smettere di guardare la pagliuzza altrui. Maddalena, se fosse vissuta oggi, sarebbe stata lapidata – e Cristo con lei: questo è più che certo. Questa, invero, è l’epoca delle crocifissioni in rete, del decisionismo umorale,  dell’indignazione facile e della storia piegata ad uso e consumo di finti letterali e intellettuali di superficie che desiderano eliminare dai libri, dai musei e dalle piazze ciò che conoscono a malapena e/o che non riescono a digerire. I dittatori del pensiero unico, che riscrivono i libri nello stesso modo in cui manipolano i dizionari, credono fermamente nell’applicazione rigida e rigoristica dei canoni di pensiero e valoriali dell’attualità ai fini della valutazione dell’importanza storica e della misurazione della fibra morale di personaggi del passato. In sintesi, si tratta di giudicare delatoriamente con il metro etico del 2021 dopo Cristo gente potenzialmente vissuta nel 2021 avanti Cristo: un’operazione più che folle, fraudolenta, perché nessuno sarà in grado di sopravvivere a questa stagione di iconoclastia in salsa liberal. Cancellare la storia non condurrà alla nascita di società giuste, tolleranti e pluralistiche, ma nutrirà le brame di revisionismo storiografico dei cultori dell’intolleranza e avrà effetti devastanti sulla “preparazione al mondo” delle future generazioni, le quali sperimenteranno una vera e propria amnesia collettiva a causa di un’ignoranza totale di ciò che le circonda e delle loro origini. Perché il passato è la chiave per la comprensione del presente e per la pronosticazione del futuro, ma è anche un contenitore di memorie ed una sorgente di identità, perciò avallarne la riscrittura ex novo o la cancellazione in toto dovrebbe essere ritenuto e giudicato per quello che è effettivamente: un crimine contro il buonsenso che verrà pagato a caro prezzo dalla nostra posterità.

Roberto Vivaldelli per ilgiornale.it il 16 marzo 2021. L'obiettivo è chiaro: imporre la neo-lingua del pensiero unico progressista a tutta la macchina burocratica dell'Unione europea, adottando un linguaggio cosiddetto "inclusivo" e rispettoso delle minoranze etniche e di genere (Lgbt). A denunciare l'ultima folle deriva del Parlamento europeo è stata per prima Simona Baldassarre, medico, europarlamentare della Lega e Responsabile del Dipartimento Famiglia del Lazio. Come riporta Libero, infatti, il Parlamento europeo, e nella fattispecie l'unità Uguaglianza, inclusione e diversità facente capo alla Direzione generale per il personale, ha redatto il glossario del linguaggio "sensibile" per la comunicazione interna ed esterna, rivolto al personale dell'istituzione per "comunicare correttamente su questioni riguardanti la disabilità, le persone LGBTI+, la razza, l'etnia e la religione". Nei fatti trattasi di un vero e proprio vocabolario dedicato a funzionari, assistenti, portaborse, portavoce e politici da adottare per essere al passo con i tempi della cultura del piagnisteo e del political correctness imperante. Soprattutto, l'attenzione è massima verso le parole che, d'ora in poi, non si dovranno più impiegare, in particolare verso l'universo Lgbt. Quindi vietato assolutamente dire "gay, omosessuali e lesbiche" e spazio alle più accomodanti espressioni "persone gay, persone omosessuali, persone lesbiche". Guai a dire anche "matrimonio gay": la nuova neo-lingua impone che si dica "matrimonio egualitario". Scorretto anche parlare di "diritti dei gay e degli omosessuali" che va sostituito con "trattamento equo, paritario". Pensate inoltre di essere maschi o femmine? Vi sbagliate di grosso, la biologia per i super burocrati di Bruxelles non esiste. È un'invenzione dei suprematisti bianchi e della società patriarcale. D'ora in poi si parla di "sesso assegnato alla nascita" e non del retrogado "sesso biologico". Sbagliato altresì parlare di "cambio di sesso", che ora diventa una "transizione di genere". E poi arriviamo alla famiglia. Dimenticatevi quella tradizionale e sostituite "padre" e "madre" con un più generico "genitori": vorrete mica offendere qualcuno? La nuova neolingua adottata dal Parlamento europeo è un clamoroso assist alla cancel culture dilagante in tutto l'Occidente e non è diverso dalla furia iconoclasta degli attivisti che abbatte le statue. L'ideologia ultra-progressista che muove queste iniziative è la medesima. E fa tornare alla memoria 1984 di George Orwell: quando un sovversivo viene fatto sparire dal partito, si applica la damnatio memoriae: viene cioè eliminato, da tutti i libri, i giornali, i film e così via, tutto ciò che si riferisca direttamente o indirettamente alla persona in oggetto. E così il nuovo linguaggio "inclusivo" viene imposto e quello "vecchio" cancellato, con un ordine dall'alto, alla medesima maniera. E come scriveva lo stesso Orwell "ogni disco è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni immagine è stata ridipinta, ogni statua e ogni edificio è stato rinominato, ogni data è stata modificata. E il processo continua giorno per giorno e minuto per minuto. La storia si è fermata. Nulla esiste tranne il presente senza fine in cui il Partito ha sempre ragione".

Dagospia il 17 marzo 2021. Dal profilo Facebook di Mario Adinolfi. Pur di partecipare all’Eurofestival i Maneskin hanno accorciato il brano con cui hanno vinto a Sanremo e cancellato tutte le parolacce. Ve la immaginate la risposta di Guccini se gli avessero chiesto di farlo dall’Avvelenata? I Maneskin invece sono stati “zitti e buoni”. Lo dico da tempo, tutta ‘sta rivoluzione “gender fluid” è roba di cartone, basterà alla fine una buona preside e qualche spiccio per abbattere questo brutto castello edificato sulla sabbia a cui loro stessi non tengono. Tengono al successo e al denaro, per quelli sono disponibili a qualsiasi compromesso. Se continueranno a essere conformisti rispetto ai diktat del politically correct, tutta questa cianfrusaglia annoierà presto.

Il decalogo femminista delle frasi "proibite". Michela Murgia elenca le locuzioni da eliminare e rinchiude le donne in "aree linguistiche protette". Giulia Bignami - Gio, 11/03/2021 - su Il Giornale. È da poco uscito il nuovo, fiammante, decalogo femminista di Michela Murgia con tutte le frasi che «noi donne» (generalizzazione che già mi fa rabbrividire) non vorremmo più sentirci dire. Si inizia con «Stai zitta» che, oltre a dare il titolo al libro (Einaudi, pagg. 128, euro 13), è anche il modo in cui un palesemente maleducato interlocutore ha apostrofato l'autrice durante una trasmissione radiofonica. Si continua con analoghi esempi, citando poco eleganti frasi pronunciate dall'onorevole La Russa o dallo scrittore Corona ai danni delle loro interlocutrici televisive. Mi pare evidente che gli esemplari di maschio in questione non si possano esattamente definire dei gentiluomini di antico stampo, ma mi pare altrettanto evidente che una generale vittimizzazione femminile sia un po' inopportuna, soprattutto per quanto riguarda i dibattiti televisivi. Recentemente, oltre agli usuali berciamenti e zittimenti tipici di entrambi i sessi su qualsiasi rete o programma, mi riferiscono ci sia stata in prima serata anche una raffinata minaccia femminile di lancio di stiletto con annesso conficcamento del medesimo nel cranio dell'interlocutore, maschio. Vi invito a riflettere su cosa sarebbe successo se fosse stato un uomo a compiere un simile gesto, minacciando in diretta televisiva di zittire a scarpate la sua interlocutrice. Anzi, non c'è neanche bisogno di starci troppo a riflettere, probabilmente sarebbe già partita una cavalcata di valchirie social armate dell'hashtag #shoetoo. Ma andiamo avanti con un altro capitolo del libro, dedicato ad un'altra deprecabile frase maschilista, «Ormai siete dappertutto». Qui si inizia a fare la conta delle donne in posizioni di visibilità o di rilievo e si scopre che «Contare è essenziale e rivoluzionario, perché rileva immediatamente il tasso di biodiversità sociale e quindi di giustizia». Dunque, a parte che «biodiversità sociale» non si può sentire e fa sembrare la presenza femminile una questione ecologica, contare è sempre importante nella vita, ma non è su semplici conteggi che si costruisce il merito. Come si dice a scuola, per il voto finale quello che conta non è solo il risultato, ma soprattutto come ci si è arrivati, ossia lo svolgimento del problema. Bisogna partire dall'inizio, facendo in modo che sia data a tutti la stessa possibilità di avere accesso ad una determinata posizione. Chi poi ci si siederà sarà scelto per le sue competenze e non dovrebbe certo rispondere o sottostare a generali e generiche esigenze di conteggi. Si passa poi ad affrontare lo spinosissimo tema del «Come hai detto che ti chiami?», cioè come chiamare una donna, e qui ci si incastra subito: non bisogna usare nomi o soprannomi (espressioni di paternalismo), solo cognomi, ma senza articoli, sennò si potrebbe finire nella sgradevole situazione dell'autrice, il cui cognome, se preceduto da articolo determinativo femminile, risulta assimilabile ad un altopiano della Puglia. Mi raccomando anche niente «signora» o «signorina», le donne devono prima di tutto avere un «perché» e non essere definite «per chi». Attenzione anche ai «brava» e ai «bella», pericolosissimi complimenti usati dal patriarcato per stabilire la propria superiorità sessuale nella gerarchia del pensiero. Un'altra delle frasi stigmatizzate è «Le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne», che invece mi trova in totale accordo, in particolare quando si tratta di certi nazi-femminismi. Ma l'amara realtà è che non vi potete fidare neanche della femmina che vi sta scrivendo perché, Murgia ci svela, il patriarcato, servendosi di tattiche astute e subdole, ha bisogno di ottenere la complicità di un piccolo numero di donne per poter fare funzionare i suoi sordidi e perversi meccanismi di potere. Morale della favola, se criticate il femminismo e siete femmine allora siete state plagiate, mentre se la critica viene da un maschio, ovviamene sarà marchiato come maschilista. E cari maschi non provateci neanche a dire «Io non sono maschilista», perché Murgia ci spiega: «Ogni maschio eterosessuale che nasca dentro il patriarcato deve essere consapevole di abitare lo scalino più alto di una gerarchia di ingiustizia». Niente, non avete scampo, se non forse un'unica via di redenzione: quella di innamorarvi di una femminista dimostrando così di voler espiare i vostri peccati patriarcali. «Patriarcato» che, pagina dopo pagina, diventa come le logge della massoneria, come i microchip dentro i vaccini, come le onde del 5G, come i poteri forti, cioè la scusa perfetta, in mancanza di altre argomentazioni, per una vittimizzazione fine a sé stessa. L'obiettivo dichiarato di questo libro è quello di scardinare l'impianto verbale che sostiene e giustifica il maschilismo, con la speranza che tra dieci anni nessuno più dica le frasi catalogate. Ma mi chiedo se questo sia quello che realmente vogliamo e, ancora più significativamente, quello a cui dovremmo aspirare. Vogliamo veramente trattare le donne come una specie in via di estinzione piazzandole in aree protette del linguaggio, trasferendole in riserve innaturali di frasi controllate o addirittura censurate? È questo il terreno su cui vogliamo portare le battaglie per la parità dei diritti? Per inciso, l'articolo avrei potuto scriverlo anche senza leggere l'imperdibile decalogo murgico, ma il mio rigore scientifico me lo ha impedito e il libro l'ho letto tutto e pure sottolineato. Questo per dire che non sono io ad essere prevenuta, ma sono questi femminismi ad essere diventati stucchevolmente prevedibili. E comunque, quando qualcuno, maschio o femmina, mi chiede come voglio essere chiamata, tipicamente offrendomi la scelta tra «signora», «signorina» o «dottoressa», io rispondo sempre senza esitazione «principessa».

Dagospia l'11 marzo 2021.

Dall'account twitter di Giuseppe Candela. Da qualche tempo la Panicucci si veste come una persona normale. #mattino5

Dall'account facebook di Federica Panicucci. Stamattina un giornalista che si chiama Giuseppe Candela, ha pubblicato questo tweet che mi riguarda. Permettetemi qualche considerazione. Verrebbe naturale chiedere innanzitutto al Signor Candela quali sono secondo lui le “donne  non normali“ e come si vestono, sempre secondo lui, le “donne non normali”. Ma vado oltre perchè la questione secondo me e ben piu seria e a questo proposito vi chiedo: ma davvero ancora oggi, nel 2021, si può giudicare una donna basandosi su come e vestita? Dalla lunghezza della sua gonna o dai suoi pantaloni aderenti? Ma davvero ancora oggi, nel 2021, l’aspetto esteriore di una donna, o meglio, il suo guardaroba, può essere motivo di giudizio? Può davvero ancora accadere che un uomo, un giornalista come in questo caso, giudichi la “normalita” di una donna attraverso i suoi vestiti? Intendiamoci, un vestito può piacere o meno, ed e lecito ma la “normalita” di una donna non può certo passare da questo. Varrebbe la pena ricordare al Signor Candela, che oggi fortunatamente le donne non sono più “oggetti” da valutare in base alla misura del tacco che portano. Sono stanca di leggere ancora messaggi come questi dopo anni di battaglie, stanca come tutte le donne che vengono giudicate sulla base di criteri idioti e insensati. La prego Signor Candela, la prossima volta che vorrà scrivere di me, critichi la mia professionalità ed eviti di scivolare in stereotipi che oggi, mi lasci dire, sono francamente inaccettabili. Perchè Lei, oggi, con il suo tweet, non ha offeso me, ma ha offeso tutte le donne giudicandole “normali” o non “normali” in base al vestito che indossano. Vogliamo essere libere, noi donne, di vestirci e di mostrarci come più ci piace. Buona vita Signor Candela.

Dall'account facebook di Giuseppe Candela. Faccio questo lavoro da tempo, ne ho viste di tutti i colori e ho smesso di stupirmi. Il post che la signora Panicucci mi ha dedicato ha suscitato sorrisi e battutine, messaggi di solidarietà ma anche numerose offese. So di non essere molto simpatico alla signora Panicucci e, come molti possono immaginare, questo non mi ha tolto il sonno. Non sento il bisogno di rispondere a chi come metodo sceglie di darmi in pasto a due milioni di follower senza cercare alcun confronto privato, senza coinvolgere la comunicazione dell'azienda e scrivendo un pippone insensato, esagerato e fuori luogo. Lo spiego a chi mi legge ma soprattutto alle persone che nei commenti dei post della signora Panicucci mi stanno riservendo i peggiori insulti. Da molti anni tra gli addetti ai lavori, sui social e non solo, i look mattutini della conduttrice fanno "notizia", talvolta in onda con abiti serali alle otto del mattino, così come spesso si è parlato dell'eccesso di illuminazione (ricordo numerosi servizi di Striscia la notizia, in quel caso non ci furono post ad hoc). Per me la Panicucci può vestirsi come vuole, tutti possono scegliere come vestirsi. Doverlo precisare mi offende. Questa mattina nel tweet sottolineavo il cambio di look con tono ironico "da persona normale": inteso come un look forse più consono alla fascia di messa in onda. Se la Carlucci va in onda con il pigiama in prime time, se Magalli si presenta in smoking alle undici del mattino, se Mentana al tg va in onda con un maglioncino io lo segnalo, magari con il sorriso. È la logica del contesto, non una questione di libertà. E lei può scegliere come vestirsi, può scegliere come condurre, come comportarsi in onda con gli ospiti e con i colleghi, anche dietro le quinte (il rispetto vale anche per gli uomini). Alla signora Panicucci dico solo una cosa: non si permetta di dirmi che ho offeso le donne. Le sue battaglie le faccia su cose serie, magari dopo aver letto e capito quanto scritto.

Federica Panicucci è troppo intelligente per cadere nella trappola femminista. Paolo Gambi il 12 marzo 2021 su Il Giornale. Federica Panicucci è una donna che ha saputo seminare e raccogliere un’indiscussa stima e ammirazione fra gli italiani. Sempre garbata, sempre dotata di un impeccabile stile – oggi rarissimo a trovarsi – continua a mostrare un volto dell’Italia che non può non piacere. Io sono fra coloro che l’hanno sempre stimata e apprezzata, pur non avendola mai conosciuta di persona. Ecco perché sono rimasto molto perplesso per la polemica che è scoppiata sui social. Un giornalista di Dagospia, Giuseppe Candela, ha pubblicato su Twitter un commento: “Da qualche tempo la Panicucci si veste come una persona normale”. Certo, non era un commento carino.

Ma la reazione di Federica, lo confesso, mi ha lasciato molto perplesso. Ha infatti scritto un post su Facebook, in cui si legge tra l’altro:

“ma davvero ancora oggi, nel 2021, si può giudicare una donna basandosi su come è vestita? Dalla lunghezza della sua gonna o dai suoi pantaloni aderenti?

Ma davvero ancora oggi, nel 2021, l’aspetto esteriore di una donna, o meglio, il suo guardaroba, può essere motivo di giudizio?

Può davvero ancora accadere che un uomo, un giornalista come in questo caso, giudichi la “normalità” di una donna attraverso i suoi vestiti?

(…)

Sono stanca di leggere ancora messaggi come questi dopo anni di battaglie, stanca come tutte le donne che vengono giudicate sulla base di criteri idioti e insensati.

La prego Signor Candela, la prossima volta che vorrà scrivere di me, critichi la mia professionalità ed eviti di scivolare in stereotipi che oggi, mi lasci dire, sono francamente inaccettabili.

Perché Lei, oggi, con il suo tweet, non ha offeso me, ma ha offeso tutte le donne giudicandole “normali” o non “normali” in base al vestito che indossano.

Vogliamo essere libere, noi donne, di vestirci e di mostrarci come più ci piace”.

Se non fossi sicuro che quello è il suo profilo facebook avrei potuto pensare che a scrivere queste parole, che riassumono gli assunti base del femminismo, fossero la rabbia e l’odio di Michela Murgia.

Invece no.

E qui mi sono preoccupato.

Mi permetto allora, molto sommessamente, di condividere un solo pensiero rivolto a Federica: non hai bisogno di questo. Non hai bisogno di “murgismo”, né di ideologia. Anzi. Ci piaci per ciò che sei, ci piace il tuo sorriso. Non ci piacciono i ringhi delle femministe che oramai affollano ogni pulpito.

Chiunque ti stima e ti apprezza, come il sottoscritto, anche per questo. Non cadere nella trappola dell’odio che sta minando il rapporto fra uomini e donne. Io non conosco Candela, ma un commento poco simpatico resta semplicemente un commento poco simpatico.

Rispondi con il tuo sorriso. Continua a regalarcelo.

Resta ciò che sei sempre stata. Perché di Murgia è ahinoi già pieno il mondo.

Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2021. C'è un antico problema che affligge il Giappone: la cultura sessista di cui è profondamente intriso. Dall'inizio del 2021 sono stati già tre gli scandali che hanno coinvolto personaggi rappresentativi della società e della politica. A febbraio, dopo le dimissioni del presidente del Comitato organizzatore dei Giochi Olimpici di Tokyo 2020 Yoshiro Mori che aveva candidamente ammesso di discriminare le donne perché alle riunioni «parlano troppo», c'era stato il caso di Toshihiro Nikai, segretario generale del Partito Liberal Democratico, lo schieramento conservatore al governo, che aveva deciso di ammettere le colleghe alle riunioni dei vertici di partito a patto che non prendessero la parola. Ieri è stata la volta del direttore creativo dei Giochi, Hiroshi Sasaki, anche lui costretto a rimettere l'incarico dopo che il settimanale Bunshun ha rivelato l'idea luminosa lanciata, un anno fa, durante la programmazione della cerimonia d'apertura: vestire l'attrice Naomi Watanabe di rosa, due orecchie da maiale sul capo. Una sorta di mascotte che sarebbe stata battezzata Olympig, facendo un per nulla divertente gioco di parole tra Olympics e pig (porco in italiano). Watanabe, conosciuta anche come la Beyoncé giapponese, è una sorta di icona social nel Paese e nel 2018 è stata inserita dal Time tra le venticinque persone più influenti di Internet. La sua presenza alla cerimonia dovrebbe garantire prestigio, il suo peso dovrebbe essere un fattore irrilevante. Lo sconcerto in Giappone è grande. La governatrice di Tokyo Yuriko Koibe si è detta «profondamente imbarazzata». Furiosa è, invece, la presidente del Comitato organizzatore, Seiko Hashimoto, ex pattinatrice olimpionica e ex ministra della Sanità, che aveva promesso una nuova stagione. Sorpresa, invece, l'attrice in questione: «Io sono felice del mio aspetto ma come essere umano mi auguro di avere un mondo in cui ci sia rispetto reciproco».

Da "primaonline.it" il 19 marzo 2021. La poltrona l’ha lasciata prima ancora di sedersi. Alexi McCammond, nominata poche settimane fa, doveva diventare direttore di Teen Vogue dal 24 marzo. Ha dovuto rinunciare. La "colpa" è di un paio di tweet che la giornalista – oggi 27enne – ha scritto esattamente dieci anni fa. La redazione ne è venuta a conoscenza e ha protestato, accusandola di “razzismo e omofobia“. Di questi post McCammond, nata a Chicago e di origini miste, nominata nel 2019 ‘giornalista emergente dell’anno’ dalla National Association of Black Journalists – si era già scusata un paio d’anni fa. Il contenuto giudicato ‘anti-asiatico’ in realtà sembra più anti-scolastico, dal momento che l’allora studentessa Alexi protestava contro un voto basso in chimica che “cancella tutto il mio impegno senza spiegare che cosa ho sbagliato… grazie mille, stupido assistente asiatico”. Rammaricandosi che queste riesumazioni del passato mettano “in ombra il lavoro che ho fatto per mettere in luce le persone e le cause in cui credo”, Alexi – un passato da cronista politica nel giornale digitale Axios  e un precedente impegno a Bustle, sito leader delle millennial – ha comunque dovuto tirarsi indietro. Decisione condivisa dalla Condé Nast, di cui fa parte Teen Vogue.

Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2021. Alexi McCammond, 27 anni, era una star in ascesa del giornalismo americano: si è fatta conoscere seguendo per il sito Axios la campagna elettorale di Joe Biden. Ma nell' ultimo mese ha conquistato i titoli dei giornali per due polemiche che sono costate il lavoro prima al suo fidanzato e poi a lei. A febbraio il fidanzato, TJ Ducklo, è stato costretto a lasciare il posto di vice portavoce di Biden dopo aver minacciato un' altra giornalista di «distruggerla» se avesse rivelato la sua relazione con McCammond (e il possibile conflitto di interesse). Poi il 5 marzo McCammond è stata assunta alla guida di Teen Vogue : sarebbe stata la terza donna nera a dirigere la rivista per adolescenti, sembrava una scelta vincente per un' azienda in cerca di «diversità» (dopo le proteste di Black Lives Matter, Anna Wintour, che è diventata direttrice globale di Vogue , si è scusata per non aver dato spazio sufficiente a «creativi neri»). Ma una editor di un' altra pubblicazione ha condiviso sui social le foto di alcuni tweet scritti da McCammond all' età di 17-18 anni, che contenevano stereotipi denigratori sugli asiatici-americani (sullo «stupido professore asiatico» che le aveva dato un brutto voto; su come non svegliarsi al mattino con «occhi gonfi da asiatici»). McCammond si era già scusata per quei tweet nel 2019, li aveva cancellati e ne aveva parlato con i vertici di Condé Nast - inclusi il ceo Roger Lynch e Wintour. Nel frattempo sono emersi anche vecchi tweet in cui McCammond usava i termini «gay» e «homo» come insulti e una ventina di dipendenti di Teen Vogue hanno protestato, scrivendo - già prima dell' uccisione di sei donne asiatiche ad Atlanta - che l' America vive «un momento di violenza altissima contro gli asiatici e di battaglie della comunità Lgbtq». La giornalista ha risposto con un lungo messaggio definendo «i tweet omofobi e razzisti inaccettabili in qualunque momento della mia vita» e riconoscendo che la comunità asiatica è stata spesso ignorata nel dibattito sul razzismo. Ma alla fine ha perso il lavoro dopo che Ulta Beauty, un' azienda di cosmetici che - scrive il Daily Beast - spende almeno un milione in pubblicità su Teen Vogue (e in passato è stata coinvolta in accuse di razzismo) ha annunciato la sospensione del contratto, dichiarando di credere nella «diversità». La destra non nasconde la soddisfazione per la vicenda: per Mike Cernovich, definito dal New Yorker «la mente dei meme dell' alt-right», questa è la storia di una «guerriera della cancel culture» (McCammond aveva accusato l' ex cestita Charles Barkley per averle detto «Non picchio le donne, ma se lo facessi picchierei te») che «ha dimenticato di cancellare i suoi tweet razzisti». I siti di destra si sono divertiti a ripescare anche una foto in cui si era vestita da nativa americana a Halloween. Però anche nella sinistra c' è chi nota che McCammond si era scusata per gli errori commessi da adolescente e che l' accanimento nel chiedere la punizione peggiore per qualsiasi errore non aiuta a cambiare la mentalità. Tra loro la scrittrice gay Amy Siskind: «La perdono per i tweet omofobi. Ricordate che la maggioranza del Paese era contro le nozze gay fino a 10 anni fa. La gente sbaglia, cresce, cambia. Deve esserci spazio per farlo».

Giovanni Torelli per "Libero quotidiano" l'8 aprile 2021. La rivendicazione legittima dei diritti diventa spesso applicazione odiosa di privilegi. Se gli attori neri lamentano di essere poco o nulla premiati nelle principali cerimonie cinematografiche, poi cosa accade? Che i riconoscimenti principali vanno a loro, mentre sono i bianchi a venire discriminati. Se ne è avuta una rappresentazione plastica l' altro ieri alla 27ma edizione dei Sag (Screen Actors Guild) Awards, i premi assegnati dal sindacato degli attori Usa e considerati una cartina di tornasole per individuare i possibili vincitori alla notte degli Oscar (in programma il 25 aprile). Ebbene, a farla da padrone in questa edizione, sono state le quote nere, se è vero che i premi più importanti per le performance da attori sono andati ad artisti di colore che avevano interpretato ruoli significativi in film "impegnati" sul razzismo. Il tributo come miglior attore è stato assegnato, in memoriam, a Chadwick Boseman, scomparso lo scorso agosto, e tra i protagonisti del film Ma Rainey' s Black Bottom, storia di quattro musicisti vittime di discriminazione razziale; nonché già interprete di Pantera Nera, il primo supereroe di colore. Sempre per Ma Rainey' s Black Bottom si è guadagnata il titolo di miglior attrice Viola Davis, nera e paladina dei diritti dei neri che più volte si era detta discriminata a Hollywood per il colore di pelle. Nella sua autobiografia, Around The Way Girl, la Davis aveva denunciato la disparità di trattamento subita dal mondo afro nel cinema a livello economico: «Ci sono più attrici nere di talento che ruoli significativi e siamo costrette a gettarci sulle briciole degli scarti per non morire di fame», aveva detto. Sottolineando poi in un' intervista la sua duplice condanna di essere donna e nera: «Le donne vengono pagate metà degli uomini, e a noi afroamericane danno un decimo di una donna caucasica».

DISCRIMINATI. Attori neri discriminati nella paga e nei premi, insomma. Ma è davvero così? Quanto alla paga, ricordiamo che la Davis, secondo Forbes, oggi è la decima attrice più pagata al mondo con 15,5 milioni di dollari, non proprio una morta di fame. Quanto ai premi, si tratta di una vecchia storia: il regista nero Spike Lee nel 2016 rifiutò di partecipare alla cerimonia degli Oscar perché c' erano soltanto candidati bianchi. Si direbbe però che l' andazzo è cambiato eccome, come conferma ora il riconoscimento per il miglior attore non protagonista vinto da un altro attore nero, Daniel Kaluuya, protagonista di Judas and the Black Messiah, film sul leader delle Pantere Nere: non i supereroi, stavolta, ma il movimento per la liberazione degli afroamericani animato da un' ispirazione marxista-leninista; pellicola un po' nera e un po' rossa, dunque. Come miglior attrice non protagonista l' ha spuntata un' altra non caucasica, la sudcoreana Youn Yu-Jung, interprete del film Minari. Certo, poi ai bianchi sono spettati premi di gruppo come quello per il miglior cast cinematografico assegnato a Il processo ai Chicago 7 o riconoscimenti minori come quello a Gillian Anderson in The Crown per la miglior interpretazione in una serie tv drammatica, ad Anya Taylor-Joy come miglior attrice in una miniserie (La regina degli scacchi) e a Catherine O' Hara come miglior attrice comedy. Briciole, le definirebbe la Davis, che testimoniano una sorta di apartheid cinematografica al contrario appena cominciata, che verosimilmente troverà i suoi frutti nella notte degli Oscar. Chiariamo: a noi non importa un fico secco del colore della pelle di questo o quell' attore, è insopportabile invece che il colore di pelle diventi uno dei requisiti per essere premiato anziché no. Vivremo in un mondo cinematografico migliore quel giorno in cui cominceremo ad assegnare riconoscimenti non su base etnica o per categorie o quote, ma in nome di un solo criterio: se sei un drago o un cane a recitare. E gli attori incapaci.

Ilaria Ravarino per “Il Messaggero” il 19 marzo 2021. Un Capitan America gay per celebrare gli 80 anni dalla creazione del personaggio, nato nel 1941 dalla penna di Joe Simon e Jack Kirby come strumento della propaganda militare americana. In edicola e nei negozi di fumetti dal 2 giugno, la serie The United States of Captain America vedrà il Capitan America della tradizione, Steve Rogers, fare squadra con tutti i suoi eredi per attraversare gli Stati Uniti alla ricerca «degli eroi del quotidiano». Tra loro anche il teenager ribelle Aaron Fischer, piercing al naso, capelli rasati e identità sessuale apertamente dichiarata: sarà il primo personaggio Lgbtqi a indossare lo scudo del Capitano. Accorta la scelta della data, nel mese mondiale del gay pride, furbo il tempismo di Marvel: nella Hollywood dell'inclusività e del politicamente corretto, la corsa a non lasciare nessuno indietro si fa sempre più agguerrita. La comunità Lgbtqi ha recentemente messo a segno alcune vittorie importanti: l'annuncio della prima commedia romantica tra omosessuali prodotta da una major, Bros della Universal («Levati Julia Roberts, c'è una nuova regina in città» il commento su Twitter del protagonista Billy Eichner), nel 2022 la prima supereroina lesbica, la regina di Asgard Valkyrie di Thor Love and Thundere ancora nel mondo dei supereroi la prima coppia omosessuale in mantello e calzamaglia di The Eternals, pronto entro quest'anno. Spinte dal consenso, e da considerazioni di mercato, le istanze del #metoo e del #blacklivesmatter hanno moltiplicato i ruoli disponibili per donne e attori afroamericani, sempre più spesso richieste dietro alla macchina da presa. Ma per una parte sociale inclusa nel giro che conta, ne restano altre fuori: sotto tiro oggi c'è la cosiddetta cortina di bambù, espressione che indica la resistenza di Hollywood ad affidare ad attori asiatici ruoli di primo piano. Dopo le critiche piovute sull'Academy per aver escluso l'anno scorso gli attori coreani dell'Oscar Parasite dalle rispettive cinquine, ecco che quest'anno in nomination come miglior attore ci sono sia Riz Ahmed che Steven Yeun, primo musulmano e primo asiatico nominati nella categoria. Per sfoltire la cortina di bambù - e magari agganciare il ricchissimo box office cinese si immola ancora la Marvel, pronta a maggio con il primo supereroe asiatico, Shang Chi. La speranza è quella di replicare il successo al botteghino di Crazy Rich Asians, fenomeno di tre anni fa (238 milioni di incasso) capace di lanciare la carriera della star sinoamericana Awkwafina. Ma la battaglia ormai quotidiana di percentuali e cifre sulla sottorappresentazione, combattuta in questi anni a Hollywood in nome di una presunta inclusività, rischia due pericolose derive. Da una parte emarginare chi non è ugualmente diverso, assegnando certi ruoli per predestinazione (come nel caso di Tilda Swinton, accusata nel 2020 di appropriazione culturale per aver interpretato il ruolo di un asiatico in Doctor Strange). Dall'altra favorire sempre e comunque il più forte, ovvero la lobby più capace di imporsi sul mercato. Una battaglia da cui si salvano, per ora, solo i pochi veramente trasversali, come la top model Leyna Bloom: sulla copertina della famosa rivista Sport Illustrated, è la prima trans afroasiatica a fare per davvero - la storia del giornale.

Il politicamente corretto si prende anche Capitan America. Per la prima volta nella sua storia, un adolescente che "rappresenta gli oppressi e i dimenticati" diventerà il primo personaggio LGBTQ + ad assumere il ruolo di Capitan America. Roberto Vivaldelli - Ven, 19/03/2021 - su Il Giornale. Capitan America non sarà più lo stesso, inghiottito nel vortice del conformismo perbenista del politicamente corretto. La storia del personaggio cult dei fumetti, come ricorda la Marvel stessa, affonda le sue radici negli anni '40 quando Steven Rogers prende parte ad un esperimento segreto militare americano che lo trasforma in un supersoldato. Durante la seconda guerra mondiale Capitan America e il suo assistente Bucky Barnes combattono a fianco della fanteria americana e degli Invasori. A poco dalla fine della guerra, entrambi vengono coinvolti in un esplosione e vengono considerati morti. Capitan America viene invece ritrovato dopo alcuni decenni ibernato e intrappolato nel ghiaccio ma ancora vivo. Da quel momento parte la vita di Cap nel tempo moderno. Capitan America, ricorda la stessa Marvel, è sempre stato un simbolo di "coraggio e patriottismo" e, sebbene il costume a stelle e strisce sia sempre stato associato principalmente a Steven Rogers, ci sono stati alcuni momenti in cui per un motivo o per un altro il Cap originale non ha potuto brandire il suo scudo di vibranio. Ora il supersoldato, al fine di adeguarsi al clima del politicamente corretto imperante, diventa un "supereroe gay". Come riporta l'agenzia Adnkronos, per la prima volta in 80 anni di storia del fumetto della Marvel, un omosessuale raccoglierà lo scudo del supereroe. Un adolescente che "rappresenta gli oppressi e i dimenticati" diventerà il primo personaggio LGBTQ + ad assumere il ruolo di Capitan America. Marvel Comics celebra infatti l'ottantesimo anniversario dell'eroe statunitense, creato da Joe Simon e Jack Kirby nel 1941, con il lancio di una nuova serie a fumetti, The United States of Captain America, in cui il capitano in carica Steve Rogers farà un viaggio attraverso gli Stati Uniti per ritrovare il suo scudo perduto e incontrerà persone di "tutti i ceti sociali" che hanno indossato il mantello di Captain America per difendere le loro comunità. Aaron Fischer, un adolescente gay, sarà il primo della nuova serie limitata, che verrà pubblicata a giugno, in occasione del mese in cui in tutto il mondo si celebrano i gay pride. La Marvel ha descritto Fischer, come il "Capitan America delle Ferrovie", con "un adolescente senza paura che si è fatto avanti per proteggere i compagni fuggitivi e i diseredati". "Aaron si ispira agli eroi della comunità queer: attivisti, leader e gente comune che lottano per una vita migliore", ha detto lo scrittore della serie Josh Trujillo. "Rappresenta gli oppressi e i dimenticati. Spero che la sua storia di debutto incontri il gradimento dei lettori e aiuti a ispirare la prossima generazione di eroi". Poteva forse un simbolo iconico del patriottismo Usa non essere travolto dal politicamente corretto? Certo che no. Del resto, già nel gennaio 2020 i vertici della Marvel avevano annunciato che la casa editrice statunitense, di proprietà della Disney, era intenzionata a introdurre personaggi Lgbt - gay, trans, ecc, a cominciare dal protagonista Lgbt in The Eternals. La sensazione è che la piega politically correct che ha investito la Marvel - come del resto la Disney - sia solo all'inizio: c'è da pensare che Capitan America non sarà l'unico supererore ad essere inghiottito dal nuovo dogma della correttezza politica.

DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 15 aprile 2021. Dana Walden, presidente dell'intrattenimento per Walt Disney Television, ha recentemente affermato durante un dibattito che la ABC ha deciso di scartare "Alcune sceneggiature incredibilmente ben scritte" perché non soddisfacevano i suoi nuovi standard di diversità. Walden ha fatto i commenti durante il panel intitolato "Women in Focus: Women, Big Tech and the Future of Hollywood" organizzata dalla Chapman University e dalla rivista ‘’Glamour’’ lo scorso 9 aprile. L'anno scorso, l'outlet ha riferito che la ABC richiedeva almeno il 50% di rappresentanza di "gruppi sottorappresentati" nei personaggi regolari e ricorrenti, oltre che nello staff di sceneggiatori e i produttori. Walden ha ammesso che la ABC abbia persino rifiutato uno spettacolo su una famiglia bianca che avrebbe incluso un cast diversificato di amici e vicini: “Niente da fare. Non andrà più in onda perché non è quello che vuole il nostro pubblico. Non è un riflesso del nostro pubblico", ha detto. Le linee guida annunciate da ABC includono anche "l'integrazione significativa di gruppi sottorappresentati in temi e narrazioni generali e narrazioni episodiche". Gli spettacoli della della ABC attualmente sembrano già affrontare specificamente la diversità con titoli come la serie “Blackish” e il suo spin-off “Mixedish”, sebbene altri spettacoli esistenti come “The Connors” e “The Goldbergs” abbiano in gran parte un cast bianco. Walden ha anche rivelato durante la tavola rotonda che Disney annuncerà presto una nuova iniziativa di programmazione "BIPOC" a Hulu, facendo riferimento al termine per nero, indigeno e persone di colore. Questa iniziativa sarà gestita da Tara Duncan, l'attuale presidente di Freeform.

 COSA NE PENSEREBBE WALT DISNEY DELLA SVOLTA “POLITICALLY CORRECT” DELLA SUA AZIENDA? 

Guido Tiberga per "la Stampa" il 15 dicembre 2021. Un bulletto sfrontato che solleva la gonna a una ragazzina, peraltro pronta ad aiutarlo a torturare un gruppo di animali al suono di un'allegra marcetta dixieland. Una svampita che irrompe nella vita quotidiana di un gruppo di diversamente abili, usa le loro cose, stravolge le loro abitudini, ne fa innamorare senza speranza almeno un paio. Un assassino che tenta di ammazzare una minorenne, un veleno nascosto nel più innocuo dei cibi, un bambino muto e un po' tonto costretto a lavorare in miniera. Un figlio di papà che arriva alla fine e risolve tutto con un bacio rubato. Messa così, sembra la trama di un b-movie degli anni Settanta, di quelli che fondevano horror e sesso in un pastone improbabile di offese al buon gusto, all'arte e al politicamente corretto. Invece sono Steamboat Willie, il primo cartoon di Topolino, e Biancaneve e i sette nani, il primo lungometraggio animato della storia: il personaggio che Sergej Eisenstein definirà «uno dei più grandi contributi americani alla storia della cultura» e il film che molti ricordano come il simbolo di un tempo passato per sempre. Le pietre miliari dell'impero Disney, che oggi ha trasfigurato se stesso e si trova a dover fare i conti con gli eccessi della cancel culture. La storia di Walt Disney, di cui ricorrono oggi i 55 anni dalla morte, è una storia di contraddizioni. È difficile collegare la sua biografia con l'idea che ci siamo fatti della sua arte. Forse era soltanto un genio calunniato per invidia, come vorrebbero i suoi agiografi più convinti, o forse era davvero il mascalzone descritto dai suoi nemici: il fanatico fascistoide che faceva la spia per gli uomini di McCarthy nella caccia ai «rossi» di Hollywood, lo sfruttatore di dipendenti, il paranoico egocentrico che schiacciava i collaboratori nel cono d'ombra. In fondo, poco importa chi fosse davvero. In ogni caso - e nonostante tutto - per decenni Disney ha smesso di essere un cognome per diventare il termine eponimo di un mondo zuccheroso e infantile, di un divertimento sano e lontano dalla violenza, di un buonismo esasperato e stucchevole. Eppure Walt non amava i bambini. Soprattutto non lavorava per loro: ai disegnatori di Biancaneve che gli proponevano una regina rosa e paffuta in pieno stile cartoon, rispose che voleva «una via di mezzo tra Lady Macbeth e il Lupo cattivo». Tornato da un viaggio in Europa, impose le illustrazioni di Doré per l'Inferno dantesco come modello per la fuga della ragazza nella foresta, «con gli alberi che si trasformano in mostri e i tronchi che diventano coccodrilli». I film degli anni Trenta su Dracula e Nosferatu furono proiettati negli Studios come ispirazione per il castello della regina: «Deve venir fuori dalle ombre come mister Hyde dal dottor Jekyll». Per molti dei suoi 55 anni senza Walt, l'impero Disney è andato avanti, alternando successi e cadute, su una strada modellata più sulla percezione del pubblico che sugli intenti del fondatore. Un omaggio al business, più che un tradimento: qualcuna delle novità, probabilmente, Walt l'avrebbe pure apprezzata: la svolta verso l'animazione in 3d, ad esempio, così come la trasposizione in live action dei cartoni più noti. D'altra parte l'ossessione dei suoi ultimi anni, ha raccontato la figlia Diane, era «l'illusione della vita». Un traguardo che i mezzi di allora non gli potevano regalare fino in fondo, almeno sullo schermo. Per questo, scrive Diane, l'unico vero obiettivo di Walt era diventato Disneyland, la terra dove ancora oggi la fantasia si trasforma in realtà. Quello che manca, nei parchi e nei vecchi film, è il rispetto delle nuove sensibilità. Ed è qui che si incarna il paradosso attuale di Disney, il cattivo che il mondo voleva buono, il misantropo che grazie alle sue creature appariva come l'amico di tutti. Molti dei cartoni animati classici, che i boomer hanno visto al cinema e i loro figli prima in home video e poi in streaming su Disney+, sono accompagnati da una nota che ne consiglia la visione a un pubblico maturo. «Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono ancora. Piuttosto che rimuovere questo contenuto vogliamo riconoscerne l'impatto dannoso, imparare da esso e stimolare il dibattito per creare insieme un futuro più inclusivo». Così recita l'avviso. Lo stigma è toccato a Dumbo, «perché i corvi che suonano e cantano «ricordano i menestrelli razzisti che si esibivano con la faccia dipinta di nero», a Peter Pan che non rispetta i nativi americani, a Gli Aristogatti per una coppia di mici dalle fattezze orientali, al Libro della Giungla , dove una scimmia canta in stile jazz e sembra una caricatura degli afroamericani. A Orlando, la riapertura post Covid di Disney World ha portato qualche piccola innovazione. Nella tradizionale attrazione dedicata a Biancaneve, la scena finale con la morte della strega, terrificante per i bambini di oggi, è stata sostituita dal «true love' s kiss» tra il principe e la protagonista ancora addormentata. Un inatteso passo falso. Due donne, Katie Dowd e Julie Tremaine, hanno protestato scrivendo un articolo sul San Francisco Gate: «Come si fa a definirlo bacio d'amore se lei non è cosciente? Non abbiamo sempre parlato di consenso? Non abbiamo sempre detto che bisogna insegnare ai bambini che un bacio tra due persone, se non sono entrambe d'accordo, non va bene?». L'obiezione di Dowd e Tremaine ha aperto un dibattito che ha rimesso sul piatto vecchie idee e nuove censure. Qualche settimana dopo, un commento sull'Orlando Sentinel ha mandato la palla dall'altra parte del campo: «Frequento il parco da decenni, sono tornato quest' anno e devo dire che la wokeness mi ha rovinato l'esperienza». Wokeness è la parola che sta condizionando le aziende americane: indica lo «stare svegli», il prestare attenzione alle ingiustizie sociali, anche quelle nascoste nei meandri della tradizione. L'intervento sul Sentinel ha scatenato una polemica e un dibattito ancora in corso. È l'ennesima contraddizione intorno al nome di Disney, l'uomo sopravvissuto a se stesso: il cattivo insensibile che tutti volevano vedere come buono, è tornato nel tritacarne 55 anni dopo la morte perché troppo attento al nuovo vento sociale. Alla fine, anche i geni non sfuggono al contrappasso.

L’ultima battaglia del politicamente corretto: via la parola "normale" dalle confezioni di shampoo. La decisione è stata presa da Unilever a seguito di un sondaggio. E così il termine "normale" sarà eliminato anche dalla pubblicità di creme e balsami per non creare discriminazioni. Gabriele Laganà - Gio, 11/03/2021 - su Il Giornale. È difficile immaginare che si possa correre il rischio di compiere una discriminazione anche se si parla di capelli. Ma nel tempo in cui domina il politically correct anche una semplice quanto banale affermazione sul tipo di chioma di una persona può risultare offensivo. Può sembrare una esagerazione ma non lo è. L'ultima vittima del politicamente corretto è la parola "normale" che compare sui vasetti di crema e le bottiglie di balsamo per capelli. Il colosso Unilever, azienda che spazia dall'alimentazione ai prodotti per l'igiene intima, ha deciso che tale termine deve essere bandito dalla pubblicità dei suoi prodotti di bellezza per evitare discriminazioni e, allo stesso tempo, per dare spazio al cosiddetto "inclusive advertising", termine usato per indicare l’intenzione di "parlare" a tutti senza distinzioni. Fino ad oggi in commercio si trovano shampoo per i capelli secchi e grassi, balsami per i capelli ricci, crespi e colorati e anche prodotti per chi ha una capigliatura, diciamo così, normale. Questo almeno fino ad oggi. Perché lo shampoo per una capigliatura "normale" pare sia diventato il nuovo simbolo della discriminazione. Per questo, almeno nella dicitura, il termine deve subire la purga dell’inclusività a tutti i costi. Quindi sui prodotti dell’azienda, titolare di oltre 400 marchi, non sarà più riportati la "scandalosa" parola. A spingere l’azienda a prendere una decisione tanto drastica quanto discutibile sono stati i risultati di un’indagine condotta su persone di diversa nazionalità. Come spiega il Giorno dalla ricerca è emerso che sette intervistati su dieci riterrebbero che l'uso della parola "normale" sulle confezioni abbia un impatto "negativo". Il 56% delle persone che hanno espresso il parere pensa che l'industria della bellezza faccia sentire tanta gente esclusa mentre il 52% ammette di valutare la posizione dell'azienda sulle questioni sociali prima di fare acquisti. Ma non è tutto. Perché la stessa Unilever ha promesso di smettere di alterare digitalmente la forma dei corpi e il colore della pelle delle persone sulle confezioni, incentivando la presenza dei gruppi etnici più svariati. Insomma i consumatori, almeno quelli più inclini a seguire il verbo del politicamente corretto, vogliono sentirsi bene prima con la coscienza e poi con il corpo. Vincenzo Zeno Zencovich, professore di diritto comparato all'Università Roma Tre, ritiene che il politicamente corretto sia un problema: "Si tratta di una forma di dogmatismo che usa tipici metodi illiberali: etichettare gli avversari, qualificarli come inadatti a una società civilizzata e meritevoli di essere banditi, evitati, esclusi da qualsiasi forma di rapporto". Leonardo Marabini, esperto di comunicazione e marketing, considera il politicamente corrette un'arma a doppio taglio: "Aiuta a risolvere situazioni di empasse ma va usato con cautela altrimenti produce effetti devastanti". Nel corso del tempo il linguaggio usato quotidianamente ha già subito gli influssi del corretto agire. Basti pensare alla parola spazzino cambiata in operatore ecologico. O immigrato sostituito con migrante. Per non dimenticare gli ultimi casi: mamma e papà divenuti "genitore 1" e "genitore 2". Spesso il politically correct, in bilico fra equità e ipocrisia, compie clamorosi passi falsi. E il caso dei capelli "normali" può essere un esempio.

Anche su Peter Pan si abbatte l’isteria della “cancel culture”. Via il libro dalla biblioteca di Toronto. Adele Sirocchi mercoledì 10 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Prima vennero i bollini rossi della piattaforma Disney. Anch’essi colpirono Peter Pan, il personaggio inventato dallo scrittore britannico James Matthew Barrie. Il motivo? Era offensivo verso i Pellerossa. Ora il libro di Barrie, racconta il National Post e la notizia è oggi su Il Foglio,  “è stato rimosso dalla Toronto Public Library “. Una decisione grave, che colpisce uno dei libri per ragazzi più noto e apprezzato. Il personaggio di Peter Pan, amatissimo anche dagli adulti, è celebrato con una famosa statua a Londra nei giardini di Kensington e ha ispirato film, canzoni, poesie, cartoni. Un pilastro dell’immaginario occidentale. Eppure ora il libro si trova collocato in una sala speciale di lettura di titoli controversi, accusato di contenere “molti stereotipi grotteschi, scene di appropriazione culturale e dialoghi offensivi “. E’ l’isteria della cancel culture che avanza, l’ultima evoluzione inquisitrice del politicamente corretto, che va a colpire alle fondamenta la cultura occidentale. “Oggi l'”Iliade”, “Le avventure di Huckleberry Finn”, “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee e “Uomini e topi” di John Steinbeck – scrive Giulio Meotti sul Foglio – vengono ritirati da molte scuole, mentre “Tintin in Congo” di Hergé, scrive il New York Times, “è diventato praticamente introvabile negli Stati Uniti”. Allo stesso modo i libri di Richard Scarry, il prolifico autore e illustratore di libri per bambini che ha venduto 160 milioni di copie, sono stati “rivisti” per riflettere l’uguaglianza di genere”. La furia censoria che si abbatte sui libri è la stessa che induce a decapitare le statue. In Francia il fenomeno già dilaga tanto che la scorsa estate il filosofo Finkielkraut lanciò un manifesto dal titolo “Giù le mani dalla mia storia”. L’appello condannava “questa importazione del politicamente corretto all’americana” giudicandola  “assolutamente disastrosa”. E invitava a “rileggere la storia nel suo contesto e non proiettare le nostre attuali ossessioni nel passato”.

Il paradosso del politicamente corretto: così si tollera la pedofilia. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 15 marzo 2021. Ha destato molto scalpore e indignazione il programma televisivo olandese per bambini, accusato di essere “pro-pedofilia”, nel quale si vedono degli adulti spogliarsi in studio davanti a un pubblico di ragazzini, con questi minori che fanno poi ai primi domande sul corpo umano. Come riportato da IlGiornale.it, il programma si chiama Simply Naked ed è stato prodotto e pubblicizzato dall’emittente pubblica Nos. La platea di bambini che assiste a tale spogliarello, in base alle anticipazioni del programma, è composta da ragazzi con età dai 10 ai 12 anni e, a detta dei produttori del programma, questo sarebbe diretto a mostrare ai più piccoli com’è fatto un corpo umano.

Paesi Bassi, terra del partito dei pedofili. Non sorprende del tutto che questo accada nei Paesi Bassi. Dopotutto, le istituzioni olandesi sembrano essere troppo sin garantiste e tolleranti con la pedofilia e con chi la promuove. Nel 2013, una sentenza choc di una corte d’appello stabilì che non poteva essere vietata l’attività di una fondazione che da oltre trenta anni promuoveva la pedofilia. Nel 2019 la Fondazione Strijd tegen Misbruik chiese inoltre di vietare il cosiddetto “manuale dei pedofili”, un libro di oltre mille pagine che spiega in dettaglio come i pedofili possono attirare, accudire e maltrattare i bambini e come farlo senza che nessuno lo scopra. L’allora ministro della giustizia Ferdinand Grapperhaus rispose che gli avvocati del suo dipartimento conclusero che il divieto era “impossibile” perché il libro choc “non contiene materiale criminale”. E proprio nei Paesi Bassi è stato rifondato l’anno scorso il “partito per l’Amore per il Prossimo, la Libertà e la Diversità” (Partij voor Naastenliefde, Vrijheid en Diversiteit, PNVD in olandese), originariamente fondato nel 2006, meglio conosciuto come il “partito dei pedofili” che sostiene la legalizzazione del sesso con i minorenni e il possesso di materiale pedopornografico. I risposta alla rinascita del partito, lo scorso ottobre alcune centinaia di persone, grazie all’associazione Save All Kids, sono scese in piazza a Utrecht contro “l’accettazione e la normalizzazione della pedofilia” nel Paese. A dimostrazione che il problema è sentito e una deriva pericolosa esiste.

Anni ’70: il manifesto degli intellettuali di sinistra. Guai però a pensare che si tratti un caso isolato. Perché c’è una certa deriva del pensiero cosiddetto “progressista” e ultra-liberal che intende in qualche modo sdoganare o comunque tollerare la pedofilia. È il grande paradosso del politicamente corretto, promotore della politica identitaria in difesa di tutte le minoranze del mondo, ma non dei bimbi. Non è un tema nuovo, infatti: già negli anni ’70 il filosofo francese Jean-Paul Sartre sottoscrisse insieme ai nomi più illustri della sinistra europea come Simone de Beauvoir e Michel Foucault il Manifesto in difesa della pedofilia pubblicato su Libèration. Come ricordava qualche tempo fa Sergio Romano sul Corriere della Sera, la petizione fu lanciata nel 1977 dopo che tre uomini erano stati arrestati per avere avuto rapporti sessuali con ragazzi non ancora quindicenni ed erano stati tenuti in carcere per più di tre anni in attesa di giudizio. Ma i ragazzi non erano stati oggetto di violenze e si erano dichiarati, a quanto pare, consenzienti. Da qui venne lanciata la petizione, firmata da tutto il gotha della sinistra e dell’intellighenzia dell’epoca – Louis Aragon, Roland Barthes, Simone de Beauvoir, Michel Foucault, André Glucksman, Felix Guattari, Jack Lang, Bernard Kouchner, Jean-Paul Sartre, Philippe Sollers – per chiedere di eliminare dal codice leggi che gli intellettuali di sinistra ritenevano desuete e non al passo con i tempi.

“Pedofili come vittime”. La propaganda pro-pedofilia non va circoscritta però solo all’Aja. C’è una fetta del mondo progressista che promuove un diverso atteggiamento nei confronti dei pedofili, descritti non come criminali ma come vittime, in particolare nei Paesi anglosassoni, nei campus ultra-progressisti e in altri circuiti “intellettuali”. Come riportato da InsideOver, l’Università di Würzburg in Germania ha ospitato una Ted Talk sul tema “Future Societys”. Tra gli speaker presenti c’era anche Mirjam Heine, una studentessa di medicina che ha fatto un discorso controverso dal titolo “Perché la nostra percezione sulla pedofilia deve cambiare”. Nella sua presentazione, Heine ha citato alcune ricerche scientifiche che classificano la pedofilia come “un orientamento sessuale immutabile”. Come si legge dal programma dell’evento, la studentessa si ispira al lavoro di un certo dottor Klaus Beier, direttore del dipartimento di sessuologia del Charite, considerato uno dei migliori ospedali universitari di Berlino. Secondo Heine, nessuno è responsabile del proprio orientamento sessuale e dei propri sentimenti, “ma ognuno è responsabile delle proprie azioni riguardo a essi”.

“Capire i pedofili”: l’ultima follia progressista. L’ultima deriva del progressismo liberal è quella che chiede a gran voce e senza pudore di “capire i pedofili”. Capire il loro “disturbo”. Comprenderli. È questo il messaggio del documentario di Amazon Prime Video Pedophile: Understanding the Mental Disorder: “I pedofili sono stati a lungo le persone più demonizzate di questa società”, riporta la descrizione del documentario. “Una nuova ricerca sta dimostrando che comprendere la condizione dei pedofili e affrontarla rappresenta un primo passo per ridurre i casi abuso sessuale su minori”. Un pensiero isolato? Certo che no. In California, culla progressista d’America, lo scorso ottobre i democratici hanno promosso un controverso disegno di legge che che riduce la pena per gli adulti che fanno sesso consenziente con i minori che hanno meno di dieci anni di differenza. Secondo il promotore, il democratico Scott Wiener, il disegno di legge è stato presentato per porre fine alla “discriminazione delle persone Lgbt”.

"Adulti si spogliano davanti ai bambini". Show olandese nella bufera per pedofilia. Il programma per bambini sarebbe diretto, a detta degli autori, a educare i più piccoli riguardo al corpo umano e alle differenze tra fisico e fisico. Gerry Freda - Mar, 09/03/2021 - su Il Giornale. È polemica in Olanda per un programma televisivo per bambini, accusato di essere “pro-pedofilia”, in cui si vedono degli adulti spogliarsi in studio davanti a un pubblico di ragazzini, con questi minori che fanno poi ai primi domande sul corpo umano. Il programma in questione, riporta il Daily Mail, si chiama Simply Naked ed è stato prodotto e pubblicizzato dall’emittente pubblica Nos. La platea di bambini che assiste a tale spogliarello, in base alle anticipazioni del programma, è composta da ragazzi con età dai 10 ai 12 anni e, a detta dei produttori del programma, questo sarebbe diretto a mostrare ai più piccoli com’è fatto un corpo umano. Gli stessi autori del programma continuano inoltre ad assicurare che nello show non sono permesse domande sul sesso, ma, nonostante tale strenua difesa del programma tv incriminato, quest’ultimo non smette di creare polemiche. Le pubblicità della nuova trasmissione hanno immediatamente indignato numerose associazioni di genitori, secondo cui i bambini che assistono nello studio tv allo spogliarello si sentirebbero a disagio e turbati. A sostegno di questa tesi, le stesse associazioni fanno riferimento alla frase pronunciata, in uno degli spot pubblicitari di Simply Naked, da uno dei minorenni presenti in platea durante le riprese dello show, che, alla vista dei corpi nudi degli adulti, esclama appunto: “Questo non è uno spettacolo che dovrei vedere”. La trasmissione si è inoltre attirata le critiche di un fronte politico trasversale, con i conservatori che l’accusano apertamente di inneggiare alla pedofilia, mentre i parlamentari di sinistra bollano invece il programma come “ridicolo”. A difesa dello show sono scesi in campo volti noti della televisione olandese e rappresentanti dell’emittente di Stato. Il presentatore Edson da Graça ha infatti ribadito l’intento educativo di Simply Naked, affermando che la trasmissione incriminata punta a insegnare ai più piccoli che “ogni corpo umano è diverso dall’altro e che non tutti i fisici sono perfetti”. A sostegno dello show è intervenuta anche Elsbeth Reitzema, che ha collaborato con i produttori del programma in qualità di membro della Fondazione Rutgers per il benessere sessuale. A detta della Reitzema, bambini che osservano i corpi nudi di gente qualunque imparerebbero a sviluppare un’idea di corpo umano “più positiva”, piuttosto che venire bombardati con le immagini semi-pornografiche e distorte diffuse da alcuni canali televisivi o siti Internet. L’emittente pubblica Nos ha infine emesso un comunicato con cui dice che si aspettava un putiferio simile, ma in cui difende comunque la propria scelta di mandare in onda Simply Naked evidenziando che la realizzazione del programma citato sarebbe stata fatta con “estrema cautela” proprio per salvaguardare la sensibilità dei più piccoli. La nota in questione termina poi così: “Sta alla fine ai genitori decidere cosa fare vedere in televisione ai loro figli”. Gli autori di Simply Naked affermano di avere realizzato il programma prendendo spunto da uno spettacolo simile da anni in onda in Danimarca: Ultra smider tøjet (Ultra spogliarello). Anche in questa trasmissione nordica si vedono adulti spogliarsi davanti a dei bambini, dato che, a detta degli ideatori della serie tv scandinava, l’educazione tipica danese dei più piccoli stabilisce che questi ultimi devono essere messi quotidianamente davanti alla cruda realtà. Proprio in nome di tale modello educativo, dei bambini, in una puntata del programma danese risalente al 2014, sono stati fatti assistere, allo zoo di Copenaghen, all’abbattimento di una giraffa, per poi vedere come l’animale morto veniva fatto a pezzi e quindi dato in pasto ai leoni della struttura.

Da huffingtonpost.it il 3 marzo 2021. “Era un po’ tutto concordato. Amadeus, che è un professionista, non il primo che capita, e la regia del Festival di Sanremo, hanno voluto inserire quel gesto, e in questo senso a me sembra davvero poco opportuno. Mi chiedo: come sarebbe stata presentata la stessa situazione se anziché fare il segno della croce, Amadeus avesse esposto la nostra tessera in mondovisione? Probabilmente ci sarebbero state delle proteste, dicendo che Amadeus aveva occupato lo spazio pubblico promuovendo la sua concezione del mondo. E questo è ciò è successo”. A dirlo all’AdnKronos è il segretario nazionale dell’Uaar, l’Unione atei agnostici razionalisti, Roberto Grendene, commentando il segno della croce che ieri Amadeus si è fatto all’inizio della prima puntata del Festival di Sanremo, un attimo prima di scendere le scale del Teatro Ariston. Non è dello stesso parere l’Imam di Catania Abdelhafid Kheit, che parla sempre all’AdnKronos: “Come uomo di Dio e di religione, affidando tutto al nostro creatore, è sempre un gesto gradevole e bello. Esprime la propria fede in un momento di difficoltà dove la pandemia che oltre a creare vittime e problemi in tutto il pianeta, sta pure cambiando tante abitudini, come in questo caso, il festival di Sanremo, che per l’Italia rappresenta un momento importante per il mondo dello spettacolo e della musica”. “Io non giudico le intenzioni delle persone - conclude l’Imam di Catania- ma ribadisco come quello del conduttore, sia stato un bel gesto perché, oggi più che mai, abbiamo bisogno della preghiera e della spiritualità, in privato e in pubblico, per accompagnare e supportare ogni gesto quotidiano in un periodo di grande difficoltà come quello che investe il mondo”. “Credo che vadano rispettate le sensibilità religiose dei singoli e dei cittadini italiani” dice invece Yahya Pallavicini, presidente della Coreis (Comunità Religiosa Islamica Italiana), “A mio avviso non bisogna avere un atteggiamento puritano nei confronti di un istinto di sensibilità religiosa. Inviterei, dunque, a moderare i termini e a rispettare le sensibilità religiose spontanee, perché fanno parte della natura dell’uomo che crede. Perciò, rispetto per il gesto di Amadeus. Stiamo attenti, però, a non esasperare neanche le ostentazioni identitarie. In altre parole, occorre trovare con intelligenza e sensibilità la misura giusta fra libertà e dignità di culto e il voler fare dell’ostentazione, dello spettacolo religioso o del formalismo bigotto, e penso al Rosario dell’ex ministro dell’Interno”.

Vogliono annientare i simboli cristiani, ma la cultura può salvarci. Elisabetta De Luca il 19 Febbraio 2021 su culturaidentita.it. Che l’ondata di becera globalizzazione modernista stia ormai attanagliando il mondo fino a stritolarlo, corrodendo ogni aspetto delle esistenze individuali è un innegabile dato di fatto: chi non lo accetta è omertoso complice della distruzione in corso. Bersaglio preferito delle vessazioni incessanti del web e della stessa società sembrano essere divenuti i Cristiani, verso cui vilipendi e ingiurie sono all’ordine del giorno. Basta una sola occhiata ai social per rimanere esterrefatti: esprimere liberamente la propria appartenenza alla religione cattolica procura ormai automaticamente accuse di idolatria, di promozione di odio e discriminazione sociale. Più si manifesta la propria fede, più piovono abominevoli blasfemie, da parte di utenti inferociti e logorati dall’odio: sembra non essere più rimasto un solo post in rete che non rechi una forma di bestemmia nei commenti sottostanti o che non contenga un riferimento offensivo al sempre più debole e vessato popolo cristiano. Sembra che il rispetto e il buoncostume siano più che decaduti, nell’apparente trionfo di ingiurie diventate ormai inestirpabili e ossessivi intercalari, giustificate freddamente e spaventosamente dietro la schiavitù dell’abitudine: la bestemmia è quasi una forma di saluto, di cui soprattutto i giovani, anche spesso involontariamente, non riescono più a fare a meno. Complice ne è anche il sistema scolastico: sembra venga ormai quasi insegnato che essere cristiani inibisca la regolare analisi critica di una problematica, finanche l’esercizio di una propria logica di pensiero. Chi crede è automaticamente quasi emarginato, definito necessariamente bigotto, additato come retrogrado e incapace di prendere decisioni svincolate dalla fede stessa. In un’epoca che sembra voler spazzare via ogni precetto morale cristiano in nome di una modernista e progressista secolarizzazione, la cultura è l’unica arma che può salvarci. Ci sovvengano dunque le parole dei Santi Agostino, Anselmo, Tommaso (chissà perché, delle volte, scartati dai programmi didattici dei licei per sedicente mancanza di tempo) finanche dello stesso Dante e di qualsiasi altro uomo di vera fede, da Galilei a Pascal, da Plotino a Manzoni, da Seneca a Leibniz, che da sempre hanno innalzato e coniugato la filosofia, l’arte, la scienza, la letteratura, la matematica, con la più preziosa e costante ricerca di Dio, come se Fede e Scienza fossero davvero due ali di uno stesso corpo che vola nella stessa direzione, quella della Verità, vibranti all’unisono, l’una in funzione dell’altra. In tempi così duri, affidare a Dio le proprie angosce e innalzare i vessilliferi segni della propria fede diventa sinonimo di un incendiario amore e si configura come la più tortuosa delle ambagi, la più ardua delle missioni. In un mondo irrimediabilmente svuotato della presenza di Dio, ravvisare la mano della Sua creazione in ogni creatura sembra essere ormai un pensiero ribelle e rivoluzionario. Ci ingabbiano gli intenti di turpe laicizzazione forzata di ogni tradizione e istituzione, fino al materialismo e al meccanicismo più crudi. In un mondo che demonizza chi crede, ritenendo la fede stessa un valore atavico e superato, continuare a professare la propria religione assurge alla più alta forma di libertà raggiungibile in un secolo di oppressione come questo. Fa riflettere e lascia attoniti l’eclatante e terrificante pretesa dell’Università di Torino di nascondere crocifissi, altarini, santini e medagliette durante le sessioni di esami a distanza. Intimerebbero mai a una ragazza islamica di non indossare il suo hijab durante l’esame? O chiederebbero mai a un ragazzo ebraico di non portare il suo copricapo a lezione? E se allora l’annientamento dei simboli cristiani non fosse stato concepito in nome di una millantata e livellante uguaglianza, bensì finalizzato all’esclusiva eradicazione della religione cattolica dal cuore dell’Italia?

Gianluca Veneziani per Libero Quotidiano il 22 febbraio 2021. Porca puttena, mi hanno messo il baveglio e mo' vi spezzo la noce del capocollo. Uno dei personaggi interpretati da Lino Banfi commenterebbe così la decisione di Facebook di chiudere un gruppo social dedicato ai film e agli sketch dell'attore pugliese. La comunità, chiamata "Noi che amiamo Lino Banfi official", radunava 117mila fan di Lino, ma due giorni fa è stata oscurata, udite udite, per violazioni degli standard di Facebook in merito a violenza e sesso. Ma cosa pubblicava di tanto scabroso questo gruppo gestito dal siciliano Calogero Vignera, ottimo imitatore di Banfi? Tra i post fioccavano video di Lino che dice «Ti spezzo la noce del capocollo e ti metto l'intestino a tracollo», considerati da Facebook un «incitamento alla violenza»; o la celeberrima canzone «E benvenuti a 'sti frocioni, belli grossi e capoccioni», suonata nel film Fracchia la belva umana e ora bandita dal social in quanto «incitamento all'odio» contro i gay; per non parlare della scena «Il sesso mi fa male», giocata sull'equivoco sasso/sesso e segnalata in quanto «incitamento sessuale»; o delle immagini di Gloria Guida nuda in doccia nel film La liceale seduce i professori, e di Edwige Fenech stesa sul divano in topless nella commedia Zucchero, Miele e Peperoncino, giudicate «atti di pornografia». gruppo apprezzato Questi casi sono solo la punta dell'iceberg. «Oltre 400 post sono stati segnalati», ci dice sconfortato Vignera. «Eppure nel gruppo si potevano pubblicare solo immagini e frasi dei film con Lino e scatti relativi alla sua carriera. Qualsiasi altra foto legata ad altri personaggi o contesti, tanto più se violenta o hard, veniva da me filtrata e non pubblicata. E poi il gruppo era apprezzatissimo: oltre a fan di Lino, aderivano personaggi noti come Andrea Roncato, Gloria Guida, Sergio Martino, Sandro Ghiani». Gli scopi di questa comunità? «Il principale era quello di far ridere e tirar su il morale alle persone. Tanti iscritti erano italiani emigrati all'estero che mi dicevano: "Grazie a questi video mi sento più vicino a casa". E poi facevamo tanta beneficenza: mettevamo all'asta gli autografi di Lino e destinavamo il ricavato a Croce Rossa, Airc o Komen Italia». Ma allora chi può aver avuto interesse a segnalare il gruppo? «Magari può essere stato qualche utente invidioso del successo di questa comunità», ipotizza Vignera, «o può essersi trattato di un attacco mediatico contro Banfi da parte di chi trova "scorretta" la commedia sexy, o possono essere stati gli stessi controllori di Facebook in base alle segnalazioni degli algoritmi». bavaglio all'ironia. Lo scenario, in ogni caso, pare inquietante, trattandosi di un bavaglio applicato a scene comiche, e per di più di una censura retroattiva che riguarda immagini risalenti a 40 anni fa. «Ho chiesto a Facebook di ripristinare subito il gruppo», avverte Vignera. «Se ciò non accadrà, ne creerò un altro postando gli stessi video. In più mi riservo di far causa». La sua rabbia è condivisa da Banfi. «Ci stanno togliendo la possibilità di ridere e far ridere, cosa di cui oggi avremmo un gran bisogno», ci confida l'attore. «Per questo dico basta agli eccessi del politicamente corretto: con queste azioni sono gli stessi censori a risultare ridicoli e stupidi. Ma davvero credono che dire "Ti prendo le ginocchia e te le metto nelle dita dei piedi" sia un incitamento alla violenza?». Banfi entra anche nel merito di una delle scene incriminate, quella sui frocioni. «Nessun gay», avverte, «si è mai sentito offeso da quella canzone. D'altronde, io ho interpretato più volte la parte dell'omosessuale, in modo divertente, qualche volta esasperato, ma sempre con garbo e tenendomi distante milioni di chilometri dall'omofobia. Pensi che perfino un capo della Polizia mi disse che, ogni volta che doveva consegnare i diplomi ai nuovi commissari, prima di lasciarli andare via, faceva loro cantare quei miei versi: "Non sono frocione, non mi chiamo Frì Frì, sono commisserio e ti faccio un culo così!"». Parola di Banfi, alias commissario Lo Gatto: Mark Zuckerberg è avvisato.

Marco Gervasoni per “il Giornale” il 19 febbraio 2021. Il nuovo ministro dell'Università, Cristina Messa, vuole rilucere e non apparire una scartina come quasi tutti i suoi predecessori? Si ispiri al suo collega inglese del governo di Boris Johnson, cerchi per quanto le compete di arrestare la deriva estremista, che ormai sta prendendo piede pure nei nostri atenei, a un livello ancora non cosi grave come negli Usa e nel Regno Unito, ma che se non fermata potrebbe condurre lì. Di quale deriva stiamo parlando? Di quella che in inglese si chiama tendenza woke, che va dall'abbattimento delle statue alla cancellazione dei corsi di storia (e di storia dell'arte e della musica) perché troppo «eurocentrici», fino alla censura sulle opere letterarie classiche accusate di «anti femminismo» e di «razzismo»: un caso piccolo ma significativo di wokism nostrano lo abbiamo avuto all'Università di Torino, dove si è cercato di mettere fuori legge il crocefisso e gli altri simboli religiosi. Ma se Cristina Messa, di cui non conosciamo le idee politiche, non vuole ispirarsi ai Conservatori brutti e cattivi di Johnson, prenda esempio dalla sua collega del governo francese, Fréderique Vidal, anche lei non «politica» ed ex rettore. Il governo francese in fondo è un mix di destra, di sinistra e di tecnici, anche se Macron non è certo un conservatore. Vidal si è spinta ancora più avanti del collega inglese. Ha stigmatizzato la violenza in molti atenei francesi, in cui i docenti che non sostengono i movimenti di estrema sinistra chiamati «indigeneisti», vengono spesso zittiti e in cui è impedita la libertà di parola a insegnanti e a studenti conservatori. E ancor più, il ministro francese ha chiesto di controllare se le ricerche universitarie siano ideologicamente orientate da quello che in Francia si chiama islamo gauchisme, l'alleanza tra estrema sinistra e gruppi radicali islamisti: una «cancrena», l'ha definita il ministro, «che unisce Mao Tze Tung e Khomeini». Nelle università transalpine, infatti, minacciati non sono solo i docenti e gli studenti estranei all'estrema sinistra: sono presi di mira anche quegli insegnanti critici dell'islamismo o semplicemente a favore dei valori «repubblicani» di laicità. E lì non si scherza, visto che uno di loro, l'insegnante di liceo Samuel Paty, è stato decapitato l'autunno scorso dagli islamisti vicino a Parigi. L'intervento del ministro francese - che ha causato un'ondata di critiche ideologiche da parte dei professori e della sinistra, che ne chiedono le dimissioni - è doveroso e sacrosanto, soprattutto perché molti rettori non sono in grado di assicurare la libertà di insegnamento. Però il controllo del ministero sulla produzione scientifica ci sembra una intrusione non solo illegittima, ma pure inutile. A che serve sapere che, ad esempio, per citare un caso nostrano, alcune riviste scientifiche di storia contemporanea pubblichino saggi negazionisti sulle foibe? O forse si vuole stilare una lista di ricerche «buone» e «cattive» dal punto di vista del ministero? Pur avendo orrore per gli studi «scientifici» che inneggiano all'islamismo radicale, o che rivalutano Stalin e Tito, ci fa ancora più ribrezzo l'idea di una «scienza di Stato»: che è roba da regimi comunisti, tra l'altro. Quindi, caro neo ministro Messa, no alla censura delle idee, ma no neppure al disinteresse nei confronti della deriva estremistica e antioccidentale nelle nostre facoltà umanistiche e di scienze sociali, magari coprendosi dietro il paravento della «autonomia universitaria». Se molti rettori non sono in grado di farlo, si occupi lei di assicurare la libertà dei professori e il diritto alla maggioranza degli studenti a apprendere scienza e cultura, e non pessima propaganda.

Da ilmessaggero.it il 5 marzo 2021. Gelo sul palco dell'Ariston di fronte all'infelice battuta di Fiorello a commento della magrezza della co-conduttrice della terza puntata del festival di Sanremo 2021, Vittoria Ceretti. “Tu sei bella magretta eh?” dice il mattatore osservando con attenzione la presenza scenica della top model italiana. La Ceretti risponde però decisa alla battuta dello showman: “Bah però un po’ di formette ce le ho”. Da subito si scatenano i social, e gli utenti si dividono tra quanti si dicono indignati per gli ancora attuali stereotipi del mondo della moda, che vogliono la magrezza come conditio-sine-qua-non della passerella, e quanti, invece, si dicono contrari al giudizio del corpo della donna in ogni contesto. «Che momento imbarazzante» è il post twitter che sintetizza al meglio la polemica scatenata.

Dagoreport il 5 marzo 2021. Se non si può più dire a una donna “magretta” temo che presto il politically-correct vieterà il “Don Giovanni” di Mozart perché il termine che Fiorello storpia viene dal libretto di Da Ponte (“Vuol d'inverno la grassotta, vuol d'estate la magrotta”). Storpia perché, appunto, si dice “magrotta” essendo la “magretta” un tipo di pancetta. Quanto a prendere in parola la risposta della modella, “Ho le mie formette” vorrebbe dire che ha “i contenitori che si usano per fare la ricotta”, le formette, appunto. Per Tommaseo, il termine formetta si usa per il pane e, appunto, il formaggio, non per seno e fianchi.

Fiorello si sfoga: "Body shaming? Ora non si può dire più niente". Lo showman ha replicato alle accuse mossegli dopo la battuta a Vittoria Ceretti e sulla questione fiori alle donne sdogana l'omaggio agli uomini. Novella Toloni - Ven, 05/03/2021 - su Il Giornale. La quarta serata del festival di Sanremo si è aperta con Fiorello che si è tolto un sassolino dalla scarpa. Quello fastidioso legato alla "battuta" che aveva fatto nella serata delle cover alla modella Vittoria Ceretti, definita "bella magretta" dallo showman. "Amadeus attento, basta che dici "A" e scoppia il caos", ha scherzato Rosario in avvio di puntata, dando il via all'ennesima ondata di critiche. Che Fiorello tornasse sulla polemica era inevitabile, se non altro per continuare a far discutere (e sui social network è andata proprio così). Arrivato a sorpresa sul palco del teatro Ariston per annunciare l'arrivo della co-conduttrice della serata, Barbara Palombelli, lo showman siciliano è tornato sulla polemica scatenatasi dopo la serata delle cover per quelle parole pungenti rivolte a Vittoria Ceretti per la sua magrezza. "Ormai è difficile, perché se dici 'come stai bene?' ti rispondono 'allora prima stavo male?!', body shaming. Se dici: 'come sei dimagrito?' 'Allora prima ero grassò, body shaming"", ha dichiarato Fiorello, rispedendo al mittente le critiche. Politically correct che invece non esiste nel mondo degli animali: "Gli animali sono meglio di noi, perché non lo sanno. Non è che un leone se perde peli sulla criniera si fa il riporto. E poi il gorilla è alto quasi 2 metri e pesa 250 chili, ma ce l' ha di 2 centimetri... Ora l'Agi, Associazione Gorilla Italiani, si lamenterà. Il pitone ce ne ha due, uno di cortesia. Ma ora protesterà l'Api, l'Associazione Pitoni Italiani". Il mattatore del Festival ha poi preferito spostare l'attenzione sul un altro aspetto legato alla kermesse canora. Quello degli omaggi floreali. Fiorello si è presentato al fianco di Amadeus con un paio di guanti bianchi, pronto a regalare fiori anche agli uomini: "Perché dobbiamo darli solo alle donne? Basta sdoganiamo i fiori anche agli uomini". Una proposta che era già stata lanciata, involontariamente, da Francesca Michielin che, nella serata delle cover, ha ceduto il suo mazzo di fiori a Fedez. "Io e Fede facciamo una sera ciascuno, stasera i fiori vanno a lui", ha spiegato la cantautrice, dando il via a una vera e propria "rivoluzione", apprezzata e condivisa dagli utenti del web. Fiorello sulla linea sottile del completo disastro con le battute di stasera. Manca solo che dica che “non si può più dire niente”. Come dite? L’ha già detto? 

Sanremo 2021, Laura Boldrini replica a Beatrice Venezi: "Direttrice è bellissimo, rifletta sui sacrifici delle donne". Libero Quotidiano il 06 marzo 2021. Laura Boldrini replica a Beatrice Venezi, il direttore d'orchestra che ieri ha condotto la prima parte del Festival di Sanremo insieme ad Amadeus. La Venezi ha detto molto chiaramente di voler essere chiamata direttore e non direttrice: "La posizione ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d'orchestra". Non ci sta però la Boldrini, che da presidente della Camera decise di lanciare i mestieri declinati al femminile nei media. "Il femminile è bellissimo", ha commentato. "Più che una scelta individuale della direttrice d'orchestra Venezi, è la scelta grammaticale a prevalere e quella italiana ci dice che esiste un genere femminile e un genere maschile. A seconda di chi riveste il ruolo si fa la declinazione. Chi rifiuta questo lo fa per motivi culturali", ha spiegato la dem in un'intervista all'Adnkronos. Poi ha continuato dicendo che "la declinazione femminile la si accetta in certe mansioni come "contadina", "operaia" o "commessa" e non la si accetta quando sale la scala sociale, pensando che il maschile sia più autorevole. Invece il femminile è bellissimo". Secondo lei  si tratta di "un problema serio che dimostra poca autostima". "Inviterei la direttrice Venezi a leggere cosa dice l'Accademia della Crusca, la più alta autorità linguistica del nostro paese. Se il femminile viene nascosto, si nascondono tanti sacrifici e sforzi fatti", ha aggiunto la Boldrini. Continuando a rivolgersi alla protagonista della quarta serata del Festival, ha detto: "Mi permetto di invitarla a riflette su queste cose. Anche perché non è affatto brutto o cacofonico 'direttrice', ma rappresenta l'affermazione di un traguardo. Spero si renda conto che usare il femminile possa aiutare tante ragazze ad avvicinarsi a questo lavoro che per secoli è stato solo di uomini".

Da ilfattoquotidiano.it il 6 marzo 2021. “Non ho seguito in diretta, ma dico in primis bravo Amadeus a rispettare il genere femminile. Più che una scelta individuale della direttrice d’orchestra Venezi, è la scelta grammaticale a prevalere e quella italiana ci dice che esiste un genere femminile e un genere maschile. A seconda di chi riveste il ruolo si fa la declinazione. Chi rifiuta questo lo fa per motivi culturali“. Così all’Adnkronos l’ex presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini sulle polemiche di Sanremo generate da Beatrice Venezi che ieri ha puntualizzato sul suo mestiere. “Direttrice d’orchestra? No, meglio direttore”, ha detto Venezi. La Boldrini spiega che “la declinazione femminile la si accetta in certe mansioni come "contadina", "operaia" o "commessa" e non la si accetta quando sale la scala sociale, pensando che il maschile sia più autorevole. Invece il femminile è bellissimo – dice la deputata del Pd – E’ un problema serio che dimostra poca autostima. Inviterei la direttrice Venezi a leggere cosa dice l’Accademia della Crusca, la più alta autorità linguistica del nostro paese. Se il femminile viene nascosto, si nascondono tanti sacrifici e sforzi fatti”. “Un atteggiamento che non rende merito al percorso che tante donne hanno fatto per raggiungere queste posizioni – sostiene Laura Boldrini – Mi permetto di invitarla a riflettere su queste cose. Anche perché non è affatto brutto o cacofonico "direttrice", ma rappresenta l’affermazione di un traguardo. Spero si renda conto che usare il femminile possa aiutare tante ragazze ad avvicinarsi a questo lavoro che per secoli è stato solo di uomini”, conclude.

"Direttore? Poca autostima...". La Boldrini processa la Venezi. Laura Boldrini ha commentato le polemiche sulla richiesta della Venezi di declinare al maschile il suo ruolo di direttrice d'orchestra senza risparmiare critiche alla 31enne. Novella Toloni - Sab, 06/03/2021 - su Il Giornale. Quando si dice non perdere l'occasione per tacere. Mentre tutti applaudono alle parole di Beatrice Venezi, che ha scelto di dare un calcio al politically correct definendosi direttore d'orchestra, la voce fuori dal coro è quella di Laura Boldrini. L'esponente del Pd, intervistata dall'Adnkronos, è tornata sulla questione di genere criticando la scelta della Venezi ammettendo, oltretutto, di non aver neanche visto la diretta di Sanremo. "Non ho seguito in diretta, ma dico in primis bravo Amadeus a rispettare il genere femminile - ha commentato la Boldrini all'Adnkronos - Più che una scelta individuale della direttrice d'orchestra Venezi, è la scelta grammaticale a prevalere e quella italiana ci dice che esiste un genere femminile e un genere maschile. A seconda di chi riveste il ruolo si fa la declinazione. Chi rifiuta questo lo fa per motivi culturali". Il commento dell'ex presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini arriva il giorno dopo le parole di Beatrice Venezi, che nella quarta puntata del Festival - dopo essere stata chiamata direttrice - ha puntualizzato sul suo mestiere: "La posizione ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d'orchestra, non di direttrice. E così voglio essere chiamata, me ne assumo la responsabilità". Parole che Laura Boldrini ha voluto subito commentare in tono critico, forte della battaglia personale che sta conducendo, insieme ad altre cento donne, contro la Treccani sul termine "donna". E così ecco arrivare la lezione di linguistica: "La declinazione femminile la si accetta in certe mansioni come "contadina", "operaia" o "commessa" e non la si accetta quando sale la scala sociale, pensando che il maschile sia più autorevole. Invece il femminile è bellissimo". La Boldrini non si è risparmiata, alla fine, la critica diretta alla 31enne: "Direi che è un problema serio che dimostra poca autostima. Inviterei la direttrice Venezi a leggere cosa dice l'Accademia della Crusca, la più alta autorità linguistica del nostro paese. Se il femminile viene nascosto, si nascondono tanti sacrifici e sforzi fatti. Un atteggiamento che non rende merito al percorso che tante donne hanno fatto per raggiungere queste posizioni. Mi permetto di invitarla a riflette su queste cose. Anche perché non è affatto brutto o cacofonico “direttrice”, ma rappresenta l'affermazione di un traguardo. Spero si renda coto che usare il femminile possa aiutare tante ragazze ad avvicinarsi a questo lavoro che per secoli è stato solo di uomini". E sulle parole della Venezi è intervenuto anche l'ex ministro Fedeli: "Già quando sono entrata nel sindacato Cgil mi facevo chiamare "la segretaria nazionale" e non "il segretario". Poi "ministra" e 'la vice presidente del Senato'. La lingua italiana ci offre termini corretti per non escludere e non imporre. Sulla questione del direttore o direttrice di orchestra, prendo atto che Beatrice Venezi, bravissima e preparatissima, abbia scelto di farsi chiamare "direttore". Avrei preferito il contrario, ma bisogna essere liberi di scegliere, di farci chiamare come ci si sente meglio", ha affermato all'Adnkronos.

DAGONOTA l'11 marzo 2021. Si dice direttore o direttrice? Il “Corriere della Sera” ha messo in croce Beatrice Venezi per la sua scelta di farsi chiamare e di scrivere “direttore d’orchestra”, e non direttrice, come testimonial pubblicitario per il lato b-ioscalin. Ha tirato fuori gli arzigogoli di un linguista e una giornalista ha accusato la Venezi di “patriarcato introiettato” (cos’e’? Una nuova malattia mentale per non femministe?). Ma cosa scrive proprio il “Corriere della Sera” nella sua gerenza? Scrive: “Vicedirettore vicario Barbara Stefanelli” e scrive “Vicedirettore” Fiorenza Sarzanini, tutto al maschile! Come si dice predicare male e scrivere bene in via Solferino?

Giuseppe Antonelli per corriere.it l'11 marzo 2021. «Il mestiere ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d’orchestra». Così giovedì sera Beatrice Venezi sul palco di Sanremo ha spiegato la sua scelta di voler essere chiamata direttore e non direttrice. Se questo è il principio, un paio di sere fa, Alessia Bonari avrebbe potuto dire ad Amadeus che non voleva essere chiamata infermiera: «Il mio mestiere ha un nome preciso ed è quello d’infermiere». Perché infermiera sì e direttrice no? Forse perché è un femminile che non si fa con una a, ma si costruisce con un suffisso diverso? Ovviamente no. Se questo fosse il punto, qualche anno fa – sempre su quello stesso palco – Virginia Raffaele avrebbe potuto chiedere di essere chiamata non imitatrice o attrice, ma attore o imitatore e mai e poi mai presentatrice o conduttrice, ma presentatore o conduttore: «il nome del mio mestiere è quello». Volendoci scherzare un po’ su – è bene sdrammatizzare anche le discussioni linguistiche! – si potrebbe evocare persino la quinta edizione del Vocabolario della Crusca (1863), in cui alla voce beatrice si legge: «femminile di beatore». La questione, ancora una volta, è culturale: perché la lingua cambia con la cultura e con la mentalità della comunità che la parla e la scrive. E allora – per una vecchia mentalità – ci sarebbero mestieri che si possono declinare al femminile (come l’infermiera o la segretaria) e altri che invece dovrebbero rimanere al maschile. È per questa mentalità che si fatica ad accettare parole che ormai dovrebbero risultare perfettamente normali, visto che la società è finalmente cambiata: parole come architetta, avvocata, notaia, ingegnera e persino una parola vecchia – se non antica – come direttrice. Non sarà un caso che la parola direttrice esista fin dal Medioevo per indicare una linea, ma si usi solo dalla fine del Settecento per indicare una donna che dirige un gruppo o un istituto. Gruppo o istituto che a lungo poteva essere solo femminile: perché una donna che dirigesse degli uomini non era immaginabile. Così come, fino a due secoli fa, non era immaginabile una donna laureata o una donna in cattedra: e infatti ci si faceva beffe di parole come dottoressa o professoressa. Agli ultimi decenni del Settecento risalgono anche le prime attestazioni in italiano dell’espressione «direttore d’orchestra», ma bisogna aspettare il 1905 per leggere la notizia di «una donna direttrice d’orchestra nell’attuale stagione lirica al Politeama di Livorno». Comunque, più di un secolo fa. Eppure ancora oggi, in un’edizione del Festival in cui i direttori d’orchestra sono tutti uomini, vediamo salire sul palco una donna che per mestiere dirige l’orchestra e le sentiamo dire che non è una direttrice, ma un direttore. Come se il femminile non fosse ancora contemplato da quel mestiere o come se implicasse una diminuzione del suo prestigio; come se essere una maestra fosse meno o peggio che essere un maestro.

Estratto dell’articolo di Chiara Maffioletti per corriere.it l'11 marzo 2021.

La declinazione al femminile non dovrebbe essere una diminutio. Non è giusto correggere questa percezione?

«Potremmo puntare a un termine neutro. Ma prima mi concentrerei sul farlo diventare un lavoro a cui possano accedere egualmente uomini e donne. Ho lavorato sodo per quello che faccio, conoscendo i pregiudizi e le difficoltà che incontrano le donne: non si risolvono declinando al femminile».

Quindi per lei è un non problema?

«È una tematica polemica un po’ sterile, penso anche che per le giovani generazioni. Oltretutto credo che non ci sia niente di più potente che essere chiamata direttore e arrivare donna, con i capelli biondi e un bel vestito. Dimostro il mio valore con il lavoro».

Ma una cosa non nega l’altra. Anche la parola «ministra» non era molto usata. Le cose sono cambiate, anche passando per il lessico.

«Capisco la posizione di chi dice che dovrei chiamarmi direttrice, secondo me non sposta l’ago bilancia».

La sua collega Gianna Fratta l’ha criticata per la sua uscita.

«Sì, poi vai sul suo sito e cosa c’è scritto? Direttore d’orchestra. Dimostra quanto sia ideologica la critica».

Sono intervenuti molti politici.

«Ho espresso un pensiero già esternato solo che qui è diventato gigante».

 Il suo è patriarcato introiettato?

«Macchè. Ci si divide su questo anziché concentrarsi perché una donna venga riconosciuta per la sua qualità, azzerando ogni differenza».

Selvaggia Lucarelli: "La Venezi da donna avrebbe pulito gli spartiti anni fa". Anche Selvaggia Lucarelli si è unita al coro delle femministe contro Beatrice Venezi, che dal palco di Sanremo ha rivendicato il titolo di direttore d'orchestra. Francesca Galici - Sab, 06/03/2021 - su Il Giornale. Beatrice Venezi è stata la co-conduttrice della prima parte della quarta serata del festival di Sanremo, quella dedicata ai giovani. È stata sul palco per circa un'ora, ha fatto due cambi d'abito e affiancato Amadeus. Poco nota al grande pubblico, è molto famosa in ambito musicale, essendo pianista e direttore d'orchestra. Non direttrice: direttore. Ci ha tenuto a specificarlo sul palco dell'Ariston davanti a una platea televisiva di milioni di persone, per rivendicare la parità dei sessi e del suo ruolo rispetto a quello dei suoi colleghi uomini. Una presa di posizione che non è piaciuta ai radical chic e alle femministe integraliste, che da ieri sui social danno battaglia a Beatrice Venezi. Tra loro anche Selvaggia Lucarelli, che non si ha mancato occasione di dire la sua, schierandosi contro il direttore d'orchestra. Qual è il punto della questione? L'attribuzione del titolo maschile che si è data Beatrice Venezi. Il direttore d'orchestra ha rivendicato il diritto che il suo titolo non venga declinato al femminile, ma rispetti quello che è il nome della sua professione, così come riportato nel titolo di studio conseguito dopo lunghi anni di studio e di fatica. Beatrice Venezi è il più giovane direttore d'orchestra del Paese, segno che nella sua carriera ha saputo imporsi e dimostrare il suo valore al di là del maschile o del femminile del titolo. "Me ne prendo la responsabilità", ha detto la Venezi, consapevole che le sue parole avrebbero scatenato l'ira social delle femministe. E, infatti, così è stato. D'altronde non è la prima volta che Beatrice Venezi rivendica questo diritto e che viene criticata. Ma senz'altro il palco di Sanremo le ha dato la possibilità di rivolgersi a una platea molto ampia. Selvaggia Lucarelli, giornalista de Il Fatto Quotidiano, non ha gradito le parole del direttore d'orchestra: "Quello che penso è che Beatrice Venezi dovrebbe rivendicare con fierezza il fatto di essere una direttrice visto che anni fa, in quanto donna, avrebbe potuto al massimo pulire gli spartiti con un panno caldo. Sono le donne che trattano il femminismo come un qualcosa di ideologico, anziché di necessario". Un attacco frontale a Beatrice Venezi da parte di Selvaggia Lucarelli, che attraverso l'Adnkronos si è unita al coro di dissenso delle femministe. "Peccato", ha concluso la Lucarelli, che si è unita a quanto detto nelle scorse ore anche da Laura Boldrini. Eppure, il discorso di Beatrice Venezi è stato molto più femminista rispetto a molte altre battaglie vacue.

Selvaggia Lucarelli contro Maria Monsè: la foto scandalosa in costume con la figlia, "fermate questa donna". Libero Quotidiano il 06 marzo 2021. "Fermate Maria Monsè". La foto "scandalosa" della showgirl in costume ridottissimo, abbracciata alla figlia 14enne Perla Maria scatena la rabbia di Selvaggia Lucarelli, che in quella foto vede tutto tranne che un sano rapporto madre-figlia (adolescente). "Qualcuno dovrebbe fermare questa donna anziché invitarla in tv con la figlia 14enne, che non ha colpe. Capito Barbara D'Urso?", scrive la giornalista del Fatto quotidiano in una delle sue Instagram Stories, condividendo lo scatto in questione. Il riferimento diretto è alla conduttrice Mediaset, con cui la Lucarelli non è mai tenera. L'accusa è quella di dare troppo spazio alla Monsè, spesso ospite dei programmi di Carmelita su Canale 5, peraltro lanciata insieme alla figlia poco più che bambina da una vecchia edizione del Grande Fratello Vip. "C'è qualcosa di profondamente disturbante in tutto questo - ha aggiunto poi la Lucarelli, in una delle Instagram Stories successive -. Nessuno dovrebbe portare in questa roba. Nessuno. Ha fatto bene Zingaretti a dimettersi. Chiunque difenda la tv della D’Urso in un paese serio dovrebbe dimettersi, a pensarci bene". Il confine tra la critica e l'ironia è molto labile, conoscendo Selvaggia e l'astio personale che la divide dalla D'Urso. La Monsè e la figlia Perla Maria erano già finite nella bufera per la decisione di far sottoporre la figlia a un'operazione chirurgica per ridurre il naso, considerato troppo "ingombrante".

Da ilmessaggero.it l'8 marzo 2021. Maria Monsè contro Selvaggia Lucarelli, il botta e risposta al vetriolo incalza. Stavolta è Maria Monsè a consegnare al Messaggero la replica alla Lucarelli che aveva fortemente criticato le fotografie postate dalla Monsè sul suo profilo Instagram con la figlia minorenne Perla Maria, immagini giudicate troppo sexy e audaci. «Cara Selvaggia Lucarelli, in riferimento al post pubblicato ieri sulla tua pagina instagram ci tengo a precisare che il rapporto con mia figlia Perla Maria rappresenta un sano rapporto madre -figlia», scrive Maria Monsè. Cosa era successo? In sintesi, la Monsè si è mostrata sul social assieme alla figlia quattordicenne Perla Maria: entrambe in sexy (troppo?) costume da bagno, e in pose considerate un po' troppo audaci, in una vasca. Le immagini non a caso avevano scatenato la reazione dei fan sulla rete. Fino all'intervento social di Selvaggia Lucarelli: «C’e qualcosa di profondamente disturbante in tutto questo - ha scritto in un post di Instagram - E per “questo”, oltre la foto che neppure commento, oltre alle copertine con la figlia quattordicenne di cui mostra i ritocchi dal chirurgo, intendo dire che nessuno dovrebbe portare in tv questa roba. (ovvero il mondo di questa tizia) Nessuno». La palla passa a Maria Monsè. «Quello che dispiace - scrive Monsè - è che un sano rapporto madre-figlia debba essere oggetto di critica offensiva nei miei confronti oltre ad essere usato per proferire attacchi alla signora Barbara D’Urso amatissima dal pubblico visti i milioni di telespettatori che ogni giorno seguono i suoi programmi televisivi». «Mi viene mossa una critica per una foto pubblicata senza autorizzazione, esclusivamente con scopo denigratorio e che di certo non può essere qualificata da te "disturbante"; disturbante secondo i miei criteri di valutazione è quella persona che prima partecipa al reality “la fattoria“ (partecipammo insieme nel 2006 ) mandato in onda sulla stessa rete televisiva che oggi invece attacchi unitamente alla sua conduttrice di punta ovvero la Signora Barbara d’Urso anziché esserle riconoscente». «Forse ciò che disturba è il fatto che io a 47 anni posso permettermi ancora di fare degli scatti mettendo in mostra quanto natura mi ha dotato e purtroppo c’è chi invece alla mia stessa età non può farlo... e per andare in spa, avrei dovuto mettere il burqua a mia figlia?» Cara Selvaggia Lucarelli, in riferimento al post pubblicato ieri sulla tua pagina instagram ci tengo a precisare che il rapporto con mia figlia Perla Maria rappresenta un sano rapporto madre -figlia. Quello  che dispiace è che  un sano rapporto madre-figlia debba essere oggetto di critica offensiva nei miei confronti oltre ad essere usato per proferire  attacchi alla signora Barbara D’Urso amatissima dal pubblico visti i milioni di telespettatori che ogni giorno seguono i suoi programmi televisivi. Mi viene mossa una critica per una foto pubblicata senza autorizzazione , esclusivamente con scopo denigratorio e che di certo non può essere qualificata da te “ disturbante “ ; disturbante secondo i miei criteri di valutazione è quella persona che prima Partecipa al reality “la fattoria “ ( partecipammo insieme nel 2006 ) mandato in onda sulla stessa rete televisiva che oggi invece attacchi unitamente alla sua  conduttrice di punta ovvero la Signora Barbara d’Urso anziché esserle riconoscente . E come si può qualificare la condotta di un minore di anni 16 che nel luglio del 2020 va in piazza ad offendere il leader del partito di maggioranza Italiano di centro destra??  (Notizia ampiamente diffusa da ogni mezzo stampa). Forse ciò che disturba è  il fatto che io a 47 anni posso permettermi ancora di fare degli scatti mettendo in mostra quanto natura mi ha dotato e purtroppo C’è chi invece alla mia  stessa età non può  farlo... e per andare in spa , avrei dovuto mettere il burqua a mia figlia? Come qualificheresti quella persona che passa di colore in colore a seconda delle esigenze o dei vantaggi ricavabili,  che un giorno è di destra e un giorno è di sinistra un po’ come farebbe una farfallina che salta di fiore in fiore? 

Sanremo 2021, Selvaggia Lucarelli "sessista": "Molto meglio degli uomini", lei può dire che i maschietti fanno pietà. Libero Quotidiano il 03 marzo 2021. La sacerdotessa del giusto, alias Selvaggia Lucarelli, da assidua frequentatrice del mondo dello spettacolo quale è, non ha ovviamente risparmiato il suo acume durante la prima serata del Festival di Sanremo 2021. Un diluvio di tweet, di cinguettii dall'impareggiabile successo, quello che i fan consegnano a Selvaggia-la-giusta ogni volta che proferisce frasettina sul social. Beata lei, insomma. Evviva. E poiché sacerdotessa del giusto, Selvaggia ha emesso sentenze, battute, sparate, plausi e bocciature. Non gradisce granché la gag Amadeus-Zlatan Ibrahimovic: "Sul vocabolario, alla parola cringe da oggi ci sarà una foto della gag Amadeus-Ibrahimovic", performance insomma bollata come imbarazzante. Epperò sembra gradire lo sketch di Fiorello che parla delle dita dei piedi: "Avanguardia pura". Epperò Fiorello viene anche strigliato: "Se Fiorello si sposta un attimo vediamo anche Sanremo", gli rimprovera (curioso) l'eccessivo protagonismo. Bocciato Fedez: "Era meglio quando lanciava banconote dal finestrino". Una porzione speciale del twitter-pensiero della sacerdotessa Selvaggia spetta però a Matilda De Angelis, la bellissima - e bravissima - attrice bolognese co-conduttrice in questa prima serata (davvero notevole il pezzo sul bacio con Amadeus). La Lucarelli gradisce assai l'operato di Matilda, tanto che cinguetta: "La De Angelis è così brava da farci dimenticare la bruttezza di quello che le fanno fare". Eppoi, in un secondo cinguettio, Selvaggia la giusta aggiunge: "Matilda De Angelis è molto più brava di tutti gli uomini visti fino ad ora sul palco, conduttore compreso". Oh perbacco, sessismo! Discriminazione! Le donne meglio degli uomini! Ovviamente - noi - si scherza. Ma ci si interroga: cosa avrebbe detto la sacerdotessa del giusto se qualcuno avesse detto che il maschietto x "è molto più bravo di tutte le donne viste ad ora sul palco?". Chissà...

Sanremo, Beatrice Venezi schiaccia il politically correct: "Sono direttore, non direttrice d'orchestra". Poche parole ma chiare e dette col sorriso dal palco più importante d'Italia: in pochi secondi, Beatrice Venezi calcia via il femminismo integralista. Francesca Galici - Ven, 05/03/2021 - su Il Giornale. Dopo l'impalpabile presenza di Vittoria Ceretti sul palco del teatro Ariston nella terza serata, al festival di Sanremo è arrivata Beatrice Venezi. Di professione pianista e direttore d'orchestra, la co-conduttrice della quarta serata ha voluto immediatamente mettere in chiaro il suo ruolo nella serata ma, in generale, nell'ambito musicale, dimostrando che non sono le etichette a qualificare un professionista ma la sua bravura. Con una semplice frase, la pianista ha messo a tacere i ben pensanti del politically correct radical chic, sempre pronti a violentare la lingua italiana con le loro teorie campate per aria. In un momento storico in cui una certa parte politica sembra avere come priorità quella di eliminare il maschile generico dalla lingua italiana e forzare determinate parole in nome di una presunta parità tra i sessi, che sembra passare dalla forma e non dal contenuto, Beatrice Venezi ha voluto fare chiarezza sul suo titolo. "Io sono direttore d'orchestra", ha detto la Venezi sul palco del teatro Ariston ad Amadeus, che la stava presentando come direttrice. "La posizione ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d'orchestra, non di direttrice", ha spiegato la Venezi. Uno schiaffo morale alle femministe a ogni costo, con un discorso molto più femminista di quanto non vogliano farci credere gli integralismi della declinazione linguistica. Beatrice Venezi non vuole discriminazioni nella sua professione, non vuole sentirsi diversa rispetto ai suoi colleghi. "Mi assumo la responsabilità di questa cosa", ha detto Beatrice Venezi, "perché è importante quello che sai fare". Poche parole e un calcio al femminismo integralista per il direttore d'orchestra, come ama definirsi, come è scritto sui documenti faticosamente conseguiti dopo tanti anni di studi. La sua presa di posizione, potente seppur fatta con il sorriso, ha scatenato la polemica dei soliti benpensanti da tastiera, incapaci di accettare le forme e le regole della lingua italiana o, almeno, la decisione di una professionista che se ne infischia delle battaglie di contenuto e punta a dimostrare sul campo il suo valore. Beatrice Venezi non sarebbe diventata il più giovane direttore senza la determinazione e il coraggio mostrati sul palco, dove ha puntato i piedi consapevole che le sue parole avrebbero scatenato l'ira delle femministe dure e pure. Ma, forse, proprio questa sua voglia di affermare il suo ruolo senza le sovrastrutture inutili è molto più utile alla battaglia femminista rispetto a tante altre battaglie pressoché inutili.

Dagoreport il 7 marzo 2021. Beatrice Venezi aveva tutto per piacere alla sinistra conformista: il cognome giusto (quello di una città), brava in quanto donna, un lavoro da sempre appannaggio dei maschi, “impegnata” nelle buone cause seguite dai giornali (come Terre des Hommes), vestiti firmati, vacanze in luoghi fighi... Poi è caduta su due leggi fondamentali che i sacri sacerdoti del politically correct non possono perdonarle: una pubblicità che cede ad allusioni sul corpo della donna e il rifiuto di accettare una neolingua imposta ex nihilo. E così, dopo la pubblicità per Bioscalin dove si dice “Tira fuori il tuo lato B-ioscalin” (chiara allusione al lato B di una donzella), e dopo la preferenza a farsi chiamare “direttore” (come firmato nella pubblicità) e non “direttrice d’orchestra”, i vari Michela Murgia, Montanari e compagnia “cantante” si sono scatenati sulla tastiera. Anche con eccessi comici, come quelli di Laura Boldrini che ha dichiarato: “Beatrice Venezi ha poca stima di sè se si fa chiamare direttore”. A dire il vero, la Venezi è piuttosto piena di sé, sin da quando dichiarava per il “Corriere” che persino “una ragazzina di 13 anni sta preparando una tesi su di me collegandomi all’emancipazione femminile” (25-06-2018). Il “Corriere”, che l’aveva assoldata, ha subito fatto cadere il suo anatema per mano di un linguista chiamato a sostenere che la Venezi sbaglia perché la “lingua cambia” (sì, ma cambia dal basso; quando cambia per imposizione si chiama comunismo o fascismo!) accusandola anche di “patriarcato introiettato”!!! E dire che, prima di bacchettarla, il “Corriere” la portava in punta di bacchetta: nel 2018 un articolo per lei intitolato (forzando) “Non voglio i pantaloni”; il blog neofemminista del “Corriere” chiamato “La 27ma ora” la aveva invitata alla kermesse “Il tempo delle donne” nel 2019 mentre nel 2017 l’aveva inserita tra le 50 donne dell’anno per il “Corriere”. Poco importa se i critici musicali ridacchiassero dietro le quinte della direttrice/ direttore dell’Orchestra della Toscana, dell’Orchestra Milano Classica e della Nuova Orchestra Scarlatti Young che dirigeva quello che per loro è un non-tenore, Andrea Bocelli. Lei, trentenne biondona, e in quanto biondona direttore con merito, era la direttrice non in pantaloni e con il plus di essere appassionata di moda (cioè degli inserzionisti pubblicitari): “Mi piace dirigere in gonna, ho diversi abiti da sera, mi piace il rosso. Non dobbiamo imitare gli uomini quando dirigiamo”. Donna emancipata, donna… ma senza esagerare perché la confraternita del politically-correct ha le sue leggi: su Yuja Wang, giovane pianista cinese che suona in minigonna o con spacchi vertiginosi, la Venezi aveva detto: “Quello non va bene, non credo sia sexy, né indice di femminilità suonare musica classica in minigonna”: ma come, uno dei capisaldi del neofemminismo non è quello che una donna si veste come vuole, anche con il microabito di notte in periferia? Una personalità troppo sua e troppo piena di sé, questa Venezi, agli occhi dei sacri sacerdoti del conformismo. Tu devi stare o di qua o di là! O direttora/direttrice e senza lato B pubblicitario oppure sei con gli altri. Tra gli altri, ricordiamolo, c’era il critico musicale Paolo Isotta il quale, la prima volta che vide alla Scala una direttrice d’orchestra (non era la Venezi) si alzò sconcertato in platea è urlò: “So io dove ti metterei quella bacchetta…”. Durante un’intervista con Freeda ha dichiarato che il suo idolo è Elisabetta I. La ritiene una grande donna poiché è riuscita a comandare tutto da sola, rifiutando il matrimonio come sistema politico e diventando completamente indipendente.

Da liberoquotidiano.it il 7 marzo 2021. "Non chiamatemi direttrice", aveva avvertito Beatrice Venezi, appena arrivata sul palco del Festival di Sanremo accolta da Fiorello e Amadeus. Un messaggio che ha stizzito non poco Laura Boldrini, che ha invitato il direttore d'orchestra a "non dimenticare i sacrifici delle donne". Come se il loro destino e il rispetto dei loro diritti, insomma, dipendessero da un nome declinato al maschile o al femminile. Alla deputata Pd ed ex presidenta della Camera (che verrà ricordata, d'altronde, solo per battaglie politiche di questo tenore), la Venezi ha risposto per le rime con una intervista al Corriere della Sera, un trattato-bignami di cosa significhi davvero essere orgogliose di essere donna, al di là di ipocrisie ed etichette. "La posizione ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d'orchestra, non di direttrice. E così voglio essere chiamata, me ne assumo la responsabilità", ha ribadito la 31ennne. Selvaggia Lucarelli addirittura le ha ricordato che se non fosse stato anche per le battaglie della Boldrini, "da donna avrebbe pulito gli spartiti anni fa", anziché dirigere altri musicisti. Risposta? "L’ambiente da cui vengo è conservatore. Ci sono le figure del Maestro e del Direttore d’orchestra. La declinazione al femminile non solo non aggiunge niente — non sento la necessità del femminile per sentirmi riconosciuta — ma ci sono dei connotati peculiari: maestra rimanda alla maestra di scuola, un altro lavoro". Insomma, non viene da un altro pianeta e tantomeno è una privilegiata: "Ho lavorato sodo per quello che faccio, conoscendo i pregiudizi e le difficoltà che incontrano le donne: non si risolvono declinando al femminile. Ci si divide su questo anziché concentrarsi perché una donna venga riconosciuta per la sua qualità, azzerando ogni differenza".

Valentina Dardari per ilgiornale.it il 7 marzo 2021. Beatrice Venezi, attaccata per una frase che in molte pensiamo, è finita da giorni in una disputa che ha preso anche colori politici. Le è bastato esprimere il proprio pensiero sul palco del festival di Sanremo per ritrovarsi in mezzo alle polemiche. Poche parole che hanno creato il marasma: “La posizione ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d'orchestra, non di direttrice. E così voglio essere chiamata, me ne assumo la responsabilità".

La lezione della Venezi. La 31enne ha solo sottolineato qualcosa che ha sempre pensato ma che non aveva mai detto sul palco più importante d’Italia. E lì, anche un semplice respiro acquisisce tutto un altro suono. Come lei stessa ha ammesso: “Eppure sono anni che dico di essere un direttore d’orchestra: farlo all’Ariston ha avuto un altro peso”. Già, un altro peso che in pochi minuti ha scatenato il putiferio e attacchi da altre donne che invece di essere solidali le hanno dato contro.

"Direttore? Poca autostima...". La Boldrini processa la Venezi. Laura Boldrini ha processato la Venezi criticandola e tacciandola di avere poca autostima. Perché secondo la Boldrini, se il femminile viene nascosto, si nascondono tanti sacrifici e sforzi fatti. Come se tutto dipendesse dall’uso del femminile. E così anche Selvaggia Lucarelli ha attaccato frontalmente il direttore d’orchestra, che a suo dire avrebbe dovuto rivendicare con fierezza il fatto di essere una direttrice. Sottolineando che anni fa avrebbe solo potuto, come donna,“pulire gli spartiti con un panno caldo”. Né la Boldrini, né la Lucarelli si sono accorte che con una semplice frase, la Venezi è stata molto più femminista di loro. Beatrice Venezi, intervistata dal Corriere della Sera, ha asserito che ridirebbe quanto detto sul palco, perché secondo lei le lotte importanti, quelle vere che riescono a cambiare qualcosa, sono altre. “L’ambiente da cui vengo è conservatore. Ci sono le figure del Maestro e del Direttore d’orchestra. La declinazione al femminile non solo non aggiunge niente — non sento la necessità del femminile per sentirmi riconosciuta — ma ci sono dei connotati peculiari: maestra rimanda alla maestra di scuola, un altro lavoro” ha spiegato. Anche perché, se l’obiettivo è avere pari opportunità, per la Venezi non ha senso stare a sottolineare una differenza di genere, serve solo a dividere ulteriormente. Nei paesi anglofoni per esempio direttore d’orchestra si dice conductor, senza possibilità di sbagliare o polemizzare.

Ha lavorato sodo per arrivare dov'é. La 31enne ha poi pensato che si potrebbe arrivare a usare un termine neutro, così da non scontentare nessuno. Ma ha anche tenuto a dire che prima di questo sarebbe il caso che diventasse un lavoro a cui accedono in modo uguale uomini e donne. La Venezi ha spiegato fiera: "Ho lavorato sodo per quello che faccio, conoscendo i pregiudizi e le difficoltà che incontrano le donne: non si risolvono declinando al femminile". Il direttore ha definito la polemica sterile. "Non ho voglia di travestirmi da uomo per dimostrare che so dirigere un'orchestra. Non serve lo sguardo accigliato per essere autorevoli. E chi l'ha detto poi che una figura cristallizzata sia sinonimo di professionalità? Rifiuto gli stereotipi della musica classica, un mondo sostanzialmente maschile, e ai pregiudizi rispondo salendo sul podio con la gonna". Come riportato dal Messaggero, la Venezi aveva raccontato di aver portato avanti le suee battaglie fina da quando ha cominciato a fare questo lavoro. Perché "voglio dimostrare che la musica classica è sinonimo di libertà e non di costrizione. Abbattere dall'interno i cliché e avvicinare i giovani a questo mondo di bellezza e di valori. Renderla più democratica, parlandone anche sui social, sulle riviste e in tv". Il direttore vanta 50mila followers. Ma adesso esiste la ministra, l’avvocata, la sindaca. Anche la collega Gianna Fratta ha criticato la Venezi per le sue parole sul palco dell’Ariston, ma sul suo sito personale ha usato il termine direttore d’orchestra. Qualche controsenso c’è, anche in chi attacca. “Ci si divide su questo anziché concentrarsi perché una donna venga riconosciuta per la sua qualità, azzerando ogni differenza” ha chiosato la Venezi, direttore d’orchestra.

Piera Anna Franini per Dagospia l'8 marzo 2021. L’Italia non è un Paese per meritevoli, si sa. Vi sono comunque due categorie dove la meritocrazia si applica in automatico: sport e arte. Se sei un grande atleta vinci medaglie, campionati e coppe del mondo. Se sei un grande artista - restringiamo il campo alla musica d’arte, classica e lirica -  riempi le sale da concerto che contano, ottieni ingaggi importanti, le orchestre di classe ti rispettano e quindi ti richiamano. In tal senso, è interessante il fenomeno Beatrice Venezi. Direttrice d’orchestra di 31 anni. Si muove fra la classica e il pop, è al centro della scena mediatica strettamente nostrana, ha un buon seguito sui social e presta il volto a campagne pubblicitarie, anche se non glam come accade ai colleghi artisti che si muovono fra Bottega Veneta, Cartier, Audi, Rolex, Mandarin Oriental…Venezi è stata la co-conduttrice della quarta serata di Sanremo. Ha innescato un certo dibattito la sua posizione anti-sessista in tema di lingua: ritiene che direttora o direttrice non funzioni. “Chiamatemi direttore d’orchestra” è il mantra oltre che uno degli ingredienti della sua storytelling. E qui sta il punto: Venezi è una campionessa di personal branding, ha strategie, visione e senso del tempismo. Ma soprattutto sa che di fronte a sé ha una prateria: gli artisti non sono propriamente maestri del marketing, salvo rare eccezioni. E così, accade che Venezi venga indicata come uno dei punti di riferimento della direzione d’orchestra. Per la verità, nel mondo della musica d’arte è un’araba fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. E per “dove” intendiamo i palcoscenici di serie A, italiani e stranieri, quelli, per dire, che frequenta abitualmente Beatrice Rana, pianista di classica under30, con un portfolio ricco di concerti nei luoghi che contano. I dovuti distinguo già li abbiamo fatti, nel senso che sappiamo che un pianista arriva in vetta prima di un direttore, il punto è che Rana è numero uno da anni ed è più giovane. Venezi manca (oppure va ma non vi torna) su quei palcoscenici frequentati dagli omologhi di ieri e di oggi: l’under30 Claudio Abbado già veniva incoronato dal NYTimes e adocchiato da Leonard Bernstein; Riccardo Muti aveva un contratto stabile con il  Maggio di Firenze dei tempi d’oro; Riccardo Chailly aveva debuttato alla Scala ed era fisso alla Radio di Berlino;  Lorenzo Viotti (classe 1990) è stato più volte alla Scala, ha vinto un Premio a Salisburgo e ora ha un contratto a Amsterdam. Idem per la lituana Mirga Grazinyte-Tyla, oggi ha 35 anni ma da under30 aveva vinto il  Premio Nestlé a Salisburgo, lavorato con la Filarmonica di Los Angeles e un contratto con l’orchestra di Birmingham e diretto ai Proms. Si sta allungando la lista delle donne direttrici che frequentano i podi di lusso: Marin Alsop, Keri Wilson, Simone Young, Alondra de la Parra, Julia Jones,  Eva Ollikainen. E allora il sessismo, se proprio di sessismo vogliamo parlare, sta nell’assenza di Beatrice Venezi sui podi apicali della classica. O non è questione di sessismo? Forse Venezi paga lo scotto della sua natura ibrida per cui dare un colpo al cerchio del pop e l’altro alla botte della musica classica non paga? Forse è peccato - nel mondo della classica - fare personal branding? Altro?

Giovanni Sallusti per Dagospia, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, l'8 marzo 2021. Caro Dago, avrei una domandina facile facile per le sacerdotesse dell’8 marzo, per le Laura Boldrini in lotta dura contro il sessismo dell’enciclopedia Treccani, per le Michela Murgia che approfittano della ricorrenza per lanciare il loro ultimo libro contro i soprusi del maschio italico (in passato già paragonato dall’augusta scrittrice a un boss mafioso), per le Selvaggia Lucarelli che scomunicano quell’eretica di Beatrice Venezi, rea di non sentire come imprescindibile battaglia di civiltà il cambio linguistico da “direttore” a “direttrice”. Insomma, per tutte quelle tardofemministe che hanno monopolizzato il tema dei diritti delle donne in cartello ideologico. La domandina è davvero semplice: qual è, oggi, anno del Signore 2021, la cultura che maggiormente opprime, calpesta, nega i suddetti diritti delle suddette donne? La risposta fattuale, faziosa quanto lo può essere la cronaca, quindi per nulla, è: la cultura islamica. La quale non è un monolite, grazie, lo sappiamo perfino noi bavosi fallaciani suprematisti, bensì un arcipelago di esegesi teologiche, pratiche di culto, Stati più o meno confessionali (nessuno comunque basato sulla contrapposizione nitida tra “cioè che è di Cesare e ciò che è di Dio”, che del resto sta in un altro testo sacro, non nel Corano), rami che divergono tra loro, gruppi, gruppuscoli e perfino cellule terroristiche (di rado nel mondo si uccide urlando “Buddha è grande!”, e di nuovo non è colpa dello scrivente). Ma alcuni dati di fondo pur esistono, e paiono costituire una trave nell’occhio altrui, mentre ci intratteniamo a sezionare la pagliuzza nostrana, le desinenze, i suffissi, le quote-ghetto. C’è quel lievissimo particolare della “Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo”, una versione della Dichiarazione universale modificata da molti Paesi musulmani, tra cui Arabia Saudita e Iran, perché fosse compatibile con la sharia (quindi a tutti gli effetti un ossimoro). Che infatti alla voce famiglia e matrimonio riprende una Sura: “Le donne hanno dei diritti pari ai loro obblighi, secondo le buone convenienze. E gli uomini hanno tuttavia una certa supremazia su di loro”. Ci sono le concrete condizioni di vita delle donne sotto le varie cappe teocratiche islamiche, un calvario del diritto e della morale (almeno così come abbiamo pensato questi due aggeggi noi sporchi occidentali) quotidiano, chiedetelo alle splendide eroine iraniane che ciclicamente si liberano del velo in pubblico sfidando il totalitarismo omicida degli ayatollah in nome della libertà del corpo (e che le nostre varie Bonino, Mogherini, Serracchiani hanno insultato ogni volta che si si sono recate velate e ridanciane in visita diplomatica a Teheran), chiedetelo alle saudite che rischiano la lapidazione per adulterio o la decapitazione per stregoneria, chiedetelo alle yazide per anni schiavizzate e cosificate dalle bestie dell’Isis. Ci sono simpatiche consuetudini del “diritto” islamico, per cui la testimonianza di un uomo vale come quella di due donne, il marito può ripudiare la moglie anche senza ricorrere a un tribunale in presenza di due maschi, la donna non può sposare un non musulmano a meno che questi non si converta. C’è il doppiopesismo istituzionalizzato della poligamia consentita e incentivata, a fronte ovviamente della poliandria proibita. C’è quella maledetta aritmetica, che racconta come il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili e quello delle spose-bambine siano maggiormente diffusi in Paesi in cui l’Islam è religione ufficiale, o comunque fortemente radicato (tra i primi posti di queste tetre classifiche Somalia, Guinea, Egitto, Niger, Sudan, Bangladesh). C’è il tema enorme del velo integrale, mortificante e sessuofobo, quello “stupido cencio medievale” che Oriana gettò in faccia all’ayatollah Khomeini, e che in questi giorni è stato bandito per legge in Svizzera, che non risulta una landa di estremisti neonazi. Allora la domanda, care professioniste permanenti dell’8 marzo a colpi di tweet e mimose, non può che suonare: perché tutto questo corrisponde a un gigantesco rimosso, anzitutto da parte vostra? Perché infierite sulla Treccani, e non nominate mai il Corano?

Francesco Olivo per “La Stampa” l'8 marzo 2021. Con il volto coperto dalle mascherine gli svizzeri hanno deciso che non si può andar in giro con la faccia occultata. Il referendum di ieri non aveva nulla a che fare con le misure anti Covid, l'obiettivo era piuttosto il cosiddetto «estremismo islamico». Da oggi niente passamontagna o la bandana, ma nemmeno il velo integrale. Un modo per contrastare la criminalità, secondo le associazioni che hanno proposto il quesito, ma anche e soprattutto un modo per scatenare un dibattito identitario. Il referendum proposto da partiti e organizzazioni conservatrici è stato letto (e raccontato) come un attacco «all'Islam radicale». Il quesito ufficiale, «sei favorevole al divieto delle coperture totali del viso?», non menzionava esplicitamente burqa o niqab. Ma in campagna elettorale si è capito dove andava a parare il dibattito. Da una parte i difensori del multiculturalismo, a sostegno del No, dall'altra i proponenti che invitavano a votare Sì, in nome non solo della sicurezza, ma soprattutto a difesa «dell'uguaglianza e delle libertà delle donne sottomesse dall'estremismo», tanto che la legge proposta è stata ribattezzata «anti burqa» e anche alcune associazioni femministe si sono aggiunte ai comitati per il Sì. Se i termini della questione non fossero stati abbastanza espliciti ci hanno pensato i manifesti elettorale a chiarirli: una donna coperte integralmente con accanto lo slogan: «Fermare l'estremismo», islamico, va da sé. Il governo federale si era schierato per il No, anche perché si tratta di situazioni marginali. È rarissimo, infatti, in Svizzera incontrare donne che coprono integralmente il volto e spaccare il Paese in un dibattito identitario per poche centinaia di persone è sembrato a molti una mossa propagandistica della destra, visto che, sempre ieri, si votava per le elezioni amministrative. Alcuni cantoni, come il Ticino, già dal 2016 aveva adottato una misura simile e in cinque anni le forze dell'ordine sono dovute intervenire assai di rado, in meno di 30 casi, secondo i media locali. Ma il dibattito è andato al di là dei casi concreti e ha investito il modello multiculturale, con argomenti, pro e contro, già ascoltati in altri Paesi, anche confinanti, come l'Austria e la Francia, dove in questi mesi il presidente Emmanuel Macron ha lanciato la sua battaglia contro quello che ha definito il «separatismo islamico». Misure simili sono in vigore anche in Belgio e Bulgaria. Il divieto prevede che nessuno possa coprirsi il viso completamente in pubblico, sia nei negozi che all'aperto. Sono previste eccezioni per i luoghi di culto e ovviamente nell'ambito privato. Il bando prevede anche un'eccezione anche per «il carnevale». Visti i tempi, il legislatore ha dovuto subito chiarire che le mascherine anti virus non sono incluse nel divieto.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” l'8 marzo 2021. Ormai i concetti e le idee contano meno delle parole che ne esprimono il senso. Se dici negro invece che nero sei un razzista, mentre i due vocaboli sono sinonimi. Se dici zingaro invece di rom sei un farabutto indegno di vivere nel consorzio civile. E non parliamo degli uomini che amano andare a letto tra di loro: un tempo erano definiti culattoni, checche, finocchi, invertiti, pederasti, froci. Oggi tutte queste parole sono severamente vietate. Un giornalista che si esprimesse con uno di questi termini verrebbe fucilato dall' Ordine professionale più conformista d' Italia, oltre che più inutile. I soli sostantivi ammessi sono gay (inglese) e omosessuale. La guerra al dizionario della nostra ricca lingua è stata vinta dai sacerdoti del politicamente corretto e per noi poveri tapini non c' è verso: siamo stati sconfitti e ci tocca adeguarci al nuovo misero lessico o tacere. Dovremo rassegnarci. Un tempo, anche abbastanza recente, la Crusca prendeva atto che la lingua nasceva dal popolo e la codificava secondo criteri culturali, senza dimenticarne l' origine. Oggi anche l' Accademia si assoggetta ai gusti dei progressisti, ai quali peraltro si inchina chiunque per fare bella figura con i propri simili, ignoranti compresi, assai numerosi. In questa assurda polemica le persone normali, che parlano come mangiano, di norma bene, sono soccombenti. Senza contare che la lite si è arricchita di un altro tema caro alla ex presidente della Camera, Boldrini, la quale raccomanda di femminilizzare la denominazione dei mestieri. L' ultimo scontro a questo proposito è avvenuto durante il festival di Sanremo allorché una signora, Beatrice Venezi, per altro abile, si è chiamata direttore d' orchestra anziché direttrice. Capirete che dramma. La donna è stata massacrata: doveva definirsi direttrice d' orchestra per compiacere non solamente la Boldrini, ma anche tutti coloro - troppi - che la pensano come lei, trascurando che l' idioma è un elastico adattabile alla persona che lo utilizza, riferendosi alla tradizione, al costume familiare. Il bisticcio che ne è derivato ha assunto connotazioni comiche, dato che da sempre ciascuno parla come cacchio gli pare. Perfino un commentatore del Corriere della Sera, Giuseppe Antonelli, si è inserito nel dibattito futile asserendo in forma professorale che si dice direttrice e non direttore. Magari non ha tutti i torti, ma dovrebbe sapere che la consuetudine, sorella dell' abitudine, fa premio sulle pedanterie tardofemministe. Cosicché gli segnalo una piccola cosa: a dirigere la Nazione di Firenze, quotidiano storico, c' è una ragazza abile: Agnese Pini. Nella gerenza del foglio è scritto il suo nome alla voce direttore responsabile. E allora perché è vietato affermare che Beatrice Venezi è un direttore d' orchestra?

Laura Boldrini, Dagospia a valanga: "Dopo il caso Venezi a Sanremo, come la mettiamo col vicequestore Lolita Lobosco?" Libero Quotidiano l'08 marzo 2021. “E ora, dopo il caso-Venezi, come la mettiamo con il vice questore Lolita Lobosco?”: è questa la domanda che si pone uno dei lettori di Dagospia. Il riferimento è a Beatrice Venezi, co-conduttrice di una delle serate del Festival insieme ad Amadeus, che ha spiegato di voler essere chiamata direttore d’orchestra e non direttrice. Da quel momento in poi polemiche a valanga. A intervenire sulla questione qualche giorno fa anche Laura Boldrini, che anni fa – da presidente della Camera – si battè proprio per lanciare i mestieri declinati al femminile. La deputata dem ha rimproverato la Venezi, invitandola a riflettere sui sacrifici delle donne. Adesso, però, la regola dovrebbe valere per tutti. “Urge una reprimenda della Boldrinova alla Rai e un invito perentorio a correggere l'ultima puntata della fiction prima di mandarla in onda domenica”, continua il lettore nella sua ironica lettera a Dagospia.  Allora bisognerebbe scegliere, prosegue il lettore, tra vice questora e vice questuressa. Nella lettera, tra l’altro, si parla della necessità di una consulenza dell’Accademia della Crusca, che potrebbe aiutare a scegliere il termine più adatto. Anche  in questo caso c’è un riferimento ironico alla Boldrini che, rimproverando la Venezi, ha detto: “Inviterei la direttrice Venezi a leggere cosa dice l'Accademia della Crusca, la più alta autorità linguistica del nostro paese. Se il femminile viene nascosto, si nascondono tanti sacrifici e sforzi fatti”.

Mamma lavoratrice. E papà lavoratore? Serena Coppetti l'8 marzo 2021 su Il Giornale. Mentre mi scorrono nella testa i fiumi di parole e righe di giornali e interviste e controinterviste su quanto sia opportuno e giusto e offensivo e antistorico oppure, viceversa, inutile e paradossale (e potrei andare avanti senza un punto e una virgola per righe e righe anche io ma sono già senza fiato…) che un direttore d’orchestra donna possa chiamarsi (non “essere” ovviamente) direttrice, tanto che alla fine mi sembra che abbiano ragione e un po’ torto tutti, non so più se devo stare attaccata e ben salda al gambetto di quella «a» o lasciarmi scivolare giù, su un altro piano,  più terra terra, diciamo. Sto lì, aggrappata a quella lettera scivolosa, cercando appigli più forti a destra e a manca, cioè a sinistra, dove troneggiano donne e pure uomini con le idee chiare, chiarissime, senza un dubbio, una sfumatura, sicuri e convinti che di quella «a» non si possa fare a meno (sinistra) oppure proprio non serva (destra). Per l’appunto, avendo tre figli, due femmine ma soprattutto un maschio, non vorrei mai  pentirmi di aver perso quell’aggancio al gambetto così importante per la parità di genere con conseguenze disastrose come mi terrorizzano a sinistra. Così chiacchieriamo e richiacchieriamo su questa parola e sulle altre, sul perché si possa dire giornalista e pilota e astronauta senza che schiere di uomini alzino le barricate al grido di «giornalisto» «piloto» e «astronauto». Ascolto chi ne sa parecchio, quelli che hanno studiato la lingua e spiegano che ci sono parole e parole. Non si deve confondere. Ci sono quelle puoi trasformare e quelle che invece no. Parole e parole. E parole e parole. E parole e parole. Poi tutte queste parole cariche di grandissimo o nessunissimo significato, si schiantano con violenza contro altre parole. E lì mi areno. Con una domanda. Ha senso spendere fiumi di inchiostro e di pensiero sul direttore/direttrice quando non ci preoccupiamo mai, neppure minimamente di riflettere sul fatto che pronunciamo  tutti e con grandissima scioltezza le parole «mamma lavoratrice»? Sono una mamma lavoratrice. È una mamma lavoratrice. Lo dicono gli uomini, lo dicono le donne, lo diciamo noi di noi stesse. Per dire che siamo uno e l’altro dobbiamo specificare. Dobbiamo assemblare e già dà l’idea di un’architettura che richiede un certo studio per stare su. Ma quante volte avete mai sentito dire a un uomo Sono un papà lavoratore? Quante volte è stato necessario che un uomo si qualificasse come papà lavoratore? E in qualche modo giustificarsi per esserlo? Sei un papà lavoratore? E come fai? Che orari fai? Ma riesci? Tutte domande che fatte alla mamma lavoratrice improvvisamente acquistano significato. Papà lavoratore sì che suona male, anzi malissimo anzi non suona proprio in un mondo dove non ha senso dire papà lavoratore ma  invece ne ha eccome «mamma lavoratrice». Noi ne andiamo orgogliose di definirci così e di esserlo. E vogliamo esserlo, ogni giorno combattiamo per esserlo. Ma se ragioniamo di parole, pure e semplici parole, allora mettiamole insieme al papà lavoratore. Due parole. Due mestieri. Due missioni. «Due» che devono diventare una cosa sola. Ecco perché (ma me ne rendo conto solo ora… ) quando ho scritto la descrizione del «perché faccio questo blog» ho scritto mammalavoratrice tutto attaccato. La riporto qui sotto:

… Eccomi: “YO”, con la “Y” invece della “I”, con l’incognita irrisolvibile. Espressioni di vita che non quadrano quelle delle mammelavoratrici, che siano al quadrato, al cubo o anche semplicemente “alla prima” (figlia o figlio). Mammelavoratrici, comunque, tutto attaccato perché ogni giorno non si sa dove comincia l’una e finisce l’altra. Ogni giorno è una scommessa che mi sembra regolarmente di perdere…Quindi, per concludere, rimarrò a rimuginare senza approdare credo da nessuna parte tra il direttore e la direttrice ma in questa giornata di festa della donna mi piacerebbe che ragionassimo comunque meno di parole e più di fatti. Perché dentro la parola donna c’è già magari la mammalavoratrice tutto attaccato così come in un uomo il papàlavoratore. E quindi parlando di fatti,  cliccate qui «Femministe, come liberarsene», i consigli non richiesti (ma essenziali) della mia bravissima collega Gaia Cesare sul suo blog qui sul Giornale.it. Repetita iuvant e lei lo ha ripetuto benissimo. Invece il mio consiglio non richiesto è un libro. Si intitola «Il silenzio delle ragazze» lo ha scritto Pat Barker storica americana. Racconta la guerra di Troia vista da Briseide, la schiava di Achille. L’altro modo di guardare la storia, quella epica,  grandiosa. Quella dove le donne erano trofei e premi. Per cambiare il punto di vista perché guardare le cose da un’altra parte è sempre un buon esercizio.

Benedetta Perilli per repubblica.it il 5 marzo 2021. Lo sapevi che la versione della Treccani online indica nel dizionario dei sinonimi, in riferimento alla parola "donna", eufemismi come "buona donna" e sue declinazioni come "puttana", "cagna", "zoccola", "bagascia", e varie espressioni tra cui "serva"?". Inizia così la lettera che l'attivista Maria Beatrice Giovanardi, insieme a cento persone del mondo della politica, della cultura, della linguistica e della finanza come Laura Boldrini, Michela Murgia, Imma Battaglia, Alessandra Kustermann ma anche la vice direttrice generale Banca d'Italia Alessandra Perrazzelli, indirizza all'Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani per chiedere la modifica della voce. Più inclusiva, meno sessista, più aderente al ruolo della donna nella società, più paritaria perché "allo stesso tempo, l'uomo è definito come "essere cosciente e responsabile dei propri atti", "uomo d'affari", "uomo d'ingegno", "uomo di cuore" o "uomo di rispetto"", si legge in un altro estratto della lettera. A promuovere l'iniziativa è la manager italiana Giovanardi che lo scorso novembre si era distinta per aver convinto, dopo una campagna durata quasi un anno e una petizione con oltre 35mila firme, il prestigioso vocabolario inglese Oxford Dictionary a eliminare i riferimenti sessisti dalla definizione della parola woman. Dopo la vittoria ottenuta nel Regno Unito, dove la 29enne vive, un primo tentativo viene avviato anche in Italia con l'invio di una richiesta di revisione alla Treccani. L'enciclopedia risponde, con un intervento nella sezione dedicata alle domande del sito ufficiale e aggiungendo alcune righe alla voce online. Una richiesta, dicono, "che ci pungola a rivedere con attenzione quanto abbiamo scritto" ma che non può essere accolta perché il dizionario deve registrare l'evoluzione della lingua senza censura e specificando, dove necessario, il livello (ovvero se volgare, spregiativo, eufemistico), pur considerando "il marchio misogino che, attraverso la lingua, una cultura plurisecolare maschilista, penetrata nel senso comune, ha impresso sulla concezione della donna". Non abbastanza per Giovanardi che torna alla carica con la lettera aperta e le sue cento firme, grazie all'aiuto di un team composto da cinque attiviste, e spiega: "Donna è il 50% della popolazione, continuo perché la voce rimane non corrispondente alla realtà e poiché reputo la risposta dell'Istituto civilmente non esauriente. Anche in Inghilterra dall'Oxford hanno risposto rivendicando l'aspetto descrittivo ma hanno poi avuto il coraggio di essere autocritici, e non autocratici". Dal fronte Treccani Luigi Romani, responsabile sezione Lingua italiana, sull'avvio di una nuova iniziativa da parte di Giovanardi commenta: "C'è un equivoco di fondo, si prendono come sinonimi di donna i corredi sinonimici di alcune espressioni presenti nel dizionario che non sono i sinonimi per Treccani. Volendo innescare polemiche che non hanno fondamento si inquina la possibilità di avere una comunicazione corretta". E sul perché al posto, o insieme, a "donna da marciapiede", prima espressione che appare nella versione online, non trovino spazio espressioni positive come "donna manager" risponde: "Donna manager non è una espressione che può entrare nella voce sinonimi. Il corredo di espressioni sinonimiche è nutrito e così rappresentato per ragioni non linguistiche ma di natura culturale". Ora le 100 persone che firmano la lettera aperta, pubblicata in anteprima sul sito di Repubblica, domandano a Treccani di ripensare la scelta sulla definizione del sinonimo di donna eliminando "i vocaboli espressamente ingiuriosi" e "inserendo espressioni che rappresentino, in modo completo e aderente alla realtà di oggi, il ruolo delle donne nella società". Una richiesta che, secondo le persone che sostengono la campagna tra le quali spiccano anche accademiche come Giuliana Giusti, professoressa in glottologia di Ca' Foscari, Marica Calloni, professoressa di Filosofia politica della Bicocca, Elena Ugolini, preside già sottosegretario all'Istruzione del governo Monti, non è destinata a "porre fine al sessismo quotidiano, ma potrebbe contribuire a una corretta descrizione e visione della donna".

Da repubblica.it il 5 marzo 2021. Pubblichiamo la lettera indirizzata all'Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani per chiedere di eliminare i riferimenti sessisti che compaiono nel sinonimo della parola "donna" della versione online del vocabolario. La firmano cento persone, tra le quali Laura Boldrini, Michela Murgia, Imma Battaglia, Alessandra Kustermann ma anche la vice direttrice generale Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli, più un gruppo di attiviste guidate da Maria Beatrice Giovanardi, l'italiana che ha ottenuto che l'Oxford Dictionary modificasse in chiave non sessista la definizione di "woman". Lo sapevi che la versione della Treccani online (treccani.it) indica nel dizionario dei sinonimi, in riferimento alla parola “donna”, eufemismi come “buona donna” e sue declinazioni come “puttana", “cagna”, “zoccola”, “bagascia”, e varie espressioni tra cui “serva”? Con queste espressioni associate al concetto di "donna" trovano posto inoltre una miriade di esempi ed epiteti dispregiativi, sessisti, talvolta coraggiosamente definiti eufemismi: “baiadera”, “bella di notte”, “cortigiana”, “donnina allegra”, “falena”, “lucciola”, “peripatetica”, “mondana”, “passeggiatrice”, e molti altri. Simili espressioni non sono solo offensive ma, quando offerte senza uno scrupoloso contesto, rinforzano gli stereotipi negativi e misogini che oggettificano e presentano la donna come essere inferiore. Questo è pericoloso poiché il linguaggio plasma la realtà ed influenza il modo in cui le donne sono percepite e trattate. Allo stesso tempo, l’uomo è definito come “essere cosciente e responsabile dei propri atti”, “uomo d’affari”, “uomo d’ingegno”, “uomo di cuore” o “uomo di rispetto”, etc...Brilla per assenza qualunque espressione positiva che raffiguri la donna in modo altrettanto completo e aderente alla realtà, come per la definizione di uomo: donna d’affari, donna in carriera, etc…Inoltre l’assenza sotto la voce “uomo” di parole quali “uomo violento”, “uomo poco serio”, “orco”, “ometto”, “omaccio”, “omuccio”, “gigolò” rischia di apparire come un’incongruenza, se non addirittura una discriminazione, a fronte del “dovere di registrare” e descrivere il “patrimonio lessicale italiano” che la Treccani rivendica nel giustificare le sue scelte. I vocabolari, i dizionari dei sinonimi e contrari, le enciclopedie sono strumenti educativi di riferimento e la Treccani.it, in quanto tale, è consultata nelle scuole, nelle biblioteche e nelle case di tutti noi. Ed è anche una fonte linguistica italiana tra le più visibili. Chiediamo cortesemente pertanto all’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani S.p.A. che:

in prima battuta elimini i vocaboli espressamente ingiuriosi riferiti alla donna, limitandosi a lasciarli sotto la lettera iniziale di riferimento;

inserisca espressioni che rappresentino, in modo completo e aderente alla realtà di oggi, il ruolo delle donne nella società.

Ciò non porrà fine al sessismo quotidiano, ma potrebbe contribuire a una corretta descrizione e visione della donna e del suo ruolo nella società di oggi. Le firme:

Maria Beatrice Giovanardi ed il team della campagna: Alessandra Colonna, Denise Ottavi, Carlotta Fiordoro, Cecilia Comastri, Azzurra Pitruzzella, Angela Cavezzan

Rachele Antonini, professoressa, Dipartimento di Interpretazione e Traduzione, Università di Bologna

Stefania Ascari, deputata e avvocata

Raffaella Baccolini, docente, Dipartimento di Interpretazione e Traduzione, Università di Bologna, Forlì Campus

Lucio Bagnulo, Head of Translation, Amnesty International

Marcella Balistreri, Partner, KPMG S.p.A.

Flavia Barca, componente del Consiglio Superiore del Cinema, consulente Rai, esperta di politiche culturali, economia culturale ed economia dei media

Stefania Bariatti, professoressa di Diritto Internazionale Università degli Studi di Milano

Imma Battaglia, attivista storica LGBTQ+

Massimo Bernardo, consulente d’azienda

Maurizio Bernardo, consulente d’azienda

Luca Bettonte, CEO ERG S.p.A.

Magda Bianco, capo dipartimento Tutela e Educazione Finanziaria Banca d’Italia

Laura Boldrini, deputata, già Presidente della Camera

Paola Bonomo, vice presidente, Italian Angels for Growth

Marina Calloni, professoressa ordinaria di Filosofia politica e sociale, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale - Università degli Studi di Milano-Bicocca

Paolo Campinoti, presidente di Confindustria Toscana Sud

Filomena Campus, artista e accademica

Giuseppe Castagna, Ceo Banco Bpm

Roberto Castaldi, direttore Centro studi, formazione, comunicazione e progettazione sull’Unione europea e la Global Governance (CesUE, spin-off della Scuola Sant’Anna di Pisa), Direttore Euractiv Italia

Donatella Conzatti, senatrice

Cristina Corradini, consigliere delegato di Fondazione Amplifon Onlus

Marcella Corsi, professoressa ordinaria di economia politica, coordinatrice MinervaLab, Sapienza Università di Roma

Antonia Cosenz, BANCO BPM Legale E Regulatory Affairs

Ottavia Credi, ricercatrice junior, Istituto Affari Internazionali (IAI)

Giuseppe Luigi Salvatore Cucca, senatore

Marco Cucolo, imprenditore e personaggio televisivo

Sara D’Amario, attrice e scrittrice

Federica Dall’Arche, ricercatrice, Istituto Affari Internazionali (IAI)

Monica De Virgiliis, amministratrice indipendente Prysmian Group

Diana De Vivo, Senior Stakeholder Engagement Executive Coordinator, NATO Communication and Information Agency

Paolo Decker, imprenditore

Giovanna Declich, sociologa, Conoscenza e Innovazione srls

Lory del Santo, attrice e personaggio televisivo

Paola Diana, imprenditrice

Irene Facheris, formatrice, scrittrice e attivista

Roberta Famà, Responsabile - Comunicazione, Investor Relations & Regulatory Affairs, Banca Carige SpA

Elvira Federici, per il direttivo della Società Italiana delle Letterate

Gabrielle Fellus, presidente di I Respect

Ornella Ferrajolo, ricercatrice, Consiglio Nazionale delle Ricerche

Andrea Fey, notaio in Firenze

Elena Gallo, VP HR South Europe & Middle East, VIACOM CBS Networks

Laura Garavini, senatrice

Nadia Ginetti, senatrice

Giovani Europeisti Verdi

Giuliana Giusti, professoressa ordinaria in Glottologia e Linguistica, Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati, Università Ca' Foscari Venezia

Chiara Gribaudo, deputata

Leonardo Grimani, senatore

Gianluca Guaitani, CCO – Chief Commercial Officer, Banca Carige SpA

Laura Guazzoni, docente, Università L.Bocconi

Alessandra Kustermann, ginecologa

Mauro Mancini, regista

Vincenza Marina Marinelli, avvocata, Ordine degli Avvocati di Torino, già Ricercatrice confermata di Diritto del Lavoro nell'Università La Sapienza di Roma e Consigliera di Fiducia del Comitato Pari Opportunità dell'Ateneo

Fabrizio Marrazzo, portavoce di Partito Gay per i diritti Lgbt+, Solidale, Ambientalista, Liberale

Francesca Marrucci, assessora Valorizzazione e Gestione Patrimonio Culturale, Turismo, Politiche Sociali, Pari Opportunità, Politiche Giovanili e Comunicazione Comune di Pantelleria

Elena Mazzoni, segreteria nazionale Rifondazione Sinistra Europea

Lea Melandri, scrittrice

Armando Meletti, Ceo/Country Manager Italy, Esmalglass Itaca Group

Monia Monni, assessora all'ambiente, economia circolare, difesa del suolo, protezione civile e lavori pubblici della Regione Toscana

Angela Montanari, partner YourGroup

Roberta Mulas, professoressa a contratto, Dipartimento di Scienze Politiche, LUISS

Michela Murgia, scrittrice

Renata Natili Micheli, presidente nazionale CIF Centro italiano Femminile Nazionale

Giovanna Paladino, direttore e curatore del Museo del Risparmio

Alessandra Perrazzelli, vice direttore Generale Banca d’Italia

Massimo Persotti, giornalista, autore e conduttore di Salvalingua su Radio Radio

Valeria Picconi, Distribution Excellence Officer AXA Partners

Maria Pierdicchi, consigliere indipendente Autogrill, Unicredit e Presidente di Nedcommunity

Ilaria Pitti, ricercatrice, dipartimento di Sociologia e Diritto dell'Economia, Università di Bologna

Riccardo Pittis, ex campione italiano di basket

Emanuela Poli, direttore generale di Confindustria Assoimmobiliare

Paola Poli, CEO Women Security

Barbara Pontecorvo, avvocata

Patrizia Pozzo, Press and Media, Diem25 in Italia

Prime Donne, scuola di politica di Piu’ Europa volta ad una maggiore partecipazione femminile in politica

Annalisa Rabitti, assessora alla Cultura, Pari Opportunità, Marketing territoriale e Città senza Barriere del Comune di Reggio Emilia

Agostino Re Rebaudengo, presidente di Asja Ambiente

Anna Maria Reforgiato Recupero, Head of Strategic Investors Group Generali Investments

Cristina Rossello, presidente di Progetto Donne e Futuro

Silva Rovere, presidente di Woman Care e CEO di Sensible Capital

Paolo Sacco, COO – Chief Operating Officer, Banca Carige SpA

Florinda Saieva, fondatrice di Farm Cultural Park

Ingrid Salvatore, professoressa associata, Dipartimento di Studi Politici e Sociali, Università di Salerno

Daniela Sbrollini, senatrice

Toni Scervino, amministratore unico Ermanno Scervino

Elly Schlein, assessora regionale

Alessandra Scipioni, direttore Commerciale di Assolombarda Servizi Spa

Claudia Segre, presidente, Global Thinking Foundation

Catterina Seia, vice presidente e Co-fondatrice della Fondazione Fitzcarraldo e Fondatrice di Acume

Anna Simone, sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale, Sociologia Generale Dipartimento di Scienze Politiche, Università di Roma 3

Manuela Soffientini, Managing Director, Electrolux Appliances Spa

Alessia Sorgato, avvocata penalista esperta di difesa di donne vittime di violenza

Michela Sossella, responsabile - strategie Commerciali e Pricing, Banca Carige SpA

Maria Grazia Speranza, presidente della International Federation of Operational Research Societies

Elena Sheila Speroni, responsabile Comunicazione Biocell Center Spa

Nathalie Tocci, direttrice, Istituto Affari Internazionali (IAI)

Elena Ugolini, preside Liceo Malpighi di Bologna, già sottosegretario di stato all'Istruzione governo Monti

Viviana Valastro, esperta diritti minori migranti

Francesca Vitelli, presidente dell'associazione EnterprisinGirls

Gelsomina Vono, senatrice

Antonio Zappulla, manager e giornalista

«Altro che ideologia, è l’italiano: al femminile si dice avvocata». Signora? No grazie, ma neanche avvocato. Se ad indossare la toga è una donna, chiamatela avvocata. Non è una battaglia ideologica, si tratta di rispetto delle regole linguistiche. Barbara Spinelli su Il Dubbio il 13 marzo 2021. Signora? No grazie, ma neanche avvocato. Se ad indossare la toga è una donna, chiamatela avvocata. C’è chi la declina come una battaglia ideologica, ma si tratta di rispetto delle regole linguistiche esistenti. A me, indossata la toga, è subito sembrato normale presentarmi come avvocata. Forse perché prima di avere il titolo, durante l’università, per pagarmi gli studi lavoravo come impiegata, e mai nessuno mi aveva qualificato al maschile. Conservo ancora con cura il mio primo biglietto da visita, del 2011: “Barbara Spinelli, avvocata”. E ricordo le parole del tipografo: “Ma è sicura che si dica così? Perché tutte le sue colleghe scrivono avvocato”. Lo rassicurai: “Lei non si preoccupi, il tempo mi darà ragione”. Sono passati trent’anni dalle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, di Alma Sabatini, e con poche eccezioni le donne che ricoprono il titolo di professionista o che ricoprono ruoli istituzionali continuano ad essere appellate al maschile. Si tratta di scelte linguistiche. Ma qual è l’applicazione corretta della lingua italiana? Le regole della grammatica italiana impongono la declinazione al femminile per tutto ciò che ha un referente umano femminile. Avvocato è una professione, esattamente come impiegato, e va declinata al femminile, che è avvocata, non avvocatessa. Questo perché nella lingua italiana il prefisso “-essa”, applicato a nomi che al maschile non terminano per “e”, assume una valenza dispregiativa. Voi direte: ma allora giudice diventa giudicessa? No. Si tratta di un termine cosiddetto epicèno: sono nomi che hanno un’unica forma per il maschile e il femminile, indipendentemente dal sesso dell’essere animato a cui si riferiscono (il pesce, la volpe). Tutti i nomi epicèni terminano per “e” o per “a”. Alcuni erroneamente affermano che questa regola andrebbe applicata anche a nomi di professioni e cariche istituzionali che finiscono al maschile per “o”, ma, guarda caso, nessuno si pone il problema della neutralità del ruolo quando si parla di sarte o cassiere: il problema sorge quando si ha a che fare con ruoli e professioni nelle quali la presenza femminile è relativamente recente: questora, avvocata, assessora. Invece, come spiega bene Vera Gheno nel suo libro Femminili singolari, avvocato è un nome di genere mobile, cioè si declina in base alle regole morfologiche previste dall’italiano, al maschile ed al femminile. Nella lingua italiana il genere neutro non esiste, e dunque il “maschile inclusivo” è un costrutto ideologico, estraneo alla nostra grammatica, volto a perpetuare l’occultamento dell’esistenza di soggetti femminili nell’ambito di professioni storicamente riservate agli uomini. Questa sì, dunque, che è una scelta linguistica ideologica. Di stampo patriarcale e classista, discriminando tra la meno prestigiosa professione di impiegata e quella di avvocata. Nell’articolo “Qual è il femminile di avvocato?”, sul sito Treccani leggiamo: “Il sostantivo maschile avvocato dispone di due forme femminili: avvocata e avvocatessa. La seconda forma appartiene all’uso tradizionale. La prima, pur non essendo ancora di uso generalizzato, è perfettamente legittima (maschile -o, regolare femminile in -a) e viene adoperata, in particolare, da chiunque sia sensibile a un uso non sessista – e, più in generale – non discriminatorio della lingua italiana”. Nelle Linee Guida dell’Agenzia delle Entrate per l’uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere invece si rileva: “Per il femminile di avvocato ritroviamo spesso sia la forma in -a sia quella in -essa. Dal punto di vista grammaticale la soluzione non è univoca: alcuni considerano errata la forma avvocatessa e valida solo quella di avvocata; l’Accademia della Crusca invece riporta entrambe le forme alternativamente, senza che se ne possa ritenere una prevalente rispetto all’altra. Riteniamo tuttavia consigliabile in questa sede l’uso del termine avvocata, in quanto più aderente a un uso non discriminatorio della lingua italiana”. Allora è una truffa delle etichette parlare di “campagna del mutamento linguistico”, o lasciare spazio alla sensibilità personale. Le regole sono regole e vanno rispettate. Non troverete in nessun manuale di linguistica o di grammatica la regola del maschile inclusivo. Semplicemente perché non è una regola grammaticale, ma un costrutto culturale per giustificare la reticenza nella declinazione al femminile dei nomi di professioni e ruoli istituzionali. “Da un punto di vista linguistico l’italiano ammette e prevede la formazione dei femminili. Le forzature e le stonature che alcune persone dichiarano di percepire quando si declinano certi termini al femminile, perciò, non possono essere ricondotte a motivazioni grammaticali e morfologiche quanto a una questione di abitudine o a un fatto socio-culturale, per cui il ricorso al femminile – stereotipicamente considerato come più debole rispetto al maschile – porta a immaginare uno svilimento della carica o del ruolo professionale”, afferma Vera Gheno. A conferma di ciò, anche l’imbarazzante passo indietro del Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, dall’interventista all’Huffington Post a quella più recente a Vanity Fair, con cui ha corretto il tiro, spiegando che la reticenza nella declinazione al femminile da parte della Venezi è di carattere culturale, ed è condivisa da quante ritengono che la declinazione al femminile accomuni il loro ruolo a ben meno nobili dirigenze. Analogamente si era espresso nel 2000 nella prefazione alle Linee Guida dell’Agenzia delle Entrate sopra citata: “Ci è facile dichiarare la piena legittimità dei nomi di professione femminili, ed è altrettanto facile ribadire un concetto evidente: che i giudizi di bellezza o bruttezza per le professioni al femminile (termini come ministra e sindaca, ma anche chirurga o ingegnera) non hanno alcun senso, perché si basano solo sull’abitudine: pare bello quello a cui siamo abituati, pare brutto quello che è nuovo e diverso”. La sua precedecessora, Nicoletta Maraschio, nel maggio 2008, in occasione della nomina come prima donna eletta presidente dell’Accademia della Crusca, aveva pubblicato sulle colonne del Sole 24 ore un articolo in cui esprimeva il suo parere a favore della forma la presidente. Pretendere un corretto utilizzo della lingua italiana, e dunque anche pretendere che avvocato al femminile venga declinato avvocata, significa pretendere il rispetto della lingua italiana. Le regole esistono e sono chiare. In un compito in classe alla scuola primaria, ove si chiedesse di indicare il femminile di avvocato, la risposta avvocato o avvocatessa verrebbe sottolineata in blu. Idem per direttore – direttrice. Non si tratta di stigmatizzare chi la pensa diversamente: se ci sono colleghe gender-fluid o che vedono un maggior prestigio nella declinazione al maschile, ben potranno correggere il loro interlocutore, chiedendo cortesemente di essere chiamate avvocato o avvocatessa. Si tratterebbe di un uso improprio della lingua, per scelta, sulla base della propria ideologia personale. Ma non può continuare ad essere il contrario. La moquerie nei confronti delle colleghe che pretendono il rispetto della lingua italiana deve finire, altrimenti si prenda atto che la cultura patriarcale è ancora dominante, anche sotto la toga, e la sua arroganza è tale da pretendere di continuare ad impedire, nel 2021, l’uso corretto della lingua italiana.

 “Andrea” è maschile o femminile? Pure la lingua italiana è maschilista… Massimiliano Esposito il 15 Febbraio 2021 su culturaidentita.it. I Collettivi Universitari, in pieno Covid, occupano la Facoltà di Lettere a Napoli. Esprimendo, in un comunicato stracolmo di “x”, le loro posizioni e la piacevole, quanto attentissima, notificazione grafologica dell’elisione fiera di ogni maschilità congenita di linguaggio. Direi una gran vittoria ed una bella soddisfazione per l’attento lettore. Passi da gigante che fanno intimidire globalizzazione e Fondo Monetario Internazionale, un po’ in tutti i meandri dell’emisfero. Giust’appunto ma Andrea è maschile o femminile? Dovrei renderlo ibrido, neutrale, inerte per non suscitare rigorose sommosse o interpellanze parlamentari da parte di categorici esponenti politici che poi, nella zuffa, dimenticano le delocalizzazioni e gli operai metalmeccanici. Tornando a noi, quel despota reazionario plutocratico di Dante insieme alla grammatica italica, prevedevano che tra un insieme di innumerevoli soggetti di genere femminile, fra i quali compaia anche un solo soggetto di genere maschile, andasse declinato al maschile. In questo turbinio estremo di caccia allo stregone maschilista, di stampo bastigliano ma col politically correct sinistrorso nel sangue, barcamenandosi tra i meandri dei sensi di colpa terzomondisti dell’occidente opulento e schiavista. Un sontuoso attacco al macho, già di per sè in difficolta e con un senso di autodistruzione identitario che è come sparare sulla Croce Rossa. Il tutto condito da una prepotente azione di demolizione del linguaggio tradizionale, accusato di rappresentare una veterolingua patriarcale ed ancestrale. La promiscuità del “tuttx”, rappresenta la sonnecchiante e dispotica imposizione a rinunciare a priori a qualsiasi condizione stabile di identità definita. Devi rimanere fluttuante, un atomo senza traiettoria che si scontra con gli altri, senza tradizioni, ne memoria. Un reset, lento ed inesorabile, traghettato e sospinto dalle derive globali e cosmopolite, verso le fauci acuminate del Mercato. Unico dominus, senza più nemici. Dalle pendici del Vesuvio, guardo da lontano e non so domani, se il Maschio Angioino dovrà ostracizzare se stesso, il suo nome e probabilmente i nostri padri che tale lo concepirono.

Ora salviamo la lingua italiana. Emanuele Ricucci il 12 Febbraio 2021 su culturaidentita.it. Ci troviamo a celebrare la morte. Quella di Dante, che è vita della Lingua, e quella della Lingua che è morte del significato. E lo dobbiamo fare con la graziosa carezza di psicotica irrazionalità che ci mangia l’anima, la lucidità e il pensiero critico di questi nostri giorni di infinito pandemico. Padre Dante, oggi, si ammazzerebbe. Non solo, e non tanto, per l’abuso di inglesismi in quell’italiano che, più di tutti, plasmò ammodernando l’antico, ufficializzandolo nelle sue opere, o per i congiuntivi lassativi di Di Maio, certamente, ma anche e soprattutto per la fine del senso della lingua. Diarrea linguistica? Ancor di più: battaglia semantica, che stiamo perdendo per conto del peggior globalismo, dell’esasperazione ideologica del progresso, di un mondo senza Dio, né confini, senza Patria, né storia, né Bellezza, castrato nella connessione con il volto dei propri padri. Ma ce ne rendiamo conto? Innaturali, prodotti del politicamente corretto, stiamo perdendo la battaglia semantica, la quale, per sua natura, non è un esercizio di stile, ma lo svilimento infame dei significati che conduce a una pericolosissima relatività da applicare a qualsiasi cosa si muova. Ridicola. Quanto ci si può sentire fuori luogo e fuori senso nel dire “sindacA” o “avvocatA”? La grande mistificazione. Un’esasperante immigrazione? Una pacifica occasione di crescita e di tolleranza. Un contratto a tempo “determinatissimo”? La giusta occasione per fare esperienza. Il terrorismo islamico? Fratelli che sbagliano, ammesso che siano musulmani e non abbiano patologie psichiche. La repressione della libertà in nome della salute pubblica? Suvvia, la vita è un’eccezione. Un mercato del lavoro che ci rende solo numeri e mezzi di produzione? Il progresso deve avanzare, non sarà la pigrizia dei lavoratori a fermarlo, la dignità è in quello che riesci a consumare. Il sesso nelle mutande? Un pène o una vagina non possono definire chi sei. Salvare gli immigrati dalle acque e dimenticare le giovani coppie nazionali? Serve qualcuno che ripopoli questa terra senza figli. I confini, la cittadinanza? Questione di burocrazia oltre l’eterno Risorgimento che avete in testa. E la lista potrebbe continuare per molto. Salvare il senso per salvare la lingua. Salvare la lingua per salvare l’identità, per salvarci come uomini, anzitutto. Occorre una Vita nova.

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia l'11 febbraio 2021. Caro Dago, qui siamo in presenza di un cortocircuito definitivo del Politicamente Corretto, questa strampalata post-ideologia che come un Crono all’incontrario divora i propri padri, le proprie premesse teoriche, i propri stadi precedenti, incompleti, non ancora del tutto totalizzanti, e totalitari. Uno dei 17 ordini esecutivi firmati da Joe Biden addirittura nel suo primo giorno di presidenza (ben più di quelli vidimati da Trump, che tuttavia fu accusato di decisionismo autoritario) ha generato infatti parecchio dibattito Oltreoceano. Il provvedimento riguarda il diritto degli atleti transessuali a competere nelle gare sportive ufficiali femminili, un tema sicuramente avvertito come prioritario dal ceto medio americano incagliato nei marosi della pandemia sanitaria ed economica. Come ha raccontato un paio di settimane fa il Wall Street Journal, ogni scuola che riceve finanziamenti federali dovrà ammettere nelle competizioni femminili «i maschi biologici che si identificano come femmine». In caso contrario, «sarà oggetto di sanzioni». Insomma, se un novello Carl Lewis dovesse svegliarsi un mattino “sentendosi femmina” (ricordiamo che per i democratici riverniciati di arcobaleno il sesso è un sentimento soggettivo, come tale sempre cangiante e mutevole, non un dato di realtà, chissà cosa ne penserebbe quel maschilista impenitente di JfK) dovrebbe iniziare a gareggiare con le coetanee, che da quel momento competerebbero tra loro per il secondo posto. Non sono osservazioni sessiste, omofobe o transofobe (anche se a legge Zan vigente sono più che sufficienti per rischiare la galera, nel caso sollevo questo sito da qualsiasi responsabilità), ma meri dati fisici, chimici, biologici. Tanto che le eccellenze dell’atletica a stelle e strisce femminile nei giorni successivi si sono sollevate contro la decisione bideniana (o kamaliana, visto che pare arduo non vedere lo zampino politically correct della vice, per i media progressisti il vero presidente in pectore). Linda Blade, leggendaria allenatrice di campioni olimpici in serie, ha rinunciato all’eufemismo: “Sarà la morte dello sport femminile, di una competizione equa e di molti passi avanti fatti nel campo dei diritti delle donne”. Allyson Felix, l’atleta più vincente in assoluto ai campionati mondiali, che può vantare più medaglie d’oro di Usain Bolt (non esattamente una che s’intimorisce di fronte a una competizione leale, immaginiamo) non è stata da meno: “Ammettere nelle competizioni femminili maschi biologici significa semplicemente che le donne non potranno più vincere una medaglia. A parte il non poter accedere a borse di studio nei campus per meriti sportivi...”. Il guaio è, cara Allyson, che il “maschio -o la femmina- biologico” per loro non esiste, anzi il fatto stesso che tu utilizzi questa espressione vetusta ti colloca immediatamente in odor di fascismo transofobo, come ben sa una femminista di provata militanza come J.K. Rowling, più volte scomunicata dall’Inquisizone Lgbt per aver osato dire che il sesso d’appartenenza è una realtà biologica. A supporto dell’omofoba a sua insaputa, però, c’è proprio un dato che la riguarda: la Felix, tra l’altro, vanta il record personale sui 400 metri di 49,26 secondi. Secondo le statistiche disponibili del 2018, circa 300 ragazzi delle scuole superiori sono in grado di batterla nei soli Stati Uniti. Da oggi, anche se esistesse in qualche istituto Usa una nuova Allyson Felix,potrebbe rischiare di non emergere mai. È il Politicamente Corretto che si divora le istanze sane e libertarie del femminismo delle origini, per esempio il diritto delle donne ad autodeterminarsi in qualunque disciplina anche sportiva, in nome della propria foga liberticida, per esempio il diritto degli uomini di vincere correndo contro le donne. Ben scavato, vecchia talpa (o talpo?).

Alessio Lana per "corriere.it" il 2 marzo 2021. La nuova icona di Amazon era troppo simile ai baffi di Adolf Hitler. In gennaio l’azienda di ecommerce aveva modificato l'immaginetta che contraddistingue la sua app commettendo un piccolo errore. Dal carrello celeste con il logo aziendale si era passati a un disegno molto più minimalista. Lo sfondo color cartone che ricorda i pacchi spediti, la freccia nera a «sorriso» che è il simbolo dell'azienda e, sopra, un disegno celeste con una linea spezzata che ricorda il nastro adesivo che sigilla le spedizioni. Ecco è quest'ultima l'immagine della discordia. Non appena lanciata, la nuova icona ha subito attirato le attenzioni dei commentatori su Twitter. «Assomiglia ai baffi di Hitler» era il pensiero comune e se qualcuno scherzava qualcun altro la prendeva molto sul serio. Ci vuole parecchia fantasia per vedere in quell'etichetta celeste i «baffetti» del dittatore e nella freccia di Amazon il suo sorriso beffardo però, una volta realizzata la somiglianza, è difficile dimenticarla. Così difficile che l'azienda ha fatto un passo indietro e cambiato icona di nuovo a tempo di record. A neanche un mese dal lancio, l'immagine dell'app è stata modificata una seconda volta. Ora è simile alla precedente se non per un piccolo particolare. C'è sempre lo sfondo color cartone e la freccia a forma di sorriso ma quel dettaglio celeste è adesso rettangolare e senza linee spezzate. Ha giusto un angolino rialzato come a sottolineare che il nastro da pacchi è pronto per essere rimosso. E di Hitler neanche l'ombra. Almeno fino al prossimo tweet.

Anna Lombardi per “la Repubblica” l'8 marzo 2021. Hanno perso nome, mascotte e ora anche cheerleader: le tradizionali ragazze pon pon sostituite col primo "dance team" misto d'America, un gruppo di ballo aperto a uomini e donne. Non si ferma lo sforzo di rinnovamento della squadra di football fino alla scorsa stagione conosciuta come Redskins. Un tempo la più conservatrice d'America, visto che fu l'ultima ad accettare afroamericani - nel 1962 e solo dopo la minaccia di un'azione legale da parte dell'allora presidente John Fitzgerald Kennedy - e il cui allenatore George Allen, negli anni '70, dovette addirittura chiedere a Richard Nixon di non sbandierare troppo il suo esserne tifoso, temendo che gli arbitri fischiassero falli per motivi politici. Il team di Washington, secondo la definizione attuale dei commentatori sportivi, ha abbandonato lo scorrettissimo "pellerossa" in uso fin dal 1933, all'indomani delle proteste scatenate dalla morte dell'afroamericano George Floyd. Cedendo ad anni di polemiche contro quel nome dai connotati razzisti, offensivo per i nativi. Mettendo in cantina pure la mascotte, caricatura di un capo tribù, con tanto di piume e nasone. Tutte decisioni prese da Jason Wright, 38 anni, chiamato alla presidenza della squadra lo scorso agosto: primo afroamericano nella storia della lega football in quel ruolo. Ex giocatore, uomo d'affari fino a quel momento consulente di McKinsey - la società chiamata dal premier Mario Draghi a supportare il Recovery Plan italiano - è d'altronde specializzato nell'aiutare le aziende a diventare più inclusive. È stato proprio lui a convincere tutti della necessità di sciogliere pure le "First Ladies of Football", il gruppo di 36 tifose "professioniste" in minigonna e, appunto, quei pon pon colorati (le cui radici affondano nelle protuberanze di lana dei cappelli usati dall'esercito napoleonico, i cui colori distinguevano gradi e battaglioni militari) animatrici del tifo sul campo. Il fatto è che quel primo club di cheerleader d'America, vecchio di 60 anni, è stato di recente sconvolto pure da uno scandalo legato a un servizio fotografico per uno dei loro celebri calendari: quando alle cheerleader venne imposto di posare nude - nonostante la pubblicazione non preveda immagini integrali - davanti a una piccola folla di sponsor, invitati senza chiedere loro il permesso. Le ragazze non hanno preso bene lo scioglimento. Semmai, avrebbero preferito accettare nelle loro fila dei maschi come già fatto dai Los Angeles Rams e i New Orleans Saints, pronte a condividere le loro esibizioni con colleghi dell'altro sesso: «Non capiamo la necessità di distruggere la nostra storia. Siamo un gruppo affiatato ed inclusivo» si lamenta in tv la capitana Erica Hanner. Ma il presidente è inamovibile: «Dobbiamo usare questo periodo tra la fine e l'inizio del nuovo campionato per diversificare il brand. Presto sveleremo il nuovo nome e offriremo ai nostri fan un'esperienza sportiva rinnovata».

Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 5 marzo 2021. «Caro signor Nabokov, mi spiace informarla che la sua poesia non è stata accettata per la pubblicazione sul New Yorker. Secondo noi, tanti lettori non la capirebbero. E poi, sì, c' è quel problema a metà poesia di cui parlava lei stesso nella sua lettera Ma non si preoccupi, la stimiamo molto e il suo inglese è straordinariamente buono. Alla prossima». Silenzio, parla Charles Pearce. Il quale, siamo nel 1942, è il cofondatore della casa editrice Duell, Sloan and Pearce e soprattutto il responsabile della sezione poesia del magazine New Yorker, che si è appena permesso di rifiutare una poesia di Vladimir Nabokov. Già, e cioè The Man of To-Morrow Lament, ossia L' uomo del lamento di domani ma anche L' uomo del lamento fino al mattino. Protagonista un supereroe, allora il più celebre di tutti: Superman, alias Clark Kent, ma in una veste nuova, tormentato dai dilemmi della contemporaneità e dell' esistenza. Una poesia mai pubblicata, che oggi sarebbe perduta. Fortuna però che Andrei Babikov, scrittore, traduttore e avido studioso di letteratura russa, l' ha recuperata di recente presso la biblioteca Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell' università di Yale: perché quella poesia dimenticata, svergognata e un po' maledetta era lì, mischiata tra le lettere di Nabokov al suo amico Edmund Wilson, eppure ben conservata, in una cartellina. «Un inedito di Nabokov!», esclama Babikov che presenta il poema in un articolo che uscirà oggi sul Times Literary Supplement. Certo, nel 1942 lo scrittore russo, allora 43enne, è ancora semisconosciuto in America e gran parte delle sue opere le ha scritte in russo ma non sono state tradotte in inglese, a parte La vera vita di Sebastian Knight completato a Parigi alla fine degli anni Trenta e poco altro. Poi il dramma e la violenza della Seconda guerra mondiale: Nabokov e Vera decidono di fuggire dalla Francia, prendono una nave e come migranti qualsiasi sbarcano a New York, il 28 maggio 1940. Nabokov si affermerà soprattutto con I bastardi nel 1947 e diventerà presto cittadino americano prima di tornare in Europa 13 anni dopo, nella svizzera Montreux. Nel frattempo però, come racconta Babikov, da esordiente newyorchese il futuro colosso della letteratura russa si arrabatta come può per far brillare la sua classe letteraria oltreoceano. Come agli inizi in Francia, cerca di fare un po' di tutto: recensioni per quotidiani e settimanali, una bibliografia di Gogol, traduzioni in inglese di Pushkin, e poi poemi, che lui cerca di pubblicizzare, anche in maniera grossolana, storpiandoli pauperisticamente in "versetti" quando li presenta a giornali e riviste. Incluso il New Yorker che in realtà gli ha appena pubblicato un primo componimento, The Refrigerator Awakes (Il frigo si sveglia). Ma poi pone un lapidario veto a The Man of To-Morrow Lament, componimento "alla Rabelais" per i testimoni dell' epoca. Il motivo principale lo cita Pearce nella sua lettera di rifiuto, e un po' se lo aspettava pure Nabokov. Niente di lolitesco, quello arriverà nel 1955. Ma qui Superman, censurato da un settimanale senza complessi come lo chic New Yorker, tra i "versetti" è protagonista di una scena spinta, piuttosto esplicita, con la sua amata Lois Lane: «Sono giovane e sprizzo di linfa prodigiosa, mi sento innamorato come ogni uomo sano, e devo soffocare il mio cuore dinamico perché il matrimonio per me sarebbe un delitto, un terremoto, che rovina la notte delle notti, la vita di una donna, e si porta via le palme, l' hotel Ma anche se quell' esplosione di amore risparmiasse il suo fisico, quali bambini potrebbe accogliere dentro di sé?». Immagini e allusioni sessuali che non indignano nemmeno le studentesse di un college semi-religioso ad Atlanta durante un reading di Nabokov. Ma il New Yorker sì. Non solo. Perché il Superman ispirato dall' omonimo fumetto uscito qualche giorno prima del poema, viene dipinto dal romanziere russo come un supereroe borghese e afflitto, esistenzialmente dilemmatico, troppo normale. Un problema nell' America bellica del 1942, quando Clark Kent e il suo invincibile e muscolare alter ego sono anche un solido baluardo nell' immaginario collettivo antinazista negli Stati Uniti, vedi un' altra puntata del fumetto di Superman, pubblicato in quelle settimane, proprio nella chiave di caccia a Hitler e che Nabokov addolcisce con inaccettabili monologhi interiori, inni alla normalità e dunque l' ombra di un fallimento per lo Übermensch americano. Per Babikov, la scoperta di questo poema, a rima baciata e un po' bambinesco, è un gioiello per uno studioso. «Perché questa», spiega sul Times Literary Supplement, è l' unica opera di Nabokov di cui sono assolutamente evidenti le fonti di ispirazione, ossia il numero 16 del fumetto di Superman. Fonti che venivano sempre nascoste dall' autore». Ma qui troviamo anche chiare tracce del Re Lear ("il tronco scacciato") e H.G. Wells. Tuttavia il Superman di Nabokov è un supereroe troppo debole e inetto in tempi di guerra, preda di insopportabili flussi di coscienza, troppo (post)modernista come Nabokov. Per questo gli Stati Uniti lo respingono senza pietà, fino da farlo dileguare per sempre tra le pieghe della storia e della letteratura. Invece no, e dunque godiamoci gli ultimi versi di The Man of To-Morrow Lament: «E quando lei (Lois Lane, ndr) sospira - da qualche parte a Central Park / dove si staglia la mia immensa statua di bronzo - "Oh, Clark / Non è meravigliosa?!", il mio sguardo resta fisso / come vorrei essere, invece, un uomo normale».

Biden cede al politically correct e "cancella" l'autore per bambini. Biden non ha citato Dr. Seuss, scrittore finito nel mirino della “cancel culture” per le presunte immagini razziste contenute nei suoi libri per bambini. Gerry Freda - Gio, 04/03/2021 - su Il Giornale. Negli Usa è polemica dopo che ieri, nella Giornata nazionale della Lettura, il presidente Biden ha “cancellato” lo storico disegnatore e autore per bambini Dr. Seuss. Ieri era infatti il Read Across America Day, ricorrenza statunitense dedicata al valore dei libri e celebrata, fin da l998, proprio il giorno del compleanno dello scrittore Theodor Seuss Geisel, morto nel 1991. Biden non ha però citato quest’ultimo nella proclamazione presidenziale relativa alla ricorrenza citata, venendo così accusato dai media conservatori di avere ceduto alla “cancel culture” promossa dai gruppi radicali di sinistra vicini al Partito democratico. Quei circoli estremisti di sinistra hanno più volte in passato accusato i testi di Dr. Seuss di contenere messaggi razzisti. La polemica è stata lanciata dal canale Fox News, che ha evidenziato la mancanza di qualsiasi riferimento a Dr. Seuss nel comunicato rilasciato dalla Casa Bianca nella Giornata della Lettura. Il presidente dem ha così rotto con la tradizione, dato che i suoi predecessori Trump e Obama avevano puntualmente citato lo scrittore in ogni Read Across America Day. Al contrario, la proclamazione presidenziale dell’era Biden omette di menzionare lo scrittore per bambini, bollato dai circoli socialisti come razzista, limitandosi a evidenziare che: “La chiave per trasformare i giovani lettori in pensatori impegnati, attivi e innovativi, è stimolare in loro l'amore per la lettura in giovane età. La lettura è il mezzo per raggiungere possibilità e abilità illimitate e avvia i giovani su un sentiero di scoperte per tutta la vita. In questo Giorno della lettura in America, celebriamo i genitori, gli educatori, i librai e gli altri campioni della lettura che contribuiscono a lanciare i giovani della nazione su questa cruciale strada”. La “cancellazione” di Dr- Seuss da parte di Biden, accusano i conservatori, sarebbe stata imposta al presidente dalla frangia radicale del suo partito ed è stata anticipata da una clamorosa decisione della Seuss Enterprisess, la società che si occupa di promuovere e tutelare l'eredità dell'autore più amato dai bambini in America. Tale società ha infatti di recente annunciato, dietro presunte pressioni dei sostenitori della “cancel culture”, che non saranno più pubblicati 6 libri dell’autore incriminato, poiché accusati da quei circoli estremisti di contenere immagini razziste. Per i conservatori, gli attacchi a Dr. Seuss rappresentano l’ennesimo eccesso del politicamente corretto, con la “cancel culture” che, invocando la cancellazione di sempre più autori, punta a cancellare l’intera storia americana.

Cristina Taglietti per il "Corriere della Sera" il 4 marzo 2021. Cinesi con il viso giallo che si aggirano mangiando con le bacchette, uomini di colore con gonnellini d' erba che trasportano animali esotici. Sono tra le raffigurazioni considerate poco rispettose di altre culture, legate a stereotipi, che non si vedranno più nei libri del Dr. Seuss, pseudonimo letterario di Theodor Seuss Geisel. Scrittore per l' infanzia tra i più amati al mondo, Premio Pulitzer nel 1984 «per il suo contributo all' educazione e al divertimento dei bambini americani e dei loro genitori», è l' inventore del Grinch che ruba il Natale perché tutti devono essere infelici come lui; dell' elefante Ortone che scopre in un granello di polvere la città dei piccoli Chi e fa di tutto per proteggerli; degli Snicci che vogliono distinguersi per sembrare superiori agli altri. Seuss (1904-1991) ha inventato oltre 430 personaggi, in cinquant' anni di creatività e oltre sessanta libri. Nonostante molti dei suoi titoli (da noi tradotti magnificamente in rima da Anna Sarfatti per Giunti), siano un inno all' uguaglianza e all' apertura agli altri, qualcosa è rimasto impigliato nelle maglie strette della sensibilità contemporanea, così la stessa fondazione che ne cura l' eredità - anche economica - ha deciso di cancellare dal catalogo sei titoli (non tradotti in Italia) che contenevano stereotipo offensivi, «affinché il catalogo rappresenti e sostenga tutte le comunità e tutte le famiglie». Messaggio recepito anche alla Casa Bianca: a differenza di Obama e Trump, Biden non ha menzionato lo scrittore nella Giornata nazionale della Lettura, ieri, 2 marzo, stabilita in coincidenza con la sua data di nascita.

DAGOREPORT il 23 febbraio 2021. Che WASP (White Anglo-Saxon Protestant) sia fuori moda questo l’avevamo capito. Che il politically correct abbia ideologicamente spostato la barra del gusto (e del comando) verso ogni qualsiasi ex minoranza o ex non-bianco europeo è altrettanto noto. Che tutti i mali, da “Orientalismo” di Edward Said in poi risiedano nel fallocentrismo usurpatore del maschio bianco lo sappiamo e che, di conseguenza, il resto del mondo sia più “figo” pure. Il “Time” di questa settimana lo certifica. Il settimanale di informazione Usa, di proprietà di Marc Benioff, cresciuto in una famiglia ebrea stabilita nella San Francisco Bay Area, ha dedicato il numero in edicola alle 100 persone più influenti dei prossimi anni (secondo lui). Le ha divise anche in settori: Fenomeni, Innovatori, Leaders, Artisti, Avvocati d’opinione. Allora, in che gender ecc ecc “Time” identifica i leader prossimi venturi? Nel famigerato uomo bianco dominatore o in una donna bianca (categoria nella quale nell’ultimo censimento si sono classificati il 77,1% della popolazione Usa)? No di certo, l’uomo bianco non è più “figo”. I prossimi leader più influenti, secondo “Time” sono, naturalmente, le donne e, naturalmente, non Wasp, comunque non bianche di “origine” europea. Sono 34 su 100 dei nomi indicati (tra i quali l’ormai onnipresente pseudo poetessa Gorman) e stravincono nella prima categoria, “Leader”, dove sono otto contro quattro maschi Wasp, tre donne Wasp e due maschi di colore. Così via per il resto delle classificazioni. I non-bianchi vincono sia tra le donne che tra i maschi; gli europei in elenco sono pochissimi, gli europei “latini” nessuno, italiani men che meno. Se le previsioni del “Time” sono vere – e non la caratteristica proiezione ideologica -, dal 2025 urge una diffusione di quote azzurre perché l’uomo bianco di tradizione “latina” è destinato a diventare come il panda.

Maurizio Stefanini per "Libero quotidiano" il 18 febbraio 2021. È più razzista dare del negro, o dare tre giornate di squalifica e 100.000 sterline di multa a qualcuno che chiama «negro» un amico soprannominato «negro»? La storia risale a novembre, ma in America Latina va ancora avanti. Protagonista Edinson Cavani: attaccante uruguayano del Manchester United che giocò anche nel Palermo e nel Napoli, che ha pure la cittadinanza italiana per un nonno di Maranello, e che giusto domenica nel fare 34 anni ha ricambiato via Instagram gli auguri di compleanno del suo ex-compagno di squadra Javier Pastore. «Gracias flaquito», gli ha scritto. «Grazie magrolino», è la traduzione letterale. Ma forse il senso lo darebbe più una forma vernacolare, tipo il romanesco «grazie secco». Così Cavani ha l' abitudine di salutare, e pure a novembre dopo aver segnato due goal nel 3-2 al Southampton al suo amico Pablo Fernández che gli aveva mandato i complimenti aveva scritto: «gracias negrito». Anche qua, nello spagnolo soprattutto latinoamericano corrisponderebbe a un vernacolare «moro», o «moretto». Come si dice sempre in romanesco: «a moro, me sei piaciuto!». Ma ci sarebbe ad esempio pure la canzone delle mondine: «Addio morettin ti lascio». Infatti il termine è usatissimo nelle canzoni. «Drume, negrita / Que yo voy a comprar nueva cunita / Y la negra Mercé / Ya no sabe que hace», dice ad esempio una famosa ninna nanna che è stata eseguita anche da Mercedes Sosa, Celia Cruz e i Quilapayún: che sarebbero poi i veri autori di quel Pueblo unido jamás será vencido portato in Italia dagli Inti Illimani. Ma come comincia la prima canzone del loro primo album italiano degli stessi Inti Illimani? «Negra zamb / coge tu mante / siempre adelante». «Ay mi negrita» è un' altra famosa hit di Orlando Rodríguez. Eccetera. la sanzione «Io offeso!? Ma mi hanno sempre chiamato negrito!», ha provato a intervenire Pablo Fernández in difesa dell' amico. Niente da fare. Sulla stampa inglese era trapelato che il goleador dava del «negro» al prossimo, la Cancel Culture si è scatenata, e su Cavani si è abbattuta la sanzione. Capendo l' aria che tirava, il giocatore ha cancellato il post, ha chiesto scusa, e se l' è cavata con un minimo. D' altra parte, poco dopo è saltata la partita proprio tra il Paris Saint-Germain e il Basekshir, per la storia del quarto uomo Coltescu che aveva indicato come «negru» un collaboratore del tecnico della squadra turca. Giusto la settimana scorsa l' ispettore dell' Uefa ha però riconosciuto che «negru» in romeno è neutro. Cioè, nella scala, in inglese «nigger» è considerato spregiativo. Per questo hanno scatenato questa censura, e per questo lo sostituiscono con black. Ma in italiano sarebbe neutro, anche se abbiamo comunque la possibilità di sostituirlo con «nero». In romeno «negru» è termine unico: significa anche «black». E in spagnolo può essere addirittura un vezzeggiativo. Appunto, tipo la «morettina / tu sei la mia morosa» dei bersaglieri sul Grappa. Cavani dunque ha abbozzato, ma l' Uruguay no. Non solo è scesa in campo l' associazione calciatori locale, denunciando la «visione dogmatica» della omologa inglese. Non solo ha protestato anche la confederazione di calcio sudamericana Conmebol. «Mancate di visione multiculturale», ha detto agli inglesi a brutto muso anche l' Accademia Nazionale delle Lettere uruguayana, spalleggiata dalla Accademia delle Lettere argentina. Cioè, se punite chi usa un termine spagnolo positivo perché assomiglia a un termine inglese negativo, i razzisti siete voi! Vari media latino-americani stanno ancora dibattendo la cosa, con alcuni commentatori appunto afro-americani in prima linea nel denunciare lo sproposito. «Fuerza Negrito» è diventato un hashtag popolare, ed è stato anche lanciato un vino «Gracias Negrito». Attenzione che il vino rosso in spagnolo viene chiamato normalmente "tinto". Ma anche noi abbiamo ad esempio il Nero d' Avola: nella speranza che non venga censurato anch' esso. Come ha spiegato il docente universitario danese Andreas Beck Holm, «Cavani è un lavoratore immigrato non del tutto a proprio agio con la lingua e le convenzioni inglesi. La sua punizione è un chiaro esempio di discriminazione basata sulla cultura di una persona. Cioè razzismo culturale». Associato di Filosofia Politica e Filosofia della Scienza all' Università di Aarhus, Andreas Beck Holm lavora appunto a una Scuola di Cultura e Società che ha fatto della sanzione a Cavani un caso studio. «È come se gli inglesi abbiano voluto rimarcare con forza che i codici linguistici e culturali della società uruguyana e della lingua spagnola sono inferiori a quelli del Regno Unito».

DAGOREPORT il 23 febbraio 2021. Che WASP (White Anglo-Saxon Protestant) sia fuori moda questo l’avevamo capito. Che il politically correct abbia ideologicamente spostato la barra del gusto (e del comando) verso ogni qualsiasi ex minoranza o ex non-bianco europeo è altrettanto noto. Che tutti i mali, da “Orientalismo” di Edward Said in poi risiedano nel fallocentrismo usurpatore del maschio bianco lo sappiamo e che, di conseguenza, il resto del mondo sia più “figo” pure. Il “Time” di questa settimana lo certifica. Il settimanale di informazione Usa, di proprietà di Marc Benioff, cresciuto in una famiglia ebrea stabilita nella San Francisco Bay Area, ha dedicato il numero in edicola alle 100 persone più influenti dei prossimi anni (secondo lui). Le ha divise anche in settori: Fenomeni, Innovatori, Leaders, Artisti, Avvocati d’opinione. Allora, in che gender ecc ecc “Time” identifica i leader prossimi venturi? Nel famigerato uomo bianco dominatore o in una donna bianca (categoria nella quale nell’ultimo censimento si sono classificati il 77,1% della popolazione Usa)? No di certo, l’uomo bianco non è più “figo”. I prossimi leader più influenti, secondo “Time” sono, naturalmente, le donne e, naturalmente, non Wasp, comunque non bianche di “origine” europea. Sono 34 su 100 dei nomi indicati (tra i quali l’ormai onnipresente pseudo poetessa Gorman) e stravincono nella prima categoria, “Leader”, dove sono otto contro quattro maschi Wasp, tre donne Wasp e due maschi di colore. Così via per il resto delle classificazioni. I non-bianchi vincono sia tra le donne che tra i maschi; gli europei in elenco sono pochissimi, gli europei “latini” nessuno, italiani men che meno. Se le previsioni del “Time” sono vere – e non la caratteristica proiezione ideologica -, dal 2025 urge una diffusione di quote azzurre perché l’uomo bianco di tradizione “latina” è destinato a diventare come il panda.

Il primo pilota militare nero del mondo era italiano e... fascista. Basta mistificazioni ideologiche. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 24 febbraio 2021. Storici orientati e giornali mainstream tentano di farlo passare per “vittima di discriminazione razziale”.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Leggendo tra le pieghe della vulgata storiografica, ogni tanto spuntano fuori personaggi che creano dei veri cortocircuiti  mandando in tilt l’intero sistema. Uno di questi è Domenico Mondelli, nato Wolde Selassie, primo pilota militare di colore del mondo. Come mai questo afro-italiano, con due Medaglie d’Argento e due di Bronzo al Valor Militare, è così poco noto? Eppure, dovrebbe essere un orgoglio nazionale dato che, all’epoca, negli altri paesi, ai neri era preclusa l’aeronautica in quanto ritenuti “incapaci di gestire l’emotività”.  L’unica monografia dedicatagli è del sociologo de “La Sapienza” Mauro Valeri, già direttore dell’Osservatorio nazionale sulla xenofobia, che nel 2016 pubblica per Odradek edizioni “Il Generale nero”, un libro pesantemente ideologico, ricco di afflati deamicisiani, dove gli stessi dati riportati contraddicono, tuttavia, ciò che l’autore vuole dimostrare a tutti i costi, ovvero che Domenico avesse subìto discriminazioni razziali. Era il 5 aprile 1891 quando il parmense capitano di fanteria Attilio Mondelli, sulla strada per Adua, raccoglie un bimbo etiope orfano di 4 anni, Wolde, salvandolo da morte certa. Diventa suo tutore, gli dà il nome di Domenico (forse dal giorno in cui lo ha trovato) e, una volta adolescente, lo iscrive al Collegio militare di Roma. Il ragazzo è “nero come il carbone” e non somiglia affatto ad Attilio, confermando perché entrambi abbiano sempre parlato di adozione nonostante uno dei tanti certificati anagrafici scriva di paternità. Domenico primeggia fra i cadetti e, nel 1904, viene assegnato ai Bersaglieri. Nel 1912, entra nella Massoneria, loggia di Palermo del Grande Oriente d’Italia. L’anno dopo è nel Corpo Aeronautico, tra i pochi piloti militari italiani: è il primo di colore al mondo “ben prima dell’afroturco Celikten, dell’afroamericano Ballard e dell’afroinglese Clarke”. L’ambiente militare lo valorizza – ammette, a malincuore, Valeri - e, nella buona società, è ricercato e passa come un vero tombeur de femmes. Allo scoppio della Grande Guerra, alla cloche di un caccia Nieuport Ni. 80 compie azioni di ricognizione e bombardamento; si guadagna la prima medaglia di bronzo, così come altri ufficiali neri del Regio Esercito. Nel ’17, forse per aver involontariamente  bombardato truppe italiane, o per aver amoreggiato con qualche moglie o figlia di superiori, viene spedito in trincea. Lui si distingue prima fra i Bersaglieri e poi come ardito, alla testa del IX Reparto d’Assalto. Scriveva Paolo Caccia Dominioni: “Sulla nostra destra, il negro meraviglioso (sic) ha sfondato le linee nemiche…”. “E ‘ uno dei nostri ufficiali più amati – annotava Luigi Gasparotto – l’abissino negro, magro, ricciuto, dai denti candidi e dalla perfetta parlata italiana; odia la burocrazia e adora i Bersaglieri”. (Come si nota, la parola "negro" in italiano non ha mai avuto significato dispregiativo). Arrivano due medaglie d’argento (anche per una ferita all’occhio) e un’altra di bronzo, oltre alla croce di Cavaliere della Corona d’Italia. Fin qui, ZERO discriminazioni, dunque. Ma è col Fascismo che, secondo l’autore, “arrivano i guai”. Dal 1925, il suo avanzamento al grado di colonnello subisce, infatti, uno stop: la legge Sanna imponeva una riduzione degli ufficiali superiori e le nuove norme per l’avanzamento richiedevano pubblicazioni scientifiche di cui Mondelli era privo. Del ’25, è anche la legge che rendeva incompatibile l’appartenenza alla Massoneria con l’impiego pubblico. Il provvedimento tendeva a evitare che, nelle Forze armate, un generale, ad esempio, prendesse ordini da un colonnello solo perché questi era più in alto nella gerarchia muratoria. Secondo Valeri, l’ufficiale “sfidò Mussolini” con tre ricorsi al Ministero della Guerra, tutti vinti, peraltro, nel corso di vari anni. Mussolini, evidentemente, non se la prese poi troppo dato che il Ministero  conferì a Mondelli nomine, decorazioni e una ricca pensione, fino al ‘43. Insomma, “discriminato come nero e come massone”, stando all’autore della biografia, Mondelli si dimette dall’Esercito e passa nella Riserva. Mauro Valeri però tralascia un dettaglio: il “moro” entra nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale fascista. Ma come, tutte quelle discriminazioni subìte dal Fascio e poi si arruola nelle CAMICIE NERE? La MVSN era, infatti, la quarta forza armata, (come oggi, ad esempio, i Carabinieri) e i suoi militari giuravano fedeltà al Duce, non solo al Re. Mondelli entrò come console (colonnello) dato che nella Milizia si avanzava automaticamente di grado; poi divenne addirittura console generale (generale di brigata). Lo dimostrano due foto in divisa MVSN che Valeri spaccia per una riunione di ex-Arditi della Grande Guerra. Conferma lo storico Pierluigi Romeo di Colloredo, studioso della Milizia: “L’ufficiale abissino porta la frangia del fez in avanti sul fregio da console generale, mentre i consoli che lo attorniano, la portano di lato. Del resto, prima della legge del ’25, almeno 23.000 fascisti erano massoni, in quanto eredi della tradizione risorgimentale, interventista e fiumana”. In seguito il fenomeno rientrò, ma nella MVSN rimase, evidentemente, una certa tolleranza verso squadre e compassi. Se Mondelli fosse stato bloccato nella carriera per via di una legge fascista antimassoneria (e non per la riduzione dei quadri), stupisce che si sia arruolato tra i suoi oppressori e, quand’anche si fosse trattato di una finzione opportunistica, (come ventila Valeri) non si spiega perché nel 1946, Domenico si candida con il partito di estrema destra GPISAM - Gruppo Politico Italiani di Sicilia, d‘Africa e del Mediterraneo” dell’intellettuale fascista Vittorio Ambrosini. La MANIPOLAZIONE IDEOLOGICA del militare di colore è stata ripresa anche da Avvenire che, astutamente, rimuove in blocco la sua biografia dal ‘25 al ’59, così come altri quotidiani generalisti che, nel 2016, straparlavano di discriminazioni razziste sempre negate dallo stesso ufficiale. Mondelli terminerà i suoi giorni nel 1974 col grado (massimo) di Generale di Corpo d’Armata dell’Esercito: un altro primato per un militare afroitaliano. Peccato che un eroe della Grande Guerra, un pilota simbolo di integrazione e orgoglio italiano a livello mondiale sia stato così sequestrato da una “memoria” adulterata che la dice lunga sulla storiografia tradizionale e sull’informazione asservita al pensiero unico.

Così il Time mette all'angolo "l'uomo bianco". Fra le 100 persone più influenti dei prossimi anni secondo il Time ci sono perlopiù donne, soprattutto di colore, minoranze, e pochissimi uomini bianchi. Roberto Vivaldelli - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. Sono artisti, avvocati, leader, innovatori: sono le 100 persone più influenti dei prossimi anni secondo il Time. 100 leader emergenti che stanno plasmando, a detta della testata, il futuro dell'intrattenimento, della salute, della politica, degli affari e altro ancora. Il numero del Time è in commercio con sei copertine diverse, ciascuna delle quali mette in prima pagina un membro della lista stilata dalla rivista: la cantante inglese di origini kosovare Dua Lipa, l'attrice canadese di origine tamil Maitreyi Ramakrishnan, il centrocampista del Manchester United Marcus Rashford, il primo ministro finlandese Sanna Marin, lo stilista liberiano-americano Telfar Clemens e la scrittrice afro-americana Brit Bennett. Nessun "uomo bianco" in bella mostra, sarà davvero un caso? Il redattore capo e Ceo di Time Edward Felsentha sottolinea nella presentazione della classifica come "in mezzo a una pandemia globale, disuguaglianze sempre più profonde, ingiustizie sistemiche e questioni esistenziali sulla verità, la democrazia e il pianeta stesso", i personaggi illustri inseriti nella lista rappresentino una forma di speranza per il futuro. "Sono medici e scienziati che combattono contro il Covid-19, attivisti che si battono per l'uguaglianza e la giustizia, giornalisti che difendono la verità, e artisti che condividono le loro visioni del presente e del futuro". Il Time non ha voluto fissare alcun limite di età nella classificazione. "Intenzionalmente non abbiamo posto limiti di età. La persona più giovane in questa lista, per esempio, è la performer sedicenne Charli D'Amelio, che conta più di 100 milioni di follower su TikTok. Tra i più anziani c'è Raphael Warnock, 51 anni, senatore democratico della Georgia, la cui recente elezione rappresenta l'alba di un nuovo Sud". Nella lista ci sono 54 donne, tra cui: Phoebe Bridgers, Maria Raga, Ana de Armas, Janja Garnbret, Florence Pugh, Clementine Jacoby, Anya Taylor-Joy, Guo Ningning, Sohla El-Waylly, Sarah Al Amiri, Shira Haas e altre. Come si può evincere anche dai nomi citati poco sopra, il Time ha dato ampissimo spazio alle minoranze (etniche, di genere), in maniera tale da apparire più "politicamente corretto" e "inclusivo" possibile. L'uomo bianco, magari eterosessuale e di orientamento conservatore, non sembra andare granché di moda fra le riviste patinate più "in". I leader del futuro sono donne, afroamericani, Lgbt o persone appartanenti a qualsivoglia minoranza etnica o sessuale presente sulla faccia della Terra. Va bene tutto, insomma, purché non siano Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), diventato sinonimo di suprematismo bianco e di "bianco privilegiato". Roba vecchia, passata. Il futuro è il progressismo in salsa politically correct. Come nota Dagospia, i non-bianchi vincono sia tra le donne che tra i maschi; gli europei in elenco sono pochissimi, gli europei “latini” nessuno, italiani men che meno. Se le previsioni del Time sono vere – e non la caratteristica proiezione ideologica -, dal 2025 urge una diffusione di quote azzurre perché l’uomo bianco di tradizione “latina” è destinato a diventare come il panda. Così vuole la nuova religione del politicamente corretto e la politica dell'identità che proviene dai salotti buoni dell'America più "liberal".

“Il bianco attacca il nero”, YouTube blocca per razzismo il canale degli scacchi. Bloccato per 24 ore da YouTube il più famoso canale di scacchi al mondo per presunte affermazioni razziste. Anche se il filmato commentava solo una partita. Roberta Damiata - Mer, 24/02/2021 - su Il Giornale. Spesso si è portati a pensare che sulla rete tutto è possibile, ma una notizia riportata dall’Independent ha dimostrato l’esatto contrario. Quasi un paradosso che ha portato YouTube a bloccare uno dei più famosi canali di scacchi per presunto razzismo. Una frase come “Il bianco attacca il nero” è stata infatti scambiata dall’intelligenza artificiale, come discriminatoria facendo scattare di conseguenza il blocco del canale. Questo incredibile fatto è accaduto al giocatore croato di scacchi Antonio Radic, proprietario del canale YouTube Agadmator che è il più famoso al mondo con oltre un milione di iscritti. Secondo quanto riportato dall’Independent, che su questo episodio ha fatto uno studio, i vari riferimenti al bianco e nero, in questo caso il colore degli scacchi, hanno mandato in confusione gli algoritmi addestrati per rilevare frasi razziste o incitamenti all’odio, bloccando di conseguenza l’innocuo canale. Lo studio è stato portato a termine da due informatici Ashique R. KhudaBukhsh e Rupak Sarkar della Carnegie Mellon University che hanno commentato l’accaduto come possibile. “Non sappiamo quale strumento venga usato da YouTube ma si affidano all’intelligenza artificiale per rilevare il linguaggio razzista, e quindi questo tipo di incidente può accadere” hanno spiegato nell’articolo. Hanno poi fatto una vera e propria dimostrazione raccogliendo oltre 68mila commenti da cinque diversi canali YouTube dedicati agli scacchi e li hanno forniti ai più noti software programmati per scovare l’”hate speeach”, ovvero l’incitamento all’odio. Ne hanno poi scelti mille che erano stati segnalati come inappropriati da almeno uno dei programmi, e li hanno controllati di persona. Il risultato è stato netto: l'82 per cento non conteneva alcun riferimento razzista, solo il gergo tipico dei giocatori di scacchi. Nel mondo virtuale di internet non sono comunque solo quelle le parole che mettono in allerta i sistemi di segnalazione. Ne esistono infatti molte altre senza andare a scomodare le più classiche e ovvie come Isis o bomba. Parole come attacco, cattura, minaccia, vengono segnalate anche quando in realtà prese nel contesto della frase possono esprimere infiniti significati anche assolutamente innocui. Per tornare alla notizia sembra che il blocco sia partito durante un video in cui il famoso scacchista croato ha pronunciato la frase “il bianco attacca il nero", commentando una partita con il Gran Maestro Hikaru Nakamura.

Arianna Finos per "la Repubblica" il 23 febbraio 2021. Dopo i classici animati, la revisione alla luce degli stereotipi del passato tocca anche ai Muppets. Precedute da Muppets Now, un programma nuovo di zecca con protagonisti gli amatissimi pupazzi, sono arrivate il 19 febbraio sulla piattaforma Disney+ anche le vecchie puntate, le cinque stagioni di un classico della tv per bambini nato alla fine degli anni Settanta. Diciotto episodi di The Muppet Show sono preceduti però da un avvertimento: "Il programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti sbagliati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi e comportamenti erano sbagliati allora e lo sono oggi", si legge nella schermata che appare per 12 secondi prima dell'inizio delle puntate. Poi viene motivata la scelta di renderli comunque disponibili: "La rimozione del contenuto negherebbe l'esistenza di pregiudizi e il loro impatto dannoso sulla società. Scegliamo, invece, di trarne insegnamento per stimolare il dialogo e creare insieme un futuro più inclusivo". Il messaggio si chiude con una dichiarazione di intenti: "La Disney si impegna a creare storie con temi ispiratori e ambiziosi che riflettano la ricca diversità dell'esperienza umana in tutto il mondo. Per saperne di più sull'impatto delle storie sulla società, visitate il sito Disney. com/StoriesMatter". The Muppet Show è stato inventato da Jim Henson, maestro dei pupazzi di Hollywood, famoso per i film Dark Crystal e Labyrinth - Dove tutto è possibile . Lo spettacolo televisivo ha portato all'apice della popolarità i suoi protagonisti: Kermit la rana, la favolosa Miss Piggy, Fozzie Bear, Gonzo e gli altri pupazzi colorati, dallo stile irriverente e un po' scorretto. Il provvedimento di Disney+ arriva sulla scia di quelli già presi per classici animati come Dumbo, Fantasia, Peter Pan e Gli aristogatti. In effetti, in alcuni momenti del Muppet Show si vedono il cantante Johnny Cash sul palco di fronte alla bandiera degli stati schiavisti, l'attore Jonathan Winters imita un nativo americano esibendosi con un cappello con le piume, pupazzi agghindati in stile arabo perforano avidamente la stanza di Kenny Rogers in cerca di petrolio. Tutte scene all'apparenza buffe e innocue che però rischiano di rinforzare stereotipi e pregiudizi nei bimbi più piccoli, diventando più difficili da estirpare. Due episodi, di cui uno con Brooke Shields, non sono disponibili. A rinforzare la decisione c'è l'esclusione dei titoli controversi dai profili dei bimbi più piccoli.

Valeria Robecco per “il Giornale” il 26 febbraio 2021. Dopo lo sport, nel mirino dei nativi americani finiscono anche le auto. Da oltre 45 anni Jeep utilizza il nome Cherokee per uno dei suoi Suv, ma presto potrebbe essere costretta a un cambio radicale. Il capo della Cherokee Nation, Chuck Hoskin Jr, ha infatti chiesto al gruppo Stellantis - frutto della fusione tra Fiat-Chrysler e la francese Psa - di non usare più il nome della loro tribù per il suo famoso modello di fuoristrada. «Penso sia arrivato il momento in questo paese in cui società e squadre non utilizzino più nomi, immagini e mascotte legate ai nativi americani», ha detto Hoskin: «Sono sicuro che le intenzioni siano buone, ma non ci onora avere il nostro nome attaccato sulla targa di un'automobile». Immediata la risposta di Jeep, che in una dichiarazione ha spiegato come «i nomi dei nostri veicoli sono stati scelti con cura e coltivati nel corso degli anni per onorare e celebrare i nativi americani per la loro nobiltà, abilità e orgoglio. Siamo, più che mai, impegnati in un dialogo rispettoso e aperto con Hoskin». Il capo della tribù, tuttavia, ha fatto sapere che i nativi «non sono interessati a un accordo con la casa automobilistica che consenta loro di continuare a utilizzare il nome». Nome che, ha precisato, «non dovrebbe essere uno strumento di marketing. È parte della nostra identità e nel 2021 sembra del tutto inappropriato che una società continui a trarne profitto». Jeep ha lanciato il suo primo modello di Cherokee 4X4 nel 1974, nome poi ripreso nel 2013. Nell'ultimo anno molte aziende americane sono state spinte ad abbandonare appellativi o simboli che facevano riferimento ai nativi americani. Dopo una serie di polemiche e accuse di razzismo, ad esempio, lo scorso luglio la squadra di football americano di Washington, i Redskins, ha deciso di abbandonare il soprannome «pellerossa» (considerato un insulto) per chiamarsi solamente Washington. Da mesi era soggetta a pressioni anche da parte dei suoi più importanti sponsor, tra cui FedEx, Pepsi e Nike. Stesso destino per il team di baseball di Cleveland, gli Indians, che dopo oltre cento anni e 17mila partite, ha abbandonato l'appellativo «indiani», anche in questo caso criticato come razzista. Già nel 2018 gli Indians avevano tolto la mascotte «Chief Wahoo», un logo con la faccia rossa di un indiano, che i nativi avevano giudicato particolarmente offensivo. Coca-Cola, intanto, è finita al centro delle polemiche per aver promosso un corso di formazione online che esorta i suoi dipendenti a «cercare di essere meno bianchi» per combattere la discriminazione e il razzismo. Essere «less white», letteralmente, secondo la multinazionale significa «essere meno arroganti, meno sicuri, più umili e, soprattutto, smetterla con la solidarietà fra bianchi». Inoltre, si afferma che i bianchi negli Stati Uniti e in altre nazioni occidentali sono «si sentono intrinsecamente superiori perché bianchi». L'iniziativa ha suscitato apprezzamento, ma anche parecchie critiche: l'avvocato e fondatore del Center for American Liberty Harmeet Dhillon, ad esempio, ha parlato di una «palese discriminazione razziale» verso i bianchi. In una lettera a Fox Business il gigante delle bevande ha tentato da parte sua di giustificarsi, affermando che le diapositive attribuite al corso «non fanno parte del programma di apprendimento dell'azienda».

Da ansa.it il 25 luglio 2021. "Una vergogna": così Donald Trump definisce la decisione della squadra di baseball di Cleveland di cambiare dopo cento anni il suo nome, scegliendo quello di Guardians e rinunciando a quello storico di Indians che risale al 1915 ma viene ritenuto da molti offensivo per i nativi americani e razzista. Una posizione quest'ultima condivisa dal presidente Joe Biden che, ha fatto sapere la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki, è favorevole alla svolta. "Posso assicurare che la gente più arrabbiata sono proprio gli indiani del nostro Paese, per loro avere una squadra col loro nome era un onore", afferma Trump in un comunicato in cui accusa "un piccolo gruppo di persone di avere avuto una idea folle volta a distruggere la nostra cultura e la nostra eredità. A un certo punto la gente non ne potrà più", conclude l'ex presidente. La vicenda di Cleveland è l'ultima di una serie frutto delle proteste contro l'uso dei nomi e dei simboli dei nativi nello sport. Lo scorso anno il caso più eclatante è stato quello che ha portato a squadra di football americano della capitale Washington ad abbandonare lo storico nome di Redskins (pellerossa).

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 25 luglio 2021. Dopo i Pellerossa di Washington anche la squadra di baseball gli Indiani di Cleveland cambia nome per cancellare ogni ombra di sfruttamento e di mancanza di rispetto per la comunità dei nativi d'America. Diventerà i Guardians (guardiani) in omaggio alle quattro statue di custodi mitologici della città, bassorilievi in pietra nello stile dell'art déco, che decorano le colonne di uno dei ponti che attraversano il fiume Coyahoga. Per inciso un nome coniato dagli indiani irochesi, che significa: fiume tortuoso.

LA SCELTA. La scelta è venuta al termine di un lungo percorso di presa di coscienza, culminato con un referendum nel quale il nome Guardians era in realtà arrivato terzo, dopo Spiders (ragni) e Rockers (in omaggio alla sede della Hall of Fame musicale che risiede nella città), ma è sembrato la migliore alternativa ai proprietari della squadra, forse per evitare future polemiche con gli animalisti e con gli amanti del tango. Il procedimento che sta portando ad una revisione della nomenclatura sportiva, come in tanti altri settori, è iniziato con la morte di George Floyd, pietra miliare per l'affermazione di un movimento che intende riscrivere l'intera storia statunitense, alla ricerca degli stereotipi che hanno segnato la discriminazione di alcuni gruppi sociali ed etnici, tra cui i neri, gli asiatici e i nativi indiani. È sulla base di questa discriminazione codificata, dicono i membri del Black Lives Matter, che è oggi possibile per un poliziotto bianco trattare la dignità e la vita di una persona di colore con una attenzione ben diversa di quella che concederebbe ad un bianco. Nessun cambiamento reale è possibile se alla base della comunicazione il linguaggio continua ad incorporare la licenza discriminatoria. Oltre le parole e la semantica, questa attività di riscrittura ha un forte connotato politico perché prelude ad un riequilibrio delle dinamiche tra gruppi sociali che potrebbe avere un conto salato per la classe bianca che domina il paese. Ed è per questo che ognuno dei passi che sta segnando il percorso è accompagnato da violente polemiche. 

LA TRANSIZIONE. I conservatori resistono alla domanda di transizione arroccandosi intorno ai concetti del rispetto, dell'onore e dell'orgoglio di una storia che non sono disposti a rivedere. Molti sportivi sono ferocemente contrari all'idea di perdere un logo come quello dei Cleveland Indians che ha 95 anni di vita e ha riunito quattro generazioni di tifosi. Gli stessi nativi indiani erano molto divisi sulla questione, perché tanti tra loro traggono orgoglio nel vedere la testa del capo Wahoo nei gagliardetti e nelle divise della squadra. I sondaggi davano la spinta per il cambio a non più del 27%. Alla fine però la decisione della squadra di baseball di Cleveland, così come era successo a quella dei Redskins di Washington, non è scaturita dal dibattito tra le parti sociali o in seguito alle pressioni di una parte del pubblico dei tifosi. L'iniziativa è partita dall'interno della dirigenza della squadra due giorni dopo l'uscita del video che mostrava la morte del nero americano Gorge Floyd soffocato dal ginocchio sul collo di un poliziotto bianco. Ma a forzarla nel tempo di due mesi da quell'evento tragico sono stati i principali sponsor commerciali della squadra: FedEx, Pepsi e Nike. Nella migliore tradizione capitalista è stato il mercato a decidere. La triade di finanziatori ha messo il proprietario Paul Dolan di fronte ad una scelta improrogabile: consentire al cambiamento o perdere le sponsorizzazioni a favore delle due altre squadre cittadine; i Cavaliers (pallacanestro) oi Browns (football). Nessuno dei tre re del mercato può permettersi di perdere una fetta di clienti pari al 27%.

Il politically correct cancella il nome di questa squadra. Roberto Vivaldelli il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Nuovo nome per i Cleveland Indians, storica franchigia di Baseball, che dalla prossima stagione diventerà Cleveland Guardians per non offendere i nativi americani. Da Cleveland Indians a Cleveland Guardians, nel nome del politicamente corretto e della cancel culture. La storica franchigia della Major League Baseball statunitense ha deciso di strizzare l'occhio al politically correct e di cambiare il celebre nome che l'ha resa famosa e riconoscibile in tutto il mondo dopo che, alla fine del 2018, aveva già deciso di abbandonare lo stemma che ritrae la caricatura del nativo americano, Chief Wahoo. La squadra, riporta Fox News, ha pubblicato un video sui social annunciando il loro nuovo nome - che entrerà in vigore dalla prossima stagione - con la voce narrante dell'attore Tom Hanks.

La lettera del proprietario dei Cleveland Indians ai supporter. Il proprietario del team, Paul Dolan, ha scritto in una lettera ai supporter della squadra di baseball spiegando che "gli Indians faranno sempre parte della nostra storia proprio come Cleveland è sempre stata la parte più importante della nostra identità". "Nella ricerca di un nuovo marchio - ha sottolineato - abbiamo cercato un nome che riflettesse fortemente l'orgoglio, la resilienza e la lealtà degli abitanti di Cleveland", ha scritto Dolan. "Porta in vita l'orgoglio della nostra città e il modo in cui ci difendiamo l'un l'altro". Dolan ha spiegato che la decisione è arrivata dopo l'ondata di proteste antirazziste che ha sconvolto l'America dopo la morte di George Floyd. Per il team, a dirla tutta, non è nemmeno il primo cambio di nome: nati come Cleveland Blues nel 1901, diventarono successivamente Cleveland Broncos e dal 1903 al 1914 cambiarono ancora in Cleveland Naps. Ora il pensiero unico della politica identiaria ha reso necessario l'ennesimo restyling.

Prima lo stemma, ora il nome: la crociata politically correct contro gli Indians. Non è la prima società americana a cambiare nome per gli stessi motivi: lo scorso anno i Washington Redskins - storica squadra di football americano - hanno ceduto alle pressioni di opinione pubblica e sponsor annunciando una "profonda revisione del nome". Motivo? "Pellerossa", è diventata un'espressione insopportabile e offensiva per i crociati del politicamente corretto che vogliono cancellare la storia e vogliono dirci come dobbiamo esprimerci per non offendere le minoranze che loro sostengono di tutelare attraverso furiose battaglie ideologiche e petizioni. Nel caso dei Cleveland Indians, come spiega IlFoglio, era da anni che la comunità dei nativi americani criticava il team per l'utilizzo di quello che consideravano "una caricatura razziale offensiva", in quanto perpetrava "stereotipi sbagliati nei confronti delle popolazioni indigene", sfruttando commercialmente "un marchio che ritraeva un nativo americano". Era da anni che Phillip Yenyo, direttore esecutivo dell'American Indian Movement of Ohio, si scagliava contro "l'utilizzo ingiustificato di immagini e loghi che appartenevano alla minoranza dei nativi americani". Ora attivisti e sponsor possono dirsi soddisfatti: sono riusciti a cancellare la storia, ancora una volta. Addio Indians.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali, è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

Follia politically correct: "Basta Mr e Mrs Potato". Ma scoppia la bufera. Hasbro, dopo le polemiche, ha fatto una parziale marcia indietro, assicurando che le diciture Mr e Mrs verranno mantenute, pur “ridimensionate”. Gerry Freda - Sab, 27/02/2021 - su Il Giornale. Hasbro, azienda Usa produttrice di giocattoli, ha ultimamente compiuto una svolta, in nome dell'"inclusività”, ai danni di Mr Potato, personaggio del cartone animato per bambini Toy Story. Tale personaggio perderà infatti il titolo di “Mister”. Negli Sati Uniti, numerose aziende di giochi e di intrattenimento per ragazzi hanno in questi mesi modificato in nome del politicamente corretto le proprie creazioni. Prima della Hasbro, la Disney aveva fatto una sorta di mea culpa riguardo ai presunti messaggi razzisti contenuti in alcuni suoi classici, da Dumbo a Gli Aristogatti, decidendo di accompagnare la visione degli stessi con messaggi di allerta sull’“impatto dannoso” di quei contenuti video. La scelta di Hasbro è stata annunciata dalla stessa società americana, con un tweet in cui la stessa ha fatto sapere che, da oggi in poi, i giocattoli di Mr e di Mrs Potato si chiameranno semplicemente “Potato Head” (testa di patata), senza riferimenti al sesso dei personaggi. Rendendo “neutro” quel giocattolo, l’azienda intende permettere a ogni bambino di essere libero di creare la sua "famiglia di patate ideale", anche con due mamme o due papà. L’annuncio di Hasbro ha subito spaccato in due il web, tra favorevoli e contrari alla scelta presa in nome del politicamente corretto. I critici della decisione hanno preso le difese degli storici personaggi di Toy Story chiedendosi polemicamente se anche Barbie fosse destinata cambiare nome, mentre opinioni favorevoli sono state invece espresse dalle associazioni del mondo Lgbt e dalla rivista specializzata in giochi per bambini The toy insider. Ali Mierzejewski, direttore di quest’ultima, ha infatti sottolineato: “È solo una patata, ma i bambini hanno bisogno di riconoscersi nei giochi che usano”. Tuttavia, forse proprio per effetto delle polemiche scatenate dal suo annuncio, Hasbro ha in seguito fatto una parziale retromarcia, correggendo il suo tweet iniziale su Mr Potato e rassicurando tutti gli appassionati sul fatto che i nuovi personaggi di Potato Head continueranno a essere venduti con le diciture Mr e Mrs. Sulle nuove confezioni di Potato Head, ha rassicurato l’azienda, verranno infatti mantenute le indicazioni del sesso dei personaggi, ma queste ultime verranno comunque “ridimensionate”, ossia verranno scritte in basso alle confezioni e non più in bella evidenza in alto.

Da corriere.it il 15 aprile 2021. Hank Azaria, il doppiatore e comico americano che ha dato voce al personaggio di Apu nei Simpson, ha chiesto scusa «a ogni singola persona indiana» per aver interpretato quel ruolo, pronto a riconoscere le sue responsabilità sulle «conseguenze negative» che possono esserne derivate. Azaria è stato doppiatore del negoziante indiano, uno dei personaggi ricorrenti del cartoon, fin dal 1989, ma ha abbandonato la serie animata nel 2020 dopo l’insorgere delle critiche che facevano notare come Apu Nahasapeemapetilon desse un’immagine fortemente stereotipata e potenzialmente offensiva della comunità indiana. A rafforzare l’ondata di dissenso ha contribuito il documentario del 2017 «The Problem with Apu» che analizzava proprio il modo di ritrarre le comunità asiatiche da parte del mondo occidentale.

Il contributo al «razzismo strutturale» negli States. Azaria, 56 anni, è tornato sull’argomento durante il podcast Armchair Expert, dicendosi convinto che i Simpson abbiano alla base delle buone intenzioni, ma che abbiano nondimeno contribuito al «razzismo strutturale» negli Stati Uniti. Gli ci è voluto tempo, ha aggiunto, per giungere a queste conclusioni e per capire che il suo modo di ritrarre Apu - che in italiano è doppiato da Manfredi Aliquò - era offensivo: «Davvero non ne avevo idea. Non ci avevo pensato all’inizio. Non mi rendevo conto di quanti vantaggi avessi avuto, essendo un ragazzo bianco cresciuto nel Queens».

Il caso Hunziker-Scotti a Striscia la Notizia. Le scuse di Azaria arrivano nella stessa settimana in cui un caso simile ha destato polemiche in Italia: Michelle Hunziker e Gerry Scotti, conduttori di Striscia la Notizia, sono stati accusati di razzismo per aver ironizzato sugli occhi a mandorla e scherzato sulla pronuncia cinese. In un’intervista al Corriere hanno ribadito il loro profondo dispiacere e sottolineato: «Eravamo in buona fede».

I Simpson e la follia del politically correct. Roberto Vivaldelli il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Nuova follia del politicamente corretto: secondo Hank Azaria, storico doppiatore di Apu dei Simpson, la serie ha contribuito ad alimentare il "razzismo strutturale" negli Stati Uniti. L'idiozia del politicamente corretto sembra non conoscere più limiti. L'ultima follia riguarda il personaggio di Apu dei Simpson, già al centro di - assurde - polemiche negli ultimi anni con l'accusa di fomentare stereotipi negativi nei confronti degli indiani e di darne un'immagine distorta: ebbene Hank Azaria, lo storico doppiatore e comico americano che ha dato voce al personaggio di Apu Nahasapeemapetilon nella serie animata dal 1989 allo scorso anno, ha chiesto scusa "a ogni singola persona indiana" per aver interpretato quel ruolo, pronto a riconoscere le sue responsabilità sulle "conseguenze negative" che possono esserne derivate.

E ora il doppiatore di Apu dei Simpson si scusa con la comunità indiana. Come riporta il Corriere della Sera, Azaria, 56 anni, è tornato sull’argomento durante il podcast Armchair Expert, dicendosi convinto che i Simpson abbiano alla base delle buone intenzioni, ma che abbiano contribuito al "razzismo strutturale" presente negli Stati Uniti. Un mantra dei liberal negli ultimi anni, usato anche in chiave anti-Trump durante le elezioni presidenziali dello scorso anno, tanto da diventare una vera e propria ossessione. Dopo più di 30 anni, dunque, Hank Azaria si è "accorto" quanto il suo doppiaggio fosse potenzialmente offensivo. La sua colpa? Quella di essere un maschio, bianco, privilegiato. Fattori che alimentano il suo senso di colpa: "Davvero non ne avevo idea. Non ci avevo pensato all’inizio. Non mi rendevo conto di quanti vantaggi avessi avuto, essendo un ragazzo bianco cresciuto nel Queens". Fra queste affermazioni e la furia iconoclasta che abbatte le statue dei confederat (e non solo)i, in realtà, non c'è alcuna differenza di fondo: ambedue sono un riflesso della cancel culture progressista che vuole cancellare la storia e rimodellare il mondo della cultura e dell'intrattenimento secondo i nuovi canoni del politicamente corretto.

L'addio dopo le polemiche. All'inizio dello scorso anno Hank Azari, il doppiatore bianco del mitico Apu, gestore del Jet Market dei Simpson, dichiarò che avrebbe lasciato l'incarico dopo che il suo personaggio era finito nel mirino del politically correct. Controversa nata con la pubblicazione, nel 2017, del documentario "Il problema con Apu", diretto dal comico di origini indiane Hari Kondabolu, che descriveva Apu e il suo doppiatore Azaria come "un uomo bianco che fa l’imitazione di un uomo bianco che prende in giro mio padre". Il documentario, che ha fatto a lungo discutere gli Stati Uniti, racconta l’influenza del personaggio sulle vite di molti attori e comici indiani, e in generale il problema della rappresentazione delle minoranze. A essere offensivo, secondo Kondabolu, è soprattutto il fatto che a doppiare Apu è stato fin dall’inizio Hank Azaria, che ha la colpa di essere bianco. Da quel momento in poi per i produttori dei Simpson Apu è diventato un serio problema, così come gli altri personaggi di colore doppiati da attori bianchi.

Anche i Simpson s'inchinano a Black Lives Matter. Nelle scorse settimane, dopo oltre 30 anni passati a dare voce al dottor Julius Hibbert, l'attore Harry Shearer è stato sostituito dal doppiatore di colore Kevin Michael Richardson: l'anno scorso i produttori di uno degli show più longevi del mondo, infatti, su pressione del movimento Black Lives Matter, si erano impegnati a non far doppiare più personaggi di colore ai bianchi. Come scrisse tempo fa Renato Franco sulle pagine del Corriere della Sera, la forza dei Simpson è sempre stata l’anarchica, dissacrante, politicamente scorretta, corrosiva, il non fare sconti a nessuno, a partire dal capobranco wasp Homer – inetto come pochi – che era il lasciapassare per ironizzare su tutto e tutti, per fare sarcasmo su stereotipi razziali, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale, senza essere accusati di pregiudizi. Nel corso degli anni, tuttavia, quell’ironia dissacrante che non faceva sconti a nessuno e faceva arrabbiare tutti ha lasciato il posto all’ideologia del politicamente corretto, annacquando la creatività di una serie che è ormai la copia sbiadita di quella che era un tempo.

Così i Simpson cedono alle pressioni di Black Lives Matter. I produttori della celebre serie televisiva si erano impegnati sette mesi fa, sull'onda delle proteste di Black Lives Matter, a sostituire i doppiatori bianchi che davano voce ai personaggi di colore. Roberto Vivaldelli - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. Come scrisse tempo fa Renato Franco sulle pagine del Corriere della Sera, la forza dei Simpson è sempre stata l’anarchica, dissacrante, politicamente scorretta, corrosiva, il non fare sconti a nessuno, a partire dal capobranco wasp Homer – inetto come pochi – che era il lasciapassare per ironizzare su tutto e tutti, per fare sarcasmo su stereotipi razziali, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale, senza essere accusati di pregiudizi. Nel corso degli anni, tuttavia, quell’ironia dissacrante che non faceva sconti a nessuno e faceva arrabbiare tutti ha lasciato il posto all’ideologia del politicamente corretto, annacquando la creatività di una serie che è ormai la copia sbiadita di quella che era un tempo. Come riporta il Guardian, dopo oltre 30 anni passati a dare voce al dottor Julius Hibbert, l'attore Harry Shearer sarà sostituito dal doppiatore di colore Kevin Michael Richardson: sette mesi fa i produttori di uno degli show più longevi del mondo, infatti, su pressione del movimento Black Lives Matter, si erano impegnati a non far doppiare più personaggi di colore ai bianchi. Ieri la Fox ha confermato che l'episodio andato in onda la scorsa notte negli Stati Uniti, Dairy Queen, sarebbe stato l'ultimo per Shearer. Da domenica, invece, il disastroso e simpatico dottore sarà interpretato da Richardson. Shearer continuerà a dare la voce ad altri personaggi, tra cui il Signor Burns, Smithers, il direttore Skinner, Ned Flanders e e il Reverendo Lovejoy. Shearer è stato la voce di Hibbert dalla seconda stagione de I Simpson, nel 1990. Nei mesi scorsi aveva commentato in maniera negativa la nuova "policy" della celebre serie televisiva animata: "Ho una semplice convinzione a proposito della recitazione, e cioè che il lavoro dell’attore è quello di interpretare qualcuno che non è. Quello è il compito, quella è la descrizione del lavoro. Penso che ci sia una fusione nella rappresentazione, che è una cosa importante. Le persone di ogni estrazione sociale dovrebbero essere rappresentate nella stesura e produzione dell’azienda in modo che possano decidere quali storie raccontare e con quali conoscenze. Ma il mio lavoro è interpretare qualcuno che non sono". All'inizio dello scorso anno Hank Azari, il doppiatore bianco del mitico Apu, gestore del Jet Market dei Simpson, aveva dichiarato che avrebbe lasciato l'incarico dopo che il suo personaggio era finito nel mirino del politically correct. Controversa nata con la pubblicazione, nel 2017, del documentario "Il problema con Apu", diretto dal comico di origini indiane Hari Kondabolu, che descriveva Apu e il suo doppiatore Azaria come "un uomo bianco che fa l’imitazione di un uomo bianco che prende in giro mio padre". Il documentario, che ha fatto a lungo discutere gli Stati Uniti, racconta l’influenza del personaggio sulle vite di molti attori e comici indiani, e in generale il problema della rappresentazione delle minoranze. A essere offensivo, secondo Kondabolu, è soprattutto il fatto che a doppiare Apu è stato fin dall’inizio Hank Azaria, che ha la colpa di essere bianco. Da quel momento in poi per i produttori dei Simpson Apu è diventato un serio problema, così come gli altri personaggi di colore doppiati da attori bianchi.

Da “The Independent” il 20 febbraio 2021. Nel Regno Unito più di 26.000 persone hanno firmato una petizione di protesta contro la pubblicità degli ovetti di pasqua farciti di crema di Cadbury, che mostra due uomini che si baciano. Il creatore della petizione sostiene che il "contenuto sessualizzato" della pubblicità sia offensivo per i cristiani, e che lo spot sia stato fatto apposta per fare polemica nascondendosi "sotto la copertura dei diritti LGBT". La petizione, ospitata su CitizenGo, chiede che la pubblicità venga rimossa. "Scegliendo di presentare una coppia dello stesso sesso, Cadbury's sta chiaramente sperando di causare polemiche e sfuggire alle critiche, sostenendo che qualsiasi obiezione sia radicata nella 'omofobia', ma anche i membri della comunità LGBT hanno espresso la loro avversione per questa campagna", si legge nella descrizione.  "Cadbury's è ben consapevole del significato religioso della Pasqua. Pertanto, stanno cercando di causare offesa gratuita ai membri della comunità cristiana durante la festa più importante del loro calendario". In molti invece hanno lodato la pubblicità per la sua inclusività e la rappresentazione LGBTQ quando è stata pubbicata il mese scorso. Un utente di Twitter ha scritto: "Buon venerdì - ma non per i 20.000 omofobi che hanno firmato una petizione per sbarazzarsi della nuova pubblicità dell'uovo alla crema. Ciò che è ridicolo è il fatto che le persone sono effettivamente offese da due uomini che condividono un fottuto uovo. Datevi una calmata". Un altro ha twittato: "25.000 persone hanno firmato una petizione per far cancellare la pubblicità dell'uovo di crema di Cadbury. Tutto quello che posso dire è che dopo aver visto una pubblicità che abbraccia l'amore, non ho mai desiderato di più un uovo di crema". Una contro-petizione è stata pubblicata su Change.org sollecitando Cadbury a non rimuovere la petizione e, anzi, "amplificarla". Finora ha più di 3.000 firme. Il creatore della petizione Simon Harris ha detto che vuole che Cadbury "vada in grande" e trasmetta la pubblicità su "quegli schermi giganti a Piccadilly Circus" o la metta sul lato di "ogni autobus in Gran Bretagna".

Da gazzetta.it il 20 febbraio 2021. Philipp Lahm è finito al centro di una gigantesca polemica in Germania. Il motivo? L'ex capitano della nazionale tedesca, amico personale di Angela Merkel, nel suo nuovo libro, "Das Spiel. Die Welt des Fussbals", suggerisce ai colleghi calciatori omosessuali di non fare coming out: "Ancora manca la capacità di accettare, nel mondo del calcio e nella società in generale. Se qualcuno avesse in mente di farlo e dovesse chiedermi un consiglio, gli suggerirei di consultarsi con una persona di fiducia e fare onestamente i conti con se stesso, su quali siano i veri motivi per questo passo. Ma non gli consiglierei mai di parlare di questo tema con i compagni di squadra. Non potrebbe contare sulla stessa maturità nei suoi avversari o sui campi, dovrebbe sopportare insulti e diffamazioni. Lo accetterebbe?". Parole che nascono come critica a una certa preclusione che ancora esiste sul tema dell'omosessualità nel mondo del pallone, in Germania come in Italia, ma che sono suonate comunque come discriminatorie verso i gay. Tra l'altro proprio in questi giorni 800 calciatori e calciatrici hanno pubblicato un appello, rivendicando il diritto di fare coming out: "Vogliamo che chiunque decida di farlo sia sicuro del nostro sostegno e della nostra solidarietà". Tra i firmatari anche Kruse dell'Union Berlin e Hector, capitano del Colonia.

Maurizio Stefanini per "Libero quotidiano" il 18 febbraio 2021. È più razzista dare del negro, o dare tre giornate di squalifica e 100.000 sterline di multa a qualcuno che chiama «negro» un amico soprannominato «negro»? La storia risale a novembre, ma in America Latina va ancora avanti. Protagonista Edinson Cavani: attaccante uruguayano del Manchester United che giocò anche nel Palermo e nel Napoli, che ha pure la cittadinanza italiana per un nonno di Maranello, e che giusto domenica nel fare 34 anni ha ricambiato via Instagram gli auguri di compleanno del suo ex-compagno di squadra Javier Pastore. «Gracias flaquito», gli ha scritto. «Grazie magrolino», è la traduzione letterale. Ma forse il senso lo darebbe più una forma vernacolare, tipo il romanesco «grazie secco». Così Cavani ha l' abitudine di salutare, e pure a novembre dopo aver segnato due goal nel 3-2 al Southampton al suo amico Pablo Fernández che gli aveva mandato i complimenti aveva scritto: «gracias negrito». Anche qua, nello spagnolo soprattutto latinoamericano corrisponderebbe a un vernacolare «moro», o «moretto». Come si dice sempre in romanesco: «a moro, me sei piaciuto!». Ma ci sarebbe ad esempio pure la canzone delle mondine: «Addio morettin ti lascio». Infatti il termine è usatissimo nelle canzoni. «Drume, negrita / Que yo voy a comprar nueva cunita / Y la negra Mercé / Ya no sabe que hace», dice ad esempio una famosa ninna nanna che è stata eseguita anche da Mercedes Sosa, Celia Cruz e i Quilapayún: che sarebbero poi i veri autori di quel Pueblo unido jamás será vencido portato in Italia dagli Inti Illimani. Ma come comincia la prima canzone del loro primo album italiano degli stessi Inti Illimani? «Negra zamb / coge tu mante / siempre adelante». «Ay mi negrita» è un' altra famosa hit di Orlando Rodríguez. Eccetera. la sanzione «Io offeso!? Ma mi hanno sempre chiamato negrito!», ha provato a intervenire Pablo Fernández in difesa dell' amico. Niente da fare. Sulla stampa inglese era trapelato che il goleador dava del «negro» al prossimo, la Cancel Culture si è scatenata, e su Cavani si è abbattuta la sanzione. Capendo l' aria che tirava, il giocatore ha cancellato il post, ha chiesto scusa, e se l' è cavata con un minimo. D' altra parte, poco dopo è saltata la partita proprio tra il Paris Saint-Germain e il Basekshir, per la storia del quarto uomo Coltescu che aveva indicato come «negru» un collaboratore del tecnico della squadra turca. Giusto la settimana scorsa l' ispettore dell' Uefa ha però riconosciuto che «negru» in romeno è neutro. Cioè, nella scala, in inglese «nigger» è considerato spregiativo. Per questo hanno scatenato questa censura, e per questo lo sostituiscono con black. Ma in italiano sarebbe neutro, anche se abbiamo comunque la possibilità di sostituirlo con «nero». In romeno «negru» è termine unico: significa anche «black». E in spagnolo può essere addirittura un vezzeggiativo. Appunto, tipo la «morettina / tu sei la mia morosa» dei bersaglieri sul Grappa. Cavani dunque ha abbozzato, ma l' Uruguay no. Non solo è scesa in campo l' associazione calciatori locale, denunciando la «visione dogmatica» della omologa inglese. Non solo ha protestato anche la confederazione di calcio sudamericana Conmebol. «Mancate di visione multiculturale», ha detto agli inglesi a brutto muso anche l' Accademia Nazionale delle Lettere uruguayana, spalleggiata dalla Accademia delle Lettere argentina. Cioè, se punite chi usa un termine spagnolo positivo perché assomiglia a un termine inglese negativo, i razzisti siete voi! Vari media latino-americani stanno ancora dibattendo la cosa, con alcuni commentatori appunto afro-americani in prima linea nel denunciare lo sproposito. «Fuerza Negrito» è diventato un hashtag popolare, ed è stato anche lanciato un vino «Gracias Negrito». Attenzione che il vino rosso in spagnolo viene chiamato normalmente "tinto". Ma anche noi abbiamo ad esempio il Nero d' Avola: nella speranza che non venga censurato anch' esso. Come ha spiegato il docente universitario danese Andreas Beck Holm, «Cavani è un lavoratore immigrato non del tutto a proprio agio con la lingua e le convenzioni inglesi. La sua punizione è un chiaro esempio di discriminazione basata sulla cultura di una persona. Cioè razzismo culturale». Associato di Filosofia Politica e Filosofia della Scienza all' Università di Aarhus, Andreas Beck Holm lavora appunto a una Scuola di Cultura e Società che ha fatto della sanzione a Cavani un caso studio. «È come se gli inglesi abbiano voluto rimarcare con forza che i codici linguistici e culturali della società uruguyana e della lingua spagnola sono inferiori a quelli del Regno Unito».

Marco Lignana Matteo Macor per "repubblica.it" l'11 febbraio 2021. Nella Asl 5 di La Spezia sicuramente qualcuno ha sbagliato a non accorgersi di quanto stava facendo. Ma chi dentro l’azienda sanitaria ligure ha sottoposto ai cittadini un vergognoso documento in cui l’omosessualità è indicata come “categoria a rischio” in vista della vaccinazione anti Covid, non ha creato dal nulla quell’elenco. Perché quello stesso foglio si trova sul sito del Ministero della Salute. Più precisamente, in un pdf intitolato “Specifiche funzionali”, scaricabile nell’area dell’Anagrafe nazionale dei vaccini. Ebbene nel documento di 95 pagine datato ottobre 2020, all’allegato 3, nelle “categorie a rischio”, ecco il "codice" 10: Soggetto con comportamenti a rischio (tossicodipendente, soggetto dedito alla prostituzione, omosessuale). SI tratta della stessa identica tabella “griffata Asl5”, che ha costretto i vertici politici e sanitari liguri, dal presidente Toti al direttore generale della Asl5 Paolo Cavagnaro, a doverose scuse. Questa mattina, quando il caso era esploso anche all'interno delle amministrazioni nessuno aveva ben compreso la genesi del documento.  “Un chiaro errore, lo riconosciamo, per cui possiamo solo scusarci, - ammette dall’Asl il direttore dell’azienda sanitaria Paolo Cavagnaro - ma stiamo anche tentando di spiegarci”. “Prima di dare risposte e precisazioni vorremmo capire da dove viene quel modulo - era stata la prima spiegazione dell’Asl5, non appena il caso è emerso in rete - Stiamo ancora indagando per capire se sia un fake, o se frutto di una leggerezza”. “Chiediamo alla Regione, ad Alisa e all'Asl5 come sia stato possibile inserire - senza la benché minima evidenza scientifica - l'essere omosessuali nelle categorie di comportamenti a rischio”, fa sapere nel frattempo il consigliere regionale Ferruccio Sansa, il primo a segnalare l’accaduto sui social. “Ci augureremmo che fosse un fake - spiega Sansa - Per questo abbiamo cercato di chiedere informazioni all'Asl5 : dopo 13 telefonate senza risposta, compresi l'ufficio relazioni con il pubblico e il servizio covid-19. Finalmente l'ufficio igiene pubblica e vaccinazioni ci ha risposto: "Sì, conosciamo quel foglio, ma non l'abbiamo fatto noi". Fra le cause dell'"errore" sulle quali si erano interrogati gli uffici dell'Asl spezzina, come prima ipotesi, c'era quella di aver ricalcato nell'elaborazione del modulo per il vaccino anti Covid "un vecchio documento usato per le donazioni di sangue, quando ancora l’omosessualità era indicata tra i comportamenti a rischio", viene spiegato. “Nel caso - continua Cavagnaro, direttore dell'Asl5 - verrá subito eliminato dai moduli”. M anon era così. Il documento era un modulo ufficiale e risalente ad ottobre del Ministero della Salute. E se il caso è presto diventato bufera politica (“Chiediamo scusa ai cittadini liguri per non essere riusciti ad evitare di essere governati da una classe dirigente di questa natura", attaccano da Pd e Articolo 1 i consiglieri regionali Davide Natale e Luca Garibaldi), nel giro di una mattinata l'errore è stato anche spiegato, e riconosciuto. "Il documento era scaricabile sulla nostra rete intranet, a disposizione dei nostri operatori sanitari impegnati sull'anagrafe vaccinale - spiegano ancora dall'Asl5 - Operatori che devono interrogare chi si trovano a gestire, ma non possono certo farlo con questi riferimenti, con classificazioni che evidentemente nella nostra cultura non sono corretti. Si tratta di un errore, punto, per cui chiedere scusa e rimediare con l'elaborazione di un nuovo modulo". Il tweet di Raffaella Paita, deputata spezzina di Italia Viva: "Non è uno scherzo ma una vergogna che deve essere subito cancellata". Il presidente e assessore alla Sanità della Liguria Giovanni Toti "stigmatizza e condanna fermamente quanto accaduto in Asl5, in relazione alla comunicazione, fortemente discriminatoria, per l'accesso alla fase2 della campagna di vaccinazione anti Covid-19". Si legge in una nota. "Si tratta di un errore inaccettabile" e per questo il presidente Toti "ha dato immediatamente mandato alla Asl5 di ritirare la comunicazione e agli uffici di avviare un'indagine per individuare le responsabilità e adottare provvedimenti disciplinari". "Asl5 si scusa a nome dell'intera sanità ligure con tutti i cittadini che si siano sentiti offesi". Ma ora la palla passa al Governo.

DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 16 aprile 2021. Il direttore della diversità della BBC Miranda Wayland ha detto che il dramma poliziesco Luther, acclamato dal pubblico per la forte personalità del protagonista di colore (Idris Elba), era "diversificato" solo  superficialmente. La signora Wayland durante la conferenza della MIPTV ha detto che, per ottenere una vera rappresentazione, i dirigenti delle stazioni televisive dovrebbero garantire che i personaggi neri abbiano delle frequentazioni e una cultura che riflettano completamente il loro background. "Quando [Luther] è uscito per la prima volta, tutti amavano il fatto che Idris Elba fosse lì - un personaggio nero davvero forte", ha detto Wayland. “Ci siamo innamorati tutti di lui. Chi non l'ha fatto, vero? Ma dopo la seconda serie ho pensato, OK, non ha amici neri, non mangia cibo caraibico, non sembra autentico.” Il casting di più registi neri era solo una parte della soluzione, ha aggiunto, ma il creatore e scrittore di ‘’Luther’’ Neil Cross ha espresso la propria sorpresa di fronte alle dichiarazioni, insistendo sul fatto che Elba avesse accettato il ruolo in primo luogo  perché la razza non era considerata un aspetto importante dell’identità del personaggio. Il signor Cross, che è bianco, ha detto: “Non ho alcuna conoscenza, esperienza o diritto di cercare di affrontare in qualche modo l'esperienza di essere un uomo di colore nella Gran Bretagna moderna. Sarebbe stato un atto di tremenda arroganza per me provare a scrivere un personaggio nero.” La casa di produzione della serie ha difeso formalmente il personaggio, facendo sapere di essere "tremendamente orgogliosa" che  lo spettacolo abbia attirato un pubblico di 10 milioni di spettatori e sia stato venduto in 200 paesi in tutto il mondo.

Amanda Gorman, le pagine bianche della poetessa nera. Il libro di poesie The Hill We Climb di Amanda Gorman è arrivato in Italia. Lei è la ragazza di 23 anni, di colore, che ha salutato l'insediamento del presidente degli Stati Uniti Joe Biden il 20 gennaio scorso. Luigi Mascheroni - Mer, 07/04/2021 - su Il Giornale. Il libro di poesie The Hill We Climb di Amanda Gorman è arrivato in Italia. Lei è la ragazza di 23 anni, di colore, che ha salutato l'insediamento del presidente degli Stati Uniti Joe Biden il 20 gennaio scorso. E il libro raccoglie il poemetto recitato in diretta planetaria quel giorno. Preceduto da una lunga e a volte stucchevole polemica su chi ha il diritto (e chi no), e perché, di tradurre le poesie di una ragazza afroamericana e attivista politica, il libro esce per Garzanti. Il sottotitolo è: «Parole di coraggio, speranza e futuro», e il risvolto di copertina recita: «Amanda Gorman sostiene con impegno e dedizione la lotta per la difesa dell'ambiente, per l'uguaglianza razziale e la giustizia di genere». Alla fine di questa settimana sarà primo in classifica. E ci resterà a lungo. Lasciamo ai critici il giudizio sul valore letterario del poemetto (e la risposta alla domanda per noi cruciale: «Ma può definirsi poetessa una ragazzina che fa le virgolette con le dita?»). E lasciamo a mediologi e sociologi le riflessioni sul «fenomeno» Amanda e il suo cappottino di Prada indossato all'Inauguration Day, diventato un must dell'e-commerce (costo: 2.500 euro). Da questo punto di vista, l'articolo definitivo è quello della traduttrice Martina Testa su MicroMega «Un brand fatto di gioventù, donnità, nerezza e tanto tanto successo (ah: e di un cappotto giallo)». Noi ci permettiamo giusto alcune note a margine dell'edizione italiana del libro. Amanda Gorman, in un'intervista, ha raccontato di come, dopo la famosa performance, la sua vita sia cambiata in sei minuti. Che è, più o meno, il tempo necessario per leggere il poemetto. Prendendosela comoda. Sono, complessivamente, 98 versi (circa), quasi tutti di una riga. Ma spalmati - alternando una pagina bianca a una scritta - su 40 mezze paginette, più un'introduzione di Oprah Winfrey, di 38 righe, in corpo e spaziatura abbondante, che - aggiungendo fogli di guardia, frontespizio, colophon, biografia, eccetera - fanno 56 pagine. Euro: 10. Il rischio, detto fra noi, è che si finisca di leggere il poemetto nel tempo di attesa alla cassa della libreria. Semmai va notato che, dopo tante riflessioni sui requisiti dei traduttori nelle varie lingue, l'edizione italiana, che per di più sceglie di tenere in copertina il titolo inglese (The Hill We Climb), incredibilmente non riporti il testo originale a fronte. Come facciamo a comprendere il valore dei versi, se è vero (come è vero) che in Poesia la forma è tutto? L'impressione finale resta quella di qualcosa fra lo sfogo adolescenziale e il poemetto-engagé. Infatti il problema del libro non è la brevità, ma l'essenza. Anche Caproni, o Ungaretti, scrivevano poesie di pochi versi. Ma, appunto...E per il resto, come bibliografia critica, ci permettiamo di citare lo scrittore spagnolo Javier Marías («Il caso Amanda Gorman è così ridicolo che non so neanche perché me ne occupo»), il filosofo marxista Slavoj iek («Amanda Gorman? Terribile»), e il grande successo su Twitter dei versi di Amanda allegati agli auguri di Pasqua. Tipo: «Perché c'è sempre luce/ Se siamo abbastanza coraggiosi da vederla/ Se siamo abbastanza coraggiosi da essere noi stessi/ luce». Letto tutto d'un fiato, con grande ammirazione e anche un po' di commozione...

Dal “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2021. Il viceportavoce di Joe Biden, TJ Ducklo, 32 anni, numero due di Jen Psaki, si è dimesso per aver usato frasi sessiste contro una giornalista del sito web Politico, Tara Palmeri, e aver minacciato di «distruggerla», nel tentativo di evitare che scrivesse della sua relazione con un'altra reporter - Alexi McCammond di Axios - che aveva seguito la campagna di Biden quando lui era il responsabile per i media. È il primo scandalo mediatico dell'amministrazione Biden, scrive il Washington Post. Nei giorni scorsi la Casa Bianca aveva sospeso Ducklo per una settimana senza stipendio. Ma le critiche sono proseguite: «Sanzione troppo blanda». Così sono arrivate le dimissioni «con il sostegno del chief of staff della Casa Bianca Ron Klain». Biden aveva annunciato al suo staff tolleranza zero per ogni mancanza di rispetto, per marcare subito la differenza con Trump.

Dagoreport il 30 marzo 2021. Alcuni scrittori, ce ne scusassero, si rivelarono giovanissimi e senza cappotto firmato: Leopardi compose “L’infinito” a 21 anni, Campana i “Canti orfici” a 28, Rimbaud a 19 anni pubblicò “Una stagione all’inferno” e, tra le donne, Antonia Pozzi compose liriche intorno ai 24 anni e Giovanna Bemporad a 20 editò “Esercizi”, pubblicati da quel Garzanti che oggi pubblica Amanda Gorman. Il fashion system, dopo esser diventato uno dei principali investitori-distruttori dell’arte contemporanea (Arnauld, Pinault…), dopo aver fatto irruzione nel design uccidendo il Disegno industriale di matrice politecnica, dopo aver ridotto l’architettura ad abito con Koolhaas e le archistar (Franco La Cecla: “La moda ha ucciso l’architettura”) intende ora (s)vestire la poesia con i conformistici e quotidiani strumenti dell’ideologia neo-femminista, del black power, del politically-correct, del #metoo, dell’Lgbt, del  vegano, ecc ecc ecc… purché brandizzati. Mercoledì 31 marzo e giovedì 8 aprile sono le date in cui il fenomeno di (s)vestizione della poesia inizia in Italia, soprattutto grazie a Prada, maison della quale Amanda Gorman è una straordinaria testimonial. Archiviato il Dantedì arriva il Gorman day; dall’Inferno all’infernale. Mercoledì 31 il “Corriere della Sera” pubblicherà (a pagamento) i “versi” letti dalla testimonial verseggiatrice per l’elezione di Joe Biden del 21 gennaio scorso, intitolati “The Hill We Climb“; giovedì 8 , sulla tv a pagamento Apple+, Oprah Winfrey, dopo la coppia di pensatori Harry e Meghan intervisterà la poetessa in  giallo che, ha dichiarato aspira a “diventare presidente degli Stati Uniti nel 2036” (se la saranno già dimenticata da 14 anni e mezzo). Il giro d’affari che questa costruzione modaiola tra(s)vestita da letteratura muove sono significativi e la ragazza si sa muovere bene con il cappottino: nel 2017 legge su MTV le sue prime poesie e poco tempo dopo viene scritturata per scrivere uno spot della Nike.  Poche ore dopo l’inaugurazione di Biden la Gorman guadagna 2 milioni di follower che sta già mettendo a frutto come influencer di Prada, che la aveva già invitata, spesata, ospitata e resa testimonial alla sfilata di debutto alla co-direzione artistica  Raf-Simos-Miuccia Prada. Poche ore dopo l’inaugurazione di Biden il cappotto giallo della collezione AW21 è andato sold out su tutti i siti tra i quali la piattaforma @farfetch lo vendeva a 2.800 euro. “Dopo la manifestazione”, secondo le analisi della piattaforma Lyst, “le ricerche sul web di quel capospalla firmato dalla maison milanese sono aumentate del ben 1328%”. Il giorno dopo l’inaugurazione (non due giorni) la verseggiante ha siglato un contratto con IMG models, probabilmente la più importante agenzia di modelle al mondo, che rappresenta Kate Moss, Gisele Bündchen, Gigi Hadid e anche Selena Gomez. L’agenzia, scrive “Hollywood Report”, si occuperà di “costruire il suo profilo attraverso sponsorizzazioni di marchi e opportunità editoriali”. Ed eccole le opportunità. Il “Corriere”, di cui Prada è uno dei grandi investitori pubblicitari, pubblica la sua poesiola. A presentare l’iniziativa è il giornalista Matteo Persivale, che di moda, appunto, si occupa e non di poesia. Anzi, lavorava per Gucci che è stata proprietaria anche della McCartney: vegana lei, ecosostenibile la sua collezione e indossata da modelle afro. La traduttrice scelta è femmina, visto che se non sei donna, giovane, attivista o nera ti discriminano e non puoi tradurla (vedi l’olandese Marieke Lucas Rijneveld e il catalano Víctor Obiols). In Italia hanno chiamato l’attivista Francesca Spinelli, che ha già tradotto niente di meno che “Dovremmo essere tutti femministi” di Chiamamanda Ngozi Adichie. Traduttrice alla quale riescono a far dire una frase del tipo “Quanta adrenalina per tradurre Amanda”. Eccome no! Oprah Winfrey, invece, la intervisterà giovedì con una casacca gialla (mo’ andrà sempre quello e molte giornaliste di moda si inginocchieranno al nuovo colore) sempre Prada.  A presto le prossime puntate. Questa, ahinoi, è “la collina che stiamo risalendo”.

Dal “Corriere della Sera” il 28 febbraio 2021. Una poetessa bianca può tradurre i versi di una nera? L'olandese Marieke Lucas Rijneveld ha rinunciato a tradurre «The Hill We Climb» («La collina che saliamo»), l'opera che l'afro-americana ventiduenne Amanda Gorman aveva recitato all'inaugurazione del presidente democratico Joe Biden. La casa editrice Meulenhoff aveva affidato l'incarico a una penna di talento: Marieke Lucas Rijneveld, 29 anni, nel 2020 ha vinto l'International Booker Prize con il romanzo «Il disagio della sera», la più giovane autrice a ottenere un così ambito riconoscimento. Ma questo non è bastato a fermare le critiche sull'opportunità di farle tradurre i versi di una giovane nera. Da qui la marcia indietro.

Francesco Olivo per “La Stampa” il 12 marzo 2021. C'è un problema con i traduttori di Amanda Gorman. Gli editori si contendono The hill we climb, il poema che la giovane attivista californiana ha letto a Capitol Hill durante l'inaugurazione di Biden. L'edizione olandese è stata assegnata e poi tolta a Marieke Lucas Rijneveld, poetessa impegnata, ma bianca. Il motivo lo ha spiegato l'editore che detiene i diritti delle opere di Gorman: la traduttrice deve essere donna, giovane attivista e preferibilmente nera. Il problema si è riproposto con l'edizione catalana: il traduttore incaricato, il poeta Víctor Obiols, non risponde a nessuno di questi criteri.

Obiols, cos'è successo?

«Mi ha chiamato il mio editore, Enciclopèdia, dicendomi che dall'America avevano fermato tutto. Non rispondevo ai requisiti giusti per tradurre Amanda Gorman».

Con quale motivazione?

«Mi hanno detto che il mio profilo e il mio curriculum non erano adeguati. Sono uomo, bianco, non più giovane e pure catalano».

Lei aveva già cominciato a tradurre?

«Avevo finito e consegnato il testo. L'editore catalano era molto imbarazzato».

Si è stupito?

«Molto. Quando era uscita la vicenda della traduttrice olandese i miei amici mi hanno preso in giro: "Ora tocca a te". Ne ho riso, senza immaginare quello che sarebbe successo pochi giorni dopo».

Come ha reagito?

«All'inizio ha prevalso l'indignazione. Ho scritto dei tweet e poi li ho cancellati perché il tema è delicato e non voglio che le mie parole vengano strumentalizzate».

Lei ha tradotto Shakespeare e Oscar Wilde si sente inadatto per Amanda Gorman?

«No. Mi sembra una vicenda assurda. Io capisco molto bene la discriminazione culturale, la mia lingua, il catalano, era stata praticamente cancellata dalle dittature spagnole. Però questi temi trattati così sfociano nel fanatismo. Quando si cerca a tutti i costi la purezza si arriva al dogmatismo».

Non è giusto assegnare la traduzione a una giovane donna nera?

«Io mi rendo conto che c'è un torto secolare che si è perpetrato. Ma in fondo io, nel mio piccolo, sto subendo quello che hanno patito le persone di colore per secoli: la discriminazione per questione di razza, genere ed età».

Traducendo il poema ha mai avuto contatti con Amanda Gorman?

«No. E sto pensando di scriverle una lettera».

Per dirle cosa?

«Vorrei capire se lei conosce queste manovre. Penso di no. In fondo non le giovano. Poi vorrei dirle che non sono certo uno del Ku Klux Klan. Al contrario: sono sempre stato a favore dei diritti civili. Faccio parte di una Ong che costruisce pozzi in Burkina Faso. Sono amico di Bell Hooks, scrittrice femminista afroamericana».

Cosa pensa di Amanda?

«Quando l'ho vista in tv all'inaugurazione è stato come un balsamo, dopo gli anni del trumpismo. Certo, alla luce di quello che mi è successo, devo notare che è un po' incoerente mettere il veto su un traduttore perché non risponde a certi canoni e invece recitare in pubblico per un presidente bianco».

Visto che la sua traduzione è da buttare, come si pubblicherà una versione in catalano?

«Non è facile trovare una persona di colore, giovane che traduca in catalano. E quando si troverà non è detto che sia intellettualmente più affine ad Amanda Gorman, che è una ragazza di Los Angeles che ha studiato ad Harvard, di quanto lo sia io».

Cosa pensa del poema?

«Io sono più ermetico, amo Montale, quella di Gorman è una poesia di altro tipo. Un genere da pamphlet. Ma non è affatto male».

Come gestirà questa improvvisa notorietà?

«Di certo non l'ho cercata. Sono anche un cantautore, scriverò una canzone su queste vicenda».

Ilaria Zaffino per "la Repubblica" il 15 marzo 2021. «La traduzione è un atto creativo in cui l'affinità principale deve essere con la propria lingua. Io, per esempio, mi sono occupata di poeti eschimesi e sono anche molto freddolosa, ma questo non mi ha impedito di farlo. E tra le mie prime traduzioni c'è stato l'ultimo libro di Céline, Rigodon, che come è noto era un autore antisemita e filonazista, un grandissimo scrittore che ammiro profondamente, ma il fatto che io non fossi né antisemita né filonazista non mi ha creato difficoltà. Sarebbe stato anzi imbarazzante prendere un antisemita per tradurlo. Si traduce la lingua, non il colore». Non ha dubbi Ginevra Bompiani, 81 anni, scrittrice, editrice, traduttrice, una vita passata in mezzo ai libri, prima nella casa editrice creata dal padre Valentino, poi nel 2002 ha lei stessa fondato con Roberta Einaudi le edizioni nottetempo. Il suo ultimo saggio, L'altra metà di Dio, è uscito per Feltrinelli nemmeno due anni fa. Ma a tradurre ha cominciato che non aveva neanche vent' anni: Shakespeare, Emily Brontë, Sylvia Plath, tanta poesia. La notizia che la Viking Books per tradurre i versi della poetessa americana Amanda Gorman abbia stilato una sorta di identikit del traduttore, o meglio della traduttrice - che nello specifico deve essere donna, giovane, attivista e preferibilmente di colore - non può lasciarla indifferente.

Tradurre significa gettare un ponte tra le culture. Qui invece si stanno mettendo dei paletti precisi. Cosa ne pensa?

«Penso quello che pensano tutti: è una sciocchezza. Però è una tale sciocchezza che viene da chiedersi: perché? Alla Viking non sono mica degli sprovveduti, è una grande casa editrice americana, ha pubblicato grandissimi autori. Perché improvvisamente fa una cosa del genere? E la sola ragione che mi viene in mente è che si tratti di una trovata pubblicitaria. Sanno anche loro che è difficile replicare in Europa il successo che Amanda Gorman ha avuto in America. Sì l'abbiamo vista recitare la poesia, anche bene, molto graziosa, spigliata, insomma brava ma ce la siamo già quasi dimenticata. Ecco perché credo si tratti di una trovata pubblicitaria. Mi sono anche chiesta se possa essere stata un'idea sua. Dopo tutto Amanda Gorman è anche una modella, sa cosa vuol dire stare su una passerella, non è un poeta restìo e nascosto, è una persona che si sa gestire molto bene, basta vedere il colore del suo cappotto Mi immagino sia andata così: uno dice una battuta, che un maschio bianco non può tradurre Amanda Gorman, e la Viking salta sopra questa battuta, questa sciocchezza ed escogita questa fantastica trovata pubblicitaria».

In Olanda e in Spagna però le traduzioni sono state bloccate perché i traduttori non rispondevano a questi requisiti.

«Immagino che l'acquisto dei diritti sia costato un sacco di soldi, non credo potessero permettersi che la Viking glieli togliesse. Ma tradurre è un'arte, che si fa a tavolino e non girando in cappotto giallo. Non è che se non sono greco non posso tradurre Omero e via dicendo».

Non crede dunque che il background culturale di un traduttore possa influire in qualche modo sulla resa della traduzione?

«Nel senso che deve avere un background modesto, intende? (ride, ndr). I traduttori che sono stati scelti in questi paesi hanno certamente un background culturale superiore a quello della bellissima Amanda Gorman. Io trovo graziosa la poesia che ha letto, non è male, soprattutto l'ha letta bene. Però, e questo è il vero problema della traduzione, è una poesia molto difficile da tradurre, perché è tutta fatta di giochi di parole e di assonanze. È come tradurre Lewis Carroll. Ci vuole una persona abile in questo. Il fatto che sia attivista di questo o di quello lo trovo totalmente irrilevante».

Non solo attivista. Dovrebbe anche essere una donna, under trenta e preferibilmente di colore.

«Questo la dice lunga su quale è oggi lo statuto dell'intelligenza, si pensa che per capire una cosa bisogna essere quella cosa. Come se non ci fosse un lavoro, un movimento dell'intelligenza. Dimostra quanto l'intelligenza si sia molto ridotta ultimamente. Ecco, questo piuttosto mi preoccuperebbe».

Non si corre anche il rischio in questo modo di sfociare nel fanatismo, di sollecitare una discriminazione al contrario?

«È talmente assurda come richiesta che non ci vedo una cosa del genere. Allora, al rovescio, per tradurre uno scrittore maschio, antisemita, filonazista io avrei dovuto essere maschio, antisemita, filonazista? Non ha nessun senso, ripeto è una trovata unicamente pubblicitaria, che non andrebbe presa tanto sul serio. Però quello che invece è preoccupante è che per capire qualche cosa non servano qualità intellettuali ma solo identità. Si capisce quello che si è, non posso capire quello che non sono. Questo vorrebbe dire che quell'unione di cui tanto parla Biden è impensabile: è proprio il contrario del messaggio che si voleva dare».

Tradurre è un'arte: come si fa a restituire al meglio l'anima di un testo?

«Ho sempre pensato che tradurre volesse dire rifare in macchina lo stesso percorso che l'autore ha fatto in barca. Si parte da Napoli e si arriva a Genova, però io sono in macchina. C'è poco da fare. Devo seguire una strada e devo fare delle cose che si fanno in macchina e che lui, invece, ha fatto molto più liberamente sull'acqua. La differenza è proprio quella, cambia il mezzo, dunque è tutto il percorso che deve essere rifatto con un altro mezzo. Per questo è un atto veramente creativo».

E mai neutrale.

«Il traduttore ci mette sempre del suo, ci mette il suo rapporto con la lingua. Il rapporto con la propria lingua è primario, poi ovviamente deve conoscere quella straniera. Per questo spesso i traduttori sono anche scrittori. È come nella scrittura: ti addormenti con una parola nella lingua straniera e, se ti va bene, ti svegli con quella parola, o con l'espressione o il giro di frase giusto in italiano. È una cosa che continua a lavorare nella tua testa. Per farlo ci vuole una certa affinità con l'autore? Beh, non avrei tradotto mai un libro sul calcio, questo è vero. O un libro di un grande cuoco, perché il rapporto con la lingua non è lo stesso. L'importante è che il tuo rapporto con la lingua sia altrettanto forte, altrettanto creativo del rapporto che ha l'autore con la sua di lingua. In questo senso diventa più comprensibile la richiesta della Viking, perché Amanda Gorman ha un modo di leggere la poesia come se questa fosse pensata per essere recitata, quindi forse gli editori temevano una resa troppo letteraria, troppo colta, da parte del traduttore. Perché è chiaro che l'editore europeo avendo pagato molto per i diritti avrebbe utilizzato il suo migliore traduttore. Magari avranno temuto che potesse essere un po' troppo sopra le righe, troppo colto».

Ma il compito di un buon traduttore non dovrebbe essere quello, in ogni caso, di restituire la voce dell'autore?

«Naturalmente, ma se questa voce dell'autore gli fosse totalmente estranea deve ritrovarla in sé. Deve averla dentro di sé».

Quindi alla fine un po' giustifica quello che ha fatto la Viking?

«No, assolutamente non la salvo. Penso sempre sia una stupidaggine, una brutta stupidaggine. Però cerco di spiegarmela, perché la Viking è una grande casa editrice, non credo siano degli sciocchi. Quindi continuo a interrogarmi su cosa possa esserci dietro. Può essere stata un'idea per lanciare una simpatica poetessa? Penso che questa trovata pubblicitaria sia stata escogitata per darle uno spolvero in più. Era sicuramente questo lo scopo. Spero per lei che non la accontentino».

Amanda NON SPARATE SUI TRADUTTORI.

Andrea Mordecani per “Sette - Corriere della Sera” del 16 aprile 2021, Ufficio Poesie Smarrite

AAA cercasi caucasico

politeista militarista

per tradurre poemi di Omero.

S’accettano pseudonimi.

AAA cercasi criptolesbica

madrelingua eolica

senza fobia del baffo

per tradurre versi di Saffo.

AAA cercasi dandy inglese

coniugato, irlandese,

con sensi di colpa gai

per tradurre Oscar Wilde. 

AAA cercasi casalinga

disperata con tendenze

suicide e marito narciso.

Citofonare Plath.

AAA cercasi gattaro

francofono postribolare

per tradurre Baudelaire.

Astenersi astemi.

AAA cercasi hipster

bisex con barba bianca

e pollice verde

per tradurre Whitman.

AAA cercasi polacca

dall’anima bislacca

per tradurre Szymborska.

Solo Nobel munite.

Luca Mastrantonio per “Sette - Corriere della Sera” il 16 aprile 2021. L’affezionato Paolo Sartori ha salutato con gioia la newsletter Ufficio Poesie smarrite ma prega di non esagerare con gli anglicismi: «Mi vien voglia di isolarmi dal mondo se si parla di “community”. Dire “comunità” cambia qualcosa?». Non diciamogli che qui si fa “customercare”, assistenza alla clientela. Sartori delle ultime rubriche plaude l’inedito di Borges («Siamo ormai l’oblio che saremo / la polvere elementare che ci ignora») e boccia i versi giovanili di Carmelo Bene. Su Amanda Gorman, intervistata sull’ultimo 7, teme che la testimonianza sociale vinca sulla sostanza. «Ma non se ne può dir male in ossequio al politicamente corretto». Credo che il punto non sia parlarne bene o male, ma criticare bene o criticare male, sennò riduciamo tutto alla solita economia di “like”. Esiste il poeticamente corretto? Dubito. Esiste il poeticamente sì e il poeticamente no.

Paolo Di Stefano per il 7 marzo 2021. Rasenta semplicemente il ridicolo la vicenda di Marieke Lucas Rijneveld, la traduttrice olandese che avrebbe dovuto tradurre le poesie di Amanda Gorman, la giovane poetessa afroamericana chiamata a leggere un suo testo durante la cerimonia d’insediamento di Joe Biden. Ebbene, la traduttrice olandese, scrittrice a sua volta nonché premio International Booker, ha rinunciato dopo essere stata al centro del più grottesco dei dibattiti. La questione, partita dall’indignazione dell’attivista del Suriname Janice Deul, è presto detta: come può una non nera, anzi bianca, «troppo bianca», trasferire in un’altra lingua esperienze che non ha vissuto? Non sarebbe stato più opportuno (politicamente?) scegliere una scrittrice afro-olandese? L’errore, o addirittura il crimine di razzismo, sarebbe da imputare soprattutto all’editore Meulenhoff, che infatti alla fine ha ceduto. Creando un pericoloso precedente. Perché se l’etnia o il genere o l’appartenenza a una minoranza diventano una discriminante, bisognerà provvedere a rifare gran parte delle traduzioni. Con quale sensibilità può un eterosessuale trattare Rimbaud? E il Proust tradotto da Raboni sarà da cestinare? E a un non ebreo (magari maschio) è lecito accostarsi ad Anna Frank? Perché le donne vanno sempre tradotte (e forse recensite) da donne. E se sul nero va solo il nero, con i gialli come la mettiamo? E con quella poetessa perseguitata di etnia Jenisch? Un critico bianco (maschio) potrà mai criticare Gorman quando il suo libro uscirà per Garzanti? E guai se fosse un uomo a tradurla! Qualcuno giustamente ha ricordato che non bisogna essere una balena per scrivere Moby Dick. Chi si occupa di poesia poi, come diceva il poeta (ebreo e comunista) Franco Fortini, ha il vantaggio di essere comunque oggi più che mai una minoranza ignorata dai più (maggioranza in odore di razzismo). E ciò dovrebbe tagliare la testa al toro (animalisti permettendo).

Marco Grieco per mowmag.com il 12 marzo 2021. Ha solo 23 anni Amanda Gorman e oggi la conoscono tutti per essere la più giovane poetessa d’America. Ma fuori dagli Stati Uniti, le “colline da scalare” hanno poco a che fare con i “ponti” della sua chilometrica poesia di 723 parole recitata sugli spalti di Capitol Hill. Sembra infatti che, per tradurre le sue poesie, non basti la bravura, ci vuole anche l’estetica. Ci sarebbe questo dietro il “profilo inadatto” del traduttore catalano Victor Obiols, forse troppo bianco per le sue poesie: “Non hanno messo in dubbio le mie capacità, ma cercavano un profilo diverso, che doveva essere una donna, giovane, attivista e preferibilmente nera - ha detto lo scrittore catalano all’AFP -. Se io non posso tradurre una poetessa solo perché è una donna, giovane, nera, un’americana del XXI secolo, non posso nemmeno tradurre Omero perché non sono greco, né dell’VIII secolo a.C. o non avrei potuto tradurre Shakespeare perché non sono inglese o del XVI secolo”. È il secondo caso in Europa. In Olanda la scrittrice Marieke Lucas Rijneveld, che forse non avrà declamato davanti ai reali, ma è celebre per ave vinto il prestigioso premio International Booker, si è dimessa dopo che il suo editore Meulenhoff le aveva affidato l’incarico. “In un momento di crescente polarizzazione, Amanda Gorman mostra nella sua giovane voce il potere della parola, il potere della riconciliazione, il potere di qualcuno che guarda al futuro invece di guardare in basso” aveva detto la scrittrice appena accettato l’incarico – poi toltole -, perché scelta dalla stessa Gorman, come ricorda The Guardian. Tutti vogliono tradurre la raccolta di poesie di una ragazza contesa da editori e case di moda, che negli Usa è schizzata in cima alle classifiche Amazon in pochissimo tempo: "Il mio profilo Instagram è letteralmente impazzito, questo non è un gioco, questo non è uno scherzo. Ho guardato e avevo un milione di follower " ha detto la 23enne commentando la sua reach. Alcuni giorni prima della sua declamazione nel discorso presidenziale, era stata annunciata la pubblicazione della sua raccolta The Hill We Climb. Questione di valori o anche di marketing? E cosa c’insegna questa strana faccenda? Lo abbiamo chiesto a Barbara Alberti, scrittrice con la maiuscola, che ha fatto del coraggio delle idee la cifra distintiva della sua letteratura “politicamente scorretta”.

Barbara, ma a lei la poesia di Gorman è piaciuta?

“Io di lei conosco solo i versi della poesia recitata a Capitol Hill, e li ho trovati mediocri. E poi, che poeta sei se fai distinzioni del genere? È la negazione stessa della poesia”.

In che senso?

“Perché tutto questo è molto esteriore. Posso capire se a farlo ci fosse un grande poeta, perché quel gesto sarebbe accompagnato da un significato diverso. Questa è incultura moderna”.

Che poi, come diceva Eco, tradurre è tradire. Quale “autenticità” si vuole richiedere?

“Tutto quello che questa scrittrice fa è totalmente mediatico, non c’è autenticità. È una star del web, come gli influencer di oggi. È l’antipoesia, una unità di consumo della grande macchina della comunicazione. È una comunicatrice, non una poetessa”.

E a chi la accusasse di razzismo?

“Tutto questo non c’entra nulla con la lotta al razzismo, che è legittima e va ribadita con forza. Ma se ci facciamo ricattare da questo diventiamo stupidi in tre ore”.

Marco Ciotola per mowmag.com il 12 marzo 2021. La questione ha già sollevato un polverone mediatico non indifferente. La sostanza è riassumibile in una breve domanda: solo un afroamericano può tradurre un autore afroamericano? Apparentemente è infatti questa la posizione di editore e agente della famosa poetessa Amanda Gorman, sempre più conosciuta dopo aver recitato una delle sue poesie durante la cerimonia di insediamento del nuovo presidente USA, Joe Biden. La Viking Books ha di recente respinto il lavoro – pure ottimo – del traduttore catalano Victor Obiols perché quest’ultimo sarebbe “di profilo inadeguato”. Non dunque un giudizio sul suo periodare né sulla capacità di trasmettere ritmo e stile della poetessa, ma su un non ben specificato modo di presentarsi dell’uomo. Malgrado resti poco chiaro quanto di tutto questo sia opera e volere dell’ampio entourage dietro alla giovane autrice o a una decisa volontà del famoso editore statunitense (già in passato dietro a una decisione simile), resta una vicenda parecchio spinosa e con responsabilità certe di (quasi) tutti i protagonisti in ballo. Ma è una vicenda di sola immagine per lo scrittore e poeta Aldo Nove, che evidenzia come il riscontro mediatico del tutto abbia innescato una spendibilità politica che è stata prontamente cavalcata, mentre sul piano poetico e artistico “basta un minimo di buon senso per dire che una traduzione non è una questione genetica, ma di cultura”. Cultura che è appunto “studio” e non colore della pelle né provenienza per Nove, di recente vincitore del Premio nazionale di poesia Elio Pagliarani per i suoi “Poemetti della sera” (Einaudi, 2020). La politicizzazione dell’affare e i vari modi di cavalcarlo non rispecchiamo la realtà dei fatti, il “problema reale”, che è invece piuttosto semplice per l’autore lombardo: “Non c’è nessuna influenza reale dell’etnia sugli esiti del lavoro artistico”. “È chiaro che questa cosa ha avuto un riscontro mediatico per una sua spendibilità politica – spiega Nove, raggiunto telefonicamente da Mow per un commento sul tema – ma sul piano filologico-poetico è una questione che non esiste. Ci si appropria di una cultura e di una lingua attraverso lo studio, quindi tutto da questo punto di vista è giocato sul piano politico, non su quello artistico. Direi che la questione nella sua essenza non si debba proprio porre: è una scelta di immagine, ma non corrisponde al problema reale.”

Dagospia il 17 febbraio 2021. POI DICI CHE UNO DIVENTA TRUMPIANO - LA 22ENNE AMANDA GORMAN, LA POETESSA "LANCIATA" DAL GIURAMENTO DI BIDEN, VIENE INSERITA DA "TIME" NELLA LISTA DELLE 100 PERSONE PIÙ INFLUENTI DEL 2021 NELLA CATEGORIA "FENOMENI" - CIOE' UNA CHE FINO AL GIORNO PRIMA ERA IGNORATA PURE DAI VICINI DI CASA ORA E' UN MITO, SOLO PERCHE' DONNA, NERA E FEMMINISTA - MORALE DELLA FAVA: PIU' SI TENTA DI IMPORRE I MODELLO DI RIFERIMENTO, PIU' I CITTADINI SI RIBELLANO…(ANSA il 17 febbraio 2021) - La stella Amanda Gorman continua a splendere. La giovane poetessa americana è stata inserita da Time nella lista delle 100 persone più influenti per il 2021. La Gorman è nella categoria dei 'fenomeni' in compagnia di Regé-Jean Page (il protagonista della serie Tv Bridgerton), la giornalista della Cnn Abby Phillip, la cantante e attrice 17enne Olivia Isabel Rodrigo. La Gorman è diventata una celebrità dopo aver catturato in versi lo storico momento della transizione dalla presidenza di Donald Trump a quella di Joe Biden emozionando vip della politica e decine di milioni di spettatori a casa. Echi di "Hamilton" e suggestioni rap hanno punteggiato la lettura di "The Hill We Climb", la composizione finita dopo le violenze degli ultrà trumpiani del 6 gennaio in Campidoglio.

Da "ilmessaggero.it" l'11 febbraio 2021. Bufera su Gina Carano, volto di Cara Dune in The Mandalorian: la Lucasfilm ha ufficialmente licenziato l’attrice. La Carano era stata al centro di numerose polemiche per aver scritto su Twitter dei messaggi contro l’obbligo di indossare la mascherina per contenere l’emergenza legata alla pandemia da Covid-19, e aveva anche accennato a possibili brogli elettorali rispetto al voto presidenziale. Non solo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso potrebbe essere stata una storia pubblicata nelle scorse ore su Instagram, nella quale si parlava della persecuzione degli ebrei in Germania. Nella storia l’attrice aveva ricondiviso un post che riportava questa scritta: «Gli ebrei sono stati picchiati per le strade, non dai soldati nazisti ma dai loro vicini… anche dai bambini. Poiché la storia è modificata, la maggior parte delle persone oggi non si rende conto che per arrivare al punto in cui i soldati nazisti potevano facilmente radunare migliaia di ebrei, il governo ha fatto in modo che i propri vicini li odiassero semplicemente per il fatto di essere ebrei. Com’è diverso dall’odiare qualcuno per le loro opinioni politiche?». Il post è stato in seguito cancellato. Un rappresentante della Lucasfilm ha rilasciato una dichiarazione: «Gina Carano non è attualmente impiegata alla Lucasfilm e non ci sono piani perché lo sia in futuro. D’altro canto, i suoi post sui social media che denigrano le persone in base alle loro identità culturali e religiose sono abominevoli e inaccettabili».

SESSISMO A PARTITI ALTERNI. Antonello Piroso per "la Verità" il 17 febbraio 2021. Il becerume sessista? Solo a destra. E a sinistra? Non esiste. In caso, è ignorato. Sottaciuto. Ammesso solo con la variante: «E allora Matteo Salvini?». E comunque subito rimosso. Soprattutto se accuse e controaccuse riguardano ex avversari, oggi tutti insieme appassionatamente nel governo del presidente Mario Draghi. A cominciare dal suo neocapo di gabinetto, il piddino Antonio Funiciello, che nel 2016, collaboratore di Luca Lotti, tuittò sul sindaco di Torino Chiara Appendino: «Appendino è bocconiana. Come Sara Tommasi». Il M5s, e non solo il M5s, insorse. L'allora capogruppo alla Camera Laura Castelli e la senatrice Barbara Lezzi chiesero dimissioni e scuse per il paragone con «una pornodiva», definizione eccessiva per la stessa Tommasi, per anni alle prese con problemi psicologici. Le scuse di Funiciello arrivarono una volta realizzato che invocare il dato di fatto (Tommasi ex bocconiana lo è per davvero) non lo assolveva dal mica tanto ambiguo accostamento: «Un tweet stupido, mi spiace, mi scuso con Tommasi, Appendino e tutti i bocconiani». Appendino si rammaricò: «Né il sindaco uscente Piero Fassino né l'ex presidente della commissione Pari opportunità -e membro del collettivo femminile «Se Non Ora Quando» - Laura Onofri hanno espresso una singola parola di condanna». Afasie. Amnesie. Come non ricordare il caso del pentastellato Massimo De Rosa e delle deputate del Pd? Querela, controquerela, tutto archiviato nel 2016 con un nulla di fatto per ogni parte in causa. Cos' era successo? Nella denuncia del 30 gennaio 2014 (che abbiamo riletto, tra le firmatarie Alessandra Moretti, già portavoce di Pier Luigi Bersani alle primarie del 2012) presentata all'Ispettorato di pubblica sicurezza presso la Camera, si sosteneva che De Rosa fosse sbottato: «Voi donne del Pd siete qui perché siete brave solo a fare pom...i». Secondo Il Fatto Quotidiano, De Rosa prima avrebbe negato («dicono il falso»), poi avrebbe invocato un'attenuante («mi riferivo a uomini e donne»). A scusarsi per De Rosa fu comunque il capo della comunicazione M5s della Camera Nicola Biondo: «De Rosa ha detto frasi non consone, molto poco riguardose. Dettate dalla rabbia e dalla paura. Gli è stato urlato "fascista, fascista". Lui ha un nonno che è stato deportato, e questo lo ha colpito moltissimo, così tanto da fargli dire qualcosa di cui si pente e per cui chiede scusa». La colpa, insomma, è sempre dei «fascisti»: perché naturaliter sessisti o perché inducono al sessismo chi di suo non lo sarebbe, il probo di sinistra. Così, nel luglio 2019 Vincenzo Spadafora, sottosegretario a Palazzo Chigi, su Repubblica attaccò Salvini, allora suo alleato al governo come ministro dell'Interno, per le sue dichiarazioni contro Carola Rackete («criminale, pirata, sbruffoncella») denunciando: «L'Italia vive una pericolosa deriva sessista». Sulla guerriglia verbale planò il pacioso commento in salsa partenopea di Luigi Di Maio: «Ue', quanto casino per un'intervista. Ma è possibile che ora sia questo il problema di questo Paese?». Che Di Maio avesse un grado di sensibilità diverso, è testimoniato dall'approdo nell'ufficio legislativo del Mise dell'amico Enrico Esposito, autore di tweet indimenticabili, da Esposito declassati a esempio di satira e black humor («Frasi decontestualizzate di un mio caricaturale alter ego radiofonico»): «Non c'è modo migliore di onorare le donne che mettere una mignotta in quota rosa», «Comunque sono contento delle quote rosa in Parlamento, almeno le leviamo dalla strada», fino al capolavoro «Dolce & Gabbana chiusi "per indignazione". Ma si può sempre entrare dal retro». E che dire di Beppe Grillo, ora assurto al ruolo di padre della patria, quando nel suo blog rilanciò il video di un attivista: «Cosa succederebbe se ti trovassi Laura Boldrini (all'epoca presidente della Camera) in macchina?», le risposte trucide si possono immaginare. Oppure quando, nei giorni della bufera su Banca Etruria, dopo aver lanciato #Boschidovesei, rituittò il commento di un fan: «In tangenziale con la Pina», accomunando Maria Elena Boschi e Pina Picerno in un ritratto da peripatetiche. Quello stesso Grillo che aveva fotografato Rita Levi Montalcini come «una vecchia puttana». Del resto, Marco Travaglio, aedo del Movimento e ospite fisso della pasionaria femminista Lilli Gruber, quando la Boschi fu interrogata dai magistrati, scrisse con eleganza che era stata «trivellata dai pm di Potenza», tanto da far tuonare l'ex deputata Pd Anna Paola Concia: «Dove sono le "femministe de sinistra" di #senonoraquando?». Sono gli uomini indulgono al sessismo? Macché. È tornato di moda un video del programma tv Robinson in cui Luisella Costamagna, oggi ad Agorà su Rai3 in quota M5s, incalzava Mara Carfagna sulle sue presunte «relazioni pericolose» con Silvio Berlusconi. Era il 9 marzo 2012. Come lo so? Svelerò un piccolo retroscena, dato che ho visto il mio nome tirato in ballo. La sera prima incontrai, in un ristorante di via Lazio a Roma, l'oggi neoministro per il Sud, reduce da Porta a porta registrato su «la giornata della donna», con l'allora marito Marco Mezzaroma. Quando mi disse dell'invito di Costamagna, l'allertai: «Aspettati un martellamento (sulla vicenda si era vergognosamente esibita in un comizio un'altra eroina «de sinistra», Sabina Guzzanti, rimediando una condanna a 40.000 euro per danni morali, ndr)», e mi limitai a suggerirle: «Tu reagisci serafica che tutti sono vittime di gossip, pure lei per i suoi rapporti con Michele Santoro». Ricordo gli occhi sgranati del neoministro: «Ma... è vero?». «No, ma non importa: tu butta lì la frase, in modo gentile e con il sorriso, solo se lei cerca di metterti all'angolo. E poi chiedile - siccome sei certa che il gossip sia infondato e lei sia stata scelta in quanto stimata giornalista - di usarti la stessa cortesia». Carfagna fu bravissima: fece tutto da sola a modo suo, impeccabilmente elegante nel disinnescare la gogna. Già: perché anche le donne di destra possono avere stile.

Il volto di Cara Dune aveva criticato l’obbligo di mascherine. Chi è Gina Carano, attrice licenziata da “The Mandalorian” per i post su ebrei e brogli elettorali. Fabio Calcagni su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. I fan di The Mandalorian, la serie tv distribuita da Disney+, la prima ambientata nell’universo di Guerre stellari, non vedrà più tra le protagoniste Gina Carano. L’attrice, che nella serie interpretava Cara Dune, è stata infatti licenziata dalla Lucasfilm, che produce la serie accolta positivamente dalla critica e dal pubblico e confermata per una terza stagione. Un licenziamento motivato dai post fuori luogo dell’attrice sui social network, dai messaggi contro l’obbligo di indossare la mascherina a quelli sui presunti brogli elettorali alle scorse Presidenziali USA contro il presidente uscente Donald Trump, fino a paragoni arditi con gli ebrei nei campi di concentramento. La proverbiale “goccia che tra traboccare il vaso” riguarda proprio quest’ultima dichiarazione della Carano, che in una ‘Story’ su Instagram (poi cancellata) aveva paragonato la condizione di chi vota oggi per il partito repubblicano negli Stati Uniti a quella delle persone ebree ai tempi della Germania nazista: “Gli ebrei sono stati picchiati per le strade, non dai soldati nazisti ma dai loro vicini… anche dai bambini. Poiché la storia è modificata, la maggior parte delle persone oggi non si rende conto che per arrivare al punto in cui i soldati nazisti potevano facilmente radunare migliaia di ebrei, il governo ha fatto in modo che i propri vicini li odiassero semplicemente per il fatto di essere ebrei. Com’è diverso dall’odiare qualcuno per le loro opinioni politiche?”, si chiedeva l’attrice. Troppo per la Lucasfilm, che in una dichiarazione ha spiegato che Carano “non è è attualmente impiegata alla Lucasfilm e non ci sono piani perché lo sia in futuro. D’altro canto, i suoi post sui social media che denigrano le persone in base alle loro identità culturali e religiose sono abominevoli e inaccettabili”. Le ultime posizioni prese dell’attrice, dai messaggi contrati all’obbligatorietà della mascherina a quelli sui brogli elettorali contro Trump, avevano spinto gli stessi fan della serie a chiederne la cacciata: su Twitter era comparso anche l’hashtag #FireGinaCarano, “licenziate Gina Carano”.

Simone Sabattini per corriere.it il 9 febbraio 2021. Lo avevamo lasciato due settimane fa alle prese con il licenziamento di una giornalista troppo contenta per l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca. Ritroviamo il New York Times con i postumi di una nuova, doppia, e più dolorosa grana. Nel corso del weekend «hanno lasciato il giornale» Donald G. McNeil Jr., il reporter forse più importante del 2020 per il quotidiano, e Andy Mills, produttore del popolarissimo podcast The Daily. In sostanza, il primo è accusato di razzismo, il secondo di molestie. Il caso di McNeil è quello più traumatico, perché il 66 cronista-star di Scienza e Salute è diventato nel corso del 2020 l’architrave dell’informazione sulla pandemia da Covid-19 del quotidiano. Arrivato al giornale nel 1976, pluripremiato, è un veterano delle epidemie (Aids, Ebola, Zika) ed è il giornalista americano — forse mondiale — che prima e meglio di tutti ha saputo prevedere quello che stava accadendo all’inizio dell’anno scorso: paragonò i rischi del coronavirus a quelli dell’influenza Spagnola del 1918 e avvertì che ognuno si sarebbe potuto trovare con vittime nelle propria cerchia di conoscenze; e lo fece il 27 febbraio quando anche in Italia (figurarsi nell’America di Trump) tanti parlavano ancora di «una brutta influenza» e i lockdown nazionali sembravano distopie hollywoodiane. Quell’analisi della situazione andò in onda in un episodio del Daily che — per inciso – è il più ascoltato della storia del podcast, che ha in generale enorme successo. A giugno — con le curve delle infezioni in calo e le feste in spiaggia alle porte — citò studi che spiegavano come tutte le principali epidemie del 900 fossero tornate con ondate più potenti in autunno. I suoi articoli sul giornale (rari e straordinariamente documentati) sono stati fari nella notte per mezzo mondo. Fino all’ultimo colpo: la conversazione con Anthony Fauci in cui l’immunologo più famoso d’America racconta di essersi sentito, con The Donald alla Casa Bianca, «come una puzzola in un picnic». Ma che ha fatto McNeil? In un viaggio organizzato dal giornale in Perù nel 2019 con alcuni studenti/lettori avrebbe «proferito ripetuti commenti razzisti». Così la riporta The Daily Beast che ha per primo disseppellito la vicenda. Nell’indagine condotta dentro il Times, però, salta fuori che l’unica cosa certa è che McNeil aveva pronunciato la parola «nigger», negro, mentre chiedeva agli studenti se fosse stata usata in un video di cui si stava discutendo. In sostanza McNeil stava riportando la parola, stava citando. Solo che quel termine, in America, non è solo offensivo ma bandito, indicibile, tanto che viene spesso riferito come «n-word», la parola con la «n»: ripeterlo è ipso facto un’offesa grave (anche se poi dipende da chi la dice e in che contesto, basta vedere un film di Spike Lee). Il giornale dopo un’inchiesta interna aveva richiamato formalmente, ma perdonato, il giornalista: «Ha detto cose offensive e con scarso giudizio — aveva spiegato il direttore Dean Baquet — ma non mi è sembrato ci fosse un intento di odio o malizia». Poi 150 dipendenti hanno protestato con una lettera e il risultato è stato l’addio di McNeil in un lampo. Andy Mills era invece un produttore della sezione podcast ed era già finito al centro di enormi polemiche per la produzione della serie Caliphate — sull’Isis — sconfessata dal giornale tra mille scuse perché era sostanzialmente basata sulle testimonianze di un mitomane. Mills è stato cacciato perché alcuni suoi (ambigui o brutti) atteggiamenti verso colleghe donne sono riemersi dal passato. Poco importa che Mills fosse stato ingaggiato dal Times anni dopo quei fatti — e che lui li avesse resi noti al giornale al momento dell’assunzione. Il loro riaffiorare su Twitter ha provocato un putiferio tra i colleghi simile a quello per McNeil. «Fired» anche lui. Naturalmente tutto questo avviene anche alcuni mesi dopo l’addio — chiacchieratissimo — del capo della Opinioni James Bennet, che aveva autorizzato la pubblicazione di un articolo di un senatore repubblicano che chiedeva l’esercito nelle città per contrastare le proteste di Black Lives Matter. E dopo l’addio della columnist Bari Weiss, indignata dal fatto che «Twitter sia diventato l’ultimo giudice al New York Times». Adesso, a choc ancora caldo, tanti si chiedono per l’ennesima volta cosa stia succedendo al giornale più famoso del mondo: se la svolta culturale americana imponga necessariamente tanta severità, se sia «cancel culture», cultura dell’eliminazione anche questa, e delle più radicali, visto che spazza via intere carriere sulla base di storie quantomeno nebulose — come quella di McNeil che pure si è scusato in tutti modi. Tanti sui social plaudono al «repulisti». Ma tanti altri no. Molti colleghi di McNeil, dentro e fuori il Times, si dicono esterrefatti. L’associazione per la libertà d’espressione Pen ha condannato per l’ennesima volta l’uso della «n-word» ma ha aggiunto che il licenziamento di McNeil «manda un messaggio raggelante». E Newsweek ha pubblicato un commento che si intitola «The NYTimes succumbed to another mob», dove l’«assalto inferocito» questa volta non è quello dei suprematisti al Congresso, ma quello dei giovani carrieristi nascosti dietro il cannone del politicamente corretto. Difficile immaginare che sia finita qui.

Gianfranco Ferroni per "Italia Oggi" il 6 febbraio 2021. C'erano più pagine di cultura su Playmen che su l'Unità e il manifesto. Lo dimostra il Macro del Comune di Roma, il Museo dell'immaginazione preventiva, all'interno del programma ideato dal direttore artistico Luca Lo Pinto che presenta fino al 30 maggio a via Nizza (sì, proprio la strada dove c'è la sede dell'Inpgi) un'esposizione dedicata alle interviste ai protagonisti della pittura, della scultura, del cinema, del teatro e della letteratura apparse nella storica rivista vietata ai minori di 18 anni, pubblicata dall'indimenticata Adelina Tattilo, imprenditrice pugliese che era stata illuminata dalla fantasia editoriale a luci rosse già coltivata dal consorte Saro Balsamo (quello che inventò Le Ore, portando il «sesso stampato» nelle edicole). Una lunga storia, quella di Playmen, durata dal 1967 al 2001, che l'istituzione museale evoca non per il cosiddetto «filone erotico soft-core», ma per i servizi e le storie, dove i personaggi erano Giorgio De Chirico, Allen Ginsberg, Federico Fellini, Michel Foucault, Peggy Guggenheim, Giacomo Manzù, Herbert Marcuse, Françoise Sagan, Susan Sontag e Lina Wertmuller, con testi di autori del calibro di Carmelo Bene, Maurizio Costanzo, Henry Miller, Tennessee Williams. Non presentava solo scoop come le immagini senza veli di Jacqueline Kennedy. Hugh Hefner, il vate di Playboy, accusò la Tattilo di plagio, regalando però notorietà mondiale a Playmen (quando non era ancora nata la versione italiana della rivista delle «conigliette»). In mostra ci sono anche le copertine, quelle caste, come quella del numero di dicembre 1992 con Milly Carlucci non nuda, quando il prezzo in edicola era di 19.900 lire, e stiamo parlando di un mensile che sfiorava la bellezza di mezzo milione di copie vendute: la capacità della Tattilo (che animava un salotto romano con cene sontuose dove partecipavano non solo esponenti della politica, in particolare i socialisti, ma anche cardinali, e nella villa in Sardegna a Punta Lada, a pochi passi da quella di Silvio Berlusconi, organizzava eventi memorabili) era quella di avere a fianco giornalisti-intellettuali, a partire dal primo direttore, Luciano Oppo, figlio di Cipriano Efisio Oppo, e quindi erede di un gigante della cultura del ventennio che era stato artista, parlamentare, segretario del Direttorio Nazionale dei Sindacati delle Arti Plastiche, segretario del Consiglio Superiore delle Belle Arti, Accademico d'Italia e molto altro ancora. C'erano scritti di critici come Marcello Venturoli, responsabile delle pagine dell'arte, e il cinema era nelle mani sapienti di Ugo Moretti, un autore di romanzi legati a Roma: uno tra tutti, Doppio delitto al Governo Vecchio, dal quale venne tratto il film Doppio delitto, diretto da Steno, con una stellare Ursula Andress e dei pirotecnici Peter Ustinov e Marcello Mastroianni. E vogliamo parlare di Pier Francesco Pingitore ed Enrico de Boccard? Nella capitale, negli anni 70, nessuna iniziativa poteva dirsi di successo se non c'era la presenza di uno dei «capi» di Playmen: dalle presentazioni di libri alle esposizioni nelle gallerie d'arte private, dai concerti alle feste, nulla sfuggiva a chi guidava la rivista. Via Bissolati, la storica sede del gruppo Tattilo, era l'epicentro di notizie e potenziali scandali, che spesso venivano «donati» a colleghi emergenti, anche di altre testate. Americani, tedeschi, giapponesi, tutti in fila: generazioni di fotografi di ogni parte del mondo aspiravano a far parte di Playmen, dove a dominare c'era l'obiettivo di Roberto Rocchi, diplomato in ragioneria e laureato in economia e commercio, da molti soprannominato «maestro del glamour» per il suo gusto dell'immagine. E Rocchi passò poi alla corte di Hefner, a Playboy. Oggi un museo celebra un'avventura irripetibile, ricordando la parte forse per il grande pubblico meno nota di Playmen, quella culturale, esente da denunce per oltraggio al pudore e che ha contraddistinto almeno 15 anni di storia italiana. Più di tante altre testate "politicamente corrette".

(ANSA il 12 febbraio 2021) Il presidente del Comitato olimpico giapponese, Yoshiro Mori, conferma la decisione di farsi da parte, annunciando le sue dimissioni all'apertura del consiglio direttivo a Tokyo. L'83enne ex premier era stato messo sotto accusa dopo le sue dichiarazioni fatte a margine della proposta di allargare l'assemblea a un maggior numero di donne, definendola "problematica" per la tendenza delle stesse a "parlare eccessivamente". Nel corso della riunione Mori si è scusato per i suoi commenti "poco opportuni", aggiungendo di non voler essere un ostacolo all'organizzazione dei Giochi.

"Le donne? Parlano troppo". Olimpiadi senza quote rosa. Mori, presidente del comitato organizzatore ed ex premier, costretto a scusarsi. Ma non lascia l'incarico. Gaia Cesare, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. L'obiettivo parità di genere è fissato per le Olimpiadi di Parigi 2024, ma già da quest'anno le donne saranno poco meno della metà degli atleti in gara a Tokyo, il 48,8%. Eppure anche stavolta - come ogni buon evento che si rispetti - il copione si ripete. Le frasi sessiste - o ironiche, secondo qualcuno - di un uomo con ruolo e poltrona di primo piano, la bufera che ne consegue, le scuse postume di chi ammette di aver sbagliato, e poi tutto come prima. Fino alla prossima gaffe. Nell'occhio del ciclone stavolta è finito Yoshiro Mori, 83 anni, presidente del Comitato Organizzatore delle Olimpiadi di Tokyo ed ex primo ministro, che con le sue dichiarazioni ha aggiunto altri guai all'appuntamento sportivo, già colpito dal rinvio per coronavirus e posticipato di un anno all'estate 2021, con il sospetto che l'emergenza sanitaria possa ancora costringere alla cancellazione. Ma ecco le frasi incriminate: «Nei consigli di amministrazione con tante donne si perde molto tempo». La ragione? Parlano troppo. «Hanno difficoltà a finire i loro interventi». Anzi peggio: «Le donne hanno spirito di competizione. Se una alza la mano (per intervenire, ndr), le altre credono che debbano esprimersi anche loro. E finiscono per parlare tutte», spiega Mori durante una riunione on-line i cui contenuti finiscono sui giornali. Apriti cielo. Passano pochi giorni e la marea anti-Mori si alza. La ferita è aperta in un Paese dove la parità di genere è ancora lontana. Il primo ministro Yoshihide Suga, che nel 2015 era il braccio destro dell'ex premier Shinzo Abe, si presentò in tv rivolgendosi direttamente alle donne: «Per favore, fate molti figli». E il suo attuale vice, Tar As, che è anche ministro delle Finanze, appena un anno fa ha dichiarato che il vero problema del Paese non sono gli anziani ma le donne senza figli. Secondo il report 2020 del World Economic Forum sul «gender gap» mondiale, il Giappone occupa il posto 121, su un totale di 153 Paesi, e questo nonostante il tasso di occupazione femminile sia cresciuto del 10% in quasi dieci anni e abbia raggiunto quota 72,6% nel 2019 (dati Ocse) contro il 63,2% del 2010. Le donne sono sottorappresentate in politica e nei consigli di amministrazione e sono ancora associate allo stereotipo che le vuole regine del focolare domestico. Ma il clima sta cambiando anche qui, dove il movimento #MeToo ha visto protagonista la giornalista Shiori Ito, che è riuscita a ottenere la condanna per stupro del suo ex capufficio, scoperchiando il vaso di Pandora delle molestie sessuali in Giappone. Così, dopo aver messo il dito nella piaga, il presidente del Comitato Olimpico Mori è stato costretto a scusarsi: erano dichiarazioni «contro lo spirito dei Giochi Olimpici e Paralimpici». Ma del suo futuro nel Comitato non si discute: «Non mi dimetterò». Eppure la sua stella rischia di venire definitivamente offuscata in patria, dove le Olimpiadi non sono viste di buon occhio a causa dell'emergenza sanitaria. I sondaggi dicono che l'80% dei giapponesi vorrebbe che i Giochi fossero rimandati o annullati. Il governo è stato costretto ieri a smentire indiscrezioni di stampa secondo le quali si prepara a cancellare le Olimpiadi. Mori promette: «Si faranno a ogni costo»

"Cari bambini, lodate le truci divinità azteche". L'incredibile caso dei curricula scolastici americani che rivalutano gli dei sanguinari. Fiamma Nirenstein - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Fra le tante vicende del razzismo antibianco, quella più sorprendente riguarda gli aztechi. Non è una vicenda marginale: possiamo benissimo immaginarla in qualsiasi parte del mondo, in Israele con i caananiti o i samaritani, in Italia con gli Aquitani o i Reti. Succederà: «La bianchezza - traduco così il concetto di whiteness - inquina l'aria, devasta le foreste, scioglie i ghiacci, diffonde e finanzia le guerre, appiattisce i dialetti, infesta la coscienza, uccide la gente». Lo ha scritto Damon Young, collaboratore del New York Times, e lo cita Victor Davis Hanson, lo storico conservatore, in una bellissimo saggio sul razzismo antibianco. Torniamo agli aztechi: una nuova proposta di curriculum scolastico per 10 mila scuole californiane, e che riguarda sei milioni di studenti, in nome della decolonizzazione reintroduce il simbolismo religioso azteco nel nuovo programma (messo al voto proprio in questi giorni) chiamato Ethnic Studies Model Curriculum e lo allarga dai campus americani alla scuola primaria e secondaria. Il curriculum si basa sulla «pedagogia degli oppressi» sviluppato dal teorico marxista Paolo Freire. In primis gli studenti devono sviluppare una «comprensione critica», e di conseguenza essere in grado di rovesciare la cultura degli oppressori, cioè i bianchi. Christopher Rufo scrive sul City Journal che, secondo il programma californiano, gli insegnanti devono, come compito primario, aiutare gli studenti a «sfidare credenze razziste, bigotte, discriminatorie, imperialiste, coloniali». E chi le manifesterebbe? I bianchi, tutti quanti. La società americana è accusata in blocco di essere razzista, partecipe di ogni forma di oppressione, consapevole e inconsapevole, oggi, ieri o in qualsiasi altro tempo: essa dunque richiede, subito, una revisione della storia. I monumenti a George Washington e ad altri padri della patria devono essere rovesciati; si deve cancellare il linguaggio, e con esso il pensiero, dei maggiori scrittori bianchi, compreso Shakespeare, Dante Alighieri ed Hemingway. Questo vale naturalmente anche per gli artisti: Michelangelo (come si permette di rappresentare David come un giovane atleta bianco?) o Edward Hopper. Secondo Tolteka Cuahtin, il co-chair dell'Ethnic Studies Model Curriculum californiano, ma anche secondo molti altri autori, queste opere sono basati su «paradigmi europei etnocentrici, suprematisti bianchi(razzisti, anti-neri, anti-indigeni), capitalisti (classisti), patriarcali (sessisti o misogini), omofobici e antropocentrici». Il testo di Cuahtin parla di «furto della terra, istituzione di gerarchie bianche ed europee che hanno creato ricchezza eccessiva divenuta la base dell'economia capitalista». Da qui nasce una «egemonia», che non si è mai interrotta, in cui le minoranze vengono assoggettate con «la socializzazione, l'addomesticamento» e addirittura la «zombificazione». È un disegno malefico e aggressivo: la cultura monoteista giudaico cristiana (anche con la sua ramificazione «pacifica» musulmana), la democrazia e il liberalismo sono i suoi rami spinosi e carichi di frutti velenosi. L'idea totalmente priva di fondamento logico è che i contemporanei oggi avrebbero agito infinitamente meglio, e che comunque la nostra cultura è peggiore delle altre, anche quelle, come la cinese o la islamica, che palesemente non consentirebbero di governare a una persona di etnia e religione diversa. Sulla questione non minore della schiavitù, che è una delle principali rivendicazioni del movimento Woke si seguita a ignorare il fatto che non c'è cultura, inclusa quella nera e quella islamica, che non abbia avuto, o addirittura tuttora abbia, un retaggio schiavista. Tutti hanno avuto schiavi e, in realtà, i primi a liberarsene sono stati i bianchi. Cuahtin spiega dunque, riguardo agli Aztechi, che i cristiani hanno compiuto un teocidio, rimpiazzando gli dei indigeni col loro credo. La conseguenza, per lui, è che occorre oggi una «controegemonia» che spazzi via il cristianesimo (e immagino anche l'ebraismo) e rimetta in sella qualche dio spaventoso che appare con fauci aperte e denti acuminati sulle piramide di Teotihuacan. Il nuovo curriculum suggerisce che non si recuperi solo la memoria storica di questa divinità, ma che sia lodata e pregata dai bambini. Un programma di canzoni indigene include In Lak Ech in cui si chiede al dio Tetzkatlipoka, che veniva onorato con sacrifici umani, di trasformare il fedele in un coraggioso guerriero. Agli altri dei si chiede uno spirito rivoluzionario e alla fine si impetra «liberazione, trasformazione, decolonizzazione». A New York una scuola privata di Manhattan, la Grace Church School, dà agli studenti 12 pagine di guida sul linguaggio: vi si sostituiscono le parole madre, padre, genitori con «i grandi», «i compagni», «la famiglia», «i guardiani». Anche i riferimenti a una residenza fissa sono cancellati. Invece di chiedere a una persona «di dove sei» o «che cosa fai» si deve chiedere «qual è la tua origine culturale o etnica» e «di dove sono i tuoi progenitori». La conseguenza è la paura: nei campus chi non concorda con la revisione culturale razziale è sospettato di «suprematismo bianco» solo per il colore della sua pelle, con marginalizzazione e shaming nelle scuole e nella cultura, con sospetti e espulsioni dal lavoro. Anche Netflix, come tutta Hollywood, non produce più un film in cui non si snocciolino tutti i credo anti-capitalista, anti-coloniali, pro donna. Con la conseguenza di una noia infinita. Molti scrittori e intellettuali quasi senza accorgersene percorrono la stessa strada. Un articolo di Bari Weiss (espulsa dal New York Times) racconta un dialogo segreto di un gruppo di genitori allarmati: «Se si sapesse che ci siamo riuniti a parlare - dicono dalla loro riunione clandestina a Los Angeles - potremmo subire serie ripercussioni». Si tratta di gente ricca che manda i figli in scuole milionarie. Ma qui ormai oltre alla ripetizione quotidiana di teorie anti-capitaliste, risuona il discorso incessante sull'America come Paese cattivo, da cancellare, da ricostruire da zero. I genitori alla riunione si ripetevano che la scuola ti può espellere per qualsiasi ragione e se vieni definito «razzista» sei peggio di un assassino, e non verrai mai più accettato: «Vedo cosa sta accadendo ai miei bambini» dice un genitore «sono educati nel risentimento e nella paura». La cultura del risentimento sta diventando distruttiva e dilagante. I teorici della svolta americana, come Ibram Kendi, autore di Come essere antirazzista sostengono che il centro del razzismo è la negazione. Più sei razzista, più neghi di esserlo. Così, si forgiano nuove norme per cui nelle scuole americane se sei bianco e maschio non puoi rispondere per primo anche se sai la risposta; e il ragazzo, raccontano i genitori, torna spesso a casa facendo mea culpa per il razzismo di cui né lui né la sua famiglia si sono mai macchiate. Si formano gruppi di «solidarietà razziale» da cui vengono esclusi i bianchi, i maschi o chi non mostra «solidarietà e compassione razziale». Gente che non potrebbe capire «sconforto, confusione, difficoltà che spesso accompagnano il risveglio razziale». Il problema oscura l'uso della violenza da parte di Black lives matter o di Antifa, impedisce di giudicare le persone come individui e non come una razza o un genere. La scala di valori di una società liberale è stata rovesciata. Regna la confusione. Il giudizio contro chi viene a priori considerato parte della agenda «suprematista» è sempre più aggressivo. È interessante che questa ondata sia guidata e faccia presa su élite bianche, ricche, spesso intellettuali... è sempre stato così, anche quando ero una ragazza degli anni '70. Si spezza qui il sogno di Martin Luther King che sperava che un giorno ogni uomo venisse giudicato per quel che vale, e non per il colore della sua pelle. Dopo tanto lavoro della società americana e del mondo democratico c'è ancora il razzismo ed è, oggi, alla rovescia.

Mirella Serri per "la Stampa" il 15 giugno 2021. Negli anni 60 e 70 dello scorso secolo la protesta degli studenti e dei professori delle università americane aveva incendiato gli animi e le piazze per poi approdare in Europa: Malcolm X era il piccolo grande eroe schierato contro la discriminazione razziale, le pioniere del femminismo, Shulamith Firestone, Kate Millett e Robin Morgan, spalancavano le porte al dibattito sull' eguaglianza tra i sessi, e gli studiosi e politici anticolonialisti, da Frantz Fanon a Léopold Sédar Senghor, Patrice Lumumba e Aimé Césaire, volevano sottrarre i popoli a ogni tipo di dominazione. Dove sono finite queste rivendicazioni? Pascal Bruckner, uno dei più noti pensatori francesi del gruppo dei Nouveaux Philosophes, ha appena pubblicato Un colpevole quasi perfetto. La costruzione del capro espiatorio bianco (Guanda, pp. 311, 20), polemico saggio in cui ripercorre la nascita dei movimenti antisistema della seconda metà del Novecento ma mette soprattutto in discussione le attuali correnti di pensiero neofemminista, antirazzista e anticolonialista che spesso finiscono per contraddire le istanze progressive del passato. Le sue idee hanno suscitato un gran vespaio in Francia.

Professor Bruckner, come mai ritiene che si siano fatti passi indietro nella riflessione sulle discriminazioni? Cos'è successo?

«C'è stata un'inversione di tendenza dopo la caduta del Muro di Berlino. Si è dissolto ogni tipo di conflitto ideologico, è venuta meno quella che allora si chiamava "lotta di classe" e la sinistra, comunista e socialdemocratica, non ha saputo elaborare una cultura anticapitalistica ed egualitaria. Le aggregazioni di avanguardia sono diventate di retroguardia, dominate da forme di neopuritanesimo. La cultura degli anni 60 era illuminista». 

Quella che oggi va per la maggiore è invece oscurantista?

«Prendiamo, per esempio, le teorizzazioni sui rapporti tra i due sessi che sono state elaborate negli atenei della California e che hanno avuto una grande eco in Francia. Un tempo si ambiva alla parità tra uomo e donna. Adesso si punta il dito contro le colpe del maschio. Dal sociologo Eric Fassin alla filosofa Geneviève Fraisse, è tutto un fiorire di elaborati sulla "cultura dello stupro", secondo cui la violenza sessuale non viene considerata un'opzione individuale, un'eccezione, bensì una pratica iscritta nella norma. Un uomo su due o tre sarebbe quindi un aggressore. Lo stupro, inteso come un dato diffuso e comune, perde il suo tratto di esperienza tremenda ed estrema, viene di fatto minimizzato e le nuove esagerazioni privano di valore ogni protesta». 

Da dove nasce questo fiorire di teorie estremiste?

«Nei campus americani il pensiero di intellettuali libertari francesi, come Foucault e Derrida, si è trasformato in qualcosa di pericoloso e di diverso. È stata la studiosa di diritto Kimberlé Crenshaw la prima, nel 1991, a coniare il concetto di "intersezionalità". Cosa vuol dire? È la condizione attuale di chi vede accumularsi su di sé varie forme di discriminazione, come il sessismo, il razzismo, l'omofobia o la transfobia. L' insieme di queste ferite rende assai fragile, ad esempio, una donna di colore e lesbica. Un maschio eterosessuale bianco, anche se afflitto da handicap, malattie o povertà, è sempre vincente e avvantaggiato. Non sono solo dibattiti astratti. Nel 2017 una ragazza che voleva partecipare alla marcia delle donne contro Donald Trump, in quanto bianca è stata respinta dalla folla inferocita. Doveva prima fare ammenda poiché "parte di uno sfruttamento razzista". Si ragiona in termini di categorie identitarie o razziali, ovvero con i medesimi parametri che abbiamo sempre respinto. Così, per porre un limite alla cultura dello stupro che sarebbe intrinseca alla mentalità maschile, ora in alcune università si chiede alle coppie di studenti di firmare un "consenso" preventivo all' eventuale atto sessuale. Queste condotte radicali hanno investito anche il mondo artistico». 

Si riferisce alle degenerazioni del politicamente corretto?

«Tutto ha inizio nel campus della Stanford University nel gennaio del 1988, quando alcuni giovani, alla presenza del politico e attivista Jesse Jackson, gridarono "la cultura occidentale deve essere spazzata via". Tra i primi a finire sulla graticola fu Herman Melville con Moby Dick poiché "non c' è neanche una donna nel suo libro, c' è cattiveria verso gli animali e quando si arriva al capitolo 28 la maggior parte dei neri è morta annegata": così scrisse uno studente al New York Times. Le femministe americane hanno fustigato Picasso, Balthus, Renoir e Degas poiché le loro opere trasudano odio nei confronti delle donne. In occasione della mostra che la National Gallery ha dedicato a Gauguin, una critica d' arte ha invitato gli organizzatori a interessarsi alle "migliaia di artisti formidabili" e spesso sconosciuti, anziché a questo "pedofilo perverso: nel 2020 non dobbiamo più promuovere i maniaci sessuali"». 

Esistono questi fanatismi, ma sessismo e razzismo debbono essere comunque combattuti. Cosa si può fare?

«Nelson Mandela e Martin Luther King lottavano per la riconciliazione del genere umano, non per lo scontro tra tribù. Ambivano ad allargare il loro mondo per farvi entrare gli schiavi, i dannati della Terra. Gli eredi ne distorcono il messaggio. In America ci si accanisce contro Cervantes e Faulkner, considerati razzisti, maschilisti e colonialisti. Ma la forza della cultura occidentale moderna è tutta nell' elaborazione di un pensiero critico che ha saputo prendere le distanze dal terreno stesso che lo ha generato. Una cultura che proprio il neopuritanesimo rinnega».

La battaglia tra Gop e dem sulla teoria critica della razza. Roberto Vivaldelli su Inside Ove ril 18 giugno 2021. La guerra culturale fra progressisti e conservatori che infiamma l’America ha introdotto nel dibattito pubblico delle nuove definizioni e termini a loro volta derivati perlopiù dal mondo accademico e giornalistico: cancel culture, woke supremacy, e non ultimo la Critical race theory (Crt), la “Teoria critica della razza” nata in seno al mondo degli studiosi della New left americana degli anni ’70 e ’80 e agli studiosi di diritto e giurisprudenza afroamericani – come il defunto docente di Harvard Derrick Bell o Kimberlé Williams Crenshaw – e diventata oggi uno dei pilastri del politically correct e del pensiero postmodernista che circola nei campus americani e circoli più progressisti d’America. La teoria critica della razza, così come descritta dalla UCLA School of Public Affairs, “riconosce che il razzismo è radicato nel tessuto e nel sistema della società americana. Il razzismo istituzionale è pervasivo nella cultura dominante”. Ufficialmente, il movimento intellettuale che porta avanti tale teoria è nato in un seminario del 1989 guidato da Crenshaw, Neil Gotanda e Stephanie Phillips al St. Benedict Center di Madison, Wisconsin, anche se molte delle idee alla base della teoria critica della razza erano nate, come già accennato, nel decennio precedente.

Se secondo Carl Schmitt, “la storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare” e per Karl Marx la storia è fatta di una dialettica fra sfruttatori e oppressi, per i sostenitori della Critical race theory le questioni sociali, culturali e legali vanno affrontate in relazione alla razza e al razzismo. Inoltre, la “supremazia bianca”, attraverso il “razzismo sistemico”, esiste e mantiene il potere attraverso la legge e una visione della storia vista sotto la prospettiva dei bianchi. Per tale motivo non dovrebbero sorprendere le battaglie ideologiche dei crociati del politicamente corretto contro i simboli del passato: la storia è stata scritta dai bianchi e, dunque, è nei fatti un riflesso del “razzismo sistemico”. Ne consegue, secondo questa “teoria”, profondamente segnata da una sorta di costruzionismo sociale, che i bianchi sono intrinsecamente razzisti e dovrebbero sentirsi in colpa per i privilegi di cui hanno goduto nel corso della storia.

La diatriba della teoria critica della razza. Molti studiosi e accademici hanno criticato la teoria critica della razza e i suoi sostenitori spiegando che essa fomenta il razzismo dei neri contro i bianchi e dunque una guerra cultura insuperabile. Tra questi c’è il giudice Richard Posner della Corte d’Appello del Settimo Circuito degli Stati Uniti, il quale ha sostenuto, nel 1997 che la teoria critica della razza “volta le spalle alla tradizione occidentale dell’indagine razionale, rinunciando all’analisi per la narrativa”. Inoltre, rifiutando l’argomentazione ragionata, i teorici della razza critica, “rafforzano stereotipi sulle capacità intellettuali dei non bianchi”. L’ex giudice Alex Kozinski, che ha prestato servizio presso la Corte d’Appello del Nono Circuito, ha criticato i teorici critici della razza nel 1997 per aver sollevato “barriere insuperabili alla comprensione reciproca” e quindi eliminando opportunità di “dialogo significativo”. La tesi di fondo dei progressisti che sostengono questo movimento culturale-intellettuale è che chi si oppone alla teoria critica della razza è fondamentalmente razzista. Come spiega al Time Priscilla Ocen, professoressa alla Loyola Law School, “la teoria critica della razza invoca una società egualitaria, una società giusta e una società inclusiva, e per arrivarci dobbiamo individuare gli ostacoli al raggiungimento di una società di questo tipo”, dice. Sempre secondo il Time, infatti, la teoria critica della razza “offre un modo di vedere il mondo che aiuta le persone a riconoscere gli effetti del razzismo storico nella vita americana moderna”. Secondo la testata liberal The Atlantic, i conservatori e i politici del Gop sono semplicemente “ossessionati” dal dibattito sulla Critical race theory.

I repubblicani vietano l’insegnamento della teoria nelle scuole. Secondo l’ultimo sondaggio condotto da Rasmussen Reports, il 43% degli elettori repubblicani statunitensi crede che insegnare la teoria critica della razza nelle scuole pubbliche peggiorerà le relazioni razziali in America. Solo il 24% pensa che insegnare la Crt migliorerà le relazioni razziali, mentre il 17% pensa che non farà molta differenza e il 16% non è sicuro. Come spiega l’Osservatore repubblicano, sempre più stati – non solo a guida Gop – stanno attuando misure contro l’insegnamento della teoria critica della razza nelle scuole: Arizona, Arkansas, Florida, Idaho, Iowa, Louisiana, Mississippi, Missouri, New Hampshire, Nord Dakota, Oklahoma, Rhode Island, Carolina del Sud, Sud Dakota, Tennessee, Texas, Utah, Virginia dell’ovest e Wisconsin. Come riporta il Washington Times, il governatore repubblicano del Texas Greg Abbott ha firmato una legge, nelle scorse ore, per vietare l’insegnamento della teoria critica della razza nelle scuole e del progetto 1619 del New York Times, celebre inchiesta del quotidiano che guarda alla storia del Paese mettendo al centro il fenomeno dello schiavismo, arrivando a mettere in discussione la bontà della Costituzione emanata nel 1787.

Il Gop, dunque, ha dichiarato guerra a una teoria che vuole riscrivere la storia. Poco prima di lasciare la Casa Bianca, l’ex Presidente Usa Donald Trump ha emesso un ordine esecutivo – poi revocato da Joe Biden – vietando “la formazione sulla diversità e la sensibilità razziale” nelle agenzie governative, compresa tutta la “spesa governativa relativa a qualsiasi formazione sulla teoria critica della razza”. Fu convinto da un’intervista rilasciata dall’attivista conservatore Christopher Rufo su Fox News che descriveva “i programmi di teoria critica della razza nel governo” come “il culto dell’indottrinamento”. A marzo il senatore Tom Cotton, repubblicano dell’Arkansas, ha presentato un disegno di legge che cercava di vietare l’insegnamento della Crt perché – osserva – è una teoria profondamente “razzista”. Secondo the Federalist, la teoria critica della razza “è qui in America e coloro che lo supportano non si fermeranno davanti a nulla per agire come se non fosse un grosso problema”, mentre il commentatore conservatore Mark Levin spiega che si tratta di un’altra teoria “razzista”. In qualunque modo la si veda, la teoria critica della razza pare dividere un’America sempre più pericolosamente polarizzata sui principi fondamentali e sulla sua stessa storia. Una china molto pericolosa per la più grande democrazia liberale del mondo.

Bruckner smaschera il nuovo razzismo antibianco. Continua a fare discutere il libro del filosofo francese contro le follie e l'intolleranza del finto antirazzismo. Mauro Zanon, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Parigi. Quando pubblicò Il singhiozzo dell'uomo bianco, nel lontano 1983, alcuni dei suoi ex compagni della gauche militante dissero che quel libro era «in odore di razzismo», perché Pascal Bruckner, figura di spicco dei «Nouveaux philosophes», denunciava il sentimentalismo terzomondista che dominava in una certa sinistra e l'autolesionismo di un'élite bianca consumata da un delirante odio di sé, dall'idea che tutti i mali della terra trovassero origine in Occidente. Oggi, nonostante le previsioni di Bruckner trovino sempre più riscontro nella realtà, a colpi di strade sbattezzate, università «decolonizzate», statue abbattute e libri censurati perché infarciti di «stereotipi razzisti», il filosofo francese viene trattato come un «reazionario» irredimibile, un «vecchio maschio bianco eterosessuale», nostalgico di un mondo che non esisterà più. Bruckner di questi «marchi d'infamia» che gli vengono appiccicati addosso ne ha fatto un motivo di fierezza, e combatte contro i suoi avversari con l'arma che sa utilizzare meglio: la penna. Il suo recente Un coupable presque parfait. La construction du bouc émissaire blanc (Grasset) - che non smette di far discutere - è il grido di allarme di uno dei più lucidi intellettuali francesi viventi, che osserva preoccupato la progressiva decadenza dell'Occidente e del progetto universalista dei Lumi, a beneficio di una società tribalizzata in preda alla lotta di generi, razze e comunità, dove l'uomo bianco è «il nuovo Satana». «Non invoco la rivincita dell'uomo bianco, denuncio l'idea che sia considerato come il capro espiatorio: il discorso femminista, antirazzista e decoloniale che designa l'uomo bianco e la donna bianca come la fonte di tutte le disgrazie dell'universo è un discorso semplicistico», ha dichiarato Bruckner a France Culture. Il femminismo tradizionale era universalista, «il neofemminismo», invece, «è apertamente separatista, se non addirittura suprematista, e mette i sessi l'uno contro l'altro», attacca il filosofo parigino, secondo cui «il femminismo del progresso si è trasformato in un femminismo del processo». Un esempio di questa tendenza è la recente esternazione della femminista radicale Alice Coffin, autrice del libro Le Génie lesbien, che ha invitato le donne a «eliminare gli uomini dalle nostre menti: non dobbiamo più leggere i loro libri, né guardare i loro film, né tantomeno ascoltare la loro musica». Molte neofemministe americane, a cui le colleghe francesi si ispirano, presentano l'uomo bianco come uno «stupratore in potenza», ontologicamente predatore, dice Bruckner, ma tacciono quando a macchiarsi di episodi di aggressione sessuale sono le minoranze arabe e africane che vivono in Occidente, come è accaduto con le violenze di massa del Capodanno di Colonia del 2016. Il neofemminismo va a braccetto con il nuovo antirazzismo, che non ha nulla a che vedere con l'antirazzismo originario, difensore di un'idea di umanità comune al di là della diversità delle origini e delle culture. Il nuovo antirazzismo esaspera le identità, si concentra sul colore della pelle e resuscita un concetto di razza che si credeva abolito, creando le condizioni di un nuovo apartheid. «Oggi vengono denigrati i volti di gesso, per celebrare gli altri colori della pelle attribuendo loro tutte le virtù», spiega Bruckner. La nuova ideologia antirazzista, dietro cui si nasconde un razzismo anti-bianco alimentato dalle minoranze e un autorazzismo folle delle élite occidentali, si sta diffondendo in tutti i settori della società francese. Delphine Ernotte, direttrice di France Télévisions, ha dichiarato che nella tv pubblica del futuro «gli uomini bianchi di più di cinquant'anni» avranno sempre meno spazio, a favore delle persone figlie della «diversità». Sulla sua scia, anche il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, ha dato prova di apprezzare certe idee di provenienza americana. In un'intervista al settimanale L'Express di poche settimane fa, Macron ha infatti evocato l'esistenza in Francia di un «privilegio bianco», uno dei capisaldi del movimento Black Lives Matter. La frase ha fatto trasalire Bruckner, perché «parlare di privilegio bianco significa risvegliare l'idea di un peccato originale». In nome del multiculturalismo, l'Occidente sta cancellando se stesso, la sua storia millenaria, i suoi capolavori, e l'uomo bianco eterosessuale occidentale, ormai, «è in fondo alla gerarchia», afferma Bruckner, prima di aggiungere: «Meglio essere scuri che pallidi, omosessuali o transgender che eterosessuali, donne piuttosto che uomini, musulmani anziché ebrei o cristiani, africani, asiatici e indigeni piuttosto che occidentali». Secondo Bruckner, «l'unica identità che ai bianchi viene ancora concessa è quella della contrizione. I professatori di vergogna, le neofemministe, i decolonialisti e gli indigenisti dilagano, e ci invitano a pentirci». E ancora: «È in corso una vasta impresa di rieducazione, all'università, sui media, che chiede ai bianchi di rinnegare se stessi. L'ultima volta che abbiamo subìto la propaganda razziale è stata con il fascismo negli anni Trenta: la scomunica a priori di una parte della popolazione. Eravamo vaccinati, grazie. Ma ci torna indietro da oltreoceano mascherata da antirazzismo, con nuovi protagonisti». I nuovi fanatici della «cancel culture» che vogliono affossare l'Occidente. E l'uomo bianco.

Francesco Borgonovo Matteo Ghisalberti per "la Verità" il 3 giugno 2021. Pascal Bruckner è uno dei più influenti intellettuali europei. Uomo di sinistra, da anni lotta contro il pensiero unico. Lo fa anche nel suo nuovo e meraviglioso libro (Un colpevole quasi perfetto, appena uscito per Guanda), in cui si occupa del più scorretto degli argomenti: «La costruzione del capro espiatorio bianco».

Come è stato possibile che il maschio-bianco-etero diventasse il nemico pubblico numero uno?

«È da molto che un certo discorso femminista considera l' uomo come un nemico. Nel femminismo originario c' era questa idea che l' uomo fosse il colpevole ideale. Ma è con la fine del colonialismo che nasce in Occidente l' idea secondo cui l' uomo bianco ha oppresso i popoli di tutto il mondo e deve pagare per i suoi crimini. Nel discorso anticoloniale degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta era questa l' idea di fondo. Oggi ha perso struttura politica, e si è semplicemente legata al colore della pelle. Questa è la novità del razzialismo nordamericano rispetto all' antirazzismo di origine europea».

L' Europa subisce l' influenza ideologica statunitense?

«Queste idee sono tutte di origine francese. Provengono dai professori dell' università Paris VIII-Vincennes della fine degli anni Settanta: Foucault, Deleuze, Derrida, Bourdieu Sono loro che hanno letteralmente creato tutte queste idee e le hanno esportate negli Stati Uniti. Il movimento Woke o la Cancel culture sono una sorta di trasformazione delle idee francesi che vengono poi riesportate in Francia, Italia, Spagna... Ma l' origine di tutto è made in France. Queste idee tornano etichettate made in America, ma in realtà sono i pensatori francesi che inizialmente hanno prodotto tutte queste teorie. Negli Usa le idee francesi sono state trasformate e tradite, perché il pensiero francese degli anni Settanta era contro l' identità, contro la razza, mentre ora ci troviamo di fronte a una esaltazione dell' identità e della razza».

Si può dire che oggi esista un razzismo anti-bianco?

«Sì, c' è un razzismo anti-bianco. Lo avevo già segnalato nel 1983 in Il singhiozzo dell' uomo bianco. Ma all' epoca era ancora embrionale. Ora nei Paesi occidentali il semplice colore della pelle segna la tua appartenenza per l' eternità al campo dei razzisti. Ciò significa che se un uomo o una donna bianca vogliono definirsi antirazzisti devono prima riconoscere di essere razzisti dalla nascita a causa della loro epidermide. Questo è molto grave. È ovviamente una trasformazione inaspettata e folle dell' antirazzismo».

Sembra una specie di «autorazzismo».

«C' è una sorta di "peccato originale". L' uomo bianco, qualunque cosa faccia, è colpevole di esistere. È colpevole di essere. Questa è la definizione stessa di razzismo, era l' accusa rivolta dai nazisti agli ebrei. In questo caso diamo la colpa ai bianchi. È abbastanza sorprendente vedere che gli "antirazzisti" sono in realtà neorazzisti. Perché va detto chiaramente: sono razzisti di nouvelle manière. Hanno riscritto le leggi di Norimberga, ma contro i bianchi».

Come è potuto accadere?

«Secondo me dipende dal vuoto del discorso di sinistra. La sinistra comunista - messa in difficoltà dalla caduta del muro di Berlino - e la sinistra socialdemocratica non sono riuscite a creare un progetto alternativo al capitalismo. Così nel vuoto della teoria si è infilato questo discorso razzista che viene dai campus e che esiste dagli anni Novanta. Ma con la scoperta dell'intersezionalità è stato affinato, rielaborato e riesportato in Francia. Grazie a Internet, ma anche grazie a un gran numero di professori francesi che vivono negli Stati Uniti e che sono stati follemente sedotti da queste teorie e le vogliono adattare alla situazione francese, italiana, spagnola, inglese o tedesca».

Lei dice di aver apprezzato il femminismo delle origini. Ma non c' erano già lì tutti i germi di quanto è venuto dopo?

«Avete assolutamente ragione. La grande teorica del differenzialismo è una francese: Monique Wittig. Le piaceva affermare che la donna non esiste, che è un' invenzione dell' uomo e che la differenza tra i sessi è una fantasia. Il suo lavoro è degli anni Settanta, rileggendolo oggi siamo colpiti da questo ritorno in stile boomerang delle teorie Lgbt. È necessario sapere che a furia di negare la biologia e di non riconoscere che ci sono uomini e donne (affermando ad esempio che ci sono semplicemente persone con o senza utero) abbiamo raggiunto l' apice del grottesco. Ancora una volta, penso che i francesi abbiano una parte della responsabilità di questo delirio. È poi interessante notare che, tra gli Lgbt, gli "Lgb" hanno un pessimo rapporto con i "T". C' è una spaccatura molto violenta tra lesbiche e transessuali. Negli Usa e in Inghilterra ci sono stati scontri fisici in quanto le lesbiche accusano i transessuali di essere uomini travestiti. Significa che in qualche modo la natura sta tornando».

Nel libro si sofferma molto sul consenso nei rapporti sessuali. La confusione sul tema non nasce in fondo dalla liberazione sessuale? Se tutto è concesso non resta che il contratto per regolare i rapporti fra persone...

«Certo. Penso che ci siano due scuole in questo senso. C' è la scuola "latina" - in Francia, Spagna, Italia - che presuppone il tacito consenso. C' era una cultura della seduzione - seduzione reciproca tra uomo e donna - che sfociava in rapporti carnali che potevano essere positivi o negativi. Nel mondo anglosassone abbiamo assistito all' introduzione di una sorta di contratto. Nel 1993, credo, l' Università di Antioch negli Usa suggerì agli studenti di andare davanti a un giudice o a un avvocato quando volevano avere relazioni sessuali. Dovevano dare una descrizione dettagliata degli episodi sessuali: palpeggiamento dei seni, dei glutei, fino a che punto arriviamo, quante volte lo facciamo...All' inizio questo metodo è stato rifiutato dagli americani ma, poi si è diffuso: oggi ci sono applicazioni che consentono di esprimere un "consenso affermativo". Ma, in realtà, anche quando il consenso è declinato positivamente, può ancora essere messo in discussione. La donna può sempre dire, nel bel mezzo dell' atto sessuale, che non vuole e poi dire che, in fin dei conti, è stata costretta».

Spesso si parla dei maschi come fossero tutti stupratori. Tutti tranne i migranti.

«Secondo il femminismo francese, i migranti sono esenti dal peccato di stupro. Perché sono gli oppressi. Ad esempio, in piazza Stalingrad (a Parigi), due ragazze sono state violentate in pubblico da fumatori di crack, ma le femministe non hanno detto nulla perché gli aggressori erano neri o arabi. Di conseguenza, se li accusassimo, saremmo razzisti. Qui vediamo che l' antirazzismo ha la precedenza sul neofemminismo. L' idea è: tutti gli uomini sono colpevoli, ma soprattutto l' uomo bianco. Gli altri uomini hanno circostanze attenuanti. Le neofemministe sono totalmente screditate. Ad esempio, la fondatrice di Osez le féminisme, Caroline de Haas, quando era segretaria generale dell' Unef (unione studentesca di sinistra) ha taciuto su decine di stupri e aggressioni sessuali. Non capisco perché, oggi, non la si metta sotto processo per complicità in stupro».

Veniamo ai temi Lgbt. Lei crede che gli attivisti arcobaleno vogliano la distruzione del maschile e del femminile?

«I più radicali sì, perché hanno questa idea grottesca secondo cui l' uomo e la donna non esistono, sono stati forgiati dal patriarcato. È un tipo di ideologia che ricorda i Khmer rossi, ma riscritti da Lehman Brothers. Se le università dovessero abbracciare questa ideologia ci sarà davvero da preoccuparsi per il futuro dell' America».

Pare che i casi di giovani che vogliono cambiare sesso siano in aumento. Perché secondo lei?

«È molto inquietante. Oggi c' è una specie di epidemia. I giovani sono incoraggiati a dire che possono essere donne o uomini a loro piacimento. Penso che per i genitori questa sia una grande preoccupazione: c' è la tendenza a spingere i giovani a uscire dal loro sesso e a operarsi. Una volta eseguite queste procedure o fatte le iniezioni, è molto difficile tornare indietro. Il transgendrismo fa parte di questo delirio tipicamente occidentale di negare le differenze tra i sessi e negare la natura. Tutto questo è molto curioso perché va in parallelo alla sensibilità ecologica, la quale ci dice invece che dovremmo riconciliarci con la natura».

Lei è di sinistra, ci pare. Di certi temi «scorretti» che lei tratta si è molto occupata anche la destra. Solo che alla destra viene sempre dato meno credito, salvo poi scoprire che qualche ragione l' aveva Esiste un complesso di superiorità della sinistra?

«In Francia il complesso di superiorità esiste dal 1945. Semplicemente perché la sinistra aveva conquistato il potere culturale, mentre la destra quello politico ed economico. Ma la situazione sta per cambiare. Oggi in Francia l' opinione pubblica è prevalentemente di destra. Non perché la gente stia diventando conservatrice, ma per un motivo molto semplice e terribile: la sinistra ha perso il senso della realtà. La sinistra nega completamente ciò che sta accadendo. Che si tratti di attacchi terroristici, violenze tra bande e minoranze, laicità. È la destra che ha recuperato queste nozioni. Oggi, quindi, sono le persone di destra che difendono i valori della sinistra e viceversa. La sinistra reazionaria e bigotta difende l' islam anche nelle sue manifestazioni più oscurantiste ed è la destra che richiama i principi repubblicani. È una situazione politica e intellettuale abbastanza strana e inaspettata».

Gli intellettuali progressisti si accorgono dei disastri del politicamente corretto solo quando vengono personalmente toccati (pensiamo a J.K. Rowling e alle sue polemiche con gli attivisti trans)?

«Sì, naturalmente. J.K. Rowling è una scrittrice che è rimasta inorridita da alcuni effetti della teoria Lgbt. Ha detto: per me un uomo è un uomo e una donna è una donna. Poi ha ricevuto delle calunnie e persino delle minacce di morte. Quindi è stata costretta a proteggersi ma non si è arresa affatto. Non è l' unica. Margaret Atwood e molte femministe della vecchia scuola rifiutano questo delirio - perché è un delirio, nel senso psichiatrico del termine. Si sono rese conto che in nome della liberazione delle donne si difendono tesi indifendibili. Ovviamente siamo molto più sensibili a un problema quando ne subiamo noi stessi gli effetti negativi. Ho avuto tre o quattro cause per diffamazione da parte di estremisti islamici, quindi so di cosa sto parlando. Ma, per quanto mi riguarda, ho sempre difeso posizioni abbastanza moderate».

Se la prendono anche con lui i nuovi inquisitori. Fabio Pagano il 27 Gennaio 2021 su culturaidentita.it. Per il pensiero unico il Sommo Poeta è razzista, islamofobo persino omofobo. Cosa rappresenta Dante per l’Italia di oggi, quella che – come tutto il mondo occidentale- sembra essere in preda al “politicamente corretto” veicolato da tv, giornali, commentatori, opinionisti, soubrette e influencer? La risposta non vale solo per il poeta fiorentino, ma per tutti quegli autori riconosciuti come massima espressione del pensiero italiano ed europeo sino a qualche decennio fa. In termini di comprensione, Dante rappresenta sempre meno. Di fatto, pur ammettendo che venga ancora letto e studiato (magari a distanza), il poeta, che pure veniva imparato a memoria nelle scuole elementari di una volta, quelle che formavano ed educavano, oggi resta muto per i più. Eppure se ci spostiamo nel cuore della guerra ideologica in atto, quella condotta da presunte avanguardie del pensiero che ai tempi nostri indirizzano menti e azioni, Dante riacquista tutta la sua centralità. Sì, perché le scene a più alto impatto simbolico che si sono viste in questo anno maledetto, flagellato da pandemia e rivolte sociali (senza, incredibilmente, che le seconde siano state conseguenza della gestione della prima), ovvero la distruzione o, nel migliore dei casi, lo sfregio alle statue dei grandi del passato, colpiti dall’anatema della nuova religione antirazzista, ben potevano avere come protagonista anche lui, l’Alighieri. E non ci sarebbe stato nulla di strano. Infatti, i gruppi che veicolano il pensiero dominante sanno quello che pochi ancora ricordano. Chi più di Dante rappresenta un passato da cui attingere, imparare, di cui essere fieri? Chi più dell’autore della Commedia comunica essenza, modello e traccia per uscire dalla famosa selva oscura? La lettura della Commedia, che si pone nel solco tracciato dall’Iliade e dall’Eneide quale monumento del pensiero europeo, è veicolo di identità, appartenenza e visione del mondo. Insomma, di un passato che non smette di vivere e insegnare. Per questo, il grande poeta fiorentino risulta naturale bersaglio per chiunque ritenga che la storia sia finita e che bisogna fare i conti definitivi con la civiltà europea e con tutto ciò che essa ha rappresentato in termini di fede, identità, visione del mondo, appartenenza, diversità, conflitto. Contro tutto ciò che si pone, di fatto, in contrapposizione con il mondo degli eguali, delle libertà formali, delle democrazie procedurali, dell’universalismo globalista che più che direzione e senso della vita fornisce merci ed emozioni da produrre e consumare. E che ha nel politicamente corretto il suo riferimento ideologico e nella religione dei diritti umani la sua fede secolarizzata. Per cui non sorprende che, per i nuovi inquisitori, Dante sia un nemico. Non a caso il poeta fiorentino è stato uno dei primi veri grandi obiettivi del pensiero unico, oggi dominante. Correva l’anno 2012 e ciò che allora sembrò una provocazione senza esito, oggi si rivela un episodio tutt’altro che isolato. All’epoca un “comitato di lavoro”, composto da ricercatori ed esperti, consulente nientedimeno che del Consiglio economico e sociale dell’Onu, tale Gerush 92, all’esito di un esame certosino (per usare un eufemismo) compiuto sulla Commedia, sentenziò che Dante andava espulso dalle scuole, in quanto il testo del suo capolavoro era pieno di passaggi razzisti, omofobi, antisemiti e islamofobi. Insomma, la Divina Commedia era diseducativa e si poneva in contrasto con quegli ideali di eguaglianza e democrazia che sono la vera conquista della modernità … altro che modello di arte e conoscenza! La critica veniva condotta sul testo, che in effetti contiene tutti i passaggi censurati. All’epoca l’attacco ebbe un certo seguito, fu riportato dai giornali di mezzo mondo, qualche accademico fu chiamato a difendere il poeta e, con un certo imbarazzo, la cosa si spense, come una di quelle polemiche da talk show domenicali. Eppure l’anatema di Gerush 92 è tornato, guarda caso, a essere rilanciato negli anni successivi, a intervalli regolari. Qualche giornale ripropone ciclicamente la notizia, quasi a voler ricordare al mondo che no, non ci si è dimenticati delle cose orribili che Dante ha scritto e a voler saggiare la reazione. Inutile cercare di spiegare che Alighieri, volente o nolente, era un uomo del Medioevo, che conosceva contrapposizioni e conflitti. Inutile invitare a una lettura organica della Commedia, che smusserebbe la forza polemica delle espressioni isolate per attaccare il poeta. Inutile pretendere una comprensione più profonda dell’opera e della sua valenza simbolica. Inutile perfino spiegare che il razzismo era sconosciuto ai tempi di Dante. Non è alla comprensione dell’opera dantesca che gli organizzatori del pensiero tendono, ma alla distruzione sistematica di tutto ciò che non si piega al modello propugnato, volto a uccidere la memoria dei popoli. Dante non è politicamente corretto, come non lo è nessun autore della sua epoca e di molte delle successive. Su questo i nuovi inquisitori hanno tutte le ragioni e fanno bene, dal loro punto di vista, a chiedere l’espulsione della Commedia dalle scuole. Così come sono coerenti coloro che passano all’azione e distruggono statue e censurano testi dei grandi del passato. Tolgono il velo e fanno emergere il vero conflitto in atto, tra chi si ritiene erede di un passato e chi quel passato vuole distruggerlo. La Divina Commedia parla ai primi, al netto di qualche strambo tentativo di neutralizzarne il senso appiattendolo sul nichilismo attuale. Ai secondi parla il nulla.

Claudia Casiraghi per "la Verità" il 27 gennaio 2021. Una luce nel buio del politically correct. La Treccani, velatamente tacciata di razzismo da una giornalista di Reuters, ha restituito un esempio ormai raro di buon senso applicato alla realtà. L'enciclopedia è stata attaccata, con estrema arroganza, per aver mantenuto nel lemma di «lavorare» l'espressione «lavorare come un negro (o un dannato)». «Forse sarebbe il caso di togliere la prima espressione», ha scritto su Twitter la suddetta giornalista, prendendosi la briga di tradurre in inglese il proprio messaggio, così, ci è parso, da poter gonfiare la faccenda al punto da vederle valicare i confini nazionali. «Wtf», ha rimarcato, «What the fuck?», «Ma che diavolo?», ha scritto, allegando alle proprie rimostranze una foto probatoria. Nell'immagine, diapositiva parziale del lemma, l'espressione gergale è stata sottolineata in giallo. Ma nessun applauso è seguito alla richiesta di censura. «In un dizionario della lingua italiana non soltanto è normale ma è doveroso che sia registrato il lessico della lingua italiana nelle sue varietà e nei suoi ambiti d'uso: dall'alto al basso, dal formale all'informale, dal letterario al parlato, dal sostenuto al familiare e anche al volgare», ha replicato, placidamente, la Treccani, sottolineando come «il dizionario registra quanto effettivamente viene adoperato da parlanti e scriventi. Non siamo in uno Stato etico in cui una neolingua "ripulita" rispecchi il "dover essere" virtuoso di tutti i sudditi», si è letto poi, nel commento Twitter che l'enciclopedia ha compulsato online. «Il dizionario ha il compito di registrare e dare indicazioni utili per capire chiaramente in quali contesti la parola o l'espressione viene usata. Starà al parlante decidere se usare o non usare una certa parola; se esprimersi in modo civile o incivile», ha chiuso la Treccani, restituendo all'individuo una capacità di pensiero critico che il politicamente corretto sembra determinato e negargli. Come la giornalista di Reuters, apparentemente certa che la sola e cieca repressione di una parola sia sufficiente a spogliarla di ogni violenza, così ha fatto Disney. Il Topolino, nella giornata di lunedì, ha deciso di eliminare dalla sezione per bambini della propria piattaforma streaming alcune sue vecchie produzioni. Dumbo è stato censurato, Peter Pan cancellato. Gli Aristogatti sono spariti dalla libreria dei più piccini. «Questo programma include rappresentazioni negative e/o denigra popoli e culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono ancora», ha spiegato il colosso, facendo apologia per aver giocato, in passato, sui tratti distintivi di singole etnie, per averli storpiati, parodiati. La Disney si è cosparsa il capo di cenere, ricorrendo alla censura. La stessa che, oggi, ha portato il comparto della comunicazione ad epurare dai propri scritti ogni pronome personale. Nessun «lei» è più comparso in un comunicato stampa, nessun «lui», «loro», nessuna «-a» oppure «-o» a fine parola. I riferimenti al genere sono stati rimpiazzati da piccoli asterischi, così che il particolare potesse perdersi in un universale vago, dove niente è più distinguibile. Perché lo si sia fatto, e quale valore aggiunto la censura - di una parola, un genere o un film - possa avere portato non è stato detto. Quel che è rimasto, però, è il tentativo forsennato di dare forma ad una «notte in cui tutte le vacche sono nere». Un tentativo sciocco, figlio di un sillogismo a metà: perché senza l'antitesi - di un passato, di una lingua o di un film - non c'è tesi che possa trasformarsi in sintesi.

"Pasta dal sapore littorio"? La Molisana: nessuna volontà di celebrare il fascismo. Eleonora Cozzella per "repubblica.it" il 5 gennaio 2021.  Maneggiare con cautela: l’avviso non dovrebbe campeggiare solo sulle confezioni di agenti chimici. Dovrebbe valere anche per la storia. Perché contestualizzare la nascita di nomi e oggetti è d’obbligo, specie se si riferiscono a situazioni politiche e sociali dolorose, per usare un eufemismo. Pena fraintendimenti gravi. L'ultimo caso riguarda alcuni formati di pasta, descritti con parole politicamente scorrette. Si tratta delle Abissine e delle Tripoline, nate negli anni dell’occupazione italiana in Africa. Definite “di sapore littorio e di gusto coloniale”. Ebbene sì, anche l’innocua e amata pasta, può portare a seri malintesi. Il fatto è che un prodotto così radicato nelle abitudini e tradizioni di un intero Paese, ne diventa spesso specchio. Così pare che gli strozzapreti derivino il nome dal fatto che gli appartenenti al clero, piuttosto benestante in tempi grami, potevano permettersene tanti da strozzarsene. E formati come i paternoster o le avemaria, che sono tubetti e anellini, derivassero il nome dal tempo di cottura: in epoca in cui non c’era il timer così si controllava la pastina nell’acqua bollente. “Mettila nella pentola e cuoci il tempo di tre avemaria!” si diceva. Poi ecco le mafaldine, ondulate come i capelli della regina Mafalda di Savoia e, in tempi (bui) di colonialismo, un insieme di formati che si rifacevano alle imprese del regime in Africa: via allora di Abissine, Tripoline, Assabesi, Africanini e Zuarini. Fino a qui è la storia e non si cambia. Ma la descrizione di alcuni di questi formati sta destando qualche polemica, perché i toni rischiano di sembrare rievocativi. Ecco, come fa notare su Facebook il giornalista Niccolò Vecchia, conduttore del programma C’è di Buono su Radio Popolare, che l’azienda La Molisana, apprezzata per il lavoro di filiera corta, descrive le sue Abissine con parole che si prestano all’equivoco. Sul sito dell’azienda parlano di un “formato dal nome che è già storytelling… Negli anni Trenta l’Italia celebra la stagione del colonialismo con nuovi formati di pasta: Tripoline, Bengasine, Assabesi e Abissine.  La pasta di semola diventa elemento aggregante? Perché no! […] Di sicuro sapore littorio, il nome delle Abissine Rigate all’estero si trasforma in “shells”, ovvero conchiglie”. Ugualmente imbarazzante la descrizione delle Tripoline n.68: “Il nome evoca luoghi lontani, esotici ed ha un sapore coloniale”. A parte la difficoltà di capire come possa essere un gusto littorio e un sapore coloniale, qualcosa nella catena di comunicazione è andato storto. Lo ammette la stessa Rossella Ferro, che fa parte della famiglia titolare del pastificio e ne è la responsabile marketing. “Non abbiamo alcun intento celebrativo quando parliamo di questi formati storici, nati negli anni ’30. E infatti abbiamo appena provveduto a cambiare le schede descrittive dei prodotti. Siamo molto attenti alla sensibilità dell’opinione pubblica e in questo caso l’unico errore è stato non ricontrollare tutte le schede affidate all’agenzia di comunicazione. E invece è la conferma che non si può perdere di vista nemmeno un dettaglio. Ribadisco che per noi non c’è alcun sentimento di celebrare quel periodo storico”.

"Abissine rigate dal sicuro sapore littorio". Ed è bufera sul pastificio. Dopo ore di polemica per i nomi dei formati di pasta rievocanti il colonialismo italiano, La Molisana ha cambiato nome ai suoi prodotti. Francesca Galici, Martedì 05/01/2021 su Il Giornale. È bufera sul pastificio La Molisana, uno degli storici brand operanti nella produzione di pasta nel Paese. Come spesso accade, tutto è nato sul web, dove qualcuno si è accorto che il pastificio di Campobasso utilizzava ancora i nomi originali dei formati prodotti, che richiamavano il periodo coloniale italiano. Per ore si sono susseguiti commenti contro il pastificio, che ha scelto di avviare una campagna pubblicitaria facendo leva su quei nomi così desueti e capaci di scatenari un vero polverone mediatico. "Negli anni Trenta l’Italia celebra la stagione del colonialismo con nuovi formati di pasta: Tripoline, Bengasine, Assabesi e Abissine. La pasta di semola diventa elemento aggregante? Perché no! Già Trilussa in un sonetto affermava che 'appena mamma ce dice che so’ cotti li spaghetti, semo tutti d’accordo ner programma'", si leggeva nella campagna pubblicitaria del brand, che poi preoseguiva: "Di sicuro sapore littorio, il nome delle Abissine Rigate all’estero si trasforma in “shells”, ovvero conchiglie. Hanno una forma morbida ed accogliente, a scodella, l’esterno è rigato e ruvido e l’interno appare liscio; ideali per sughi vegetali e freschi". Le Abissine non sono però l'unico formato de La Molisana finito nel mirino, perché ci sono anche le Tripoline, le Bengasine, le Assabesi a indignare il web. In una società dominata dal politicamente corretto, una campagna come questa ha scatenato moltissimi commenti, ma Rossella Ferro, responsabile marketing de La Molisana, è voluta intervenire per chiarire che nella campagna non c'era nessun intento celebrativo. Per sottolineare la distanza del pastificio La Molisana dai temi evocati, basti ricordare la storia di quest'azienda simbolo del Made in Italy, che fu distrutta dai nazifascisti in ritirata da Campobasso durante la Seconda guerra mondiale. Come riporta il Corriere della sera, l'amministratore delegato ha ulteriormente specificato che "il pastificio ha più di 100 anni. Noi abbiamo rifondato l'azienda nel 2011 e non abbiamo pensato di modificare questi nomi che, all'epoca, avevano tutti i pastifici. Ce ne scusiamo, perché quei nomi hanno rievocato in maniera inaccettabile una pagina drammatica della storia. E revisioneremo i nomi dei formati". La Molisana, quindi, andrà ad allinearsi con il resto dei pastifici italiani, che hanno adottato definizioni più attuali per i loro prodotti. Sul sito è gi stata modificata la dicitura finita sotto accusa e la produzione de La Molisana dei prossimi lotti avrà la nuova nomenclatura.

Mangiare le Abissine prima che le eliminino per apologia di colonialismo. Camillo Langone per "il Foglio" (16 novembre 2017). Sto preparandomi un cibo estremo, lessicalmente estremo: le Abissine rigate del pastificio La Molisana. Con quale sugo? Non importa, l’importante è sbrigarsi, gustarle prima che la Legge Fiano o il Grande Algoritmo le annientino per apologia di colonialismo. Stasera invece mi faccio le Tripoline di Divella oppure le Bengasine di Tamma, due formati nati al tempo in cui la conquista civilizzatrice schiacciò la tratta araba degli schiavi (oggi riapparsa grazie alla fine dell’eurocentrismo). Ma prima, nel pomeriggio, farò un salto all’Antica Pasticceria Pagani per comprare gli africani, mignon ovviamente ricoperti di cioccolato. Li postano su Facebook, spero che Zuckerberg non se ne accorga altrimenti addio profilo. E gli assabesi? Qualcuno produrrà ancora i pasticcini dedicati ad Assab, il porto che nel 1869 fu la nostra testa di ponte nel Corno d’Africa? Il tempo stringe: potrebbero seguire la sorte dei biscotti Tripolini che la Gentilini di Roma ha ribattezzato Nocciolini, perdendo un cliente. Ai prodotti gastronomici italiani degli anni Venti e Trenta venga estesa la tutela di cui gode l’architettura coeva! Ma siccome credo poco agli appelli, e ancor meno al rispetto dei miei connazionali per la propria storia, mi affretto a mangiare.

Da iltempo.it il 6 gennaio 2021. Scoppia sui social la guerra della pasta. "Rossi" contro "neri" scatenati nei commenti. «Solo a me il sapore littorio fa pensare che sappia di m..», «se non è un fake, non la comprerò mai più», «buona anche in bianco con un po' di parmigiano e olio. Di ricino ovviamente», «basta finanziare questi fascisti», «mai più pasta Molisana», oltre alla foto della confezione incriminata di «abissine rigate» capovolta, a testa in giù, che ricorda l’uccisione di Benito Mussolini a Piazzale Loreto. Sono solo alcuni dei commenti apparsi sulla pagina Twitter della pasta Molisana, finita nella bufera per i nomi scelti per alcuni formati e la descrizione fatta (poi cancellata) sul sito dell’azienda e sui canali social. «Negli anni Trenta l’Italia celebra la stagione del colonialismo con nuovi formati di pasta: Tripoline, Bengasine, Assabesi e Abissine» - aveva scritto l’azienda. Tra i tanti commenti negativi, ci sono però anche post di solidarietà nei confronti del noto marchio italiano. «Vedete fascismo dappertutto, adesso basta», scrive un utente, mentre un altro parla di «situazione ormai ridicola e fuori controllo». «Continuate a lavorare così in nome del Made in Italy, senza dare retta a queste menate», un altro commento di sostegno alla Molisana. Ma poi si scopre che non è solo la Molisana ad aver realizzato le Tripoline. "Volevo dire ai compagni sinistrati e #facciamorete vari, che se le #abissinerigate di #molisana non piacciono, possono optare per i #tripolini della #coop, vi andassero di traverso..." scrive una utente su Twitter spiegando che anche la Coop ha reso omaggio al Duce con la sua pasta. Non dolo con i Triplini ma anche con i Bengasini all'uovo. Ma non solo, le tripoline si trovano anche da Carrefour, con marchio Esselunga. Ma Molisana dopo la bufera mediatica torna sui suoi passi: "Ci scusiamo per il riferimento riguardante il formato di pasta 'Abissine rigate' che ha rievocato in maniera inaccettabile una pagina drammatica della storia", hanno detto i responsabili del pastificio di Campobasso. "Cancellare l'errore non è possibile, ci impegniamo a revisionare il nome del formato in questione attingendo alla sua forma naturale", hanno aggiunto dall'azienda. Vediamo ora se anche la Coop vorrà cambiare il nome dal sapore "littorio" ai suoi formati di pasta.

DAGONEWS il 30 gennaio 2021. La rivista Variety si è scusata con Carey Mulligan per una recensione sul film “Promising Young Woman” in cui si diceva che l’attrice non era abbastanza attraente per il ruolo di femme fatale. Nella recensione, Dennis Harvey si riferiva a Mulligan come una "scelta strana" per il ruolo principale, suggerendo che Margot Robbie, una delle produttrici, avrebbe dovuto recitare al posto suo. La recensione è stata scritta un anno fa, ma solo adesso che Mulligan ne ha parlato in un’intervista, sono arrivate le scuse della rivista: «Variety si scusa sinceramente con Carey Mulligan e si rammarica del linguaggio insensibile e dell'insinuazione nella nostra recensione di "Promising Young Woman "che ha minimizzato la sua performance audace».

Nella neolingua femminista "man" è una parolaccia. Gli uomini (fratelli compresi) diventano prefissi dispregiativi. E chi non ci sta finisce... "incel". Giulia Bignami, Sabato 30/01/2021 su Il Giornale. Se vi dicono che state facendo manspreading, sapete di cosa vi stanno incolpando? E se invece vi accusano di bropriating, avete idea di che cosa abbiate combinato? Se la risposta è no, allora questo è il glossario di cui non sapevate di avere bisogno, ma di cui non potrete più fare a meno. È il risultato di una lunga e sistematica ricerca che ho intrapreso, con la mia mentalità scientifica, nel tentativo, quanto mai senza speranza, di capirci qualcosa tra le nuove parole inventate in nome di una non meglio specificata causa politicamente corretta o femminista, o tutte e due le cose messe insieme. Alcune, molte, di queste parole sono partite come hashtag su Instagram o Twitter per poi diventare dei trend e, di conseguenza, delle battaglie fondamentali per l'umanità. Si inizia con manel, termine utilizzato per definire un panel formato da soli uomini (men), neologismo diventato bandiera di tutte le battaglie contro la discriminazione di genere nella scelta dei partecipanti a giurie, comitati, gruppi o eventi in generale. Per quanto si tratti di una giusta causa, bisogna stare attenti a non generalizzare e specialmente a non perdere di vista il merito e l'uso del buon senso. Per esempio, è inutile strillare contro i manel di oggi per poi rimanere del tutto indifferenti, anzi accettare e andare a Milano nel refettorio di Santa Maria delle Grazie ad ammirare uno dei manel forse più famosi della storia, dove il direttore del comitato è lì a spezzare il pane e dispensare vino agli altri dodici membri, tutti rigorosamente maschi. Almeno nell'Ultima cena sono tutti seduti più o meno composti e non possono certo essere accusati di manspreading, comportamento tipico di un uomo che allarga eccessivamente le gambe prendendosi troppo spazio sull'autobus, sulla metro, in aereo, al cinema, a teatro o in tutti i posti pubblici dove si sta seduti vicini, che sono in ogni caso dei brutti posti perché è sempre meglio stare seduti lontani e in posti non pubblici. Credo che però la pandemia abbia efficacemente risolto questo modo di fare maschile, percepito come una barbarica invasione dello spazio vitale delle femmine. Per quanto mi riguarda, purché venga mantenuto il distanziamento sociale, gli uomini possono allargare le gambe quanto vogliono. (Non c'entra con i femminismi, ma, a proposito di distanziamento, viaggiando da Edimburgo a Milano, facendo scalo a Amsterdam, ho notato che la distanza raccomandata diminuisce progressivamente da due metri nel Regno Unito, a un metro e mezzo in Olanda, fino ad un metro in Italia, da cui si deduce scientificamente che la gittata di starnuti e sputacchi si accorcia con la latitudine). Continuando con il nostro glossario, finché un uomo, pur in un comitato e a gambe aperte, sta zitto va ancora bene, è quando inizia a parlare che cominciano i problemi. Manterrupting è l'atteggiamento arrogante di un uomo che interrompe una donna mentre sta parlando e non lascia che finisca quello che stava dicendo. Di solito, alla terza volta (le prime due do il beneficio del dubbio) che qualcuno mi interrompe, maschio o femmina che sia, lo mando a quel paese e dico quello che devo dire senza stare lì ad inventarmi una nuova parola per giustificare e legittimare l'interruzione. Tuttavia, se perseverate con il manterrupting, potreste finire con il fare mansplaining, cioè dare spiegazioni non richieste e paternalistiche a una donna. Ritengo che la cosa più bella del mansplaining siano le traduzioni italiane proposte, ne ho trovate almeno due: maschiarimento oppure minchiarimento, un chiarimento, letteralmente, del cazzo. Qui il problema mi sembra più sostanziale che sessuale e mi spiego con un esempio. Di questi tempi ci ricordano spesso che è importante lavarci bene le mani, ma voi lo sapete perché i saponi ci puliscono le mani? Ci riescono grazie a delle molecole chiamate tensioattivi che, nella loro struttura, hanno una parte idrofila, affine all'acqua, e una parte lipofila, affine ai grassi, cioè allo schifo vario e eventuale. Grazie a questa particolare struttura, lo sporco, altrimenti insolubile, viene inglobato, incapsulato e trasportato via sotto l'acqua e noi rimaniamo con le mani pulite. Ecco, vi siete sentiti minchiariti o, meglio nel mio caso, vaginaspiegati? No, perché è una spiegazione fatta con il cervello, un brainsplaining (questa volta una parola nuova la invento io), che è l'unica cosa che dovrebbe contare, a prescindere dal fatto che il cervello sia maschio o femmina. Ma, continuando imperterriti nel vostro mansplaining, vi potreste trovare anche a fare del bropriating (dall'inglese bro/brother, fratello, e appropriating, appropriarsi), apparentemente una condotta molto comune nell'ambiente di lavoro. Il bropriating succede quando un uomo si appropria dell'idea messa a punto da una collega donna, come se ne fosse lui l'autore, prendendosene il merito. Ancora una volta, io non trovo che sia necessario un neologismo per questo comportamento, un uomo che si comportasse in quel modo con me lo chiamerei semplicemente stronzo. Comunque, nel caso vi riconosciate in uno o più dei comportamenti descritti fin qui allora sareste quasi sicuramente un incel (involuntary celibate): trattasi, letteralmente, di un celibe involontario, cioè di un esemplare appartenente ad un gruppo di maschi bianchi misogini, narcisisti, frustrati, insicuri e con gravi problemi psicologici in quanto non ricevono il sesso che credono di meritare. E qui niente, non vi posso aiutare, sono cazzi vostri. Però, ora, con questo glossario essenziale, non potrete più dire di non conoscere i neologismi femministi e se non vi piacciono, amen, anzi no, adesso bisogna dire a-woman.

Follia negli Usa: "Odissea razzista, via da scuola". Una scuola del Massachusetts ha deciso di bandire e di non far studiare ai suoi alunni l'Odissea di Omero. "Razzista" e non abbastanza "inclusiva" per gli insegnanti dell'istituto. Follia della cancel culture. Roberto Vivaldelli, Martedì 05/01/2021 su Il Giornale. Il fondamentalismo politically correct arriva a mettere in discussione persino Omero e l'Odissea, finiti nel tritacarne della cancel culture. Gli artefici di tutto ciò usano un hashtag per promuovere la loro battaglia per cancellare la cultura classica dalle scuole: #DisruptTexts, che è anche un sito web dove gli insegnanti e attivisti della sinistra liberal e politicamente corretta prendono di mira i grandi classici della cultura, dell'arte, della letteratura per sostituirli con modelli più inclusivi e "antirazzisti". Come racconta Meghan Cox Gurdon sul Wall Street Journal, questi insegnanti sostengono che i loro alunni non dovrebbero leggere storie scritte in altre epoche, specialmente quelle "in cui il razzismo, il sessismo, l'antisemitismo e altre forme di odio sono la norma". Tanto per fare un esempio di questa mentalità grottesca: l'insegnante di inglese di Seattle Evin Shinn spiegava, nel 2018, che avrebbe "preferito morire" piuttosto che insegnare La lettera scarlatta, a meno che il romanzo di Nathaniel Hawthorne non venga usato per "combattere la misoginia". La follia politicamente corretta di questi insegnanti sembra non avere confini ed ecco che è lo stesso Wall Street Journal a raccontare l'ennesimo scempio di cui sono - loro malgradi- artefici e protagonisti: cancellare l'Odissea di Omero dal programma di studio. “Sono molto orgogliosa di dire che quest’anno abbiamo rimosso l’Odissea dal curriculum!”, dichiara Heather Levine, che insegna alla Lawrence High School di Lawrence, nel Massachusetts. Motivo? Poema razzista e non al passo con i tempi. Come spiega lo scrittore di fantascienza Jon Del Arroz al Wall Street Journal: "È una tragedia che questo movimento anti-intellettuale per la cancellazione dei classici stia guadagnando terreno tra gli educatori e l'industria editoriale tradizionale. Cancellare la storia delle grandi opere limita solo le capacità dei bambini". Per capire cosa vogliono questi insegnanti antirazzisti basta dare un'occhiata al loro sito web. L'obiettivo del movimento #DisruptTexts è quello di sfidare lo studio tradizionale al fine di creare un programma "più inclusivo", rappresentativo ed "equo". "Attraverso un curriculum più equo e una pedagogia antirazzista - sottolineano - crediamo di poter realizzare un mondo più giusto. Tutti gli studenti meritano un'istruzione che includa la ricca diversità dell'esperienza umana". #DisruptTexts si basa "su decenni di esperienza didattica e radicata nella ricerca di studiosi antirazzisti", in particolare "educatori di colore", che "ci hanno preceduto". Il loro movimento, fatto perlopiù di insegnanti, "sostiene programmi di studio" e pratiche didattiche "culturalmente sensibili e antirazziste". Dicono di essere contrari alla censura, ma nel concreto è esattamente quello che poi fanno, mettendo al bando l'Odissea di Omero dal programma di studio. Il problema dei politicamente corretti è quello di voler ostinamente applicare i criteri etici di oggi al passato, il che significa mancare di senso della storia. E di solito questo è sinonimo di fondamentalismo. In 1984 di George Orwell quando un sovversivo viene fatto sparire dal partito, si applica la damnatio memoriae: viene cioè eliminato, da tutti i libri, i giornali, i film e così via, tutto ciò che si riferisca direttamente o indirettamente alla persona in oggetto. Citiamo un passaggio chiave del capolavoro di Orwell: "Ogni disco è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni immagine è stata ridipinta, ogni statua e ogni edificio è stato rinominato, ogni data è stata modificata. E il processo continua giorno per giorno e minuto per minuto. La storia si è fermata. Nulla esiste tranne il presente senza fine in cui il Partito ha sempre ragione".

Massimo M. Veronese per “il Giornale” il 25 gennaio 2021. Nell'ansia di cancellare confini, di confondere ruoli, di capovolgere schemi, o forse solo di stupire chi non si stupisce più di niente, il cinema maestro di pedagogia a volte fin troppo spicciola ci sta togliendo le ultime certezze rimaste, peggio di virologi assortiti e comitati scientifici che non sanno che pesci pigliare. Prendi per esempio Zorro. Ha sempre avuto la faccia da bel trucibaldo di Armando Catalano, siciliano con i baffetti da sparviero e il fisico da torero, che per mettere la maschera della Volpe aveva adottato il nome d'arte di Guy Williams nella serie tv senza tempo di Walt Disney. Era il simbolo dell'uomo che non doveva chiedere mai, il vestito di Carnevale preferito dai maschietti. Ma adesso cambia tutto. Zorro sarà una donna. I fratelli Rodriguez, ideatori del progetto per la Nbc, hanno trasformato Sofia Vergara, l'attrice che lo interpreterà, in un'artista underground di oggi che combatte le ingiustizie, ma Sola Dominguez, il personaggio interpretato, altri non è che la pronipote di Don Diego de La Vega. Vedremo se lascerà il segno. Stesso discorso per James Bond, da sempre icona sciupafemmine e vagamente maschilista. A sostituire Daniel Craig, che si consegnerà alla pensione in No time to day, sarà Lashana Lynch, trentaduenne britannica come l'originale. O meglio nel film i due lavoreranno in coppia e Bond resterà Bond, ma 007, sigla dell'elite con licenza di uccidere, passerà da lui a lei. Funzionerà? Più che si vive solo due volte diciamo che chi vivrà vedrà. E Sherlock Holmes? Anche l'intuito maschile del più famoso detective di sempre diventa femminile. Per la serie tv omonima i suoi creatori Mark Gatiss e Steve Moffat, hanno cominciato il casting: si parla di Michelle Gomez, Phoebe Waller-Bridge, Jodie Comer. Non si accontentano più di Signore in giallo e Miss Murple, vogliono anche Sherlock Holmes «che potrebbe essere tranquillamente un nome di donna» infierisce Moffat. Intanto sugli schermi è arrivata Enola Holmes, la sorella minore, che ha il viso di Millie Bobby Brown, ma è identica al fratello. Il Dottor Watson c'è già e ha il volto orientale e bellissimo di Lucy Liu in Elementary. Non si chiama John Watson, ma Joan Watson. Così come donna è diventato un altro celeberrimo assistente tv, il Jonathan Higgins di Magnum Pi, che nella nuova serie si chiama Juliette Higgins. Una perdita notevole dato che Perdita Weeks, con l'accento sulla «i», è il nome dell'attrice che gli dà incantevole corpo. Nonostante la resistenza semantica di «Man» e «Doctor» cambiano sesso anche Plastic Man e Doctor Who. L'eroe a fumetti della Dc sarà riconvertito in un avventura d'azione guidata da donne senza più maschietti: da uomo di plastica a uomo da niente. Doctor Who alieno metafora che si rigenera in corpi sempre diversi, è già una donna, Jodie Whittaker, da quattro anni. Doctor è rimasto Doctor anche perché al femminile non c'è. Diverso il discorso di Peter Pan che abbiamo mandato giù da anni ormai visto che a vestirne i panni sono state almeno una quindicina di attrici, da Veronica Lake a Mia Farrow, ma chi poteva immaginare una serie social dove Amleto è una lei, Donatella Furino? Come se già non fosse complicato essere o non essere? E a lui, spogliato dei modelli di identificazione storici cosa resta? Nella nuova Cenerentola Billy Porter, stella di Broadway e paladino Lgbt sarà la nuova Fatina. Attenti perciò anche voi al rospo che baciate. Capace che al posto del Principe vi spunti una rana.

Sam Baker per dailymail.co.uk il 21 gennaio 2021. E alla fine la lotta alle diseguaglianze di genere arrivò persino alle carte da gioco. Tutta "colpa" di una ragazza laureata in psicologia forense che nei Paesi Bassi si è inventata un mazzo nuovo di zecca: senza re, regine e jack. Lei si chiama Indy Mellink, ha 23 anni e ha raccontato di aver avuto l'idea mentre spiegava le regole ai suoi cuginetti: a quel punto si è accorta che avere un re più prezioso di una regina non le andava a genio. Ecco allora che, anche su incoraggiamento del padre, Indy ha deciso di progettare un mazzo con oro, argento e bronzo proprio al posto delle carte re, regina e jack. "Abbiamo questa gerarchia secondo cui il re vale più della regina: una sottile disuguaglianza che influenza le persone nella loro vita quotidiana perché è solo un altro modo di dire 'ehi, sei meno importante'. E anche i piccoli particolari come questo giocano un ruolo importante". I primi 50 dei suoi nuovi mazzi sono stati rapidamente acquistati da amici e familiari. Dopo l'iniziale successo, Indy ha quindi creato altri mazzi GSB (Gold, Silver, Bronze) e li ha venduti online. Nel giro di un mese aveva spedito circa 1.500 mazzi di "genere neutro" in Belgio, Germania, Francia e Stati Uniti. Berit van Dobbenburgh, capo della Dutch Bridge Association, ha affermato che è importante che le persone riflettano sulla diseguaglianza di genere, ma che sarebbe difficile effettuare un cambiamento formale perché sarebbero necessarie delle modifiche ufficiali alle regole: "Mi chiedo se ne valga la pena… Ma sulla neutralità di genere sono certamente d'accordo! È fantastico che qualcuno di così giovane l'abbia notato. Onore alle nuove generazioni".

Grease “troppo bianco” e Dumbo “razzista”: non se ne può più!  Francesco Latilla l'1 Febbraio 2021 su Cultura ed Identità. Negli ultimi anni stiamo assistendo al terribile atto (probabilmente finale) di distruzione nei confronti dell’arte ed in particolar modo verso il Cinema. La settima arte è sempre stata, assieme al teatro, la più alta materia di riflessione (grazie allo strettissimo legame tra immagine/suono/parola) e quindi di emancipazione culturale e dunque, proprio a tal proposito, anche osteggiata dal potere. Lo stesso potere che ne ha anche usufruito per i propri fini propagandistici. Durante i regimi totalitari vi era una moltitudine di pellicole il cui unico scopo era quello di promuovere (quasi come manifesto) l’importanza dell’ideologia cui si faceva riferimento. Basti pensare al Cinema fascista capitanato da Goffredo Alessandrini e Augusto Genina, quello stalinista con la corrente del realismo socialista che si trasformò in un vero dogma da seguire, o infine a tutta la filmografia nazista, con a capo il suggestivo “Olimpia” (1938) di Leni Riefenstahl. Nonostante ciò, molti dei film propaganda erano diretti molto bene da sapienti registi che hanno fatto la storia. Oggi stiamo assistendo ad un’ altra ideologia, forte, dissolutiva e dal cattivo gusto, il politicamente corretto e i suoi frutti sono già sul campo purtroppo. Vengono censurate opere perché secondo alcuni personaggi, (falsamente) suscettibili e (propriamente) mistificatori, sarebbero poco inclusive e dunque nocive per le nuove generazioni, quelle che stanno formando loro a colpi (bassi) di Hashtag e Tik Tok. Il dato più allarmante è che neanche i film d’animazione sono più al sicuro, ad esempio Disney+ ha deciso di rimuovere dagli account dei bambini inferiori ai 7 anni “Dumbo”, “Gli Aristogatti” e “Peter Pan”. I motivi sono specifici per ogni film ma la base è la stessa, colpire tutto ciò che possa apparire denigratorio nei riguardi delle altre culture/etnie e che possa dare così una visione razzista, con stereotipi e messaggi negativi. Nell’ultimo mese aveva fatto scalpore anche il duro attacco, proprio da parte di un pubblico giovane, nei confronti del celebre musical “Grease” in quanto sarebbe misogino, sessista e omofobo nonché un film stupido con un forte incitamento allo stupro. Inoltre c’è chi ha l’ha definito un film “eccessivamente bianco” e ne ha chiesto la totale cancellazione, l’eliminazione da ogni schermo. Le rigide regole cui bisogna sottostare per rimanere a galla non giovano mai all’artista né all’opera. L’arte, per vivere, ha bisogno di essere libera, scevra da qualsivoglia schema totalitario e soprattutto dev’essere apolitica e senza morale. Non a caso un gigante del Cinema nostrano come Federico Fellini, durante la sua fecondissima carriera ha dovuto subire duri attacchi da parte dei moralisti di destra e soprattutto di sinistra, perché il suo Cinema era libero. L’arte non appartiene agli schemi e dunque, il disgustoso chiacchiericcio di questi perbenisti con la sindrome di Supergirl (al maschile è sessista) è il vero virus che si sta diffondendo e il cui unico vaccino è una sana cultura fatta di tradizione e buon gusto, quello che tanto li irrita.

Paolo Travisi per leggo.it il 17 febbraio 2021. Possibile che uno schiaffo dato da un personaggio di un cartoon anni Ottanta possa finire nelle aule di tribunale? Incredibile, ma del tutto vera, la storia che viene dal Cile e che riguarda un cartone animato iconico, specie per i maschietti, Holly & Benji. Si perché la puntata incriminata, è la numero 33, quando il mitico Julian Ross molla uno schiaffo ad un'amica che aveva rivelato al mondo i suoi problemi di cuore. È noto infatti che il personaggio di Ross nel cartoon sia cardiopatico, ma una causa intentata in Cile intende dimostrare che quel gesto, seppure all'interno di un cartone animato, equivarrebbe all'accettazione della violenza da parte di un personaggio maschile ad un femminile. Nella sequenze finita in tribunale, l’attaccante della squadra Mambo di Tokyo, per l'appunto Julian Ross, schiaffeggia la manager della squadra, Amy Aoba, al termine di una partita, che preoccupata per la sua salute ha rivelato i suoi problemi cardiaci, che invece il calciatore avrebbe voluto tenere top secret. Per la trasmissione di quell'episodio, (in Cile nel 2019) la televisione pubblica cilena TVN era stata denunciata da una corte del paese, e condannata in prima istanza a pagare 7 mila dollari di multa. A rovesciare la situazione, come in un qualsiasi processo, ci ha pensato la sentenza di appello, in cui il giudice della Corte di Santiago, ha giustificato il comportamento violento sostenendo che “una ragazza che lui (Ross) considera amica lo rivela al suo rivale, così lui schiaffeggia la ragazza in una frazione di tempo minore di un minuto, perché pensava che lei non avesse diritto di raccontare il suo segreto, in quanto avrebbe tolto al suo rivale il desiderio di competere; così facendo ha indicato alla ragazza la sua volontà di non vederla più intervenire nella questione”. Nella sentenza viene spiegato che il magistrato della corte cilena non ha "punito" la tv perché quel gesto, seppur violento e dato da un uomo ad una donna, non può considerarsi offensivo della dignità, perché la vittima ha ricevuto il ceffone non in quanto donna, ma in quanto amica sleale. 

Claudia Casiraghi per "la Verità" il 17 febbraio 2021. Una denuncia ex post, che la Corte d'appello cilena si è affrettata a ribaltare. Holly e Benji, la cui prima puntata è stata trasmessa nell'ottobre 1983, è finito in tribunale, vittima di un consiglio di spettatori turbato dalla presunta violenza insita nel cartone animato. Gli sceneggiatori di Holly e Benji, manga tra i più famosi, si sarebbero macchiati di sessismo, costringendo il National television council cileno a denunciare l'emittente Tvn, che nel 2019 ha riproposto per intero il cartone animato. Il consiglio nazionale ha chiesto a un tribunale locale che la Tvn pagasse caro per aver trasmesso la puntata numero trentatré della serie televisiva, nella quale un personaggio è visto schiaffeggiare una donna. Nell'episodio, uno dei tanti dedicati al goleador e al portiere, Julian Ross tira un ceffone ad Amy Aoba, manager della sua squadra di calcio. Un fremito lo ha agitato. La ragazza, che avrebbe dovuto essergli amica, ne ha tradito la fiducia, riferendo ai compagni di Ross i suoi problemi cardiaci. Julian Ross, allora, le ha mollato uno schiaffo, secco. E tanto deve essere stato flebile il suono da aver prodotto una reazione solo trent' anni più tardi. Il National television council cileno ha gridato allo scandalo nel 2019, quando la Tvn ha rimandato in onda in Cile una serie che, nel mondo, aveva già trovato ampio spazio (e consenso). Lo schiaffo sarebbe stato glorificatore della violenza sulle donne, estremamente sessista e pericoloso, ha spiegato il consiglio, cui il tribunale, ha voluto dare retta. In primo grado, la Tvn è stata condannata a pagare una multa di circa settemila dollari. Ma la pena, in appello, è stata revocata. Il giudice della Corte di Santiago ha spiegato come il gesto non possa e non debba essere considerato lesivo della dignità della donna. Lo schiaffo, secondo la Corte d'appello, che nell'emettere la propria sentenza non ha dovuto esprimere un giudizio di valore sulla violenza fisica, sarebbe arrivato a chiunque avesse rivelato il segreto di Ross. Amy, dunque, non sarebbe stata malmenata in quanto donna, ma in quanto «amica sleale». Cosa, questa, che avrebbe invalidato ogni accusa di machismo. Le botte, sbagliate in ogni dinamica umana senza riguardo al sesso, nel contesto specifico di Holly e Benji sarebbero state cose da ragazzi. Cose da bambini, cui spesso, nel tentativo cieco di obbedire al politicamente corretto, si finisce per affibbiare un significato molto più grande di quello che in origine è stato dato loro.

"Saranno vietati ai minori di 7 anni". Bollino rosso per tre film della Disney. Tre storici film della Disney finisco nel mirino della censura perché veicolerebbero messaggi sbagliati non adatti ai più piccoli: il caso di Dumbo, Peter Pan e Gli Aristogatti. Carlo Lanna, Martedì 26/01/2021 su Il Giornale. Scelta moralista o meno, sta facendo molto discutere la nuova mossa pro censura del colosso della Disney. Re dell’intrattenimento per i più piccoli da tempo immemore, fautore di grandi successi di critica e pubblico, da qualche mese ha fondato una piattaforma streaming che, sotto l’ombrello di Disney +, ha racchiuso tutti i suoi film più celebri. Vecchi e nuovi. E proprio alcuni di questi hanno ricevuto il "bollino rosso" e sono stati vietati ai minori di sette anni. Prima è stata la volta di Lilly e Vagabondo, dove è stata epurata una coppia di gatti siamesi, oggi nel mirino del politically corret finiscono Peter Pan, Dumbo e persino Gli Aristogatti. Le tre pietre miliari dell’animazione sarebbero state vietate ai più piccoli di sette anni perché veicolerebbero messaggi dannosi, razzisti e veicolerebbero anche stereotipi su persone dal diverso colore della pelle. La Disney, però, tiene a precisare che non ha rimosso i film dal catalogo della sua piattaforma, ma li ha solamente oscurati per i minori, restando visibili per i più adulti e con l’aggiunta di una nota introduttiva prima dell’inizio dei film citati. La scelta è molto chiara. Peter Pan, Dumbo e Gli Aristogatti "includono rappresentazioni negative e/o denigrano popolazioni e culture diverse". Invece che rimuovere questi contenuti, la Disney ha optato per una scelta diversa. "Si vuole riconoscere l’impatto dannoso così da stimolare al dibattito e imparare a creare un futuro diverso e più inclusivo". Così si legge dal diclaimer che anticipa i film. Nel dettaglio i tre film sarebbero stati censurati dalla Disney per motivi ben precisi. Nel caso di Peter Pan, il protagonista avrebbe denigrato i nativi americani, quando si è rivolto alla tribù di Giglio Tigrato con il nome di "Pellirosse". In Dumbo la scure è caduta su una canzone, anzi su un verso in particolare che suonerebbe irrispettoso verso gli schiavi afroamericani che lavorano la terra. E su Gli Aristogatti, la Disney avrebbe offeso il popolo asiatico con il personaggio di Shun Gon, il gatto siamese con i denti sporgenti e gli occhi a mandorla che suona il pianoforte con le bacchette. Il web come al solito si è diviso, tra i sostenitori e i detrattori. Sembra però che l’intenzione di fondo sia solo quella di costruire un mondo più inclusivo. Quello dei film Disney è solo l’ultimo dei tanti esempi. Quello esemplare è stato quello di Via Col Vento, dapprima cancellato dalla piattaforma americana della HBOMax, poi riproposto anche lui con un disclaimer.

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia il 25 gennaio 2021. Caro Dago, e così l’impavido Politicamente Corretto fa finalmente giustizia di tre pellicole reazionarie, tre film in bilico sulla propaganda nazista, tre attentati all’umanità in celluloide. Ovvero “Dumbo”, “Peter Pan” e “Gli Aristogatti”. A rendersi conto dell’indifendibilità delle tre opere è stata la stessa casa madre (l’autocensura è la forma che acquisisce la censura a dittatura instaurata e vincente), la Disney. La quale ha rimosso dalla propria piattaforma streaming Disney+ i tre titoli incriminati, nella sezione dedicata ai bambini fino ai 7 anni. Saranno invece ancora disponibili per il pubblico di età superiore, ma con una “scritta di avvertenza” che pare uscire da una sorta di versione arcobaleno e boldriniana di “1984”: “Questo programma include rappresentazioni negative e/o denigra popolazioni o culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono ancora. Piuttosto che rimuovere questo contenuto vogliamo riconoscerne l'impatto dannoso, imparare da esso e stimolare il dibattito per creare insieme un futuro più inclusivo”. Vogliono “stimolare il dibattito”, per questo mettono all’indice l’eterno bambino e l’elefante volante. Lo so, pare una burla di qualche redattore ubriaco di un sito complottista, invece sono tremendamente seri, il mainstream ormai è ben più farsesco di chi lo contesta. Nella fattispecie, il Tribunale correttista interno alla Disney (scusali, Walt) ha ritenuto Peter Pan una potenziale camicia nera perché lui e la sua squadraccia dei Bimbi Sperduti si rivolgono agli indiani (pardon, ai “nativi americani”, anche noi siamo intossicati dalla xenofobia dell’Isola che non c’è) chiamandoli addirittura “pellirosse”. A dir la verità Wendy, l’amica del cuore di Peter, a un certo punto li apostrofa persino come “selvaggi”, collocandosi per i canoni contemporanei a destra di Leni Riefenstahl, la regista apologeta del Reich. E poi ci sono tutte quelle insopportabili falsificazioni razziste e denigratorie, con i “nativi” che si intrattengono a fumare il tradizionale calumet o in riti propiziatori, tese addirittura a suggerire che non rappresentassero una civiltà dei Lumi ante litteram. Per quanto riguarda Romeo e il suo branco di felini sinofobi, il capo d’accusa verte invece sul personaggio del gatto siamese Shun Gon, raffigurato con gli occhi spioventi, i denti prominenti e perfino intento a suonare con delle bacchette da riso, tutti elementi chiaramente finalizzati a “fare una caricatura delle popolazioni asiatiche”, come rendiconta puntualmente Repubblica, sempre in prima linea di fronte all’emergenza razzismo. Per tacer del protagonista, che con quel suo tormentone “Romeo, er mejo der Colosseo” potrebbe configurare un subdolo stereotipo discriminatorio della minoranza italoamericana (suggeriamo che sul tema si attivi immediatamente la Farnesina a guida Giggino, visto che tanto sui dossier seri non tocca palla). C’è poi quello sporco schiavista antesignano del Ku Klux Klan di Dumbo, finito nel mirino della psicopolizia interna per una canzone che irride gli afroamericani al lavoro nelle piantagioni, con la strofa “E quando poi veniamo pagati/ buttiamo via tutti i nostri soldi”. Senza contare che il classico suscitò già polemiche progressiste per i numeri dei Corvi, accusati di fomentare luoghi comuni sulla cultura afroamericana perché addirittura si permettevano di utilizzare motivi jazz. Insomma, “Dumbo” è evidentemente un manifesto suprematista, e la Disney corre giustamente ai ripari, seppur fuori tempo massimo. Sono le cronache al tempo del Politicamente Corretto, e sarebbero comiche, se non fossero tragiche.

Quando la Disney "ispirava" le bombe più letali. Non tutti sanno che durante la Seconda guerra mondiale la casa di produzione impegnò i suoi disegnatori nello sforzo bellico. Davide Bartoccini, Giovedì 18/02/2021 su Il Giornale. Altro che bollini rossi sui grandi classici dell’animazione firmati Walt Disney come Dumbo (1941) e Peter Pan (1953); nel 1943 la casa di produzione di cartoni animati più famosa di sempre ispirò lo sviluppo di una delle bombe più potenti da impiegare durante il secondo conflitto mondiale. Fu la reale marina britannica a prendere “spunto”, gli americani a sganciarli sugli obiettivi strategici di una Germania prossima alla sconfitta. E questa, è la storia. Non tutti sanno che durante la guerra la già rodata casa di produzione statunitense fondata nel 1923 da Walt e Roy Disney, e diventata famosa attraverso i Topolino (1928) e Paperino (1934), o per capolavori come Bianca neve e i sette nani (1937) e Pinocchio (1940), impegnò i suoi disegnatori nello sforzo bellico allo scopo di produrre film animati di propaganda come Der Fuehrer’s Face. Tra questi il più noto è forse "Victory Through Air Power": un film-documentario basato sul saggio dello stratega russo Alexander de Seversky, che raccontava l’importanza della “supremazia aerea” nei conflitti moderni e lo sviluppo graduale della tecnologia aeronautica in campo bellico. Ma come spesso accade, la fantasia investita per sensazionalizzare gli eventi finì per ispirare la realtà. Nel film animato, infatti, una delle bombe sganciate dagli aeroplani disegnati su carta sembrava capace di penetrare uno degli indistruttibili bunker in cemento armato dove erano custoditi i famigerati U-boot. I sommergibili che erano protetti dalle grandi istallazioni costruite nei porti di St.Naire, Brest e La Rochelle. Un’arma del genere nel 1943, data di uscita del film, non esisteva. Le basi dei sommergibili nazisti, sebbene individuate dai ricognitori, risultavano impenetrabili alle bombe aeronautica convenzionali. Ma quando il capitano E. Terrell, ingegnere della Royal Navy, vide quel cartone animato, un colpo di genio attraversò le sua mente e lo indusse a sviluppare una bomba ad altissima penetrazione che sarebbe poi stata soprannominata "Disney Bomb", o Disney Swish. La bomba Disney era stata progettata per acquisire una grande velocità dopo lo sganciamento – sia per merito della sua particolare forma aerodinamica, sia perché era spinta dalla propulsione di un razzo – e per essere in grado di penetrare le pareti di cemento armato, che potevano misurare fino a 15 metri di spessore. La sezione anteriore era particolarmente acuminata, simile alla punta di un dardo. Ma tutto si basava sullo sfruttare l’approssimazione di Newton per profondità d’impatto, insieme l’equazione di Young, che nella loro combinazione supponevano che un proiettile “lungo e sottile” sarebbe stato capace di ottenere un potere di penetrazione maggiore. Queste bombe, a differenza delle altre, misuravano 5 metri di lunghezza, pesavano 2.000 chili (230 di carica esplosiva), ed erano appunto dotate di un razzo che faceva propulsore e si azionava automaticamente al momento dello sganciamento. Le bombe in questione venivano trasportate su piloni sub-alari, poiché nessun vano bombe dell’epoca era abbastanza capace da stiparle. Sebbene siano stati gli ingegneri della Royal Navy ad ideare l’arma, i bombardieri britannici dovettero cedere il passo per ragioni strutturali alla Forza Aerea Statunitense, che impiegò le “Disney bomb” sui B-17, le famose “fortezze volanti”. Completate e testate solo nell’ultimo anno del conflitto, le bombe Disney vennero impiegati in tre strike confermati, condotti tra il febbraio e l’aprile del 1945. I bombardieri americani attaccarono per primo lo Schnellbootbunker allestito presso la base navale di Jmuiden in Olanda; dove erano le scorte di siluri, le Schnellboote (motosiluranti) e si supponeva i sommergibili tascabili Biber. Il secondo obiettivo fu la base per sottomarini di Valentin, nei pressi di Brema. L’ultimo, una rete fortificata ad Amburgo. Nonostante la lungimiranza del progetto, furono poche le bombe Disney andate a segno secondo i rapporti ufficiali. Avevano funzionato meglio nei cinema per gli scopi propagandistici. Questo genere di arma, precorritrice insieme ad altre, come la bomba “Tallboy” o la “Gran Slam”, fu tuttavia la base per sviluppare armamenti ben più letali e affidabili, che consistono nello stesso identico concetto, e che a causa della loro dimensione, vengono ancora “trasportate” da velivoli speciali e di notevole stazza. È noto infatti che nel 2017 l’Aeronautica americana ha impiegato – per la prima volta in combattimento – la bomba più potente del suo arsenale non nucleare: la Moab, anche detta “la madre di tutte le bombe”. Sganciata per distruggere una rete di tunnel e bunker sotterranei usati dai jihadisti nella provincia di Nangahar, al confine con il Pakistan. La bomba venne trasportata su un bersaglio probabilmente da un Mc-130, velivolo quadrimotore ad elica per “operazioni speciali”: proprio come i bombardieri della seconda guerra mondiale; appositamente modificati per portare le bombe disegnate delle innocenti e allora meno forse progressiste matite della Walt Disney Productions.

Renato Franco per il "Corriere della Sera" il 24 gennaio 2021. Un senegalese alto un metro e novanta. A leggere i libri di inizio Novecento di Maurice Leblanc si farebbe fatica a immaginarsi così Arsenio Lupin, ma nel 2021 - società multietnica, la Francia campione del mondo rappresentata dal talento di Mbappé - la scelta diventa tanto coerente quanto criticata da chi vede un'opportunistica volontà di compiacere il politicamente corretto piuttosto che un reale afflato di parità di diritti e uguaglianza universale. Del resto il processo è in atto. L' Academy di Hollywood ha stabilito nuovi requisiti per favorire «l' equa rappresentanza di origine, genere, orientamento sessuale e persone con disabilità»: dal 2024 i lungometraggi dovranno rispettare i nuovi standard per essere candidabili all' Oscar come miglior film. E così i colossi internazionali dell' intrattenimento si sono già adeguati per evitare di essere tacciati di non essere al passo con i tempi e i cast di film e serie sempre più spesso si allargano in rappresentanza di tutte le etnie. Peccato che certi principi - lodevoli sulla carta - nell' applicazione portano a paradossali cortocircuiti. Così dal whitewashing si è passati all' altrettanto assurdo blackwashing: ovvero mettere sullo schermo personaggi neri che storicamente dovrebbero essere bianchi. Così è successo di vedere un Achille di colore (David Gyasi) nella miniserie Troy - La caduta di Troia e una valchiria nera (Tessa Thompson) in Thor: Ragnarok . La summa del «famolo strano» l' ha raggiunta però Bridgerton , ambientata all' inizio del 1800 in Inghilterra, dove la regina britannica è afroamericana e la corte pullula di duchi e conti di colore. L' effetto è straniante, la verità storica (una società classista bianca) viene stravolta in una realtà fantascientifica (una società classista multirazziale). E la sensazione è quella di entrare in uno dei bar spaziali di Guerre Stellari piuttosto che alla corte della regina Carlotta di Meclemburgo-Strelitz. La nuova serie di Netflix invece gioca sull' equivoco. Omar Sy non è Lupin, ma si ispira a lui e si muove nella società integrata e multiculturale di oggi. In un gioco di specchi e suggestioni, Lupin racconta la storia di Assane Diop (Omar Sy) la cui vita viene sconvolta quando suo padre si suicida dopo essere stato accusato del furto della collana di Maria Antonietta. Venticinque anni dopo Assane userà il libro Arsène Lupin, ladro gentiluomo come ispirazione per vendicare suo padre. Insomma si identifica talmente in Lupin da diventarne lui stesso l' incarnazione. «La nostra intenzione era anche evidenziare il lato sociopolitico della storia che era già presente nel lavoro di Maurice Leblanc - spiega Omar Sy -. Abbiamo creato un personaggio radicato nella società odierna e nella modernità, che in più aveva caratteristiche uniche». Prodotta in Francia, la serie ha puntato su uno dei suoi attori più internazionali, in grado di raggiungere una popolarità globale grazie al fenomenale successo di Quasi amici , commedia politicamente scorretta sulla disabilità (era solo 10 anni fa ma si poteva osare quanto oggi è diventato inosabile) che raccontava l'amicizia tra un ricchissimo uomo d' affari tetraplegico e il suo badante che in realtà voleva solo ottenere il sussidio di disoccupazione. E Lupin è sulle stesse tracce: sceneggiatura non particolarmente sofisticata, ma ottima serie «spegni cervello», Netflix ha dichiarato che raggiungerà 70 milioni di famiglie entro il primo mese, superando così sia Bridgerton sia La regina degli scacchi (anche se vale la pena sottolineare che la società di Reed Hastings e Ted Sarandos non è particolarmente trasparente sui numeri e considera una «visualizzazione» qualsiasi account che guardi un programma per più di due minuti). Un ruolo che per un francese è il massimo: «Se fossi britannico avrei detto James Bond, ma da francese scelgo Lupin». Ladro gentiluomo con la capacità di rubare una collana supersorvegliata al Louvre o di entrare e uscire dal carcere a suo piacimento grazie a una capacità trasformista unica, contrariamente al Lupin tradizionale il personaggio mantiene sempre il suo aspetto naturale, senza trucco. Si maschera rimanendo se stesso. «Volevamo evitare di esagerare, soprattutto rispetto alle precedenti versioni del personaggio. Il nostro obiettivo era farlo "sparire" ogni volta facendogli vestire i panni di una certa classe sociale. Per esempio deve semplicemente fare lo spazzino per diventare invisibile agli occhi degli altri. Al giorno d' oggi l' abito fa davvero il monaco».

Ilaria Ravarino per "Il Messaggero" l'11 gennaio 2021. Il re è nudo, dice una famosa fiaba. Ma a fare scandalo, in tv, è il duca: scandalosamente attraente, straordinariamente svestito, e sorprendentemente nero, il 31enne Regé Jean Page madre bantu africana, padre caucasico londinese ha fatto la storia del piccolo schermo, interpretando il ruolo del Duca di Hastings nella serie Netflix Bridgerton. Una scelta di campo forte, quella di assegnare a un afro-britannico il ruolo di un aristocratico nella razzista Inghilterra dell'Ottocento, ma perfettamente in scia con le ultime tendenze delle produzioni internazionali. È di venerdì il debutto, sempre su Netflix, della serie Lupin, con la superstar francese Omar Sy, 42enne di origini mauritane e senegalesi, in un ruolo che attualizza, trasportandolo nelle periferie francesi di oggi, il celebre ladro gentiluomo. Una scelta di casting che cavalca il successo commerciale di Sy, ma che sarebbe stata inimmaginabile prima dell'ondata di nuova consapevolezza che ha travolto le coscienze, e le tasche, dei produttori (bianchi) americani. La stessa ondata che ha permesso nel 2020 al giovane afroamericano Jonathan Majors di pareggiare i conti con lo scrittore suprematista H.P.Lovecraft, ispirazione della serie horror Lovecraft Country, e che nel 2021 diventerà uno tsunami pronto ad abbattersi sugli ultimi stereotipi dello spettacolo occidentale. La cartina tornasole per eccellenza è il mondo da sempre più bianco del bianco dei supereroi. Scosso dal ciclone Black Panther (1 miliardo e 300 milioni di incasso totali), l'universo dei superpoteri conoscerà nel corso del 2021 lo storico ingresso della 33enne Javicia Leslie nella seconda stagione di Batwoman, prima attrice nera a intestarsi in tv un ruolo da super-protagonista, al posto della rossa australiana Ruby Rose. E a proposito di rosse, entro la fine dell'anno tornerà al fianco di un super-uomo anche la 24enne star di Euphoria Zendaya nel sequel di Spiderman. E ancora, nel 2022 la figlia d'arte Zoe Kravitz sarà la seconda Catwoman nera della storia, dopo Halle Berry, a fianco del Batman di Robert Pattinson. Senza intoppi continuerà anche la scalata ai superpoteri della 37enne afro-panamense Tessa Thompson: Valchiria nera in Thor Ragnarok nel 2017, e due anni dopo in Avengers Endgame, l'attrice ha raccolto in pieno nell'ultimo capitolo della saga l'eredità del dio nordico Thor, diventando la nuova regina della super-norrena, ora super-inclusiva, Asgard. Già protagonista nel film di boxe Creed e nel suo sequel, Thompson accompagnerà sul ring l'erede di Rocky, Michael B. Jordan anche nel terzo capitolo della saga, girata quest'anno, per la prima volta, dall'attore afroamericano. Sempre Jordan sarà in streaming a marzo su Amazon come protagonista del thriller Without Remorse di Stefano Sollima, in un ruolo quello dell'agente dell'intelligence John T. Clark descritto come caucasico nei romanzi di Tom Clancy. Se l'anno scorso ha sollevato sgradevoli polemiche la possibilità poi smentita che a interpretare il prossimo James Bond potesse essere l'attrice di origini giamaicane Lashana Lynch, nel borsino dello 007 del futuro salgono in queste settimane le quotazioni del duca Regé Jean Page: quanto a Lynch, sarà nel cast dell'ultimo Bond di Daniel Craig insieme alla collega Naomie Harris, di ritorno nel ruolo anche quello di rottura rispetto alla tradizione bianca della segretaria Moneypenny. E ancora, proprio mentre la Pixar porta sugli schermi per la prima volta un protagonista nero con il cartone Soul, la casa madre Disney rilancia nel 2021 con una Sirenetta in versione dal vero, rigorosamente nera, interpretata dalla pupilla di Beyoncè, Halle Bailey e affiancata da Noma Dumezweni, già scandalosa versione afro di Hermione nell'Harry Potter teatrale del 2014. Anche in Italia, lentamente, il fenomeno comincia a prendere forma, con i primi timidi tentativi di casting non bianchi della tv generalista (la fiction Rai Nero a metà, con l'afroitaliano Miguel Gobbo Diaz nei panni del poliziotto) e delle piattaforme (Summertime con Coco Rebecca Edogamhe e Zero, in uscita quest'anno su Netflix, scritta da Antonio Dikele Distefano), in attesa che anche l'intrattenimento faccia la sua parte: con un conduttore afro-italiano in prima serata e perché no, un giorno, anche a Sanremo.

Bridgerton muta per il politically correct? La regina Carlotta ha la pelle scura. Il 25 dicembre è uscita la serie Bridgerton, saga romantica ambientata nella Londra della prima metà dell'Ottocento, che sta avendo un grande successo. Mariangela Garofano, Lunedì 04/01/2021 su Il Giornale. Grande successo per la nuova serie Netflix Bridgerton. Saga romantica, ambientata nella Londra Regency della prima metà dell’Ottocento, Bridgerton vede tra i suoi protagonisti la regina Carlotta, consorte di re Giorgio III. E proprio Carlotta ha destato più di un interrogativo, perché nella serie la sovrana inglese viene interpretata da un’attrice di colore, Golda Rosheuvel. Sarà l'ennesimo tentativo politically correct, o per meglio dire “colour blind”, cioè di assegnare i ruoli senza tener conto del reale colore della pelle degli attori? Come si legge sul Washingotn Post, il responsabile del mantenimento dei ritratti dei sovrani britannici afferma che la regina era considerata all’epoca una donna non troppo avvenente, mentre il medico dell’allora famiglia reale, Christian Friedrich Stockmar, descrive Carlotta senza troppi giri di parole, “piccola e deforme, con una vera faccia da mulatta”. Ma ciò che ha fatto discutere negli anni e che ancora oggi è oggetto di ricerche, è lo studio condotto dallo storico Mario De Valdes y Cocom. Dai dipinti che la ritraggono, in particolare uno di Allan Ramsay, Valdes fa notare che i tratti della regina Carlotta appaiono realmente africani, in quanto discendente da un ramo africano della famiglia reale portoghese. La regina infatti discenderebbe da Margarita de Castro y Sousa, i cui antenati erano africani. Il sangue africano di Carlotta sarebbe quindi stato trasmesso ai suoi discendenti, tra cui la regina Vittoria e l’odierna Royal Family. Ma quella di Valdes è solo un’ipotesi, visto che nel dipinto che la raffigura, Carlotta ha tratti marcati, ma la pelle è bianca. Quello della sovrana non è l’unico personaggio di colore della fortunata serie di Shonda Rhimes. Nel cast infatti il duca di Hastings è interpretato dall’attore dello Zimbabwe, Regé-Jean Page, cosa alquanto improbabile per un aristocratico inglese dell’epoca. Non mancano quindi le rivisitazioni, nella serie tratta dai romanzi di Julia Quinn, che ha introdotto sul piccolo schermo una storia alternativa a quella del libro e alla realtà britannica ottocentesca e, in parte diverse forzature, come le musiche di Ariana Grande, Maroon 5 e Billie Eilish. Le canzoni moderne, rivisitate con arrangiamenti orchestrali, conferiscono alla serie un aspetto decisamente pop, affiancato a quello tradizionale suggerito dalla cura dei costumi, dai colori sgargianti, ma in linea con la moda del tempo. Bridgerton è l’adattamento de “Il Duca e io”, primo capitolo che la Quinn ha dedicato alla ricca famiglia Bridgerton e alle loro vicende familiari e amorose. La serie è composta da 8 puntate, uscite il 25 dicembre e dato il successo riscosso (seppur non apprezzata dai "puristi"), si sta già pensando alla seconda stagione.

Gli orrori del politicamente corretto americano. Mirko Giordani il 5 gennaio 2021 su Il Giornale. Il politicamente corretto ormai sta portando i cervelli dei liberal, già gravemente danneggiato, all’ammasso totale. Chi ad Hollywood pensa che Re Artù debba essere rappresentato nero, così come Anna Bolena, è da ricovero coatto. Ma un congressman democratico in America ha messo la freccia e in quanto a stupidità ha sorpassato tutti. Emmanuel Cleaver, democratico eletto alla Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Missouri, ha pensato bene di terminare un suo discorso con un AMEN, ma anche con un AWOMAN. Amen, in aramaico, vuol dire semplicemente “e così sia”, ed è un’esortazione alla fine di una preghiera, sia nel mondo ebraico che cristiano. Questo ignorante Congressman, invece, avrà sicuramente pensato alla parola “AMEN” come l’unione di “A” e “MEN”,  dove “MEN” starebbe per uomini. E allora il solerte e stupido Congressman, per rispettare la parità di genere (sic!), si è inventato questa roba dell’AWOMAN. Sinceramente ci sarebbe solo da ridere se questa scempiaggine fosse venuta fuori dalla bocca di un ubriaco alla taverna di paese. In realtà a pronunciarle è un deputato americano, e ci presenta plasticamente lo stato di putrefazione ideologica di una fetta consistente degli Stati Uniti, che ormai è irrecuperabile nei suoi deliri politicamente corretti.

Grease finisce nella bufera: "Misogino e sessista. Via dai palinsesti". Nel Regno Unito la messa in onda del celebre film del 1978 ha scatenato un'ondata di critiche. Per i giovani telespettatori il film inciterebbe al bullismo e alla violenza sulle donne. Novella Toloni, Lunedì 04/01/2021 su Il Giornale. L'ombra del politicamente corretto non risparmia neppure il celebre film "Grease". La messa in onda del musical, sul canale britannico Bbc1, ha scatenato un'ondata di critiche sui social network. La pellicola del 1978 interpretata da John Travolta e Olivia Newton-John, infatti, è stata etichettata sul web come "sessista", "misogina" e "omofoba" e qualcuno ha chiesto addirittura la sua cancellazione dai palinsesti televisivi. La polemica si è scatenata su Twitter subito dopo la proiezione del film cult di Randal Kleise sulla Bbc1 nel giorno di Santo Stefano e il Daily Mail ha raccolto i feroci assalti degli internauti: "Con Grease si tocca il picco di omofobia", "Grease è misogino, sessista e un po' stupido", "Grease fa schifo a così tanti livelli e il messaggio è pura misoginia". Il pubblico, soprattutto quello più giovane ed erede dei recenti movimenti Me Too e Black Lives Matter, ha giudicato la pellicola "sessista", "eccessivamente bianca" e "misogina" per alcune delle sue scene più famose. Insomma i revisionisti della critica cinematografica colpiscono ancora e questa volta nel mirino sono finiti passaggi cult della pellicola. Dalla trasformazione finale del personaggio di Sandy alla scena in cui Putzie si sdraia sul pavimento per guardare sotto le gonne di due studentesse, fino alla frase pronunciata dallo speaker radiofonico Vince Fontaine in cui chiede ai ballerini di evitare di formare coppie dello stesso sesso. Tutte scene giudicate censurabili in nome del politicamente corretto e c'è chi ha gridato addirittura all'incitamento allo stupro per la scena in cui Danny canta "Summer Nights", in cui il protagonista descrive come ha sedotto Sandy e il coro chiede: "Dimmi di più, dimmi di più, lei ha lottato?". Un passaggio che alcuni utenti del web hanno etichettato come possibile incitamento allo stupro o comunque una normalizzazione della violenza sessuale. Secondo quanto riferito dal Daily in molti hanno chiesto addirittura la cancellazione del film dai palinsesti di tutto il mondo: "Grease è troppo sessista ed eccessivamente bianco e dovrebbe essere bandito dallo schermo. Dopotutto, è quasi il 2021".

Da "Ansa" l'8 febbraio 2021. Misogino, razzista e omofobo. E' come parte del pubblico inglese ha giudicato “Grease” dopo che la Bbc ha deciso di ritrasmettere il film cult del 1978. Alle accuse replica a distanza Olivia Newton John, all'epoca co-protagonista con John Travolta (Danny Zuko) nel ruolo di Sandy Olsson. "Datevi una calmata - ha commentato durante un podcast -. Il film è stato realizzato negli anni '70 e parla degli anni '50. E' un film musical divertente e non va preso sul serio. Tutti prendono le cose sul serio. Abbiamo bisogno di rilassarci un po' e goderci le cose per quello che sono". Olivia Newton-John, che da anni combatte contro il cancro, ha aggiunto che a differenza di chi critica Grease lei considera il film come puro intrattenimento, niente di più.

Raffaella Silipo per "la Stampa" il 5 gennaio 2021. Non che nel lontano 1978, quando uscì al cinema, non ce ne fossimo accorti anche noi. Nessuno dei milioni di quaranta-cinquantenni che lo conoscono più o meno a memoria ha mai considerato Grease - oggi attaccato violentemente sui social dai teen ager britannici in quanto «sessista» - un film raffinato o portatore di valori illuminati. Piccolo recap per i pochi a cui fosse sfuggito: l'azione si svolge in una high school americana Anni 50: lui (Danny alias John Travolta) ama lei (Sandy - Olivia Newton John) ma si vergogna della sua ingenuità di fronte agli amici bulli, lei ama lui e decide di trasformarsi in una bomba sexy grazie all' aiuto delle amiche più smaliziate. Lieto fine e bon. Altro che attenzione alla diversità, politically correct o femminismo. Già all'epoca era considerato un simbolo della reazione Anni 80, dopo gli afflati libertari dei 60 e 70. Ciò nonostante, vuoi per le musiche trascinanti, vuoi per il carisma degli attori (anche se un po' anziani per fare i teenager), vuoi soprattutto per la capacità di intercettare l'aria del tempo, la voglia di leggerezza dopo l'età dell' impegno, ha incassato 400 milioni di dollari nel mondo incantando grandi e piccini, senza contare la miriade di adattamenti teatrali, compresi quelli nei villaggi vacanze e nelle recite scolastiche, che hanno esteso la sua fama ben oltre l'anno di uscita al cinema. E alzi la mano chi non ha mai canticchiato Summer Nights. Ci voleva la generazione Z per dichiarare guerra a Grease. Dopo averlo visto sulla Bbc il giorno di Santo Stefano - i dirigenti della rete britannica erano probabilmente convinti di aver fatto una scelta innocua - i teenager, con l'intransigenza tipica dell'età, hanno sommerso Twitter di critiche, etichettandolo come «sessista» e «misogino» - una scena per tutte, quella (indifendibile) in cui Putzie, uno degli amici di Danny, si sdraia sul pavimento per guardare sotto le gonne di due studentesse - e «omofobo» quando l'annunciatore radiofonico Vince Fontaine vieta ai ballerini di formare coppie dello stesso sesso. Per qualcuno è persino «rapey», ossia incita allo stupro, quando nella sopracitata Summer Nights, Danny descrive la scena di seduzione con Sandy e il coro chiede più o meno «Dimmi di più, dimmi di più, lei ha lottato?» («Tell me more, tell me more, did she put up a fight?»). Quella che soprattutto oggi è impossibile da digerire è la trasformazione di Sandy per compiacere Danny. «È solo un film - cerca da sempre di conciliare la «boomer» Olivia Newton John - in fondo anche lui è disposto a cambiare per amore». Ma date retta ai ragazzini, ben più smagati delle Pink Ladies: non è mai «solo» un film. E quelli che oggi sta bocciando la Generazione Z, siamo noi.

Le critiche a Grease sono eccessive  ma quel film è  un po’ reazionario. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il il 6/1/2021.

Caro Aldo, anche «Grease» è finito nell’occhio del ciclone dopo che è stato ritrasmesso dalla Bbc. Col paraocchi del terzo millennio, i giovani d’oggi armati di social media non si sono risparmiati le critiche a questo famoso film, parlando di razzismo (per la mancanza di personaggi di colore), misoginia, omofobia (perché si fanno vedere solo coppie eterosessuali), violenza verbale configurabile come incitamento allo stupro e chi più ne ha più ne metta. E pensare che il film superò il controllo della censura col massimo dei voti. Forse era tutto sbagliato. Ma mi chiedo se fra vent’anni qualcuno analizzerà le homepage dei siti e vedrà che pullulano di foto di ragazze che indossano vestiti succinti, spesso risultato di un selfie reso volontariamente pubblico, come ci considereranno, noi donne del terzo millennio? Lucia Marinovich

Cara Lucia, Ho letto la sua mail dopo aver visto l’interessante intervista di Viviana Mazza a Enrique Tarrio, il leader del gruppo dell’estrema destra americana dei Proud Boys, ragazzi fieri. Per essere ammessi nel movimento, bisogna recitare una formula che inizia così: «Sono un orgoglioso sciovinista occidentale; rifiuto di chiedere scusa per aver creato il mondo moderno». Si tratta di gruppi reazionari in senso tecnico: nascono come reazione agli eccessi del politicamente corretto, vale a dire la cultura della cancellazione della storia. Nei grandi atenei del mondo, la storia è ormai affrontata con un’astrazione cerebrale, che prescinde dalla cultura e dalla mentalità del tempo, e pretende di giudicare i fatti e i personaggi del passato con i valori e i criteri di oggi. Questo non giustifica ma aiuta a capire la nascita di un movimento speculare, che non va sopravvalutato ma neppure giudicato ininfluente: la storica elezione di Trump nel 2016 ha molte spiegazioni, tra cui questa. Nello specifico, però, va detto che Grease era sembrato un film un po’ reazionario pure a noi, che lo vedemmo ragazzi oltre quarant’anni fa. Grease è del 1978, ma fin dal titolo — «Brillantina» — rappresenta un inno agli anni 50, in cui era ambientata anche una serie di grande successo come Happy Days: l’America tranquillizzante di Einsenhower, con i neri nei ghetti e gli italoamericani in cucina a preparare la pasta. Una visione che non restituiva certo le complessità dell’America di fine anni 70, ma interpretava bene il desiderio di voltare pagina dopo i decenni della politica e degli scontri di piazza. All’impegno seguiva il riflusso.

Detto questo, la libertà artistica dovrebbe sempre essere sacra: vale per Grease come per Via col vento.

Da huffingtonpost.it il 6 gennaio 2021. “Questo "politicamente corretto" sta diventando insopportabile. Ecco, l’ho detto”. Fiorella Mannoia si accoda al pensiero di Giorgio Gori. Il sindaco di Bergamo ha postato sul suo profilo Twitter un articolo che ripercorreva la polemica nata in Inghilterra dopo la messa in onda del film cult Grease: alcuni giovani utenti si sono riversati sui social per accusare di “sessismo, misoginia e omofobia” il musical interpretato da John Travolta e Olivia Newton-John. “Questa cosa sta diventando insopportabile” ha scritto Gori sul social, dando vita a un dibattito al quale ha preso parte anche la cantante Mannoia, da sempre in prima linea nella difesa delle donne, la cui voce è stata più volte scelta dalla sinistra per accompagnare le campagne elettorali. Sono in tanti a dar loro ragione, trovando inadeguata la condanna a posteriori di contenuti usciti nel 1978. A una parte degli spettatori inglesi non sono piaciuti in particolare alcuni passaggi: la trasformazione finale del personaggio di Sandy, la scena in cui Putzie si sdraia sul pavimento per guardare sotto le gonne di due studentesse, la richiesta a tutti i ballerini di evitare di formare coppie dello stesso sesso. Dito puntato anche contro una frase della celebre canzone “Summer Nights”, quando il coro dice “Tell me more, tell me more, did she put up a fight?” (“Dimmi di più, dimmi di più, lei ha lottato?”). Un passaggio interpretato dai detrattori come possibile incitamento allo stupro o comunque una normalizzazione della violenza sessuale. Per questo motivo, scrive il Daily Mail, diversi spettatori hanno chiesto che il musical sulla storia d’amore tra Sandy e Danny non venga mai più mostrato in tv. Troppo? Sì, secondo i tanti utenti che in Italia hanno commentato la notizia, tra cui Mannoia. “Mi sembra stiamo tornando ai tempi della caccia alle streghe e dei libri bruciati” si legge in uno dei tanti commenti apparsi sotto il suo post “Arriverà un momento nel futuro che qualcuno dirà che la nostra visione del mondo era sbagliata. Non per questo si dovrà distruggere la storia”.

 “GRACIAS NEGRITO!” Giovanni Sallusti per Dagospia il 2 gennaio 2021. Caro Dago, Se l’essenza di ogni regime sta nella stupidità e nell’ossessione monomaniacale del dettaglio, la Premier League si candida ad avanguardia globale della dittatura Politicamente Corretta. Dopo il caso delle dimissioni del presidente della Federcalcio inglese Greg Clarke (il quale aveva osato sostenere l’ovvietà cromatica che esistono giocatori “di colore”) e quello della rieducazione Lgbt inflitta al centravanti del Leicester Jamie Vardy (reo di aver travolto con eccesso d’esultanza la bandierina arcobaleno del corner), ecco qua scodellato l’affaire Cavani. L’ex goleador di Napoli e Psg, ora in forza al Manchester United, a fine novembre aveva trascinato i Red Devils alla vittoria in rimonta contro il Southampton, sfornando due gol e un assist. Quindi, nel post-partita aveva praticato quella che è ormai un’ovvietà del calcio contemporaneo: il festeggiamento della prestazione attraverso una storia sui propri social network. In particolare, succede che su Instagram un follower suo connazionale, pare addirittura un amico, si lasci andare a una dichiarazione d’amor sportivo: “Asi te queiro Matador!” (Ti amo Matador!). E che l’attaccante uruguaiano risponda “Gracias Negrito!”, in quella che appare come una conversazione ludico-iperbolica anche a un alunno delle elementari. Ma non alla Football Association, che apre un procedimento disciplinare di due mesi, e al termine del percorso sovietico-pallonaro (ricordiamoci sempre di Marx: i fenomeni della storia tendono a presentarsi due volte, la seconda come farsa) emette la seguente, equilibratissima, correttissima sentenza: multa per 110mila sterline, tre giornate di squalifica e obbligo di seguire un corso di rieducazione online sul razzismo (pare che il Matador abbia evitato d’un soffio la pena accessoria, cento frustate in pubblico mentre si recita ad alta voce un discorso di Malcom X). Amenità a parte: un giocatore di punta del Manchester United, che si sta giocando la Premier testa a testa col Liverpool (al momento sono entrambi a 33 punti) viene fermato non per una, non per due, bensì per tre giornate (provvedimento in genere dovuto a gomitate in faccia, brutalità flagranti, risse o insulti conclamati e pesantissimi) per aver scritto sulla PROPRIA pagina Instagram (ma, come accade sempre nei totalitarismi, diritto di proprietà e libertà d’espressione scompaiono di fronte alle ingerenze dell’ideologia fattasi sistema repressivo) la parola “negrito”. Che peraltro, interviene oggi a precisare l’Accademia della lingua spagnola dell’Uruguay, equivalente della nostra Crusca, non rimanda affatto a significati o sottotesti razzisti. Citiamo dalla nota emessa (dopo la quale, fossimo nei burocrati dell FA, scaveremmo una buca profonda quanto il Mare del Nord e vi ci rintaneremmo per l’eternità): “Qui la parola negro e il suo diminutivo negrito, così come gordo (grasso) e il suo diminutivo gordito, o come flaco (magro) sono comunemente usati come scherzosi o in segno d'affetto tra amici. Nello spagnolo che si parla in Uruguay, ad esempio, ci si chiama così tra padre e figlio, o tra amici, ed è normale sentire parole come gordito, negri, negrito...E non sono necessariamente riferite a una persona che è grassa o con la pelle scura”. Insomma, se un uruguaiano di pelle bianca (è ancora esempio concesso?) dà del “negrito” al padre è difficile intenda sostenere che ha origini africane, o peggio insultarlo. L’Accademia definisce quindi “molto discutibile” in quanto frutto di “pochezza culturale” la decisione della federazione inglese, che ha dimostrato “profonda ignoranza nell'uso delle lingue, e in particolare dello spagnolo, senza tenere conto del contesto e delle diverse sfumature linguistiche”. Eccola là, la terza caratteristica di ogni tirannia, insieme alla stupidità e all’ossessione monomaniacale: l’ignoranza. Che non è bianca, nera e neppure negrita, ma sempre crassa.

UNA ORRIBILE IDIOZIA. Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport” il 2 gennaio 2021. Ho stappato due bollicine ieri, una per festeggiare la fine dell’anno orribile, due per celebrare una delle più eclatanti idiozie mai coniate dal genere umano in forma di sentenza, e includo le derive più becere di qualunque santa o pagana inquisizione. Tre giornate di squalifica e 100 mila sterline di multa a Cavani per aver salutato un suo amico in un social con “gracias negrito” è più di un’aberrazione, è il capolavoro partorito da una materia che è grigia solo per debito di ossigeno. Una sfida temeraria, direi eroica, al senso del ridicolo. Edinson, il reo, si è limitato a replicare: “Accetto la decisione, ma non condivido il principio”. Un galantuomo. Ma queste non sono provocazione alle quale rispondere con uno sfoggio di eleganza. Niente fioretto, se di là c’è una mazza ferrata. Due le risposte esatte: prendere per un orecchio l’omarino autore del “capolavoro”, trascinarlo con mano ferma davanti a uno specchio e ripetere almeno tre volte con voce ancora più ferma: dimmi che è tutto uno stupido scherzo, uno scherzo venuto male. Alternativa, un tantino estrema lo ammetto, ma adeguata alla circostanza: darsi fuoco davanti al palazzo in cui è stata materialmente sragionata e dunque vergata l’enormità. Per testimoniare non tanto l’ingiustizia, ma l’insostenibilità di appartenere al genere umano, se il genere umano è questo. Il “politicamente corretto”, su qualunque fronte applichi il suo zelo imbecille, finisce puntualmente nel caos ingovernabile. Grottesco per chi non ha a che farci, brutale per chi lo subisce. Una volta dettata l’astrazione di cosa sia cosa buona e giusta e cosa no, concetto già scivoloso di suo e comunque interpretabile di caso in caso, non trova più il limite. È il problema delle menti deboli. Arrivando alla pretesa d’imporre la mordacchia a quella materia incandescente che è la parola, fatta di codici e pulsioni tutte sue, non giudicabili se non nel contesto e, per come la penso io, nemmeno nel contesto. I deboli di mente diventano malvagi quando confessano la loro incapacità d’interpretare, di entrare con un piccolo conato di pensiero nel merito. La sentenza contro Cavani è di una malvagità esemplare. Esattamente come punire un poveraccio perché la telecamera lo sorprende a imprecare per aver appena commesso un gesto maldestro contro la propria squadra e classificando l’umano sbotto, paragonabile allo sfiato innocente di una valvola guasta, come una “bestemmia”, e cioè un atto consapevole di sacrilegio. Non ci vuole Einstein per spiegare la relatività del rapporto tra parola ed etica. Basta Zavattini. Quando, nel ’76 disse “cazzo” alla radio, fu scandalo. Quarant’anni dopo la Maionchi lo ripete, applaudita, in prima serata e quel “cazzo” diventa prodigiosamente parola di senso comune. Darsi del “negro”, del “frocio”, del “coglione” o del “cazzone”, ma anche del “demente” o del “troglodita” tra amici è il diritto inalienabile di un frasario affettuoso su cui nessuno, ma proprio nessuno, può mettere il becco. L’unico autorizzato è l’amico di Cavani. Se “negrito” lo ha infastidito, gli renda pan per focaccia. Gli estremi per un insulto affettuoso non mancano mai. Bianchi, neri o gialli che siamo. 

Giovanni Sallusti,  autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia il 5 gennaio 2021. Caro Dago, L’ “affaire Cavani” si candida ormai a stupidario definitivo del Politicamente Corretto, quest’ideologia idiota che sta monopolizzando l’era del crollo delle ideologie. Sintesi della prima puntata: il centravanti del Manchester United fa un partitone contro il Southampton, un suo connazionale su Instagram gli scrive “Asi te queiro Matador!” (Ti amo Matador!), lui risponde col ludico “Gracias, Negrito!” (che pure l’Accademia della lingua dell’Uruguay ha confermato non avere significato xenofobo, anche se è surreale solo che abbia dovuto farlo) e al termine di un procedimento neosovietico di due mesi la Federcalcio inglese emette la seguente, correttisima sentenza contro il flagrante razzista. Multa di 110mila sterline, non una, non due, ma tre giornate di squalifica (pari a chi spacca la faccia dell’avversario a suon di gomitate) e obbligo di seguire un corso di rieducazione online sul razzismo (sì, Mao abita qui). Dopodiché, arriva la notizia che l’Afu, il sindacato dei calciatori uruguaiano, si è levato in difesa di Cavani contro la Football Association, e ingenuamente senti un refolo di ossigeno al cervello. Finalmente qualcuno che risponde nell’unico modo filosoficamente possibile ai manganellatori politically correct: andatevene affanculo, voi e le vostre perversioni censorie, voi e il vostro squadrismo arcobaleno, voi e i vostri psicoreati che nemmeno Orwell ebbe l’ardire di prevedere. E invece. Invece, il comunicato del sindacato sudamericano della pelota pare uscire dalla più paludata redazione della più patinata rivista mainstream della rive gauche. “Lungi da rappresentare una difesa contro il razzismo, quello che ha commesso la FA è un atto discriminatorio nei confronti della cultura e dello stile di vita del popolo uruguaiano”. Semplicemente, si ribalta l’accusa buonista contro l’altro (è quel che avviene anche nei talk nostrani, dove imperversa la gara a darsi a vicenda del “fascista”). “La sanzione” comminata a Cavani “rivela una visione distorta, dogmatica ed etnocentrista che non ammette altre letture se non quella che si vuole imporre”. Eccolo lì, il capo d’imputazione infamante e politicamente correttissimo: “etnocentrista!”. Trattasi di quella particolare eresia che tende barbaramente a valutare il mondo dal punto di vista della propria civiltà d’appartenenza (nella polemica correttista “etnocentrismo” significa sempre “eurocentrismo”), come se l’Occidente, questo ferrovecchio della storia che ha prodotto la filosofia, il diritto, la democrazia politica, la libertà individuale, l’Illuminismo, la Rivoluzione Industriale, fosse ancora qualcosa di vivo, e di presentabile in società. Mentre, ormai dovrebbe essere noto, l’Occidente esiste solo come qualcosa di cui vergognarsi e per cui chiedere incessantemente scusa alla grande fiera multiculti delle civiltà, secondo le tabelle valoriali del Politicamente Corretto. E infatti, il sindacato uruguaiano chiude la propria nota formulando la più perbene delle accuse: la squalifica inflitta a Cavani denoterebbe “totale ignoranza riguardo la visione multiculturale del mondo: questo sì che è razzista”. Il ribaltamento è totale: non è che la Federazione inglese sia troppo stupidamente ideologica, piuttosto non lo è abbastanza. Non ha introiettato abbastanza il multiculturalismo livellatore e indifferenziato, non chiede ancora perdono per essere occidentale, europea, inglese, non pratica ancora abbastanza quella che il grande filosofo britannico Roger Scruton chiamava “oicofobia”, ovvero l’odio di sé. Mi pare, caro Dago, che se anche chi si ribella a un sopruso politicamente corretto brandisce la retorica politicamente corretta, non solo non spezzando il cappio del pensiero unico, ma stringendolo ancora di più, la speranza di un rinsavimento collettivo sia sempre più un lusso che non possiamo permetterci. Almeno, noi sporchi occidentali.

Marco Gasperetti per il ''Corriere della Sera'' il 30 dicembre 2020. È l’ultimo giorno di scuola e, come da tradizione, le maestre distribuiscono un dono ai bambini della scuola materna. In classe c’è emozione tra i piccoli alunni e anche Giovanni (nome di fantasia), 4 anni appena compiuti non vede l’ora di scartare il suo. Che cosa sarà? Chiede emozionato a un amichetto mentre le maestre hanno iniziato a distribuire i regali. Lo saprà poco dopo quando i pacchi saranno finiti e lui resterà a mani vuote. Un errore? Macché, una punizione, perché Giovanni è stato «cattivo», anzi «troppo agitato a causa del suo carattere», spiegano le insegnanti mentre il piccolo alunno ha i lucciconi agli occhi. «Se ti comporterai bene lo avrei a gennaio», aggiungono le insegnanti mentre gli altri bambini hanno già iniziato a giocare con i doni.

Provvedimenti disciplinari. Giovanni è l’unico a uscire da scuola senza avere in mano il pacchetto natalizio e si vergogna tanto, è mortificato. Torna a casa e in lacrime racconta tutto alla mamma. La signora quasi non ci crede, pensa a un fraintendimento, poi chiama la scuola e, secondo il racconto che poi farà sui social, riceve una conferma che ha il sapore della beffa. «Babbo Natale non è passato dovrà aspettare l’anno prossimo», le avrebbe detto un’insegnante, confermando che il figlio è troppo esuberante e indisciplinato. La notizia in poco tempo diventa virale sui social con una raffica di commenti contro le insegnanti e di consolazione per il piccolo protagonista della storia. Che viene pubblicata anche sul Tirreno. La preside della scuola della Versilia storica si scusa con i genitori e chiede alla mamma del bambino di poterla incontrare. Ma il provveditore di Lucca, Donatella Buonriposi, fa sapere di aver disposto l’apertura di un’indagine interna e non esclude un provvedimento disciplinare contro le maestre. Che dovranno spiegare che razza di pedagogia è quella che hanno adottato nei confronti di Giovanni e da quale manuale di scienze dell’educazione l’abbiano appresa. Intanto Giovanni ritrova un po’ di serenità con i giochi che, stavolta, Babbo Natale non si è dimenticato di lasciare sotto l’albero. Quello di casa.

"Bestemmia? No, perché mi hanno cacciato". Stefano Bettarini punta il dito: un "complotto" a Mediaset contro di lui? Libero Quotidiano il 31 dicembre 2020. Una lobby gay al Grande Fratello Vip. Ne è convinto Stefano Bettarini, che dopo aver minacciato di fare causa al reality di Canale 5 condotto da Alfonso Signorini per essere stato squalificato per una bestemmia si sfoga così: "Per inciso, credo che qualcuno ci debba, vi debba delle spiegazioni su ciò che sia 'politicamente corretto'. Ciò che stabilisce 'chi' e 'come' le famiglie ed i bambini saltino fuori soltanto quando ci sia da crocifiggere qualcuno! Scomparire subito dopo e appena si allude (ridendo e sorridendo) ad "uccelli" e "scopate"... o peggio frasi irripetibili sulle donne! Vogliono forzarci e crearci questa lobby". "Non si combatte così l'omofobia - prosegue l'ex calciatore nelle sue Instagram Stories -. Il troppo stroppia sempre. Ma per me (personalissimo parere) ottengono solo e soltanto l'effetto contrario, ovvero irritare anche chi omofobo non è affatto".